martedì 23 settembre 2014

La Stampa 22.9.14
Tratta di esseri umani, Italia bocciata: “Troppe poche condanne per i mercanti di schiavi”
Dal 1999 oltre 29 mila persone coinvolte. Il rapporto del Consiglio d’Europa: «Poca attenzione agli sfruttati del caporalato e giustizia lenta. Serve piano d’azione urgente»
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http://www.lastampa.it/2014/09/22/italia/cronache/tratta-di-esseri-umani-italia-bocciata-troppe-poche-condanne-per-i-mercanti-di-schiavi-bXV7tDFz5bM1KjjHDHDUZL/pagina.html

La Stampa 22.9.14
Ennesimo naufragio, è strage al largo della Libia
Un barcone di migranti si è ribaltato: 10 morti, 55 tratti in salvo, oltre trenta i dispersi
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http://www.lastampa.it/2014/09/21/italia/cronache/ennesimo-naufragio-al-largo-della-libia-morti-NmI9ITDezak3ZeOxdtNGRP/pagina.html

Corriere 22.9.14
Il segretario non teme i «giapponesi»: libertà di coscienza? Non può valere su tutto
Voto in direzione, poi nei gruppi parlamentari: decide la democrazia interna
di Maria Teresa Meli

ROMA — «Ma credete veramente alla storia di più di cento parlamentari che faranno battaglia contro di me sul Jobs act?»: prima di volare per gli Stati Uniti Matteo Renzi si lascia andare a un sorriso con chi esprime un certo timore perché la minoranza è sul piede di guerra. E al Tg2 affida parole più che esplicite: «Dentro il mio partito c’è chi pensa che si possano utilizzare i risultati delle elezioni europee per fare finta che non sia cambiato niente. Si mette lì Renzi come foglia di fico e continuiamo a governare, è questo quello che pensano. Ma sono cascati male».
Già, il presidente del Consiglio non ha voglia di «farsi condizionare dai ricatti» della minoranza. Si può trattare su punti ragionevoli, ma niente di più: l’impianto della legge resta quello e bisogna anche fare in fretta. «Non hanno capito con chi hanno a che fare», mormora Renzi prima di salire sull’aereo. Del resto, ribadisce, «tutti quei voti li ho presi io, e li ho presi per cambiare, non per lasciare le cose come stanno, sennò era del tutto inutile che andassi io al governo».
Il solco, quindi, è tracciato. E l’agitazione della minoranza non sembra fare troppa paura al premier come dimostrano quelle parole profferite pubblicamente in un’intervista al Tg2. Altrimenti, avrebbe scelto altri canali per far filtrare il suo disappunto. Invece, la lettera aperta agli iscritti prima, e quella apparizione in tv poi, stanno a testimoniare del modo in cui il presidente del Consiglio intende affrontare la Direzione del 29 settembre prossimo dove, sia detto per inciso, ha la maggioranza.
Lo schema che il premier intende seguire è lo stesso adottato con la legge elettorale e con il ddl costituzionale sul Senato e il Titolo V della Carta fondamentale: prima un voto in una riunione di Direzione, poi un voto nei gruppi parlamentari. Dopodiché «la democrazia interna di un partito ha delle regole e non può esistere la libertà di coscienza su tutto». Il che non significa certo che il premier-segretario minaccia espulsioni, ma che si richiama alla serietà di chi è iscritto al Pd e lo rappresenta nelle istituzioni. Del resto, chi adesso lo osteggia, lo accusa e lo crocifigge nelle interviste sui giornali, è chi ha portato il Pd ai suoi minimi storici: «È un fatto — commenta con i suoi il presidente del Consiglio — che prima il Partito democratico perdeva e che adesso vince».
La tranquillità con cui Renzi sembra affrontare i travagli interni al Pd sembra data anche da un altro elemento: il premier è convinto che in realtà la minoranza non sia compatta in questa sua guerra contro di lui. Ritiene che alla fine l’avranno vinta il capogruppo alla Camera Roberto Speranza e il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina che rappresentano l’anima dialogante della minoranza. Sono loro i personaggi di maggior calibro in quell’area ed è con loro che si può trattare. I renziani sono convinti che questa fetta del partito non voterà contro in Direzione. Il giro di Pier Luigi Bersani, Cesare Damiano, Stefano Fassina e Pippo Civati può raccogliere gli scontenti. Ma quanti saranno? Al massimo rappresenteranno tra il 15 e il 20 per cento del partito. A dire proprio tanto. Non di più. Perché — è il ragionamento che viene fatto a Palazzo Chigi — a differenza del passato la minoranza dei Fassina, dei Bersani e dei Damiano è in difficoltà dal momento che la Cgil non ha più la forza di una volta e, facendo fronte con quel sindacato, rischia di rinchiudersi in una battaglia residuale. A parte il fatto che la stessa Cgil sta inviando dei segnali all’indirizzo del premier e del Nazareno nella speranza di un incontro e di un chiarimento.
C’è una frase sfuggita qualche giorno fa a Rosy Bindi che viene ritenuta assai significativa dai renziani: «Matteo troverà dei giapponesi pronti a combattere». Dei giapponesi, appunto, come quelli che non si volevano arrendere quando la guerra era già persa.
Dunque non è la rivolta della minoranza che impensierisce il premier, ma l’idea che si fa strada in certi ambienti di picconare il suo governo per aprire la strada a una sorta di Monti bis. «La minaccia delle elezioni non riguarda la minoranza del Pd e non è nemmeno un mio auspicio, è rivolta a chi pensa a ipotesi tecnocratiche», ha confidato il premier ai fedelissimi prima della partenza per gli Usa.

Repubblica 22.9.14
Debora Serracchiani
“Non siamo una ditta né una bocciofila qui le decisioni si devono rispettare”
“A chi dice di dovere rispondere ai propri elettori ricordo che è stato eletto con e grazie al Pd”
di Giovanna Casadio

ROMA «Le critiche più accese vengono proprio da chi in passato - D’Alema, Bersani, Chiti - diceva che bisognava cambiare superando l’articolo 18. Ho come la sensazione che qualcuno voglia strumentalizzare il tema del lavoro per una resa dei conti nel Pd». Debora Serracchiani, vice segretario dem, contrattacca: «Andranno rispettate le decisioni della direzione perché siamo un partito non una ditta né una bocciofila».
Serracchiani, più che una discussione sul lavoro è uno scontro politico senza quartiere? «Sicuramente dobbiamo abbassare i toni. Però è anche il momento di fare chiarezza: noi siamo qui per cambiare le cose e vogliamo farlo davvero perché siamo convinti che per troppo tempo abbiamo giocato in difesa e accettato disuguaglianze intollerabili ». Non siete però disposti a riconoscere le ragioni del sindacato e della minoranza dem?
«Prima che partisse lo scontro era già stata fissata la direzione del 29 settembre su questi temi. C’è la voglia di confrontarsi senza pregiudizi ».
Ma si va avanti sull’articolo 18 anche a costo di una scissione con la minoranza del partito?
«Non abbiamo interesse a nulla di tutto questo. Vogliamo un confronto in direzione anche aspro, ma poi vanno rispettate le decisioni assunte dalla maggioranza del partito. A chi dice di dovere rispondere ai propri elettori e non agli organismi del partito ricordo che è stato eletto con e grazie al Pd».
Però neppure i renziani votarono Franco Marini al Quirinale, benché fosse una decisione del partito.
«Su Marini si riunirono i gruppi parlamentari ma si trattava di una decisione su una persona assunta in una situazione a dir poco complessa. Decidere di cambiare il sistema del lavoro è una scelta politica, compete alla direzione del partito».
Un po’ troppo autoritario l’attacco di Renzi alla “vecchia guardia” con una lettera ai militanti?
«L’ho apprezzato molto, perché questa discussione non deve appartenere ai vertici ma coinvolgere tutti gli iscritti e i circoli. Da rottamare non sono le persone ma le corporazioni, i tabù, i poteri che hanno tenuto questo paese con la testa sott’acqua».
Volete cacciare la minoranza dal partito?
«No, bisogna dire con nettezza che viviamo in un paese in cui pochi hanno tutto e molti non hanno nulla. È arrivato il momento di scardinare questo sistema. Naturalmente discutendo con i sindacati, con la sinistra dem. Ma siamo determinati ad andare fino in fondo».
A qualunque prezzo?
«Non possiamo più perdere tempo. Alla minoranza, ad alcuni della vecchia guardia dico che non possono frenare quei cambiamenti che avrebbero voluto fare e non ci sono riusciti e ora non va bene perché è Renzi a farli».
Forza Italia è disposta a votare il Jobs Act. Si va verso più larghe intese?
«Il governo è quello della maggioranza attuale. Non abbiamo bisogno dei forzisti per fare le riforme del lavoro ed economiche. Però se ci fosse sul lavoro una larga condivisione ben venga».
L’articolo 18 sarà abolito?
«Nessuno lo mette in discussione nei casi di discriminazione, ma non è possibile che una generazione conservi privilegi e quella più giovane non abbia diritti».

Repubblica 22.9.14
Berlusconi punta alle larghe intese “Sul lavoro il Pd imploderà ora Fi può diventare decisiva”
Brunetta: “Sì alla fiducia sul decreto, ma poi si apre la crisi di governo” E sulla legge elettorale l’ex premier adesso avanza molti dubbi
di Rodolfo Sala

SIRMIONE «Guardate che cosa sta succedendo con l’articolo 18, nel Pd si comincia a ballare, e a un certo punto la minoranza interna lo farà collassare; teniamoci pronti, cominciamo col sostenere il jobs act, poi vedrete che anche sull’Italicum il solco tra Renzi e i suoi oppositori interni si allargherà, e a quel punto noi saremo davvero determinanti ». Pranzo leggero a Desenzano, sul lago di Garda, dove Berlusconi ha per commensali una dozzina di forzisti, reduci come lui dal convegno di Sirmione pensato dalla coordinatrice lombarda Mariastella Gelmini per valorizzare i giovani azzurri. L’ex Cavaliere, accompagnato da Francesca Pascale, è pimpante, rilassato, perfino gasato per la prospettiva che si apre a Straburgo: «Finalmente riavrò l’agibilità politica». E davanti a un coregone al burro svela la sua strategia delle larghe intese, a un manipolo di fedelissimi: la Gelmini, Giovanni Toti, Paolo Romani, Mara Carfagna, Maurizio Gasparri, l’ex sindaco “formattatore” di Pavia Alessandro Cattaneo, Maurizio Gasparri e il coordinatore del Veneto Marco Marin (passa anche Raffaele Fitto, ma solo per un saluto fugace). Insomma: le difficoltà del premier, alle prese con un partito in rivolta sull’articolo 18, possono aiutare Forza Italia a uscire dall’angolo. Fare da stampella — e stavolta in modo determinante in Parlamento — al presidente del Consiglio. Larghe intese, appunto.
Certo sulla legge elettorale molto sembra ancora da chiarire: «Renzi vuole l’Italicum per far fuori quelli della minoranza e mettere i suoi uomini; mentre il Consultellum prevede le preferenze, e i suoi avversari interni sono bravi a ottenerle». A Fi, insiste Berlusconi, l’Italicum non conviene: «Con quella legge Renzi governerebbe da solo, con il Consultellum avrebbe bisogno di noi». Ma la prima mossa da fare è sul lavoro. In questi giorni almeno due big han fatto capire che qualcosa sta cambiando. Renato Brunetta ha esordito con un auspicio: «Se Renzi dimostra di avere gli attributi », poi ha rincarato la dose in un’intervista al Mattino ha rincarato la dose: «Pronti a votare la fiducia sul jobs act, ma se va così si apre la crisi». E ieri mattina Paolo Romani, capogruppo al Senato: «Il decreto sul lavoro è un passo avanti sorprendente, nuovo; Renzi è stato coraggioso, e noi dobbiamo stare molto attenti; ho detto ai nostri di astenersi in commissione, ma in aula dobbiamo valutare la situazione; se il Pd si spacca e ci può essere una maggioranza riformista sul mercato del lavoro, io un pensierino ce lo farei”.
Altro che pensierino, l’ex premier sembra aver già deciso. Si materializza a Sirmione poco dopo mezzogiorno, con tanto di occhiali da sole e bretelle. L’incipit è una battuta: «Sono venuto ad ascoltare e anche a prendere nota, visto che con l’età calano la vista, l’udito e anche qualche altra cosa, ma non si può dire… No, intendevo i pantaloni, mi sono messo apposta le bretelle per non calarli, in nessuna occasione». Non li cala, ma qualcuno in Forza Italia rosica: «Non moriremo renziani», era stato, sabato, lo strillo di Daniele Capezzone. E pure Fitto, molto applaudito quando evoca una «selezione dal basso della classe dirigente», non pare entusiasta di questo calcolatissimo nuovo corso. Per il resto, Berlusconi sprona i govani azzurri a fare di più e meglio nei Comuni dove operano, magari prendendo esempio proprio da Renzi,: «Per diventare sindaco ha preparato una lista di cento cose da fare in cento giorni, fa niente se ne ha fatte solo il 20 per cento in cinque anni…».
Renzi, sempre lui. Berlusconi lo cita ancora quando parla del suo partito un po’ammaccato, «dopo vent’anni ci ritroviamo più stanchi e meno entusiasti, per questo c’è bisogno di energie nuove». Lui è ancora una bandiera, anche se «a mezz’asta », mentre quella del giovane premier «sventola alta». Ma la bandiera di Silvio «vediamo di utilizzarla ancora; per il resto largo ai giovani, che devono saper vendere al meglio il martire che hanno in casa».

La Stampa 22.9.14
Lavoro, è resa dei conti nel Pd
La minoranza: pronti al referendum, sul “Jobs Act” parola agli iscritti
L’avvertimento a Renzi: sul Jobs Act parola agli iscritti. Il premier: cascate male, non faccio la foglia di fico
di Carlo Bertini
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http://www.lastampa.it/2014/09/22/italia/politica/la-minoranza-pd-pronti-al-referendum-FIPP8dS4HXjpalUhWVHleI/pagina.html

Corriere 22.9.14
Bersani al premier: tratti meglio Verdini
Le minoranze del Pd all’attacco
E Civati evoca la scissione: scherza col fuoco
di Al. T.

ROMA — Nessuna marcia indietro, si va avanti dritti verso lo scontro. Matteo Renzi non abbassa i toni, anzi ribadisce il suo attacco. La prima battaglia vera potrebbe essere nei prossimi giorni in Senato, dove la minoranza rivendica il diritto di votare liberamente, anche contro il risultato della consultazione in Direzione, prevista per il 29 settembre. Sullo sfondo la battaglia finale, con l’ipotesi di una scissione che si fa sempre meno avveniristica: «Renzi sta scherzando con il fuoco — spiega Pippo Civati —. Se mezzo partito non vota, il Pd si spacca. Poi è difficile suturare le ferite. E finisce che vanno alle elezioni con la Margherita».
Che il conflitto sia serio, lo dimostrano anche le parole di Vannino Chiti: «Basta slogan e minacce di scomunica. È bene non sottovalutare: è in gioco il futuro del Pd come grande forza di una sinistra plurale. Serve un bagno di umiltà, di responsabilità, privilegiando la via del rispetto e del confronto. Rinnovo al segretario questo invito ora che si è ancora in tempo».
Lo scontro con Renzi sembra aver galvanizzato la minoranza del partito e avergli dato la forza di rimettere insieme pezzi diversi, frammenti delle correnti di un tempo, travolte dall’avvento del neo segretario. E la riunione che si svolgerà domani mattina, a poche ore dalla scadenza per la presentazione degli emendamenti al Jobs act al Senato, dirà se c’è davvero la volontà di organizzarsi in un coordinamento e fare fronte comune oppure no.
Nel frattempo è partita la conta e si cerca di capire cosa accadrà in Parlamento. Ieri sono andati all’attacco tre deputati del Partito democratico, Lorenza Bonaccorsi, Federico Gelli ed Ernesto Magorno. Che in una nota hanno definito la «libertà di voto» ventilata da Pier Luigi Bersani come «un attacco al partito». Perché in Direzione, una volta indicata la strada, «tutto il partito ha il dovere di seguirla». E se non fosse così? Scatterebbero provvedimenti?
Bersani, che in questi giorni è tornato a farsi sentire con continuità, non ci sta a farsi definire conservatore e sventola il suo ditone, in segno di diniego, al Tg1: «Eh no eh, conservatore no. Con la mia storia, poi». Quanto alla «vecchia guardia», accusa renziana, «più vecchia guardia di Berlusconi e Verdini non ce n’è — dice Bersani —. Eppure vedo che vengono guardati con educazione e rispetto. Chissà che, prima o poi, non capiti anche a me». L’ex segretario democratico è duro e salva solo «le buone intenzioni» del Jobs act: «Ci sono norme molto vaghe che si prestano a qualsiasi interpretazione. Il contratto a tutele progressive deve aiutare a sfoltire e a costruire un percorso di diritti per tutti. In tutta Europa esiste il concetto di reintegra. Semplifichiamo e aggiustiamo, ma la reintegra deve rimanere». Si va verso un voto contrario? «Non ragiono così, martedì ci riuniamo per trovare un punto di convergenza».
Ma è evidente che la spaccatura è dietro l’angolo. Per questo Gianni Cuperlo dice «basta agli ultimatum e alla propaganda»: «Non si può accettare che la discussione venga strumentalizzata per dividere il Pd tra innovatori e conservatori o per minacciare decreti». E mentre il bersaniano Flavio Zanonato (insieme con Susanna Camusso) twitta un vecchio (ma non troppo) intervento di Renzi da Santoro, nel quale spiegava che a nessun imprenditore importa dell’articolo 18, Cesare Damiano se la prende con Angelino Alfano: «La sua dichiarazione rivela le vere intenzioni del centrodestra sul tema dell’articolo 18. Il ministro dell’Interno ha infatti affermato che al punto in cui siamo, “sarebbe meglio toglierlo per tutti”. Trovo sia una tesi agghiacciante».
E il gelo è sceso in molte aree del Pd, irritate da quello che Civati definisce «un attacco ad alzo zero»: «Manca solo che ci prende di mira i parenti. E mo’ basta, se Renzi continua così il partito non lo teniamo più. Va bene, ha vinto il Congresso e ha il 40 per cento, ma se tratta Sacconi come un semidio e ci governa insieme e se per lui la Cgil è da eliminare, allora poi è normale che mezzo partito gli vota contro. Per questo mi piacerebbe che venisse consultata la base, anche con un referendum, per capire cosa ne pensa della nuova linea».

Repubblica 22.9.14
Bersani star tra i militanti “È vecchio pure Silvio ma Matteo lui lo rispetta”
L’ex leader alla Festa dell’Unità di Modena duella con Renzi
Giro negli stand tra applausi e chi lo chiama ancora segretario
“Votare contro? Non ragiono così, ci riuniamo e troviamo l’intesa. L’equilibrio tra capitale e lavoro clou del riformismo”
“Renzi dovrebbe ricordare che questa vecchia guardia ha preso quel 25% che ora lo fa stare al governo”
di Jenner Meletti

Forse senza volerlo, gli avevano preparato le forche caudine: una porta di ingresso alla festa dell’Unità con sei gigantografie di Matteo Renzi e altre quattro con cittadini entusiasti che sotto la Ghirlandina applaudono Matteo Renzi. Per sua fortuna Pier Luigi Bersani, nel giorno in cui si trova etichettato come «vecchia guardia», entra da un ingresso secondario. Accanto a lui («È stato Pier Luigi a volermi qui») c’è Vasco Errani. «Ecco, anche lui è vecchia guardia», dice l’ex segretario. Un’ora e un quarto di camminata fra i ristoranti e soprattutto nelle cucine. Chi volesse fotografare la “vecchia guardia” partita dal Pci e arrivata al Pd, qui troverebbe le facce giuste. Profumi di tortelli e capelli bianchi, l’orgoglio di avere lavorato gratis per decine di anni e migliaia di ore «per il Partito».
«Vecchia guardia? Non mi offendo. Certo, Matteo Renzi dovrebbe ricordare che questa vecchia guardia ha ottenuto quel 25% che ora gli permette di stare al governo. Io non chiedo certo riconoscenza ma una sola cosa: il rispetto. E a proposito di anziani… Chi è più “vecchia guardia” di Berlusconi e Verdini? Eppure loro sono trattati da Renzi con educazione e rispetto. Spero che un giorno questo capiti anche a me. Mi offendo se mi chiamano conservatore ». Tutti i responsabili degli stand vogliono il segretario, loro continuano a chiamarlo così. Applausi, abbracci, strette di mano, baci (con le signore). «Pier Luigi, devi dire a Renzi che il 40 e passa per cento in Europa l’ha avuto per il bene dell’Italia, non per fare str…». «Abbiamo un solo segretario / e si chiama Pier Luigi», gridano nel ristorante della montagna. «Bersani, dai che mi conosci. Sono quello che frigge le patate da quarant’anni e non ho cambiato idea. E non solo su come si friggono le patate».
Modena zoccolo duro, Modena che in un grande padiglione espone una bella mostra su «la vita, la politica, l’etica di Enrico Berlinguer». Ma anche qui, alle ultime primarie, ha vinto l’ex sindaco di Firenze, con percentuali simili a quelle nazionali. «Pier Luigi, stai attento con Renzi. Va bene la polemica ma se cade lui va su quello là, vincono le destre». Gli applausi partono dalle cucine e si allargano nei ristoranti e nei viali. «Questo - dice Bersani – non è un giro di propaganda, un vecchio rito. Parli con le persone, capisci subito quali sono le cose importanti. Certo, l’articolo 18 e il decreto sul lavoro sono temi che sono nel cuore della sinistra e non si possono affrontare con leggerezza. È questo che mi dicono, e mi chiedono se almeno io ho capito quali siano le reali intenzioni del governo».
«Il reintegro al lavoro se ingiustamente licenziati non esiste solo da noi ma in forme diverse anche in Germania, Francia, Inghilterra… Forse in Italia la situazione è più complicata ma non si può buttare via, con leggerezza, questo presidio. Il governo vuole dare più diritti a chi ha meno diritti? Va bene. Vuole meno precari? Va bene. E allora diamo alla precarietà un grande percorso contrattuale. Ma le norme scritte dal governo non lasciano intendere tutto questo». Più di mille persone nella grande sala dibattiti, è l’incontro più seguito in questo ventesimo giorno di Festa dell’Unità. Pietro Spataro, vice direttore del quotidiano scomparso dalle edicole da 50 giorni, racconta che alle tante promesse non sono seguiti fatti concreti.
Una ragazza mostra una maglietta “bersaniana”. «Oh ragazzi, non siamo mica qui a friggere le patate con l’acqua minerale». Ride, il “segretario”. «Oh ragazzi. Io questa questione del lavoro la voglio chiudere, ma bisogna trasformare le belle parole in norme chiare e comprese da tutti. I compagni della festa me l’hanno detto chiaramente. Non esiste che, per dare diritti a chi non ne ha, si tolgano diritti a chi li ha. Il popolo della sinistra su queste cose non scherza».
«Vecchia guardia», le parole di Renzi hanno fatto male. «La vecchia guardia – dice Lucia Bursi, segretaria provinciale del Pd – è storia del Pd: c’è ancora e ha il diritto di presentare istanze». «Renzi farebbe meglio – dice Isa Ferraguti, presidente del mensile Noi Donne a pensare a ciò che dice. Io nel 1964 sono stata licenziata, unica fra 550 operaie, perché non c’era l’articolo 18». «Vecchia guardia? Ci sono – dice Enrico Campedelli, responsabile organizzazione – valori che non cambiano». Ancora applausi nella grande sala. «Sì – ammette Pier Luigi Bersani – a volte mi commuovo».

Corriere 22.9.14
Guglielmo Epifani:
«Dividersi è una sciocchezza Ma il reintegro deve restare»
intervista di Alessandro Trocino

ROMA — «Le voci di scissione nel Pd sono una sciocchezza, roba inesistente. Ma non giova a nessuno accentuare lo scontro e sarebbe un errore gravissimo non trovare un’intesa sul Jobs act». Guglielmo Epifani interviene in un dibattito, che definire infuocato è un eufemismo, nel quale è parte in causa, essendo stato per anni segretario, prima della Cgil e poi del Pd. E lo fa provando a gettare acqua sul fuoco.
Segretario, volano insulti e accuse nel Pd.
«Credo che sia un errore e che sia necessario far capire i punti sui quali si converge e quelli sui quali c’è un’impostazione diversa. Altrimenti ai cittadini finirebbe per sfuggire il senso della discussione».
Proviamo.
«Innanzitutto, va detto che la riforma del lavoro, tema su cui si dibatte da decenni, va affrontata. Serve un mercato del lavoro più moderno, equo e inclusivo. Cominciando dagli ammortizzatori sociali, che devono arrivare a coprire in maniera non occasionale le persone che hanno contratti di lavoro precario. Diritti che vanno estesi a maternità e salute».
Si parla di demansionamento e di controlli a distanza.
«Sono due questioni che possono essere affrontate, ma con giudizio. Lasciando più spazio alla contrattazione tra imprese e sindacati. Credo che tutti capiscano che costringere un ingegnere a fare un lavoro meno qualificato non avrebbe senso».
L’articolo 18, nonostante da mesi si minimizzi, è diventato centrale nel dibattito.
«È diventato il problema dei problemi, quando invece è un tema, importante come gli altri».
Come si deve affrontare?
«La via maestra è quella del contratto di lavoro a garanzie crescenti, una proposta lanciata da Boeri tanti anni fa e ripresa da Damiano e Madia. Ha il pregio, se si riducessero i contratti a quattro o cinque tipologie, e su questo la delega non è chiara, di semplificare le modalità di assunzione».
Veniamo al reintegro, che si vorrebbe sostituire con l’indennizzo.
«Credo che superato il periodo di prova di tre anni, il reintegro debba rimanere, magari affinandolo. Per tre motivi: è previsto in molti ordinamenti europei, a cominciare dalla Germania; l’abbiamo modificato in modo restrittivo solo due anni fa; infine, se lo togliessimo, finiremmo per dividere nella stessa azienda lavoratori assunti in tempi diversi. Cosa che è contro il buon senso, contro l’interesse dell’azienda e contro la Costituzione».
Quindi sarebbe anticostituzionale?
«Nessuno l’ha ancora notato. Io posso differenziare il reintegro sulla base delle dimensioni delle imprese, ma mi sembrerebbe difficilmente legittimo farlo solo in base alla data di assunzione».
E l’indennizzo?
«Il rischio è quello che si è visto nell’esperienza spagnola, dove l’indennizzo è stato ridotto fino a portarlo a una cifra bassissima, quasi inesistente».
Lei diceva, mantenere il reintegro «affinandolo». Cosa vuol dire?
«Si può intervenire su alcuni problemi, come per esempio la difformità di giudizio dei magistrati sul territorio e la velocità».
In questi giorni Renzi ha attaccato i sindacati e Susanna Camusso ha replicato paragonandolo alla Thatcher. Il premier ha rincarato la dose, attaccando anche la «vecchia guardia» del Pd. Cosa ne pensa? È una strategia o uno scontro vero?
«Penso che su un tema come questo, sarebbe molto più utile non attribuire qualifiche e restare nel merito. Quanto a Renzi non faccio il processo alle intenzioni, bisognerebbe chiedere a lui. Ma il problema, ripeto, è solo il merito».
Però l’accusa ai sindacati gode di largo credito nel Paese. Vi si accusa di aver fatto troppo spesso battaglie di retroguardia, di conservazione.
«Non mi posso nascondere dietro un dito essendo stato per anni il segretario della Cgil. Il sindacato ha avuto i suoi ritardi e le sue difficoltà. Ma resto dell’opinione che ha lavorato per salvare il Paese e ridurre le disuguaglianze».
Che però sono cresciute. Per Matteo Orfini, mentre si facevano leggi sbagliate, «i sindacati si sono voltati dall’altra parte».
«Mai, non ci siamo mai voltati. Possiamo non avercela fatta a ridurre le disuguaglianze, è un limite della nostra azione, ma è un altro conto. Le responsabilità vere sono di altri e non hanno fatto le stesse politiche i governi di centrodestra e quelli di centrosinistra».
Lei è d’accordo con Bersani, secondo il quale ci deve essere libertà di voto o, con i renziani, secondo i quali si vota in base a quello che si decide in Direzione?
«Credo innanzitutto che si debba recuperare uno spazio vero di discussione. Un partito del 40 per cento non può che essere plurale: deve saper ascoltare e poi decidere».
E se non trova un’intesa? Sarebbe lecito votare in modo difforme dalla maggioranza?
«Credo che il partito debba svolgere un ruolo di cerniera tra governo e Parlamento. Il partito decide sulle linee, poi i parlamentari hanno libertà e autonomia all’interno di queste decisioni. Mi sembrerebbe strano se non si lasciasse spazio a un confronto vero».

il Fatto 22.9.14
Bersani all’attacco: “Renzi tratta B. meglio di noi”
di Luca De Carolis

“Vedo che Verdini e Berlusconi vengono trattati da Renzi con educazione e rispetto, anche se sono della vecchia guardia. Spero che prima o poi capiti anche a me... ”. Con un pugno di parole intinte nel sarcasmo, Pier Luigi Bersani certifica la guerra totale nel Pd. Lo fa poche ore dopo gli strali del premier contro i “frenatori” interni, “quelli che mi volevano come foglia di fico per continuare a governare”. Di mezzo c’è lo scontro sull’articolo 18, che Renzi vuole eliminare senza rossori. Ma la minoranza fa muro, tanto da essere pronta a non votare il jobs act, in arrivo in Senato tra domani e mercoledì. E da non nascondere i mal di pancia sulla candidatura del forzista Bruno per la Consulta.
LE PROBABILI schegge di una frattura. Lo specchio delle differenze mai colmate tra il giovane vincitore e la vecchia guardia rossa. E allora, ecco Bersani che fa il capo dell’opposizione interna e assimila il premier a Berlusconi e a Verdini. Gli uomini del patto del Nazareno, il filo rosso del governo Renzi. Un’arma ormai da aperta guerriglia per la minoranza Pd. E un bella rogna per i progetti del governo. Atteso da una settimana lunghissima, con la Consulta che è una grana quasi ingestibile, tanto che ora il premier medita sul cambio di nomi. Ma con altre bombe in arrivo, partendo proprio dalla legge delega sul lavoro. Si prospettano giorni perigliosi per il rottamatore, non a caso sempre più in versione bellica. Ieri, prima di partire per un viaggio istituzionale negli Stati Uniti, ha parlato con il Tg2: “Nel mio partito c’è chi pensa che dopo il 40,8% alle Europee si possa continuare con un facite ammuina per cui non cambia niente e Renzi fa la foglia di fico Ma sono cascati male, ho preso questi voti per cambiare l’Italia davvero”. Quindi, avanti con l’abolizione dell’articolo 18, d’amore e d’accordo con il centrodestra tutto.
COSÌ VUOLE Renzi. Nervoso, sul tema dei debiti della pubblica amministrazione. Nel salotto di Vespa si era impegnato a pagare tutte le pendenze entro il 21 settembre. “Promessa non mantenuta”, titolavano ieri molti giornali. Nel pomeriggio, una nota di Palazzo Chigi: “Tutti i soggetti che hanno un debito verso la Pa sono in condizione di essere pagati. Purtroppo devono sottostare a una procedura che prevede la certificazione del credito sul sito del governo”. Lo stesso comunicato ammette: “Non sono pagabili solo due o tre miliardi, rischieremmo di non rispettare il vincolo europeo del 3 per cento”. Ma il tema del giorno rimane l’articolo 18. In un’intervista al Sole 24 Ore, proprio Bersani invoca la libertà di voto nel Pd. Poi, dopo una giornata di colpi incrociati tra renziani e minoranza, sulle agenzie, l’ex segretario risponde al premier. Ribadendo che sul jobs act la minoranza dem attende modifiche: “Ora ci riuniamo per trovare una convergenza e intesa. L’equilibrio tra capitale e lavoro e clou del riformismo”. Tradotto, o si tratta, o siamo pronti a sbarrare la porta. “In tutta Europa esiste il reintegro nel posto di lavoro: semplifichiamo, ma il reintegro resta”, chiosa l’ex segretario. La distanza rimane amplissima. E potrebbe ricadere anche sulla votazione per i due giudici della Consulta, domani. Salvo sorprese, Violante e Bruno verranno riproposti per l’ennesima volta. Ma quasi tutti prevedono l’ennesima fumata nera, anche per colpa del Pd sempre più slabbrato. “Non ce la faranno neanche domani, lo sanno tutti”, assicura Andrea Cecconi, vicecapogruppo alla Camera dei 5 Stelle. Che sostiene: “Noi siamo pronti a votare tecnici sganciati dalla politica, che non prendano ordini dai partiti. Abbiamo fatto un’importante apertura, ma finora non ci hanno contattato. Ma come faranno senza di noi? ”. Sui nomi votabili dal M5s Cecconi non entra in dettaglio. Dal Movimento però conferma come Stefano Rodotà e Michele Ainis rimangano in cima alla lista. Ma anche Augusto Barbera e Stefano Ceccanti potrebbero essere presi in considerazione, a determinate condizioni. Renzi sa bene che la partita si è fatta complicatissima. E medita sul cambio di nomi. Barbera e Ceccanti restano ipotesi concrete per i dem, mentre per Forza Italia si parla di Maurizio Paniz e del costituzionalista Giovanni Guzzetta. “Se martedì è ancora fumata nera, bisognerà discutere”, conferma un renziano. Perché verrano tempi duri. Anzi, paludosi.

il Fatto 22.9.14
La minoranza
Fassina: “Così ci porta tutti dritti al voto”
intervista di Luca De Carolis

Ogni giorno Renzi indica nemici perché è in grave difficoltà sulla legge di stabilità e deve parlare d’altro. Ma così fa precipitare tutto. E il rischio del voto in primavera si fa concreto”. Stefano Fassina, voce critica del Pd, risponde mentre è in viaggio per Cerignola: “È la città del sindacalista Giuseppe Di Vittorio, vado a presentare il mio libro Lavoro e libertà”.
Tra voi della minoranza e il premier sembra guerra totale. Renzi vi accusa di volerlo usare come “foglia di fico per continuare a governare”. E sull’articolo 18 rilancia: “Nessuno vuole togliere diritti ma darne a chi non ne ha mai avuti”.
L’emendamento del governo va in un’altra direzione: toglie diritti ad alcuni senza migliorare la posizione di tutti gli altri. La legge delega non prevede il disboscamento della giungla di contratti precari, se non in modo eventuale. Poi c’è la possibilità del demansionamento dei lavoratori. Senza dimenticare la riforma degli ammortizzatori sociali: nella legge c’è scritto che deve avvenire a risorse invariate. Significa redistribuire soldi già insufficienti a una platea molto più larga.
In diversi ripetono: se non togliamo l’articolo 18 le imprese straniere non verranno a investire in Italia.
Sto leggendo articoli ed editoriali imbarazzanti. Gli investitori stranieri rimangono lontani per l’assenza di domanda o per altri problemi cronici come la corruzione, la pressione fiscale e i tempi troppo lunghi della giustizia. L’articolo 18 non c’entra nulla.
Il ministro del Lavoro Poletti su Repubblica avverte: “Se i tempi di approvazione saranno troppi lunghi faremo un decreto”.
È un modo singolare di affrontare i problemi. Del resto il segretario del partito ha riunito la direzione solo dopo il voto della commissione del Lavoro in Senato sul jobs act. Prima il capo decide, poi fa la riunione in streaming per farsi acclamare.
Ma voi della minoranza non sarete davvero irriducibili conservatori?
Noi vogliamo un cambiamento progressivo, non regressivo. Chiediamo di fissare con chiarezza la tipologia di contratti precari da abolire. Vogliamo il contratto a tutele crescenti, ma con l’articolo 18. E un fondo per il finanziamento degli ammortizzatori sociali. nella legge di stabilità.
Perché il fondo?
Il governo è in grande affanno, perché non ha ottenuto nulla da Bruxelles. E allora il mio timore è che voglia usare i soldi per la cassa integrazione in deroga, facendo finta di aver trovato le risorse per gli ammortizzatori.
Ma perché Renzi insiste così tanto sull’articolo 18?
Proprio per le sue difficoltà con l’Europa. Il governo è subalterno all’agenda liberista di Bruxelles. E vuole scambiare qualche margine di azione in più sulla legge di stabilità con interventi sul lavoro.
Non c’è margine per ricucire sul jobs act? Voi potreste votare no.
Io spero nel confronto sul merito. Noi vogliamo proposte contro la precarietà, sul modello tedesco che lui diceva di voler applicare prima di prendersi il pacchetto Sacconi. E comunque se vuole rilanciare il Paese Renzi intervenga per decreto sul falso in bilancio e sull’autoriciclaggio. Certo, avrà più problemi con Forza Italia...
È davvero inciucio su questi temi?
Il ddl sulla corruzione è bloccato da mesi.
Martedì si torna a votare per la Consulta.
Quanto emerso negli ultimi giorni su Bruno non aiuta a raccogliere le forze del Parlamento...
Renzi vuole andare al voto in primavera?
Se cercasse ancora lo scontro, vorrebbe dire che non è più astratta la possibilità di far precipitare tutto verso le urne.

Repubblica 22.9.14
Ma la sinistra sfida il segretario: “Trattiamo o l’arma finale sarà il referendum nel partito”
di Goffredo Fassina

ROMA Come in Scozia, la frattura del Pd sulla riforma del lavoro potrebbe sfociare in un referendum. Gli iscritti del Partito democratico verrebbero chiamati a pronunciarsi sull’abolizione del reintegro in caso di licenziamento previsto dall’articolo 18. In questo caso l’appiglio è un altro articolo, il numero 27 dello Statuto del Pd, ovvero la consultazione vincolante dei tesserati su temi di grande rilevanza. La possono chiedere il segretario, la direzione a maggioranza, il 30 per cento dei delegati dell’assemblea nazionale oppure il 5 per cento degli iscritti. Una sfida tra il sì o il no che le opposizioni interne sono convinte premierebbe le loro ragioni sconfiggendo Renzi. Se il premier cerca davvero lo scontro finale, il referendum può scattare davvero. Avrebbe certo il sapore della rivincita, ma è uno strumento difficilmente criticabile dai renziani perché rivolto direttamente ai cittadini.
Eppure la minaccia di questa arma finale contrasta con i tentativi per l’accordo che le due partiti stanno facendo in queste ore. «È una extrema ratio », ammette il bersaniano Alfredo D’Attorre. Per il momento siamo di fronte alle prove muscolari. Quelle del premier, sotto forma di video e lettere agli iscritti. Quelle della minoranza che conferma gli appuntamenti di domani. Una riunione con Civati, Cuperlo, Fassina, Damiano, D’Attorre e forse il lettiano Boccia per valutare insieme la linea da tenere in Parlamento sulla legge delega. In serata poi, al gruppo del Pd alla Camera, si riunisce l’assemblea dei parlamentari bersaniani di Area Riformista. Circa 110 persone tra deputati e senatori. Nel mirino non solo il Jobs Act ma anche la legge di stabilità. Sono messaggi di forza che gli sfidanti si lanciano e che scontano anche la futura assenza di Renzi, impegnato nel viaggio americano per una settimana. In questa categoria rientrano anche l’annunciato voto contrario, a prescindere dalla disciplina di partito, di Stefano Fassina. E la dichiarazione di Pier Luigi Bersani che sentenzia: «Su questa materia esiste la libertà di voto».
In realtà, Renzi legge spiragli di apertura. Nelle prese di posizione della Cisl e della Uil che spaccano il fronte sindacale. Nel sostegno di Confindustria. Persino nelle parole di Bersani «che, al di là della questione personale, mi sembra pronto a ragionare», lascia detto il premier ai collaboratori prima di partire per gli States. Non a caso nella trattativa, che per Largo del Nazareno conduce come al solito Lorenzo Guerini, Renzi ha fatto sapere che «lo strumento del decreto legge è escluso ». Sta in piedi soltanto come arma di pressione, ma non è quello che cerca Palazzo Chigi. Sarebbe davvero una dichiarazione di guerra. Renzi punta invece a marcare il con- fine tra vecchio e nuovo con il suo discorso di lunedì prossimo in direzione. Lo farà sottolineando che accanto alla flessibilità sui licenziamenti, cioè una riduzione dei diritti attuali, se ne guadagneranno altri per i precari attraverso un’indennità di disoccupazione universale (i soldi, 2 miliardi, verrebbero subito stanziati nella manovra) e le tutele per la maternità. È possibile inoltre accorciare i tempi per il contratto a tutele crescenti. Ossia, l’assunzione a tempo indeterminato potrebbe essere anticipata da 3 anni a 2 anni. Dopo di che rimarrebbe il reintegro per discriminazione. «Mi pare ovvio. Quello non si tocca», spiega Renzi quando illustra il suo piano.
Togliendo il decreto dal tavolo, la discussione sulla legge delega potrebbe essere più semplice. Ma la minoranza chiede di definire bene i poteri del governo. «La smetta con gli ultimatum e la propaganda — avverte Gianni Cuperlo — e chiarisca meglio cosa vuole mettere nella delega». Le riunioni di domani serviranno a fare il punto sugli emendamenti da presentare alla Camera e al Senato «Non faremo una battaglia di conservazione — dice D’Attorre — . Cerchiamo di imporre il modello tedesco riscrivendo anche l’articolo 18. Pensiamo a dei miglioramenti e siamo sicuri che Renzi se ne renderà conto leggendo le nostre proposte. Così troverà un punto di sintesi».

Repubblica 22.9.14
Vertice Cgil, Cisl e Uil “Manifestazione comune” ma è lite sull’articolo 18
Camusso vuole tutele massime per vecchi e i nuovi assunti Angeletti: pronti a mediare. Bonanni: alt alle finte partite Iva
di Luisa Grion

ROMA Trovare il punto d’incontro, puntare sulle idee comuni e andare in piazza assieme. Cgil, Cisl e Uil non hanno la stessa opinione sull’articolo 18, sul lavoro e sul Jobs Act, ma tutti e tre i sindacati sanno che manifestare separatamente vorrebbe dire servire al premier un regalo su un piatto d’argento. Renzi - a differenza di Berlusconi - non punta a dividerli, non li chiama nemmeno. Ecco perché, dimenticando le accuse che Camusso, Bonanni e Angeletti si sono scambiati negli ultimi giorni, i tre leader - in settimana - s’incontreranno per cercare di presentare assieme una mobilitazione su lavoro e articolo 18, ma non solo.
Si fa trapelare la notizia di un summit previsto per venerdì mattina (prima di partecipare assieme a un convegno del Cnel), ma è molto probabile che i tempi siano ben più stretti e che si ragioni non sui giorni, ma sulle ore. Aspettare il fine settimana avrebbe poco senso, visto che già dopo domani la legge delega va al Senato e che fra sette giorni ci sarà, sul tema, l’attesa e infuocata segreteria del Pd. Al di là dello scontro frontale fra governo e Cgil e dei colpi di fioretto scambiati nei giorni scorsi fra i tre leader, si cercherà quindi di fare fronte comune sul lavoro. Sia perché la Cgil sa che questa volta sarebbe impensabile pensare di portare in piazza milioni di persone contro l’abolizione dell’articolo 18 come Cofferati fece dodici anni fa, sia perché tutte e tre le sigle hanno urgenza di smarcarsi dall’angolo nel quale Renzi le ha confinate. Ecco perché si ragiona su tempi e modi di una manifestazione unitaria, con già in testa una data e un luogo.
Se tutto va bene e l’intesa si trova, si ragiona su Piazza San Giovanni, a Roma, per sabato 11 ottobre. I tre temi sui quali lavorare con l’obiettivo di andarci assieme riguardano la politica fiscale (le tre sigle hanno già un piano condiviso), la lotta al precariato (Renzi accusa il sindacato di pensare solo a chi ha già i diritti; Cgil, Cisl e Uil vorrebbero rispondere portando i precari in piazza) e chiaramente il lavoro. Argomento però da trattare nel complesso, senza focalizzarsi solo sull’articolo 18 e sul diritto al reintegro. Sul preciso punto infatti i sindacati hanno posizioni diverse; mentre la Cgil non è disposta a rivedere l’articolo e vuole estenderlo alle nuove assunzioni («non siamo disposti a fare scambi con gli ammortizzatori sociali», ha precisato la Camusso) Cisl e Uil aprono a una trattativa con il governo e chiedono garanzie sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma senza scendere troppo nei particolari sull’articolo 18. Bonanni vuole prima di tutto uscire dal tunnel delle false partite Iva, dei lavori a progetto, dei co.co.co e co.co.pro e chiede che tutte queste forme di precariato spariscano, assorbite dal nuovo contratto; Angeletti vuole che non sia tolto l’articolo 18 a chi già ce l’ha, ma apre ad una possibile rivisitazione per i nuovi assunti. Carla Cantone, la leader dei pensionati Cgil, è convinta che «sia ora di farla finita con le battute, le botte e risposte. Sindacato e governo tornino al merito e sul merito non sarà difficile per Cgil, Cisl e Uil trovare un fronte comune sull’articolo 18». La trattativa interna è in corso: l’obiettivo è di ottenere sul lavoro, la stessa posizione comune raggiunta dai sindacati sul settore pubblico. Contro il nuovo blocco delle buste paga, l’8 novembre, Cgil, Cisl e Uil saranno in piazza assieme.

La Stampa 22.9.14
Contratti e tutele, per il governo strada in salita
di Roberto Giovannini

In Italia, quando si tratta di dare impiego a un lavoratore, si possono utilizzare la bellezza di 46 tipologie diverse di contratto. Quelle più diffuse dal punto di vista quantitativo sono una decina. E hanno lasciato ormai poco spazio al contratto «standard» a tempo indeterminato, cui la recessione che va avanti da 7 anni ha inferto il colpo di grazia. Chi sostiene la necessità di tanta «flessibilità» mette in evidenza come l’attività economica post-fordista abbia bisogno di molte modalità diverse. I critici replicano che il proliferare delle forme contrattuali precarie è stato pilotato dalla volontà di consentire alle imprese di risparmiare sul salario o sulla contribuzione, oltre che di liberarsi agevolmente di un lavoratore.
Comunque la si veda, e qualunque sia il giudizio sulle conseguenze della precarietà, tutti convengono che il caos generato da questa «Babele di contratti» ha prodotto un analogo caos sul versante delle tutele sociali. Cinque lavoratori che svolgono la stessa attività lavorativa ma con contratti diversi - a tempo indeterminato, a termine, con contratto a progetto, associato in partecipazione, falsa partita Iva - fanno i conti con situazioni diversissime per quanto riguarda maternità, sicurezza del rapporto di lavoro, sanità, pensione, sussidi in caso di perdita del posto. Per quanto riguarda poi proprio gli ammortizzatori sociali, il caos diventa assoluto: a seconda se si lavori in una azienda grande o piccola, se sia nell’industria o nel terziario, se sia al Nord o al Sud, se il contratto sia stabile o più precario tutto cambia. Qualcuno avrà Cig ordinaria e straordinaria, qualcuno quella «in deroga»; c’è chi avrà l’indennità di mobilità e una di disoccupazione. Qualcuno avrà per qualche mese un assegno chiamato mini-Aspi, e qualcuno assolutamente nulla.
La parola chiave, utilizzata dal premier Matteo Renzi a proposito del Jobs Act, è «universalità». Regole uguali per tutti. Un obiettivo praticabile? Per quanto riguarda le forme di assunzione si può rispondere di sì, se il contratto «a tutele crescenti» diventerà come pare il contratto a tempo indeterminato standard. Ma occorre che vengano cancellate molte delle tipologie più precarie. O se non altro che siano rese più costose del contratto standard, o limitate (attraverso controlli efficaci, che oggi non esistono). Secondo gli esperti, però, è necessario anche che al contratto standard a tutele crescenti - che dovrebbe consentire secondo Renzi il licenziamento in cambio di un’indennità - vengano associati anche sconti fiscali e contributivi. In sostanza, il contratto standard dovrà essere più conveniente dei contratti precari.
Per centrare questo obiettivo serviranno risorse. Ma ne serviranno molte di più per rendere universali e uguali per tutti anche le tutele sul versante degli ammortizzatori sociali. Nei giorni scorsi Palazzo Chigi ha ipotizzato la possibilità di investire due miliardi di euro per i sussidi di co.co.pro e contratti a termine. Sarebbe certo un miglioramento notevolissimo per i diretti interessati, ma si taglierebbero fuori tanti lavoratori attivi con altri tipi di contratto. E soprattutto, invece di marciare verso l’obiettivo dell’universalità delle tutele, un sistema già tanto frammentato si complicherebbe ulteriormente. Due le possibili soluzioni. La prima, complicata, è reperire altre risorse. Oppure, si potrebbe applicare agli ammortizzatori sociali la stessa ricetta dell’articolo 18. Prendere tutte le risorse oggi spese e riutilizzarle per creare un sistema universale di ammortizzatori. Meno generoso per certe fasce di lavoratori, ma uguale per tutti.

Repubblica 22.9.14
L'articolo 18 e il marketing politico
di Ilvo Diamanti
qui
http://www.repubblica.it/politica/2014/09/22/news/l_articolo_18_e_il_marketing_politico-96366040/?ref=HREC1-2

Corriere 22.9.14
Riformare il lavoro non è la priorità
di Giorgio La Malfa
Ministro del Bilancio dall’80 all’82 e delle Politiche europee dal 2005 al 2006

Caro direttore, sul piano strettamente economico la decisione del governo di procedere in questo momento a un’ulteriore riforma del mercato del lavoro per aumentarne la flessibilità a me sembra un errore. Anzi un errore grave che può compromettere ulteriormente una situazione economica che è già molto seria.
Non è questa solo l’opinione mia e di molti economisti. Oggi è una posizione che trova importanti convalide nelle analisi delle organizzazioni internazionali. Ha cominciato il Fondo monetario riconoscendo che la correzione accelerata dei conti pubblici ha avuto effetti depressivi molto forti. Ma quello che più conta è l’analisi, largamente ignorata in Italia, che ha fatto il presidente della Bce, Mario Draghi, in un cruciale discorso tenuto il 22 agosto scorso negli Stati Uniti.
In quel discorso Draghi ha spiegato che nella disoccupazione europea vi sono due componenti, una strutturale collegata alle condizioni di rigidità del mercato del lavoro e una ciclica collegata alle condizioni della domanda. Subito dopo ha detto che oggi la priorità è risollevare la domanda aggregata: «Le politiche di intervento sulla domanda non sono giustificate soltanto dalla significativa componente ciclica della disoccupazione. Esse sono rilevanti perché, data l’incertezza che prevale in questo momento, contribuiscono a evitare il rischio che la debolezza dell’economia produca un effetto di isteresi (un circolo vizioso in cui la depressione della domanda causa una parziale distruzione della capacità produttiva nda )».
E ha concluso: «Oggi […] i rischi di “fare troppo poco” – e cioè il rischio che la disoccupazione divenga strutturale – sono maggiori dei rischi “di fare troppo” – cioè di determinare un’eccessiva pressione in aumento per i prezzi e i salari».
Se questa è la diagnosi di un autorevole economista che per di più siede al vertice di una istituzione che è, per così dire, istituzionalmente conservatrice, come si può pensare che ciò di cui oggi ha bisogno l’Italia sia un’ulteriore flessibilità del mercato del lavoro? Il primo effetto di tale scelta sarebbe un ulteriore aumento della disoccupazione e un ulteriore avvitamento dell’Italia nella crisi. Il governo dovrebbe concentrare la sua attenzione sullo stimolo della domanda e lasciar stare il mercato del lavoro che la crisi di questi anni ha già reso anche troppo flessibile.
Non discuto le ragioni politiche che possono indurre il presidente del Consiglio a ingaggiare una polemica con i sindacati. I sindacati non sono molto popolari oggi, nemmeno fra i loro aderenti, e quindi scontrarsi con loro può creare delle simpatie nell’opinione pubblica. E il governo può averne bisogno essendo palpabile la disillusione di una parte dell’elettorato che aveva votato Renzi alle elezioni europee. Tutto questo si capisce, ma non vorrei che la ricerca della popolarità ci facesse fare nuovi e costosi errori.

Corriere 22.9.14
Italia e Francia. Guerra tra le “due sinistre”
I nostalgici del Novecento
di Pierluigi Battista

Ogni sterzata in senso riformista in Europa occidentale ha un prezzo: l’inasprirsi della guerra tra le due sinistre. Oggi è il turno della Francia e dell’Italia, le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri princìpi violati dall’«usurpatore» di turno. I piloti dell’Air France che bloccano il Paese per protestare contro i piani di sviluppo della compagnia low cost controllata dal gruppo sono i cugini d’Oltralpe dei sacerdoti che si sentono chiamati alla missione di difendere il dogma dell’articolo 18: una clausola oramai sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati.
Le svolte riformiste comportano gravi prezzi di popolarità e di consenso. Tony Blair ingaggiò un’interminabile e spietata battaglia contro il potente ma oramai decrepito establishment del vecchio Labour e solo grazie a quella offensiva coraggiosa riuscì a sfidare con successo la lunga egemonia dei Tories thatcheriani. Nella Germania del 2003 l’allora leader socialdemocratico Gerhard Schröder fu molto baldanzoso ed esplicito nel presentare un progetto riformista sul mercato del lavoro: «Ridurremo le prestazioni sociali dello Stato, promuoveremo la responsabilità individuale ed esigeremo un maggior contributo da parte di ciascuno». Fu una ricetta dolorosissima per la sinistra tedesca, che si spaccò, erodendo la base dei Socialdemocratici, pagò un duro prezzo elettorale ma contribuì alle riforme di cui la Germania aveva bisogno e che oggi fanno la differenza con tante nazioni dell’Europa mediterranea e latina. Oggi è la volta della Francia e dell’Italia, la culla della sinistra «latina», fortemente segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche. E anche qui la guerra tra le due sinistre si annuncia feroce e cruenta.
Alla Francia di Hollande non basta certo la testa dei tre ministri del governo Valls, e in particolare di quella del ministro dell’Economia Montebourg sostituito dal neoministro Macron, socialista certo ma con un passato di banchiere. Già con Mitterrand, il massimalismo ideologico della sinistra francese subì fortissimi colpi. Nel primo mitterrandismo la sinistra socialista pagò il prezzo della sua alleanza con il Pcf, ma quella fase si chiuse, con una rottura e una guerra tra le due sinistre che si esaurì provvisoriamente con la disfatta di quella più vecchia e conservatrice. In Italia la bandiera di un riformismo capace di sfidare i tabù e i veti di un sindacato impermeabile alle innovazioni più radicali nel mondo del lavoro venne dapprima impugnata da Massimo D’Alema: ma il braccio di ferro fu vigorosamente vinto dalla Cgil di Sergio Cofferati, che qualche anno dopo, riempiendo le piazze e trascinando l’intera sinistra politica di allora, sconfisse anche il tentativo di Berlusconi di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Oggi Francia e Italia sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare «l’anima» della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi.

Corriere 22.9.14
I modelli europei (e qualche dubbio)
di Dario Di Vico

Per il peso che la cultura del lavoro ha sempre avuto in Italia dovremmo avere in dotazione un sistema modello su occupazione e contrattazione. Siamo invece costretti a cercare quel modello nelle esperienze dei nostri partner europei. E allora proviamo a confrontare i sistemi danese, tedesco, spagnolo e inglese. Cosa servirebbe importare e cosa invece è da sconsigliare? L’impressione è che non esista un abito su misura, siamo condannati a fare zapping.
Per la quantità di giuslavoristi e di sindacalisti che vantiamo in Parlamento, per il peso che la cultura del lavoro ha sempre avuto nel dibattito culturale e per i protagonisti che abbiamo storicamente espresso l’Italia dovrebbe avere come dotazione un sistema modello per quello che riguarda l’occupazione, la contrattazione e più in generale la regolazione del lavoro. E invece no. Nessuno ci considera una best practice e anzi siamo costretti a inseguire, a cercare nelle esperienze dei nostri partner europei quel modello che non siamo stati in grado di costruire prima e innovare poi da soli. Bruxelles, che pure non è certo un magistero quanto a legami con l’economia reale, ci bacchetta di continuo e considera l’inefficienza del nostro mercato del lavoro come uno dei nostri principali mali. Così, come del resto è accaduto in altri campi — come è accaduto per la legge elettorale —, le querelle politiche romane si nutrono dei richiami a questa o quella esperienza straniera, spesso citati a caso come avviene nel tritacarne delle dichiarazioni giornaliere. E allora con l’aiuto di due tra i principali esperti italiani, l’ex ministro Tiziano Treu e il giuslavorista Michele Tiraboschi, abbiamo provato a individuare i tratti salienti di quattro modelli (danese, tedesco, spagnolo e inglese), che cosa ci servirebbe importare e che cosa invece è da sconsigliare. L’impressione finale è che non esista un abito su misura da comprare e indossare al volo, siamo condannati a fare zapping ovvero a scegliere in questa o quella pratica singole soluzioni da copiare. E da inserire in un impianto politico-culturale che, dobbiamo dircelo, fatica a recepire le novità.

Corriere 22.9.14
Consulta, il caso Bruno e l’effetto domino sulla tenuta di Violante
Il leader di FI spera nel soccorso leghista
di Tommaso Labate

La scelta
Domani le Camere si riuniranno in seduta comune per l’elezione di 2 giudici della Consulta e 2 degli 8 membri del Csm di nomina parlamentare (gli altri 6 sono stati eletti nei giorni scorsi). Finora 13 i tentativi a vuoto

Il ticket
Per la Corte costituzionale serve il quorum del 3/5 dei componenti dell’assemblea: 570 voti. Nell’ultima seduta prima della sospensione Luciano Violante (foto in alto ) si è fermato a quota 542, Donato Bruno (foto in basso ) a 527 preferenze

ROMA — «Non ho alcun interesse personale per le nomine alla Consulta. Ma questa situazione va sbloccata. E se non lo facciamo con Bruno e Violante, rischiamo di rimanere appesi alle fumate nere per mesi e mesi». Al tramonto di un weekend in agrodolce, la cui parte amara è dovuta alla bruciante sconfitta del Milan di Inzaghi contro la Juve del «nemico» Allegri, Silvio Berlusconi s’è dato una missione quasi impossibile. E un tempo per realizzarla. Trenta ore.
Nelle prossime trenta ore, poco meno di quelle che mancano alla prossima votazione del Parlamento sui giudici della Corte costituzionale, l’ex Cavaliere proverà in tutti i modi a convincere la Lega Nord a dirottare i propri voti sul tandem Violante-Bruno. «Un’operazione sottotraccia», come la definiscono quei parlamentari che ieri sono riusciti a parlare con l’ex premier. Anche perché, nel caso, il sostegno del Carroccio al ticket democratico-forzista dovrà arrivare a fari spenti. Nessuna uscita pubblica, insomma, visto che Matteo Salvini e tutto lo stato maggiore leghista continueranno a dichiararsi contrari. Servono solo i voti nel segreto dell’urna. Servono quelle poche decine di consensi che, in linea teorica, virtualmente separano i due dal quorum.
Ma quand’anche l’operazione di Berlusconi con la Lega andasse a dama, quand’anche l’ex Cavaliere riuscisse nelle prossime ore a parlarne a quattr’occhi con Salvini, sulla testa di Bruno pende una spada di Damocle che rende sempre più complicata la sua elezione. Nel lasso di tempo tra stamattina e domani, infatti, sia il Pd che Forza Italia si aspettano che la Procura di Isernia metta un sigillo definitivo sul dettaglio principale dell’inchiesta sul fallimento dell’Ittierre. E che metta nero su bianco ufficialmente se Bruno risulta iscritto nel registro degli indagati o meno. Se così fosse, come i vertici dei gruppi parlamentari democratici hanno spiegato agli omologhi forzisti, per il Pd sostenerlo diventa «davvero difficile».
Ma non c’è solo l’inchiesta. Su Bruno, e ovviamente anche su Violante, rischiano di abbattersi — nel segreto dell’urna — tutti i mal di pancia che tormentano sia il Pd (la discussione sull’articolo 18) che Forza Italia (la richiesta di primarie portata avanti dall’area che fa capo a Raffaele Fitto). «Più che articolo 18», sussurra ieri pomeriggio Pippo Civati, «qua arriviamo al 2018. Questa storia della Consulta è stata impostata talmente male che rischiamo di uscirne non prima di quattro anni». Mentre Corradino Mineo, un altro democratico anti renziano, segnala «che non è tanto la questione di Bruno, che certamente non è peggio dell’ex candidato berlusconiano Catricalà. Renzi e Berlusconi hanno sbagliato metodo, hanno scelto senza coinvolgere nessuno. Appiccano l’incendio e poi dicono che è colpa dei parlamentari».
Morale? Le regole d’ingaggio dei renziani, nel caso in cui Bruno risultasse indagato, prevedono la richiesta ai berlusconiani di sostituire la sua candidatura (si tenterebbe di convincere Bruno al passo indietro) con un’altra. E senza che questo comporti delle ricadute sulla candidatura di Violante. Ma è un percorso strettissimo, ai limiti della percorribilità. Basta leggere il tweet lanciato ieri in Rete da Augusto Minzolini, che moltissimi colleghi del senatore azzurro sottoscriverebbero anche davanti a un notaio. «Nel Pd qualcuno immagina di far fuori Bruno nell’elezione alla Consulta e di tenersi Violante. Simul stabunt simul cadent ». Tutti e due. O nessuno dei due.
Bruno, se indagato, farebbe un passo indietro? E, a seguire, ci sarebbe il beau geste da parte di Violante? Mistero. A conti fatti, più che l’esito finale, per ora l’importante è arrivarci, alla votazione. Ancora trenta ore. Il cronometro, che un Berlusconi pronto all’impresa disperata pur di sbloccare l’impasse, è stato già azionato.

il Fatto 22.9.14
Violante, un uomo per tutte le poltrone
di Ferruccio Sansa

Povero Violante. Sì, a volte anche i potenti suscitano tenerezza, non ci azzardiamo a dire pena per non mancare di rispetto. Sembra non essersi accorto che mezzo paese (quasi tutto, al di fuori del fortino delle segreterie di partito) non lo vuole come giudice costituzionale, e lui aspetta imperterrito di essere nominato.
Povero Violante, la sua insistente tenacia ti fa quasi pensare a quei signori che bussano alle porte dei giornali, delle case editrici con sottobraccio un manoscritto di migliaia di pagine che racconta la loro vita, i loro amori giovanili. A quegli inventori che passano le giornate a proporre lo straordinario brevetto - cui hanno dedicato l’intera esistenza - per pelare le patate senza sporcarsi le dita. Bussano di porta in porta, impegnati in una battaglia contro il mondo che non gli crede.
Più che indignarsi di fronte a tanta insistenza, bisognerebbe provare a prendere da parte Violante, a parlargli. Più che puntare sul senso delle istituzioni, forse servirebbe fare appello al senso di sé che quasi tutti in fondo conservano. Il problema è che, a differenza di tanti geni incompresi, Violante non propone un pelapatate, ma la propria candidatura a una delle cariche più importanti dello Stato. E soprattutto è riuscito a convincere più d’uno: non persone qualunque, ma i vertici del Pd e addirittura del Paese. Chissà, forse anche loro sono mossi da umana comprensione, dal timore che l’uomo scivoli nella malinconia dopo una vita spesa tra tanti impegni e poltrone (poco importa, come sostengono i soliti maligni, che le abbia magari ottenute non solo perché le sue idee erano condivise da tutti, ma perché lui condivideva le idee di tutti).
Ha ancora un giorno Violante, per pensarci. Per compiere un gesto che gli farebbe più onore della poltrona: ritirarsi. Ma anche nel Pd qualcuno potrebbe riconsiderare la questione. La carica di giudice costituzionale richiede sopra ogni cosa due caratteristiche: competenza e indipendenza. Soprassediamo sulla prima, anche se verrebbero in mente tanti giuristi degni di quel ruolo. Ma Violante, forse, negli anni spesi a fare politica passava le notti chino sui codici. Possibile.
Di certo, e non gli facciamo offesa ricordandolo, l’esponente Pd è uomo di parte. Forse, addirittura di più parti. Un vantaggio per un politico, non per un giudice costituzionale.
Chissà, forse anche il suo amico Giorgio Napolitano ha provato a frenarlo. E noi del Fatto abbiamo pensato male: quel monito contro i “settarismi” era proprio rivolto al Pd che ostinatamente cercava di imporre persone non gradite. Forse, addirittura, in un impeto di ironia, il Presidente si rivolgeva perfino a se stesso. Stava sperimentando un nuovo genere di messaggio: l’auto-monito.

Repubblica 22.9.14
E il voto sulla Consulta ora rischia di essere congelato
di Liana Milella

ROMA . Per la Consulta e i due giudici già si va oltre il voto di domani a Montecitorio dando per scontata la fumata nera. Si fanno strada due ipotesi. La prima: blindare almeno il voto sul Csm, dove bisogna eleggere due consiglieri, per sbloccare la grave impasse dell’attuale Consiglio in prorogatio . Mentre la Consulta può funzionare con 13 giudici (e pure con 11), il Csm è congelato, con grave preoccupazione del suo presidente Napolitano per le numerose nomine da fare dopo il taglio dell’età pensionabile delle toghe. La seconda ipotesi, a votazione fallita, è chiedere ai presidenti delle Camere una pausa di riflessione, motivata da due fatti, l’assemblea dell’Onu a New York che non solo vede presente Renzi, ma comporta la partenza di un’ampia delegazione fatta di ministri, vice ministri, sottosegretari, presidenti e vice presidenti di commissione. Per la seduta di domani alle 12 i responsabili dei gruppi hanno chiesto di sospendere le missioni e di rinviare i voli, ma da quel momento verrebbe a mancare un nutrito gruppo di votanti.
Non solo. Se né Bruno né Violante raggiungono l’alto quorum previsto – i 3/5 dei componenti l’assemblea – a quel punto, dopo 14 votazioni, si dovrà pensare a due nomi diversi. E il segretario del Pd è via per una settimana. L’esigenza del rinvio potrebbe trovare ascolto presso i presidenti delle Camere in tensione per il lavoro ordinario che si sta accumulando. La condizione però è che domani si dia il via libera ai due candidati per il Csm, il forzista Zanettin e la Balducci per conto di Sel. Il Pd sta lavorando su questa ipotesi, che ha una forte controindicazione: Sel, incassata Balducci, potrebbe non votare più Violante per la Corte. Ma è certo che, dopo il caso Isernia, Sel non voterà Bruno.
Proprio l’affare Bruno, non bastasse quello sul lavoro, ha aperto nel Pd lo scontro su che fare con un indagato. Casson, su Repubblica, ha detto la sua, in sostanza non votare per lui. Ma c’è chi insiste sull’assenza di una conferma ufficiale sulla posizione di Bruno che non ha ricevuto un avviso di garanzia (non è obbligatorio). «Perché la procura di Isernia, come ha fatto Napoli per Vitali, non chiarisce ufficialmente la sua posizione?», dicono nel Pd. Ma ai giornalisti Isernia ha confermato che Bruno è indagato. Fi lo difende e Berlusconi ha detto ai suoi: «Sia chiaro che se cade il nostro Bruno cade pure Violante». Il Leader di Fi è convinto che, anche per via della rissa sul jobs act, Violante calerà i voti in chiave anti Renzi. Fi però avrebbe interesse a portare a casa la candidatura di Zanettin, genero dell’avvocato Coppi, ma non è riuscita a chiudere un’intesa con la Lega.
Il Pd s’interroga su che fare con Violante che rischia di uscire malconcio, mentre avrebbe potuto essere nominato da Napolitano che entro il 9 novembre deve scegliere altri due giudici della Corte perché scadono il presidente Tesauro e Cassese. Una parte dei Dem si preoccupa di appannare Violante mettendolo da parte assieme all’indagato Bruno. Ma se il Pd insistesse su di lui, ufficializzando il no a Bruno, a quel punto Fi non lo voterebbe più. M5S lancia un segnale, sarebbe disposto a votare per Augusto Barbera. Per raggiungere quota 570 gli oltre cento voti grillini non sono da buttar via.

il Fatto 22.9.14
Il congresso degli avvocati
I penalisti spaccati: passa la linea critica sul governo

Dopo due giorni di dibattito, al congresso dei penalisti passa la linea più critica sul confronto con il governo sulla riforma della giustizia, con la scelta di Beniamino Migliucci come nuovo leader. Ma il neopresidente assicura subito che il dialogo con l’esecutivo continuerà e giudica fisiologiche le divisioni emerse: “Non abbiamo correnti; è stata un’ importante prova di democrazia”. Anche i numeri della sua elezione confermano però che dentro l'Unione delle Camere penali ci sono sensibilità diverse: a Migliucci sono andati 195 voti, contro i 150 ottenuti dal suo diretto concorrente, Salvatore Scuto. 

«Cosa aspettano? Che qualcuno ci rimetta la pelle? - attacca Micaela Quintavalle, la pasionaria degli autisti romani, presidente del sindacato Cambia-menti M410 -, siamo pronti a occupare Roma per ottenere più sicurezza e cabine blindate specialmente sulle tratte di periferia. In poche settimane sono stati aggrediti tre conducenti, compreso un collega napoletano picchiato dai romanisti fuori dallo stadio solo per il suo accento»
Corriere 22.9.14
Assalto a un mezzo Atac alla periferia della Capitale
«Apri o ti ammazziamo» . Autista aggredita sul suo bus
Elisa, l’autista: «Erano in 30, nessuno mi ha aiutata». Sassi e bottiglie contro il mezzo sul percorso verso Tivoli. Lei chiusa dentro in lacrime «Ho chiamato un collega, gli ho chiesto di salvarmi Suonavo il clacson per fare più rumore possibile»
di Rinaldo Frignani
qui
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_settembre_22/apri-o-ti-ammazziamo-autista-aggredita-suo-bus-215d39ec-421f-11e4-8cfb-eb1ef2f383c6.shtml

Repubblica 22.9.14
Corcolle, assalto al bus e minacce, giovane autista donna sotto shock
In quaranta hanno preso a calci, pugni e bottigliate una vettura
Terrorizzata la conducente che oggi sporgerà denuncia. La solidarietà del sindaco Marino
La sindacalista Quintavalle: "Servono cabine blindate"
Atac: "Segnalate a forze dell'ordine criticità di alcune zone"
qui
http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/09/21/news/corcolle_bus_preso_d_ssalto_autista_sotto_shock-96304094/?ref=HREC1-25

Corriere 22.9.14
Roma Torpignattara
Uccise senzatetto, presidio di solidarietà per il 17enne arrestato
Lo striscione per l’arrestato: «Non sei solo, tutti con te»
Protesta nel quartiere dove, nella notte tra il 18 e il 19 settembre, un clochard di origini pakistane è stato pestato a morte
qui
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_settembre_21/uccise-senzatetto-presidio-solidarieta-il-17enne-arrestato-00c8478c-41d7-11e4-a55b-96aa9d987f34.shtml

Corriere 22.9.14
Le sbronze (sottovalutate) degli adolescenti
L’allarme del primario: «Qui ormai arrivano anche ragazzini di 12 anni»
di Leonard Berberi, Simona Ravizza e Giacomo Valtolina

C’è chi, a una certa ora della serata, non ne può fare a meno. E non esita ad alzare le mani e picchiare quando — com’è successo a Firenze — il negoziante rifiuta di dargli dell’alcol per non violare l’ordinanza comunale che vieta la vendita di bottiglie da asporto tra le 22 e le 6 del mattino.
Un caso tra mille. Sono tanti i giovani, alcuni anche giovanissimi, che in Italia con l’alcol hanno più di un problema. Tanto da finire anche in coma etilico: intossicati da etanolo, svenuti per terra, con la respirazione che si blocca e il cuore che rischia di fermarsi se non c’è nessuno a soccorrere. Secondo il ministero della Salute gli under 30 «rappresentano il 9,1% dell’utenza a carico presso i servizi per l’alcoldipendenza». Quasi uno su dieci. La prima sbronza, poi, arriva sempre più presto: già tra gli 11 e i 12 anni, dicono i medici. E per l’Istat più di due ragazzi su cento (nella fascia 11-24 anni) si sono ubriacati almeno una volta. Mentre oltre un under 20 su tre — scrive Espad, progetto europeo di ricerca sul consumo di alcol e droghe tra gli studenti — è stato protagonista del «binge drinking», le abbuffate etiliche in un breve intervallo di tempo, nell’ultimo mese prima della rilevazione. Soprattutto al Nord, calcola il Dipartimento politiche antidroga: a superare più spesso i limiti sono i maschi, anche se le femmine sono in aumento.
Vodka e whiskey, rum e gin mischiati con bevande energetiche, soda e succhi di frutta. «Shot», i bicchierini da liquore, riempiti fino all’estremità che si tirano giù in un sorso il fine settimana. Quindi le serate «speciali» con prezzi scontati. Il mercoledì, per esempio. O il giovedì. Cocktail a tre, quattro euro. Shot a uno. Per non parlare degli «appuntamenti» sui social network. Come la «Nek nomination». Va di «moda» su Facebook. Bevi il più possibile. Intanto qualcuno ti filma con il telefonino. Così puoi pubblicare il video sul tuo profilo.
Un’emergenza sociale, insomma. Anche se i giovani italiani restano sotto la media europea. L’Est e la Scandinavia sono lontani. Però, spiega il ministero della Salute, da noi «si consolidano i nuovi comportamenti di consumo più vicini alle culture prevalenti nel Nord Europa». Che vuol dire sempre meno vino — «tipico della nostra tradizione» — e sempre più bevande ad altissima gradazione, sempre più fuori dai pasti e sempre più concentrati nel tempo.

MILANO — È quasi l’una al Policlinico, dall’ambulanza scende un giovane, non avrà neppure vent’anni. Le ginocchia non lo reggono, due infermieri gli tengono le braccia come i fili di un burattino. «Come ti chiami?» chiedono. «Br..o» biascica lui, gli occhi all’indietro e l’aria perduta. «Bruno, hai bevuto stasera eh?». Poi il silenzio e una lunga attesa, da solo, adagiato molle sulla sedia a rotelle, alternando sonno profondo a rantoli inquietanti. Il 118 è sul chi va là. A San Siro c’è Milan-Juve, che chiama overdose di birre e sambuche, alla Fabbrica del Vapore un party di musica elettronica, e poi le feste. Alcatraz, Tunnel, Lime light, in discoteca va in scena il rito del sabato sera, affogato in vodka pura da bere tutta d’un sorso.
A fine serata Barbara Guglielmi, medico del Pronto Soccorso del San Raffaele, è stravolta: «Arrivano con le ambulanze chiamate da amici o passanti. Trovati a terra, non riescono a stare in piedi e quando gli parli reagiscono in maniera aggressiva e si addormentano continuamente». Sono sempre di più e sempre più giovani. Disorientati, in preda ad allucinazioni, privi di sensi. «Gli ospedali più battuti sono quelli con la Pediatria», spiega il capoturno del 118. In via della Commenda, centro città, alla clinica De Marchi, gli adolescenti in trance alcolica incrociano bambini con la febbre alta. Qui, nei primi mesi del 2014 i ricoveri sono in crescita del 66 per cento rispetto a due anni fa: 50 casi in sette mesi, quasi quanto l’intero 2012. Il primario Emilio Fossati è preoccupato: «L’età si è abbassata. Oltre ai giovani tra i 14 e i 18 anni, si iniziano a vedere anche i 12 e 13enni».
La maggioranza sono femmine, che reggono le bastonate di una sbronza meno dei coetanei. «Sono disinibite, spesso appartenenti alla Milano bene», riprende Guglielmi del San Raffaele. Una forte ubriacatura può mandare in tilt il cervello, con l’interruzione dei rapporti tra i due emisferi e il rischio di arresto cardiocircolatorio e crisi respiratorie. Anna, 17 anni, studia al liceo scientifico Donatelli. S’infila due dita in gola sopra un’aiuola davanti all’Alcatraz. «Sto bene», assicura mentre barcolla e non sa il rischio che corre: indursi il vomito da soli — come ripetono i medici — è pericoloso perché si rischia il soffocamento.
Chiara Liverani, 47 anni, medico rianimatore dell’ospedale di Sesto San Giovanni, dopo una notte di volontariato davanti agli spazi East end di via Mecenate, periferia Est della città, è scioccata: «Mi sono imbattuta in adolescenti ammassati a terra che si vomitavano addosso fra di loro — racconta —. E non erano casi isolati. Li ho trovati in ogni angolo. Piuttosto che un’altra notte del genere preferisco una settimana non stop in ospedale. Certo, anche qui arrivano adolescenti messi male che rischiano il coma etilico. Un esempio? Una 14enne che si è ubriacata alle sei del pomeriggio durante una festa in casa dove si è scolata un’intera bottiglia di vodka».
È allarme baby alcolisti. Così, negli ultimi mesi, i 13enni delle scuole di Milano sono stati chiamati a compilare un questionario: in un’indagine promossa dall’Osservatorio permanente giovani e alcol sono stati presi per la prima volta in considerazione 300 alunni di terza media. «Dai risultati (che saranno presentati nei dettagli il 23 ottobre al Circolo filologico di Milano) emerge che solo l’11,9 per cento dei giovanissimi ha genitori che sono stati in grado di affrontare l’argomento», spiega il segretario generale dell’Osservatorio, Michele Contel. In particolare, emerge quanto gli adolescenti si facciano influenzare, vittime delle logiche di gruppo. «Dallo studio risulta che se gli amici si ubriacano, otto su dieci si lasciano condizionare», precisa Maurizio Tucci, presidente del Laboratorio Adolescenza. Se tu bevi, bevo anch’io.

Corriere 22.9.14
Giovani e alcol, attrazione fatale
Troppe sbornie non sono innocenti
di Paolo Di Stefano

Ci sono alcuni elementi confortanti nell’ultima relazione sull’uso di alcol emanata dal Ministero della Salute. Il più sensibile è che l’Italia è capofila nella percezione del problema: i nostri giovani hanno, rispetto ai coetanei europei tra i 15 e i 24 anni, un’ottima consapevolezza del rischio legato all’uso occasionale di alcol. Il 41% lo considera un pericolo medio-alto, mentre la media continentale si ferma al 26. Un primato da non sottovalutare. Insomma, le buone intenzioni ci sono, ma come si sa di buone intenzioni le vie dell’inferno sono ampiamente lastricate. E infatti, pur rimanendo (ma non di molto) sotto il livello europeo anche nei fatti, il problema purtroppo esiste, se è vero che il 9% degli italiani sotto i trent’anni sono utenti dei servizi per l’alcoldipendenza. Uno su dieci. Mica poco.
Il fatto è che la bevuta nelle sue varie forme, lieve sbornia o sballo da ubriacatura, alcolismo regolare o occasionale (fino al cosiddetto binge drinking ), viene avvertita dai più (genitori compresi) come un’infrazione meno allarmante di altre: droghe di vario genere, per esempio. Mentre già per lo spinello le soglie di attenzione sociale e familiare sono altissime, si è disposti a chiudere un occhio per il classico bicchiere in più, quasi si trattasse di un peccato veniale (certo, può esserlo), di una trasgressione che non comporta assuefazione e dipendenza.
Uscendo dai confronti con gli altri Paesi e quindi dai dati relativi, sapere che un ragazzo su cinque nell’ultimo mese ha alzato il gomito (tecnicamente binge drinking significa aver consumato in brevissimo tempo almeno sei «porzioni» alcoliche o superalcoliche) è in sé spaventoso. Poco importa che lo sballo sia avvenuto in discoteca nelle ore piccole (magari procurandosi casse di birra nei supermercati per aggirare i divieti ai minori) o durante un allegro happy hour nei luoghi topici della movida tardo pomeridiana, solo in apparenza più innocente, ma diventata una coazione a ripetere come unica occasione quotidiana per socializzare: aperitivo che di solito non «apre» alla cena. Le vie della normalità alterata dell’adolescenza sono infinite, passano anche attraverso l’alcol, e il controllo dei genitori è un equilibrio delicatissimo tra due eccessi: la timorosa cautela e l’invadenza ansiosa e ansiogena.

La Stampa 22.9.14
Uno stato per due popoli non funzionerà
di Abraham Yehoshua

Chi conosce bene le strade, le città, gli insediamenti, le aree industriali e agricole della Cisgiordania, sia nelle zone controllate da Israele sia in quelle dell’Autorità palestinese, si rende conto che un futuro stato bi-nazionale - israelo-palestinese - sarà inevitabile. Eppure tante persone animate da buone intenzioni, che aspirano alla pace e disposte, a parole, a sradicare trecentomila coloni ebrei, a rimuovere intere comunità e a modificare i tracciati delle strade, ancora si rifiutano di vedere la nuova realtà politica e umana che sta prendendo forma in Cisgiordania. 
In un’epoca in cui la Scozia ha indetto un referendum per separarsi dall’Inghilterra, la Cecoslovacchia è divisa in due distinte entità, l’Unione Sovietica e la Jugoslavia si sono frantumate in vari Stati e gruppi etnici che per generazioni hanno vissuto accomunati in un unico quadro nazionale chiedono l’indipendenza politica e linguistica, gli ebrei, ancora una volta in controtendenza con la storia, imbastiscono legami con i palestinesi e si inseriscono nel tessuto di un popolo straniero contro il quale conducono una lotta sanguinosa da più di un secolo, un popolo con una storia, una religione, una cultura e un livello economico diversi e oltretutto legato alla grande nazione araba e all’immenso mondo islamico che ancora non hanno riconosciuto la legittimità di Israele. Lo Stato ebraico sta perseguendo una politica insensata, in contrasto non solo con la posizione della comunità internazionale, ma anche con quella di quasi la metà degli israeliani. 
Com’è possibile tutto ciò? Ci domandiamo noi, sostenitori della pace israeliani. E i nostri amici e simpatizzanti nel mondo ci chiedono se abbiamo forse perso il senno per non vedere cosa stiamo facendo a noi stessi. 
Ma al di là delle critiche - più o meno fondate - di cui sono fatti bersaglio americani ed europei, accusati di esercitare scarsa pressione su israeliani e palestinesi per una soluzione del conflitto, e la sinistra israeliana, tacciata di debolezza, dobbiamo riconoscere che ciò che sta avvenendo in Cisgiordania non è solo colpa di Israele ma anche dei palestinesi i quali, malgrado le dichiarazioni ufficiali, sognano uno stato bi-nazionale, ovviamente conforme al loro punto di vista, e operano per raggiungere tale obiettivo.
In altre parole la difficoltà dei sostenitori della pace e della comunità internazionale nel risolvere il conflitto israelo-palestinese mediante la creazione di due Stati per due popoli è dovuta alla strenua e non sempre palese opposizione di entrambe le parti. 
I palestinesi non si rendono forse conto che i loro territori - base e fondamento di un’identità nazionale - sono soggetti a un’erosione quotidiana? L’occupazione non è per loro motivo di angoscia? Non capiscono che gli israeliani stanno portando avanti in Cisgiordania un processo irreversibile? Io ritengo che lo capiscano ma trovino probabilmente conforto al loro dolore e alle loro sofferenze nell’idea di un unico Stato bi-nazionale. E questo vale non solo per i palestinesi della Cisgiordania ma anche per la maggior parte di quelli israeliani. Ufficialmente i palestinesi sostengono la soluzione di due Stati per due popoli (anche se quello palestinese avrà un’estensione inferiore a un quarto del suo territorio originale), ma nel profondo del cuore sognano e sperano in un unico Stato in cui, nei primi tempi, saranno forse discriminati ma che un giorno, sull’esempio di Nelson Mandela e compagni, diventerà democratico e uninazionale, sempre secondo la loro interpretazione di tali termini. Ancora oggi, infatti, i palestinesi nutrono dubbi sulla nazionalità ebraica e considerano l’ebraismo una mera religione. 
Dico tutto ciò perché se i palestinesi volessero davvero, come sostengono, liberarsi della rovinosa occupazione israeliana e fondare un loro Stato prima che sia troppo tardi, avrebbero dovuto cercare di separarsi da tempo dagli israeliani, dividere la regione in base ai confini del ’67 e creare uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Avrebbero dovuto accogliere la richiesta - infondata e assurda ma senza alcuna conseguenza pratica - di Benyamin Netanyahu di riconoscere Israele come Stato ebraico e smetterla di continuare a rivendicare il diritto al ritorno dei profughi, cosa che non potrà mai avvenire. Avrebbero dovuto accettare uno scambio di territori, soprattutto nella zona di Gush Etzion, e persino la presenza nel loro futuro Stato di una minoranza ebraica con diritto di cittadinanza. Il tempo stringe e ogni giorno che passa la possibilità di creare un loro Stato autonomo si allontana. Secondo la logica, avrebbero dovuto acconsentire a uno smantellamento delle armi pesanti entro i confini del ’67 e alla presenza di una forza internazionale lungo il fiume Giordano in cambio della sede del loro governo a Gerusalemme, così da poter acciuffare per la coda la possibilità di uno Stato indipendente prima che questa sfugga per sempre.
Ma i palestinesi non sembrano avere fretta. Anzi, si impuntano su determinate richieste e provocano ritardi nei negoziati, forse confortati da un sogno di tipo diverso: quello di uno Stato unico, comune ai due popoli, in cui saranno in qualche misura discriminati (come lo sono ora i loro fratelli in Israele), ma potranno comunque godere di diritti civili. Un sogno ingenuo perché i palestinesi non tengono conto che, prima di poter far pesare in qualche modo la loro superiorità demografica alla Knesset, gli israeliani, grazie a uno stratagemma, riusciranno a piegare la democrazia a loro favore garantendo la fittizia cittadinanza israeliana a decine di migliaia di ebrei sparsi per il mondo che neutralizzeranno qualsiasi minaccia mediante un sistema di votazione elettronica. 
Traccio un simile scenario in risposta alle violente autocritiche della sinistra israeliana e alle sue autoaccuse di debolezza e di distacco dal popolo a causa di lotte intestine. È sempre bene farsi un esame di coscienza - ed è anche necessario - ma i sostenitori della pace in Israele e nella comunità internazionale farebbero bene a realizzare che la pace si fa attendere non solo a causa delle fantasie israeliane di uno Stato binazionale ma anche di quelle palestinesi. Non è quindi sorprendente che il compito di contrastare questa doppia aspirazione sia complesso e frustrante. Ma non dobbiamo disperare...

La Stampa 22.9.14
“Abbiamo 15 secondi per catturare un ricercato”. Tzahal, dietro le quinte dell’Unità “Ciliegia”
Esce in Israele il libro “Ki BeTachbulot” (Con gli stratagemmi) scritto da due ufficiali della riserva che raccontano i segreti dell’unità “Duvdevan”
i serve di soldati perfettamente mimetizzati nella società araba, al fine di catturare i terroristi “prima che possano colpire”.
di Maurizio Molinari
qui
http://www.lastampa.it/2014/09/22/esteri/libri/abbiamo-secondi-per-catturare-un-ricercato-tzahal-dietro-le-quinte-dellunit-ciliegia-7xwoVk2cCL391R8I0TshqL/pagina.html

La Stampa 22.9.14
Berlusconi: la maggioranza degli israeliani vorrebbe usare l’atomica
qui
http://www.lastampa.it/2014/09/21/italia/politica/berlusconi-la-maggioranza-degli-israeliani-vorrebbe-usare-latomica-16yot8LpuxMzpWfOJhLPuN/pagina.html

La Stampa 22.9.14
Il leader degli oppositori laici Abdel Basset Sayd:
“Le bombe Usa contro il Califfo sono solo un favore ad Assad”
di Maurizio Molinari

Siria, il leader degli oppositori laici Abdel Basset Sayda: Obama sta sbagliando
«I raid americani contro Isis in Siria finiranno per giovare al regime di Bashar Assad». Seduto in un hotel frequentato da stranieri, Abdel Basset Sayda porta agli interlocutori giordani un messaggio destinato anche ad altri Paesi del Medio Oriente: l’intervento militare che l’amministrazione Obama sta preparando in Siria contro gli jihadisti del Califfo Ibrahim non gioverà ai ribelli filo-occidentali. Dal 2011 nel Consiglio nazionale siriano, di origine curda, stimato in Europa e negli Stati Uniti per le posizione moderate che esprime, Abdel Basset Sayda ha guidato nel 2012 il più importante organismo dell’opposizione e rappresenta le posizioni del «Free Syrian Army», che opera dalle basi in Giordania e Turchia. Sono questi i ribelli che l’Arabia Saudita, al recente vertice di Gedda, si è impegnata ad addestrare e rifornire di armamenti pesanti: gli stessi a cui guardano da tempo i leader del Congresso di Washington e che Hillary Clinton, quando era Segretario di Stato, propose di armare trovando il consenso della Cia di Leon Panetta ma scontrandosi con il veto di Obama.
Del recente passato Abdel Basset Sayda preferisce non parlare perché tiene soprattutto a spiegare «cosa sta avvenendo adesso sul terreno». A tal fine presenta agli interlocutori una mappa sommaria degli equilibri attuali sul campo di battaglia: «Circa il 40 per cento della Siria è nelle mani delle forze fedeli ad Assad, un altro 40 per cento è controllato da Isis e noi abbiamo circa il 15-20 per cento». L’interrogativo dunque è «come alterare questo equilibrio senza favorire il regime o gli jihadisti tagliatori di teste». La soluzione a cui pensa l’Esercito di liberazione siriano è l’imposizione di una «no fly zone» sopra «i territori che controlliamo» sul modello di quanto l’America fece sul Kurdistan iracheno per proteggerlo dal regime di Saddam Hussein negli anni ’90 «Le nostre zone sono a ridosso della frontiera con la Giordania – spiega – e se fossero protette dal cielo potrebbero rafforzarsi, allargarsi, diventare la genesi di una nuova Siria democratica». La proposta che Abdel Basset Sayda illustra in un ottimo inglese – vive da tempo in Scandinavia – richiede il sostegno della Giordania, la formazione di ampie zone cuscinetto lungo i loro confini della Siria del Sud, rafforzate con armi occidentali, protette dagli aerei Usa e raggiunte dagli aiuti umanitari in maniera da diventare una sorta di «isole di sicurezza» destinate ad allargarsi a svantaggio del regime e di Isis.
«Ma l’America non sta andando in questa direzione» lamenta, indicando negli eventuali «raid contro Isis in territorio siriano» l’errore «più grande che si possa compiere in quanto quasi ovunque ad avvantaggiarsene sarebbe il regime». «Basta guardare le disposizione di forze per accorgersene» aggiunge. 
Lo spettro che Abdel Basset Sayda ha davanti è una collaborazione de facto fra Washington e Damasco, con il beneplacito di Teheran, destinata nel breve tempo a sconfiggere Isis e nel medio termine a portare ad una Siria «normalizzata, ancora in mano al despota sanguinario Assad sostenuto dagli iraniani e protetto dai russi». Il «Free Syrian Army vuole invece anzitutto una Siria senza Assad» afferma, facendo capire di «essere disposti ad allearci con chiunque a tal fine».
Il riferimento, neanche troppo implicito, è a Jubat al-Nusra espressione diretta di Al Qaeda, protagonista di una sanguinosa faida con i miliziani dell’Isis guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, ovvero il «Califfo Ibrahim». «Al-Nusra è nemico del mio nemico, dunque è un mio potenziale amico» sottolinea, ripetendo un concetto molto popolare in Medio Oriente. In Giordania si tratta di una posizione non insolita: il governo locale ha reclutato alcuni degli imam più noti di Al Qaeda, come Abu Qatada estradato dalla Gran Bretagna, per tentare di isolare Isis dentro le «moschee illegali» create e gestite dai salafiti. La scommessa di Abdel Basset Sayda è che non solo Amman ma anche altre capitali alleate di Washington nella regione facciano pressione sull’amministrazione Obama per scongiurare un intervento militare «destinato a favorire il regime e non i siriani che si sono rivoltati per perseguire il sogno di una nazione democratica».

Repubblica 22.9.14
Is, emergenza profughi in Turchia. In tre giorni 130mila curdiIs, emergenza profughi in Turchia. In tre giorni 130mila curdi
Ankara venerdì ha aperto i valichi di frontiera, assaliti letteralmente dai profughi dell'enclave di Kobane/Ayn Arab, assediata dai jihadisti
Ma oggi ha deciso di richiuderli
Nuovo messaggio dell'Is: "Uccidete tutti i miscredenti"
qui
http://www.repubblica.it/esteri/2014/09/22/news/siria_gi_100_000_curdi_fuggiti_in_turchia_-96374366/?ref=HREA-1

Corriere 22.9.14
Mosca, 50 mila in piazza contro la guerra
E l’ex oligarca Khodorkovskij rompe il silenzio: pronto a guidare la Russia
di Fabrizio Dragosei

MOSCA — Dopo settimane di una guerra che ufficialmente non esiste, l’opposizione fa sentire la sua voce contro l’intervento russo in Ucraina. Una marcia della pace con migliaia di persone che hanno attraversato le vie centrali di Mosca si è aggiunta a voci sporadiche che si sono levate in varie parti del Paese. E Mikhail Khodorkovskij, l’ex magnate che vive all’estero dopo la sua liberazione, ha annunciato il lancio di un movimento per ottenere la sconfitta di Vladimir Putin alle elezioni presidenziali del 2016.
Tutto questo mentre il piano per creare una zona cuscinetto tra i combattenti nell’est dell’Ucraina non decolla, nonostante le speranze iniziali. Il cessate il fuoco continua a essere violato (ieri ci sono state sparatorie e morti) e così nessuno ritira le truppe e l’artiglieria. I cannoni del governo di Kiev rimangono a ridosso delle posizioni dei ribelli e le truppe «volontarie» russe con il loro armamento non lasciano il Paese.
Sono state almeno ventimila le persone scese in piazza nella capitale russa per gridare slogan contro il presidente e per chiedere la fine delle azioni contro i fratelli ucraini. Finora era stata quasi unicamente l’Associazione delle madri dei soldati a far sentire la sua voce, dopo che parecchi giovani erano tornati in casse di piombo dalla guerra che non c’è. Ma adesso la società civile, quella che alle ultime elezioni aveva alzato la voce contro la rielezione di Putin, sembra aver ripreso fiato.
Già il mondo imprenditoriale aveva sommessamente osato dire qualcosa contro la guerra che ha causato le sanzioni occidentali. E aveva criticato le contro-sanzioni che fanno sentire i loro effetti sulla popolazione russa. Vi ha accennato la Confederazione degli industriali; ne hanno parlato esplicitamente oligarchi rifugiati all’estero, come appunto Khodorkovskij e Yevgenij Chichvarkin. E anche l’economista Sergej Guriyev.
In un momento di difficoltà economiche e politiche, il potere comunque ha deciso di far sentire ai possibili dissidenti che in Russia comanda solo il Cremlino. A questo, secondo alcuni, è servita anche l’azione contro Evtushenkov, un oligarca assai defilato. Probabilmente ci si vuole impadronire della sua compagnia petrolifera, ma in ogni caso l’averlo messo agli arresti domiciliari può servire da monito agli altri.
Essere tornati allo scontro con l’Occidente non piace a molti, anche a personaggi legati direttamente a Putin. C’è, ad esempio, chi si è dato da fare per evitare una nuova ondata di contro-sanzioni che appesantirebbe ulteriormente il clima. Il vice primo ministro Arkadij Dvorkovich ha detto, ad esempio, che misure di ritorsione «non sono una priorità; non sono allo studio». A suo avviso sarebbe molto meglio «sostenere coloro che sono colpiti dalle sanzioni». E’ bene ricordare che nei giorni scorsi c’erano state invece voci che avevano parlato a favore di misure molto incisive, come quella di vietare il sorvolo della Russia alle compagnie occidentali.
Ma parlare contro il potere in questo Paese è cosa assai delicata, che a volte può diventare pericolosa. Così un noto fisico teorico ha annunciato l’abbandono della Russia e la richiesta di asilo politico all’Ucraina. Oleg Shro, discepolo del fisico dissidente Andrej Sakharov, ha anche invitato i suoi connazionali a rileggersi quello che il premio Nobel per la pace diceva, «per capire il suo ruolo e il suo pensiero».

Repubblica 22.9.14
Il Truman show della Russia di Putin
Così l’Europa può fermare lo zar (e salvarsi l’anima)
di Timothy Garton Ash

L’UNIONE Europea deve necessariamente mettere a punto un piano decennale per l’Ucraina. Il piano determinerà anche quella che sarà la realtà europea tra un decennio. In omaggio al personaggio politico cardine di questa Europa, che ha guidato l’evoluzione della politica europea nei confronti dell’Ucraina, potremmo chiamarlo piano Merkel. Se avrà successo vorrà dire che la visione tipicamente europea dell’ordine liberale avrà prevalso sulla ricetta conservatrice, nazionalista, del disordine violento e permanente, rappresentata da Vladimir Putin. Se il piano fallisce, l’Europa torna a fallire.
Il nostro piano dovrebbe svilupparsi principalmente su tre fronti, militare, politico ed economico, ciascuno dotato di molteplici componenti, adattabili al mutare delle circostanze. Gli Stati Uniti vi giocano un ruolo, ma di supporto, non di guida. Per avere un piano noi europei dobbiamo sapere a che cosa stiamo reagendo. Questo è difficile da stabilire, perché lo stato mentale di Putin è quello imprevedibile e arrogante del despota. Comunque ipotizzo che il suo obiettivo, oggi, sia mantenere l’Ucraina sud orientale in uno stato di disordine, divisione del potere e influenza russa tale da impedire all’Ucraina nel complesso di consolidarsi come stato sovrano in grado di esercitare le proprie funzioni e di avvicinarsi all’Ue e alla Nato. Elemento chiave in questa strategia è una frontiera russo-ucraina porosa, che consenta alle armi e agli agitatori russi di andare e venire a piacimento.
Intanto i paesi occidentali dovrebbero fornire alle forze armate ucraine armamenti scelti, approvvigionamenti e addestramento, non da ultimo alle truppe di frontiera. Nel lungo periodo una delle strategie fondamentali per far sì che Putin non arrivi al suo “conflitto congelato” è chiudere la frontiera con la Russia. Poi deve essere colta ogni occasione di intavolare negoziati diplomatici e politici. Ma le possibilità di arrivare ad un accordo costituzionale in Ucraina orientale che sia accettabile per la Russia di Putin e l’Ucraina di Kiev sono minime. Nessuna delle due parti può accettare ciò che implicano i termini decentralizzazione, federalizzazione o “status speciale” né convenire sulle aree cui si applicano. In sintesi, Putin in realtà non può volere un accordo stabile, pacifico, duraturo, perché esso consentirebbe all’Ucraina di agire come Stato federale, in grado di avvicinarsi all’Ue. Nel frattempo l’Europa può fare altre mosse politiche. Ora che il parlamento europeo e quello ucraino hanno ratificato simultaneamente l’accordo di associazione, l’Ue deve aiutare l’Ucraina a diventare uno Stato in grado di esercitare le sue funzioni. L’unico passo efficace che la Ue può intraprendere per influenzare l’opinione pubblica ucraina sarebbe concedere l’ingresso senza visto alla maggior parte degli ucraini. Le esperienze di tutta l’Europa orientale post-comunista lo indicano come la strategia che porta più velocemente a influenzare l’opinione pubblica, ma vuol dire ovviamente chiedere moltissimo all’Europa occidentale, stanca di immigrazione. In cambio di questi grandi incentivi, però, gli ucraini dovrebbero accingersi seriamente a riformare il loro Stato. Ciò comporta in primo luogo dichiarare guerra alla mostruosa corruzione che è stata il ferro del mestiere nella politica dell’Ucraina post-sovietica. Quanto alla Russia, non va mai dimenticato che, nonostante la sua attuale popolarità, Putin non è la Russia e la Russia non è Putin. In ogni nostra dichiarazione e azione faremmo bene a tornare a questa importantissima distinzione. E poi, ad un certo punto nei prossimi 10 anni Putin se ne andrà.
L’inasprimento delle sanzioni economiche sul regime affretterà la fine di Putin? Le sanzioni stanno già iniziando a pesare, persino sulle grandi società energetiche russe, come la Rosnef, ma nel breve periodo la sensazione di essere sotto assedio alimentata dalla propaganda può addirittura rafforzare la posizione politica di Putin. Nel lungo periodo però le sanzioni eroderanno la sua base. Gradualmente, è questione di anni, i russi calcoleranno pragmaticamente quelli che sono i loro interessi. Il portafoglio delle singole famiglie prevarrà sul cuore imperiale collettivo.
Così sarà soprattutto se si vedrà prosperare l’Ucraina e non la Russia. Cruciale per la prosperità dell’Ucraina sarà trovare il difficile equilibrio tra l’azione di sviluppo dei legami commerciali e di investimento con la Ue e la necessità di non interrompere i rapporti economici con la Russia. Poi c’è l’energia. Circa la metà degli introiti della federazione russa derivano dal petrolio e dal gas. Gran parte dell’Europa attualmente dipende dal combustibile russo per tenere le luci accese. Se l’Unione europea si adopera per garantirsi l’indipendenza energetica — che richiede l’interdipendenza energetica e il collegamento tra i vari stati membri — gli equilibri di potere tra Russia e Europa cambiano in maniera determinante. Aiutando l’Ucraina, l’Europa aiuta se stessa. Traduzione di Emilia Benghi

La Stampa 22.9.14
Goodbye Lenin, Berlino ora va a caccia della statua perduta
Fino al 1991 stava nel quartiere di Friedrichshain. Poi fu abbattuta
Ora la città vorrebbe esporla in un museo, ma non si trova.
di Tonia Mastrobuoni
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http://www.lastampa.it/2014/09/21/esteri/good-bye-lenin-berlino-a-caccia-della-statua-perduta-9gnKdUNTbNEXt1d7TsIfyK/pagina.html

La Stampa 22.9.14
Los Angeles: paghiamo gli abitanti per farli votare
L’affluenza alle urne negli Usa è intorno al 50%. A Los Angeles, per le ultime comunali, è stata del 23%
di Paolo Mastrolilli
qui
http://www.lastampa.it/2014/09/21/esteri/los-angeles-paghiamo-gli-abitanti-per-farli-votare-h4ArCbNU8h6TXo0P22HwKN/pagina.html

La Stampa 22.9.14
“Ora so chi sono i miei compagni”
Così Internet ha cambiato i Paesi post-comunisti
Intervista a Emily Parker, membro della New America Foundation dove si occupa di diplomazia digitale e autrice del libro “Now I Know Who My Comrades Are”:
«Ho analizzato la situazione della censura in Cina, Russia, Cuba. la situazione più difficile? Quella cubana»
di Ilaria Maria Sala
qui
 http://www.lastampa.it/2014/09/22/esteri/libri/ora-so-chi-sono-i-miei-compagni-cos-internet-ha-cambiato-i-paesi-postcomunisti-LXFleEQeJXcpDPis3MNavL/pagina.html

Repubblica 22.9.14
L'ultima sfida di Assange: "Il nuovo totalitarismo sono i colossi del web"L'ultima sfida di Assange: "Il nuovo totalitarismo sono i colossi del web"
Dal fondatore di WikiLeaks un duro attacco a Google: "Il suo business è sorvegliare milioni di persone"
di Fabio Chiusi
qui
http://www.repubblica.it/esteri/2014/09/22/news/l_ultima_sfida_di_assange_il_nuovo_totalitarismo_sono_i_colossi_del_web-96367542/?ref=HREC1-9

Repubblica 22.9.14
In Cina si aspettano un rallentamento economico: Borse in calo
di Raffaele Ricciardi
qui
http://www.repubblica.it/economia/2014/09/22/news/borsa_22_settembre_2014-96376649/?ref=HRLV-5

Repubblica 22.9.14
Piketty: “Basta con la dittatura del debito ma non si salva l’Europa con gli slogan”
“Penso a un parlamento dell’eurozona con un solo ministro delle Finanze e un bilancio unico”
“Draghi ha fatto molto, ma ha dei limiti oggettivi. Servirebbe un fondo per emettere eurobond”
intervista di Anais Ginori

PARIGI «Errare è umano, perseverare è diabolico. Cambiamo strada, ora». Thomas Piketty è in testa alla classifica degli economisti che proprio non amano l’austerità. «Non per partito preso o per bieca ideologia» premette. «Semplicemente perché ho studiato la storia del debito pubblico dall’Ottocento ad oggi». A 43 anni appena compiuti è ormai entrato nella ristretta cerchia degli oracoli, o guru che dir si voglia. Tutta colpa, o merito, de “Il capitale del XXI secolo”, appena pubblicato in Italia da Bompiani, il libro con cui analizza l’esplosione delle disuguaglianze e un capitalismo basato sulla rendita finanziaria più che sul lavoro. Un bestseller mondiale a sorpresa, incensato da Paul Krugman, che addirittura mette Piketty sulla rampa di lancio per la candidatura al Nobel. «Non ero preparato a questo successo» racconta l’economista francese nel modesto ufficio alla Paris School of Economics. «Come vede — ironizza — l’università manca di fondi. Se pensiamo che solo lo 0,5% del Pil francese va all’istruzione e alla ricerca. Molto meno di quanto spendiamo per rimborsare il debito ». A sorpresa, però, Piketty non crede che il vulnus dell’eurozona sia economico, ma politico. La sua proposta: «I paesi dell’euro devono avere un parlamento che possa decidere in autonomia rispetto alle istituzioni dei 28 paesi dell’Ue. Abbiamo creato un mostro: non possiamo più avere una moneta unica senza una politica di bilancio comune».
Cominciamo dal debito pubblico. Smettiamo tutti di pagare?
«I debiti pubblici non sono più elevati che in America, nel Regno Unito o in Giappone. Solo qui, in Europa, abbiamo trasformato questa situazione in una crisi di sfiducia e stagnazione dell’economia. Sono molto preoccupato. Vedo soprattutto un immenso spreco. Nel mio libro dimostro che i fondamentali dell’Europa sono migliori di quel che pensiamo. I patrimoni e redditi non sono mai stati così alti. Anzi, sono aumentati in percentuale del Pil più che i debiti pubblici. Sono i nostri governi ad essere poveri».
Quale soluzione allora?«Per ridurre il debito con avanzi primari sul bilancio statale, come cerca di fare l’Italia, ci vogliono decenni. Nell’Ottocento il Regno Unito aveva il 200% di debito pubblico sul Pil. Nel 1910, attraverso continui avanzi primari, è arrivato al 20% del Pil. Ma in un secolo il Regno Unito ha speso più per rimborsare debito che per investire nel sistema educativo. E’ un esempio triste, che ci dovrebbe far riflettere».
Più flessibilità sui deficit, come chiedono François Hollande e Matteo Renzi?
«Mi fa paura l’assenza di proposte che colgo in Hollande e Renzi. Non si può dire solo meno austerità, più investimenti. Per la Germania è facile rifiutare. È come se qualcuno chiedesse di avere una carta di credito in comune, facendo la spesa per conto suo. Italia e Francia dovrebbero avere più coraggio. Mettere subito sul tavolo un progetto di unione politica. A quel punto, anche i tedeschi sarebbero in difficoltà».
Cosa significa per lei unione politica?
«Un parlamento dell’eurozona, anche con meno paesi degli attuali 18, ma con un bilancio comune, un solo ministro delle Finanze, un livello di deficit votato di anno in anno in base alla congiuntura. Non potrà mai funzionare una moneta unica con 18 sistemi economici e sociali, 18 debiti pubblici e 18 tassi di interessi su cui i mercati possono speculare».
Quali paesi dovrebbero far parte di un eurogruppo ristretto?
«Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda, Spagna. Serve un gruppo pilota per dimostrare che l’integrazione delle politiche di bilancio è possibile. Oggi i tassi di interesse sui titoli di Stato nell’eurozona vanno dallo 0 al 4%. Non è normale per paesi che fanno parte della stessa unione monetaria. I mercati continuano a mettere in conto che qualche paese possa fare default o uscire dall’euro».
La governance europea non è già abbastanza farraginosa?
«L’attuale sistema istituzionale è bloccato dalla regola dell’unanimità. In un sistema parlamentare le decisioni sarebbero prese attraverso compromessi e coalizioni. Bisogna dare fiducia alla democrazia. I cittadini sono pronti se spieghiamo che con un parlamento dell’eurozona si potranno adattare i deficit alla congiuntura, lottare meglio contro l’evasione fiscale, oppure votare un imposta sui redditi delle società. Oggi in Europa le multinazionali pagano meno tasse delle piccole e medie imprese. E’ un’assurdità».
Il piano di investimenti della nuova Commissione può aiutare la ripresa?
«Per arrivare a 300 o 400 miliardi di euro sono stati addizionati investimenti pubblici e privati che ci sarebbero stati comunque. Non ci sarà alcun impatto sui bilanci nazionali e sull’economia europea. E’ solo un trucco contabile ».
Mario Draghi ha salvato l’Europa?
«In questi anni ha fatto molto. Non a caso, la Bce è l’unica istituzione federale europea che non rispetta la regola dell’unanimità. Ma non si può chiedere tutto a Draghi. Ha limiti oggettivi. Se ogni mattina la Fed dovesse scegliere tra il debito di New York, Texas o California, cercando accordi sui singoli bilanci, sarebbe il caos. Solo con un fondo comune di redenzione dei debiti pubblici, che possa emettere eurobond a un solo tasso di interesse, la Bce potrà davvero stabilizzare il sistema».
L’uscita dall’euro è un pericolo?
«Ritornare alla moneta nazionale sarebbe catastrofe. Ma l’unione monetaria senza unione fiscale e politica è la situazione peggiore. La speculazione sulle monete è stata sostituita da quella sui tassi d’interesse. E oggi i governi non hanno più l’arma della svalutazione. Siamo in trappola. Dobbiamo aprire gli occhi e trarre insegnamento dai nostri errori».

Corriere 22.9.14
Due pesi e due misure di fronte ai terroristi
Un giorno ci spiegheranno perché con tutti gli ostaggi sì, e con Aldo Moro invece no
di Pierluigi Battista

Un giorno ci spiegheranno perché con tutti gli ostaggi sì, e con Aldo Moro invece no. Perché riteniamo cosa giusta, umana, rispettosa dei sentimenti e dei diritti della persona, trattare con terroristi, tagliagole e fanatici in Afghanistan, in Iraq, in Siria, nell’Italia delle Brigate Rosse che avevano rapito Cirillo e dove si mercanteggiava persino con la camorra, e invece considerammo sacrosanto l’inchino alla spietata ragion di Stato in quei tragici 55 giorni del ’78, dopo la strage della scorta del leader Dc a Via Fani, quando Moro implorava dalla «prigione del popolo» un’azione per salvargli la vita e la maggioranza politica si acconciò piuttosto a un intransigentismo cieco, tetragono, indifferente alle suppliche di un prigioniero, riverito e omaggiato fino al giorno prima.
Ci dovranno ancora spiegare il perché di quell’ostentazione di spietatezza e di rivendicata insensibilità. Di quei tentativi di misconoscere il leader democristiano da parte dei suoi stessi amici, che lo rinnegarono pubblicamente pur di non dargli ascolto. Di quell’arroganza verso lo schieramento trattativista minoritario eppure combattivo, formato grosso modo dai socialisti di Bettino Craxi, i Radicali, Leonardo Sciascia e pochi altri intellettuali che non si piegarono alla disciplina militare e vennero bollati come disertori da Giorgio Amendola, il giornale Lotta continua , segmenti impauriti della Chiesa cattolica refrattari alla subordinazione del valore della vita e della persona umana alla statolatria incarnata dalla linea dell’«intransigenza». Per non riconoscere lo status di interlocutori politici ai brigatisti, si disse. Ma ai decapitatori questo status viene riconosciuto, a chi ha scatenato la guerra santa e tiene alla catena nei suoi sotterranei volontari, giornalisti, lavoratori, religiosi occidentali, a questi guerrieri che usano sgozzare le loro vittime al termine di un rituale di terrore e di morte, a questi invece riconosciamo volentieri lo status di combattenti politici? Chi era favorevole alla trattativa per salvare la vita di Moro veniva addirittura accusato di fare il gioco degli assassini della scorta. E adesso, chi tiene in ostaggio uomini e donne che rischiano, letteralmente, la testa, non si è forse macchiato di crimini orrendi?
In quei giorni, l’atto stesso del trattare veniva considerato un cedimento, una falla nella corazza di uno Stato che non era nemmeno capace di individuare i covi dei rapitori delle Br. Non il merito di una trattativa, che poteva essere rifiutato, ma la trattativa in sé, qualunque fossero le condizioni. E si arrivò persino a far pressioni su Paolo VI per eliminare dall’appello accorato agli «uomini delle Brigate Rosse», perché liberassero il suo amico Moro, ogni riferimento a una possibile trattativa. Perché una spietatezza così concentrata su un solo uomo? Perché il valore della vita di Moro non contava niente, in quel furore gelido della «Ragion di Stato»?

Corriere 22.9.14
Quando la Chiesa dovette scegliere fra comunismo e nazifascismo
risponde Sergio Romano

Credo che in sede di analisi storica della prima metà del XX secolo non venga pienamente considerata e valutata una delle cause che hanno consentito al nazifascismo di affermarsi, cioè il concreto ed incombente pericolo che la rivoluzione bolscevica, dopo essersi impadronita della Russia, potesse dilagare verso l’Europa occidentale; dove, avrebbe potuto provocare gravi danni. Certamente l’affermazione del nazismo è stata anche conseguenza della miopia che le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale avevano dimostrato nel trattato di pace. Credo che anche una certa tolleranza manifestata da parte della Chiesa cattolica verso il nazifascismo sia stata dettata dalla consapevolezza di ritenerlo l’unico ed efficace baluardo (quindi il male minore) contro il grave pericolo che il bolscevismo, violentemente ateo, dilagasse rapidamente nella cristiana Europa occidentale. Pur essendo convinto che il nazifascismo sia stato giustamente condannato dalla storia, credo che non siano irrilevanti le riflessioni sopra accennate.
Giovanni Cama

Caro Cama,
questa è per certi aspetti la tesi di uno storico tedesco, Ernst Nolte, che fu protagonista, alla fine degli anni Ottanta, di unhistorikerstreit : una vivace battaglia storiografica sul passato tedesco fra alcuni dei maggiori studiosi della Repubblica federale. E la stessa tesi fu all’origine del giudizio molto positivo che Winston Churchill dette di Mussolini sino all’inizio degli anni Trenta. L’uomo di Stato britannico era convinto che il capo del fascismo avesse salvato l’Italia dal rischio di un futuro leninista.
Quanto alla Chiesa cattolica e al Concordato firmato con la Germania il 30 marzo 1933, poco dopo l’avvento di Hitler al potere, non parlerei di tolleranza, ma di prudenza. Il Papa era Achille Ratti, eletto al papato con il nome di Pio XI, il segretario di Stato era Eugenio Pacelli. Entrambi avevano visto il comunismo da vicino. Il primo era stato nunzio a Varsavia durante la guerra russo-polacca del 1920-21 e viveva nella città assediata quando l’Armata Rossa era riuscita a spingersi sino alle rive della Vistola. Tornato in Italia, era diventato arcivescovo di Milano. Non credo che avesse particolari simpatie per il movimento fascista, ma il 4 novembre 1921, quando vi furono solenni celebrazioni religiose in Duomo per il terzo anniversario della vittoria, permise che le sue squadre entrassero in chiesa con i loro gagliardetti.
L’esperienza comunista di Pacelli fu ancora più diretta e pericolosa. Era nunzio in Baviera quando Monaco fu teatro di una rivoluzione comunista che ebbe per effetto la nascita di una Repubblica dei consigli. Il primo Stato comunista tedesco durò soltanto alcuni mesi, dalla fine del 1918 all’agosto del 1919, ma in quel periodo la nunziatura fu brevemente occupata e Pacelli, minacciato di morte, dovette trovare riparo in un convento svizzero. E’ molto probabile che Ratti e Pacelli, in quelle circostanze, considerassero nazisti e fascisti meno immediatamente pericolosi dei comunisti. Pacelli, in particolare, sapeva quale fosse la reale natura del movimento creato da Hitler, ma dovette pensare che un Trattato internazionale avrebbe permesso alla Santa Sede di meglio tutelare i suoi fedeli e di garantire all’episcopato tedesco attività e iniziative che potevano essere vietate da un giorno all’altro. Non tutti gli storici sono d’accordo sulla utilità del Concordato, ma credo che Hitler, in mancanza di uno strumento giuridico a cui la Chiesa poteva appellarsi, avrebbe dato più libero sfogo ai suoi furori anti-cristiani.

La Stampa 22.9.14
Com’è difficile per l’italiano diventare lingua ufficiale
L’italiano non è citato nella nostra Costituzione come la lingua ufficiale della nostra Repubblica
di Carlo Bertini

Può sembrare strano, ma l’italiano non è citato nella nostra Costituzione come la lingua ufficiale della nostra Repubblica. O almeno non ancora. È la lingua ufficiale della Repubblica di San Marino e dello Stato Città del Vaticano, ma non della Repubblica Italiana. Chi sta cercando di far approvare una legge - perché ci vuole una legge ad hoc per sancirlo - è proprio il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. In verità la questione non è nuova, tanto che la Giannini da più di un anno (e molti altri prima di lei) ha proposto un testo di legge per inserire solennemente nella nostra Costituzione questa specifica, visto che la nostra Carta all’articolo 12 dice solo che la bandiera italiana è il tricolore. E non è un caso, perché all’epoca si scelse di non stabilire formalmente che vi fosse una lingua di Stato, «dando per scontato che l’italiano fosse comunque la lingua utilizzata nel territorio, e nel contempo evitando che l’ufficializzazione di esso potesse assumere un significato nazionalistico», come annota Marco Franchini nella rivista dei Costituzionalisti italiani.
Ma anche stavolta come in passato, il disegno di legge in questione, pur condiviso e appoggiato da tutti i gruppi parlamentari, grillini compresi, non garba alla Lega. E non è stato assegnato alla commissione competente, quindi neanche messo in calendario. E non è una novità, perché l’altra curiosità è che non da oggi, ma da 13 anni le Camere provano a sanare questo «vuoto legislativo». Ci hanno provato, a partire dal 2001, come riporta l’Adn Kronos, An con Ignazio La Russa e Angela Napoli e i verdi con Marco Boato. Nel 2002 fu votato un testo unico che poi si arenò nelle secche parlamentari. Stessa sorte nella legislatura successiva quando al gruppo si unì anche l’ulivista Roberto Zaccaria. A tentare la sorte nella successiva legislatura furono gli stessi onorevoli e al gruppo di testa si accodarono un altro finiano, Roberto Menia, Cosimo Ventucci (Pdl) e Anita Di Giuseppe (Idv). E in questa legislatura, oltre alla proposta della Giannini è agli atti quella di Fausto Guilherme Longo delle Autonomie.

il Fatto 22.9.14
Matera
I Sassi capitale della cultura
La città senza treni vuol volare in Europa
di Silvano Rubino

Un appartamento nel cuore della Civita, il quartiere “alto” che domina lo strapiombo dei Sassi. Affollato tutto il giorno di giovani, davanti a computer e tablet, ma che non disdegnano una pausa a base della pasta che prepara la vicina di casa, la signora Maria, smagliante materese doc di 87 anni. Casa Netural (con la E, non è un errore, ma un richiamo a “net”, “rete”) è un po' la sintesi della Matera di oggi, quella che si è candidata a diventare capitale europea della cultura nel 2019. Una sintesi di vecchio e nuovo. O meglio, un grande laboratorio del cambiamento possibile. Andrea Paoletti, il fondatore, un giovane architetto biellese che ha deciso di trasferirsi in Basilicata, lo chiama “un incubatore di sogni”: “Casa Netural è uno spazio di co-working destinato ai cittadini che hanno sogni professionali nel cassetto e spesso non osano metterli in pratica. Noi mettiamo a disposizione uno spazio di socializzazione e collaborazione, ma non solo, insegniamo anche come trasformare i sogni in realtà, a creare un modello di business e mettiamo le persone in contatto con la nostra rete in Italia e in Europa”. Paoletti ha scelto la Basilicata in quanto “terra inesplorata, quindi perfetta per sperimentare”.
OGGI SI TROVA a vivere in una città che potrebbe diventare, da qui a 5 anni, cuore pulsante della cultura europea.
“Un'eventuale vittoria sarà l'accelerazione di un caos. E dal caos nasce sempre un mutamento”.
Paolo Verri, direttore della candidatura, torinese, già direttore del Salone del Libro e
del Comitato per i 150 anni dell'Unità d'Italia, chiamato a coordinare il lavoro del comitato (con qualche malumore cittadino per la scelta di un “forestiero” per quel ruolo) è molto più ottimista, ovviamente. Matera ce la farà, sostiene, perché il dossier presentato è frutto di un lungo lavoro: l'Associazione Matera 2019 è nata nel 2009 da un gruppo di giovani locali. “In questi anni abbiamo convinto le istituzioni che si può lavorare sulla cultura, incrociata con l'innovazione tecnologica, che si può guardare al futuro investendo nelle persone e nei cervelli”. Matera 2019, nelle intenzioni dei promotori, non sarà solo una vetrina per begli eventi culturali. Come spiega il sindaco del Pd Salvatore Adduce “il dossier è il più importante programma politico di cambiamento della città, della Basilicata e di tutto il Mezzogiorno”.
L'idea di fondo, infatti, è qualcosa di più del rendere Matera attrattiva per i turisti di tutto il mondo, ma di farne una capitale della creatività, del design, delle professioni creative. “Vogliamo che Matera”, spiega Verri, “diventi una città che attrae persone che ci vengono a vivere”.
In questo senso si capisce perché il dossier punti molto su due progetti “centrali”: l’Istituto demoetnoantropologico (I-Dea), una sorta di grande archivio degli archivi a disposizione di chi vuole farne uso per progetti creativi, e l’Open Design school, che già a partire dal 2015 punta a creare una nuova generazione di designer che poi saranno le menti del cartellone di Matera 2019, fatto di oltre 100 eventi.
E chi paga? È già stata costituita una Fondazione, dotata di 20 milioni di patrimonio, in larga parte provenienti da fondi regionali di origine europea. Se Matera vincerà, se ne spenderanno altri 23 (10 di provenienza statale, altri 9 dagli sponsor, 4 da biglietti e merchandinsing). Ma se non vincerà, assicura Verri, molti dei progetti andranno avanti ugualmente, grazie alla Fondazione. Anche perché, spiega Raffaele Vitulli, fondatore di Matera Hub, consorzio nato proprio con l'obiettivo di costruire progetti di innovazione, il terreno da queste parti è fertile: “Matera sforna idee per contest nazionali e internazionali. L'incubatore Sviluppo Basilicata ha avviato 5 start up nel settore del videomaking, della bioedilizia, della grafica. Certo, questa è una città dove molti giovani non hanno ben chiaro il progetto di vita quindi se ne vanno. Ma il processo di candidatura può diventare un'eco internazionale, per cui Matera diventa attrattiva per investitori e giovani menti”.
Tuttavia la realtà impietosa dei numeri è un'altra: nel 2013 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) era alla cifra record del 52,9%, il tasso migratorio ampiamente negativo, il distretto del divano, uno dei motori economici di questa zona, in picchiata (-10,25% aziende nel triennio 2009-2012, il gap infrastrutturale (unico capoluogo di provincia senza Ferrovie dello Stato) invariato. “Problemi veri che vengono nascosti sotto il tappeto della candidatura”, dice una voce fuori dal coro di quasi unanime consenso alla candidatura, che però preferisce restare anonima. È quella del fondatore e animatore di www. materato  wn.net , sito dei “fuorisede di Matera”, che usa la satira, l'indiscrezione, la polemica, per evidenziare i problemi della città e per fustigarne la classe dirigente.
“SIAMO DI FRONTE ad un'operazione che finora ha portato vantaggi ai "soliti noti", con alle spalle un triste codazzo ossequioso che spera un giorno anch'esso di poter ottenere un posto al sole”. Con un italianissimo corollario di opportunismi e conflitti di interesse: “Angelo Tosto”, racconta il responsabile di Matera Town, “imprenditore televisivo competitor del sindaco alle elezioni, era uno dei più fieri avversari della candidatura. Oggi ne è diventato uno dei più fervidi sostenitori, tanto da creare un canale tv tematico ad hoc. E l'azienda di cui sua figlia è vicepresidente ha avuto l'incarico di realizzare un sondaggio sul gradimento della candidatura tra i cittadini... ”.
“I problemi di Matera li conosciamo, sono i problemi di un intero sistema paese, che certo una candidatura, da sola, non può risolvere”, replica Verri. “Ma Matera, che dopo lo sfollamento dei Sassi poteva diventare solo un sito archeologico com Machu Picchu, può proseguire il suo cambiamento costruendo un diverso modello: la differenza tra il dire e il fare è proprio il fare”.

il Fatto 22.9.14
Melega, l’uomo senza malinconia
di Furio Colombo

Oggi, mentre ne scriviamo, hanno affidato le ceneri di Gigi Melega alle acque della Laguna di Venezia, dove era nato e dove è morto alcuni giorni fa. Eppure non era un funerale. La tristezza resta per noi, per il senso di interruzione e di vuoto. Lui non la conosceva. Però non pensate al contrario. Melega non era nè euforico nè lieto. E oltre a quella calma e pacata stabilità dell’umore che lo manteneva in un equilibrio non facilmente decifrabile, c’era l’altro aspetto curioso e misterioso della sua vita. Si muoveva senza fretta, senza alcuna concitazione. Anzi, nel film della memoria (sia lontana, sia recentissima) diresti “lento”, però nel senso opposto alla definizione di Celentano. Mai conosciuta una persona più agile, impegnata e attiva, che non ha mai cambiato età, che ha smesso tardissimo di lavorare (nel senso di andare in ufficio, e solo per “forza maggiore”, la morte di Carlo Caracciolo, di cui era il collaboratore, oltre che l’amico più stretto) e che ha prodotto molti libri, alcuni piccoli e alcuni di mille pagine (come le Memorieche stanno per essere pubblicate da Marsilio). Diresti che la sua è stata la vita di uno scrittore e di un manager. Ma c’è un’altra vita, che scorreva in contemporanea, accanto alla sua vita pacata, quella del giornalista e del politico. Lo vedete, in una celebre fotografia, nel piccolo gruppo dei fondatori di Repubblica (oggi ha un sapore storico, come rivedere il giovane Che Guevara accanto a Fidel Castro il giorno della presa dell’Avana). E la sua biografia ci dice che è stato deputato del Partito Radicale in tempi che sembrano inventati, perchè i Radicali in Parlamento erano allora un attivissimo gruppo che non dava tregua (anche a causa della competenza di procedure e regolamenti) impegnati in un continuo civilissimo assalto ai luoghi comuni, guidato da Marco Pannella.
Non per niente Melega è l’autore, fra i molti altri suoi libri, di Viceversa (Gaffi Editore) in cui due ricercatori, invece della ricchezza o della fama, cercano “tutte le storie del mondo”. Sono convinti (ed è uno straordinario testamento civile) che tutte le storie siano una storia sola. Però toccherà a Irene Bignardi, straordinaria partner di una coppia di belli e niente affatto dannati di raccontare il Melega che troveremo solo in parte nelle mille pagine che mancano e che lui non ha aspettato. Perchè la vita di questo scrittore è una matrioska che si apre in un senso e nell’altro. Per esempio trovate musica. Melega ha scritto libretti per il compositore Luca Mosca, opere note e rappresentate (Signor Goldoni, Mr. Me) che fanno di lui un Lorenzo da Ponte che intanto sta facendo il giornalista, il manager, il deputato, che non fugge in America, ma porta in Italia la sua formazione americana. E forse Irene ci svelerà il percorso che porta Melega a scrivere testi in un inglese bello e perfetto, come nel libro di apparente allegria Tra-La-La, Words to Music pubblicato da Archinto. Come vedete, con quelle ceneri si è dispersa nel mare una delle immagini di Gianluigi Melega. Tutte le altre restano con noi.

il Fatto 22.9.14
Gli umani evolvono grazie alle facce
di Laura Berardi

Se odori, vocalizzi o cinguettii sono i tratti distintivi che nel mondo animale permettono di riconoscere un individuo dall’altro, gli esseri umani fanno invece affidamento sulle caratteristiche del viso per distinguere i loro simili. Il nostro volto, secondo uno studio dell’Università della California di Berkeley pubblicato su Nature Communications, si sarebbe infatti sviluppato nel tempo proprio per essere unico e facilmente riconoscibile. Per giungere a questa conclusione gli scienziati statunitensi sono partiti dallo studio della grandissima variabilità dei connotati del viso negli esseri umani, peculiarità non presente in altri animali. “Analizzando le caratteristiche corporee prese dal database militare dell’esercito statunitense abbiamo scoperto che i tratti del viso cambiano da un individuo all’altro molto di più di altri, come ad esempio la lunghezza della mano”, ha spiegato Michael J. Sheehan, autore dello studio. Inoltre, ogni connotato del volto è indipendente dagli altri, al contrario della maggior parte delle altre misure del nostro corpo. “Tipicamente chi ha gambe lunghe ha anche braccia lunghe”, ha continuato il ricercatore. “Ma non è detto che chi ha gli occhi molto grandi abbia anche necessariamente un naso più grande. Così ci siamo chiesti se la distanza tra gli occhi o la lunghezza del naso cambiassero per caso o se ci fosse un vantaggio evoluzionistico nell’essere tutti così diversi uno dall’altro”.
Per rispondere alla domanda, gli scienziati hanno analizzato il problema anche dal punto di vista genetico, prima osservando il genoma degli oltre 1000 individui che hanno partecipato al 1000 Genome project (ricerca internazionale che dal 2008 tenta di “catalogare” i geni umani) e poi confrontandolo quello degli uomini di Neanderthal, recentemente sequenziato. I ricercatori hanno scoperto che alla varietà di tratti esterni, in particolare nel triangolo compreso tra occhi bocca e naso, corrisponde una variabilità genetica maggiore nelle regioni del genoma che si riferiscono alle caratteristiche facciali. “Questa variabilità nei geni e nei volti era presente già oltre 40 mila anni fa”, ha aggiunto Sheenan. “E questo è segno che il fatto che non assomigliamo mai troppo ai nostri simili è un vantaggio a livello evoluzionistico”.

Corriere 22.9.14
Le fondamenta religiose dell’Islam
Le meraviglie del Creato un riflesso del volto di Dio
La sacralità degli animali, dei fiori e delle luci nel cielo
di Pietro Citati

Racconti e parole della tradizione
Esce in libreria domani il volume Vite e detti di Maometto , edito da Mondadori (collana «Meridiani. I classici dello spirito», pagine 1.248, e 60, progetto editoriale di Alberto Ventura). L’opera si divide in due parti: le Vite antiche di Maometto includono un saggio introduttivo e le note di Michael Lecker, con testi scelti e tradotti da Roberto Tottoli; I Detti di Maometto sono a cura di Rainer Brunner, con testi tradotti da Massimo Laria.

Le fondamenta religiose dell’I slam sono due: Il Corano (di cui raccomando la bellissima traduzione di Ida Zilio-Grandi, con introduzione di Alberto Ventura, Mondadori ); e i Detti (Hadith) di Maometto, in uscita nella raccolta V ite e detti di Maometto (con eccellente introduzione di Alberto Ventura, a cura di Rainer Brunner, traduzione di Massimo Laria, I Meridiani Mondadori). Sono due testi opposti e complementari. Il Corano è la parola di Dio, che l’arcangelo Gabriele riferisce a Maometto. Gli Hadith, o «conversazioni» sono le parole di Maometto confidate a antichi fedeli, e da questi ad altri fedeli, fino alla metà dell’XI secolo. Degli Hadith esistono innumerevoli raccolte; e Rainer Brunner ne ha scelto una delle più importanti, il Sahih di al-Bukhari, nato a Bukhara nell’810 e morto a Samarcanda nell’871.
La differenza di tono tra il Corano e i Detti è grande: IlCorano è lirico, apocalittico, folgorante, pieno di balzi, di scorci e di omissioni; è oscuro e si compiace delle proprie tenebre. I Detti ampliano e dilatano il Corano , trasformando la sua follia in una forma narrativa, che assomiglia al testo dell’Antico Testamento , il quale ha modellato l’immaginazione islamica.
Altre parti, forse più diffuse, dei Detti , discendono dai Vangeli: ne imitano la semplicità, molte parabole essenziali, alcune sentenze e il Padre nostro : «O Dio, sei il mio Signore, non c’è altro Dio all’infuori di Te. Tu mi hai creato, e io sono il tuo servo, rispetterò il tuo patto e la tua promessa, fino a che potrò. Mi rifugio in Te dal male che ho commesso, riconosco il favore che Tu mi hai elargito e riconosco il mio peccato. Perdonami, perché nessuno all’infuori di Te può perdonare i peccati».
***
Dio possedeva un trono, sul quale sedeva; e il Libro, cioè il Corano , o per meglio dire l’archetipo celeste del Corano . Il testo, che noi oggi conosciamo, non era definitivo: aveva varianti, forme diverse e molteplici; chi cercò il testo lo raccolse da steli di palma, lastre di pietra bianca e dalla memoria degli uomini. Il Corano era stato rivelato a Maometto nel corso di una unica notte, detta «notte del destino», dove il destino rappresenta il decreto immutabile di Dio. Poi la parola divina si era dispiegata nel tempo: Dio l’aveva rivelata al profeta nel corso di 23 anni, lampi dopo lampi, sura dopo sura . Un tempo, il mondo non esisteva: Dio era un tesoro nascosto, celato nelle profondità del proprio mistero, sconosciuto persino a sé stesso, avvolto nella tenebra.
Quando Dio volle conoscersi, creò il mondo. Ora, tutto ciò che noi vediamo, è una immagine di lui. La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le luci, le ombre, sono sembianze del suo unico volto. Dio è il prato dove brucano le gazzelle, il tempio dove vengono venerati gli idoli, la pietra dove è stata scritta la legge mosaica, il chiostro dove si rifugia il monaco cristiano, la Ka’ba dove si prostra il pellegrino, il canto ispirato a Maometto. Ma Allah non si è incarnato come il Dio cristiano. Egli è soltanto «entrato» nelle forme create, come un’immagine «entra» e si riflette dentro uno specchio. Chi contempla le cose, non conosce la luce divina: la conosce deformata e trasformata. Il nostro mondo è l’ombra rispetto alla persona, la figura specchiata rispetto all’immagine, il frutto rispetto all’albero. Così il credente che si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra la delusione, giacché il mondo è un velo che ci nasconde il suo volto.
Le fasi della creazione islamica sono diverse rispetto a quelle bibliche. Il sabato, il Dio dell’Islam creò la terra, e la domenica i monti, e il lunedì gli alberi, il martedì il male, e il mercoledì la luce. Il giovedì distribuì gli animali sulla terra e infine creò Adamo. Ci sono due differenze essenziali: il primo giorno, il Dio della Bibbia creò la luce: fonte di ogni essere. Inoltre non c’è nessun passo, nell’Antico Testamento , in cui Dio creò il male, il male come forma unica e assoluta. Ma una differenza successiva è data dal fatto che i diavoli islamici pronunciano la Sua interpretazione del Corano : esaltano Dio: «Non c’è altro che lui, il vivo, il sussistente»; e quindi tornano a far parte dell’essenza positiva della creazione.
Sia nel Corano sia nei Detti , Dio disse agli angeli: «Io metterò sulla terra un mio vicario», cioè Adamo. Allora gli angeli risposero: «Metterai sulla terra chi vi apporterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi innalziamo la Tua lode e glorifichiamo la Tua santità», Dio rispose: «Io so ciò che voi non sapete». Poi ordinò agli angeli di prosternarsi davanti ad Adamo. Tutti si prosternarono, tranne Iblis, che incarnò due aspetti opposti della manifestazione angelica: era l’unico miscredente, perché non obbediva, ma era anche devoto e fedele a Dio, perché sapeva che bisognava prosternarsi solo davanti a Dio.
Nella Bibbia , la creazione di Adamo sembra istantanea: Dio prende la polvere dalla terra, vi soffia l’alito di vita; e l’uomo è subito un essere vivente, che passeggia nel giardino dell’Eden. Nell’Islam, tutto avviene molto lentamente. Con l’argilla colorata fornitagli dall’angelo della morte, Dio forma Adamo e l’abbandona. Nessuno, né angeli né demoni, aveva mai visto una figura così gigantesca. Per quarant’anni, il suo corpo immenso e vuoto giace disteso al suolo: l’argilla diventa secca come un ramo di palma abbandonata nel deserto, e dà un suono cupo; l’angelo del male entra nella bocca del corpo vuoto e l’esplora. Alla fine Dio ordina all’anima di entrare nelle membra distese. L’anima si insinua nella gola e, dovunque arriva, l’argilla, la polvere, il fango diventano ossa, nervi, vene, carne, pelle: quando arriva al capo, Adamo starnutisce e dice: «Lode a Dio!».
Poi Dio gli insegna una scienza segreta, che non aveva insegnato agli angeli. Insegna al gigante d’argilla il nome dei demoni e delle fate che si trovano sulla terra, dei quadrupedi che stanno nel mare e fuori dal mare, degli animali che pascolano, che brucano, camminano, volano: il nome delle cose secche e delle cose umide, delle cose leggere e delle cose pesanti; dell’inverno, dell’estate, del cielo, della terra, della montagna, della pianura e del deserto.
Quando l’angelo del male tenta Adamo ed Eva, essi mangiano il frutto dell’albero della vita e dell’eternità. In quel momento, dice un dotto islamico, «la loro pelle si staccò dal corpo, e la carne rimase allo scoperto, come ora la nostra. La pelle che Adamo ha in paradiso è simile alle nostre unghie: quando si stacca, rimane soltanto sulle punte delle dita quel poco che noi abbiamo. Così ogni volta che Adamo ed Eva guardano le unghie delle loro dita, ricordano il paradiso e tutte le sue delizie». Adamo viene gettato nell’Hindustan: Eva presso la Mecca; il serpente a Isfahan. Adamo comprende la propria colpa: capisce di aver peccato contro Allah; si getta in adorazione, con il viso contro la terra, e piange. Le lacrime scendono dagli occhi come ruscelli, calano a valle e fanno crescere gli alberi e gli arbusti medicinali. Nella Genesi , la tragedia rimane miracolosamente inespressa: appena un gesto rivela la colpa: nessuna lacrima viene versata; il volto di Adamo e di Eva rimane asciutto come in una scultura romanica.
Cento anni più tardi, Allah — il Benigno, il Misericordioso — perdona Adamo: questa volta le lacrime di gioia, toccando terra, generano il narciso, l’amaranto e tutti i fiori della pianura. Poi Adamo comincia la sua vita di lavoro e di pena. Nella Genesi , gettato e abbandonato sulla terra, trae ogni risorsa da sé stesso: «Col sudore della fronte, lavora i campi pieni di spini e di triboli, cerca l’erba dei campi, semina il grano, prepara il pane». Nella leggenda islamica, Adamo non è mai solo: le mani soccorrevoli di Allah gli inviano gli angeli, per aiutarlo e educarlo. Gabriele scende dal cielo: insegna ad Adamo a trarre il ferro dalla pietra, a costruire gli attrezzi agricoli, a seminare, a trasformare il grano in farina, a costruire un forno di ferro e a fare il pane. Infine — ultimo dono — gli porta dal cielo il bue da lavoro.
Malgrado questo fitto battere di ali angeliche, la conclusione è tragica, come nella tradizione ebraica. Sulle porte dell’Eden, Dio dispone i cherubini; e la «fiamma della spada guizzante» terrà per sempre lontani gli uomini dall’albero della vita, fino a quando altri angeli annunceranno la Gerusalemme celeste e nuovi alberi della vita.
Allah non ha bisogno della spada guizzante dei cherubini. Fino ad allora, Adamo sfiorava con la testa il primo cielo, e discorreva con gli angeli. Dio manda Gabriele, che muove lievemente l’ala sul capo di Adamo, e riduce la sua statura a novanta metri. Adamo piange, perché non può più ascoltare la voce degli angeli. Gabriele gli parla: «Dio ti saluta e ti dice: “Ho fatto di questo mondo una prigione per te; e ho diminuito la tua statura finché tu vivessi in carcere”». Quali siano le differenti traduzioni culturali, l’eredità ebraico-cristiano-islamica è unanime. Questa terra è un carcere. Se vogliamo conoscere altre voci e visioni, dobbiamo ascoltare la musica celeste o contemplare le luminose rivelazioni ultraterrene, che di tempo in tempo vengono a interrompere la fitta tenebra della nostra prigione.
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Non c’è bisogno di ricordare chi sia Dio. Dio è l’unico: «Non c’è altri che Lui, il Vivente e il Sussistente». E sebbene esistano Gesù, Maria e lo Spirito, nessuno di loro è veramente un uno; e la Trinità è una parola vuota. Dio è geloso. Se scorge il cipresso levarsi verso il cielo, fiero della sua grazia, lo abbatte al suolo. Appena il sole raggiunge lo zenit, lo precipita nella bassura del tramonto; e se il disco lunare risplende nella sua pienezza, gli impone di decrescere. Egli non sopporta che dedichiamo ad altri — padri e figli, mogli e mariti — una parte del nostro amore: così dicevano anche i Vangeli . Eppure, gli Hadith sollevano dubbi: fino al dubbio estremo: «L’Inviato di Dio ha detto: “Gli uomini continueranno a porsi domande a vicenda, fino al punto che diranno: Questo è Dio, il Creatore di ogni cosa. Ma chi ha creato Dio?”».
La seconda verità non è meno evidente. «Quando Dio terminò la creazione, scrisse nel Suo libro scrivendo su Sé stesso: “La mia clemenza precede la mia ira”». E la clemenza è il dono che l’Islam originario oppone a tutte le altre religioni. Un arabo incontrò un dotto ebreo e gli disse: «Dimmi qualcosa della tua religione». L’ebreo rispose: «Non sarai della nostra religione fino a che non ti prenderai parte dell’ira di Dio». L’arabo rispose: «L’ira di Dio è l’unica cosa da cui rifuggo». Poi l’arabo incontrò un dotto cristiano, e gli pose la stessa domanda. Il cristiano rispose: «Non sarai cristiano fino a che non prenderai la tua parte nella maledizione di Dio». L’arabo rispose: «Non sopporto la maledizione di Dio». Gli Hadith non fanno che sottolineare, sino all’infinito, questa inaudita clemenza. «Se un mio servo ha l’intenzione di compiere una buona azione, ma non la compie, contategliela — disse Dio agli angeli — come una buona azione, e se ne compie una, attribuitegli da dieci a settecento buone azioni». Questo Dio clementissimo sta accanto a noi e ci ama. Lo crediamo perduto nella distanza dei cieli, difeso da settantamila cortine di luce e di tenebra; mentre egli ci è più vicino delle vene del nostro collo, del nostro respiro, della nostra immagine riflessa allo specchio.
La prima grande figura della storia islamica è Abramo, ereditato dalla Genesi . Nei Detti , Abramo portò Ismaele, il figlio avuto da Agar, alla Mecca, nel luogo della futura Ka’ba, e poi fuggì. Tutto, attorno, era senza acqua e disabitato. Apparve un angelo, smosse la terra con il tallone, fino a quando uscì l’acqua. Agar la versò in un otre. Poi l’angelo le disse: «Non abbiate paura di morire, perché qui Abramo e Ismaele costruiranno la casa di Dio». Quando Abramo ritornò, Ismaele stava temperando una freccia sotto un grande albero vicino al pozzo di Zamzan. Abramo gli chiese: «Mi aiuterai?» «Sì, ti aiuterò», rispose Ismaele. Abramo disse: «Dio mi ha ordinato di costruire una casa in questo luogo». I due cominciarono a lavorare: Ismaele passava le pietre ad Abramo, ed Abramo edificava. Quando la Ka’ba fu eretta, Abramo ed Ismaele cantarono come nel Corano : «Accettalo da noi, Signore nostro. Tu sei colui che ascolta e colui che sa, Signore nostro. Rendici sottomessi a Te, e mostra i tuoi riti. Tu sei l’Indulgente, il Compassionevole».
Nei Detti , Gesù appare in un sogno di Maometto, mentre corre attorno alla pietra nera della Ka’ba. «Vidi apparire — disse Maometto — un uomo di carnagione scura, la più bella che si possa vedere tra gli uomini, con la chioma che gli ricadeva sulle spalle. Aveva i capelli lisci, e dalla testa gli scendevano gocce d’acqua». Non era figlio di Dio, come pretendevano i cristiani, ma dell’angelo e di Maria: era un profeta, e annunciava Maometto, l’ultimo dei profeti. Il Corano aveva detto: «Dio gli insegnerà il libro e la saggezza e la Torah e il Vangelo, e lo invierà come Suo messaggero ai figli di Israele, ai quali egli dirà: “Io vi porto un segno da parte del Vostro Signore, vi creerò dall’argilla come una figura d’uccello, e poi vi soffierò sopra e sarà un uccello vivente; e inoltre guarirò, con il permesso di Dio, il cieco nato e il lebbroso, e risusciterò i morti”». Ma, nei Detti , risuona la critica di Maometto verso il proprio predecessore. «Non lodatemi oltre misura, come hanno fatto i cristiani con il figlio di Maria. Io sono soltanto il Servo di Dio».
***
Passati i quarant’anni, Maometto ebbe le prime visioni. La notte gli compariva in sogno una figura enorme e sconosciuta, che con la testa toccava il cielo e con i piedi la terra, e si avvicinava per afferrarlo. Durante il giorno, mentre camminava per la campagna, sentiva delle voci uscire dai sassi, dai muri e dai ventri degli animali: voci che gli dicevano: «Salute, o apostolo di Dio». Il divino gli si presentava come l’esperienza del tremendo: una forza che non aveva nome, che poteva venire da tutte le parti, che non aveva nulla a che fare col bene, che era solo contraddistinta dalla propria potenza, irrompeva sopra di lui, lo afferrava, lo dominava, e voleva soggezione senza limiti. Era sconvolto da brividi di freddo o si copriva di sudore: strani suoni di campana o fruscii di lontane ali celestiali o fragori gli risuonavano nella mente, e restava a terra senza coscienza.
Come confessò più tardi, gli sembrava che qualcuno infinitamente possente gli stesse strappando l’anima a pezzi. Diventò inquieto: temeva di impazzire o di essere posseduto da un demone: «O Khadija — disse alla vecchia moglie — temo di diventare pazzo». «Perché?» gli domandò lei. «Sento in me i segni degli indemoniati: voci misteriose per le strade, figure enormi nel sonno». Khadija gli rispose: «O Maometto, non inquietarti. Con le qualità che hai, tu che non adori gli idoli, tu che ti astieni dal vino e dal vizio, che fuggi dalla menzogna, che pratichi la probità, la generosità e la carità, non hai nulla da temere. Dio non ti lascerà cadere sotto il potere dei demoni».
Spesso Maometto lasciava la città, e saliva in una caverna sulle colline di Al-Hira, passando le notti nella meditazione e nell’adorazione, come un monaco cristiano. Una notte, mentre stava dormendo, la figura enorme dei primi incubi gli si presentò di nuovo in sogno. Aveva in mano un copriletto di broccato: sopra c’era scritto qualcosa. Gli disse: «Leggi». Maometto rispose: «Cosa mai devo leggere?». La figura lo strinse con tanta forza che Maometto pensò di morire. Tre volte gli impose: «Leggi!»; tre volte Maometto rifiutò; finché, soltanto per liberarsi, disse di nuovo: «Cosa devo dunque leggere?». L’altro rispose: «Leggi in nome del tuo Signore che ha creato,/ ha creato l’uomo da un grumo di sangue./ Leggi! Il tuo Signore è il Generosissimo,/ ha insegnato l’uso del calamo,/ ha insegnato all’uomo quello che non sapeva». Secondo la tradizione islamica, erano i primi versi del Corano .
Maometto lesse, e la figura si allontanò da lui. Quando si svegliò, le parole erano scritte nel suo cuore. Aveva ripetuto l’esperienza di Ezechiele e di Giovanni nell’Apocalisse. Qualcuno gli aveva imposto con la violenza uno scritto vergato in un altro mondo: Ezechiele e Giovanni l’avevano ingoiato; lui l’aveva fatto diventare parte del cuore e del corpo. Soltanto attraverso questa totale appropriazione fisica, la rilevazione celeste era divenuta Apocalisse , e ora sarebbe divenuta Corano . Ezechiele e Giovanni avevano accettato senza timore il libro dal sapore dolce-amaro, certi del suo carattere sacro. Più dubbioso, inquieto e consapevole dell’ambiguità della parola ispirata, Maometto non osava accettare la rivelazione. Temeva di essere un «poeta estatico» o un «uomo posseduto»: uno di quei kahin , che in Arabia profetavano ispirati dai demoni.
Travolto dall’angoscia, avrebbe voluto uccidersi, e cercò di precipitarsi dalla collina. In quel momento, udì una voce dal cielo. Girò la testa, e scorse l’angelo Gabriele, con i piedi a cavalcioni sull’orizzonte, che diceva: «O Maometto, tu sei l’apostolo di Dio e io sono Gabriele!». Rimase stupito: girò la faccia dall’altra parte, e verso qualunque luogo del cielo guardasse, dovunque spingesse gli occhi ansiosi, scorgeva il corpo del grande angelo: forse il corpo di Dio. Gabriele lo prese dolcemente tra le ali, in modo che non potesse muoversi, e gli ripeté: «Non temere, tu sei il profeta di Dio, e io sono Gabriele, l’angelo di Dio».
Maometto discese dalla collina: tremava in tutto il corpo per il terrore della rivelazione, ma ripeteva tra sé le frasi di Gabriele, le prime frasi di quello che sarebbe diventato il suo libro, che cominciavano a rassicurarlo. Tornò a casa, raccontò la visione a Khadija, e le disse le parole dell’angelo. Poi fu ancora colto dal freddo e chinò la testa chiedendo: «Coprimi! Coprimi!». La moglie lo avvolse in un mantello, e lui si addormentò al suolo, come un bambino terrorizzato. Khadija andò da un vicino. Mentre Maometto dormiva, Gabriele entrò nella casa e gli parlò: «Alzati, tu che sei coperto con un mantello». Maometto si risvegliò e rispose: «Eccomi, che debbo fare?». E Gabriele: «Alzati e avverti gli uomini e chiamali a Dio». Maometto gettò via il mantello e si alzò. Quando la moglie tornò, gli disse: «Perché non dormi, e non ti riposi?». Maometto rispose: «Il mio sonno e il mio riposo sono finiti: Gabriele è tornato, e mi ha ordinato di trasmettere il messaggio di Dio agli uomini».
***
Il ritratto, che i Detti lasciano di Maometto, è meno soave del ritratto di Gesù. «Egli era di statura media, né alto né basso, di carnagione chiara, né troppo pallida né scura, i capelli non erano ricci, né lisci e cadenti. Aveva un cappello roso: era diventato così per via del profumo». La cosa essenziale che distingue Maometto da tutti i profeti, è che egli è il profeta definitivo: l’ultimo rispetto ad Adamo, Mosè, Abramo, Gesù; il sigillo dei profeti; sebbene quel sigillo fosse, in primo luogo, un neo pelosissimo sulla spalla. È incerto se egli fosse il profeta di tutte la nazioni, o il profeta di una comunità sola: quella araba? Quando chiede di essere accolto in cielo, il Signore gli accorda il permesso. Maometto cade prostrato davanti a Dio, che gli dice: «Solleva la testa. Parla, e sarai ascoltato: domanda, e ti sarà dato: intercedi e la tua intercessione sarà accolta»; parole che discendono direttamente da quella che è, forse, la parola fondamentale dei Vangeli .
Come Gesù, il Gesù dei Vangeli e del Corano , Maometto possiede rivelazioni, successive alla rivelazione fondamentale. Ha visioni. Fa miracoli, sebbene con qualche incertezza. Rispetto a Gesù, anche al Gesù coranico, egli è assai più umano. Ride, mentre Gesù non ride mai: combatte; uccide, commercia; chiacchera; seduce e si fa sedurre nel suo gineceo; rispetta l’autorità, ed egli stesso è un’autorità; come i Cesare, i Cosroe e i Negus, mentre per Gesù qualsiasi autorità è una parola vuota.
Ama le cose facili, mentre Gesù sceglie la via difficile e ardua: ama le cose limitate, moderate, flessibili, mentre i Vangeli coltivano l’eccesso anche nelle apparenze umili e puerili. Così si comprende la profonda differenza che corre nei rapporti tra i cristiani e gli islamici e il loro Signore. Un mercante e un beduino arabi del VII secolo si sentono prossimi a Maometto, che per loro è come un fratello maggiore: mentre un cristiano delle origini o un monaco medioevale coltivano nell’umiltà e nell’incarnazione del loro Dio l’ombra di una distanza vertiginosa.

Corriere 22.9.14
La rinuncia di Muti lascia l’Opera di Roma, niente «Aida» e «Figaro»
«Troppi problemi, manca la serenità necessaria»
di Valerio Cappelli

ROMA — Riccardo Muti lascia l’Opera di Roma. Un gesto a cui è stato spinto per le continue proteste dei lavoratori aderenti alla Cgil e alla Fials, che hanno un certo peso all’interno dell’orchestra. Una minoranza che si muove tra rivendicazioni e privilegi, contro la volontà della maggioranza degli altri dipendenti, ha di fatto determinato l’addio di un grande direttore a un teatro che gioca in serie A solo a tratti.
Il direttore d’orchestra, in una lettera al sovrintendente Carlo Fuortes, comunica l’intenzione di rinunciare ai suoi impegni nel teatro per la prossima stagione, l’Aida inaugurale del 27 novembre e Le nozze di Figaro , a causa del «perdurare delle problematiche emerse durante gli ultimi tempi». Si riferisce alla guerra sindacale ancora in atto, dopo il piano di risanamento che ha scongiurato la chiusura del teatro per il deficit della gestione di Catello De Martino (oltre 28 milioni di debito, 12 milioni e 900 mila solo nel 2013). Il direttore aggiunge: «Nonostante tutti i miei sforzi per contribuire alla vostra causa, non ci sono le condizioni per poter garantire quella serenità per me necessaria al buon esito delle rappresentazioni».
Muti non scrive in maniera esplicita che si dimette, ma non deve farlo: il suo incarico di direttore onorario a vita non contempla un contratto, viene pagato con il cosiddetto top fee (25 mila euro a recita). È la seconda volta, dopo Sinopoli, che un direttore di fama, dopo averci lavorato per un breve arco di tempo (l’arrivo di Muti fu anticipato dal Corriere nel luglio 2011), abbandona il teatro romano, che non è esattamente di prima fascia nel rating internazionale. In un altro passaggio della lettera, fa capire che la sua decisione, pur presa «con grandissimo dispiacere, dopo lunghi e tormentati pensieri», è categorica e irremovibile, secondo il suo temperamento: «In questo momento intendo dedicarmi, in Italia, soprattutto ai giovani musicisti dell’Orchestra Cherubini da me fondata». Ha anche scritto una lettera personale al sovrintendente, per fugare eventuali malignità sul loro rapporto, ricordando «i nostri reciproci sfoghi, la tristezza e la delusione di fronte a molti episodi vissuti».
Il sovrintendente e il sindaco Ignazio Marino (il Comune dà, caso unico in Italia, 18 milioni e mezzo all’Opera) la definiscono «una scelta senza dubbio influenzata dall’instabilità in cui versa l’Opera a causa delle continue proteste, della conflittualità interna e degli scioperi durati mesi che hanno portato alla cancellazione di diverse rappresentazioni, con grave disagio per il pubblico che aveva acquistato i biglietti».
Il paradosso è che le dimissioni di Muti arrivano nel momento in cui il bilancio 2014 è in equilibrio, il piano di risanamento è stato concordato e il ministero sta approvando l’iter per dare 20 milioni (5 sono già arrivati). «La decisione di Muti l’ho vissuta con forte rammarico», spiega il sindaco. E ai sindacati che protestano cosa dice? «Che il diritto di sciopero va rispettato, però anche la democrazia. E in democrazia conta il parere della maggioranza». Il bello è che i due sindacati della protesta sostengono: «Speriamo che la serenità sia possibile» (Cgil); «La scelta di Muti è lo specchio dell’inadeguatezza dei vertici del teatro» (Fials). Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, parla forte e chiaro: «Comprendo le ragioni di Muti. Spero che almeno questo faccia aprire gli occhi a quelli che ostacolano, con resistenze corporative e autolesioniste, l’impegno per quel cambiamento che la musica attende da tempo e per cui lo Stato è impegnato con convinzione e risorse».
Sindaco e sovrintendente si incontreranno nei prossimi giorni, una delle priorità sarà la nomina di un direttore musicale con cui costruire un percorso, uscendo dal limite di un incarico onorario, seppure affidato a una celebrità. «Intanto — spiega il sindaco — dobbiamo risolvere l’emergenza delle due opere senza più Muti. Non possiamo ripetere ciò che è successo questa estate, quando alla prima della Bohème a Caracalla l’orchestra non si presentò e fummo costretti a offrire a turisti di tutto il mondo lo spettacolo gratuitamente, con il solo pianoforte. È come se un signore dall’America comprasse il biglietto per il Colosseo, e lo trovasse chiuso».

Repubblica 22.9.14
Tra geometria e trompe-l'oeil. Roma riscopre il genio Escher
Al Chiostro del Bramante centocinquanta opere dell'inimitabile incisore olandese, a ripercorrere il suo caleidoscopio dove l'artista si confonde con l'intellettuale e con il matematico. Fino al 22 febbraio
di Valentina Bernabè
qui
http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/2014/09/19/news/escher_mostra_chiostro_bramante-96136286/?ref=HREC1-35

Repubblica 22.9.14
Film di Hitchcock 'attiva' il cervello di un uomo in coma da 16 anni
Il paziente, 34 anni, è In stato vegetativo, ma ha avuto un'attività neurale simile a spettatori sani
di Valeria Pini
qui
http://www.repubblica.it/salute/medicina/2014/09/20/news/film_di_hitchcock_attiva_il_cervello_di_un_uomo_in_coma_da_16_anni-96226959/?ref=HRLV-22