la Repubblica 6.5.14
E Civati ora accusa “Matteo nuovo Gattopardo apra al cambiamento o cercherò altre strade”
di Sebastiano Messina
ROMA. Sì, c’è stato un giorno in cui io e Matteo Renzi abbiamo avuto lo stesso sogno, ammette Pippo Civati, o almeno credevamo che fosse lo stesso. Poi, purtroppo, abbiamo scoperto che sognavamo due cose diverse. E’ un atto d’accusa scritto con l’inchiostro dell’amarezza e la penna della delusione, quello che l’ex co-protagonista della prima Leopolda scrive quattro anni dopo per Einaudi (“Qualcuno ci giudicherà”, 147 pagine, 13 euro, in libreria da domani), proprio nel momento in cui il suo ex compagno di sogni è arrivato in cima alla piramide del potere. Un pamphlet durissimo nel linguaggio, senza sconti per un Renzi paragonato al Gattopardo, «che per vincere cerca l’accordo con il suo avversario» o addirittura a Frankenstein, che «assembla pezzi diversi e restituisce vita a partiti ormai esausti» - eppure aperto a una speranza: quella di riuscire a fare a sua figlia, con le sue battaglie politiche, un regalo che somigli al Central Park, quel polmone verde al centro di Manhattan che alla metà dell’Ottocento gli amministratori della città misero per sempre al riparo dagli speculatori e dalla cementificazione.
E’ una metafora, si capisce, una delle tante con le quali Civati disegna la sua analisi dell’Italia al tempo di Renzi. Io e lui, scrive, nel 2010 avevamo 35 anni e volevamo cambiare dalle radici un Paese vecchio, nel quale – al contrario della leggenda – è Anchise che porta sulle spalle il figlio Enea, e nessuno si preoccupa minimamente di Ascanio, il nipote. «Era solo quattro anni fa, eppure sembra passato un secolo. Anzi, è passato un secolo». Abbiamo sbagliato entrambi, dice, è stato un peccato non tentare di collaborare, «e forse dovremmo riconoscerlo ». Ma ormai tra i due ex amici della Leopolda c’è un solco, ormai sono su due linee diverse. Il suo cambiamento, accusa Civati, «non è il mio, non è il nostro: è il suo; è formidabile, è efficace, ma non fa per me». Per carità, tutti e due volevamo che la nostra generazione andasse a Palazzo Chigi, ma non così, «con un progetto politico nuovo, sulla base di un mandato popolare, con il voto dei cittadini a sostenere il cambiamento ». E invece la conquista del Palazzo è avvenuta nel peggiore dei modi, senza passare per le elezioni: «Ho visto i sostenitori di Renzi rovesciare il senso della staffetta, dove il testimone è stato sottratto e non passato». La conseguenza, secondo Civati, è che «furbizia e brutalità sono diventate metodo: l’importante è arrivare, e chi non ci sta si arrangi».
Lui, è chiaro, non ci sta. Sogna ancora un cambiamento che parta dal basso e cominci a risanare le zone più buie e malate della Repubblica. Ha in mente anche un albero-simbolo, come lo furono la Quercia e l’Ulivo. Pensa al fico di Omero («Grande verdeggia in questo, e d’ampie foglie/ selvaggio fico; e alle sue falde assorbe/ la temuta Cariddi il negro mare»). Ecco, conclude Civati, «noi ci ritroviamo appesi al fico, che è selvatico, di “movimento”, insomma. Ma è anche frondoso, perché ci vuole un grande progetto». Se Renzi, il suo Pd e il suo governo riusciranno a trasformarsi in questo simbolico fico del cambiamento, allora «sarò il primo a riconoscerlo e a festeggiare». Ma se non lo farà, conclude Civati, «dovrò prendere le mie carabattole e provare un’altra strada a me più congeniale».
l’Unità 6.5.14
La sfida di Schlein, da Occupy a Bruxelles
Dalla campagna elettorale per Obama a quella per le europee. Elly Schlein, classe 1985, italo-americana, laureata in Giurisprudenza all’universita di Bologna, appassionata di video-making, cinema, e politica, sostenitrice di Pippo Civati, animatore instancabile di una delle minoranze Pd, usa l’esperienza fatta negli Usa per la corsa al Parlamento di Strasburgo.
Schlein è stata esponente di punta di OccupyPd, movimento di protesta spontanea sorto dopo l’affossamento della candidatura Prodi al Quirinale da parte di 101 franchi tiratori. «Ho partecipato a entrambe le campagne per Obama nel 2008 e nel 2012 - spiega - e la lezione che ne ho tratto è che in queste battaglie bisogna saper coinvolgere non solo i militanti ma anche i semplici elettori, che negli ultimi giorni prima delle elezioni mettono a disposizione risorse e idee».
È con questo senso di una campagna elettorale collettiva, per cui ha creato anche un apposito sito internet, che Schlein spiega durante un aperitivo a San San Lazzaro (Bologna), dove il 25 maggio si voterà anche per le comunali. Con lei ci sono Isabella Conti, 32 anni, candidata sindaco, di professione avvocato, convinta che la politica debba essere solo un «un mestiere transitorio al servizio degli altri. Sono convinta che un politico senza un lavoro non sia un politico libero», spiega a l’Unità.
Accanto a loro Filippo Taddei, classe 1976, sposato e padre di tre figlie, docente di economia alla John’s Hopkins University, responsabile economico del Pd. L’ultima volta che Taddei e Schlein si incontrarono in pubblico fu alle Scuderie di Bologna, locale consacrato al jazz dove i civitiani decidevano in diretta streaming se votare la fiducia al governo Renzi. «Chi vota no è fuori», spiega Taddei all’amico Civati. Se manca il voto di fiducia, spiega, «il Pd si priva del contributo di molti. E voi vi private del Pd». «Se non dovessi votare un governo che ha la legittimazione del Pd, uscirei dal Pd», rispose Civati.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata. «Da quel giorno abbiamo deciso di restare nel Pd fino in fondo e devo dire che con Filippo esiste da tempo un rapporto umano molto saldo», spiega Schlein. La serata è l’occasione per fare il punto sull’economia e il futuro dell’euro, sui finanziamenti di Bruxelles che spesso l’amministrazione italiana non riesce nemmeno a spendere. E naturalmente anche sulle posizioni giudicate ondivaghe di Grillo, in fuga dalla moneta unica ma ultimamente attento agli eurobond, questione su cui si è molto speso anche l’ex presidente Ue Romano Prodi.
«La mutualizzazione del debito può essere un modo per rilanciare l’economia investendo su conoscenza, cultura e formazione», dice Schlein, invitando a uscire dalle secche del dibattito su euro sì-euro no.
il Fatto 6.5.14
Costituzionalisti prêt-à-porter per Maria Elena
I professori, senza Zagrebelsky e Rodotà, fanno il coro (stonato) al ddl della Boschi
di Wanda Marra
Non c’è unanimità neanche tra di voi, che studiate queste questioni da sempre. Ne usciamo tutti più consapevoli e arricchiti”. Nella replica il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, sorride. Il seminario organizzato dal Pd con i costituzionalisti per fare il punto su riforma del Senato e Titolo V si è risolto con un via libera di fatto al progetto del governo. E lei che in apertura più che un’introduzione ha fatto una lezione simil-accademica, molto prudente e molto tesa, se la rivende immediatamente: “Da questo seminario è emerso un consenso sull’impianto delle riforme e una condivisione sulla necessità di proseguire su questo percorso”. E dunque, “non perdiamoci di vista”.
I professoroni, in effetti, non hanno portato grandi obiezioni. Certo, mancavano i più critici, come Zagrebelsky e Rodotà, che hanno declinato l’invito. Quelli che c’erano si sono limitati a qualche rilievo tecnico. Sarà anche perché - come nota maliziosamente qualcuno - Renzi deve fare le nomine alla Corte. E in effetti, i commenti più pungenti sono arrivati da grandi vecchi come Valerio Onida (“Queste riforme non si fanno per risparmiare” e “avrei voluto due leggi diverse, una sul Senato, una sul Titolo V”) e Ugo De Siervo (“C’è stata una scrittura non pienamente cosciente delle conseguenze, bisogna intervenire con pazienza e puntualità. Non possiamo andare con la sciabola”).
Per il resto da professori più o meno vicini al premier (Bassa-nini, Clementi, Ceccanti, Augusto Barbera, ma anche Luciano Violante) arrivano più che altro suggerimenti. Non a caso dall’entourage di Renzi, che il seminario l’ha introdotto, rilanciando (“cambiare la Carta non è autoritarismo”) si parla di “grande soddisfazione”. Il metodo è quello di sempre: i costituzionalisti sono stati convocati, hanno parlato e adesso il governo può dire di avere la loro approvazione a andare diritto. E così oggi in commissione Affari costituzionali del Senato arriva il testo: la Boschi, che ieri è andata anche da Napolitano a spiegargli il percorso intrapreso, sta insistendo da giorni perché si parta da quello del governo, non senza incontrare resistenze e proteste da parte di Calderoli (all’inizio si era pensato a un testo che recepisse una serie di modifiche). Ma lei vuole che sia chiaro da chi partono le riforme. La mediazione finale dovrebbe essere il ddl governativo con un ordine del giorno che presenti le modifiche.
l’Unità 6.5.14
Quale democrazia per l’Italia?
Dialoghi Il filosofo e il leader della sinistra discutono di riforme, bicameralismo e partiti. Un confronto dell’85 ancora attuale
Anticipiamo stralci di un carteggio tra Norberto Bobbio e Pietro Ingrao, svoltosi tra novembre ’85 e gennaio ’86, sulle riforme istituzionali e la democrazia. I testi fanno parte del volume «Crisi e riforma del Parlamento» (che raccoglie gli scritti di Ingrao) in libreria da domani per la Ediesse.
CARO INGRAO,
LA PROPOSTA, DA TE FATTA NEL RECENTE CONVEGNO DEL CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO DI «UN’ASSEMBLEA costituente per la riforma della Costituzione», fondata su «un nuovo compromesso istituzionale» (così leggo in «l’Unità » del 30 ottobre) ha destato incredulità e sorpresa. Condivido la incredulità ma non la sorpresa. Che oggi esistano le condizioni per una politica di alleanze indirizzata principalmente alla riforma costituzionale, direi proprio di no. Però è certo, e per questo non sono sorpreso, che se la riforma della Costituzione si dovesse fare, non potrebbe farsi se non attraverso un ampio e durevole compromesso politico. Su questo punto hai perfettamente ragione. Ma proprio perché hai ragione la riforma non si farà: la condizione che tu poni, la creazione di una sorta di nuova Assemblea costituente, è una condizione impossibile, almeno per ora.
Non sono sorpreso anche per un’altra ragione. In questa tua proposta intravedo, lo dico un po’ provocatoriamente, una certa nostalgia per una unità perduta, poi sempre di nuovo perseguita, quasi raggiunta, quindi riperduta. Non sono mai riuscito a capire le precise ragioni di questa corsa affannosa verso una non raggiunta e irraggiungibile unità, perché, se è vero che la nostra Costituzione è nata da uno sforzo unitario delle varie parti politiche che avevano combattuto il fascismo, la forma di governo che ne è derivata è la democrazia parlamentare, e il governo parlamentare si regge non sull’unità ma sulla distinzione, non su una fittizia unanimità masulla regola della maggioranza, e sulla conseguente contrapposizione tra maggioranza e minoranza. (...) Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario. Pluralismo significa non soltanto che vi sono (debbono esservi) molte forze in gioco, ma anche che tra queste forze vi è (deve esserci) concorrenza e quindi conflitto, e pertanto ogni compromesso è sempre parziale e provvisorio, e l’unità non è facilmente perseguibile e nemmeno benefica. (...)
Forzo un po’ la mia argomentazione perché mi preme sapere, e penso prema anche a te, se siamo d’accordo sul modo d’intendere la democrazia. Non da oggi, sono convinto che una delle ‘peculiarità’ dei comunisti, sulle quali abbiamo consumato montagne di carta stampata, sia proprio il modo d’intendere la democrazia. Del resto è su questo tema che ci siamo incontrati e scontrati altre volte. (...) La prima riflessione che dovremmo fare riguarda quelli che io ho chiamato altrove i ‘vincoli’ della democrazia. Abbiamo creduto che con la democrazia si potesse fare tutto. No, con la democrazia non si può fare tutto. È già accaduto che, volendo tutto, non si è ottenuto niente, e per giunta si è perduta anche la democrazia. Quali sono questi vincoli? Anzitutto ci sono alcuni principi che vengono dalla tradizione del pensiero liberale, e che abbiamo convenuto di considerare irreversibili, quali i diritti di libertà, in generale i diritti civili: sono i principi senza i quali le stesse regole del gioco non possono essere applicate. Poi ci sono appunto le regole del gioco, le regole in base alle quali vengono prese le decisioni collettive in un certo modo piuttosto che in un altro: regole del gioco democratico sono quelle che presiedono alle trattative che si concludono, quando si concludono, con un accordo, e quella che stabilisce che quando l’accordo non è possibile (il che vuol dire che la decisione non può essere presa all’unanimità) s’intende per decisione collettiva quella presa a maggioranza. (...)
Il linguaggio politico è pieno, come si sa, di parole al cui significato emotivo fortissimo corrisponde un significato descrittivo debolissimo. A me pare che una di queste parole sia massa. (...) Sempre restando entro l’ambito della definizione procedurale di democrazia, sarei curioso di sapere che cosa si possa mai intendere per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale, in buona sostanza che cosa si dica di più e di meglio quando si parla di democrazia di massa rispetto a quel che si intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto. È vero che un’espressione che tu usi frequentemente come «irruzione delle masse nello Stato» fa pensare a un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge tutto ciò che trova nel suo corso, ma si tratta di un’espressione figurata con la quale non si vuol dire altro, a mio vedere, se non che i cittadini, oltre al diritto di voto, hanno anche quello di fare manifestazioni sulle pubbliche piazze. Ma che cosa sono queste manifestazioni se non la naturale conseguenza del diritto di riunione sancito da qualsiasi Costituzione liberal- democratica e anche dalla nostra? Prima che fosse riconosciuto il diritto di riunione una manifestazione di massa sarebbe stata condannata come ‘tumulto’ e la folla ivi radunata sarebbe stata considerata una ‘turba’. (...) Il concetto di democrazia, nel suo senso storicamente più corretto, ame pare sia incompatibile col concetto di massa che fa pensare a un corpo collettivo insieme amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo che nella sua essenza o sostanza personale si distingue da tutti gli altri. (...)
In una democrazia non ci possono essere masse: ci sono, o individui, oppure associazioni volontarie composte da individui come i sindacati e i partiti. Mi domando, insomma, se il termine ‘massa’, oltre il significato emotivo che, come ho detto, è ambiguo, possa avere anche un significato descrittivo che serva a fare capire meglio che cosa sia la democrazia, e a contraddistinguere un tipo di democrazia (la democrazia di massa) dal tipo di democrazia tramandato dal pensiero liberale e democratico che chiamerei semplicemente ‘democrazia dei cittadini’. L’unico significato di democrazia di massa, che traspare anche dai tuoi scritti, è quello di democrazia senza ‘delega’, una parola che ha quasi sempre nel linguaggio della sinistra estrema un significato peggiorativo. Ma che cosa è la democrazia senza delega se non la democrazia diretta o la democrazia assembleare o quella in cui tra elettori ed eletti vien meno il divieto di mandato imperativo? Vogliamo allora sostituire alla rappresentanza politica la rappresentanza degli interessi? Discutiamone pure ma non copriamo un problema di diritto costituzionale, tutt’altro che nuovo d’altronde, con un linguaggio che non lascia capire di che cosa esattamente stiamo parlando. Sia ben chiaro: queste mie osservazioni nei riguardi di un modo di parlare di democrazia in cui non mi riconosco, non debbono essere interpretate come un rifiuto di vedere i difetti della nostra convivenza democratica e i problemi non risolti. (...) Ritengo però che per cominciare un dialogo fruttuoso su questi errori e su queste colpe occorra prima di tutto sgombrare il campo dai falsi problemi, dai possibili malintesi, dalle risposte illusorie, e prendere la democrazia per quello che è e non per quello che abbiamo creduto che fosse da neofiti con molte speranze, fortissimi desideri e scarsa conoscenza del mondo. Con rispetto e con la più viva cordialità.
CARO BOBBIO,
SEGUO L’ORDINE DELLA TUA LETTERA. E PARTO DALLA PROPOSTA DI UN GOVERNO COSTITUENTE (È CHIARO CHE ‘GOVERNO COSTITUENTE’ PRETENDE DI ESSERE SOLO un’immagine: non mi sogno mica di proporre che sia il governo a fare la Costituzione...). So che tu in proposito sei, più che incredulo, ‘miscredente’. Ma non mi è chiaro un punto: tu consideri la riforma desiderabile, ma non fattibile; oppure ritieni che si debbano lasciare le cose come stanno, perché così stanno bene (o almeno piuttosto bene), o perché - pur stando parecchio male - non vedi strada per cambiarle? Ti pongo questa domanda perché, ancora nel nostro dialogo pubblico a Torino, tu sollecitasti molto caldamente una riforma non piccola: il cambiamento del sistema elettorale, come problema di oggi, tema concreto ed attuale di questo momento. So bene che il sistema elettorale non sta nella Costituzione, e non ha bisogno perciò di procedure straordinarie per il suo cambiamento. Ma questo non toglie nulla al peso costitutivo che esso ha nel sistema politico generale. E nessuno potrebbe ragionare su quella riforma senza fare riferimento subito al tipo di Parlamento, o al rapporto tra Parlamento ed esecutivo, o al nesso (oppure no) con sistemi di democrazia diretta, o all’incidenza sul sistema dei partiti che il cambiamento proposto comporta.
Ecco allora la mia domanda. Tu davvero pensi che sia possibile oggi scorporare questa delicatissima e così intrigante questione dall’insieme della riforma istituzionale? Ritieni che ci sia una forza politica oggi in Italia disponibile ad accettare di discutere una riforma elettorale così scorporata, e fuori dal contesto? Insomma a me sembra che tu stesso - sia pure da ‘miscredente’ - al momento in cui poni sul tappeto la questione della riforma elettorale, dai conferma dell’attualità di una riforma delle istituzioni. (...) Si è costituita, più di un anno e mezzo fa, una commissione bicamerale composta di quarantuno membri, designati da tutti i partiti rappresentati nel Parlamento nazionale. La commissione ha avuto come esplicito mandato non solo di studiare, ma di formulare proposte di revisione istituzionale. (...) Sono stati confrontati programmi. Sono state delineate soluzioni. E allora bisogna pensare che o quei quarantuno della commissione Bozzi erano impazziti e si divertivano ad un gioco senza senso; oppure è vero che la riforma istituzionale è entrata nell’agenda politica. Essa si è bloccata anche e proprio per la difficoltà di procedere per ‘tavoli separati’: con un governo che sul suo tavolo tendeva a procedere a una riforma di fatto, a mutare, per colpi di forza, almeno alcuni dei delicatissimi equilibri fra esecutivo ed assemblee. Ed allora ecco la questione: si può discutere e decidere di riforma istituzionale, mancando un quadro politico che crei le precondizioni della sua realizzabilità e dia alle diverse parti le garanzie politiche perché quel compito possa essere assolto? Io non lo credo.
Qui è la ragione, il senso del ‘governo costituente’. Tu vedi in esso l’ossessione dell’unità ad ogni costo. Al contrario. Io ho parlato di una iniziativa a termine, che ha il dichiarato obiettivo di superare il blocco della democrazia esistente oggi in Italia e di aprire la strada a un processo di alternanza e a strategie alternative. Si può soprassedere? (...) Spesso mi sono sentito dire: «Ma perché riforme istituzionali? Ci sono tante cose da fare». Io rovescio il ragionamento: come fare tante cose urgenti, senza riforme istituzionali? Come affrontare il tema del tutto inedito di una disoccupazione massiccia connessa all’innovazione e allo sviluppo, senza dare una dimensione sovranazionale a tutta una serie di funzioni, e al tempo stesso decentrarne con audacia tante altre all’interno degli Stati nazionali, riformando da due parti la macchina dello Stato? Come gestire la trasformazione dell’economia senza ripensare la struttura del governo? Rischiamo di stare fermi persino sulle questioni ultramature: perché raddoppiare inutilmente il tempo di elaborazione delle leggi (con i connessi giochi trasformistici), in un bicameralismo parlamentare che non sta più in piedi? (...)
Tu stesso dici di individui che si raccolgono in associazioni volontarie quali i partiti e i sindacati. E perché allora mi chiedi spiegazioni circa la democrazia di massa? Questa è la moderna democrazia di massa, se poco poco mettiamo mente a ciò che è diventata, in un insieme sempre più vasto di paesi, la trama dei partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche da partiti e sindacati: i ‘verdi’, le donne, i pacifisti, i movimenti giovanili. E si dà anche una rete di associazioni che non hanno un volto di rivendicazione generale, ma un proclamato carattere corporativo, o addirittura di lobby. Possiamo noi oggi ragionare sugli ‘individui’, senza vedere le loro connessioni con questa trama associativa che fa la storia politica moderna? E non so proprio vedere i partiti solo come una somma di individui: altrimenti sarebbero solo un elenco di elettori. E invece noi abbiamo conosciuto partiti che prevedono attività continue, che si strutturano organizzativamente, che si danno ideologie e progetti, e discutono di strategie politiche per realizzarli. Abbiamo visto gli stessi sindacati ambire a rivendicare il volto di ‘soggetto politico’. E la ragione di questo cammino - lo sai cento volte meglio di me - sta nel fatto che determinati individui hanno sentito che non bastava il certificato elettorale né la regola di maggioranza, e nemmeno il diritto di presentare insieme liste di candidati. Ed hanno pensato insieme al durare di un programma, di iniziative comuni, di vincoli reciproci, che si prolungavano prima e dopo il voto. Perché allora non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo che si voglia dare a questo termine? (...).
Insomma, il problema di una espansività della democrazia mi sembra dominare il secolo, e non è riducibile alla questione del suffragio universale e del principio di maggioranza, ma va oltre di essi. Si tratta dei contenuti della democrazia e della storicità delle sue forme. Altrimenti perché sarebbe stato scritto l’articolo 3 della nostra Costituzione e quel capoverso sugli ostacoli all’accesso dei lavoratori alla direzione politica del paese? (...) E però lasciami dire che trovo un po’ forzata e deviante la tua imputazione ai comunisti di una ossessione unitaria. L’assillo unitario è una ragione dell’egemonia. Ma il quadro è conflittuale: anzi parte dalla convinzione di contraddizioni antagonistiche. Togliatti quando parla dell’unità lo fa in ragione di un conflitto, che a suo vedere spacca il mondo e le cose: è l’unità in funzione di una lotta. E il compromesso stesso, come accordo, è visto come parte di una lotta. Con l’antica stima.
il Fatto 6.5.14
Chi è di destra alzi la mano
risponde Furio Colombo
CARO COLOMBO, in un famoso editoriale (“L’utopia capovolta”) Bobbio ha scritto: “Sono in grado le democrazie che governano i Paesi più ricchi del mondo di risolvere i problemi che il comunismo non è riuscito a risolvere? Credete proprio che la fine del comunismo storico abbia posto fine al bisogno, alla sete di giustizia?”. Marino Pasini
LA FRASE È PARTE di un testo molto ricco di citazioni e molto lungo, e ho voluto citare il nome completo dell’autore perché la sua è una accurata riflessione sul ripensare destra e sinistra, specialmente dopo che Renzi, nella sua postfazione alla riedizione del fondamentale testo di Bobbio “Destra e Sinistra”, ha suggerito che, più che l’uguaglianza, il punto di richiamo e di raduno di chi si ritiene di sinistra deve essere l’innovazione. L’innovazione con cui molti cittadini devono misurarsi per sapere, per capire, per scegliere è complicata dal fatto che Renzi, il nuovo e giovane campione di ciò che sopravvive della sinistra, conta, per il suo governo, per il suo lavoro, e per le “riforme necessarie”, su Berlusconi, l’anziano pregiudicato che ha governato con tutte le destre (le più estreme incluse), ha praticato e diffuso tutte le forme possibili di illegalità, dalla scelta dei collaboratori ai contatti personali e diretti, ai comportamenti per cui è condannata, accusato e indagato (vari processi in diversi gradi di giudizio) ed è personaggio screditato e malvisto da tutti i governi amici a cui tuttora dedica insulti (vedi l’odioso caso tedesco). Ma la storia è strana e adesso questa è l'estrema frontiera di una nuova formula di governo e, più ancora, della tanto desiderata e finalmente trovata stabilità politica (dunque di alleanza, meglio ancora, di legame) destinata a durare. Ci viene indicata come il terreno adatto – l’unico – per piantare l’albero delle riforme, tutte le riforme, che vuol dire un cambiamento profondo della Costituzione, che a tanti di noi sembrava l'ultimo scudo. Nel frattempo, mentre ci dicono che dobbiamo guardare con fiducia a questa nuova alleanza, una sorta di arca salvifica, il Paese vive spaventato e impoverito, e ciascuno, pensionati e disabili inclusi, è chiamato a contribuire con qualcosa per rimediare “agli sprechi” che ci privano di ogni risorsa e della possibilità di adempiere ai doveri internazionali. Ovviamente gli “sprechi” li può fare solo chi comanda. Eppure vengono chiamati a risponderne le scuole, gli ospedali, gli asili, gli anziani, tutti i più disagiati e i più deboli, con la sola eccezione – presentata come un gesto di fraterna comprensione – di coloro che non guadagnano niente. Ecco, la torcia di Bobbio si è spenta e noi, al buio, abbiamo la netta impressione che non stiamo andando a sinistra, nel senso di solidarietà, legalità, protezione dei deboli e rispetto del lavoro. Abbiamo l’impressione sgradevole di aprire la strada alla destra, persino se si presenta di nuovo con la faccia di Berlusconi.
l’Unità 6.5.14
«Colpito dal premier. Sugli F35 l’Italia non si ferma»
L’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John Phillips, si dice «molto colpito» dall’approccio di Matteo Renzi e spera che il presidente del Consiglio riesca a far adottare le riforme per il Paese che ha proposto.
«Tutte le persone con cui parlo in Italia lo sostengono alla grande e sperano che riesca a far approvare queste riforme, in modo da far muovere l’Italia. Possono esserci delle lobby che magari non vogliono cambiare e mantenere lo status quo. Ma per il bene del Paese, queste misure devono essere adottate», ha detto Phillips - amico di Renzi dai tempi in cui il premier era sindaco di Firenze - durante la registrazione della trasmissione “2Next”, su Rai 2. Pillips sostiene poi che l’Italia potrebbe «rallentare» l’acquisizione degli F-35, manon avrebbe «alcun interesse a ridurne il numero». «Noi abbiamo degli accordi con l’esercito italiano e si è detto che si andrà avanti», afferma.
«L’ambasciatore ha esposto alcune considerazioni sulla base del legittimo punto di vista del suo Paese. Non abbiamo dubbi che comprenderà anche il nostro punto di vista», replica Gian Piero Scanu, capogruppo Pd nella commissione Difesa della Camera. «L’Italia - aggiunge - è una Repubblica parlamentare, abbiamo avviato un’indagine conoscitiva sui nostri sistemi d’arma nelle sedi istituzionali appropriate, dove saranno poi prese decisioni vincolanti, più forti di qualsiasi accordo. Inoltre, come Pd abbiamo avviato un dibattito e nell’assemblea di domani (oggi, ndr) si definirà la nostra posizione sul tema».
l’Unità 6.5.14
Un Andreotti e due Germanie
di Pierluigi Castagnetti
I nostri rapporti con la Germania, durante la costruzione della Ue, hanno provocato spesso incomprensioni. Non sorprende che gli avversari dell’euro individuino nella Germania la responsabile di una preminenza non più sopportabile.
Sono passati molti anni da quando il cammino dell’integrazione comunitaria venne avviato da Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, ben sapendo che, come diceva allora il capo del governo italiano, «la costruzione dell’Europa è un problema complesso, difficile, che esige molta pazienza e soprattutto energica volontà e fede nell’avvenire», a cui era solito aggiungere un monito, ancora oggi attuale, secondo cui l’Italia continuerà ad avere un ruolo importante in tale processo se mostrerà di «possedere questa volontà e questa fede».
IL GIORNO DELL’INCOMPRENSIONE
Uno dei momenti più clamorosi di incomprensione fra l’Italia e la Germania si registrò il 13 settembre 1984 quando, alla Festa dell’Unità di Roma, in un importante dibattito sulla politica estera del nostro Paese fra il senatore Paolo Bufalini e l’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti. Quest’ultimo espresse l’avviso che nel contesto internazionale di quel tempo fosse opportuno che le Germanie fossero due e che due continuassero a rimanere. L’affermazione provocò non poche reazioni oltreché la richiesta di immediate spiegazioni da parte del cancelliere Kohl e del suo ministro degli Esteri Genscher, a cui rispose il presidente del Consiglio Craxi assicurando che il governo italiano avrebbe mantenuto «il più alto rispetto per i principi e gli ideali cui si ispira la Repubblica Federale di Germania e che costituiscono parte del suo fondamento costituzionale». I rumors però, non avevano raggiunto con pari intensità né la Francia né la Gran Bretagna. A Parigi era rimasta viva la memoria dell’affermazione (poi erroneamente attribuita ad Andreotti) dello scrittore Francois Mauriac, intimo di De Gaulle: «Nous aimons tellement l’Allemagne que nous préfèrons qu’il y en ait deux», mentre a Londra forse ci si ricordava dell’affermazione del Segretario Generale della Nato: «Keep the Americans it, the Russians out and the Germans down». Mi pare importante, anche nell’odierno contesto internazionale, peraltro assai diverso ma non meno preoccupante se pensiamo ai possibili sviluppi della crisi ucraina, cercare di capire le ragioni che indussero Andreotti a quell’affermazione, essendo chiaro che non si è trattato di una gaffe ma di una esplicita intenzione. Lo facciamo in occasione del primo anniversario della sua morte, convinti che quel passaggio alla Festa dell’Unità rivelasse un preciso modo di pensare le relazioni internazionali dello statista italiano, ulteriormente lumeggiato in occasioni successive.
Partiamo allora con l’osservare che l’assunto di De Gasperi sulla necessità «di abbandonare una concezione etica assoluta della nazione» doveva essere ben impresso nella mente di chi era stato il suo collaboratore più vicino quando, nel commentare nel 1985, a dieci anni dalla sottoscrizione dell’Atto Finale di Helsinki, i risultati positivi derivanti dal dialogo tra Occidente e Oriente, osservava che «le svolte storiche non sono mai brusche» e che «essenziale è il non perdere di vista la linea di tendenza e, se si è affievolita, il rinverdirla».
Una riflessione su queste parole può già aiutarci a capire il significato di quelle pronunciate alla Festa dell’Unità di Roma nel 1984, cioè cinque anni prima del crollo del muro di Berlino che avverrà il 9 novembre 1989 e che, come sappiamo, fu il detonatore di quel processo di Wiedervereinigung della Germania conclusosi felicemente il 3 ottobre 1990.
IL CLIMA DELL’EPOCA
A metà degli anni Ottanta l’unificazione tedesca non era certo d’attualità e, guardando al passato, Andreotti sapeva bene che lo stesso processo di coesistenza pacifica avviato da Kruscev e Kennedy sotto gli auspici di papa Giovanni XXIII aveva attraversato le prove di forza della repressione prima in Ungheria e dieci anni dopo in Cecoslovacchia, della costruzione del muro di Berlino e poi della crisi di Cuba. E sapeva come proprio dal successivo clima della distensione nei rapporti tra Washington e Mosca, caratterizzato - tra l’altro - dal Trattato di non proliferazione nucleare e dagli AccordiSALT1e SALT2, fosse scaturita l’Ostpolitik di Brandt che aveva prodotto nel 1970 il riconoscimento definitivo da parte della Repubblica Federale della linea Oder-Neisse e, nel 1972, la conclusione del Trattato Fondamentale con cui i due stati tedeschi si riconoscevano reciprocamente che le rispettive sovranità non si estendevano oltre i loro rispettivi territori (liquidando definitivamente la famosa dottrina Hallstein, secondo la quale soltanto la Repubblica Federale poteva rappresentare la Germania).
Il 1° agosto 1975, dopo anni di riunioni preparatorie, a Helsinki venne sottoscritto da tutti i paesi europei (esclusa l’Albania), dagli Stati Uniti e dal Canada, l’Atto Finale della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, con cui si strutturava per la prima volta su questi temi il dialogo fra Occidente e Oriente europeo. I lavori della Conferenza vennero seguiti con caparbio impegno da Aldo Moro, prima nella veste di ministro degli Esteri e poi di presidente del Consiglio e di presidente di turno delle Comunità europee, con l’intendo di evitare che dai negoziati a trentacinque uscisse in qualche modo rallentato il processo di integrazione politica fra i nove membri della Comunità Europea. Ma la preoccupazione non meno importante era quella del rispetto dello statu quo del vecchio continente entro una cornice, ancora tutta da costruire, che consentisse prevedibili futuri mutamenti attraverso il «ricorso a mezzi pacifici », bandendo per sempre l’uso della forza.
LE FRONTIERE DI YALTA
Per i sovietici lo statu quo politico e militare in Europa passava dal riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere uscite da Yalta e dall’impegno a rispettare l’integrità territoriale di ciascun Stato, mentre per gli occidentali era non meno importante fare accettare all’Urss e ai suoi Paesi satelliti il principio del rispetto dei diritti umani. In sintesi, l’Atto Finale di Helsinki partiva dal presupposto che soltanto dal forte impegno sulla sicurezza - traducibile soprattutto in termini di inviolabilità delle frontiere, d’integrità territoriale e di riconoscimento dei diritti umani - avrebbero potuto maturare condizioni di modifica, attraverso percorsi pacifici, del quadro politico europeo. Quello era il clima, quelle erano le condizioni, quelle erano le possibilità prevedibili in quegli anni. L’idea che fosse allora possibile modificare la geografia intraeuropea attraverso una iniziativa (militare?, politica?), era oggettivamente fuori dal contesto affermatosi ad Helsinki.
La preoccupazione di Andreotti era semplicemente questa. Non certo un’ostilità verso la legittima aspirazione del popolo tedesco a ritrovare un giorno la strada della propria riunificazione, ma la preoccupazione che «bruciare» Helsinki avrebbe esposto in quel momento l’Europa e il mondo intero ad altri terribili rischi. Non si trattava di ideologizzare la realpolitik, ma di riconoscere e consolidare il valore degli atti di pace quando finalmente si riesce a sottoscriverli. Da quell’atto di pace che fu Helsinki, Andreotti era convinto che avrebbero potuto maturare condizioni storiche veramente inedite. Riconoscimento migliore alla (se vogliamo definirla così) «dottrina Andreotti » non poteva essere fatto rispetto a quanto scritto nel giugno 1997 dall’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt: «Se non fosse stato per gli accordi di Helsinki del 1975, che invitarono al rispetto dei diritti umani in tutta Europa e furono firmati da Leonild Breznev e tutti gli altri dittatori comunisti, i movimenti di dissidenti guidati da Lech Walesa in Polonia, Vaclav Havel in Cecoslovacchia, e Andrei Sakharov in Russia non avrebbero mai potuto emergere e persistere».
il Fatto 6.5.14
L’autunno dell’Ingegnere e le trasgressioni di un editore
I mesi scapricciati di Carlo De Benedetti, a cui “Repubblica” ormai sta stretta
di Marco Palombi
Capita a volte, basti ricordare il caso di Francesco Cossiga, che l’accumularsi degli anni e l’avvicinarsi al confine della propria vita lavorativa liberino la personalità dai lacci delle convenzioni e la restituiscano all’osservatore al naturale. Eversiva, saturnina, oppositiva, autoindulgente e parecchio più divertente: libero infine, grazie a Dio libero infine.
QUESTA È SOLO un’ipotesi, ma pare proprio quel che sta capitando da qualche mese a Carlo De Benedetti: non più manager impettito, finanziere con codazzo, tessera numero 1 del Pd o capo del partito di Repubblica , ma uno di noi. Blogger d’assalto, polemista a 360 gradi, affibiatore di soprannomi ed editore all’opposizione dei suoi stessi giornali: prodigo di giudizi e frecciate che devono scuotere nel profondo il direttore di Repubblica Ezio Mauro, uomo uso a piemontese riservatezza, il quale - ne siamo sicuri - nel chiuso del suo ufficio accoglie le sparate dell’editore neoliberato, sospirando e alzando gli occhi al suo Kant in brossura.
Che qualcosa non andasse s’era capito già qualche mese fa, quando De Benedetti affidò il suo racconto sui retroscena dell’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi ad Alan Friedman, vale a dire un collaboratore del Corriere della Sera che stava scrivendo un libro per Rizzoli. Si fece finta di niente, a Largo Fochetti, ma le cose non migliorarono: Repubblica, per dire, tardiva scopritrice del renzismo, nel tempo ne è divenuta la Pravda, mentre il saturnino Carlo De Benedetti ha col nuovo premier un rapporto agonistico. Sono stati amici, poi no, poi di nuovo: ora sono in buona, tanto che il nostro ha preannunciato che sarà di nuovo a pranzo a Palazzo Chigi per spiegare al giovane Matteo come e perché per l’Italia sia meglio dichiarare un parziale default sul proprio debito (“quando mai gli Stati hanno pagato i loro debiti?”).
Tempo fa, però, ci fu un momento di vero gelo tra i due. Pietra del contendere la cosiddetta “Google tax”: l’editore ne fu uno degli sponsor, l’allora neosegretario del Pd vi si oppose e poi, da premier, l’ha anche cancellata (a metà). Ricostruzione dell’Ingegnere di un paio di giorni fa: “Ci sono miliardi di utili fatti in Italia da Google, Amazon e Facebook: dovrebbero essere tassati qui. Renzi è contrario, sbaglia: credo sia influenzato dall’ambasciata Usa”. A febbraio, comunque, le bordate contro il premier non partirono dalla nave ammiraglia di Repubblica , ma dal meno impegnativo blog dell’Huffington Post, lo stesso luogo da cui il nostro è tornato recentemente sull’argomento con un post dal titolo “Perché ho paura di Google” (in sostanza, perché è un potentissimo fattore di omologazione sostanzialmente incontrollabile dalla politica e da lui).
IL SUO MEGLIO, però, il nostro l’ha dato al Festival di Dogliani nel weekend: intervistato da Gianni Minoli, Carlo De Benedetti non s’è risparmiato. Ormai, d’altronde, ha sviluppato un certo senso dello spettacolo: l’uomo che ha aspettato 26 anni per dare la sua versione sulla cacciata dalla Fiat del 1976, ora abbonda in commenti e giudizi su quasi tutto. È pronto per un talk della domenica pomeriggio, stante che la sua versione saturnina lo rende inadatto al salotto di Fabio Fazio, di certo invece perfetto per una bella lectio magistralis di Ezio Mauro.
De Benedetti, come detto, ha tenuto la scena da dio: “Magari c’è un modo eccessivo della magistratura di rispondere a Berlusconi, può anche essere, ma la causa è l’impresario Berlusconi”; “magari l’avessero assegnato ai servizi sociali in una struttura sanitaria di Kos (del gruppo Cir, ndr): sarebbe stata una pubblicità eccezionale, l’avremmo trattato benissimo... Non ne sarebbe uscito vivo”. Agnelli? “Ottimo ambasciatore, pessimo imprenditore”. Tronchetti? “Bravo nella comunicazione, di più nella rapina”. Grillo? “Abbiamo perso un comico e acquistato un fascistello populista”. De Bortoli? “Un bravo direttore con delle debolezze: ha dato la terza pagina a Marina Berlusconi, io mi sarei fatto pagare”. Napolitano? “Il Pd gli sta sulle palle” e “si dimette tra poco: al suo posto vedrei bene uno alto e magro, Fassino”. Gli 80 euro di Renzi? “Sono solo uno spot elettorale” (scene di panico a Largo Fochetti). Sezione Fiat. “Sergio Marchionne ha salvato la Fiat: gli do 10 per immaginazione e coraggio, ma 4 in comunicazione e sincerità perché Fabbrica Italia non era credibile”. E a Romiti? “Zero”. E a John Elkann? “Un voto da nipote”. Papa Francesco? “Mi piace molto perché parla il linguaggio della verità e vuole scardinare quella fogna che è il Vaticano, è il Papa dei nostri tempi”.
Ieri poi, per non farsi mancare niente, se n’è andato all’assemblea Consob e, quando ha preso la parola il cardinale Scola, s’è alzato e ha lasciato la sala col fratello Franco. Spiegazione di quest’ultimo su Twitter: “Un organo dello Stato non si fa dare lezioni di etica dalla Chiesa”. Dai, Carlo, facci sognare. E noi faremo finta che Sorgenia non sia virtualmente già fallita.
l’Unità 6.5.14
L’inferno dei giovani africani nella scuola Verdi di Augusta
di Khalid Chaouki
Deputato Pd Intergruppo parlamentare sull’immigrazione
DOMENICA HO TRASCORSO L’INTERA GIORNATA IN SICILIA DEDICANDOLA AD UNA SERIE DI VISITE NEI CENTRI DI ACCOGLIENZA DELLA REGIONE. Tra i molti, ho deciso di visitare quelli che fanno parte dell’avanposto dell’accoglienza, per verificare il lavoro e la qualità dell’accoglienza offerta a profughi e migranti.
Devo dire che, nonostante i numeri importanti e, in alcuni casi, allarmanti, la gestione di queste persone, tutti adulti, è funzionante, merito anche all’operazione Mare Nostrum che in questi mesi ha consentito di salvare, direttamente in mare, molti disperati che, in fuga da guerre o regimi, intraprendono l’avventura del viaggio in mare. Le strutture siciliane di prima accoglienza, in particolare quella di Pozzallo che io ho visitato, si fanno carico di ricevere i grossi numeri dei migranti tratti in salvo e poi subito smistati e dislocati in altre strutture sparse su tutto il territorio nazionale. A tal proposito dalla Sicilia ho lanciato un appello, assieme al sindaco di Pozzallo per una condivisione della responsabilità e del carico dell’emergenza con i sindaci di tutti i Comuni d’Italia, perché quella che viviamo non è solo un’emergenza siciliana ma italiana, e ancor di più europea.
La mia visita di domenica mi ha portato poi ad Augusta, un piccolo centro in Provincia di Siracusa, città che ha dato i natali allo showman Fiorello e a Roy Paci, il cui Comune è stato sciolto per mafia e commissariato lo scorso marzo 2013. Qui ad Augusta, in una scuola dismessa, l’Istituto Verdi, giacciono «parcheggiati» quasi duecento ragazzi, tutti minorenni, provenienti per lo più dal Mali, dal Gambia, dalla Nigeria, dall’Eritrea e dall’Egitto. Giovanissimi, poco più che bambini, si sono divisi nelle classi stipate di brandine, i gruppetti che hanno formato rispettano i Paesi di provenienza, «così non litigano» ci spiega l’impiegato comunale - uno solo - preposto a sorvegliare la situazione. Quello che colpisce, appena entrati nella scuola, è l’odore penetrante di muffa, sporco e sudore che aleggia nei corridoi, nonostante le finestre completamente spalancate. Le condizioni igieniche nelle quali vivono questi ragazzi sono preoccupanti e indecenti, non sono previste visite mediche e, ci dice Mamadou, sedicenne proveniente dal Senegal, una volta che è venuto un medico volontario «non parlava né inglese né francese e non ho potuto spiegargli il mio dolore al fianco!».
Eh sì, perché in questa delicatissima Babele di lingue e culture non c’è un mediatore culturale, manca qualcuno che conosca l’inglese, che sappia parlare francese e arabo, le tre lingue nelle quali questi ragazzi si esprimono.
Ci viene incontro un gruppetto di egiziani, tra loro uno, più coraggioso, si fa avanti: «Quando usciamo da qui? -mi chiede Samir, 15 anni e due occhi verdi che cercano risposte... - Io voglio andare a scuola, come gli altri, qui non facciamo niente tutto il giorno!».
Si confida con me in arabo, ed è un fiume in piena, mi racconta del viaggio spaventoso affrontato per arrivare fin qui, e della speranza di un futuro migliore, delle lacrime di sua mamma e dell’opportunità che gli era stata concessa di rifarsi una vita in Europa. Ora, qui ad Augusta deve fare i conti con la frustrazione di non sapere cosa sarà di lui e le ore vuote che ogni giorno lo attendono tra le pareti della scuola Verdi.
Visitiamo tutto l’istituto, siamo una piccola delegazione, ci sono anche un paio di giornalisti della stampa estera che filmano e fotografano stando ben attenti a non inquadrare i volti dei minorenni.
Ci affacciamo nei bagni fatiscenti, sono bagni di una scuola, inadatti a fare una doccia, con i pavimenti sudici e allagati, mentre saliamo le scale ci accorgiamo che il secondo piano della scuola è ancora peggio, «lì ci sono gli eritrei», ci spiega l’impiegato comunale, i ragazzi sono talmente tanti che sono anche nel corridoio con le loro brandine e coperte maleodoranti.
Alcuni stanno male, si lamentano, avvolti nelle pesante coperta marrone, ci chiedono di incontrare un medico.
Questa visita è stata un colpo al cuore, la situazione nella quale vivono questi ragazzi è vergognosa e non è degna di un Paese civile, dopo quanto ho visto con i miei occhi e documentato con foto e filmati mi rivolgerò a chi di competenza nel ministero dell’Interno e nel ministero del Lavoro per trovare immediatamente una sistemazione decorosa a questi giovanissimi profughi. Ilmio appello vuole però giungere anche alle Ong e a tutte quelle associazioni e Onlus che si occupano di diritti ed infanzia, affinché si adoperino per inviare personale qualificato e alleviare una situazione di cui il governo deve assolutamente farsi carico.
la Repubblica 6.5.14
Solo quattro in regola
I deputati pugliesi non versano quote il Pd ha un buco di 720mila euro
di Lello Parise
BARI. È moroso il sottosegretario al Lavoro Teresa Bellanova, così come non ha ancora tirato fuori un centesimo il sociologo Franco Cassano, capolista dem alla Camera per le politiche 2013. La stessa cosa fa un’altra deputata, la brindisina Elisa Mariano. Tutti e tre avrebbero dovuto versare nelle casse del Pd pugliese la una tantum di 30mila euro dopo l’elezione a Montecitorio e a Palazzo Madama. Dei diciotto parlamentari pugliesi, appena quattro onorano l’impegno: Anna Finocchiaro, Nicola Latorre, Michele Pelillo, Francesco Boccia. Gli altri quattordici saldano un tanto al mese o fanno spallucce. Nei forzieri local della principale forza politica del centrosinistra dovevano esserci540mila euro, se ne contano poco meno della metà: 267mila. Mancano quindi all’appello 273mila euro.
Si aggiungono ai 447mila euro che consiglieri e assessori regionali non fanno arrivare dall’inizio della legislatura, il 2010, ai democratici, ritornati a essere governati da Michele Emiliano, che si ritrova a gestire una pesante eredità. Sono più o meno in regola quattro su diciannove, e basta. Eppure, come recita lo statuto, gli eletti hanno «il dovere di contribuire al finanziamento del partito»: 1.250 euro al mese poi ridotti a 700 per gli assessori, 1.000 euro dimagriti fino a 500 perché i consiglieri non finiscano nelle file dei debitori. Se rifiutano di mettere mano al portafoglio nell’epoca in cui i rimborsi pubblici sono una chimera, dovrebbero essere marchiati come incandidabili alle prossime elezioni.
È almeno dall’estate dell’anno scorso che il Pd all’ombra di San Nicola scopre di avere i conti in rosso fisso. Tant’è che tra settembre e novembre erano state inviate lettere agli onorevoli e a un senatore, con lo scopo di «recuperare la morosità». Comprese quelle per il terzetto di evasori totali. Ma solo Cassano si sarebbe accordato per restituire «un po’ alla volta» 30mila euro. I numeri di un disastro annunciato finiscono a febbraio di quest’anno in un report trasmesso al tesoriere nazionale, Francesco Bonifazi: il buco ammonta a 720mila euro. Il rischio è serio: i sei dipendenti ex Ds e ex Margherita potrebbero tutti finire in cassa integrazione o addirittura essere licenziati perché non ci sono più soldi per gli stipendi.
La vicenda sarà risolta dopo le consultazioni europee e amministrative, così fanno sapere dal quartier generale di via Re David a Bari. Ma già bolle il fuoco della polemica. Nessuno esclude ingiunzioni di pagamento ai ritardatari perché, diversamente, sarebbe difficile fare quadrare entrate e uscite. Antonio Maniglio, vicepresidente del consiglio regionale, chiede «al segretario Emiliano di dare il via a un’operazione trasparenza». L’assessore della giunta Vendola, Guglielmo Minervini, uno dei virtuosi, scuote la testa: «Offro da nove anni il mio contributo economico al Pd. Sono più di un pirla».
l’Unità 6.5.14
La Corte Suprema Usa: sì alla preghiera dei politici
Aprire con un’orazione cristiana le sedute in Comune non viola la Costituzione: «È tradizione»
di Roberto Monforte
La recita di una preghiera cristiana all’apertura del Consiglio comunale, malgrado faccia ripetuti riferimenti al Cristianesimo, non viola la Costituzione degli Stati Uniti e in particolare il «Primo emendamento» della Carta che garantisce la libertà di culto e vieta al Congresso di stabilire una religione di Stato.
Lo ha deciso a stretta maggioranza, cinque voti a favore e quattro contro, la Corte suprema del Paese che si può ben definire tra quelli al mondo più multietnico e plurireligioso. Se la sentenza dell’Alta Corte stabilisce che le preghiere in apertura delle riunioni dei consigli comunali non violano la Costituzione, pone però una condizione. Stabilisce, infatti, che il contenuto delle preghiere non costituisce un problema «finché le autorità si impegnano a renderle integrate con le altre religioni». «Le invocazioni religiose - si precisa - non rappresentano un problema se i funzionari si sforzano per garantire l’inclusione di tutti ».
Uno dei magistrati che hanno votato a favore, il giudice Anthony Kennedy, ha spiegato la decisione con il fatto che le preghiere fanno parte del cerimoniale delle assemblee e sono nella tradizione degli Stati Uniti. «L’inclusione di una preghiera breve e cerimoniale nell’ambito di un più ampio esercizio dell’identificazione civica - ha osservato - suggerisce che il suo scopo ed effetto siano di riconoscere i leader religiosi e le istituzioni che essa rappresenta, non l’esclusione o la coercizione dei non credenti». Se pronunciate con questo spirito, è la conclusione, le preghiere che precedono funzioni pubbliche non rappresenterebbero una forma di discriminazione verso chi non è credente o non è cristiano.
La decisione della Corte suprema dà così ragione alla città di Greece, nello Stato di New York, che si vede vittoriosa dopo che una Corte d’appello federale aveva definito «incostituzionale» la pratica di far precedere l’inizio delle assemblee con la recita di una preghiera cristiana, dando ragione a due «residenti» che hanno fatto causa: Susan Galloway e Linda Stephens, una di religione ebraica e l’altra atea. Una pratica ripetuta per ogni Consiglio comunale da ben 11 anni.
Nel giudizio della Corte suprema ha pesato un suo precedente pronunciamento che già nel 1983 aveva concesso al Parlamento del Nebraska di tenere delle preghiere all’apertura dei propri incontri, affermando che «esse fanno parte del tessuto sociale del Paese» e «non rappresentano una violazione del Primo emendamento».
Una decisione che continua a non convincere Elena Kagan, anche lei giudice della Corte suprema, che però ha votato contro. «Dissento rispettosamente dalla decisione della Corte - ha spiegato - poiché penso che il caso della città di Greece violi la norma di uguaglianza religiosa, l’idea costituzionale che le nostre istituzioni appartengano ai buddisti o agli induisti tanto quanto ai metodisti o agli appartenenti alla Chiesa episcopale». Per il giudice Kagan il caso di Greece è comunque diverso da quello del Nebraska perché nella cittadina della Stato di New York «gli incontri prevedono la partecipazione dei cittadini e le invocazioni fatte, rivolte principalmente a loro stessi, hanno contenuto prevalentemente settario». Così si andrebbe contro il Primo emendamento.
la Repubblica 6.5.14
Frank-Walter Steinmeier
“Ora la guerra è vicina non consentiamo a Putin di essere nostro nemico
Serve una nuova Ginevra”
di Andrea Tarquini
«Siamo ad un passo da uno scontro militare aperto in Ucraina. Occorre una seconda conferenza di Ginevra». È il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier a parlare. Ed a esporre le nuove proposte di Berlino per evitare il peggio, in questa intervista a Repubblica e ad altri tre grandi quotidiani europei. «Non dobbiamo permettere a Putin di essere un avversario». E ancora: «Vediamo immagini spaventose: la situazione peggiora di giorno in giorno, specie nell’est ucraino, le sanguinose immagini di Odessa ci dicono che siamo a pochi passi da uno scontro militare aperto. Dobbiamo cambiare la situazione».
BERLINO. MINISTRO, a quali tentativi pensa?
«MI concentro sulla ricerca di possibilità e strumenti per evitare una guerra civile. Tutti i paesi Ue escludono un intervento militare. Quindi dobbiamo cercare un mix bilanciato di pressione politica e offerte diplomatiche per preparare il terreno a una soluzione politica. È divenuto più difficile negli ultimi giorni. Ma forse la tragedia di Odessa è stata campanello d’allarme anche per le parti in conflitto. Gli ultimi mesi ci hanno mostrato che è facile condannare gli sviluppi, come è stato anche necessario dopo la violazione del diritto internazionale in Crimea. È infinitamente più difficile trovare vie d’uscita da un conflitto in escalation e le soluzioni politiche. Sarebbe irresponsabile permettere che le potenze coinvolte cadano in un completo silenzio tra loro a causa di una escalation… Anche se è difficile, abbiamo bisogno di cooperazione».
Perché “Ginevra 1” non ha funzionato?
«L’errore non è stato la conferenza, ma il non aver elaborato un modo per tradurre nei fatti le intese. “Ginevra 2” deve stabilire singoli passi vincolanti, ridurre la tensione nelle zone più colpite dai conflitti, rafforzare un processo politico e costituzionale che includa tutti in Ucraina, sullo sfondo della cooperazione tra Usa, Europa, Russia per la stabilizzazione economica ucraina».
Putin vuole ricostruire l’Urss?
«Certo è che nell’elaborazione teorica della politica estera russa la categoria dominante resta il pensiero in termini di sfere d’influenza geostrategiche. Ciò porta non solo a malintesi, ma anche a conflitti con le parti del mondo che dal 1989 avevano detto addio al pensiero geostrategico. L’idea europea di un rapporto stabile con i vicini non è stata mai rivolta contro la Russia. Dobbiamo convincere Mosca che deve avere lo stesso interesse a una stabilità della zona tra le frontiere orientali della Ue e le frontiere occidentali russe ».
Pensa ancora che le elezioni presidenziali in Ucraina si terranno il 25 maggio?
«Le premesse non sono buone. Non sappiamo se saranno migliori il 25 maggio. Ma non è ammissibile una strategia che punti a rendere impossibile quella scadenza. Coloro che in Russia la mettono in forse cadono in contraddizione: dubitano della legittimità della leadership politica in Ucraina, e negano la chance di creare una nuova legittimità con l’elezione di un presidente. Per questo mi batto per “Ginevra 2” e per un’intesa sulla scadenza elettorale».
I paesi baltici temono uno scenario ucraino. Fino a che punto Nato e Germania sono pronte a difenderli?
«Nella parte orientale della Ue la sensazione di minaccia ha raggiunto il massimo livello. Soprattutto in Lettonia, Lituania ed Estonia. Lo capiamo, e abbiamo espresso la nostra solidarietà politica. In relazione a scenari di minaccia militare, la Nato ha rafforzato temporaneamente le capacità di sorveglianza, con pattuglie aeree e navali».
Siamo allora testimoni di una nuova guerra fredda?
«I poteri politici non possono mai essere testimoni. Hanno la responsabilità di impedire che avvenga ciò che c’è ragione di temere, cioè che il conflitto sull’Ucraina diventi acuto, cosa che noi tutti in Europa non ritenevamo possibile. Improvvisamente, 25 anni dopo la fine del confronto tra i due blocchi, una nuova spaccatura politica dell’Europa diverrebbe di nuovo virulenta. Nessuno s’inganni: è un pericolo e una minaccia, non solo per l’Ucraina. Con questo conflitto può venire distrutta l’intera architettura di sicurezza costruita e consolidata in decenni in Europa».
Putin è ancora un partner possibile, o piuttosto un avversario?
«Non dobbiamo permettergli di essere un avversario».
Nel 1914 le potenze pensarono a un conflitto locale balcanico, e poi divenne guerra mondiale. Quanto siamo lontani da una simile situazione?
«Tra il 1914 e oggi ci sono state due guerre mondiali e la fine del confronto tra i due blocchi. Tali eventi dovrebbero bastare a renderci sensibili e attenti a non ricadere mai a tempi come quelli di allora. Non vediamo oggi in tutta Europa una disponibilità di molti Stati a mandare in guerra i loro giovani. Con la Osce e l’Onu abbiamo strumenti che già più volte hanno reso governabili i conflitti. Adesso non c’è garanzia, ma spero che ci riesca di farlo con l’Ucraina, e lavoro per questo. Anche se durerà a lungo, perché la volontà di deescalation non è presente in tutte le parti in campo».
la Stampa 6.5.14
Automatismo ambulatorio isterico
La relazione di Adrien sulla vicenda di Emile X.
di Adrien Proust
Pubblichiamo uno stralcio dell’articolo del professor Adrien Proust, padre dello scrittore, uscito sulla Tribune médicale il 27 marzo 1890:
Siamo di fronte a un caso evidente di automatismo ambulatorio in un isterico. Può essere assimilato a quello di cui ha dato recentemente comunicazione alla Società medico-psicologica M. J. Voisin, a quello di M. Mesnet – sopravvenuto in seguito a un trauma cranico – e infine a quello osservato da M. Charcot in un epilettico pubblicato in una rivista medica (Bulletin médical, 1889, n° 18). Tutti conoscono del resto la celebre storia di Félida, riportata, già parecchio tempo fa, da M. Azam, di Bordeaux. Nell’osservazione di Emile X… come in quelle di casi simili, si riscontrano in genere i due punti che seguono: 1) una interruzione nella continuità degli stati di coscienza, benché l’individuo, in questa fase, vada, venga, agisca conformemente alle abitudini della vita corrente; 2) se vi è discontinuità tra gli stati di coscienza del periodo di condizione alterata e quelli della vita normale, vi è al contrario continuità tra gli stati di coscienza delle fasi di condizione alterata.
Nel suo stato normale, Emile X… ignora ciò che ha fatto durante i periodi di automatismo ambulatorio, ma basta, sprofondandolo nel sonno ipnotico, rimetterlo nella condizione alterata perché subito si ricordi i minimi dettagli delle sue peregrinazioni.
La Stampa 6.5.14
Proust sul lettino di papà
Un caso di sdoppiamento della personalità, studiato dal padre medico, affiora tra le pagine della Recherche: alla base del capolavoro non era solo la madre
di Gabriella Bosco
Anche il papà di Proust andò alla ricerca del tempo perduto. E lo ritrovò. Ma agendo diversamente rispetto al figlio. Percorrendo altre vie. Anche se: agendo diversamente… percorrendo altre vie… non è poi così sicuro. Tra i due percorsi, quello del padre e quello del figlio, ci sono in realtà non pochi punti in comune. La riflessione nasce da un interessantissimo riscontro testuale, occasionato dall’uscita (per Bollati Boringhieri) di un libro sinora inedito in italiano: La psicoanalisi di Pierre Janet, un importante psicologo di fine Ottocento.
Cominciamo dal riscontro testuale. Poi vedremo il collegamento con il libro di Janet. Lo riporto, il nesso con La recherche, così come me lo ha raccontato l’altra mattina per telefono Mariolina Bertini, la più illuminata e la più interessante, una vera miniera di conoscenze, tra gli studiosi di Proust. Mi chiama dunque, Mariolina Bertini, perché ha per le mani un articolo pubblicato dal papà di Marcel, il professor Adrien, in una rivista medica nel 1890. Articolo nel quale il professore riferisce del caso di un suo paziente, un noto avvocato, soggetto a crisi di sdoppiamento della personalità. Il professor Proust parla di «automatismo ambulatorio», fasi di assenza dell’avvocato da se stesso, durante le quali se ne andava in giro a commettere misfatti di varia natura, dei quali poi, tornando allo stato di coscienza originario, non ricordava nulla. Mariolina Bertini mi fa notare come il caso di questo malato figuri nella Recherche, riferito dal figlio in termini molto simili a quelli usati dal padre. Vediamo. Scrive Marcel, nel Tempo ritrovato (cito dalla traduzione Einaudi di Giorgio Caproni, sono le pagine di pastiche del diario dei fratelli Goncourt prestato al narratore da Gilberte, il brano ch’egli legge prima di addormentarsi, dove si dà conto di conversazioni nel salotto di Madame Verdurin): «E la suggestiva dissertazione passa, quindi, a un grazioso cenno della padrona di casa, dalla sala da pranzo al fumoir veneziano, dove Cottard ci narra d’aver assistito a dei veri e propri sdoppiamenti di persona, citando il caso d’uno dei suoi malati (…) al quale basterebbe toccare le tempie per destarlo a una seconda vita, vita durante la quale non ricorderebbe più nulla della prima, tanto che, uomo onestissimo in quella, vi sarebbe stato arrestato parecchie volte per furti commessi nell’altra, dove non sarebbe né più né meno che un abominevole furfante».
L’articolo del papà, pubblicato nella Tribune médicale alla rubrica «Neuropathologie», nasce da una comunicazione fatta all’Académie de sciences morales, dove fu oggetto di viva attenzione, «testimonianza dell’interesse crescente che i filosofi dimostrano per certi fatti di patologia nervosa». Il professor Proust vi racconta dunque di un suo paziente, Emile X…, 33 anni, avvocato, che «in certi momenti perde del tutto la memoria. In quei momenti tutti i suoi ricordi, i più antichi come i più recenti, sono aboliti. Dimentica completamente la sua esistenza passata. Si dimentica di se stesso. Tuttavia, siccome non perde la coscienza (…), una nuova vita, una nuova memoria, un nuovo io cominciano per lui. Allora cammina, sale in treno… Quando di colpo, come in una specie di risveglio, torna alla condizione primaria, ignora quello che ha fatto nei giorni appena trascorsi, cioè per tutto il tempo della sua condizione alterata ». Ed entra poi nel dettaglio degli episodi disdicevoli, furti e altro, di cui l’avvocato fu protagonista in queste frequenti fasi di oblio di sé.
Il caso è in tutta evidenza lo stesso. Nel pastiche, la moglie del dottor Cottard, insolitamente arguta nel resoconto attribuito ai Goncourt, non manca di far notare «che uno spunto molto simile lo ha svolto in una sua opera un narratore (…), il favorito delle serate dei suoi ragazzi, lo scozzese Stevenson».
E qui arriviamo a Janet, lo psicologo che influenzò la nascita della psicologia dinamica con i suoi studi sulla dissociazione e sul trauma psicologico. Era stato allievo di Charcot, alla Salpêtrière, come Adrien Proust. Entrambi, il professor Proust e Pierre Janet, si occuparono di stati dissociativi e di problemi legati alle memorie traumatiche. Nel 1889, Janet aveva pubblicato la sua tesi di dottorato in filosofia dedicata proprio all’automatismo psicologico e nel 1893 conseguì un secondo dottorato in medicina con una tesi sullo stato mentale degli isterici. Il libro ora pubblicato da Bollati Boringhieri, che risale al 1914, contiene il testo che Janet pronunciò l’anno precedente al Congresso di Psicologia di Londra, nel rivendicare la paternità di certi concetti che aveva elaborato per primo e che con fastidio aveva visto in seguito attribuiti a Freud.
Leggere La psicoanalisi permetterà di reimmergersi nel contesto culturale, nel clima degli studi di psicologia sperimentale che l’autore della Recherche frequentava, dei quali era attento lettore. E non solo. Come notava lo studioso svizzero Edward Bizub in un testo su Proust et le moi divisé di qualche anno fa, Proust seguivamolto da vicino gli esperimenti sui sonnambulici alla cui guarigione si cercava di giungere tramite il ricongiungimento delle loro due metà separate. Lui stesso, allievo in filosofia dello zio di Pierre Janet, Paul, aveva lavorato intorno al tema della unità e diversità dell’io.
Torniamo adesso al professor Proust e al suo malato: per risolvere il caso, lo aveva trattato con l’ipnosi permettendogli di recuperare la memoria persa nelle fasi di sdoppiamento. Non è escluso che lo stesso Marcel sia stato ipnotizzato nel periodo di cure cui fu sottoposto nel 1906. Ma soprattutto, è suggestiva l’ipotesi che la figura del padre, oltre a quella sempre e solo citata della madre, sia alla base della concezione stessa della Recherche.
Corsera 6.5.14
Leggere è pericoloso, specie per le donne
Il significato della censura e dei roghi di carta stampata dal Settecento a Internet
di Pierluigi Battista
I libri sono pericolosi. In mano alle donne, sono pericolosissimi. Perciò bruciano i libri. E talvolta, bollate come streghe, anche le donne. Storia nota.
Quelli che bruciano i libri hanno sempre qualche problema con le donne, perché sanno che i lettori più pericolosi sono le lettrici. Una mostra parigina di qualche anno fa si presentava con questo titolo: Les femmes qui lisent sont dangereuses , «Le donne che leggono sono pericolose». Nella logica dei piromani e dei censori, infatti, i libri imbottiscono di strane idee le teste di chi li legge. E se poi chi li legge è più esposto alle seduzioni della lettura, come appunto si insinua siano le donne, quelle strane idee possono diventare una polveriera ed esplodere. Scrive una delle curatrici della mostra di Parigi: «La donna capace di leggere non solo è in grado di conquistarsi uno spazio di libertà personale. Crea anche una propria immagine del mondo che non deve necessariamente coincidere con quella legata alla sua estrazione sociale e neppure con quella dell’uomo». Per i censori, i pedagoghi, gli addetti all’ordine sociale e mentale, i custodi del bene comune e della tradizione, questo vuol dire solo una cosa: che i libri sono doppiamente pericolosi, perché nella mente e nell’immaginazione affrancano le donne dalla loro «estrazione sociale», pericolo numero uno, e addirittura dall’universo stabilito dall’uomo, pericolo numero due.
E infatti, quando le donne cominciano ad avere tra le mani i libri, scatta il grande allarme. A partire dal Settecento, nei decenni in cui si sono forgiati gli strumenti dell’industria culturale di massa e del mercato del libro come noi li conosciamo, il panico ha cominciato a propagarsi, e i nemici del libro hanno ripreso prudenzialmente ad accendere i roghi. O meglio, hanno attivato la censura che, secondo la brillante definizione di George Steiner, è equivalente ai roghi dei libri. Però «a fuoco lento».
I distruttori di libri e i censori hanno quasi sempre due ossessioni contemporaneamente: le idee diverse e il sesso. Vogliono censurare i libri sul piano intellettuale, perché veicoli di idee nefaste e da sopprimere. E vogliono censurare i libri sul piano morale, perché divulgano comportamenti e tentazioni che sarebbe bene tenere nascosti, o comunque nell’ombra. Nella Francia del Settecento, la sempre più attiva fabbrica dei libri sfornava ogni giorno opere quasi illegali e semiclandestine in cui le idee e il sesso erano strettamente intrecciati, e le opere filosofiche si confondevano con quelle esplicitamente pornografiche. Lo Stato censurava, sorvegliava, dosava le punizioni. C’erano sì le opere da bruciare materialmente. Ma accanto c’erano quelle ufficialmente proibite, in realtà proibite solo fino a un certo punto. Scrive Robert Darnton che «il carnefice pubblico stracciava e bruciava i libri proibiti nel cortile del Palais de Justice», ma tollerava che «la fame di letteratura proibita in tutto il regno» venisse pur sempre saziata attraverso i canali del commercio librario clandestino. In una ventina d’anni vennero messi al rogo «soltanto» diciannove libri. Per il resto, potevano circolare anche i libri dall’odore di zolfo, purché venissero formalmente classificati, per conservare un minimo di decenza, sotto l’accettabile definizione di «livres philosophiques».
E così, tra i libri «filosofici», quelli di teoria politica stavano insieme alla pornografia pura o mimetizzata, detta anche letteratura «libertina». Non dobbiamo stupirci, sostiene Darnton, se «Mirabeau, l’uomo che incarna lo spirito dell’89, è al contempo l’autore delle più volgari opere pornografiche e dei più audaci trattati politici del decennio che precede la Rivoluzione». Del resto, lo stesso Voltaire amava dire, con accostamento che parve (e forse pare tuttora, da un fronte opposto) sconveniente, che «le idee sono le mie puttane». Ma quando quei libri «filosofici» dal fortissimo richiamo erotico cominciarono ad attirare un’ampia clientela femminile, tutto venne messo a soqquadro. I lettori maschi furono per lo più tentati dalla Rivoluzione, che si portava dietro anche una ventata trasgressiva di libertinismo. Le lettrici, invece, furono per lo più tentate dalla ribellione verso il ruolo loro assegnato dalla tradizione e dalla morale corrente.
Sono i decenni, quelli a cavallo tra Sette e Ottocento, in cui si amplia il tanto vituperato mercato della cultura, dell’arte e della musica e chi produce cultura si emancipa dall’asfissia oligarchica delle aristocrazie e dai capricci del mecenatismo dei re e delle corti: come Wolfgang Amadeus Mozart, per esempio. Si saldano gli anelli di una catena di benefiche (o malefiche, a seconda dei punti di vista) conseguenze connesse tra di loro. Con l’industria culturale di massa, che allarga a dismisura il pubblico di chi consuma prodotti culturali, nasce anche il romanzo moderno. Con il romanzo moderno fiorisce anche una nuova sensibilità. E con la nuova sensibilità si affaccia il pubblico delle nuove lettrici, che poi continueranno a essere fino ai nostri giorni le più avide consumatrici di romanzi («È solo merito delle lettrici se oggi si continua ancora a pubblicare e vendere libri», ha ammesso Mario Vargas Llosa). Perciò anche i professionisti della distruzione dei libri e i censori cominciano ad avere un nuovo daffare. Troppe donne con troppi libri sono guardate con sospetto e angoscia. «Ma prima, cerca di levargli i libri! Senza i libri è uno sciocco come me. Brucia i suoi libri!» esortava il losco Calibano nella Tempesta di Shakespeare. E «cercate di levare i libri» dalle mani delle lettrici sembra essere diventata anche la pressante esortazione dei moderni censori. Nella sfera dei sentimenti pericolosi, «galeotto» è sempre il libro, e chi lo legge.
la Repubblica 6.5.14
Se la Cina va in tilt per il “ponte” del Primo maggio
di Giampaolo Visetti
PECHINO. I CINESI scoprono il “ponte” e la Cina è sconvolta dalla nuova febbre del turismo. Effetti collaterali dell’ultimo diktat del partito comunista esteso alle imprese private: concedere a tutti “ferie pagate”, dal 1999 riservate ai dipendenti pubblici, per far crescere i consumi interni. Conseguenze: addio alle riunioni di famiglia e Paese paralizzato per quattro giorni, con oltre 350 milioni di turisti scatenati nel primo weekend lungo della storia nazionale. Sotto Mao Zedong, il Primo maggio veniva celebrato in piazza Tiananmen con le danze rivoluzionarie delle masse operaie. Nel 2007, per scongiurare l’esodo dei migranti verso casa e l’abbandono delle catene di montaggio, la “settimana d’oro” di primavera fu abolita tra le proteste degli stessi funzionari. Quarant’anni dopo il declino del Grande Timoniere, il “sogno cinese” di Xi Jinping archivia il Libretto Rosso e per costruire la classe media del futuro punta sui cataloghi multicolor dei tour operator. I “compagni” intonavano con crescente perplessità
gli inni ai diritti dei lavoratori. I loro nipoti, fatta confidenza con mutuo e carta di credito, non si fanno al contrario pregare per assaltare le agenzie di viaggio e partire alla scoperta della patria anche per poche ore.
Se la Cina fosse un universo demograficamente normale, la “rivoluzione della ventiquattrore” ecciterebbe solo i mercati. L’ordine di gita fuori porta investe invece 1,37 miliardi di cinesi e l’obbedienza al consumismo di Stato si trasforma in un ingorgo da guinness. Tra giovedì e domenica, secondo i media controllati dal potere, «una nazione chiusa per ferie ha dimostrato di non aver superato l’esame di educazione al tempo libero». Dal miraggio del benessere occidentale all’incubo della comitiva asiatica, con località storiche e mete turistiche travolte da un esercito senza precedenti di neo “colletti gialli” in fuga dello smog delle megalopoli. Tra Pechino e il Tibet, sull’autostrada appena terminata si è formata una colonna di automobili lunga 70 chilometri. Nulla a che vedere con il blocco del secolo, causa cantieri, nel 2010: 120 chilometri di camionisti imbufaliti, fermi per un mese, capaci di far tremare i vertici del regime. La corsia d’emergenza, secondo la tivù di Stato, stavolta si è però trasformata in un “camping infinito”, con decine di migliaia di viaggiatori «stesi a dormire, o impegnati a cucinare».
Le Ferrovie hanno contato 37 milioni di passeggeri, più 16,5% rispetto al Primo maggio del 2013, mentre il traffico in autostrada è esploso del 27%. Gli alberghi sono collassati sotto il peso di 325 milioni di prenotazioni, per un giro d’affari di oltre 10 miliardi di euro. Questo il “bollettino di guerra” del primo ponte in Cina: 190 mila i biglietti staccati in un solo giorno alla Città Proibita, più 26% annuo, 4 ore di coda per mettere piede pochi istanti sulla Grande Muraglia a Mutianyu, 74 tonnellate di rifiuti raccolte domenica sulle spiagge tropicali di Sanya e 13 mila i visitatori di Lijiang, nello Yunnan, costretti a passare la notte all’aperto per mancanza di camere libere. Per proteggere l’armata dei guerrieri di terracotta dall’attacco di 120 mila persone al giorno, a Xian sono stati schierati 2 mila agenti dei reparti speciali.
Fino alla scoperta del ponte di questo Primo maggio, la Cina chiudeva due settimane, all’inizio di ottobre e in occasione del capodanno lunare. Le ferie servivano a migranti e operai per rivedere mogli e figli, nei villaggi d’origine, dopo mesi di distacco. Per la prima volta i quattro giorni liberi non sono stati confucianamente riservati agli affetti dei parenti, ma adamsmithianamente impegnati nei voli dei single verso i casinò di Macao e gli shopping center di Shanghai, facendo esplodere le polemiche sull’«inadeguatezza di hotel, ristoranti, trasporti e perfino bagni pubblici». L’Ufficio interno delle festività è stato costretto ad annunciare un «piano d’emergenza» per «scaglionare i weekend lunghi regione per regione» e concedere biglietti di treni e aerei solo ai turisti che possono esibire una prenotazione alberghiera.
Prossima battaglia ai primi di giugno, con il festival delle navi-drago. Saranno passati 25 anni dalla strage degli studenti in piazza Tienanmen: allora in Cina si lottava per democrazia e libertà, oggi per un selfie nelle terme di Hainan, o sulla nave da crociera a Guilin.
la Repubblica 6.5.14
“Le mie richieste nel pizzino virtuale” così parlava la banda dei baroni
Le intercettazioni dei prof sotto indagine a Bari E l’ex grarante della privaci raccomandava il figlio
di Giuliano Foschini
BARI. L’hanno chiamata «Do ut des», perché «la sostanza di quest’indagine complessa è tutta in quella locuzione latina: io do affinché tu dia». A essere mercanteggiati sono i posti da professori ordinari e associati nelle università di tutta Italia. Mentre i mercanti sono i baroni e i mammasantissima del diritto costituzionale, canonico e pubblico comparato. La procura di Bari ha chiuso il primo filone dell’inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano. Trentotto indagati e due associazioni a delinquere: una con base Bari, l’altra a Milano, dove sono stati inviati gli atti per competenza. L’ex ministro Anna Maria Bernini e l’ex garante della privacy Francesco Pizzetti già iscritti nel registro degli indagati. E il filone sul diritto costituzionale — nel quale sono stati denunciati dalla Finanza cinque dei saggi scelti dal presidente Napolitano per le riforme costituzionali — al vaglio dei pm. Complessivamente sono una cinquantina i concorsi «il cui andamento ed esito finale — sostiene la Guardia di Finanza — nulla hanno avuto a che vedere col merito». Esiste, dicono gli inquirenti, «una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari che hanno consentito sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della giustizia. In sostanza i concorsi universitari sono stati celebrati, discussi e decisi molto prima del loro espletamento».
IL CASO BERNINI «Era il barone, era il capo di tutti». Così veniva definito dai colleghi il professor Giorgio Lombardi. Insieme con il collega Giuseppe Ferrari era l’uomo che aveva in mano il diritto pubblico comparato in Italia. E si era impegnato perché Anna Maria Bernini, ex ministro di Forza Italia, vincesse un concorso. Lombardi poi si ammala, tanto da spegnersi durante l’indagine: «Io se non avessi avuto questo accidente — si sfoga con un collega — ero il padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini! Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così». Le pressioni per la Bernini sono molte. Lo ammette lo stesso Ferrari. «Lo so, però ho bisogno che gli parli dieci minuti... perché io non ce la faccio più guarda, tra De Vergottini, Amato (ndr, Giuliano) e Morbidelli per la Bernini. Pizzetti te lo raccomando lui e la famiglia... non ce la faccio più».
«ARISTOCRAZIA ARISTOTELICA» Con Lombardi che si ammala il potere è nelle mani di Ferrari. È lui stesso in un’intercettazione a spiegare quello che la Finanza definisce il «potere ventennale dell’aristocrazia ferrariana». «Quello che cercavamo di praticare era un metodo che è stato concepito in un momento in cui Lombardi pigliava tutto. C’era una specie di aristocrazia nel senso aristotelico, cioè i migliori che si accordano nell’interesse della corporazione!». La Finanza fa un conto: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati sono «espressione di una maggioranza di chiara appartenenza alla corporazione di matrice ferrariana, a riprova dell’esistenza di un sistema basato essenzialmente sul dato dell’appartenenza a una corrente accademica».
IL PIZZINO TELEMATICO Tra gli atti intercettati c’è una mail del professor Ferrari dalla quale si evince un’intesa tra il docente bocconiano e il collega Luis Eduardo Rozo Acuna. «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico» e via un elenco di richieste. «Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi... A buon rendere. Grazie».
IL CASO PIZZETTI Tra gli indagati c’è anche l’ex garante della privacy, che secondo gli investigatori fa pressioni per far vincere un concorso al figlio come evidentemente gli aveva promesso Lombardi. «Lui — dice al telefono con Ferrari, in riferimento a un altro professore — dice che gli farebbe piacere che appunto il desiderio di Lombardi si realizzasse ». Ferrari: «Stai tranquillo». Pizzetti: «È un secolo che ci conosciamo, sappiamo anche comunque quando ci siamo presi degli impegni reciproci non li abbiamo mai fatti mancare». Sono decine le telefonate di Pizzetti, che viene definito dagli investigatori «astuto e «infaticabile». «Volevo dirti che ho visto Augusto (ndr, Barbera) — dice Pizzetti a Ferrari — e anche lui una mano su Gambino potrebbe darla». E poi: «Se ti serve possono parlare anche io a padre Paolo (padre Paolo Scarafoni, ex rettore dell’Univeristà europea di Roma, indagato, ndr)». Il concorso alla fine salterà.
la Repubblica 6.5.14
Romain Gary un’avventura lunga un secolo
Partigiano, diplomatico, star del jet set cent’anni fa nasceva il grande scrittore di cui esce una raccolta di inediti
Romain Gary (anzi Roman Kacew, ebreo lituano) avrebbe giovedì cent’anni, era nato a Vilnius l’8 maggio 1914 ed è ormai chiaro: è scrittore tra i più grandi del Novecento francese. Il mito della Francia sua madre se lo era portato “con i suoi fagotti” da Vilnius fino a Nizza, dove teneva una pensione. In nome di quel mito, nel 1940 Gary raggiunse rocambolescamente a Londra la Resistenza di de Gaulle, di cui fu una leggenda. Nel ‘44, colpito all’addome, svenne sulla cloche di un bombardiere della Royal Air Force; accanto a lui il primo pilota era accecato dalle scaglie di vetro. Gary rinvenne; lesse le altitudini al pilota; lo guidò fino alla pista. Grazie ai suoi “magnifici titoli di guerra”, la Francia lo fece diplomatico – anche se le sue tante donne lo definivano «un orso che si tiene sulle zampe posteriori». Fu subito un successo Educazione europea, il romanzo della guerra, che è anche il tema dei racconti tradotti ora da Riccardo Fedriga per Neri Pozza ( Una pagina di storia, pagg. 120, euro), che qui anticipiamo. L’ultimo, storia di una ragazza cieca nel male assoluto del dopoguerra tedesco, medita sulla menzogna pietosa; è stridente come un violino tzigano: sottile invece come un quartetto da camera il primo racconto, Il liuto, che costò caro a Gary. Nel 1951, un diplomatico francese fu sorpreso dalla polizia di New York in un bordello per soli uomini; dovette abbandonare la sede in 24 ore. Chauvel – è il suo nome – si riconobbe nel gay del Liuto, e Gary ne ebbe la carriera avversata. Nel 1962, sposò l’attrice Jean Seberg, che era diventata l’icona della Nouvelle Vague dopo À bout de souffle di Godard, e la sua celebrità ne guadagnò. Ma poi, oltre l’ecologia de Le radici del cielo , da cui fu tratto il film diretto da John Huston, e poi di Cane bianco, i critici cominciarono a trovare Gary troppo mondano, e “impolverata” la sua scrittura. Gary il camaleonte si creò un ennesimo nome, Émile Ajar, con cui firmò, “sbullonando” la sintassi, romanzi esilaranti come La vita davanti a sé, che portato al cinema da Moshé Mizrahi, vinse l’Oscar per il miglior film straniero nel 1978, e L’angoscia del re Salomone. Scriveva come un bambino mussulmano, col nome imprestato da un ambasciatore, Émile Najar, teorico dello Stato di Israele. L’ultimo sberleffo: poi il 2 dicembre 1980, finita l’età degli amori ( Biglietto scaduto era il titolo di un suo romanzo del 1975), si sparò in testa.
la Stampa 6.5.14
Gli atti della commissione parlamentare e le carte della loggia
P2, digitalizzati i documenti su Internet migliaia di pagine
di Francesco Grignetti
In tempi di crisi nera, di arretramento dello Stato, di emergenze, può sembrare un capriccio eccentrico occuparsi di documenti storici. Eppure il futuro si costruisce attraverso la memoria del passato. E da ieri è disponibile un nuovo formidabile accesso al nostro passato recente. Sono fruibili on-line gli atti della commissione parlamentare P2, quella che fu presieduta da Tina Anselmi.
Grazie a un imponente sforzo di digitalizzazione, decine di migliaia di pagine sono ora sul sito www.fontitaliarepubblicana. it, nell’ambito del progetto “Rete degli archivi per non dimenticare”.
Migliaia di pagine, dunque, con le relazioni di maggioranza e di minoranza, ma soprattutto con i documenti originali. Tutto il lavoro di scandaglio sulla loggia di Licio Gelli a disposizione. «Un passo importante volto a diffondere documenti di fondamentale importanza e a illuminare episodi tragici della storia repubblicana », spiega Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni, che porta il nome di uno dei parlamentari che più di tutti si è speso per capire i fatti che hanno insanguinato il nostro Paese.
Ed è rivoluzionaria, questa disponibilità di un archivio grazie a un clic. «La prima cosa che hanno fatto i piduisti, Gelli in testa, è stata lavorare a tappeto a livello comunicativo per sminuire la rilevanza del fenomeno P2», spiega la giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi. Per documentare al meglio il fenomeno, ora, il sito conserva i documenti in originale. «La fotografia della fonte principale per evitare le banalizzazioni sulla loggia P2».
Al lancio del sito, da Firenze, c’era ieri il ministro Dario Franceschini, Beni culturali: «È difficile comprendere il valore del settore archivi - dice - perché non produce reddito e quindi viene visto come non prioritario, ma è un errore che va corretto. Oltre ad assicurare la trasparenza, assicura la conservazione della memoria del nostro Paese».