lunedì 28 aprile 2014

«La normalità in democrazia è che i cittadini scelgano con il voto i loro rappresentanti. È scritto anche nella Costituzione».
l’Unità 28.4.14
Scegliere chi ci deve rappresentare è un diritto

Per vincere le sfide che abbiamo davanti occorre rafforzare la sovranità
dei cittadini. Un errore contrapporre capacità di decidere e partecipazione
di Vannino Chiti


Claudio Sardo ha affrontato più volte il tema delle riforme costituzionali. Gli riconosco il merito di tenere fermi criteri anche per me fondamentali. Prima di tutto di non ridurre la Costituzione a questione delle maggioranze di governo. Abbiamo sempre contestato alla destra di voler affrontare l’aggiornamento della Costituzione dall’ottica degli interessi dei governi: è una scelta errata. Indebolisce il riferimento che la Costituzione rappresenta per gli italiani e confonde insufficienze della politica e modifiche necessarie alla Costituzione.
A rimetterci è sempre la Costituzione. Le differenze tra me e Sardo risiedono in questo: per me la scelta del Senato delle Autonomie non è legata solo al cambiamento dell’Italicum. Bisogna tenere uniti tre aspetti, per non creare scompensi costituzionali: il Titolo V cioè i poteri affidati alle Regioni; la legge elettorale per la Camera; il ruolo del Senato. Non basta migliorare l’Italicum unificando al 4-5% la molteplicità delle soglie, decidendo collegi uninominali o preferenze, spostando sopra il 40% l’asticella del premio di maggioranza, non utilizzando a questo fine i voti di partiti che non hanno consensi per entrare alla Camera. La domanda è: lasciamo un impianto maggioritario, ispirato a quello spagnolo, o ci orientiamo per una legge proporzionale? Un vero Senato delle Autonomie è il Bundesrat: vi sono le Regioni, non i Comuni; si esprime con voto unitario di ogni governo regionale. Non è un dettaglio: se il fondamento è quello di maggioranze politiche, queste ultime non possono definirsi in modo casuale. Le maggioranze politiche hanno legittimità se fondate sul voto dei cittadini. Il Bundesrat ha senso non solo per la legge elettorale proporzionale in vigore per il Bundestag né per il sistema di governo del cancelliere, né perché sono presenti i governi regionali con voto unitario: oltre a ciò in Germania c’è un federalismo solidale. Un esempio: i poteri dei Länder su giustizia o ordine pubblico. È questa la situazione italiana? Non mi pare.
Il Titolo V proposto dal governo ricentralizza competenze su territorio, ordinamento delle autonomie, sicurezza del lavoro. Neanche il Titolo V in vigore regge un federalismo solidale né vedo questo esito di fronte a noi. In Italia c’è uno Stato delle autonomie: le Regioni non hanno rilievo primario rispetto ai Comuni. Il Senato avrà perciò al tempo stesso una funzione di garanzia e di rappresentanza dei territori. Può svolgerla se sarà eletto dai cittadini, contestualmente alle elezioni per i consigli regionali. Su questo è scoppiato lo scandalo: guai a sostenere il diritto di voto dei cittadini. È conservazione! Si dimezza il numero dei parlamentari; si equipara l’indennità a quella del sindaco di Roma; si attribuisce alla sola Camera il rapporto fiduciario con il governo e l’ultima parola su gran parte delle leggi ma la proposta è bollata come ostacolo alle riforme. Stiamo al merito: Costituzione, leggi elettorali, ordinamenti dell’Ue, diritti civili e politici fondamentali dei cittadini devono essere affidati alla sola Camera, eletta con leggi maggioritarie, o in modo paritario anche al Senato? Per me non vi sono dubbi.
Un’ultima considerazione: siamo di fronte all’impegno per costruire gli Stati Uniti d’Europa e a sfide alla democrazia rappresentativa. Per vincerle occorre rafforzare la sovranità dei cittadini, non contrapporre partecipazione e capacità di decidere. La democrazia prevale sui populismi reazionari se sa arricchirsi anche della partecipazione diretta delle persone. Già oggi nei forum sulla Rete intervengono in città o Regioni migliaia di cittadini: i senatori di domani avranno legittimità se nominati da qualche centinaio di eletti? Cumulando incarichi di sindaco, presidente di Regione e parlamentare che la stessa Francia ha abolito? Non è la strada giusta. In ogni caso serve discutere, non porre diktat. La normalità in democrazia è che i cittadini scelgano con il voto i loro rappresentanti. È scritto anche nella Costituzione.

Libertà e Giustizia 24.4.14
Comunicato stampa
Costituzione: inaccettabili le pressioni del governo sul Parlamento

Per salvare il patto del Nazareno e uno dei paletti imposti da Berlusconi (i cittadini non possono eleggere il Senato) Matteo Renzi se la prende con il Senatore Vannino Chiti (che di Costiuzione qualcosa ne sa) e invece manda messaggini complici e preoccupati a Denis Verdini, esperto soprattutto di arti occulte, perché tenga “buoni i suoi”.
Il clima “costituente” di questi giorni è pessimo come è pessimo il governo che impone una riscrittura della Costituzione così ampia e devastante senza ascoltare le voci critiche.
Contano solo i 4 paletti concordati con Berlusconi, attuale animatore della Sacra famiglia di Cesano Boscone.

Repubblica 28.4.14
dall’articolo di Francesco Bei:
Ormai isolata la proposta Chiti sull’elettività diretta

L’accordo sul nuovo Senato «è ormai a un passo», conferma Matteo Renzi a In 1\2 ora . Certo, il premier continua a considerare come «punto di mediazione» quello di consiglieri regionali «che individuano al proprio interno quale di loro mandare al Senato». Ma in realtà la trattativa sarebbe più avanti, impostata sulla proposta condivisa da Ncd e resa pubblica dal senatore lettiano Francesco Russo: nuovi senatori eletti dai cittadini insieme ai consigli regionali ma in un listino a parte, dunque consiglieri regionali a tutti gli effetti, pagati dalla loro regione ma scomputati dal totale.
Su questa clausola anche la minoranza bersaniana, che domani si ribattezzerà ufficialmente “area riformista” (aperta anche a lettiani e fioroniani), è pronta a chiudere l’intesa. Abbandonando Vannino Chiti e il suo progetto di Senato elettivo al suo destino. «Ci sono tutte le condizioni — conferma il “riformista” Alfredo D’Attorre — per trovare un buon accordo di maggioranza che coinvolga anche Berlusconi». E la proposta Chiti? «Bisogna interloquire civilmente con il senatore Chiti, ma il suo ddl non è la proposta di Area riformista».

Corriere 28.4.14
Dall’intervista di Monica Guerzoni al vice di Renzi:

Libertà e Giustizia denuncia «pressioni inaccettabili» sulle voci critiche del Pd, a cominciare da Chiti, «per salvare il patto con Berlusconi». È così?
«Voglio essere molto chiaro. Per noi la discussione è un valore positivo e le epurazioni sono pratiche che lasciamo ad altri partiti. Sono altri che espellono i dissidenti, noi no. E non accettiamo lezioni di democrazia interna da nessuno. Rispettiamo le posizioni differenti, discutiamo, dopodiché facciamo una scelta».
Non vi appellerete alla disciplina di partito?
«Non siamo una caserma, ma una comunità di donne e uomini liberi che discutono. Nessuno viene espulso per opinioni diverse, ma arriva un momento in cui il dibattito interno produce una decisione del partito e a quella posizione ognuno si rapporta con responsabilità».
Tra i senatori si dice che domani, quando Renzi parlerà al gruppo, minaccerà di portare tutti al voto e non ricandidare chi si oppone...
«Sono leggende. Nessuno minaccia il voto, i problemi del Paese richiedono tempi lunghi e così le riforme. Certo non ci interessa far sopravvivere un governo o farci risucchiare dalla palude».

Corriere 28.4.14
Dall’articolo di Marco Galluzzo:

«Mi accusano di non essere di sinistra e di portare riforme autoritarie. Il problema è che c’è una parte di gruppi politici, anche a sinistra, che si occupa e vive di pregiudizi, io che non sono di sinistra ho messo un tetto agli stipendi dei manager, regola di Olivetti, ho messo in vendita le auto blu». Detto questo «non c’è niente di male a essere di destra, e nemmeno a essere di destra e votare sinistra alle Europee».

ciwati.it 28.4.14
Forse sono finiti gli ultimatum (forse)
Sulle riforme costituzionali sembra siano finiti i tempi degli ultimatum (tipo “o me o il Senato“)

qui
http://www.ciwati.it/

La Stampa 28.4.14
Senato: una proposta deludente
di Ugo De Siervo


Malgrado le troppe mosse tattiche ed uscite polemiche sulla sorte del Senato, in realtà il confronto in corso non sembra aver prodotto una sufficiente chiarificazione né su ciò che ci si ripromette davvero, né sulla adeguatezza delle innovazioni proposte a conseguire una soluzione funzionale e coerente. E ciò malgrado l’evidente grande importanza di un bicameralismo diseguale, che inciderà in profondo sul modo di funzionare della nostra democrazia e sui rapporti fra centro e periferie. 
Esistono molteplici soluzioni possibili, ma ciascuna va valutata nel contesto effettivo della nostra democrazia. 
Senza illudersi che problemi oggettivi possano d’incanto esser risolti con qualche nuova formulazione linguistica: penso, ad esempio, alla proposta, evidentemente suggestiva ma del tutto astratta, di un Senato di saggi o di esperti, che possano indirizzare e correggere l’operato della Camera politica o del Governo: basta riflettere sul fatto che questi illustri personaggi non potrebbero essere scelti che dal corpo elettorale e dai partiti o dal Governo, con tutto ciò che ne consegue; ma poi gli esperti hanno e devono avere spazio autonomo ed incomprimibile o nelle istituzioni di studio e di ricerca od in appositi organi tecnico-scientifici.
Il Governo sembra aver scelto nel suo disegno di legge la via, assolutamente opportuna, della seconda Camera come Senato delle autonomie locali, sul modello assai diffuso in altre democrazie caratterizzate dalla presenza di forti autonomie territoriali, di un ramo del Parlamento capace di rappresentare nelle istituzioni centrali i punti di vista e le esigenze delle istituzioni regionali e locali. Ma ciò va perseguito con coerenza e mediante soluzioni efficaci: qui però le proposte governative appaiono non poco deludenti, sia sul piano della composizione dell’organo, che sul piano dei suoi poteri.
Sul piano della sua composizione, anzitutto sembra davvero contraddittorio che il Presidente della Repubblica possa nominare ben 21 Senatori fra coloro che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»: se le funzioni fossero davvero quelle tipiche di un Senato delle autonomie, non si comprende il contributo che potrebbero dare questi illustri Senatori (che per di più dovrebbero lavorare gratuitamente: una volta per tutte, la riduzione dei costi della politica non può essere fatta ricadere solo sul Senato). E forse questi Senatori potrebbero avere qualche imbarazzo in occasione del successivo voto per l’elezione del Presidente della Repubblica.
Ma soprattutto occorre essere chiari per le componenti rappresentative di Regioni ed enti locali: non ha senso formare il Senato, che addirittura dovrebbe partecipare ai procedimenti di revisione costituzionale, rappresentando in modo paritario tutti i territori regionali malgrado le radicali diversità demografiche esistenti fra le diverse Regioni. Ma poi, che autonoma rappresentatività e disponibilità di tempo hanno i Presidenti delle Regioni ed i Sindaci dei capoluoghi regionali? 
Se si vuole evitare l’elezione diretta dei senatori, al fine di ridurre l’accentuata politicizzazione dell’organo, si può far eleggere dai Consigli regionali alcuni amministratori regionali ed alcuni amministratori locali, con tutte le ovvie garanzie per i gruppi minoritari. In tal modo si può avere un organo pienamente efficiente e capace di svolgere le proprie numerose funzioni.
Detto tutto ciò, appare sinceramente sconcertate l’estrema modestia dei poteri di questo Senato sul piano della legislazione ordinaria: ridurre tutto il suo potere all’espressione di un parere superabile dalla difforme volontà della Camera dei Deputati (eletta con ogni probabilità con metodo maggioritario) perfino nelle ipotesi più delicate o quando il Senato si esprima a larghissima maggioranza, rischierebbe di rappresentare uno svuotamento radicale di una corretta dialettica fra i due organi (in cui pure la Camera abbia l’ultima parola). 
Proprio nel momento in cui si affida agli organi centrali maggiori poteri di condizionamento delle autonomie territoriali, occorrerebbe che le principali decisioni del Parlamento fossero il frutto di confronti effettivi.
Resta da accennare a quanto ci si ripromette di fare in relazione alla composizione del nuovo Senato, poiché questa non è certo indifferente, anche se si esclude questa Camera dall’espressione del voto di fiducia: al di là dei poteri specifici di quest’organo, basta considerare che comunque questa seconda Camera condividerebbe alcuni fondamentali poteri del Parlamento, dal potere di revisione costituzionale al potere di contribuire alla nomina del Presidente della Repubblica.
Ma poi, se occorre ridurre il finanziamento ai politici, c’è lo spropositato numero dei deputati su cui operare con opportune riduzioni quantitative, mentre non ha significato, se non negativo, non retribuire (moderatamente) i rappresentanti popolari chiamati ad operare nel Senato delle autonomie, al fine di garantire infine un decoroso funzionamento del nostro sistema di amministrazione regionale e locale.

Repubblica 28.4.14
Camera, si cambia corsia superveloce alle leggi del governo
di Lavinia Rivara



ROMA. È uno dei tre assi delle riforme istituzionali, dopo la legge elettorale e il superamento del bicameralismo, ma se ne parla da anni e l’ultimo ritocco risale a 17 anni fa. Adesso però è in rampa di lancio alla Camera. Si tratta della riforma del regolamento parlamentare, una vera e propria rivoluzione del modo di fare le leggi: ritmi più serrati ma anche, e soprattutto, una anticipazione del premierato. L’innovazione più forte infatti riguarda il governo. Che sia il quoziente familiare o il jobs act, l’esecutivo potrà chiedere l’esame urgente delle sue riforme più importanti e portarle a casa in appena trenta giorni, sempre che abbia i voti per farlo. Il tutto senza ricorrere né alla ghigliottina né ai decreti.
Il testo base è pronto e se la Camera riuscirà ad approvarlo entro maggio-giugno, come vorrebbero la presidente Laura Boldrini e il Pd, anticiperà di un anno e mezzo la corsia preferenziale per i provvedimenti del governo prevista dalla riforma costituzionale del bicameralismo. Insomma se Renzi corre, Montecitorio prova a non rimanere troppo indietro. Il nuovo regolamento riduce drasticamente emendamenti ed interventi in aula per decine e decine di ore, abolisce i maxiemendamenti, blocca i cosiddetti assalti alla diligenza e taglia i tempi per il voto di fiducia, portandoli da un massimo di 100 ore in caso di ostruzionismo a otto. In cambio rafforza lo statuto delle opposizioni e le loro prerogative. Non basta: le proposte di legge di iniziativa popolare riusciranno finalmente ad arrivare in aula, mentre la pubblicità dei lavori varrà anche per le commissioni. La Giunta per il regolamento comincia l’esame degli emendamenti (circa 300) questa settimana. C’è da mettere in conto l’opposizione dei 5Stelle e l’irrigidimento di Forza Italia. Ma la strada è segnata e questi sono i paletti.
La “corsia smart” potrà essere chiesta dal governo o da un gruppo, con tanto di data per il voto finale. L’esame in commissione però dovrà durare almeno 25 giorni (oggi 30), almeno 10 dal sì all’urgenza. Sono esclusi dalla procedura decreti, progetti costituzionali o di eccezionale rilevanza, come la legge di stabilità. Non potranno essere inserite più di 5 urgenze in tre mesi o 3 in un bimestre. In questi casi però l’opposizione potrà ottenere un’urgenza nel trimestre successivo e nel contingentamento avrà diritto ai due terzi del tempo totale di discussione.
La fiducia potrà essere posta dal governo direttamente sul voto finale di un provvedimento (ma anche su un articolo o un emendamento) e votata immediatamente, come avviene già al Senato, dopo una discussione limitata ad un deputato per gruppo, per un totale di circa otto ore. Ma l’esecutivo non potrà più apporla su maxiemendamenti sostitutivi dell’intero testo, vietati senza appello. Niente fiducia anche su leggi costituzionali ed elettorali.
Novità anche per le proposte di iniziativa popolare. Dall’inizio di questa legislatura ne sono state presentate 25, ma solo su tre è cominciata la discussione. Ed è quasi un miracolo se arrivano in assemblea. Col nuovo regolamento invece le commissioni selezionano quelle da portare avanti e si impegnano a votarle e portarle in aula entro due mesi. È una delle novità - fanno sapere dalla presidenza - cui tiene di più la Boldrini, per rendere agibile uno strumento di democrazia diretta voluto dai costituenti.
Verrà poi falcidiato il numero degli emendamenti in aula. Il grosso del lavoro si sposta nelle commissioni (riunite in modo fisso martedì pomeriggio e mercoledì e giovedì mattina). Ogni gruppo potrà presentare un emendamento (o subemendamento) per articolo, più un emendamento ulteriore ogni 30 deputati (300 deputati 10 emendamenti, anziché i 30 attuali). Tuttavia, se non si tratta di leggi di bilancio, europee o che ammettono il voto segreto, una minoranza pari almeno a un quarto dell’assemblea può chiedere di tornare al regime attuale. Saranno inammissibili tutti gli emendamenti non attinenti alla materia trattata, come avviene oggi per i decreti.
Sarà abolita la discussione degli articoli (teoricamente fino a 70 ore in meno di ostruzionismo), dimezzata la discussione generale, ridotte le dichiarazioni di voto (fino a 80 ore in meno). La scure si abbatterà anche sugli ordini del giorno, lievitati a dismisura con fini quasi sempre ostruzionistici: nella decima legislatura (1987-92) ne vennero presentati 802, nella XVI (2008-13) arrivarono quasi a diecimila. Sono altre 80 ore risparmiate).
Altro obiettivo importante, scoraggiare i decreti e invertire la tendenza che vede le Camere impegnate solo su testi dell’esecutivo (nel 2013 sono state approvate 28 leggi di iniziativa governativa e 4 parlamentare, nel 2014 finora il rapporto è di 10 a 2). Per questo sui decreti non c’è il taglio degli emendamenti, ma quello dei tempi di intervento sì.
La trattativa sulla riforma è però complicata. Prima della scissione Fi era favorevole. Oggi l’azzurro Elio Vito vuole aspettare: «Non ha senso cambiare se non sappiamo ancora che tipo di bicameralismo avremo». Ma il pd Andrea De Giorgis la pensa diversamente. «Il primo voto sulla riforma del Senato potrà aiutarci a proseguire nella riforma del nostro regolamento». Chi proprio non ci sta sono i 5Stelle, che hanno avanzato una proposta provocatoria: inserire nel regolamento la sfiducia al presidente.

l’Unità 28.4.14
Confronto per ricompattare i democratici
di Ninni Andriolo


SETTIMANA IMPORTANTE PER IL NUOVO SENATO. SI CAPIRÀ NELLE PROSSIME ORE SE SARÀ DECISIVA PER SPIANARE LA STRADA ALLA RIFORMA. Oggi, infatti, Renzi incontrerà la presidente della commissione Affari costituzionali, Anna Finocchiaro, e il capogruppo Pd a Palazzo Madama, Luigi Zanda. Vertici in vista della presentazione del testo base e dell’assemblea dei senatori democratici prevista per domani. Il premier cambierà verso con i fatti dopo le disponibilità manifestate ieri? Intervistato da Lucia Annunziata il presidente del Consiglio non ha ripetuto quel «vado avanti lo stesso» pronunciato più volte a dispetto delle richieste di modifica al ddl del governo emerse nel Pd e in vasti settori della maggioranza. Gli stop and go di Berlusconi, tra l’altro, hanno reso precaria la sponda di Forza Italia. E al di là della volontà riaffermata dall’ex Cavaliere di non voler rompere il «patto» del Nazareno, nel governo si fa strada la convinzione che il leader azzurro non sia più in grado di garantire per l’intero partito e che i forzisti tendano ad andare in ordine sparso seguendo gruppi e fazioni che sfuggono al controllo dell’ex premier. Una realtà evidente a Palazzo Madama dove Renzi invece deve poter contare su numeri certi. «Credo sia del tutto legittimo che le riforme si facciano ascoltando Berlusconi e Grillo e non c’è dubbio anche la minoranza del Pd...» ha sottolineato il premier durante la trasmissione In Mezz’ora. Il messaggio in realtà è rivolto soprattutto alla «minoranza Pd». Prendendo atto degli arroccamenti grillini e della «Bosnia» forzista, Renzi non può non serrare le fila del Pd e della sua maggioranza per portare a casa il risultato. E si dispone così alla mediazione, prima di tutto con il suo partito. Un segnale il fatto che non abbia accusato di ricercare «visibilità» i senatori Pd che esprimono posizioni diverse sul futuro di Palazzo Madama. Il superamento del bipolarismo perfetto, d’altra parte, è «a portata di mano» e sono molti i punti d’intesa consolidati. Sui poteri da assegnare alla seconda Camera e sui criteri di nomina dei senatori soluzioni condivise potrebbero essere individuate in tempi rapidi, a patto che il clima non smentisca le previsioni. Dopo l’incontro con il Capo dello Stato - che lo ha esortato a puntare al risultato senza rigidità su paletti e tempi congintentati - difficile che Renzi possa ritirare la disponibilità messa in campo ieri. La verifica si avrà all’assemblea del gruppo Pd al Senato.
Il premier terrà il punto difendendo la sua proposta, senza chiudere però al dialogo. Tra le questioni controverse, l’ineleggibilità dei senatori prevista dal ddl Boschi. Renzi ha aperto anche su questo. Ha spiegato che i membri della seconda Camera potrebbero essere scelti dai Consigli regionali e tra i consiglieri, ma non ha eretto barricate contro l’elezione diretta proposta da molti ddl e, in particolare, da Vannino Chiti. Per superare il primo scoglio in realtà - un altro ancora in ombra riguarda la gratuità della carica di senatore - i pontieri sono già al lavoro. Il premier è contrario al voto diretto e i «facilitatori» ipotizzano soluzioni che tengano conto dei suoi paletti. Quella più accreditata propone che gli elettori votino contestualmente i consiglieri regionali e, tra questi, coloro che dovrebbero rappresentare la Regione a Palazzo Madama. A favore di questa opzione si è pronunciato anche Roberto Calderoli, relatore in commissione Affari costituzionali assieme ad Anna Finocchiaro. L’esponente leghista vorrebbe che questa scelta - che gode di un consenso trasversale - venga inserita nel testo base da depositare in settimana. Difficile l’ok di Finocchiaro, tuttavia, in mancanza di un accordo con il governo sul punto. Ipotizzabile, invece, che venga recepito il ddl del governo integrato dalle modifiche condivise emerse nel dibattito in commissione.
Per ciò che riguarda la nomina o l’elezione dei senatori, invece, il testo base potrebbe avanzare opzioni diverse aperte al gioco degli accordi e degli emendamenti successivi. C’è da registrare, tra l’altro, che nello stesso governo si studiano soluzioni che evitino la potenziale disparità tra senatori-consiglieri regionali eletti e senatori-sindaci nominati da un’assemblea di primi cittadini. La soluzione allo studio ricalcherebbe il meccanismo francese. I membri del Senato verrebbero votati su base regionale da una platea formata dai consiglieri regionali, sindaci e deputati nazionali della Regione. Una via mediana quindi. Verrebbe accettata da chi chiede la tutela del diritto di voto dei cittadini? Le soluzioni dipenderanno dal clima che si determinerà. Renzi rilancia il confronto per soluzioni condivise. Convinto che l’obiettivo prioritario sia quello di portare a casa una riforma che superi il bipolarismo riducendo costi e numero dei parlamentari, il premier abbatte adesso il paletto dei tempi contingentati senza «impiccarsi» al 25 maggio e alle europee.

l’Unità 28.4.14
Riforme, Renzi apre: «L’accordo si troverà»
«Non mi impicco alla data»
«80 euro a un metalmeccanico che guadagna 1100 euro al mese cambiano la vita»
di Vladimiro Frulletti


È sicuro che il pantano o le sabbie mobili non lo inghiottiranno, ma forse proprio per questo sembra pronto anche a rivedere alcuni dettagli della sua corsa pur di evitare di finire dentro pozzanghere troppo grandi e profonde. Così, nona caso proprio il giorno dopo il faccia a faccia col Capo dello Stato, Renzi spiega che sul progetto delle riforme l’intesa è davvero vicina e che quindi non sarebbe politicamente intelligente legarsi (fino a rischiare l’immobilità) a dei dettagli. Né temporali né di merito.
Quindi sebbene resti l’obiettivo di avere la prima votazione nell’aula del Senato del disegno di legge costituzionale prima del 25 maggio, giorno delle elezioni europee e amministrative, «una settimana in più» non cambierebbe molto visto che sono trenta anni che il Paese sta aspettando.
«Non mi impicco a una data - dice Renzi da Lucia Annunziata su Rai Tre - se serve una settimana in più che se la prendano ». Quel 25 maggio infatti non va letto per Renzi come dettato da esigenze elettorali (non sarà il nuovo Senato a portare voti al suo Pd, dice, ma la lotta alla disoccupazione), bensì come il segnale alla classe politica che il tempo a disposizione è davvero scaduto. Che l’urgenza non è un’esigenza di Renzi, ma delle «famiglie che stanno a casa e non ne possono più».
Ma l’importante ora è arrivare in fondo. Su province e auto blu il risultato già c’è, fa notare. Ed è talmente importante raggiungere l’obiettivo di rifondare buona parte delle istituzioni che anche sul nodo fin qui rimasto irrisolto del Senato Renzi non si chiude a riccio.
Prima il premier puntualizza come l’intesa sia larga e solida sugli altri aspetti caratterizzanti la riforma. E cioè l’abolizione del Cnel, il nuovo rapporto fra Stato e Regioni previsto dal nuovo Titolo V su cui ha dalla sua parte, fa notare, anche gran parte delle Regioni, guidate dal presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani, e la fine del bicameralismo perfetto. Che vuol dire che il futuro Senato sarà una «Camera delle Autonomie e dei rapporti con l’Europa» che non vota la fiducia, non vota il bilancio e non ha membri che percepiscono indennità. I famosi tre paletti. Quanto al quarto, Renzi spiega che l’importante è che i senatori non siano eletti, altrimenti rientra dalla finestra il bicameralismo che era stato fatto uscire dalla porta.
«Dietro l’eleggibilità diretta c’è l’obiettivo di continuare a produrre ceto politico ».È accettabile invece che uno che «fa il sindaco o il consigliere regionale» possa «un paio di volte alla settimana» stare a Roma a confrontarsi sui temi che interessano le autonomie locali. Di questo discuterà stamani col capogruppo al Senato Luigi Zanda e la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, e domani mattina con tutti i senatori democratici. Il confronto sulle riforme infatti va fatto con tutti, ribadisce, con Forza Italia (e annota come Berlusconi sia tornato sui propri passi), Lega, Grillo e quindi ovviamente anche con la minoranza Pd, anche se nel suo partito, fa notare, le decisioni sono già state prese, riferendosi sia al risultato delle primarie che alle deliberazioni della direzione.
«Mi piacerebbe fare una di quelle battute che facevo quando ero giovane», si mordela lingua Renzi, ma ora gli interessa solo trovare «una soluzione». Il che però non gli impedisce di difendere le proprie ragioni da chi l’accusa, da sinistra, di volere una svolta autoritaria. Ammette che un premierato forte non lo scandalizzerebbe visto che così funziona negli altri Paesi europei, che certo non possono dirsi non democratici, tuttavia ora aprire questo fronte significherebbe far saltare le riforme. Quindi tace. Semmai ricorda come la fine del bicameralismo non solo era nel programma di Prodi del 2006, dell’Ulivo del 1996, ma anche di Berlinguer del 1981. Insomma pare difficile appiccicarci sopra qualsiasi etichetta di destra anche da chi è mosso da «pregiudizio» nei suoi confronti. Intanto oggi sarà dalla De Filippi per registrare la puntata di sabato prossimo di Amici. L’altra volta col giubbotto da Fonzie si attirò molte critiche da sinistra. Attacchi di una sinistra snob ed elitaria, disse, che così ha deciso di sfidare di nuovo. E da sinistra infatti difende gli80 euro per chi guadagna poco. Spiega che le coperture ci sono («con piumino e passamontagna ») visto il rigore di Padoan, che ha fatto abbassare le previsioni di crescita del Pil dall’1,1% allo 0,8% (tanto che per fine anno Renzi s’aspetta sorprese positive). È infatti di sinistra che per la prima volta il governo restituisca qualcosa alle famiglie. Ed è proprio questo che stanno cercando di nascondere Grillo e Berlusconi con le loro cortine fumogene. Tra cui va messa la frase «sbagliata e inaccettabile» dell’ex Cavaliere sui lager e i tedeschi che Renzi pone sullo stesso piano con quella di Grillo sui campi di concentramento. Quei due sono «facce della stessa medaglia». Ed è dall’alto delle loro ricchezze che possono considerare poca cosa 80 euro in più al mese. «È spocchia», dice. Forse per Grillo valgono come due biglietti di ingresso a un suo spettacolo, ma «a un metalmeccanico che guadagna 1100 euro al mese cambiano la vita».

il Fatto 28.4.14
Nuova strategia
Paura sondaggi: Renzi si scaglia contro Grillo
Il premier teme il testa a testa e l'asse tra M5S e minoranza Pd sul Senato

di Sara Nicoli

Li vede così, “due facce della stessa medaglia”, Grillo e Berlusconi. Perché pescano “nello stesso bacino”, quello di un’elettorato in fuga da Forza Italia e pronto a dare il voto al leader grillino anti europeista, rafforzandolo nel ruolo di secondo partito italiano e rendendolo pronto, così, a ricevere l’incarico di premier: “Se vinco le Europee – è infatti la parola di Grillo – vado al Quirinale e chiedo l’incarico; prepareremo una squadra di governo”.
UNA MINACCIA? Più una promessa. M5S, d’altra parte, sembra ormai ad un’incollatura dal Pd. Matteo Renzi giura in tv da Lucia Annunziata che lui è un leader serio, che per questo non guarda i sondaggi, ma invece li guarda eccome. E comincia a sentire il fiato sul collo di un Movimento 5 Stelle in salita costante. Per questo, oggi, registrerà una puntata di “Amici”, la trasmissione di Maria De Filippi, che andrà in onda il 3 maggio. Per questo, ieri, ha attaccato Grillo restituendogli, in qualche modo, il suo ruolo di temibile avversario politico, quello che fino ad oggi gli ha sempre negato. Sfottendolo. Oggi, in fondo, Renzi ha anche una preoccupazione in più, quella di un gruppo grillino al Senato capace, in questa fase, di creare una marea di problemi al suo Pd e all’iter delle riforme, ormai entrato a pieno regime. La minaccia che è risuonata in questi giorni nelle aule di Palazzo Madama, al punto da allarmare il Quirinale, è quella di una sinistra dem, capitanata (formalmente) da Vannino Chini, che potrebbe saldarsi proprio con i 5 stelle su una “riforma alternativa” a quella firmata dalla Boschi e dallo stesso Renzi di cui, però, oggi si dichiara l’emedabilità. Non su tutto, chiaramente, solo su alcuni punti, anche se c’è già chi dice che sarà sempre troppo poco rispetto ad una riforma che non sta in piedi e che, in alcuni passaggi, potrebbe addirittura rivelarsi incostituzionale.
Il pericolo 5 stelle, però, c’è ed è incombente. Grillo lo ha detto chiaro: “Il Movimento appoggerà la proposta Chiti per un Senato elettivo, un Senato espressione dei cittadini e non dei partiti e del presidente della Repubblica. In alto i cuori e chi parla di riforme si sciacqui almeno la bocca prima di mentire”.
Un bel problema per Renzi, che oggi vedrà i gruppi parlamentari e domani sarà a colloquio proprio con i senatori del Pd per cercare di mediare all’interno prima che Grillo mandi all’aria tutto il piano. Mercoledì, infatti, il testo dell’Esecutivo approderà in via definitiva in Commissione Affari costituzionali. E dove è di scena anche un altro problema, ovvero la legge elettorale, quell’Italicum studiato apposta per tenere Grillo ai margini e che ora, se davvero l’M5S diventerà il secondo partito, potrebbe rivelarsi “pericoloso”, al punto da dover essere rivisto; un conto, per Renzi, sarebbe scontrarsi con il Cavaliere in un ipotetico ballottaggio, un altro con un Grillo deciso a governare il Paese.
RENZI, PERÒ, OSTENTA sicurezza, la sua carta mediatica vincente: “Io penso che il Pd prenderà più voti dell'ultima volta – ha detto ieri, reduce dalla santificazione dei Papi in Vaticano - e sarà il primo partito, ma non sono ossessionato da questo. A chi vota Grillo dico: va bene, ma ditegli di smettere di urlare e di venire a dare una mano per cambiare l'Italia; a me viene il dubbio che Grillo forse è il più furbo di tutti, anzi si levi il forse, e considera tutti spettatori costanti del suo show. Lui ironizza sugli 80 euro che sono due biglietti per il suo spettacolo, ma ad una mamma possono far comodo". A differenza delle altre volte, insomma, in cui Renzi non si è mai preoccupato troppo di aggredire Grillo, ieri i toni hanno fatto trasparire un’evidente preoccupazione del premier, che infatti è andato giù duro con le accuse: "Non sono preoccupati di risolvere i problemi (i grillini, ndr), ma di urlare e gridare e usare persino i disastri occupazionali. Io come governo ho messo su Piombino 270 milioni di euro. Invece altri vanno lì e dicono 'vi daremo il reddito di cittadinanza', ma io operaio non voglio il reddito di cittadinanza, voglio lavorare". Il prosieguo della campagna elettorale di certo riserverà altri colpi bassi tra i due leader, ma adesso la preoccupazione più concreta di Renzi riguarda proprio l’asse che si può creare al Senato tra sinistra Pd e 5 stelle per far naufragare le riforme. E siccome tutte le forze politiche, tranne appunto Grillo, hanno legato la loro azione politica in questa legislatura ai cambiamenti istituzionali, l’unica mossa da fare per disinnescare la mina 5 stelle è quella di lasciare spazio al dialogo. Così, dunque, Renzi ha aperto all'ipotesi messa in campo da Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, relatori del provvedimento sul Senato.
QUANTO alla tempistica, però, ha allentato il pressante crono-programma: "L'approvazione della riforma costituzionale in prima lettura entro il 25 maggio? Spero di sì, ma non mi impicco alla data, l'importante è che la riforma si faccia, troveremo una soluzione, a me basta - ha concluso Renzi - che il consigliere regionale non immagini di stare dalla mattina alla sera al Senato". Fosse solo questo.

Corriere 28.4.14
Berlusconi va in tv dalla D’Urso
«Mai detto che avrei rotto con Renz

qui

Corriere 28.4.14
I seguaci di Berlusconi che sperano in Renzi
di Pierluigi Battista


Un nuovo spettro si aggira nella scena politica italiana: il berlusconiano che smania per Matteo Renzi. Non è Bondi, attenzione: lui esagera per eccesso di zelo e finisce per deragliare. No, il berlusconiano che si aggrappa a Renzi pensando di fare cosa furba sta dentro Forza Italia, crede di interpretare gli umori profondi del Capo, attenua con la contemplazione estatica del giovane rampante il rimpianto per le occasioni perdute in un ventennio, vede in Renzi, più che un fratello, un’ancora di salvezza. Si rispecchia in lui. Cerca disperatamente di credere a ciò che la sinistra più conservatrice dice di Renzi: che è uno «di destra», clone berlusconiano. Il berlusconian-neorenziano pensa di guadagnare tempo prima della disfatta. E invece il tempo scadrà il 25 maggio, quando Renzi entrerà nel paradiso elettorale, e Forza Italia sprofonderà nelle urne.
A furia di dire che Renzi sta compiendo il lavoro che aveva iniziato Berlusconi, il berlusconian-renziano pensa di consolarsi, ma lavora per chi molto presto potrebbe disfarsi con un colpo solo dell’appoggio che oggi Forza Italia gli sta dando. Il giorno dopo le elezioni, il potere contrattuale di Berlusconi si azzererà. Le riforme istituzionali potranno essere varate senza di lui. Renzi avrà ottenuto nel voto la legittimazione che gli manca dopo aver brutalmente spodestato Enrico Letta con una congiura di palazzo. Dicono: ma lui realizza il nostro programma. Messaggio per l’elettore: allora votiamo lui, non Forza Italia. Dicono baldanzosi e tronfi: sta facendo fuori i «comunisti». E allora l’anti-sinistra, quella che ha visto Berlusconi come un baluardo contro il «comunismo», perché dovrebbe dar credito a un movimento in declino, a un politico al tramonto e non invece al giovane nella cui energia cerca di intravvedere qualcosa del berlusconismo delle origini?
Il berlusconian-renziano, in cuor suo, ha una certezza che non può comunicare pubblicamente: che il berlusconismo è finito. Non sa elaborare una successione, un dopo, un post-berlusconismo, un avvenire, una speranza, un messaggio valido per chi abbia meno di trent’anni. E allora si inventa che Renzi è il «vero» successore di Berlusconi. Ma si sbaglia. Renzi è di un’altra ditta. Potrà dire cose giuste o sbagliate. Ma dice cose renziane, non berlusconiane. Chi, dentro Forza Italia, spera che non sia così, è destinato a una disillusione cocente.
La fine del berlusconismo trascina con sé anche l’esaurirsi di ogni autonomia «ideologica» al centrodestra, sia a quello berlusconianamente ortodosso, sia quello, sbiadito e ministerialista, degli alfaniani. Tra poche settimane, mentre si profilerà un nuovo bipolarismo tra Renzi e Grillo, il centrodestra diventerà una semplice ruota di scorta che Renzi potrà cambiare e usare secondo le sue convenienze. Chi si crede troppo furbo scoprirà troppo tardi l’errore commesso.

Repubblica 28.4.14
La rimozione elettorale
di Ilvo Diamanti


ROMA. È uno dei tre assi delle riforme istituzionali, dopo la legge elettorale e il superamento del bicameralismo, ma se ne parla da anni e l’ultimo ritocco risale a 17 anni fa. Adesso però è in rampa di lancio alla Camera. Si tratta della riforma del regolamento parlamentare, una vera e propria rivoluzione del modo di fare le leggi: ritmi più serrati ma anche, e soprattutto, una anticipazione del premierato. L’innovazione più forte infatti riguarda il governo. Che sia il quoziente familiare o il jobs act, l’esecutivo potrà chiedere l’esame urgente delle sue riforme più importanti e portarle a casa in appena trenta giorni, sempre che abbia i voti per farlo. Il tutto senza ricorrere né alla ghigliottina né ai decreti.
Il testo base è pronto e se la Camera riuscirà ad approvarlo entro maggio-giugno, come vorrebbero la presidente Laura Boldrini e il Pd, anticiperà di un anno e mezzo la corsia preferenziale per i provvedimenti del governo prevista dalla riforma costituzionale del bicameralismo. Insomma se Renzi corre, Montecitorio prova a non rimanere troppo indietro. Il nuovo regolamento riduce drasticamente emendamenti ed interventi in aula per decine e decine di ore, abolisce i maxiemendamenti, blocca i cosiddetti assalti alla diligenza e taglia i tempi per il voto di fiducia, portandoli da un massimo di 100 ore in caso di ostruzionismo a otto. In cambio rafforza lo statuto delle opposizioni e le loro prerogative. Non basta: le proposte di legge di iniziativa popolare riusciranno finalmente ad arrivare in aula, mentre la pubblicità dei lavori varrà anche per le commissioni. La Giunta per il regolamento comincia l’esame degli emendamenti (circa 300) questa settimana. C’è da mettere in conto l’opposizione dei 5Stelle e l’irrigidimento di Forza Italia. Ma la strada è segnata e questi sono i paletti.
La “corsia smart” potrà essere chiesta dal governo o da un gruppo, con tanto di data per il voto finale. L’esame in commissione però dovrà durare almeno 25 giorni (oggi 30), almeno 10 dal sì all’urgenza. Sono esclusi dalla procedura decreti, progetti costituzionali o di eccezionale rilevanza, come la legge di stabilità. Non potranno essere inserite più di 5 urgenze in tre mesi o 3 in un bimestre. In questi casi però l’opposizione potrà ottenere un’urgenza nel trimestre successivo e nel contingentamento avrà diritto ai due terzi del tempo totale di discussione.
La fiducia potrà essere posta dal governo direttamente sul voto finale di un provvedimento (ma anche su un articolo o un emendamento) e votata immediatamente, come avviene già al Senato, dopo una discussione limitata ad un deputato per gruppo, per un totale di circa otto ore. Ma l’esecutivo non potrà più apporla su maxiemendamenti sostitutivi dell’intero testo, vietati senza appello. Niente fiducia anche su leggi costituzionali ed elettorali.
Novità anche per le proposte di iniziativa popolare. Dall’inizio di questa legislatura ne sono state presentate 25, ma solo su tre è cominciata la discussione. Ed è quasi un miracolo se arrivano in assemblea. Col nuovo regolamento invece le commissioni selezionano quelle da portare avanti e si impegnano a votarle e portarle in aula entro due mesi. È una delle novità - fanno sapere dalla presidenza - cui tiene di più la Boldrini, per rendere agibile uno strumento di democrazia diretta voluto dai costituenti.
Verrà poi falcidiato il numero degli emendamenti in aula. Il grosso del lavoro si sposta nelle commissioni (riunite in modo fisso martedì pomeriggio e mercoledì e giovedì mattina). Ogni gruppo potrà presentare un emendamento (o subemendamento) per articolo, più un emendamento ulteriore ogni 30 deputati (300 deputati 10 emendamenti, anziché i 30 attuali). Tuttavia, se non si tratta di leggi di bilancio, europee o che ammettono il voto segreto, una minoranza pari almeno a un quarto dell’assemblea può chiedere di tornare al regime attuale. Saranno inammissibili tutti gli emendamenti non attinenti alla materia trattata, come avviene oggi per i decreti.
Sarà abolita la discussione degli articoli (teoricamente fino a 70 ore in meno di ostruzionismo), dimezzata la discussione generale, ridotte le dichiarazioni di voto (fino a 80 ore in meno). La scure si abbatterà anche sugli ordini del giorno, lievitati a dismisura con fini quasi sempre ostruzionistici: nella decima legislatura (1987-92) ne vennero presentati 802, nella XVI (2008-13) arrivarono quasi a diecimila. Sono altre 80 ore risparmiate).
Altro obiettivo importante, scoraggiare i decreti e invertire la tendenza che vede le Camere impegnate solo su testi dell’esecutivo (nel 2013 sono state approvate 28 leggi di iniziativa governativa e 4 parlamentare, nel 2014 finora il rapporto è di 10 a 2). Per questo sui decreti non c’è il taglio degli emendamenti, ma quello dei tempi di intervento sì.
La trattativa sulla riforma è però complicata. Prima della scissione Fi era favorevole. Oggi l’azzurro Elio Vito vuole aspettare: «Non ha senso cambiare se non sappiamo ancora che tipo di bicameralismo avremo». Ma il pd Andrea De Giorgis la pensa diversamente. «Il primo voto sulla riforma del Senato potrà aiutarci a proseguire nella riforma del nostro regolamento». Chi proprio non ci sta sono i 5Stelle, che hanno avanzato una proposta provocatoria: inserire nel regolamento la sfiducia al presidente.

l’Unità 28.4.14
Giuliano Poletti
Il mio piano per i giovani, il Decreto lavoro va bene così
intervista di Bianca Di Giovanni


Per Giuliano Poletti quello del 2014 sarà un1° maggio che pensa ai giovani. Giovedì sarà attivato il portale del ministero del Lavoro dedicato al programma Garanziagiovani, il piano europeo che mira «a dare a tutti un’opportunità», spiega il ministro. L’Italia arriva alla festa del lavoro con disoccupazione record e scintille sul decreto. «Il Senato potrà modificarlo a patto che mantenga gli elementi fondamentali e rispetti i tempi - dice Poletti - Alla Camera ne hanno rispettato gli elementi fondamentali».
Non nasconde l’emozione, il ministro, per il fatto simbolico dell’avvio il primo maggio. Poletti parla dalla «sua» Emilia, dove ha festeggiato il 25 aprile nella casa dei fratelli Cervi. «Ci ero venuto da ragazzino, una cinquantina di anni fa, per festeggiare la liberazione partecipando ai giochi della gioventù». Oggi c’è tornato da ministro con carico di impegni non da poco su tutti i fronti: pensionati con redditi molto bassi, over 50 espulsi dall’attività, donne confinate ai margini, imprese in crisi profonda, a volte irreversibile. Il lavoro è il male del secolo che l’Europa è chiamata ad affrontare. Ma al primo posto oggi restano i giovani che non studiano e non hanno un’occupazione. E neanche la cercano. «Con Garanzia giovani non saranno più lasciati alle famiglie, ma per la prima volta Europa, Italia e Regioni si preoccupano di loro». Il ministro ci crede tanto, che la considera un’opportunità per i giovani e per tutto il Paese. Da buon cooperatore sa bene che per fronteggiare l’inattività è utile creare delle reti, avere contatti, puntare sulla partecipazione. E oggi si è a poche ore dal via. Per aderire basterà iscriversi al portale www.garanziagiovani.gov.it.
Il programma si rivolge a tutti i giovani tra i 15e i 29anni, senza distinzione?
«A tutti quelli che non studiano, non lavorano e non stanno seguendo nessun corso formativo. I cosiddetti neet. Per loro dal primo maggio è possibile registrarsi sul portale garanzia giovani. Tutti verranno chiamati da un’agenzia per l’impiego regionale o privata convenzionata per un colloquio, da cui scaturirà un profilo. Sulla base di questo profilo entro 4 mesi sarà fatta una proposta concreta. Potrà essere un contratto di apprendistato, un corso di formazione, un percorso di specializzazione o un servizio civile presso i centri che saranno selezionati attraverso dei bandi. Oltre ai lavoratori, stiamo lavorando perché anche le imprese si iscrivano al portale, per facilitare il lavoro di incrocio tra offerta e domanda di lavoro delle agenzie».
La convenzione con Finmeccanica e Confindustria invece è già partita.
«Sì, in quel caso noi siamo entrati in corsa su un programma che Finmeccanica aveva già lanciato per l’assunzione di 5mila giovani. Questo significa che i 20mila curricula già arrivati saranno subito introdotti nel programma di Garanzia giovani».
Finora solo tre Regioni hanno firmato la convenzione con il ministero necessaria per far partire il programma. Quando pensa che sarà completato l’iter?
«Altre due convenzioni sono pronte per la firma e altre arriveranno presto. Il programma comunque partirà come previsto».
Fino a quando ci si potrà iscrivere?
«Il programma dura due anni, non ci sono termini: si possono utilizzare tutti i 24 mesi». Questovuoldirecheanchechiha14anni oggi potrebbe essere interessato? «Sì, l’anno prossimo potrà iscriversi se non studierà più e non lavorerà». Che rapporto c’è tra questo piano e la delega sul lavoro appena varata?
«Sicuramente questa esperienza ci aiuterà a riflettere sui servizi per l’impiego, che sono un punto centrale della delega. Se vogliamo passare da un sistema concentrato su ammortizzatori e tutele a un altro orientato alle politiche attive per il lavoro, abbiamo bisogno di strumenti nuovi. La garanzia giovani è una di questi».
In questa settimana il Senato inizierà l’esame del decreto lavoro, dopo le fibrillazioni politiche della Camera. Lei si aspetta modifiche?
«È normale che il Senato svolga la sua funzione, che è quella di esaminare il testo e quindi anche di emendarlo. Il dato importante per me è che si rimanga fedeli agli elementi di fondo del decreto e che si rispettino i tempi per la conversione in legge».
La Camera ha rispettato gli elementi di fondo del decreto?
«Sì, ha mantenuto le caratteristiche essenziali dell’intervento, che sono la durata del contratto a termine di 36 mesi, l’eliminazione della causale, la semplificazione anche rispetto all’apprendistato. Questi elementi fondamentali sono stati salvaguardati».
C’è chi accusa di essere tornati alla legge Fornero sull’obbligo di assunzione del 205 degli apprendisti per le aziende sopra i 30dipendenti, nel caso in cui si vogliano impiegare nuovi apprendisti.
«Ricordo che la Fornero imponeva vincoli alle aziende sopra 10 dipendenti e non 30, e che dal 2015 prevedeva la stabilizzazione del 50% degli apprendisti. Basta controllare le dimensioni delle nostre aziende per capire quante vengono escluse con il passaggio da 10 a 30 dipendenti. Non mi pare proprio un ritorno indietro».
Cosa replica all’accusa della Cgil di un contrasto tra decreto e disegno di legge delega?
«Non è così, perché il decreto è in sostanza una semplificazione che dà certezze alle aziende. I dati ci dicono che il 70% di contratti a termine tra gli avviamenti al lavoro è figlio anche di incertezza sulla causale. In sostanza accadeva che gli imprenditori avevano paura a prolungare il contratto, dopo un anno mandavano via i lavoratori e ne chiamavano altri. Potenzialmente la formula introdotta dal decreto stabilizza di più. In ogni caso il decreto prevede un monitoraggio tra 12 mesi. In quell’occasione vedremo se questa ipotesi è confermata: io non mi impicco a un’idea. Si pensi all’apprendistato, che è stato regolato pensando che doveva diventare il contratto di accesso al lavoro, e invece è crollato dal 14 al 10% degli avviamenti al lavoro».
Sugli esodati ci sono già ipotesi in campo?
«Ho convocato un tavolo per il 7 maggio: sarebbe inopportuno e scorretto parlare già oggi di ipotesi concrete. Posso dire che l’obiettivo è trovare una soluzione strutturale al problema, mettendo fine a interventi spot che ci sono stati finora. Interventi sicuramente utili, ma parziali».
Si lavorerà sulla flessibilità dell’età di pensionamento?
«Quello è un altro capitolo che riguarda tutti. Il tema di un’età flessibile per andare in pensione è sempre attuale: molto dipende dalle risorse. Il caso esodati è diverso: per loro ci sarebbe stato bisogno di una norma transitoria che non è stata fatta».

Corriere 28.4.14
Statali, riforma al via con tagli
agli stipendi e 5 anni di «scivolo»
E intanto arrivano 106 nuovi dirigenti. Il disegno di legge-delega,
o decreto, è atteso in Consiglio dei ministri questa settimana
di Antonella Baccaro

qui

Repubblica 28.4.14
L’enorme bugia degli sprechi scolastici

di Mario Pirani


TALVOLTA qualche articolo sulla scuola suscita reazioni interessanti. Così il nostro rilievo del 14 aprile us ha provocato più di una ripresa. Un professore di Palermo scrive: «C’è qualcosa che da anni mi frulla per la testa. La scuola italiana è stata tagliata di 133.000 posti e di oltre tre miliardi di euro negli anni del berlusconismo, facendo passare l’idea che questo fosse un risparmio e che nella scuola vi fossero troppi sprechi. Si tratta di una enorme bugia e se non riprenderemo ad investire seriamente nella scuola non usciremo mai dalla crisi. Ce lo hanno di nuovo ricordato gli esperti di Bruxelles, sottolineando ancora una volta che soffriamo di uno dei più alti tassi d’abbandono
del sistema scolastico europeo con previsioni che ci piazzano per il 2020 al 28°posto fra i laureati europei. La situazione vista dall’interno, (insegno italiano in un liceo di Palermo) nonostante i tanti proclami che si sono susseguiti in questi anni, da cui non è uscito nulla di concreto per la scuola, resta sostanzialmente immobile. La spiegazione - secondo la famosa “invarianza della spesa” è semplice: se occorre “fare” con le risorse che derivano dai tagli, i fatti sono due, o si taglia o si lascia tutto come sta. Nella scuola, checché se ne dica, non ci sono sprechi; se ce ne fossero le famiglie non sarebbero costrette a sborsare 500 milioni di euro all’anno a titolo di “contributi volontari”. Neppure la Gelmini è riuscita a trovarne e a tagliarli e si è dovuta accollare della responsabilità di diminuire le ore di lezione in quasi tutti i livelli scolastici. Un ultimo paragone: in Finlandia i ragazzi stanno a scuola il più possibile, da noi il meno possibile».
Si seguita vacuamente a parlare di autonomia scolastica, senza avere neppure il coraggio di dire che il nostro “era” un sistema scolastico con il suo impianto gerarchico, per quanto burocratico. Alla sua testa formalmente governava il ministro e più sotto, via via, i Provveditorati cui sottostavano le Scuole, rette da una rete di circolari. Ora, con l’introduzione più o meno fittizia dell’Autonomia, abbiamo apparentemente smantellato il vecchio ordinamento ma non ne abbiamo creato uno nuovo, infatti gli istituti residui non sono autonomi.
Secondo le linee messe a punto dall’Unione europea un organismo è autonomo quando è proprietario degli edifici, ha totale autonomia di governance e gestisce autonomamente il personale. Le scuole non hanno niente di tutto questo mentre le Università sì e infatti non abbiamo bisogno di autorità locali per gestirle: il Miur decide i finanziamenti alle Università in base a criteri generali. Oggi invece la scuola è un “non sistema”. Non abbiamo più un sistema piramidale: si pensi che in Toscana abbiamo un solo provveditore per tre province. Inoltre stiamo abolendo le province; perché dovrebbero rimanere i Provveditorati? Sulle autonomie ognuno dice la sua, ma non è così. Dare autonomia di gestione alle scuole dovrebbe significare un vero sistema di valutazione che non valuti, però, solo gli apprendimenti. La scuola non è infatti solo apprendimento ma un ambiente sociale di formazione e di educazione. E’ il primo “ambiente” sociale dove si cresce, si formano le relazioni, il modo di stare con gli altri. Sono questi valori da difendere, ma nello stesso tempo dobbiamo puntare alle competenze. Non basta più conoscere la grammatica inglese o francese; bisogna capire e parlare una lingua, esercitare una reale competenza linguistica. E questo vale per tutte le materie: passare dalle conoscenze alle competenze è determinante per il successo della scuola e dei nostri ragazzi.

Corriere 28.4.14
Finita la luna di miele sulla scuola, i miliardi promessi ancora non ci sono 
di Andrea Balzanetti

«Abbiamo concordato un incontro con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per la prossima settimana per capire effettivamente quali sono le possibilità economiche, perché si programma quando ci sono fondi certi». Così parlò (giovedì scorso) il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, al termine di un’audizione alla Camera. Un annuncio che forse è stato sottovalutato, ma che rappresenta la prova che sul tema scuola all’interno del governo non tutto fila liscio e che, come è accaduto nei passati governi tecnici o politici di ogni colore, è iniziato il solito braccio di ferro tra Economia ed Istruzione. Insomma, la luna di miele sembra essere finita velocemente.
E pensare che il governo Renzi è nato con idee ben precise sulla scuola. La prima uscita pubblica del premier è stata lo scorso febbraio, appena incassata la fiducia del Parlamento, proprio in un istituto di Treviso. In quell’occasione Matteo Renzi aveva ribadito la centralità del tema affermando che «per uscire dalla crisi bisogna ripartire dalla scuola».
Non solo, per vincere lo scetticismo dell’opinione pubblica aveva annunciato un mega piano per la messa in sicurezza delle scuole italiane. Mega piano che avrebbe avuto a disposizione un finanziamento di 3,5 miliardi di euro, tra fondi già disponibili e risorse recuperabili dall’allentamento del patto di Stabilità, oltre alla immancabile cabina di regia per la gestione degli interventi.
Dopo due mesi, però, l’unico provvedimento «nero su bianco» sull’edilizia scolastica è contenuto nel decreto Irpef e prevede in concreto solamente 244 milioni di euro di «spazio di patto» per il biennio 2014-2015. Ben poca cosa rispetto ai 3,5 miliardi annunciati. Ben poca cosa per le 4.500 scuole che hanno già richiesto di aprire i cantieri.
Sicuramente risorse aggiuntive si renderanno disponibili dall’interpretazione di altre vecchie leggi o da commi nascosti nello stesso decreto Irpef. Magari già nei prossimi giorni Padoan e la Giannini avranno l’occasione di chiarire l’«equivoco», ma certo per arrivare da 244 milioni a 3,5 miliardi di euro la strada è molto lunga.

l’Unità 28.4.14
La Chiesa verso il mondo: se il Concilio diventa santo
di Claudio Sardo


COLPIVANO IERI LE IMMAGINI DI QUELLA GRANDE FOLLA MULTILINGUE E MULTICOLORE che ha animato la cerimonia di canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Due Papi proclamati santi nello stesso giorno. Due Papi «recenti», di cui molti hanno memoria diretta. Si è trattato di un evento inedito per la stessa Chiesa di Roma. Un evento pienamente religioso, ancorato anzitutto alla fede, al culto e alla spiritualità popolare. E tuttavia, siccome la fede non è mai soltanto un fatto privato, la giornata di ieri è diventata anche un crocevia tra la storia della cattolicità e quella del mondo. Lo testimoniavano, a modo loro, le bandiere polacche issate da chi ha visto in Wojtyla non solo un Papa ma anche un liberatore, un eroe nazionale.
E lo testimoniavano i tanti che in Angelo Roncalli hanno riscoperto l’autenticità e il coraggio evangelico e ora confidano che Papa Francesco riprenda e sviluppi il messaggio del Concilio.
In fondo, accanto alle figure dei due nuovi santi, ieri la Chiesa cattolica è tornata a celebrare proprio il Vaticano II. E a interrogarsi su di esso. Giovanni XXIII è stato il Papa che ha creato il Concilio dal nulla. Chissà se un altro Papa al posto suo lo avrebbe fatto. Lui, scelto dai cardinali per una transizione, ha compiuto per la Chiesa l’atto più significativo e rivoluzionario di tutto il secolo. Ha chiesto di stare nel mondo in un altro modo. Di portare il vangelo nella modernità. Di rimettere la povertà e la riconciliazione al centro della «missione». Di rompere le barriere tra i chierici e il popolo. Di avere fiducia negli uomini di buona volontà. Giovanni XIII ha aperto il Concilio ma non l’ha chiuso. È morto prima. Fu poi molto difficile per Paolo VI concludere il Concilio mentre emergevano resistenze e divaricazioni. Per certi aspetti è rimasto aperto e incompiuto nei decenni successivi. Ma il coraggio di Roncalli fu quello di spalancare le porte e di far entrare il vento forte che spirava fuori dalle mura della Chiesa. Come è noto, Giovanni XXIII è stato proclamato santo senza la certificazione del «secondo miracolo» (necessaria secondo i canoni). Papa Francesco, nel decretarne la dispensa, avrebbe detto che «il secondo miracolo di Giovanni XXIII è stato proprio l’apertura del Concilio». Non sappiamo se la battuta sia autentica, ma l’omelia di ieri la rende verosimile.
Francesco ha voluto celebrare insieme Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E ieri ha indicato, appunto, il Concilio come il filo che lega tra loro i due nuovi santi e che lega questi al suo ministero. Il processo di canonizzazione di Karol Wojtyla, del resto, aveva già avuto fortissime accelerazioni dopo l’invocazione del «santo subito» ai suoi funerali. La popolarità di Giovanni Paolo II è sempre stata enorme: primo Papa della comunicazione globale, primo Papa a viaggiare in tutti i Continenti. Papa di folle oceaniche. Il Papa che ha marcato il segno più profondo nella storia politica del Novecento. Eppure, neanche Giovanni Paolo II sarebbe stato possibile senza il Concilio, senza l’avvio, per quanto contraddittorio, della riforma della Chiesa romana. Non sarebbe stata possibile la preghiera di Assisi senza l’apertura di un dialogo ecumenico. Il vento del Concilio ha spinto la Chiesa verso il mondo, con l’ottimismo dei «segni dei tempi» e con la fiducia della presenza di Dio nella storia. E tuttavia, durante il lungo pontificato di Wojtyla, ha portato anche nubi nel cielo. Il Papa era uno straordinario comunicatore, ma il secolo continuava a scristianizzare l’Occidente. Le folle acclamavano il Papa che chiedeva una più forte presenza cristiana nella società, ma nella società i valori dei cristiani e la loro coerenza si indebolivano. Ieri Francesco ha voluto ricordare Giovanni Paolo come «il Papa della famiglia». La famiglia è un caposaldo della dottrina sociale cattolica, ma al tempo stesso un paradigma delle trasformazioni e della crisi antropologica del nostro tempo. Quello di Wojtyla è stato il pontificato più lungo dopo il Concilio. È stato il tempo di una rivisitazione, anche di una metabolizzazione. Sono state tagliate le punte scomode. Talvolta è stata sacrificata qualche profezia. Soprattutto si è ridotta la fiducia, l’empatia nei confronti della modernità. Le porte delle Chiese restavano aperte, ma il moderno presentava anche ostilità e minacce, oltre alle opportunità. Papa Francesco ha voluto tenere insieme questi due Papi «santi» che compongono la diversità e il travaglio della Chiesa degli ultimi cinquant’anni. È probabile che Bergoglio intenda fare presto santo anche Paolo VI, alla cui teologia è certamente più vicino. Ma l’impressione è che abbia voluto dare una così grande solennità all’evento di ieri per dire che la Chiesa è ora, finalmente, nel dopo-Concilio. Indietro non si può tornare. La Chiesa non può chiudersi all’uomo di oggi e alle sue contraddizioni. Deve amarlo. Stando dalla parte dei più poveri, degli ultimi. Non può farsi scudo di un’ortodossia senza carità, di una morale senza incarnazione, di una regola senza sapienza. «Se manca la profezia c’è il clericalismo» dice Francesco. Lo spirito del Concilio soffia sul moderno ma non rinuncia ad essere una riserva critica. Così può dare un mano al mondo. Per resistere al «pensiero unico», all’«economia che uccide», all’individualismo che esclude la misericordia e il perdono. La modernità da contrastare è quella dell’omologazione. Ma anche Papa Francesco non ha una vita facilissima: non era mai emersa all’interno della Chiesa una critica conservatrice, a volte reazionaria, così esplicita dopo solo un anno di pontificato.

il Fatto 28.4.14
A Roma anche il dittatore Mugabe

Tra le 93 delegazioni ufficiale provenienti da tutto il mondo per la cerimonia di canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II c'è anche il presidente dello Zimbabwe, il controverso Robert Mugabe. Aveva già partecipato, insieme a sua moglie, alla cerimonia di inizio pontificato di Papa Bergoglio. È a Roma, da sabato, nonostante le sanzioni imposte dall’Ue che gli impediscono di viaggiare e transitare in Europa. Ma il vecchio padre-padrone dello Zimbabwe, 89 anni, accusato dalla comunità internazionale di essere un sanguinario dittatore senza scrupoli, si ritiene molto cattolico.

piazze piene? Chiese vuote!
Corriere 28.4.14
Il Cattolicesimo, i fedeli in calo  e la cura dell’entusiasmo
di Vittorio Messori

qui

il manifesto 27.4.14
Due papi. Intervista a Daniele Mennozzi, docente alla Normale di Pisa
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II rappresentano due linee diverse di relazione con il mondo
di Luca Kocci


Cano­niz­za­zione dei papi o san­ti­fi­ca­zione del papato? Ne abbiamo par­lato con Daniele Menozzi, docente di Sto­ria con­tem­po­ra­nea alla Nor­male di Pisa, stu­dioso del papato in età moderna e con­tem­po­ra­nea, autore di volumi come Chiesa e diritti umani (2012), Chiesa, pace e guerra nel Nove­cento (2008), entrambi editi dal Mulino, e Gio­vanni Paolo II. Una tran­si­zione incom­piuta? (Mor­cel­liana, 2006), un’analisi sto­rica del pon­ti­fi­cato di Woj­tyla. «La cano­niz­za­zione dei papi dell’età con­tem­po­ra­nea, ini­ziata da Pio XII con la san­ti­fi­ca­zione di Pio X, è ormai una linea con­so­li­data della Santa sede – spiega Menozzi –. La con­ce­zione della teo­cra­zia medie­vale per cui il mero accesso al trono di Pie­tro com­porta la san­tità di chi vi accede si è sal­data in que­sto periodo da un lato con il pro­cesso di cen­tra­liz­za­zione romana che ha por­tato all’identificazione della Chiesa con chi la guida, dall’altro con le dif­fi­coltà di pre­senza del cat­to­li­ce­simo nel mondo moderno. In que­sto con­te­sto la cano­niz­za­zione di un papa vuole for­nire alla Chiesa la ras­si­cu­ra­zione che chi l’ha gui­data si è com­por­tato, nel mare tem­pe­stoso della moder­nità, in maniera tanto ade­guata da tro­vare il rico­no­sci­mento della bea­ti­tu­dine ultraterrena».
Quando Gio­vanni XXIII è stato bea­ti­fi­cato, gli è stato affian­cato Pio IX: il papa del dia­logo con il mondo moderno e quello della con­danna della moder­nità. Ora sta insieme a Gio­vanni Paolo II, che ha ridi­men­sio­nato il Con­ci­lio Vati­cano II. Come inter­preta que­ste scelte?
Mi sem­bra un modo per rela­ti­viz­zare le posi­zioni inno­va­tive assunte da Ron­calli. Iso­lare la cano­niz­za­zione di Ron­calli impli­cava attri­buire un valore uffi­ciale alla sua linea di governo; affian­carla a quella di Woj­tyla signi­fica che entrambe le posi­zioni sono ugual­mente valide. Ma non va sot­to­va­lu­tato il cam­mino di que­sti anni: met­tere sullo stesso piano Ron­calli e Mastai Fer­retti signi­fi­cava mostrare che la Chiesa non aveva ancora deciso se con­ti­nuare nella posi­zione di con­trap­po­si­zione o di dia­logo con la moder­nità. Affian­care Gio­vanni XXIII e Gio­vanni Paolo II implica mostrare che sono ormai in gioco sol­tanto due diverse linee di rela­zione con la moder­nità e quindi che il dia­logo con il mondo moderno è irreversibile.
Dal punto di vista sto­rico cosa hanno rap­pre­sen­tato Gio­vanni XXIII e Gio­vanni Paolo II?
Gio­vanni XXIII ha aperto la Chiesa al supe­ra­mento dell’eredità dell’intransigentismo otto-novecentesco, mostrando che la pre­senza della Chiesa nella sto­ria poteva pre­scin­dere dalla pro­spet­tiva di rico­stru­zione di una società cri­stiana. Gio­vanni Paolo II ha ela­bo­rato un pro­getto di inter­vento sulla società che, pur abban­do­nando la pre­tesa di una guida eccle­sia­stica su tutti gli aspetti del con­sor­zio civile, riven­di­cava comun­que al magi­stero il com­pito di indi­care alcuni aspetti dell’organizzazione della vita col­let­tiva a cui tutti sem­pre, comun­que e dovun­que erano tenuti ad ade­rire. Per Ron­calli la Chiesa poteva entrare nella sto­ria senza un pro­getto di cri­stia­nità, per Woj­tyla essa doveva essere gui­data da un’ottica di neo-cristianità.
Ber­go­glio parla di col­le­gia­lità e sino­da­lità ma, anche per il suo grande cari­sma, sem­bra esserci un ritorno della papo­la­tria. È una sorta di ete­ro­ge­nesi dei fini? O non cor­ri­spon­dono alla realtà le inten­zioni “demo­cra­ti­che” di Bergoglio?
Mi pare indub­bio che Ber­go­glio intenda rea­liz­zare una mag­giore col­le­gia­lità nel governo della Chiesa; d’altra parte, a quanto pare, que­sta era anche una delle con­di­zioni che hanno reso pos­si­bile la sua ele­zione. Natu­ral­mente le moda­lità con cui la col­le­gia­lità si può rea­liz­zare sono mol­te­plici: per ora si è assi­stito ad un mag­giore ascolto delle Chiese locali e all’annuncio dell’attribuzione di un ruolo dot­tri­nale alle con­fe­renze epi­sco­pali. È pos­si­bile che si arrivi a ristrut­tu­ra­zioni isti­tu­zio­nali che for­ma­liz­zino que­ste aper­ture ad un effet­tivo governo col­le­giale della Chiesa. Resta comun­que il fatto che esse non impli­che­ranno l’introduzione di un regime demo­cra­tico: la Chiesa è un popolo di Dio in cam­mino nella sto­ria, ma è pur sem­pre un popolo gerar­chi­ca­mente ordinato.
Quella di Ber­go­glio è una rivoluzione?
È troppo pre­sto per dare giu­dizi così impe­gna­tivi. È certo che Ber­go­glio ha cam­biato per tanti aspetti la linea di Bene­detto XVI il quale del resto, con la sua rinun­cia, ne ha rico­no­sciuto il fal­li­mento. Fin dove si spin­gerà il muta­mento e soprat­tutto per sapere se que­sto muta­mento sarà in linea con una let­tura evan­ge­lica dei segni dei tempi biso­gnerà ancora aspettare.

Corriere 28.4.14
Stringe la bimba e si dà fuoco. La ex non riesce a strapparla
L’appuntamento con la donna per discutere della denuncia per maltrattamenti. L’uomo era stato condannato: ha spruzzato benzina e incendiato l’auto
di A. P.

qui

La Stampa 28.4.14
Il sacrificio degli innocenti
di Marco Neirotti


Come un appuntamento, ogni volta avvolto dall’orrore per l’inspiegabile. E gli esperti ci diranno di suicidio allargato, della propria morte estesa alle persone avvolte da un distorto amore. Ci diranno della condanna a un’inimmaginabile sofferenza inflitta a chi sopravvive, facendo scontare attimo per attimo l’assassinio di un figlio da parte di chi ne ha condiviso la venuta al mondo.
Racconta la cronaca che quest’uomo voleva incenerire tutte e tre le vite travolte dal suo senso di sconfitta. Altre cronache hanno narrato il sadismo meditato: a inizio 2011 un uomo fuggì dalla Svizzera con le gemelline di sei anni e, quando lo trovarono a Cerignola suicida sotto un treno, delle bambine nulla si seppe.
Ricorre - talora come estensione della propria fine, talora come pena inflitta con volontà a chi resta - il sacrificio degli innocenti. E, per quanto ci si sforzi di scovare pietà anche per chi dell’orrore è artefice, si è sgomenti di fronte alla presunzione d’immenso potere dell’assassino, al delirio maturato in una società sempre più individualista (e sprezzante della morte) della quale tutti siamo frammenti.
Abbiamo assistito - a volte dimenticando troppo presto - alla vendetta per un abbandono, con l’acido scagliato o fatto scagliare in volto per deturpare non soltanto i lineamenti ma il futuro della persona malamata. Ci siamo commossi ai funerali trasmessi dalla tv di creature uccise nel pieno del loro stupore e le abbiamo scordate come se se ne fossero andate vie con i palloncini bianchi liberati al cielo fuori dalla chiesa.
Per noi, come è logico, viene domani. Per le madri o i padri superstiti di quelle vittime viene la quotidiana, insanabile sofferenza inferta da una fragilità, una viltà anche, che si è follemente innalzata all’onnipotenza di un dio malvagio.

Corriere 28.4.14
Guerra ai segreti dello Stato. Ma senza troppe aspettative
risponde Sergio Romano


Forse lei può aiutare i lettori del Corriere della Sera a capire meglio l’esatta portata della decisione del presidente del Consiglio Matteo Renzi di togliere «il segreto di Stato sulle stragi». Tutti i media, in effetti, prima ci hanno detto che è stato tolto il segreto di Stato, ma poi si sono affrettati a precisare che il segreto di Stato non è apponibile sui reati di strage. Ci hanno allora indicato che Renzi, in realtà, ha ordinato la «declassificazione» di documenti riservati che risalgono a più di 40 anni fa. Ma la legge di riforma sui servizi segreti italiani del 2007, all’art.42, non prevede che i documenti classificati siano declassificati automaticamente dopo cinque o al massimo dieci anni? Forse Matteo Renzi — in base alla legge del 2008 sui Beni culturali — ha solo disposto l’invio agli archivi di Stato di documentazione già di per sé declassificata? Se fosse così, le chiedo: perché, allora. non è stato fatto prima trattandosi di semplice decisione «amministrativa»?
Domenico Vecchioni

Caro Vecchioni,
Le dichiarazioni alla stampa di Marco Minniti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Servizi d’informazione e sicurezza, confermano che il quadro è quello descritto nella sua lettera. La decisione del governo è soltanto l’ultimo atto (speriamo) di un processo iniziato con la legge del 2007 e proseguito con un decreto del governo Monti, nel 2011, che prometteva la mappatura dei documenti entro il 2012. L’anno passò senza che quell’impegno fosse mantenuto e la decisione del governo Renzi sembra essere, per l’appunto, il completamento del percorso. Resta da vedere, naturalmente, quanto tempo sarà necessario per «mappare» gli archivi. Occorrerà raggruppare le carte dei singoli casi e collocare in un archivio riservato quelle che concerno persone ancora viventi, soprattutto se la rivelazione dei loro nomi può esporle a rappresaglie a vendette. La decisione del governo non è una «televendita», come ha detto brutalmente Beppe Grillo. Ma non è neppure l’avvento della chiarezza e della trasparenza proclamato dal governo a qualche settimana dalle prossime elezioni europee.
Il rischio, come sempre, è che anche questo passaggio smarrisca la strada nel dedalo della burocrazia. Se qualcuno chiedesse perché le pubbliche amministrazioni siano spesso, in questi casi, lente e reticenti, molti risponderebbero probabilmente che in quelle carte, gelosamente custodite negli archivi di alcuni ministeri, vi è la soluzione delle trame e dei complotti che avrebbero minacciato l’esistenza della Repubblica; e aggiungerebbero che sono ancora numerose le persone interessate alla conservazione del segreto. Credo che Pierluigi Battista abbia ragione quando scrive (Corriere del 22 aprile) che questa convinzione è il frutto di una retorica complottista molto diffusa nella società nazionale.
Penso piuttosto che le amministrazioni siano spesso riluttanti perché quelle carte contengono i ferri del mestiere e gli incidenti di percorso. I primi sono i mezzi a cui è necessario ricorrere per condurre a buon fine una indagine di polizia e i compromessi a cui occorre piegarsi per raggiungere un obiettivo. I secondi sono le sviste, i ritardi, le distrazioni, il tempo perduto e le occasioni mancate da cui è afflitta ogni burocrazia, soprattutto nei Paesi in cui l’intervento dello Stato è frequente, invasivo e spesso inutile. La pubblicità potrebbe servire a ridurre gli incidenti di percorso. Ma i ferri del mestiere sono necessari e continueranno a essere usati.

l’Unità 28.4.14
Shoah, la svolta palestinese
Il leader Abu Mazen parla per la prima volta di «crimine odioso»
Nel giorno dell’Olocausto celebrato in Israele, il presidente dell’Anp ha definito la Shoah «il crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna»
di Umberto De Giovannangeli


Nel giorno dell’Olocausto celebrato in Israele, il presidente dell’Anp ha definito la Shoah «il crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna». Una rara ammissione da parte di un leader arabo dell’immane sofferenza subita dagli ebrei.
Parole che lasciano il segno. Un segno positivo. Sul piano politico ma anche, e non da meno, su quello storico. E morale. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha definito l’Olocausto il «crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna». L’ha fatto durante una conversazione con il rabbino Marc Schneider, presidente della Fondazione per la Comprensione Etnica di New York, e le sue dichiarazioni sono state diffuse ieri dall’agenzia stampa palestinese Wafa. Abu Mazen ha aggiunto di provare compassione per le vittime e le loro famiglie. Poi ha ricordato come sei milioni di ebrei siano morti durante la Seconda Guerra Mondiale per il genocidio nazista. Le dichiarazioni rappresentano una rara ammissione da parte di un leader arabo a proposito dell’immane sofferenza subita dagli ebrei. I palestinesi temono che accettare l’Olocausto possa sminuire la propria posizione di sofferenza. Inoltre il commento di Abbas è stato pubblicato poche ore prima la commemorazione annuale di Israele per le vittime dell’Olocausto.
«Il mondo - ha aggiunto il leader dell’Anp - deve fare il possibile per combattere razzismo e ingiustizia... Il popolo palestinese, che soffre di ingiustizie, oppressione, libertà e pace negate, è in prima linea per chiedere di contrastare l’ingiustizia e il razzismo contro altri popoli». E ancora: «Il giorno della commemorazione delle vittime dell’Olocausto, auspichiamo che il governo israeliano colga l’opportunità di concludere una pace giusta e globale nella regione, basata su una visione di due Stati in grado di convivere. Israele e Palestina, fianco a fianco, in pace e sicurezza».
IL GELO DI BIBI
Ma Benjamin Netanyahu non crede alle parole del presidente palestinese. O comunque, le ritiene contraddette dalle scelte operate in questi giorni. «Non si può affermare che (l’Olocausto) è stato terribile e al tempo stesso unirsi a coloro che desiderano la distruzione del popolo ebraico». Il riferimento è all’accordo tra Olp e Hamas, che entro sei mesi dovrebbe portare a una tornata elettorale nei Territori. «Hamas nega l’Olocausto - ha affermato il premier israeliano nel corso della riunione dell’esecutivo - e anzi ne cerca uno nuovo con la distruzione di Israele. Questa è la stessa Hamas con cui Abu Mazen ha deciso di firmare un’alleanza la scorsa settimana. La differenza principale tra l’Olocausto di ieri e oggi è l’esistenza di uno Stato sovrano forte e solido in grado di difenderci da coloro che vogliono le nostre vite».
Manel governo di Gerusalemme torna a farsi sentire il dissenso di Tzipi Livni. La ministra della Giustizia non lesina critiche verso Abu Mazen ma è più cauta, rispetto a Netanyahu e al titolare degli Esteri, Avigdor Liebermann, sulle conseguenze.«Abbiamo deciso di aspettare e vedere cosa accadrà nel campo palestinese quando sarà formato il nuovo governo», rimarca Livni, che guida la delegazione di negoziatori al tavolo della pace. In ogni caso, ha precisato, «io non condurrò negoziati, diretti o indiretti, con Hamas». Certo, ha rilanciato il ministro delle Finanze, Yair Lapid, «se Hamas accetterà le condizioni del Quartetto (ovvero il riconoscimento di Israele, ndr), allora non sarà più Hamase si porranno le basi per una discussione».
Da Gerusalemme a Bruxelles. L’Unione europea ha esortato ieri Israele e Anp a tornare al tavolo dei negoziati, evidenziando che non si devono «sprecare » gli sforzi di mediazione finora compiuti dagli Stati Uniti. «I negoziati sono il modo migliore per andare avanti - ha detto l’Alta responsabile per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton -. Gli ampi sforzi compiuti negli ultimi mesi non devono essere gettati ai rifiuti». L’Ue, ha aggiunto Ashton, «invita tutte le parti a esercitare la massima moderazione e ad evitare qualsiasi azione che possa ulteriormente minare gli sforzi di pace e la fattibilità di una soluzione tra i due Stati». «Mrs Pesc» ha rimarcato che «l’Unione europea si aspetta che si continui a sostenere il principio della non violenza, rimanendo impegnati a raggiungere una soluzione negoziata e pacifica, compreso il legittimo diritto di Israele ad esistere». «Il fatto che il presidente Abbas rimarrà pienamente responsabile del processo di negoziazione avendo mandato per negoziare a nome di tutti i palestinesi - conclude Ashton - significa inoltre la garanzia che i negoziati di pace possono e devono procedere».

Repubblica 28.4.14
Abu Mazen: “Shoah, crimine odioso”


GERUSALEMME. Il presidente palestinese Abu Mazen ha sorpreso Israele nel giorno della Memoria con una dichiarazione senza precedenti sullo sterminio degli ebrei, in cui riconosce l’unicità dell’Olocausto e della sofferenza ebraica. È una novità assoluta, che ha provocato l’immediata reazione irritata di Netanyahu: «Con queste parole Abu Mazen vuole solo ammansire l’opinione pubblica mondiale», ha twittato l’ufficio del premier israeliano che due giorni fa ha interrotto i negoziati di pace con l’Autorità Palestinese dopo l’accordo firmato dall’Olp con Hamas, il movimento islamista che governa Gaza da sette anni.
«L’Olocausto è il crimine più odioso contro l’umanità che sia stato commesso in epoca moderna». Così Abu Mazen ribadisce quanto aveva detto al rabbino americano Schneier, capo di un’organizzazione che promuove l’avvicinamento tra ebrei e musulmani. Il leader palestinese ha espresso la sua vicinanza alle famiglie delle vittime dell’Olocausto e il cordoglio «per i tanti innocenti sterminati dai nazisti». L’Olocausto - ha detto ancora - è espressione del razzismo «che noi rigettiamo e combattiamo » e deve essere un’occasione per riflettere «sul razzismo e sul concetto di discriminazione etnica». «Il mondo deve fare il possibile per combattere razzismo e ingiustizia e il popolo palestinese, che soffre di ingiustizie, oppressione, ed è privo di pace e di libertà, è in prima linea per chiedere la fine dell’ingiustizia e della discriminazione, indipendentemente da chi ne siano le vittime».
«In occasione della dolorosa commemorazione della Shoah - conclude Abu Mazen - facciamo appello al governo israeliano perché colga l’occasione per raggiungere una pace giusta e globale sulla base della soluzione di due Stati, Palestina e Israele, che possano vivere in pace l’uno accanto all’altro». Il testo della dichiarazione è stato pubblicato integralmente anche in arabo, cosa di cui avevano dubitato le autorità israeliane nel momento in cui, il rabbino Schneier ne aveva annunciato la prossima pubblicazione.
In passato Abu Mazen era stato accusato di negazionismo perché nella tesi di laurea aveva relativizzato l’Olocausto rimproverando al movimento sionista di aver collaborato con il regime di Hitler, ma in un libro del 2011 aveva affermato di non «non aver negato l’Olocausto».

Repubblica 28.4.14
Grossman: “Così finalmente hanno capito la nostra tragedia”
di Vanna Vannuccini


GERUSALEMME. DAVID Grossman, che effetto le hanno fatto le parole di Abu Mazen?
«Credo che la sua dichiarazione sia un passo molto positivo di comprensione per quello che gli ebrei hanno subito nella Shoah. I palestinesi non sono stati in grado di esprimerlo in passato, anche perché si sentivano loro stessi vittime delle vittime. Ed è necessario aver presente che non è possibile paragonare ciò che Israele compie nei Territori occupati con l’orrore della Shoah. Sono due dimensioni di malvagità totalmente differenti ed il paragone fra loro è sbagliato. Spero che questo consenta anche agli israeliani di capire l’essenza della tragedia dei palestinesi, anche se probabilmente questo è ancora più difficile, poiché si aggiungono sensi di colpa inevitabili, dovuti a ciò che noi abbiamo fatto loro».
Si parla sempre di due narrative inconciliabili, è stato fatto ora il primo passo?
«Riconoscere le sofferenze del popolo ebraico durante la Shoah è un passo molto importante nella comprensione della narrativa ebraica e israeliana. La prima fase di ogni processo di pace secondo me è che le due parti riescano identificarsi vicendevolmente con la sofferenza dell’altra parte, con quella di cui loro stessi sono responsabili e con quella che altri hanno inflitto all’altra parte. Solo se smetteremo di difenderci, a volte selvaggiamente, contro la sofferenza del nostro avversario saremo in grado di capire la narrativa dell’altro. Questa può non essere sempre in accordo con i fatti storici, ma ha una forza enorme nel fissare l’identità di un popolo e va rispettata».
Perciò la dichiarazione di Abu Mazen è un buon segno?
«La cosa più deprimente per me è vedere il livello di sfiducia, di sospetto e di odio esistenti fra Israele ed i palestinesi. Sembra che ogni volta che le parti arrivano a un bivio, entrambe prendano la direzione più distruttiva e più aggressiva possibile. Anche quando usano espressioni apparentemente moderate, è percepibile l’odio che le pervade. Per questo è molto preoccupante che Israele abbia deciso di interrompere i colloqui di pace. E per questo è bene che il presidente dell’Anp, nel giorno della Memoria della Shoah, abbia riconosciuto la dolore degli ebrei».
Che cosa pensa dell’accordo di Fatah con Hamas?
«Anche se Hamas viene considerata un’organizzazione terroristica, e di fatto spesso agisce come tale, penso che sia stato fatto un passo molto importante: la riunificazione di due parti di un popolo che le circostanze hanno separato. Se siamo interessati ad avere un giorno una pace stabile, essa deve includere il milione e mezzo di palestinesi che vivono nella striscia di Gaza. Per anni in Israele molti si opponevano alle trattative con Abu Mazen con il pretesto che non rappresenta tutto il popolo palestinese. Può darsi che ora vi sia una opportunità: molto piccola forse, ma che non possiamo tralasciare».
Non teme che Hamas sia un pericolo?
«Ieri ho sentito Abu Mazen dichiarare che il nuovo governo unitario sotto la sua guida riconoscerà Israele, si opporrà alla violenza e si impegnerà a rispettare tutti gli accordi internazionali firmati in passato da Al Fatah. Se sarà effettivamente così, può darsi che si crei davvero una situazione nuova. La reazione del governo israeliano è ancora una volta di paura e di rifiuto. Io vedo nella riunificazione palestinese piuttosto la possibilità di dare una spinta al processo politico fra i due popoli. È una sfida per Hamas, che dovrebbe dichiarare esplicitamente che cambia direzione e che rinuncia alla parte del proprio statuto in cui è invocata la distruzione di Israele. Però non nascondo di essere scettico sulla possibilità che l’accordo regga, e che Hamas e Al Fatah riescano veramente a mettersi d’accordo: perché Hamas dovrebbe cessare di essere Hamas. E non è facile credere che ciò possa succedere».
Che ruolo dovrebbero avere gli Stati Uniti e l’Europa?
«Vedo con dispiacere che anche a Washington hanno cominciato ad arrendersi. Quando Obama dice che forse gli israeliani ed i palestinesi non sono ancora pronti alla pace, vuol dire che gli Stati Uniti stanno convincendosi che non gli conviene investire sforzi e prestigio nella risoluzione di un problema così complesso da non far intravedere vie d’uscita. Ma nella realtà il vuoto non esiste: senza un accordo fra Israele ed i palestinesi tra poco la terra qui comincerà a bruciare. Sarà difficile impedire ai palestinesi di intraprendere azioni anche violente. E in un clima di violenza e frustrazione la voce che prenderà il sopravvento sarà quella bellicosa ed estremista di Hamas».

Corriere 28.4.14
La mossa di Abu Mazen che riconosce la Shoah non basta a riaprire il dialogo con Israele
di Antonio Ferrari


Il presidente palestinese Abu Mazen cercava da tempo l’occasione propizia per correggere definitivamente e con chiarezza la propria opinione sull’Olocausto, e soprattutto sulle sue proporzioni. Nel 2011, in un’intervista, aveva dichiarato, senza particolare enfasi, di non aver mai negato la Shoah, e di accettare che vi fossero stati sei milioni di morti. Tuttavia, che il leader sarebbe giunto a definire l’Olocausto come «il crimine più odioso contro l’umanità avvenuto nell’era moderna», manifestando «simpatia e solidarietà alle famiglie delle vittime innocenti uccise dai nazisti», era ritenuto abbastanza improbabile.
Anche chi lo ascoltava, cioè il rabbino americano Marc Schneier, che lo ha incontrato la settimana scorsa, è rimasto folgorato da quella dichiarazione «sentita e di cuore», come ha dichiarato il religioso al New York Times . Schneier, da tempo impegnato nel dialogo tra ebrei e musulmani, non è un sognatore ma un realista che non può certo essere accusato di ingenuità. Il problema ora è uno solo: capire quale sia stata la molla che ha spinto Abu Mazen alla clamorosa dichiarazione. Sì, perché di convinta retromarcia si tratta. E per un politico sperimentato come il presidente palestinese è difficile immaginare un pentimento improvviso: quasi una folgorazione sulla via di Ramallah.
Il retroscena è noto a molti. Quando Abu Mazen era uno studente universitario all’Università di Mosca, dove convergevano, agli albori dell’Olp, tutti i palestinesi a caccia di una laurea prestigiosa, non aveva esitato a presentare una tesi di dottorato su un argomento assai controverso. Sostenne infatti, con il conforto di qualche discutibile ricerca condotta da studiosi negazionisti, che i numeri dell’Olocausto (sei milioni di vittime, appunto) erano stati enormemente gonfiati. Tesi di dottorato ritenuta politicamente «corretta» dalla retorica araba e dai dirigenti sovietici dell’epoca, in odio allo Stato ebraico. Una tesi che Abu Mazen, nel 1983, quando il processo di pace doveva ancora cominciare, non aveva esitato a far pubblicare in un libro diffuso in tutta la regione, come la «verità» documentata da un colto studente che aveva fama d’essere un moderato.
Più volte, da quando ha accettato l’eredità di Yasser Arafat, l’attuale presidente palestinese ha cercato con prudenza di smarcarsi da quella scivolata: che ha rischiato, negli anni successivi, di appannare la sua immagine di uomo dialogante e di buon senso. Quando Ariel Sharon, il premier israeliano recentemente scomparso, considerava Abu Mazen un partner credibile, era pronto a glissare su quell’episodio imbarazzante, che molti suoi ministri gli ricordavano. Anche recentemente c’è chi, in Israele, ha sostenuto che il presidente dell’Anp «è il leader più antisemita del mondo». Ma adesso Abu Mazen cancella gli «incidenti» del suo passato accademico. Un’abiura per molti versi clamorosa.
La prima spiegazione è evidente. Avendo mandato l’altro giorno nella Striscia di Gaza i suoi emissari per firmare l’accordo che, teoricamente, dovrebbe sancire la fine delle ostilità inter-palestinesi fra i laici del Fatah (guidati appunto da Abu Mazen) e i fondamentalisti di Hamas, il leader vuole dimostrare ad Israele che è lui, e solo lui, a dettare la linea. Hamas non ha mai riconosciuto lo Stato ebraico. Anzi, non nega di volerlo distruggere, e ovviamente non riconosce gli orrori dell’Olocausto.
L’obiettivo prioritario del presidente, in questo momento, è quindi di spingere Hamas, che nella Striscia di Gaza non è più il gruppo più estremo dell’integralismo islamico, ad accettare gli accordi sottoscritti dell’Autorità nazionale palestinese, cioè il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla violenza. La sua speranza è legata alla volontà di rendere credibile e serio l’accordo raggiunto; e di dimostrare alla controparte israeliana d’aver prodotto una svolta strategica.
La reazione non certo positiva, anzi quasi sdegnata del premier Benjamin Netanyahu, dimostra però che l’attuale governo di Israele non crede possano maturare le condizioni per tornare al tavolo del negoziato. Netanyahu, in sostanza, dice: «Abu Mazen deve scegliere, o noi o Hamas», e pretende il riconoscimento di Israele come «Stato ebraico». Scelta comprensibile, che però i palestinesi, e gli arabi in generale, respingono: anche perché vorrebbe dire la progressiva espulsione dei cittadini arabi-israeliani, che rappresentato pur sempre il 20 per cento della popolazione del Paese.
Ma, a ben vedere, dietro alla dichiarazione sulla Shoah di Abu Mazen c’è soprattutto la volontà di coinvolgere ancor più la Casa Bianca, impegnata a rianimare un processo di pace agonizzante. Il presidente palestinese, che conta anche sulla prossima visita di papa Francesco in Terra Santa, ci spera. Ben sapendo che l’obiettivo è sempre nelle mani di tre soli protagonisti: Israele e quelle che fino a pochi giorni fa erano due Palestine. Due Palestine contrapposte che, se non cambiano davvero le cose, resteranno tali.

il manifesto 27.4.14
Abu Mazen: il governo con Hamas seguirà la mia linea
Il presidente palestinese prova a spegnere le polemiche con Netanyahu garantendo che il futuro esecutivo di consenso nazionale riconoscerà Israele
Allo stesso tempo ribadisce il non riconoscimento di Israele come "Stato ebraico"
di Michele Giorgio


«Il pros­simo governo osser­verà la mia linea poli­tica». Peren­to­rio, il pre­si­dente pale­sti­nese Abu Mazen ha con­fer­mato le anti­ci­pa­zioni di stampa cir­co­late prima della seduta più impor­tante, in que­sti ultimi anni, tenuta ieri a Ramal­lah dal Con­si­glio Cen­trale dell’Olp. Si è fatto garante di fronte a Israele e agli Stati Uniti che l’accordo di ricon­ci­lia­zione fir­mato mer­co­ledì dal suo par­tito, Fatah, con il movi­mento isla­mico Hamas rispet­terà le con­di­zioni poste dal Quar­tetto per il Medio Oriente (Usa, Rus­sia, Onu e Ue) per il rico­no­sci­mento di qual­siasi governo pale­sti­nese. «Rico­no­sco lo Stato di Israele, respingo la vio­lenza e il ter­ro­ri­smo, rispetto gli impe­gni inter­na­zio­nali», ha pro­cla­mato Abu Mazen in un discorso pale­se­mente volto a pla­care accuse e pole­mi­che sca­te­nate dal governo israe­liano per la “pace” tra Fatah e Hamas. Accuse mirate ad addos­sare ai pale­sti­nesi la respon­sa­bi­lità della fine dei nego­ziati bila­te­rali, in realtà già fal­liti da mesi a causa della corsa alla colo­niz­za­zione della Cisgior­da­nia pale­sti­nese e di Geru­sa­lemme Est, voluta pro­prio dal pre­mier Neta­nyahu e da alcuni dei suoi mini­stri, e per il man­cato rila­scio del quarto e ultimo gruppo di pri­gio­nieri pale­sti­nes, in car­cere da oltre 20 anni, sta­bi­lito lo scorso luglio.
Ieri sera si atten­de­vano le rea­zioni di Israele al discorso di Abu Mazen di fronte al Comi­tato Cen­trale dell’Olp. Con ogni pro­ba­bi­lità nega­tive. Per il pre­mier Neta­nyahu la ricon­ci­lia­zione tra Fatah e Hamas è una oppor­tu­nità troppo ghiotta per accu­sare Abu Mazen di essere “col­luso” con il “ter­ro­ri­smo”. E’ inim­ma­gi­na­bile un pre­mier israe­liano pronto ora ad acco­gliere le “garan­zie” del pre­si­dente dell’Olp e dell’Anp, dopo aver dichia­rato a gran voce che lui non accet­terà mai di nego­ziare con un governo pale­sti­nese che includa forze che «chie­dono la distru­zione di Israele». E poi Abu Mazen è stato molto chiaro nel riaf­fer­mare che i pale­sti­nesi non rico­no­sce­ranno Israele come “Stato ebraico”, come pre­tende Neta­nyahu. «Abbiamo già rico­no­sciuto l’esistenza dello Stato di Israele nel 1993», ha sot­to­li­neato ieri il pre­si­dente palestinese.
Di fronte alle ten­sioni tra Israele e Olp, è inte­res­sante la linea mor­bida adot­tata da Hamas. Bas­sem Naim, un diri­gente del movi­mento isla­mico e con­si­gliere del pre­mier di Gaza, Ismail Haniyeh, ha dato un giu­di­zio posi­tivo delle parole pro­nun­ciate 0a Ramal­lah di Abu Mazen. «Certo pos­siamo soste­nere solo le sue posi­zioni su Geru­sa­lemme, la ricon­ci­lia­zione, il man­cato rico­no­sci­mento dello Stato ebraico e l’ammissione del fal­li­mento dei nego­ziati. Ma i punti del suo discorso sono per lo più posi­tivi», ha spie­gato Naim. Ha aggiunto che Hamas vuole che la que­stione dei nego­ziati con Israele non sia affron­tata dal futuro governo ma dall’Olp, che rap­pre­senta tutti i pale­sti­nesi. «Il nuovo ese­cu­tivo – ha con­cluso Naim – avrà solo tre mis­sioni: uni­fi­care le varie forze pale­sti­nesi, pre­pa­rare le ele­zioni e rico­struire Gaza».
E’ rima­sto deluso chi si aspet­tava un movi­mento isla­mico pronto a riba­dire a voce alta il suo rifiuto di rico­no­scere Israele e gli accordi fir­mati in pas­sato, anche a costo di met­tere a rischio l’attuazione della ricon­ci­lia­zione con Fatah e la for­ma­zione del governo di “con­senso nazio­nale”. Hamas sta­volta non evi­den­zia le dif­fe­renze con Abu Mazen, pre­fe­ri­sce met­tere in rilievo i punti in comune. Per la sem­plice ragione che ha tre­men­da­mente biso­gno di tro­vare una via d’uscita all’isolamento poli­tico e diplo­ma­tico totale in cui è stato sca­ra­ven­tato dal golpe mili­tare in Egitto che lo scorso luglio ha depo­sto e sbat­tuto in car­cere l’alleato pre­si­dente isla­mi­sta Moham­med Morsi e fran­tu­mato il potere con­qui­stato (demo­cra­ti­ca­mente) dai Fra­telli Musul­mani. Senza dimen­ti­care la pres­sione enorme su Gaza e la sua popo­la­zione cau­sata dal blocco israeliano.
Nelle stesse ore in cui erano riu­niti i ver­tici dell’Olp, a Ramal­lah era pre­sente anche una dele­ga­zione di Sel, gui­data dal lea­der del par­tito Nichi Ven­dola. La dele­ga­zione — di cui fanno parte anche Gen­naro Migliore, Arturo Scotto e Fran­ce­sco Mar­tone — ha visi­tato la tomba di Yas­ser Ara­fat, ha incon­trato rap­pre­sen­tanti del Con­si­glio legi­sla­tivo pale­sti­nese e ha fatto visita all’attivista Fadwa Bar­ghouti, com­pa­gna del lea­der di Fatah Mar­wan Bar­ghouti dete­nuto in Israele dal 2002 e del quale una cam­pa­gna inter­na­zio­nale chiede la libe­ra­zione imme­diata. «Non se ne accorge nes­suno, non ne parla nessuno…In que­sti giorni rischia di fal­lire l’ennesimo round dei nego­ziati tra Israele e Pale­stina. Gli Stati Uniti stanno per get­tare la spu­gna, l’Europa è del tutto assente», ha scritto Ven­dola sulla sua pagina face­book pre­sen­tando la visita, che pre­vede diverse tappe anche in Israele.

Pagina 99 28.4.14
In Palestina la demolizione delle case demolisce la pace
Israele demolisce 61 volte il villaggio palestinese di al-Araqii e abitanti e pacifisti lo ricostruiscono
di Maurizio Lozzi

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Repubblica 28.4.14
Tra i miliziani filo-russi dell’Est “500 dollari al giorno per la guerra a Kiev”
Nel quartier generale di Sloviansk “Gli ispettori Osce sono prigionieri” Mimetica e volto coperto, la città è nelle loro mani sono reduci della grande Urss finanziati dagli oligarchi
di Renato Caprile


SLOVIANSK. ABITI civili, in apparenti buone condizioni fisiche, gli otto osservatori dell’Osce (i 4 tedeschi, il danese, il polacco, lo svedese e il ceco) da venerdì nelle mani dei ribelli filorussi di Sloviansk, insieme a quattro ufficiali ucraini di cui però si sono perse le tracce, sono stati ieri esibiti alla stampa internazionale con una specie di colpo di teatro. Manco a dirlo con la sapiente regia di Vlaceslav Ponomariov, il leader dei separatisti, l’uomo forte dei filo Putin oltre che il sindaco autoproclamatosi di questa cittadina di centomila abitanti dell’Est Ucraina che ha dichiarato guerra al potere di Kiev. «Come potete vedere - ha affermato con sarcasmo Ponomariov - non li abbiamo torturati, sono vivi e in buona salute, sono prigionieri di guerra però e non possono quindi essere liberati se non in cambio di nostri uomini attualmente detenuti nelle carceri
ucraine».
Messaggio chiarissimo. Il portavoce del gruppo degli otto, il colonnello tedesco, Axel Schneider, visibilmente non a proprio agio, lo contraddice solo in parte, definendosi un ospite e non un prigioniero anche se, deve ammettere, impossibilitato come tutti gli altri a tornarsene liberamente a casa.
Teatro di questa pièce a uso dei media internazionali il palazzo del Municipio, un anonimo parallelepipedo di cemento con i cecchini sul tetto e i sacchetti di sabbia all’ingresso come in ogni zona di “guerra” che si rispetti. Anche se nella brutta piazza su cui guarda il palazzo, piazza della Rivoluzione d’Ottobre con tanto di statua di Lenin, il clima è decisamente quello di una domenica di pace, con coppie che passeggiano e i ragazzi al bar a parlare di calcio. Sarà che oggi è festa, ma questa “rivoluzione” non sembra coinvolgere più di tanto le masse. È roba per pochi, un migliaio, al massimo duemila persone. Ex militari, reduci della guerra in Afghanistan per lo più, nostalgici della grande Urss, ingaggiati a 500 dollari al giorno, i capi, per girare in mimetica, armati di fucile e col volto coperto. «Ma quali soldi, io combatto per un’idea, contro i fascisti, contro Kievskaya kunta (il governo illegale di Kiev, ndr) », si inalbera Konstantin che certo non può ammettere ciò che ormai non è più un segreto: il tariffario della “rivolta”. 500 dollari per gli ufficiali, per gli uomini in verde, 200 per i “soldati”, 40, 50 per tutti gli altri, quelli che stanno ai posti di blocco armati solo di mazze. La regia, quella vera, è affidata a un pugno di russi che se ne stanno in disparte e che sono le vere menti dell’Operazione Secessione. Chi paga? Yanukovic, l’ex presidente, e soprattutto Renat Ahmetov, un patrimonio di 20 miliardi di dollari, il padrone di mezzo paese e di gran parte della regione di Donetsk, miniere, acciaierie, alberghi, squadre di calcio, amico personale di Putin oltre che grande elettore di Yanukovic. «Filo russo il grande Ahmetov? Direi più che altro filo se stesso - spiega Boris, giornalista d’assalto - è uno abituato a prendersi quello che vuole, che non paga le tasse, non tutte almeno, e che vuole continuare a fare il bello e il cattivo tempo. I numeri non mentono, il Donetsk versa solo sei miliardi di dollari all’erario, mentre ne riceve più del doppio. Se la regione si sgancia da Kiev, nessuno gli presenterà mai il conto».
Terra di miliardari il Donetsk, se Ahmetov si dice finanzi i filo russi, Igor Kolomoyskiy, governatore di Dnipropetrovsk, sembra opporvisi. E promette diecimila dollari a chiunque consegni, arresti, blocchi un russo con un fucile. E solo 1000 a chi metta le manette a un ucraino armato di kalashnikov. «Ahmetov e Kolomoyskiy sono due facce della stessa medaglia - continua Boris - l’intramontabile gioco della parti. Renat finanzia i filorussi, Igor scuce quattrini per dimostrare che qui non ci sono russi come dice Putin. Nella peggiore delle ipotesi gli costerà qualcosa ma si sarà comunque ingraziato il futuro presidente per poter continuare a fare business senza troppe regole anche quando tutto questo sarà finito». Comune, sede della Cbu, i servizi di sicurezza ucraini, le stazioni di polizia, tutto sembra essere sotto il controllo dei ribelli nell’apparente indifferenza dei più. Che forse non applaudono, ma certo non sono contrari. Sulla carta un blitz per liberare Sloviansk potrebbe essere un gioco da ragazzi, ma quel che è certo e che politicamente sarebbe un disastro. Ecco perché le forze di sicurezza ucraine che si dice assedino la città ribelle, se ne stanno invece a debita distanza, a una cinquantina di chilometri almeno tra Sloviansk e Artemivsk, Con l’obiettivo, si dice, quantomeno di impedire che arrivino nuove armi ai ribelli.

La Stampa 28.4.14
Gran Bretagna, gli euroscettici diventano il primo partito
Secondo i sondaggi pubblicati dal Sunday Times l’Ukip di Nigel Farage conquisterebbe il 31% delle preferenze degli inglesi

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Repubblica 28.4.14
Bye - bye baby
La diminuzione delle nascite non fa più distinzioni fra Nord e Sud o Est e Ovest del mondo: è diventata universale
Una svolta epocale che, secondo due esperti americani, è solo positiva. Perché è associata a maggiori diritti e opportunità per le donne. E con effetti decisivi per uno sviluppo più sostenibile
di Federico Rampini


NEW YORK. “BYE - Bye, Baby”, addio bambino. Sembra il classico titolo che preannuncia una lamentazione allarmistica sul crollo della natalità. Al contrario, è il “manifesto ottimista” di due esperti di storia della demografia che esaltano il declino delle nascite. Un fenomeno, ci avvertono, che non è più solo dei paesi ricchi ma sta dilagando in molte nazioni emergenti. Michael Teitelbaum di Harvard e Jay Winter di Yale, sono gli autori di questo studio intitolato The Global Spread of Fertility Decline , cioè la diffusione globale del calo di fertilità. La prima sorpresa è proprio questa. Siamo abituati alle geremiadi catastrofiste sugli effetti della caduta della popolazione in Occidente: spesso associati con un declino economico e un’invasione degli “altri”, gli immigrati che provengono da paesi ad alta crescita demografica. Contrordine. Quello scenario è datato, superato dai fatti. La diminuzione delle nascite non fa più distinzioni Nord-Sud né Est-Ovest. Colpisce il Brasile e l’Iran così come la vecchia Europa occidentale (dove, anzi, c’è qualche paese in controtendenza).
L’elenco che fanno Teitelbaum e Winter dei paesi che si stanno unendo a noi nel trend della denatalità, spazia dal Bhutan a El Salvador, dall’Armenia al Qatar. La metà dei cittadini del pianeta oggi abita in nazioni dove in media le donne hanno due figli a testa o ancora meno: cioè al di sotto di quella soglia che garantisce la stabilità della popolazione ai livelli attuali. Restano delle eccezioni importanti, sono concentrate prevalentemente nell’Africa subsahariana, dove cinque paesi hanno ancora dei tassi di natalità di sei figli per donna. Ma il trend sta scendendo dappertutto, «è universale, non dipende soltanto dalla prosperità economica o dalla secolarizzazione », scrivono i due esperti. La nazione più popolosa del mondo, la Cina, ha toccato nel 2012 il picco massimo in termini di forza lavoro attiva e da allora è iniziata la sua lenta decrescita. Non mancano neanche in Cina gli allarmisti, preoccupati che la Repubblica Popolare «diventi vecchia prima di diventare ricca».
Questi allarmi non sono affatto nuovi. I due storici-demografici ricordano che le profezie di sventura legate all’andamento delle nascite ci accompagnano da secoli. Oscillando da un estremo all’altro. L’economista Malthus fu il capostipite dei catastrofisti per la “troppa” natalità, che avrebbe esercitato un peso insostenibile sulle risorse naturali (terre agricole). Fu seguito da una lunga scia di discepoli, autori di best-seller come Paul Ehrlich che nel 1968 divulgò scenari apocalittici ne “La bomba demografica”. Sul fronte avverso, i teorici del tramonto dell’Occidente si appoggiarono anche loro sulle tendenze demografiche. All’inizio del secolo scorso il presidente americano Theodore Roosevelt ammonì sul rischio di un “suicidio razziale degli anglo-sassoni” di fronte all’avanzata di altri popoli ben più prolifici. Una letteratura sconfinata ha generato visioni cupe, di un futuro dove gli occidentali saranno sommersi dalle ondate migratorie in provenienza dai paesi dove non si pratica controllo delle nascite. Tra gli apocalittici recenti figurano un ideologo della destra americana come Jonathan Last, un geostratega come Steven Philip Kramer, perfino il settimanale The Economist che ha pubblicato diversi studi sul “Giappone che svanisce”, additato come il caso-limite dei danni della denatalità. Ma dobbiamo aggiornare le nostre informazioni. Teitelbaum e Winter ci avvertono, per esempio, che il famoso spopolamento della Russia è già un fenomeno superato. Fu legato al crollo delle nascite che coincise con i primi anni post-sovietici, nonché con l’alta mortalità dei maschi adulti decimati dall’alcolismo. Entrambe le tendenze si stanno attenuando, le donne russe cominciano ad avere più figli, e la mortalità si riduce. Gli Stati Uniti sono un caso interessante di equilibrio demografico: grazie non soltanto all’immigrazione, ma soprattutto alla natalità più elevata delle minoranze etniche già integrate nella società americana. Francia e Svezia sono due nazioni della Vecchia Europa dove i giusti incentivi e sostegni alle famiglie e alle donne che lavorano, hanno fatto risalire moderatamente la natalità.
I due esperti americani non vogliono sottovalutare l’importanza degli assestamenti, anzi sottolineano che «l’umanità intera è di fronte a una sorta di cambiamento geologico, come nell’èra glaciale», e proprio per questo non dobbiamo “fraintenderlo”. Guai a non vederne gli aspetti positivi «di fronte alle minacce del cambiamento climatico» che richiedono uno sviluppo più sostenibile. La riduzione delle nascite è «nel mondo intero, associata con più diritti e più opportunità per le donne». Per i bambini, anche: «in India un calo delle nascite significa poter finalmente concentrare le risorse su un’istruzione di qualità; lo Stato indiano del Kerala che ha un tasso di nascite inferiore ha anche uno sviluppo più avanzato». La Cina grazie al calo delle nascite può riconvertirsi: da un’economia fondata sullo sfruttamento della manodopera abbondante e sottopagata, verso produzioni più qualificate e salari migliori. Soprattutto è positivo il cambiamento nell’emisfero Sud del pianeta: «Messico, Filippine, Bangladesh, dovevano incoraggiare l’emigrazione come risposta ai loro problemi » di sovrappopolazione, ora la riduzione delle nascite consente di governare meglio anche i grandi flussi migratori.

Corriere 28.4.14
Suv di lusso, crossover e coupé
In Cina il Salone è un supermarket
De Meo: «Un mercato che entro il 2020 varrà 20 milioni»

di Alessandro Marchetti

PECHINO — In Cina un Salone dell’auto è come il silk market, uno di quei mercati dove entri e trovi di tutto. A patto di arrivarci. Meglio in metropolitana (biglietto 2 yuan, 22 centesimi di euro) per non correre il rischio di rimanere bloccati nel traffico e camminare a piedi per chilometri. È quanto può accadere a Pechino per l’Auto China 2014 (fino a martedì), preso d’assalto già nelle prime ore della giornata d’apertura da una folla di giornalisti, famiglie con bambini, militari e star come David Beckham. Non poteva essere altrimenti: il mercato vale 17,9 milioni auto l’anno ed è destinato «a superare i 20 milioni entro il 2020», stima Luca De Meo, l’italiano membro del board Audi con la responsabilità del marketing e delle vendite.
Protagonisti, suv e crossover. Se il più venduto è un prodotto locale, la famiglia Haval di Great Wall , a Pechino l’attenzione è tutta per le Case di lusso: «La quota dei suv in Cina nei prossimi anni passerà dal 33% al 40», prevede De Meo.
Tutti in fila al supermercato cinese. A cominciare da Lexus, con il nuovo crossover NX , auto di rottura per i giapponesi: «Puntiamo su un design più emozionale e dinamico rispetto al passato», parola di Mark Templin, vicepresidente Lexus. Il nuovo NX è sviluppato sulla piattaforma modificata della CT (per dimensioni ricorda piuttosto la Toyota Rav4), in Italia arriverà a settembre solo in versione ibrida da 194 cavalli, a 2 o 4 ruote motrici. La DS (in Cina è marchio separato da Citroën) punta a sua volta sul suv 6WR , in arrivo a fine anno solo sul mercato cinese, e punta al 10% del segmento premium.
Suv e crossover sembrano conquistare anche nuove forme. Magari quelle che meno ti aspetti dell’Audi TT Offroad concept: «A differenza dei suv di nicchia visti finora, potrebbe diventare un vero prodotto globale», spiega De Meo. Per intenderci come una Range Rover Evoque, anche se la produzione di serie per ora non è scontata: «Aspettiamo di vedere la reazione del pubblico».
A Pechino, anche le coupé sembrano trasformarsi in suv: «Le vendite finora dicono il contrario, ma i cinesi hanno una grande passione per le coupé», sostiene Dieter Zetsche, numero 1 della Mercedes, deciso a lanciare nel 2015 l’ML Coupé , anticipato in Cina dal Suv Coupé Concept . Una passione su cui punta anche Bmw con la X4 , arrivata dal New York Auto Show insieme alla nuova Land Rover Discovery Sport (2015).
A far da cornice, altri crossover come Hyundai ix25 e la versione speciale «Zi You Xia» di Jeep Renegade e soprattutto tante berline: il ritorno della Ford Escort (solo in Cina), i concept Bmw Vision Future Luxury (la nuova Serie 9), Honda B , Nissan Lannia e Volkswagen NCM (la futura Jetta coupé), insieme a un’offerta infinita di «tre volumi» delle Case locali. Il divario, rispetto all’industria straniera, resta evidente, in particolare per motori e dettagli costruttivi. La conferma arriva da Lahouari Bennaoum, direttore della partnership Dongfeng-Citroën: «Il livello di qualità delle Case indipendenti, non legate a costruttori stranieri, è ancora basso e si salvano solo alcuni suv Great Wall». Insieme a Qoros , l’unica Casa cinese (meglio: cino-israeliana) ad aver ottenuto 5 stelle euroNCAP: «In Cina, per una ricerca indipendente la nostra berlina Qoros 3 è considerata in termini di qualità alla pari delle Volkswagen», dichiara Stefano Villanti, a capo del marketing e vendite Qoros. Un’altra auto cinese è già possibile.

Repubblica 28.4.14
I diritti sociali e la politica. Il nuovo saggio del filosofo Jürgen Habermas
Quell’idea solidale scomparsa in Europa
di Jürgen Habermas



Le offese alla solidarietà civica suscitano indignazione: fa rabbia, tanto per dire, l’evasore fiscale, quando si sottrae ai suoi obblighi verso la comunità politica pur continuando tranquillamente a goderne i vantaggi. Certo, l’evasione fiscale è anche una infrazione al diritto vigente. Sennonché, nella indignazione che colpisce il profittatore si esprime anche una delusa aspettativa-di-solidarietà.
Quella che si manifesta nel disprezzo per tutti i Depardieu evasori di questo mondo, i quali si sottraggono al fisco trasferendo all’estero, del tutto legalmente, la loro residenza o la loro industria.
Nella storia dello Stato sociale abbiamo visto come le aspettative di solidarietà possano trasformarsi in pretese giuridiche. Anche oggi è una questione di solidarietà, non di diritto, stabilire con quanta «diseguaglianza » i cittadini di una nazione benestante vogliano continuare a vivere. Non è lo Stato di diritto che può frenare il numero crescente dei giovani senza lavoro, dei disoccupati e dei
sotto-occupati, degli anziani con una pensione da fame, delle mamme che allevano da sole i bambini e dipendono dalla pubblica assistenza. Solo la politica di un legislatore che sia sensibile alle pretese normative di una cittadinanza democratica può trasformare le richieste di solidarietà dei marginalizzati (o dei loro avvocati) in veri e propri diritti sociali.
A prescindere dalla differenza tra solidarietà, da un lato, e diritto e morale, dall’altro, esiste pur sempre uno stretto nesso concettuale tra «giustizia politica » e «solidarietà». In Portogallo, nel passaggio tra il 2012 e il 2013, il presidente conservatore Aníbal Cavaco Silva chiese alla Corte costituzionale di prendere in esame il bilancio di austerità che la maggioranza di governo (a lui politicamente affine) aveva appena licenziato, in quanto non gli parevano accettabili - nel senso della giustizia politica - le conseguenze sociali del programma imposto dai creditori (in particolare, l’aggravio unilaterale su funzionari e impiegati statali, pensionati e socialmente assistiti). Così facendo, il presidente tradusse nel linguaggio della giustizia politica quei disordini, e quelle proteste di strada, che nei paesi più colpiti dalla crisi chiedono solidarietà sia alle élites del paese sia ai cosiddetti paesi donatori. (...) A differenza di ciò che accade per la «eticità» - la «solidarietà » ha per oggetto un contesto- di-vita non tanto derivato dal passato, quanto piuttosto da organizzare politicamente per il futuro. Nell’applicarsi alla struttura politica, questa componente semantica di «impegno attivo» diventa evidente quando si passi - nell’analisi dei concetti - dal piano astrattamente analitico a una considerazione storica dello sviluppo delle idee. È strano, ma il concetto di solidarietà compare molto tardi nella storia, soltanto in età recente, laddove già negli antichi imperi, dunque a partire dal 3000 avanti Cristo, si discuteva abitualmente di diritto e di giusto/ ingiusto. Certo, il termine solidarietà si trova già nel diritto romano (nel diritto penale riguardante i debiti). Ma solo a partire dalla Rivoluzione francese del 1789 assume un significato politico, in realtà collegandosi inizialmente alla parola d’ordine «fraternità». Come motto di battaglia, la fraternité deriva dalla generalizzazione umanistica di una coscienza nata dalle religioni mondiali: risale cioè a quell’esperienza (allargante le prospettive) per cui la propria comunità locale veniva vissuta come parte di un’universale comunità di tutti i credenti. È questo lo sfondo dell’idea di fraternità: un’idea derivata dalla secolarizzazione umanistica di un concetto religioso. (...) Il concetto di solidarietà nasce da una situazione storica particolare: i rivoluzionari lo rivendicavano nel senso di recuperare e ricostruire quei tradizionali rapporti di fiducia internamente svuotati dagli invasivi processi della modernizzazione. Il socialismo primitivo degli artigiani, espulsi dalle loro botteghe, ricavava in parte le sue energie utopistiche dai ricordi - nostalgicamente trasfigurati - di un mondo corporativo che appariva paternalisticamente schermato. (...) Il contrasto di classe, nel capitalismo industriale, è stato istituzionalizzato soltanto nel quadro degli Stati nazionali democraticamente costituiti. Gli Stati nazionali europei - che hanno assunto la forma attuale di «Stati sociali» solo dopo aver attraversato due disastrose guerre mondiali - sono oggi scivolati nuovamente, per via della globalizzazione economica, sotto la pressione esplosiva di interdipendenze che, economicamente generate, se ne infischiano delle vecchie frontiere nazionali. Ancora una volta sono costrizioni sistemiche quelle che fanno saltare i vecchi rapporti di solidarietà e che obbligano a ricostruire le forme statalmente frazionate dell’integrazione politica. Questa volta le contingenze sistemiche di un capitalismo politicamente ingovernato, spinto avanti dallo scatenamento dei mercati finanziari, si concentrano minacciose generando tensioni tra gli Stati dell’eurozona. Da questa prospettiva storica le aspettative di solidarietà espresse da Konstantinos Simitis (ex premier greco ed ex leader del Pasok, n. d. r.) ricavano una loro legittimità.
Egli punta esplicitamente il dito sulla rete delle vecchie interdipendenze, che chiedono ora d’essere incanalate in una ricostruzione dell’integrazione politica a partire dal punto di vista normativo di un equo bilanciamento dei vantaggi/svantaggi degli Stati membri. Per salvare l’Unione monetaria non è più sufficiente - di fronte alle differenze strutturali delle economie nazionali - concedere crediti agli Stati indebitati, sperando che ognuno di loro riesca da solo ad aumentare la competitività. Occorre invece uno sforzo cooperativo che - intrapreso da una prospettiva politica condivisa - incrementi crescita e competitività di tutta l’eurozona. Uno sforzo di questo genere non può evitare di chiedere alla Germania federale di farsi carico - sul breve e medio periodo - di effetti redistributivi di tipo negativo. Si tratterebbe di un caso esemplare di solidarietà politica nel senso che abbiamo illustrato.

Corriere 28.4.14
Nietzsche discendente di Lutero: i sentieri della crisi spirituale europea
Sossio Giametta completa una trilogia sul tema dell’essenzialismo in un dialogo sempre aperto con i più autorevoli nomi del pensiero critico
di Raffaele La Capria


Provavo un certo imbarazzo a scrivere di questo libro Cortocircuiti (Mursia), che completa una trilogia iniziata con Il bue squartato e altri macelli (Mursia, 2012) e con L’oro prezioso dell’essere (Mursia, 2013), perché avevo già parlato in un mio scritto de Il volo di Icaro (Il Prato, 2009) di cui Cortocircuiti è una riedizione riveduta e ampliata, e costituisce il terzo volume della trilogia dedicata all’«essenzialismo», che è appunto l’argomento centrale del pensiero di Sossio Giametta.
Ma ho dovuto constatare che i capitoli aggiunti per ampliare I l volo di Icaro fanno di Cortocircuiti non solo un libro diverso, ma fanno capire che i libri crescono dentro di noi, se sono davvero espressione di qualcosa che urge, ovvero se sono un seme gettato nel terreno della nostra coscienza. Crescono e in questo terreno mettono radici, si diramano, e a conti fatti, se lo sviluppo che assumono nasce da una vera necessità interiore, ci rivelano a noi stessi diversi da quel che eravamo. Siamo cresciuti e il libro è cresciuto con noi.
Così Cortocircuiti ci rivela un nuovo Sossio Giametta, diverso da quello che avevamo conosciuto prima. In che cosa nuovo? Di nuovo c’è che la conversazione da sempre aperta da Giametta con i suoi amati, studiati e tradotti grandi interlocutori, Nietzsche, Schopenhauer, Spinoza, Goethe, continua e si arricchisce di nuovi spunti.
Il tono è sempre confidenziale, come quello di amici che si conoscono da tempo, confidenziale ma anche risoluto, perché Giametta non è uno che ammorbidisce le sue argomentazioni quando lo muove il desiderio di conoscenza, che in lui viene prima di tutto. La semplicità della sua scrittura, la profonda claritas unita alla gravitas classica, nasce anche dal suo atteggiamento dovuto alla convinzione che «la filosofia è fatta per risolvere i problemi e non per crearli». Quando li crea invece che risolverli, diventa artificio e arzigogolo, chiacchiera filosofeggiante oggi alla moda.
Giametta in questo suo ultimo libro fa una distinzione tra essenzialismo, punto centrale del suo pensiero, e condizioni di esistenza. Il primo è una realtà essenziale «che riempie tutti gli spazi», che comprende ed è all’origine di ciò che chiamiamo vita, questa realtà essenziale è divina, è «vita della vita» come scriveva Giordano Bruno, è Natura che ogni cosa avvolge. Le condizioni di esistenza sono ad essa subordinate, subordinate alle leggi dell’organismo universale, ma non ne fanno parte, non fanno parte della realtà essenziale, costrette come sono a lottare continuamente contro il caos, per affermarsi.
Tutto questo, non avendo io una mentalità filosofica e avendo anche difficoltà a usare il linguaggio della filosofia, lo capisco per intuizione, anzi direi per suggestione, perché nel pensiero di Giametta c’è sempre qualcosa che esce dall’ambito stretto del linguaggio specialistico e c’è sempre una tensione poetica, ed è quella che mi raggiunge.
A chi vuol avere un’idea più chiara del libro e di che cosa sia l’essenzialismo, suggerisco di leggere la «nota esplicativa», uno dei quattro pezzi aggiunti che fanno di Cortocircuiti un libro indispensabile per chi voglia conoscere la filosofia di Sossio Giametta. Anche il capitolo «La crisi della religione» affronta e chiarisce un tema cruciale, che comporta ancora una volta il rapporto con Friedrich Nietzsche, visto sotto l’aspetto religioso che lo affianca a Martin Lutero.

Corriere 28.4.14
Il rimpianto di Metternich «Nato nell’epoca sbagliata»
Uno statista sorpassato dall’avvento della modernità
di Paolo Mieli


A fine giugno del 1813 il quarantaquattrenne Napoleone Bonaparte e il quarantenne Klemens Wenzel Lothar von Metternich ebbero a Dresda un lungo incontro che ha da sempre affascinato i biografi di entrambi i personaggi. L’imperatore era reduce dalla disastrosa campagna di Russia, ma anche da qualche successo in Sassonia, dove in maggio aveva inflitto ripetute sconfitte agli eserciti prussiano e russo: a Weissenfeld, Lützen, Bautzen, Wurschen. Metternich, ministro degli Esteri dell’impero asburgico, era lì per offrirgli la sua mediazione. Ed è questo lungo colloquio che fa da cardine narrativo al magistrale Metternich di Luigi Mascilli Migliorini, che l’editrice Salerno sta per dare alle stampe. Non era la prima occasione in cui i due si parlavano a tu per tu. Ma fu solo stavolta che il confronto ebbe caratteri definitivi.
«Che cosa si vuole da me?», proruppe il Bonaparte secondo la testimonianza dello stesso Metternich, «Che io mi disonori? Mai! Morirò, ma non cederò un pollice di territorio. I vostri sovrani, nati sul trono, possono battersi venti volte e rientrare sempre nelle loro capitali; io no, perché sono un soldato arrivato. Il mio dominio non mi sopravvivrà dal giorno in cui avrò cessato d’essere potente e quindi temuto». Era probabilmente un «errore psicologico», dal momento che, come ha osservato Jean Tulard nel suo Napoleone (Rusconi), «la Francia, stanca della guerra, avrebbe accettato la restituzione delle province illiriche e l’abbandono della causa polacca». Fu uno sbaglio — sempre secondo Tulard — anche pensare che Vienna sarebbe restata neutrale nell’imminente conflitto, perché significava non tener conto delle pressioni britanniche, di un Paese cioè il cui aiuto economico era indispensabile, sull’Austria. Di lì a breve (in ottobre), l’imperatore corso, tornato in battaglia, sarebbe stato sconfitto a Lipsia e, all’inizio dell’anno successivo, si sarebbe visto costretto ad abdicare. Metternich, nel contempo, sarebbe stato premiato con l’elevazione, da parte dell’imperatore austriaco Francesco I, al rango di principe.
Quel «principe» era nato nel 1773 a Coblenza da una famiglia aristocratica. La sua è una tipica educazione renana, parla correntemente sia il tedesco che il francese e ha, in comune con Napoleone, una sconfinata ammirazione per Jean-Jacques Rousseau. Studia a Strasburgo negli anni della Rivoluzione francese e prova sgomento per il saccheggio dell’Hotel de Ville: il popolo rivoluzionario gli appare come «plebaglia infuriata». Suggestiva gli era sembrata, invece, l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo II, alla quale aveva presenziato, nel 1790, a Francoforte, in compagnia del padre: uno degli spettacoli «più grandiosi e magnifici» ai quali aveva assistito nel corso della sua vita. Fu sempre al seguito del padre che conobbe Napoleone. I due, Napoleone e Metternich, si incontrarono al Congresso di Rastadt (novembre 1797), che aveva fatto seguito al trattato di Campoformio, successivo alla sconfitta austriaca.
A quei tempi il generale corso, mandato in Italia dal Direttorio, aveva 28 anni e Klemens 24. Franz Georg Metternich, il padre, era lì come plenipotenziario dell’imperatore e appariva al figlio come un’incarnazione dell’Antico Regime. Regime che opponeva qualcosa di sostanzialmente inadeguato a quei francesi «ribaldi dalle scarpe rozze», vestiti di «grossi pantaloni blu», «giacchette di ogni colore», «orribili fazzoletti di cotone intorno al collo», «grandi cappelli con un’enorme piuma rossa che li incorona», «capelli lunghi, neri e sporchi». Ma il giovane Metternich, pur con tutto il suo bagaglio di convinzioni legittimiste, è, secondo Mascilli Migliorini, «più vicino ai suoi coetanei di oltre Reno di quanto non lo sia alla diplomazia che circonda il padre e, come tale, molto più capace di intendere quel nuovo, sconvolgente rapporto tra forza e legittimità che appartiene assai ai suoi sfrontati avversari e assai meno al proprio mondo d’origine».
Quello che si consuma a Rastadt tra Metternich e il suo pur apprezzato mondo d’appartenenza è una sorta di «congedo generazionale». Importante perché, come ogni congedo di questo tipo, trasforma, anche nel caso in questione, un tendenziale «parricidio» in «una complessa elaborazione di rotture e riconoscimenti di continuità». Elaborazione che si realizza «in una dimensione privata e pubblica insieme, la quale viene esaltata dall’avere, sotto entrambi gli aspetti, lo stesso teatro di svolgimento». Per gradi il giovane Metternich «si sostituisce al padre nella gestione di quegli affari di famiglia che sono, per chi come loro ha beni collocati sulla riva sinistra del Reno, l’oggetto da seguire con attenzione nello svolgimento della partita diplomatica che ha il suo punto chiave, appunto, negli indennizzi dei territori dell’Impero ceduti alla Francia». Allo stesso modo «quella partita diplomatica trova il figlio sostanzialmente distante, per le modalità in cui essa avviene e per gli obiettivi che si propone, dalla impostazione che il padre, e con lui il governo di Vienna, danno alle trattative del Congresso». Il giovane Klemens «si accorge con prontezza (forse anche perché coinvolto in prima persona) dello scatenarsi di piccole rivalità, di minuscoli interessi tra i principi tedeschi minacciati dalla spoliazione o dalla secolarizzazione dei loro beni e, soprattutto, avverte sin dall’inizio la distanza enorme che separa Vienna, inconsapevole e poco informata, dalle dinamiche grandi e piccole dei frammenti di un Impero al suo naufragio». E «sembra trovare un irresistibile punto di riferimento in quel ventottenne generale nemico che, nella sua rapida apparizione… già si mostra come l’esecutore testamentario del vecchio Impero».
Nei primi dieci anni dell’Ottocento la carriera politica del giovane Metternich prenderà poi il volo. Dapprima ambasciatore a Dresda (1801), poi a Berlino (1803). Sono momenti duri per il suo Paese, sconfitto da Napoleone ad Austerlitz (1805). Ma felici per Metternich, che in quello stesso anno sposerà Eleonora, nipote del grande cancelliere di Maria Teresa d’Austria, Wenzel Anton von Kaunitz. Dopo quelle nozze, Metternich avrà l’incarico di ambasciatore a Parigi (1806), a seguito di una spregiudicata manovra dell’uomo destinato ad essere un suo importante interlocutore: il ministro degli Esteri francese Charles-Maurice Talleyrand-Périgord. «È lì, nel luogo di tanti crimini e di tanti orrori… che ebbe inizio la mia vita pubblica», scriverà anni dopo Metternich, mettendo in luce come da quell’istante tutto poteva accadere e il suo destino avrebbe potuto riservargli un posto «o molto in alto o molto in basso». Ed è nei panni di ambasciatore a Parigi che il 10 agosto del 1806 incontra nuovamente Napoleone, stavolta, come in quelle successive, a tu per tu.
È impressionato, il diplomatico austriaco, dalla «velocità» dell’imperatore che promette e mantiene, promette nuovamente e mantiene nuovamente. Soprattutto in campo militare, laddove lasciando Parigi orfana per quasi un anno, il Bonaparte riesce a sconfiggere in modi fulminei sia la Russia che la Prussia. Ma Metternich avverte anche che qualcosa comincia a scricchiolare tra le persone comuni. Scopre che l’opinione pubblica francese «è assai meno sedotta dalla gloria delle vittorie napoleoniche, di quanto da lontano si sarebbe potuto credere (e si credeva)». Napoleone ai suoi occhi è condannato «a non fermarsi mai», il suo gli appare come «un esercizio della forza in perenne movimento». Mentre il continente, a suo giudizio, manifesta l’esigenza di una politica stabilizzatrice di quiete. «Lo stato attuale delle cose in Europa», scrive, «porta in sé i propri germi di distruzione, e la saggezza del nostro governo deve farci arrivare al giorno in cui trecentomila uomini riuniti, sorretti dalla medesima volontà e diretti verso uno scopo comune, giocheranno il ruolo principale». Il ruolo di chi riporta l’ordine «in un momento di anarchia universale, in una di quelle epoche che fanno sempre seguito a grandi usurpazioni e cancellano persino le tracce dei conquistatori». È ora — intuisce Metternich — di por fine alla stagione della forza in movimento. E all’occorrenza, riserva giudizi spietati anche contro il «delirio guerriero che si è impadronito della famiglia dell’imperatore d’Austria».
Nel 1809 è nominato ministro degli Esteri e, con un’abilità davvero meritevole d’encomio, organizza per l’anno successivo il colpo di scena che avrebbe dovuto suggellare la concretizzazione della sua visione del mondo: il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa, figlia dell’imperatore austriaco. Anche nel precedente regime, quarant’anni prima, il futuro Luigi XVI aveva sposato (nel 1770) Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Austria. Ma a quei tempi l’alleanza matrimoniale si concretizzava dopo quella politica, cioè a quattordici anni dal trattato del 1756 tra la Francia borbonica e l’Austria asburgica. Adesso invece Metternich era riuscito in un lampo a dissuadere Napoleone, che appariva come un vincitore assoluto, dall’andare a nozze con la sorella dello zar Alessandro. Matrimonio che avrebbe stabilito un’alleanza tra Francia e Russia e avrebbe reso definitivi i termini della pace di Tilsit, ottenuta dopo che Napoleone aveva sconfitto i russi a Eylau (1807). Quello sposalizio con Maria Luisa fu perciò un vero capolavoro politico. Anche perché, come già mise in luce Albert Sorel nell’Ottocento, il risultato del matrimonio tra Napoleone e Maria Luisa «fu di riavvicinare all’Austria una Russia che da quell’avvenimento traeva la convinzione della definitiva rottura dell’alleanza di Tilsit, intravedendo come ormai inevitabile una guerra con la Francia; e cercava, di conseguenza, in un buon vicinato con Vienna, di ridurre la forza degli eventuali avversari». Quel matrimonio tra Napoleone e la figlia dell’imperatore d’Austria è a tal punto «suo» che Metternich, da ministro degli Esteri, si trasferisce per quasi un anno a Parigi, così da aver le mani libere per accudire lo sposo e cercare, in qualche modo, di indirizzarne la politica.
In quei mesi del 1810, però, Metternich, scrive Mascilli Migliorini, «acquisisce la certezza che il matrimonio non ha regalato all’Austria una condizione sia pur vagamente paritaria rispetto alla Francia napoleonica nella progettazione di un nuovo equilibrio europeo: non c’è speranza di alleanza sufficientemente egualitaria nella cornice di un’Europa sufficientemente stabilizzata». Anzi, per dirla in modo più preciso, «Metternich avverte allora in maniera pressoché definitiva che l’unica forma di equilibrio e di stabilità possibile è l’egemonia francese sul continente: un disegno di cui egli non può condividere né l’ispirazione originaria (una egemonia appunto), né i termini ideali e sociali di svolgimento (la rivoluzione) né il ruolo (di comprimario subalterno o addirittura di esecutore) riservato all’Austria e alla sua dinastia».
E infatti Napoleone, come da previsione di Metternich, riprenderà la via delle armi e dell’avventura, che lo condurrà alla rovinosa campagna di Russia (1812). E non si darà quiete neanche dopo la disastrosa ritirata di cui resterà simbolo, a fine novembre 1812, la sconfitta della Beresina. A questo punto Metternich lo incontra il 26 giugno 1813 a Dresda, nel colloquio (voluto da Bonaparte) di cui si è detto all’inizio. In piedi al centro del suo studio nel Palazzo Marcolini, Napoleone riceve l’ospite con il cappello sotto il braccio. «Quel cappello che decine e decine di immagini sparse in tutta Europa hanno ormai reso celebre», racconta Mascilli Migliorini, «volerà nella sala almeno quattro volte nel corso di una conversazione che durerà nove ore e sembrerà fermarsi solo quando il buio della notte obbligherà i due interlocutori ad abbandonare una stanza diventata nel frattempo scura perché nessuno in quelle ore ha osato entrarvi». Metternich gli propone delle soluzioni che comportano qualche passo indietro, ma che gli consentirebbero di cavalcare il difficile frangente. Lui, però, accetterà esclusivamente soluzioni di breve momento, di quelle che «parlano il linguaggio della saggezza diplomatica che si dà ancora qualche tempo per assecondare le forme e assestare le forze in campo». Accomiatandosi, Metternich, che ha ben compreso il senso di quel che gli ha detto Napoleone, gli risponderà con parole durissime: «Voi siete perduto, sire. Ne avevo il presentimento venendo qui; ora che me ne vado, ne ho la certezza». I fatti gli daranno ragione.
Per l’imperatore corso, che nel frattempo ha avuto un erede maschio dalla figlia dell’imperatore austriaco, sarà la decisiva sconfitta di Lipsia (ottobre 1813). Dopodiché, con grande finezza politica, Metternich si muoverà «cercando di evitare il crollo troppo rapido e rovinoso dell’Impero napoleonico e pensando, semmai, che la soluzione più vantaggiosa potrebbe alla fine trovarsi in un’abdicazione a vantaggio del figlio e una reggenza della madre (che è pur sempre un’Asburgo!)». Ma Napoleone non desiste, viene sconfitto, mandato all’Elba (1814), torna ed è, per lui, la disfatta definitiva di Waterloo (1815). Per Metternich è il momento di una vittoria «troppo piena», nel senso che non gli è consentito di tenere in vita qualche eredità della Rivoluzione francese. A Vienna, dove si riunisce il Congresso per dare un nuovo ordine al continente, la folla riconosce in lui il vincitore di una partita che è durata due decenni: a teatro lo salutano le note dell’Ouverture del Prometeo di Beethoven. Ma lui non si inebria, anzi è assalito da una sorta di malinconia.
A dicembre del 1815 visita una prima volta il Lombardo Veneto. Poi tornerà in Italia due anni dopo e se ne invaghirà. A Ferrara ammira il teatro «che farebbe onore a una grande capitale». A Bologna incontra l’erudito abate Mezzofanti, direttore della Biblioteca universitaria, «che conosce trenta lingue e quando parla tedesco sembra di trovarsi al cospetto di un autentico figlio della Sassonia». «Mi sarebbe difficile esprimervi il genere di impressione che Firenze deve necessariamente produrre su qualsiasi uomo che ami le cose belle e grandi», scrive alla moglie, compiacendosi della lingua parlata dalla gente comune. «Un vignaiolo che aveva l’aria di un mezzo negro mi ha fatto da Cicerone», racconta in un’altra lettera. A Lucca ammira gli eleganti ricordi napoleonici. La penisola italiana gli provoca uno strano sentimento di estasi, che lo spinge a volgere lo sguardo al passato. E si aggiunge qualcosa di ancor più intenso l’anno successivo, nel 1818, quando l’imperatore, a premiarlo per le sue benemerenze, gli regalerà, nella sua terra natia, la tenuta di Johannisberg, dal cui castello, scrive Metternich, «si possono vedere venti leghe di corso del Reno… otto o dieci città, vigneti che quest’anno daranno almeno venti milioni di litri di vino, interrotti da prati e da campi che sembrano dei giardini, graziosi boschi di querce e una pianura immensa coperta di alberi che si piegano sotto il peso di frutti eccellenti».
Metternich ha 45 anni ed è un uomo diverso da quello del passato. Con la rivoluzione spagnola del 1820 l’Europa si rimette in movimento e ora non c’è più Napoleone a fargli da contraltare. Adesso è lui che deve trovare soluzioni e non è capace di dare risposte diverse da quelle che comportano il ricorso alla forza. E questo mentre l’Inghilterra, alleata fino a qualche istante prima nella campagna antinapoleonica, prende (ovunque le sia consentito) le parti della lotta per la libertà. Metternich, scrive Mascilli Migliorini, «entra in questa stagione con una determinazione “vitale”, con un rapporto scarno e determinato con la forza e con il suo utilizzo, che non aveva molto da invidiare a quel Napoleone al quale, nelle ore del loro incontro a Dresda, egli non aveva mancato di rimproverare proprio questo: una fiducia nella forza destinata a soccombere alla ragionevolezza di chi agisce all’ombra e con la tutela della tradizione». Adesso era lui che avrebbe potuto essere rimproverato di eccessivo ricorso alla violenza a difesa dell’ordine esistente contro le quattro rivoluzioni (Spagna, Portogallo, Napoli e Piemonte) dei primi anni Venti. Stessa politica negli anni Trenta dopo la rivoluzione di luglio (1830) in Francia, allorché darà vita alla lega delle «tre aquile nere» (Austria, Prussia e Russia). E, soprattutto, dopo la morte dell’imperatore Francesco I, quando vedrà crescere a dismisura le proprie responsabilità politiche.
Sono anni in cui Metternich, scrive Mascilli Migliorini, colloca il proprio Paese «in aperta, inevitabile rotta di collisione con tutte le correnti innovatrici della lotta politica del suo tempo». Nel 1836 gioca di nuovo la carta delle alleanze matrimoniali con il duca d’Orléans, prima, e Ferdinando re delle due Sicilie, poi. Ma l’Europa è di nuovo in sommovimento e il fatto che non ci sia all’orizzonte un Bonaparte rafforza paradossalmente le rivoluzioni. È così anche negli anni Quaranta, fino a quel 6 agosto del 1847 quando in una lettera al conte Gyorgy Apponyi, vicecancelliere del Regno d’Ungheria, lascerà cadere la definizione dell’Italia «espressione geografica». Si è molto discusso se in quell’occasione Metternich volesse dire quel che di sprezzante nei confronti della nostra penisola gli è stato attribuito. Quasi sicuramente no. Ma è un fatto che l’uomo non è più in grado di capire cosa siano i movimenti rivoluzionari e come li si debba affrontare. Ed è così che la sua defenestrazione è la prima risposta che l’Austria sceglie di dare, in marzo, ai moti del 1848.
Un suo grande rivale politico, Franz Anton von Kolowrat, la racconta in questi termini: «Una compagnia di nobili percorre la puszta (pianura ungherese) d’inverno a bordo di una slitta. Un branco di lupi li insegue e sta per aggredire i cavalli. A questo punto i viaggiatori non hanno altra soluzione se non buttare giù dalla slitta il più corpulento degli occupanti, sperando che i lupi, impegnati a divorarlo, non si preoccuperanno più della slitta». Quando Metternich quel giorno torna a casa, la nuova moglie, Mélanie, gli domanda: «Allora siamo morti?». Non ci sarà bisogno di risposta. E mentre Radetzky, nell’estate del 1848, dà prova sul campo militare di tutta la rinnovata forza dell’Austria, Metternich si vede costretto ad una sorta di esilio prima a Londra, poi in Belgio. Per tornare a casa solo nell’ottobre del 1851 e ricevere lì l’onore di una visita del nuovo, giovane sovrano, Francesco Giuseppe.
Metternich morirà nel 1859, non prima di averci lasciato otto corposi volumi di memorie, all’interno dei quali si affaccia una ricorrente considerazione sul carattere transitorio dei tempi in cui ha vissuto. «Sono venuto al mondo o troppo presto o troppo tardi», scrive nel 1822. E nel 1844 insiste: «La mia epoca è stata un periodo di transizione… in una fase di questo tipo, l’edificio del passato è in rovina mentre il nuovo edificio non è ancora in piedi». Il dato curioso è che sono tutte riflessioni successive a quel Congresso di Vienna che lo aveva consacrato al potere per più di trent’anni. Ed è interessante come torni in lui la memoria di un palazzo viennese e di una sala «splendidamente illuminata per l’occasione», dove si riaffacciò il «fantasma di Dresda».
Stavolta — siamo nell’inverno del 1825 — il principe di Metternich incontra Federico Confalonieri, arrestato per aver partecipato ai moti liberali di Milano e in procinto di essere inviato al carcere dello Spielberg. Ma se a Dresda, scrive Mascilli Migliorini, «quasi con sorpresa» si era vista circolare «un’impalpabile simpatia reciproca» tra Metternich e Napoleone, qui si cercherebbe invano tra i due protagonisti «un punto di contatto, un sentimento di fondo condiviso, che sarebbe tanto più naturale in due uomini educati nello stesso universo di valori e di simboli». Metternich sa bene che il conte milanese non è certo della stessa pasta dei «demagoghi, dei giacobini, dei rivoluzionari di mestiere», ma questo rappresenta ai suoi occhi «una colpa ancor più grave». E il fatto che Confalonieri si ostini a non volergli offrire elementi che potrebbero compromettere Carlo Alberto nelle cospirazioni dell’epoca, aggrava la situazione. Peggio: Confalonieri gli fa intendere di considerarlo un uomo del passato, gli dà la sensazione che in quella stanza «non erano due uomini che si incontravano, ma due età e due principii»; stavano di fronte l’uno all’altro «il simbolo vivente del dispotismo con croci e ciondoli sul petto» e il futuro, sia pur rappresentato da un «uomo in ceppi». Un giudizio che «ci restituisce, a parti invertite, i sentimenti con i quali Metternich aveva vissuto le ore di Dresda». Ed è in quell’inversione delle parti che Metternich aveva perso la parte migliore di sé .

La Stampa 28.4.14
Al Palazzo dei Diamanti di Ferrara
Matisse, il tormento della felicità
di Marco Vallora


Lusso, no, non si direbbe (per rifarsi all’illuminante, meriggiante titolo baudleriano della sua celebre, mediterranea, rosso-solare, puntinata e scottata tela 1904: Lusso, calma, voluttà. Va da sé non in mostra, epperò così qualificante il suo carisma popolare). «Il mio lusso non è comunicabile, perché è un bene al di sopra del denaro, alla portata di tutti». Non il lusso superfluo del ricco, che sverna come lui a Nizza, ma è il lusso sottocutaneo ed impalpabile del «monaco della gioia», che si rinchiude nelle «regole» di Cimiez. Il lusso contenuto della fertilità, sempre rinascente, del tratto, del segno sovrano. Calma? Nemmeno. Perché quel tratto stenografico e quasi stento, scheletrico, che elettrizza le bianche pareti del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, è, questa volta, quanto mai nervoso, nevrile, insoddisfatto. Ingeneroso, quasi (nei confronti d’un Matisse più leggiadro e spumantino, da bedecker: quello delle Finestre per dire, che, come in un fotogramma all’ Antonioni, sposano la luce del fuori e di dentro). Quello del proverbiale segno deciso, che fiorisce sul vuoto, come un vegetale fuoco d’artificio, infallibile e spavaldo. Sicuro della sua traiettoria giocosa. No, non qui. Non questa volta. Voluttà, nemmeno: perché ovunque è come palpabile questo sofferto tormento della felicità ricercata, che si esprime e che si ritenta, si rintraccia, s’insegue e si cancella. Arrovellandosi allo sfumino, prima di depositarsi sul foglio e condividere, per un istante lapillare di gioia pittorica (Joie de vivre: un altro titolo, che qui non avrebbe avuto ragione di convivere), la languorosa e innaturale, travagliata naturalezza dei «riposi» anatomici delle sue adorate-soggiogate modelle. Snocciolate ossessivamente, sala dopo sala. Veri «periodi» ritagliati della sua ondivaga pittura.
La fedele (e poi in fuga, depressa) moglie Amélie (perfidamente Picasso, che aveva scambiato una propria tela, con un ritratto di lei, firmato dall’amico-rivale, scherzava, bigameggiando: «Madame Matisse, mais, oui, sta nella mia camera da letto»). Poi la figlia Marguerite, ideale e malleabile «ragazza d’atelier». La vicina Jeanne Valderin, all’epoca della Danza, per la Pietroburgo di Scukin. L’allieva russa Olga (proprio come la moglie-ballerina e moscovita di Picasso) e poi via via, l’italiana, poi Laurette l’odalisca, Antoinette la nizzarda, Henriette, la modellata in scultura. «Scultura vivente» dalle pose michelangiolesche. «Scusami», scrive all’amico ex-fauve Marquet, «sono invischiato con una donna, passo tutto il mio tempo con lei, e credo proprio che starò qui tutto l’inverno. Per fortuna questa donna è di gesso, si chiama La Notte ed è di Michelangelo». Così amalgamati insieme, lui, Henriette e la presenza occulta di Michelangelo (come il Papa, sotto i volteggi erotici di Raffaello e la Fornarina, per Picasso) da vivere entrambi un crollo psicofisico. Che dà spazio alla definitiva Lydia, la di-nuovo russa: provvidenziale «castellana» di Vence, e dell’Hotel Regina di Cimiez. Quando ormai, malato, operato all’intestino, «redivivo» in carrozzina, tra le candide colombe, immortalate pure da Cartier-Bresson, Matisse lavora, avventurandosi direttamente dentro i colori, carnalmente ritagliando le carte pre-dipinte con le forbici. Come se stesse sbozzando il marmo («sì: scolpire direttamente la luce»). «Perché i disegni non mi interessavano più, da quel lato mi sono schiarito il cervello. Tanto mi basta. Provo la curiosità che comunica un paese nuovo, perché non sono mai avanzato tanto chiaramente entro l’espressione dei colori». Ma poi non è tutto vero, questo, perché Matisse è sempre assai doppio, quasi polare: diviso tra quel suo dono miracolato (e tardivo, esercitato) di far danzare sul filo «il calamo» della sua scrittura, a tratto unico, senza mai staccarsi dal bacio bianco del foglio. Un tracciato inanellato, ininterrotto, quasi fosse l’equilibrista del tratto, o un’odalisca tagliente della bellezza. Ed invece quell’altro suo tipico procedere interrogativo, sgomento, perpetuamente «scancellato» e pesto, al carboncino, che lascia al mondo come una sua traccia dolente ed ombrosa, perplessa: farfugliando imbronciata. Al figlio Pierre, in America: «Da un anno ho fatto uno sforzo enorme nel disegno. Dico sforzo ma è un errore, perché quello che è venuto è una fioritura, dopo cinquant’anni di sforzo».
La dura mostra, non conciliante (evviva) curata dalla specialista Isabelle Monod-Fontaine, è questo: una crociere, ispida, irrequieta, entro il suo tratto d’indagine vorace, sempre a contatto con le sue modelle, che variano. Come «temi e variazioni» neo-bachiane (Mozart qui viene come esiliato). Sino a che persino il lago del volto si fa vuoto, ma il filo della figura tiene e strappa.