l’Unità 12.5.14
Affonda un altro barcone Oltre quaranta morti
L’incidente vicino alle coste libiche, Tripoli avvisa l’Europa: «O ci sostiene o aiuteremo i viaggi illegali»
Altri 800 migranti sbarcano in Puglia e Sicilia
di Andrea Bonzi
Almeno 36 migranti sono morti e altri 42 dispersi nel naufragio di una imbarcazione che cercava di raggiungere l’Europa. L’ennesimo viaggio della disperazione finito in tragedia: è successo al largo della costa della Libia, di fronte ad al-Qarbouli, a circa 50 chilometri a est di Tripoli. Lo fanno sapere fonti ufficiali libiche, rilanciate su Twitter da al-Arabiya: l’incidente sarebbe accaduto martedì, ma è stato reso noto solo ieri. Sul barcone erano stipate circa 130 persone, probabilmente troppe visto che il fondo è collassato, il mezzo si è ribaltato e le acque hanno inghiottito i passeggeri. I primi soccorsi - ha spiegato il colonnello della marina libica Ayub Kassem alle agenzie - sono riusciti a salvare 52 persone, in gran parte di origine africana, ma altri 36 corpi, tra cui una donna incinta, sono già stati recuperati (di cui 24 portati a riva ieri). A causa dei suoi confini con l'Africa subsahariana e della sua prossimità rispetto a Malta e all'Italia, la Libia è diventata punto di transito per i migranti che vogliano raggiungere l'Europa. Il caos seguito alla destituzione di Gheddafi ha trasformato quel Paese nel primo punto di partenza per le decine di migliaia di migranti che, ogni anno, tentano di raggiungere le coste del continente su barconi e mezzi di fortuna. Con polizia ed esercito allo sbando, il traffico di esseri umani è diventato una redditizia industria, in cui secondo le autorità di Tripoli sono coinvolte anche le milizie.
Tanto che il ministro dell'Interno libico, Saleh Maziq, ha lanciato un vero e proprio ultimatum, quasi una minaccia, dicendo che se l'Ue non farà di più per sostenere la Libia nella gestione dei migranti che usano il Paese come punto di transito verso l'Europa, Tripoli li aiuterà nel loro viaggio illegale. L'assistenza dell'Unione europea, afferma Maziq, permetterebbe al Paese di fermare i migranti che arrivano illegalmente dalle nazioni subsahariane, diretti in Europa. Il ministro libico ha anche puntato il dito contro i migranti illegali, ritenendoli responsabili per l'aumento del crimine, la diffusione di droga e malattie nel suo Paese, e ha indirizzato una richiesta di sostegno ai Paesi meridionali. «La Libia ha già pagato un prezzo - ha tuonato Maziq - ora è il turno dell’Europa a pagare. Il mondo deve prendere una posizione seria con delle azioni, non con le sole parole».
Intanto, anche ieri sono proseguiti gli sbarchi sulle coste italiane: dall’inizio dell’anno sono più di 22mila i migranti arrivati nel nostro Paese via mare, dieci volte tanti dello stesso periodo del 2013. In mattinata a Taranto sono sbarcati circa 380 migranti siriani dalla fregata «Aliseo» della Marina Militare. I migranti, tra i quali ci sono 34 donne e 7 minori, sono stati tratti in salvo dalla Marina nei giorni scorsi nell'ambito dell'operazione «Mare Nostrum ». L'area del porto è presidiata da Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza a cui si affiancano gli operatori della Croce Rossa e della Protezione civile. Il Comune, con in prima linea il sindaco Ippazio Stefàno, sta gestendo l'assistenza: gli immigrati, trasportati nei pullman, saranno divisi tra l'ex palestra Ricciardi, l'ex scuola media Martellotta e un ex asilo nido comunale in periferia. Ma altre strutture sono state allertate, in caso di bisogno.
Dalla Puglia alla Sicilia: 423 migranti, tra cui un disabile, 65 minori e 45 donne, sono giunti nel pomeriggio al porto di Trapani, a bordo del pattugliatore «Sirio» della Marina Militare che li ha soccorsi insieme alla nave «Grecale », in tre distinte operazioni a circa 120 miglia a sud di Lampedusa. Gli immigrati, provenienti da Siria, Somalia, Eritrea e Nigeria, sono in buono stato di salute. Tra loro, diversi neonati e bambini al di sotto dei 3 anni, nonchè 6 donne incinte e un uomocon disabilità che ha affrontato la traversata in barcone sulla sua sedia a rotelle, assistito dal fratello.
Le operazioni di sbarco sono iniziate intorno alle 15 al molo Ronciglio e sono coordinate dalla Prefettura con l'ausilio di capitaneria di porto, polizia e carabinieri. I rifugiati dovrebbero essere ospitati nelle strutture di accoglienza della Provincia. Lo scorso 6 maggio, sempre a Trapani, erano approdati 887 migranti di cui circa la metà trasferita con voli charter in altre regioni italiane, dopo l'allarme lanciato dal prefetto Leopoldo Falco sulla saturazione dei centri di accoglienza del trapanese.
l’Unità 12.5.14
Italia in crisi crollano anche le nascite: meno 7,3%
di Ri.Va.
Negli anni della crisi «si riducono anche le mamme, visto che sono crollate del 7,3 per cento le nascite in Italia con appena 534.186 bambini nati, dei quali esattamente il 20 per cento (1/5) con almeno uno dei due genitori stranieri». È quanto emerge da una analisi della Coldiretti in occasione della Festa della Mamma sulla base dell'ultimo report «Natalità e fecondità della popolazione residente » dell'Istat «dalla quale si evidenzia che nel 2012 sono nati 42.474 bambini in meno rispetto al 2008, anno in cui si registra una brusca inversione di tendenza».
«Dal 2000 in avanti le nascite in Italia sono aumentate costantemente anno dopo anno ma - sottolinea la Coldiretti - a partire dal 2008, con l'inizio della crisi, la situazione è cambiata bruscamente e si è verificata una progressiva riduzione».
«Una tendenza - precisa la Coldiretti - è solo in parte ponderata dall'aumento delle nascite di bambini figli di almeno un genitore straniero che, nello stesso periodo, sono aumentate e hanno raggiunto 107.339 unità».
«A cambiare è - continua la Coldiretti - anche l'età media del parto delle mamme che, durante il periodo considerato, si è innalzata fino a raggiungere i 31,4 anni». «Ad influenzare la possibilità di diventare mamma è stato sicuramente - affermala Coldiretti - anche il degenerarsi della situazione economica ed occupazionale che sta influendo anche sulla struttura sociale della popolazione ».
L'elaborazione dei dati mette in evidenza come la crisi abbia attivato la rete di protezione familiare. «Non è un caso che quasi un italiano su tre (31 per cento) abiti con la propria mamma e che, inoltre, ben il 42,3 per cento abbia comunque trovato casa entro un massimo di trenta minuti di distanza dalla abitazione materna », «Questo bisogno di vicinanza - sottolinea la Coldiretti - riguarda non solo i più giovani tra i 18 e i 29 anni (coabita con la madre il 60,7 per cento e il 26,4 abita a meno di 30 minuti), ma anche le persone più grandi con età compresa tra i 30 e i 45 anni (il 25,3 per cento coabita, il 42,5 per cento abita nei pressi), e addirittura gli adulti con età compresa tra i 45 e i 64 anni (l'11,8 per cento coabita, il 58,5 per cento abita in prossimità)».
«Alle mamme va dunque attribuito un ruolo determinante nella tenuta sociale del Paese, a conferma della centralità del ruolo della famiglia sul quale si devono concentrare le Istituzioni per lo sviluppo sostenibile del Paese. La struttura della famiglia italiana in generale, e di quella agricola in particolare, considerata in passato superata, si è invece dimostrata, nei fatti, fondamentale - conclude la Coldiretti - per non far sprofondare nelle difficoltà della crisi moltissimi cittadini».
Corriere 12.5.14
Le intercettazioni
L’ex Dc all’uomo Coop per l’appalto: «Chiami il suo pezzo di governo»
Il patto dell’ex dc Frigerio con il capo di una coop rossa
di Luigi Ferrarella
qui
Corriere 12.5.14
Stefano Boeri, ex assessore alla Cultura
«Io mandato via perché ostacolavo gli affari»
«Lasciato solo anche dal mio partito»
di Andrea Senesi
MILANO — Le lobby economiche («compresa la Lega delle Cooperative») e la rete di potere di Formigoni e dei suoi uomini di Infrastrutture Lombarde. «Per questi mondi io costituivo un ostacolo e per questo sono stato fatto fuori dalla partita». Stefano Boeri — architetto di fama internazionale e poi candidato sconfitto alle primarie milanesi del centrosinistra — è stato assessore alla Cultura e a Expo nella giunta Pisapia. Il dissidio tra i due, Boeri e Pisapia, ha riempito per mesi le cronache dei giornali. Alla fine l’ha spuntata il sindaco. A Boeri è stata prima sfilata la delega all’esposizione e poi, in un secondo momento, è stato «dimissionato» dalla giunta.
Boeri, che idea s’è fatto degli arresti di giovedì? Dietro Expo c’è davvero una nuova Tangentopoli ?
«Rispetto a Mani Pulite ci sono delle differenze evidenti. Un tempo i soldi arrivando dalle grandi imprese andavano ai partiti. Oggi circolano solo risorse pubbliche che non vanno direttamente ai partiti ma ad alcuni centri di potere in collegamento coi partiti. Mi sembra, semmai, che questa vicenda assomigli di più alle inchieste che hanno interessato vicende come il G8. Però mi faccia dire che non si tratta solo di malcostume privato. Su Expo si sono create le condizioni ideali perché questo meccanismo di corruzione si mettesse in moto».
Quali sono le condizioni che hanno reso possibile questo disastro?
«L’elemento degenerativo è nato subito, con la scelta di organizzare l’evento su un’area privata. Nel nostro caso i terreni di Rho-Pero. Non era mai successo prima. E le alternative c’erano, eccome se c’erano. Penso per esempio all’Ortomercato o ad altri terreni pubblici della città. Poi la decisione di attribuire a quell’area un enorme carico volumetrico, pari a diciotto grattacieli Pirelli, che nessuno mai realizzerà e soprattutto acquisterà. E infine la scelta di comprare dai privati. Il prezzo versato dal pubblico per i terreni è stato di 16 volte superiore al valore di quelle aree agricole. Un clamoroso regalo. Il rischio adesso è che quel sito resti senza futuro e sulle spalle del pubblico».
Il suo allontanamento dalla giunta è in relazione a questi dissensi?
«Ricordo che nell’autunno 2011 è stato prima messo da parte Renzo Gorini, un manager stimato che si occupava nella società Expo di infrastrutture e appalti. Al suo posto è arrivato Angelo Paris (uno degli arrestati, ndr ), che invece si occupava di acquisti. Dopo poche settimane sono “saltato” io».
Il Pd non l’ha difesa ?
«In campagna elettorale parlavamo di un evento “sobrio”, su terreni che non andavano acquistati, e che non potevamo consegnare tutto nella mani di Formigoni. Ma al momento di sostenere queste posizioni i dirigenti locali e nazionali del Pd mi hanno lasciato solo. Perché? Sospetto che il Pd di allora conservasse un rapporto anomalo con certi operatori interessati all’evento, come quelli con alcuni settori del mondo delle cooperative. Per fortuna oggi il vento è totalmente cambiato».
È stato il sindaco Pisapia a ritirarle le deleghe. Responsabile anche lui?
«Non credo affatto che Pisapia sia ostaggio di questi interessi. Il suo però è stato un grande errore politico. Lui pensava a una politica di “riduzione del danno”, non capendo che invece Expo aveva bisogno di un governo forte, di un sindaco che se ne occupasse in prima persona. E infatti alla fine questo ruolo se lo sono presi Formigoni e Maroni. E Infrastrutture Lombarde. La prova di quello che dico è che in giunta nessuno mi ha sostituito. Non esiste un assessore all’Expo».
L’Expo disegnato dal Masterplan è stato snaturato?
«In massima parte sì. Di quel progetto rimane molto poco, purtroppo».
Ma Milano ce la farà?
«Rimango ottimista. A patto che si ridimensioni il progetto e che si pensi al dopo 2015. Expo non può lasciare dietro di sé una distesa di rovine. L’idea valida resta quella di un grande parco agroalimentare. Ricerca, cultura, turismo e intrattenimento. Milano è una città di potenzialità enormi. E Pisapia e Maroni hanno le capacità politiche per vincere la sfida».
Repubblica 12.5.14
L’ex magistrato Gherardo Colombo tra i pm protagonisti di Tangentopoli
“Come ai tempi di Mani Pulite colpa delle leggi ad personam”
di Liana Milella
ROMA. Tutto «come vent’anni fa». I magistrati hanno raccolto «una serie quasi infinita di prove», ma le leggi ad personam e la prescrizione hanno falcidiato i processi. L’ex pm di Milano Gherardo Colombo è convinto che la svolta «non arriverà in tempi brevi». Un primo passo è sicuramente quello di «allontanare dal suo ufficio chi sbaglia la prima volta». Quanto alla politica, anche della sinistra, il giudizio è netto: «Non vedo da tempo interventi utili a prevenire la corruzione ».
Tangentopoli Due, Dell’Utri condannato, Scajola arrestato. Che succede in Italia?
«Tenuta ferma la presunzione di innocenza fino al giudizio definitivo, non c’è bisogno di queste notizie per avere la forte impressione che non sia cambiato molto dai tempi di Mani pulite. Forse sono diverse le modalità e, al momento, pare che non si riscontri quel coinvolgimento dei partiti politici che si era verificato allora. Ma l’impressione è che esista comunque una corruzione particolarmente diffusa nel nostro Paese».
Il sottosegretario Del Rio dice che bisogna cambiare l’etica pubblica. Come se fosse facile, visto che in Italia pare che il Dna dell’onestà sia carente.
Siamo condannati a veder riprodotti all’infinito questi comportamenti?
«È una questione che non riguarda solo l’etica pubblica, ma anche quella privata, perché quando si verifica un fatto di corruzione, oltre a una parte pubblica, è sempre coinvolto un soggetto privato, impresa o persona fisica che sia. A livello di vertice, la corruzione può essere un fenomeno costante solo se esiste una pratica diffusa in qualsiasi altro livello della società. Se non si promuovono cambiamenti che riguardano il rispetto delle regole per tutti, è difficile, se non impossibile, marginalizzare la corruzione anche ai livelli più alti».
Nella famosa intervista che dette a D’Avanzo 20 anni fa lei indicava nella politica e nel patto della Bicamerale una responsabilità determinante. Oggi la colpa su chi ricade?
«Non credo sia importante stabilire di chi sia la colpa, quanto cercare le cause. E allora mi chiedo: quali modelli di comportamento sono stati promossi in questi anni? Quali punti di riferimento sono stati indicati? Considero un equivoco pensare che un problema così generalizzato si possa risolvere a livello giudiziario, attraverso le inchieste, i processi e le sentenze. Proprio l’esito delle indagini degli anni No- vanta costituisce un riscontro inconfutabile. La raccolta di una serie quasi infinita di prove, attraverso le quali venivano individuate le responsabilità di un gran numero di persone, non ha quasi avuto seguito a livello giudiziario ».
Non è troppo pessimista?
«I processi spesso si sono conclusi per prescrizione o per assoluzioni dipendenti da incisive modifiche della legislazione processuale e sostanziale, che hanno ridotto l’efficacia probatoria di alcune emergenze, hanno accorciato i termini di prescrizione e hanno ridimensionato reati come il falso in bilancio. Tutto ciò non ha impedito che la corruzione continuasse a mantenere livelli molto elevati. Da tempo sono convinto che incidere sulla corruzione sia necessario intervenire soprattutto a livello educativo e preventivo».
Non le viene il dubbio che così, tra 50 anni, ci troveremo con gli stessi fatti criminali?
«Se consideriamo che il fenomeno è così esteso, di certo la soluzione non potrà intervenire in tempi particolarmente brevi. Essa potrà essere tanto più rapida, quanto più l’educazione e la prevenzione saranno agite in modo tempestivo, organico e profondo».
Com’è possibile che nel mercato degli appalti trattino e facciano mediazioni personaggi come Frigerio e Greganti?
«In tanti casi persone ritenute responsabili di corruzione o che avevano patteggiato per questi reati sono state lasciate a svolgere le stesse funzioni. La questione coinvolge la responsabilità di chi ha il compito di applicare la legge e di fare scelte di gestione, e cioè scelte politiche».
Governo Prodi nel 2006, governo Renzi nel 2014. Le leggi di Berlusconi sono sempre in vigore. Non c’è una responsabilità della sinistra nell’ostacolare la riconquista della legalità?
«Da tempo, non ho visto interventi legislativi che cercassero di incrementare effettivamente, al di là delle parole, una maggiore capacità di intervento sia a livello educativo che a livello preventivo».
Cantone, un ex pm, è il nuovo commissario anti-corruzione e Renzi l’ha appena coinvolto da Renzi per Expo. I suoi consigli?
«Non credo di potergliene dare su come gestire il suo ufficio, ma è necessario che gli vengano dati gli strumenti e i mezzi per poter svolgere un’efficace attività di controllo in posizione assolutamente indipendente».
Corriere 12.5.14
Civati e la campagna Pd: c’è solo il centravanti?
Guerini: tutti mobilitati
di Monica Guerzoni
ROMA — «È la sindrome del centravanti...». La campagna del Pd si può interpretare anche così, con la metafora calcistica usata da Pippo Civati per sollevare il tema dell’identità del partito. Che fine hanno fatto i democratici? E perché la battaglia politica per conquistare Strasburgo e quattromila comuni italiani si declina quasi esclusivamente al singolare? La spiegazione del vicesegretario Lorenzo Guerini è semplice: «Abbiamo un leader che tutta l’Europa ci invidia e che facciamo, non lo spendiamo? Matteo Renzi è un brand che funziona e quindi lo sfruttiamo». Il segretario-premier ha rinunciato (per questa volta) a mettere il suo nome nel simbolo. In compenso sta mettendo la sua faccia ovunque, il che preoccupa l’opposizione interna. «La reductio ad unum c’è stata — è il punto di vista di Civati —. Puntare tutto sul leader è una scelta politica. Ma se vogliamo che il Pd sia un partito, bisogna far giocare anche chi sta in difesa o a centrocampo». Chi le impedisce di giocare la partita, onorevole? «Io la campagna la sto facendo, da perdente delle primarie». Ma Civati è preoccupato e lo dice citando Goffredo Bettini: «Nel 2008 D’Alema gli faceva i complimenti per la campagna di Veltroni e poi, quando Berlusconi vinse le politiche, D’Alema disse che Walter aveva perso perché non c’era il partito...». Il tema di cui si parla, soprattutto a sinistra, è questo. È la sensazione che il Pd si sia «appiattito» sul governo e sul leader, in un processo di «renzizzazione» che gli farà vincere le elezioni, ma che rischia di impoverire il partito. «No — smentisce Guerini —. Tutto il Pd è mobilitato con i suoi gruppi dirigenti, i circoli, la base... Non c’è solo la tv, il radicamento sul territorio resta il nostro punto di forza». Eppure tra i «dem» serpeggia un filo di timore per l’avanzata grillina, sull’onda dello slogan plurale «vinciamo noi». «Se il M5S sfonda il 30%, il governo Renzi crolla e ad accoltellarlo sarebbero i vari Civati e Cuperlo», ha detto Alessandro Di Battista a Lucia Annunziata. Parole che fanno sorridere Massimo D’Alema, il quale accredita una «impetuosa avanzata del Pd» e trova «onestamente sconcertante» l’idea di un sorpasso di Grillo. «I nostri sondaggi sono buoni — tranquillizza Guerini —. Siamo largamente sopra». Resta l’impressione che la campagna del Pd non sia granché visibile, ma anche qui il vice di Renzi ha una spiegazione: «La facciamo con quello che c’è... Abbiamo stanziato 5 milioni, contro i 9 delle politiche. In compenso c’è l’orgoglio dei militanti per il governo, ci sono i quattro milioni di volantini con lo slogan “L’Europa cambia verso” e poi, sabato e domenica, i nostri parlamentari saranno ai gazebo in tutte le piazze d’Italia». E le vecchie glorie? Veltroni e D’Alema? «D’Alema ha fatto diverse cose... In tv vanno molto le capolista. E tutti gli alti dirigenti, da Delrio a Bersani a Speranza, sono in giro sui territori». Ottimismo e cautela. Al Nazareno sono convinti di vincere, ma non sottovalutano il fattore affluenza. «Se è bassa — prevede Civati — Renzi può fare un risultato straordinario». E se è alta? «Entriamo nel campo dell’imprevedibile. Scommettiamo che si vota nel 2015?».
Corriere 12.5.14
La difesa del senatore Mineo: ho sempre finanziato il partito
Caro Direttore,
poiché Aldo Grasso ha scritto di me, addirittura in prima pagina, vorrei dare al tuo giornale e ai lettori qualche informazione. Ogni mese verso, come richiesto, 1.500 euro nelle casse del Pd. Il contenzioso è sorto solo con il Comitato siciliano e non riguardava l’entità del contributo aggiuntivo, ma il modo, osceno, con cui veniva chiesto, cioè come contropartita dell’elezione. Da parte mia, ho finanziato e continuerò a finanziare l’attività politica in Sicilia, almeno quanto il più generoso dei miei colleghi. Rilevo infine come una lettera privata, inviata molti mesi fa, sia stata resa pubblica, sollevando un polverone, proprio il giorno dopo il mio voto in dissenso sul testo base per la riforma del Senato. Una coincidenza, naturalmente.
Corradino Mineo Senatore del Pd
Repubblica 12,5,14
I conventi vuoti occupati dai senzatetto “L’ha detto il Papa”
Palermo, presi già cinque istituti Ma il cardinale Romeo non ha gradito
di Claudia Brunetto e Sara Scarafia
PALERMO. È nato la notte di Pasqua e per Margherita, la giovane disoccupata che lo ha portato in grembo, non può essere un caso. Lo ha chiamato Francesco, proprio come il Papa. Perché è grazie al pontefice che il neonato ha un tetto sotto il quale ripararsi, almeno così pensa la sua mamma. Il piccolo è nato in un ex convento di Palermo, una struttura abbandonata che un gruppo di senza casa ha occupato i primi di marzo. «È stato il Papa a indicarci la strada».
In una città dove il problema casa è una vera emergenza - le famiglie che aspettano un alloggio popolare sono oltre 10mila, le case assegnate negli ultimi nove anni appena 300 - gruppi di cittadini senzatetto hanno preso d’assalto gli immobili che la Curia non usa e lo hanno fatto nel nome del Papa che qualche mese fa aveva lanciato un appello alla comunità religiosa chiedendo di aprire le porte dei conventi in disuso ai bisognosi.
A Palermo quelle porte sbarrate i cittadini le hanno aperte da sé. Scuole cattoliche, istituti religiosi ed ex monasteri, opere pie: negli ultimi mesi ben cinque immobili di proprietà della Curia, del Fondo edifici di culto e delle suore sono stati occupati da quasi duecento senzatetto. Ogni volta che hanno varcato l’ingresso, i gruppi hanno preso carta e penna e hanno scritto al pontefice per informarlo: «Vogliamo che sappia che abbiamo occupato e che siamo certi che è con noi».
La mappa delle strutture occupate abbraccia l’intera città, dal centro storico alle periferie. L’ultimo assalto è stato ai primi di aprile quando un gruppo di 50 famiglie ha preso possesso dei mini-appartamenti del “Villaggio dell’ospitalità Maria Santissima Immacolata”, nel quartiere di Borgo Nuovo, che appartiene all’opera pia Cardinale Ruffini. Le sistemazioni disponibili sono state tutte occupate in meno di quarantotto ore e ben presto all’ingresso è apparso un cartello con su scritto “Case esaurite”.
Prima era stato occupato l’ex istituto delle suore del Sacro Cuore di piazza Principe di Camporeale, uno spazio abbandonato nonostante custodisse un tesoro: l’unico esemplare italiano di organo Cavaillè- Coll, lo Stradivari degli organi, adesso trasferito in una parrocchia di Messina. Qui di famiglie in principio ce n’erano otto: oggi sono più di cinquanta con oltre trenta bambini, l’ultimo nato è il piccolo Francesco. Occupato da 25 famiglie anche un altro ex istituto religioso, quello delle Figlie di San Giuseppe di via Oberdan: in questo gioiello liberty - all’interno ci sono arredi firmati Ducrot - i nuclei palermitani vivono insieme con famiglie originarie dell’Eritrea e dell’Etiopia. Nell’ex convento di Santa Maria della Pietà, nella centralissima via Alloro, dal Natale scorso abitano in quaranta.
Le famiglie, che avevano già tentato altre occupazioni di immobili privati, hanno deciso di darsi da fare: organizzano cene per autofinanziare la manutenzione della struttura. Un altro gruppo, infine, si è sistemato in un convento abbandonato non lontano dalla Cattedrale. La Curia palermitana, guidata da Paolo Romeo, ha accolto freddamente l’assalto delle famiglie.
«Ma finché c’è questo Papa - dicono i senzatetto - abbiamo un angelo che ci protegge». «Monsignor Romeo ascolti le parole del pontefice», chiedono i comitati e le associazioni che si battono per il diritto alla casa e che venerdì organizzeranno un’assemblea pubblica sull’emergenza abitativa in piazza Pretoria, davanti alla sede del Comune.
Repubblica 12.5.14
C’eravamo poco amati un matrimonio su 3 fa crac e ora il divorzio va di fretta
Quarant’anni fa, il 12 e 13 maggio 1974, il referendum sulla legge
Così la possibilità di separarsi ha cambiato la vita degli italiani
di Vera Schiavazzi
È SINGOLARE , e perfino un po’ beffardo, che l’Italia celebri i 40 anni dal referendum sul divorzio, che nel 1974 confermò a pieni voti la legge Fortuna-Baslini, quella che nel 1970 lo aveva istituito, proprio mentre in Parlamento sta per giungere al voto una proposta di legge che abbrevia ulteriormente i cinque anni previsti all’inizio, poi passati a tre e che ora si vorrebbe portare a uno soltanto. Gli anni che si collocano tra quelle tre parole, “mi voglio separare”, e una sentenza scritta nero su bianco. Perché nel frattempo, come documenta l’Istat col suo ultimo rapporto su separazione e divorzi, il matrimonio non è più un tabù, tantomeno un legame indissolubile per gli italiani: una persona sposata su tre si separa, una su cinque divorzia, e ha fretta di farlo, come testimonia il dibattito politico di oggi.
«Sì come il giorno delle nozze» era lo slogan della Democrazia Cristiana in quel lontano 1974. Uno slogan, scelto personalmente dal leader Amintore Fanfani, che voleva comunicare soprattutto alle donne: attenzione - così dicevano quarant’anni fa gli anti- divorzisti - se vostro marito vuole lasciarvi potrà farlo in cinque anni anche senza il vostro consenso. Ma furono soprattutto le donne a votare “no” all’abrogazione, proprio come sette anni più tardi sarebbe avvenuto per l’aborto: erano loro a sapere prima di tutti ciò che voleva dire l’obbligo di restare sposate, o di restare incinte. Votarono “no” all’abrogazione oltre 19 milioni di italiani, il 59,3 per cento, “sì” oltre 13 milioni, il 40 per cento, e quel voto cambiò per sempre gli equilibri politici italiani.
A distanza di quarant’anni, il Matrimonio con la M maiuscola sembra non esistere più. Lo dice l’Istat nel suo rapporto del 2012 sulla “instabilità sentimentale”: fotografa italiani che si separano più che mai - per le statistiche - intorno ai 44 anni, dopo un matrimonio “usa e getta” che pure arriva tardivamente, perché in tre casi su cinque segue una convivenza di prova già avviata. Lo dicono gli avvocati matrimonialisti e il Forum delle Famiglie, entrambi ascoltati alla Camera prima di far procedere il divorzio breve, dove hanno espresso speranze e dubbi. E lo dicono le cifre: tra il 1995 e il 2009 i matrimoni in Italia sono scesi da 290.000 a 230.000 ogni anno, mentre nello stesso arco di tempo i divorzi raddoppiavano, da 27.000 a 54.000.
«I matrimoni falliscono - dice Elena Sormano, psicologa, trent’anni di esperienze come perito nei tribunali italiani - perché le persone, sia uomini sia donne, hanno aspettative illimitate in una società consumista che ci insegna a volere sempre di più». Ma la separazione e il divorzio segnano comunque un fallimento, che per qualcuno può essere un dramma. «Non solo per le condizioni economiche che ne derivano - spiega Giulia Facchini, avvocato matrimonialista alla guida dell’associazione interprofessionale Sintonie - ma anche perché per molte donne essere lasciate dal marito è tuttora vissuto come un insuperabile trauma personale».
Sì, allora, al divorzio breve? «Anche a quello immediato, se davvero i due coniugi sono consenzienti. Ma se invece uno dei due sovrasta l’altro, sia come volontà sia come disponibilità economica, allora è meglio essere rappresentati da due avvocati». Un rilievo necessario, visto che tra gli emendamenti al divorzio breve c’è anche quello di chi vorrebbe, come avviene in Francia, semplificare la cancellazione del matrimonio ad atto privato, sottoscritto dai due aspiranti ex marito e moglie semplicemente davanti a un avvocato- notaio. Un po’ come a dire: «Sposarsi o lasciarsi non è un affare dello Stato», cosa che ha suggerito anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: «Se le parti sono d’accordo, perché non giungere a una mediazione prima di arrivare in tribunale?».
Il matrimonio “per sempre” dura ormai nella media italiana “soltanto” quindici anni, mentre la speranza di vita media si è allungata a 82,9: una parentesi, quasi, alla quale oltre l’85 per cento degli interessati arriva di comune accordo, senza ricorrere a soluzioni giudiziali. Sul tema si sfornano manuali, come quello di Tiziano Solignani, avvocato e blogger appassionato agli aspetti umani dell’applicazione del codice. Secondo lui, è meglio parlarne prima: nel suo ultimo libro, “Guida alla separazione e al divorzio” (Mondadori), insegna come fare i conti con se stessi e col proprio legale, distinguendo tra vari sistemi, dalle tariffe forensi ai forfait fino ai più nuovi “quota lite”. Già, perché il divorzio costa (da un minimo di 1.000 euro in su) e per questo molti separati preferiscono lasciar perdere: serve solo a risposarsi, e fa uscire per sempre dall’asse ereditario.
La Stampa 12.5.14
Divorzio, l’eccezione italiana
di Carlo Rimini
qui
Pannella: «La religiosità vera non ha niente a che vedere con i confessionalismi»
La Stampa 12.5.14
Pannella: “Con noi i cattolici veri”
I ricordi del leader radicale: fu una battaglia politica, non religiosa
intervista di Giacomo Galeazzi
«Sembra ieri: eravamo quattro gatti, ci venne dietro il Paese - sorride Marco Pannella -. Eppure avevamo nemici insospettabili, come oggi».
Chi sperava in una vostra sconfitta?
«Per il Pci il referendum sul divorzio era una iattura, un po’ come lo è oggi per Renzi quello sulla droga. All’epoca ai comunisti come Longo stava sullo stomaco quella prova di democrazia diretta come oggi il segretario Pd non ha firmato per abrogare la Fini-Giovanardi. Nel ’74 quel voto non lo voleva nessuno: siamo stati noi radicali a imporre la battaglia sul divorzio. Con il mondo cattolico avevamo rapporti stretti già dalle rappresentanze universitarie».
E con il Vaticano?
«Abbiamo avuto in Roncalli un interlocutore attento, come poi, fuori da ogni protocollo, in Wojtyla e oggi in Francesco. Due settimane fa sua telefonata mi ha riacceso la speranza di non essere solo a combattere contro la disumana condizione nelle carceri. Ora parliamo attraverso la sua voce».
Come nacque la vittoria?
«Tutto comincia nel ’64 quando costituiamo la Lega per il divorzio. Il socialista Loris Fortuna fu tra i pochi ad aiutarci, con Pertini ed esponenti Pci come Terracini e Vidali. Almirante, che poi però fece un po’ marcia indietro. Sul fronte opposto tutti gli altri: dal laico Ugo La Malfa che per limitare le conseguenze “dirompenti e destabilizzanti” del divorzio lo voleva confinare ai matrimoni civili, a Fanfani che era sicuro di riportare la Dc ai fasti del ’48».
Quali somiglianze con oggi?
«Come allora la religiosità vera non ha niente a che vedere con i confessionalismi. La campagna antidivorzista fu politica, non religiosa. Si opponevano a noi gli eredi di coloro che fecero coincidere la missione della Chiesa con la difesa del potere temporale dello Stato pontificio e che scomunicarono il Risorgimento, condotto in gran parte da cattolici. Insomma avevamo contro i seguaci del “Sillabo” sconfitti dal Vaticano II».
Fu un derby tra cattolici?
«Anche. Dopo essere stati messi fuori gioco dalla primavera conciliare di Giovanni XXIII, le frange più clericali cercarono nella difesa del loro potere sullo Stato l’ultima trincea contro l’evoluzione della Chiesa secondo la coscienza dell’immensa maggioranza dei fedeli. Volevano far coincidere la sacralità di un sacramento, che deve vincolare la coscienza dei credenti, con l’uso dei carabinieri per imporre fedeltà confessionali. Come se fossimo regolati dal diritto canonico e non da un diritto laico e statuale.
La famiglia era già cambiata?
«Quarant’anni fa in Italia c’erano almeno due milioni di famiglie di fatto nelle quali i coniugi e i loro figli vivevano nel terrore di ricatti e denunce. Anche queste erano famiglie vere, da salvare. La nostra vittoria al referendum ha cambiato la storia dei diritti civili ma gli italiani sembrano essersene dimenticati. E il premier Renzi, da epigono del Pci, ignora la nostra battaglia contro la vergogna carceraria».
Per questo niente Europee?
«Chiediamo formalmente che lo Stato italiano sia commissariato “ad acta”. Dopo 60 anni di partitocrazia, non si può dire come se nulla fosse: “Andiamo a votare”. Serve un momento di lucidità e difesa dello Stato di diritto e dei diritti umani. Resta valida la lezione del 1974, quando fino all’ultimo in Parlamento i comunisti, d’accordo con la Dc, cercarono di aggirare il referendum. Il nostro vero avversario era il compromesso storico strisciante».
La Stampa 12.5.14
Politica estera assente
Il paradosso delle elezioni europee
di Roberto Toscano
Non è certo una novità che al momento delle consultazioni elettorali la politica estera spesso finisca per risultare il «socio minore» all’interno del dibattito politico. Le priorità più pressanti, per gli elettori, si riferiscono al contesto socio-economico interno, alle condizioni di vita concrete ed immediate. I politici lo sanno benissimo, così che – anche quando possiedono la sensibilità e le conoscenze necessarie ad affrontare temi internazionali – evitano di mettere questi temi al centro delle rispettive campagne. L’elettore medio, si sa, è tendenzialmente isolazionista, anche in Paesi che, come gli Stati Uniti, sono fortemente impegnati a livello mondiale con uomini e mezzi finanziari.
Detto questo, risulta veramente clamoroso vedere come nella campagna elettorale per le imminenti elezioni per il Parlamento Europeo la politica internazionale sia la grande assente.
Si discute sull’euro, su austerità contro crescita, sul futuro del welfare, sul problema dell’occupazione soprattutto giovanile, sullo sviluppo ulteriore delle istituzioni europee, e persino sull’identità cristiana o plurale dell’Europa – ma è quasi impossibile trovare riferimenti all’Unione Europea come soggetto di politica estera, alle sfide alla sicurezza e alle strategie, e ai mezzi, per farvi fronte.
L’unica eccezione si riferisce a sporadici e poco approfonditi cenni alla «crisi del giorno».
Ovvero all’instabilità dell’Ucraina e al revisionismo storico della Russia di Putin. Anche in questo caso però mancano non solo analisi approfondite, ma anche prese di posizione e proposte alternative dei candidati e dei raggruppamenti politici su come far fronte a un cambiamento non superficiale del quadro geopolitico del nostro continente.
È come se si fosse dimenticato che esiste una cosa che si chiama «Politica estera e di sicurezza comune –Pesc», e nel suo ambito anche una «Politica europea di sicurezza e difesa –Pesd». Nessuno ne parla, nessuno fra i candidati ne affronta contenuti, limiti, prospettive. Nessuno propone linee di sviluppo e priorità alternative. E nessuno menziona lo strumento che l’Unione si è data ormai da quattro anni per perseguire questo insieme di obiettivi di politica estera con un proprio embrionale servizio diplomatico, il «Servizio europeo per l’azione esterna –Seae».
Ma quale credibilità può avere l’Europa-soggetto internazionale se questo insieme di sigle che definiscono istituzioni e meccanismi rimane avulso da un discorso politico persino nel momento in cui i cittadini europei sono chiamati a eleggere i loro rappresentanti nel Parlamento Europeo, e indirettamente anche la Commissione?
L’Unione Europea ha dal 1999 un Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, e nel 2003 ha approvato un documento sulla Strategia Europea per la Sicurezza che identificava le principali minacce cui far fronte sia in chiave preventiva sia come crisis management: terrorismo; proliferazione di armi di distruzione di massa; conflitti regionali; Stati falliti; criminalità organizzata. Nel 2008 un rapporto sull’applicazione della Strategia concludeva:
«L’Unione Europea deve essere più attiva, più coerente e più capace».
Siamo nel 2014, e sarebbe normale che nel quadro dell’attuale campagna elettorale chi ambisce a rappresentarci a Strasburgo e a Bruxelles si pronunciasse sia sugli obiettivi sul sul perché la Ue non risulta, come sembra difficile contestare, più attiva, più coerente e più capace, e su come fare perché lo diventi.
Non dovrebbe essere troppo difficile. Ad esempio, non vi è alcun dubbio sul fatto che esista in Europa una preoccupazione generalizzata nei confronti del fenomeno delle migrazioni. Una preoccupazione che si traduce, soprattutto nella campagna elettorale condotta da forze politiche conservatrici e populiste, negli apocalittici scenari di un’incontrollabile invasione. È vero che il problema, pur sfrondato delle strumentalizzazioni, è oggettivamente serio e richiede di essere affrontato e governato. Ma bisognerebbe capire, e i politici dovrebbero spiegarlo agli elettori, che l’unico modo di gestirlo non è quello di una problematica «impermeabilizzazione» delle frontiere ed espulsione degli immigrati irregolari (non ci riescono nemmeno gli americani, certo non «buonisti»), ma un impegno sostenuto per affrontare nel quadro di una politica estera europea – finora annunciata piuttosto che realizzata - le radici sia economiche sia politiche dei movimenti di popolazione. I richiedenti asilo arrivano perché scappano da micidiali conflitti, i migranti economici da economie disastrate e sistemi politici repressivi e corrotti. L’Unione Europea aveva ed ha l’ambizione di contribuire, con il suo peso politico e la sua forza economica a creare, soprattutto nelle zone ad essa limitrofe, condizioni tali da ridurre, se non eliminare, le condizioni che sono alla radice di questi fenomeni. Si può fare: basterebbe chiedersi perché non si parla più dell’«invasione albanese» che aveva tanto turbato i sonni degli italiani all’inizio degli Anni 90.
Invece si parla di migranti, ma non di aiuto allo sviluppo e nemmeno delle attività Ue per contribuire alla stabilità politica nelle aree più critiche. Pensiamo in particolare ai Balcani, rispetto ai quali si dovrebbe discutere anche molto criticamente sia dei risultati e delle potenzialità sia dei limiti e delle contraddizioni (vedi la Bosnia, dove l’impegno internazionale, e in particolare europeo, non sembra avere risolto alcuno dei problemi di fondo, sia politici sia economici).
E non dovrebbe nemmeno essere difficile affrontare in chiave politica il discorso sulla politica dell’Unione in tema di allargamento. Come valutare il processo fin qui realizzato? Quali benefici ha apportato, quali costi ha comportato? E che fare per il futuro (Serbia, Turchia, Ucraina)? In che modo lo strumento dell’ampliamento può contribuire alla stabilità, e in che misura è sia politicamente sia economicamente sostenibile? I candidati invece evitano di parlarne, forse proprio perché si tratta di un tema problematico in cui spesso le aspirazioni vengono contraddette dal realismo. Quello che è certo è che eludere i problemi può produrre errori molto gravi e conseguenze molto negative.
È davvero un paradosso. Nel momento in cui il mondo globale rende i confini sempre più teorici e in cui l’Europa, per evidenti ragioni sia economiche sia geopolitiche, può permettersi anche meno degli Stati Uniti di rinchiudersi in una visione autoreferenziale, si sta in questi giorni perdendo un’importante occasione di coinvolgere i cittadini europei in un aperto confronto politico fra diverse proposte su come concepire il ruolo dell’Unione nel mondo.
Repubblica 12.5.14
Sos del Nobel “Il mondo salvi le ragazze in mano a Boko Haram”
di Wole Soyinka
BOKO Haram rappresenta la fatwa ultimativa del nostro tempo. Si rivolge contro la nostra ragion d’essere comune, contro la missione e la giustificazione della nostra esistenza produttiva. Ma rappresenta anche la maggioranza dei mussulmani della Nigeria?
IN BASE alla mia esperienza degli ultimi anni, la risposta a questa domanda è un inequivocabile no. La notizia più recente a questo proposito è che il governatore dello Stato federale dell’Osun, un musulmano, visibilmente adirato, ha esortato i musulmani «a ribellarsi a queste atrocità commesse da gruppi fondamentalisti nel nome della religione», e ha dichiarato categoricamente: «La nostra religione rifiuta ciò che questa gente malvagia ha intende compiere nel nome dell’Islam. Non possiamo tacere, perché Boko Haram è il male». Ora queste voci, anche se un po’ in ritardo, dichiarano che i decreti - cioè le fatwa - di Boko Haram sono privi di valore e inaccettabili per il resto della società. Fare di meno significherebbe riconoscere a Boko Haram
il potere di esprimere la volontà di tutta l’umanità.
Non possiamo suggerire che tutti si uniscano alle forze armate in uniforme che effettuano i loro interventi di soccorso nelle caverne e nelle paludi della foresta, non solo per annientare il nemico, ma per salvare le nostre figlie rapite con la violenza dalle loro scuole per farne delle schiave sessuali - non vogliamo soltanto parlarne, ma vedere negli occhi l’orrore, per riconoscere la sventura che minaccia il nostro popolo. Queste ragazze avranno bisogno di aiuti massicci quando torneranno a casa. Chi ora si rifiuta, tradisce il nostro avvenire e incoraggia la prosecuzione dei crimini contro la nostra umanità. Non c’è alternativa: dobbiamo combattere contro il nemico. E non è vuota retorica - il campo di battaglia va oltre il terreno fisico. Questo campo di battaglia non appartiene alla mera fantasia, ma alla memoria e alla storia, la nostra storia.
Abbiamo già dimenticato la distruzione delle monumentali statue di Buddha, dei monumenti e delle tombe di Timbuctù, con i loro antichissimi manoscritti, luoghi della sapienza islamica, più antichi dei capolavori del Medioevo europeo? I veri seguaci del profeta Maometto vanno fieri di essere il popolo del Libro: per questo a Timbuctù c’erano quei manoscritti amorevolmente protetti e curati da generazioni di musulmani. E da che parte stiamo, quando i bambini saltano in aria nelle scuole e vengono massacrati, gli insegnanti e i genitori vengono cacciati perché osano disubbidire alla fatwa che vieta qualsiasi istruzione? Rimaniamo nelle nostre caserme? Qui parliamo di una guerra che ha raggiunto il suo orribile culmine già quattro anni fa. Che oggi essa, con il rapimento di scolare che dovranno servire come bestie da soma al nemico, abbia raggiunto una dimensione tanto allarmante da scuotere i nostri sentimenti umani non può farci dimenticare gli errori passati, i nostri silenzi.
Consentitemi di proporre ai dirigenti di questo Paese un semplice e diretto esercizio di immedesimazione. Per favore, immaginate di essere una delle più di mille vittime dell’ultimo bagno di sangue e di trovarvi in ospedale. Non potete muovervi né parlare; potete solo muovere le ciglia. I visitatori si susseguono: rappresentanti locali dello Stato, ministri, funzionari, governatori, prelati, fino al vertice della piramide del potere, il Presidente della Repubblica. Vi fanno perfino promesse: cure mediche gratuite, riabilitazione. I visitatori si congedano, il vostro stato d’animo è sollevato. Sulla parete di fronte è stato premurosamente appeso un televisore, acceso perché possiate riprendervi dai vostri traumi e possiate offrire al vostro spirito una via di fuga. Qualche ora dopo che i vostri illustri visitatori se ne sono andati, aprite gli occhi e vedete sullo schermo, dal vivo, questi visitatori felici e beati nel corso di una manifestazione elettorale, dove il fiduciario sollecita l’iniziativa popolare per una raccolta di fondi per la campagna elettorale. Questo leader nazionale conclude il suo intervento con una virtuosa esibizione di danza che farebbe impallidire d’invidia Michael Jackson.
I titoli di oggi sui media parlano di quasi duecento ragazze scomparse. Anche se fossero solo venti o dieci o uno solo: è questo il momento giusto per ballare? Cosa c’è di così urgente nella campagna elettorale che non si possa rinviare? Tutto il mondo guarda a noi con occhi pieni di lacrime. Ma noi ci guardiamo allo specchio e iniziamo un nuovo numero di danza. Cosa ne è stato di questo paese? Èun miracolo che qualcuno ancora agiti un pezzo di stoffa chiamato bandiera e che canti a voce alta una melodia priva di fantasia che chiamiamo inno nazionale. È diventato un lamento funebre. E quella che chiamiamo bandiera è un sudario ora adagiato sul nostro popolo: un popolo che non è capace neanche di tenere l’atteggiamento dignitoso dell’autodenuncia e del pentimento.
La realtà ci guarda negli occhi, in mezzo ai feriti, in mezzo ai morti. E basterebbe un impegno riconoscibile nel rispondere al grido «riportate indietro le bambine ». Nerone suonava solo la lira, quando Roma era in fiamme. Ma non si narra che sulla sua melodia egli abbia anche danzato. Eppure esiste un’espressione per definire questo tipo di ballo: viene chiamato il ballo dei morti. E sappiamo tutti cosa significhi. (Traduzione di Carlo Sandrelli)
Repubblica 12.5.14
Le accuse di Schroeder
“L’Europa sta sbagliando non tradisco l’amico Putin”
intervista di Stefan Aust e Daniel S. Sturm
«LE cause originarie della crisi ucraina sono le scelte della Ue, non quelle della Russia». Lo dice l’ex cancelliere Gerhard Schroeder, in questa sua prima intervista dopo l’abbraccio col presidente russo al party di compleanno a San Pietroburgo.
Cosa risponde alle critiche sui media per l’abbraccio con Putin?
«Nulla. Gli stessi giornalisti mi attaccarono duramente durante il confronto con gli Usa sulla guerra in Iraq. Secondo loro dovevamo combattere con gli americani in Iraq. Io allora cancelliere ebbi ragione, e oggi ritengo giusto parlare col presidente russo».
Abbracciarlo era indispensabile?
«Sapevo che sarei stato fotografato, ma non ho nulla da nascondere. Da quando conosco Putin, da oltre 14 anni, ci salutiamo così. Non cambio abitudine in tempi difficili».
Non ha pensato di cancellare il party per il suo compleanno, vista la crisi?
«Non ci ho pensato un solo secondo».
Ha parlato con Putin dell’Ucraina?
«Sì, e ciò ha portato anche a un successo quanto alla liberazione degli osservatori Osce. Il clima era amichevole ma serio. Ma non fornisco mai dettagli su colloqui confidenziali».
Ha informato Angela Merkel che stava per incontrare Putin?
«No, non è il mio stile informare chicchessia in anticipo dei miei incontri».
Neanche il suo amico Steinmeier (ministro degli Esteri tedesco, ndr )?
«Come Steinmeier stesso ha detto di recente: se io da privato cittadino partecipo a un evento, non ho bisogno di chiedere il permesso a nessuno nel governo federale».
Cosa la lega alla Russia?
«Non l’amicizia col presidente, né il fatto che io abbia adottato due bimbi russi. Il mio rapporto col paese e la sua gente ha motivi storici. Noi tedeschi siamo stati responsabili della morte di 25 milioni di uomini nell’allora Urss. La riconciliazione con la Russia è un miracolo. In Russia c’è grande simpatia per noi tedeschi. Mi ha sempre affascinato come sia stato possibile dopo gli orrori della seconda guerra mondiale. È un bene prezioso, non dovremmo metterlo a rischio».
Ma capisce le paure dei paesi situati tra Germania e Russia?
«Chiunque conosca la storia dell’occupazione e dell’oppressione sovietica là capisce paure storicamente motivate in Europa orientale. Ma quei paesi sono da oltre dieci anni nella Ue e nella Nato. La loro sicurezza e sovranità dunque è garantita. Dobbiamo rispettare le loro sensibilità, ma certe emozioni sono cattive consigliere».
Secondo lei qual è la causa essenziale del confronto attuale?
«L’errore base fu nella politica di associazione condotta dalla Ue. La Ue ha ignorato che l’Ucraina è un paese culturalmente diviso in profondità: da sempre a sud e a est si sono orientati verso la Russia, all’Ovest verso la Ue. Proporre un aut-aut, o associazione con la Ue o unione doganale con la Russia, è stato l’errore originario».
E non la presenza del corrotto Yanukovich?
«Sì, ma il presidente rovesciato era andato al potere con libere elezioni».
Come giudica l’arrivo al potere del nuovo governo ucraino?
«Sono stati fatti molti errori. La loro prima decisione?
Cancellare il russo come lingua per gli atti ufficiali. Poi l’est del paese non è rappresentato nel governo.
Ciò crea diffidenza, come la partecipazione di un partito d’estrema destra al governo. Immaginatevi come reagisce la gente nell’est ucraino».
Che influenza ha Putin sui separatisti?
«L’idea che egli o altri a Mosca debbano solo dire “basta” e tutto finisce non è realistica”.
È deluso dalla politica di Angela Merkel sulla crisi ucraina?
«La Germania è centrale per la Russia. Siamo il loro principale partner in Europa, anche politicamente. Bisognerebbe parlare meno di sanzioni, e parlare anche di interessi di sicurezza russi. Una Ucraina nella Nato per loro non è accettabile. E invece sento solo dire che l’Occidente deve isolare la Russia e Putin. Una cosa è sicura: sanzioni e isolamento non portano a nulla».
Repubblica 12.5.14
Confessioni postume di un ribelle al potere
“Eravamo solo dei dissidenti, non eravamo pronti alla caduta del Muro”
In un testo inedito l’ex presidente ceco Havel ricorda “la grande valanga”
di Vàclav Havel
Nel periodo in cui appartenevo alla schiera dei cosiddetti dissidenti, mi venivano a trovare di tanto in tanto giornalisti occidentali e nelle loro domande percepivo spesso il loro grande stupore per il fatto che noi - una minuscola percentuale della popolazione - lottavamo per ottenere un mutamento effettivo della situazione, anche se già a un primo sguardo era evidente che non eravamo in grado di conseguire alcun reale mutamento.
Al contrario: in quel modo potevamo solo attirarci addosso ulteriori persecuzioni. Cosa volete ottenere se dietro alle vostre spalle non ci sono gli operai, gli intellettuali o qualche movimento insurrezionale, un partito politico legale o qualche altra più significativa forza sociale? Coloro che si stupivano in quel modo partivano dall’impressione di aver compreso tutti i meccanismi basilari della storia e di sapere quindi ciò che accadrà o che può accadere, cosa abbia una qualche possibilità di successo e cosa no, cos’è saggio e realistico e cos’è invece pura follia. Durante quelle conversazioni ribadivo spesso che nei sistemi totalitari è molto difficoltoso riuscire a vedere nelle viscere di una società che si presenta in apparenza come un monolite devoto, mentre quel monolite - cementato essenzialmente dalla paura - può essere in realtà ben più fragile di quanto possa apparire. E che nessuno sa in quale momento una qualchecasuale palla di neve possa mettere in movimento un’intera valanga.
L’insegnamento che ne deriva è chiaro: non dovremmo mai essere sicuri di aver compreso tutte le leggi della storia, e di essere quindi capaci di prevedere senza margine d’errore ciò che accadrà. Vent’anni fa la palla di neve cecoslovacca, nella forma di un massacro di studenti, si era trasformata in una valanga. E l’intero sistema totalitario aveva all’improvviso cominciato a crollare come un castello di carte. Erano stati molti i fattori in gioco: dalla profonda crisi interna del regime, passando per gli avvenimenti che si verificavano nelle nazioni limitrofe, per terminare con la favorevole situazione internazionale. Ugualmente però ci stupimmo della rapidità e della relativa facilità con cui tutto si era svolto. [...] Neanche noi avevamo azzeccato le nostre previsioni e non eravamo stati capaci di vedere e comprendere quanto avveniva in segreto all’interno sia della sfera del potere sia della società, e di intuire le possibili conseguenze. Avevamo cercato di mantenerci liberi, di dire la verità, di dare testimonianza sulla situazione nel nostro paese. Non c’interessava raggiungere il potere. Non c’era in alcun modo venuto in mente che a noi, che al massimo ci potevamo sentire dei portavoce dell’opinione pubblica, potesse venir consegnato il potere all’interno dello Stato.
Con imbarazzo l’abbiamo accettato, perché non c’era alternativa. E in quel momento è avvenuto un fatto significativo: molti di coloro che per anni non avevano fatto altro che adattarsi e tenere il passo in silenzio all’improvviso avevano cominciato a rimproverarci la nostra scarsa preparazione alla storia. Chiedevano: com’è possibile che non abbiate scritto già da molto una nuova costituzione democratica? Perché non vi siete accordati per una nuova legge elettorale? Com’è possibile che non abbiate scritto e preparato già da molto le più disparate nuove leggi, comprese quelle che forniscano una cornice giuridica a tutta quell’enorme privatizzazione attraverso cui la nostra nazione doveva necessariamente passare? [...] Sì, i dissidenti erano dei professori, dei pittori, degli scrittori, degli addetti alle caldaie: tutto meno che dei politici. Ma, del resto, dove sarebbe stato possibile rimediare di punto in bianco, all’interno di un sistema totalitario, una qualche classe politica alternativa? Così, poi, non abbiamo smesso di stupirci di tutto quello che dovevamo fare. Ugualmente, però, ritengo un bene il fatto che non fossimo preparati alla storia, o meglio: alla sua accelerazione. Chi è troppo preparato mi sembra sempre lievemente sospetto.[...] L’impazienza può portare alla superbia e la superbia all’impazienza. E per superbia intendo l’arrogante convinzione di essere io il solo che sa tutto, di essere io il solo ad aver compreso la storia, e di essere quindi competente a prevederla. E se poi il corso delle cose o del mondo si sottrae alla mia visione, a quel punto devo intervenire. E magari anche con la violenza. È questo il caso del comunismo. La presunzione dei suoi teorici e dei suoi realizzatori è alla fine sfociata nel Gulag. [...] Quando era crollata la Cortina di ferro e aveva avuto termine quella divisione bipolare del mondo che fino ad allora era apparsa come la causa principale di tutto il male, si trattò senza dubbio di un avvenimento di rilevanza storica. Terminava la violenza perpetrata ai danni del mondo e si dissolveva il pericolo di una terza guerra mondiale. Sulle prime qualcuno poteva anche pensare che in quel modo era in fondo finita la storia. E che si era giunti a una sorta di splendida pausa nel tempo.
Anche questo era espressione di una limitata capacità di comprendere il carattere enigmatico della storia, o semplicemente espressione di una limitata fantasia. Non si era giunti a nessuna pausa nel tempo. Alcuni dei grandi pericoli erano certo scomparsi, ma da sotto la coperta bipolare frantumatasi era affiorata una miriade di pericoli apparentemente minori. Ma, nell’epoca della globalizzazione, quali pericoli possono essere realmente piccoli? Prima scoppiavano guerre mondiali in Europa, a lungo considerata una sorta di centro di civilizzazione del mondo. Possiamo davvero esser certi che debba essere così per sempre? Non è forse possibile che un qualche più serio conflitto regionale si possa trasformare in un conflitto di portata mondiale? Non hanno forse, oggi, i terroristi possibilità di gran lunga maggiori che in qualunque altro momento della storia? In questa che è la prima moderna società atea, priva di un suo rapporto con l’eternità, non cresce forse in maniera allarmante il numero delle minacce fondate proprio sull’incapacità di una visione più ampia? Non perpetriamo forse ogni giorno, nella vita del nostro pianeta, centinaia di ingerenze dalle conseguenze ferali e irreversibili?
Traduzione di Giuseppe Dierna (Discorso pronunciato il 2-2/ 1-0/ 2-009 presso l’Istituto di studi politici (Science Po) di Parigi
La Stampa 12.5.14
“Quei 36 milioni di cinesi morti per gli errori di Mao”
Lo scrittore Yang Jisheng scava nella storia della Grande Carestia del 1958-1962
di Alessandro Barbera
Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l’11 settembre del 1976 l’«Economist» scrive: «Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame».
Nel 1976 all’«Economist» non sanno ancora che qualcuno in Cina ha iniziato a raccogliere il materiale che diversi anni dopo incrinerà l’aura che fino a quel momento era penetrata fin nei più insospettabili circoli. A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un «orgoglioso giornalista» dell’agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all’Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura.
«Era un giorno di primavera del 1959. Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c’era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». Un’amica lo avverte di tornare subito a casa. Quando entra in giardino trova l’olmo con la corteccia strappata e diversi buchi attorno alle radici. Yang Xiushen è in casa, riverso a terra, in fin di vita. «Era pelle ossa, in un modo che solo allora capii cosa volesse significare». Il ragazzo non è sorpreso. «Mio padre stava male da tempo, faceva di tutto per negarlo. Ogni volta che tornavo portavo un po’ della mia razione. Lui mi respingeva, non voleva mi privassi del cibo».
Yang Jisheng racconta la sua storia in una calda giornata del maggio romano al tavolino di un ristorante nei pressi di Piazza di Spagna. Spesso deve alzarsi per via di un terribile mal di schiena che lo costringe a portare una fascia di sostegno di pelle nera. Mentre parla la realtà attorno a lui è straniante anche per chi ascolta.
Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tiananmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati - lo ha ricostruito lui stesso - a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti. «Avrei voluto conoscere sin da giovane il senso profondo delle parole “shi shi qiu shi”», un aforisma che in cinese significa «cercare la verità attraverso i fatti» e che fino a quel momento Yang aveva sentito pronunciare retoricamente solo dagli esponenti del regime. «Io non ho mai fatto politica», spiega Yang. Per questo non lo si può definire un dissidente, anche se ben tre ministri dell’informazione lo hanno criticato – «un record» – e i suoi libri si possono comprare solo ad Hong Kong. «Talvolta ho temuto di essere incarcerato, ma se non è accaduto significa che le cose nel mio Paese oggi vanno meglio. Non bene, ma meglio».
Il suo enorme lavoro (1.200 pagine nell’edizione in cinese, 700 in inglese) è stato pubblicato solo nel 2008. Si intitola «Tombstone». Una lapide «per mio padre, per i milioni di morti, per gli errori della Cina di Mao».
Yang sotterra con dovizia di dettagli il fallimento della pianificazione economica, della Cina che aveva concesso – e poi confiscato – al padre un fazzoletto di terra da coltivare, in cui era negata qualunque iniziativa privata, competizione, entusiasmo personale e creatività, nella quale si negava l’esistenza dei prezzi, ciò che avrebbe spinto qualcuno a portare il cibo fino al villaggio di suo padre, evitandogli quella morte orribile. La collettivizzazione dell’economia era arrivata fino alle cucine, dove la gente non aveva nemmeno la libertà di decidere quando e cosa mangiare.
Oggi Yang non ha dubbi nel sostenere che «l’unica uguaglianza alla quale tendere è quella delle opportunità». Non conosce Thomas Picketty, è interessato a capire come mai in Occidente ci sia così tanta domanda di uguaglianza fra le persone, sottolinea quanto il confine fra ricerca dell’uguaglianza e arbitrio sia labile. «Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l’ho spiegata ai cinesi con una formula matematica». Prende un pezzo di carta e scrive: «Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione». L’orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia.
La Stampa 12.5.14
Così le SS crearono la Gladio tedesca
Le prove dagli archivi dei servizi segreti: dal ’49 pronto un esercito dormiente di veterani
di Tonia Mastrobuoni
Che la denazificazione in Germania sia stata lacunosa – una soluzione adottata ufficialmente per non condannare il Paese al fallimento sicuro, spazzandone via l’intera classe dirigente – non lo dicono solo i libri di storia. Lo raccontano anche romanzi magnifici come «Dossier Odessa» di Frederick Forsyth, che ricostruiscono le trame oscure degli ex ufficiali delle SS per proteggere i camerati dopo la guerra. Ma una notizia che verrà ufficializzata nei prossimi giorni, rivela per la prima volta che la Repubblica federale ha avuto per decenni persino la sua Gladio, la sua organizzazione para-militare «in sonno» che avrebbe dovuto difendere il Paese dai sovietici o dai «cugini» comunisti della Ddr, in caso di invasione.
La clamorosa anticipazione dello «Spiegel», basata su documenti dei servizi segreti tedeschi, è inquietante per almeno due motivi. Primo, perché conferma l’attivismo postbellico dei veterani delle Waffen-SS e della Wehrmacht. E c’è anche una traccia che porta dritto dritto in Italia. Secondo, perché il cancelliere Konrad Adenauer ne fu messo al corrente. Non solo non ordinò lo scioglimento dell’organizzazione illegale: ne informò l’opposizione socialdemocratica e gli alleati, che a loro volta non reagirono.
Nella «Gladio tedesca» operavano circa 2000 veterani dell’esercito di Hitler: dal 1949 decisero di organizzarsi segretamente per essere in grado, nel caso di un attacco del Patto di Varsavia, di mobilitare fino a 40mila tedeschi. Difficile dire quanti siano stati i membri certi, il settimanale stima circa 10mila. Ma nel gruppo erano coinvolte personalità di spicco della Germania democratica come il generale della Nato Hans Speidel o l’ispettore generale del ministero dell’Interno Anton Grasser. E il fondatore fu addirittura un alto ufficiale della Bundeswehr, Albert Schnez. Veterano anche lui, ripreso nell’esercito dopo il conflitto bellico, dove fece una carriera verticale, Schnez cominciò ad organizzare alla fine degli Anni 40, vicino a Stoccarda, serate per i reduci. Ed è lì che si cominciò a parlare della necessità di difendersi e di prevenire il «pericolo rosso».
Il fondatore del gruppo clandestino e ufficiale della Bundeswehr non solo annotava cose agghiaccianti tipo «intelligente, mezzo ebreo» a proposito di nuovi membri. Aveva contatti diretti anche con pezzi grossi delle «teste di morto» naziste: trattò persino con un idolo delle camice brune, l’ex Obersturmbannfuehrer delle SS Otto Skorzeny. Un nome noto anche alle cronache italiane: fu l’uomo che con un commando liberò Mussolini nel 1943 dalla prigionia cui era stato condannato dopo l’armistizio.
Per finanziarsi Schnez chiese persino aiuto ai servizi segreti della Germania federale. E fu generosamente aiutato per anni dagli ex camerati o dai volontari «in sonno». Dalle carte non emerge quanto sia durata la «Gladio tedesca»: certamente è stata sciolta in gran segreto. Schnez è morto nel 2007, senza mai rivelare nulla. I suoi documenti, con il titolo più innocuo del mondo, «Assicurazioni», sono spariti, ma qualcosa è riuscito a finire nelle mani dei servizi segreti. Che li hanno blindati a loro volta. Fino a ieri.
La Stampa 12.5.14
La formazione italiana
Il 24 ottobre 1990 Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, conferma i sospetti che circolano da tempo e ammette alla Camera dei deputati l’esistenza di un’organizzazione segreta chiamata Gladio, la cosiddetta Stay Behind italiana. Gladio è il nome in codice di un’organizzazione paramilitare segreta promossa dal 1956 durante la guerra fredda dalla Nato per contrastare una possibile invasione dell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica. Ma Gladio è solo una porzione di un sistema di sicurezza ben più articolato: durante la guerra fredda, quasi tutti i Paesi crearono formazioni paramilitari, riunite nella «Stay Behind Net». In Italia dell’esistenza di Gladio erano informati i vertici politici del Paese: Presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, ministro della Difesa, come pure i vertici militari. La struttura era invece sconosciuta al Parlamento. Nel 1966 Cossiga ricevette la delega, come Sottosegretario alla Difesa, a sovrintendere Gladio.
il Fatto 12.5.14
Città sotterranee
Roma, un’opera eternamente rimasta a metà
di David Marceddu
Come funziona nella città eterna lo scavo di una metropolitana lo ha raccontato Fellini nel suo film Roma. Dove buchi con la talpa trovi necropoli, affreschi, perfino zanne di mammuth. Il regista raccontava i cantieri per la Linea A, iniziata a metà anni 60 e terminata nel 1980. La trama è la stessa anche oggi: il sogno di vedere terminata la linea C (la B, costruita tra il 1935 e il 1955, fu un altro esempio di lentezza) si scontra con la necessità di preservare l’archeologia. Ma fosse solo questo. Gli altri “mammuth” che i lavori incontrano sulla strada sono quelli della burocrazia e dei contenziosi legali. Un esempio: qualche mese fa gli operai del tratto T3 sono scesi su via dei Fori imperiali con camion e betoniere per protesta: da mesi non vedevano gli stipendi perché la giunta comunale non sbloccava i fondi.
A PARLARE della linea verde della metropolitana romana, che taglierà la città da nord-ovest sino alla periferia est, si era iniziato già nei primi anni 90. Nel frattempo i costi per questi 25 km di tratta sono lievitati dagli 840 miliardi di lire, nelle stime di 25 anni fa, agli oltre 3 miliardi di euro attuali. E c’è già chi parla di 5 miliardi. A certificare le miracolose lievitazioni è stata la Corte dei conti, che nel 2011 ha fatto le pulci a un’opera che doveva servire a portare i pellegrini a San Pietro per il Giubileo del 2000 e che forse riuscirà a portarci quelli del Giubileo 2025. Il tratto da Pantano alla stazione Lodi sarà aperto entro il 2014, mentre, se tutto va bene, alla stazione San Giovanni in Laterano (scambio con la Linea A) i passeggeri potranno arrivarci nel 2015. Per raggiungere Piazza Venezia da San Giovanni invece bisognerà attendere il 2018, forse il 2020. Intanto romani e turisti si ritrovano in questi mesi i cantieri aperti davanti al Colosseo. Il tutto mentre il museo sotterraneo progettato all’interno della futura stazione Fori Imperiali, destinato a esporre i resti ritrovati durante i cantieri, non si farà più.Mancanza di fondi. Lo stesso motivo per cui anche la promessa Linea D non si vedrà prima di qualche decennio.
Intanto mentre Roma, coi suoi attuali 40 km di linea, arranca (è solo 28° in classifica per lunghezza) il mondo corre. Lasciando stare Milano, che si difende coi suoi 90 km, e le più piccole reti di Napoli, Brescia e Torino, perfino nella povera Grecia, Atene, che pure con l’archeologia ha qualche problema, ha 85 km di linea. Lisbona ha un’efficiente rete metropolitana che per 45 km unisce tutti i punti della città, aeroporto incluso. La "Tube" di Londra è la più antica al mondo e la più lunga d’Europa: i suoi tunnel hanno fatto la storia e durante la guerra hanno salvato migliaia di inglesi dalle bombe naziste. A seguire, la "Metro de Madrid": 309 km per 300 stazioni, la ottava nel mondo per estensione. Qui hanno fatto sul serio: la Linea 8, 40 km di scavo, iniziata nel 2000, è stata consegnata nel 2003. Quella di Mosca, intitolata a Lenin, è invece la rete più affascinante. La stazione Kievskaja è un capolavoro artistico con i suoi marmi bianchi e gli affreschi (ma anche San Pietroburgo non scherza a riguardo). La metro moscovita racconta anche un pezzo di storia. Le stazioni della Linea Arbatskaja dovevano fungere anche da rifugi in caso di attacco atomico durante la guerra fredda. Oltre ai 290 km destinati al pubblico esisterebbe a Mosca anche una rete segreta, scavata più in profondità, destinata al collegamento tra i palazzi del governo e i bunker sotterranei. Ma nessuno la ha mai vista. La "Métropolitain" di Parigi è una delle più antiche. Famosa per i suonatori (c’è addirittura un regolamento ad hoc per loro) è lunga 200 km e in Europa è la quarta per estensione. Poi c’è la linea più antica dell’Europa continentale: inaugurata nel 1896 dall’imperatore Francesco Giuseppe, la "Földalatti" di Budapest è patrimonio del’umanità per l’Unesco.
FUORI DALL’EUROPA non si può dimenticare Shanghai con la sua underground più lunga del mondo: 459 km scavati dal 1993 a oggi. Pechino non è da meno: 456 km. Seul avrebbe il primato (537 km), se non fosse che il 30% della sua rete non è in sotterranea. Tokyo ha la più antica metropolitana in Asia, che è anche la più frequentata al mondo: 40 milioni di transiti al giorno contro i 750 mila di Roma, i 9 milioni di Mosca e i 4 milioni di New York. La Grande Mela ha la subway più estesa delle Americhe, con 368 km scavati tra fine 800 e inizio 900. Segue Città del Messico. Infine un accenno all’unica metropolitana in terra d’Africa (se si eccettua quella modesta di Algeri): al Cairo, le due carrozze intermedie della metro sono riservate a quelle donne che non desiderano viaggiare insieme agli uomini.
Repubblica 12.5.14
In viaggio con Piano ai confini della città
di Francesco Merlo
ROMA PRONUNZIA la parola «ecomostro» con una sfumatura canzonatoria che mi fa capire, meglio dei discorsi, perché ama tanto la periferia, «la terra di frontiera che accende l’immaginazione, eccita il desiderio, quella vita che sta ai margini della vita ma è più vita della vita».
Stiamo passeggiando su due chilometri di niente urbano, una linea tranviaria abortita che avrebbe dovuto collegare Saxa Rubra e Cinecittà, orrore reso famoso dal saccheggio dei tombini che, nel gennaio scorso, i predoni della ghisa portarono via di notte, con i martelli pneumatici, per rivenderli al mercato nero dei metalli. È il “viadotto dei presidenti” che, con Eloisa Susanna e Francesco Lorenzi, due dei sei ragazzi di bottega pagati con lo stipendio di senatore, Renzo Piano vorrebbe trasformare «in una High Line romana, dal parco delle Sabine al parco Talenti, due km di sopraelevata verde a conferma che i mostri non sono mostruosi». Ci sono due stazioni complete di piazzetta, aiuole e passaggi per disabili, e forse ci sono anche i fantasmi. In basso, sotto i piloni, si accumula la spazzatura che presto puzzerà: «Non è un mondo dismesso, ma un mondo che non è nato. Perciò non bastano gli spazzini, bisogna portarci la gente, i valori comuni, l’urbanità ». Sembra una strega che, a cavallo di una scopa, cerca i sentieri degli incantesimi: «Il rapporto tra la luce e il colore è quello magico della campagna romana: se pianti gli alberi questo cemento diventa una foresta». Qui passano il Tevere e l’Aniene e i pini a ombrello sono bellissimi. Arriva in bicicletta un signore anziano senza denti, è arrabbiato con il mondo, vorrebbe sterminare gli immigrati: «Venite da quest’altra parte e guardate qui sotto: “quelli lì” hanno piantato le tende, e gli danno pure il permesso di soggiorno».
Anche lui è un mostro di periferia? «Esprime, pur malamente, un amore per questi luoghi che nega l’idea stessa di periferia come deserto di affetti». Dieci anni fa, Piano portò Ermanno Olmi al Parco Lambro a Milano: «Scoprì che, nonostante l’alta densità criminale e il degrado, per tutti quelli che vi abitavano era “il posto più bello di Milano”. Ecco: il posto più brutto è anche il più bello». Non sarebbe meglio, domando, ricorrere alla santa ruspa e demolire tutto? «No, la demolizione è un grido d’impotenza. È spettacolare ma sbagliata e ben più costosa del rammendo». Eccola, la parola “rammendo”. È piaciuta a Matteo Renzi e tutti ne fanno uso. «Fin troppo». Non bisogna demolire mai? «In rari casi. Per ragioni igieniche, ambientali o sismiche ». E il muro di Berlino? «È stato un errore abbatterlo. Sarebbe stato molto bello averne lasciato alcune parti: il muro che dava identità attraverso la mortificazione oggi sarebbe il muro della libertà conquistata».
A destra e a sinistra fischiano le auto e, più in là, spezzoni di periferie interrompono la campagna, «non ci sono solo casermoni informi, grigi e già consumati che sporcano la dolce linea dei colli; sarebbe facile farli entrare in comunione, che è già una forma di bellezza». Sono i quartieri di Serpentara, Fidene, Val Melaina, Vigne Nuove: «Bastano poche bretelle di collegamento. I semafori sincronizzati rallenterebbero il traffico e anche il rumore diminuirebbe». Non c’è lo spettacolo di New York ma Piano “vede” già «la pista ciclabile e pedonale che unirebbe due parchi attraverso un parco lineare, invenzione originale di biologia e botanica oltre che di architettura del paesaggio urbano. Potrebbe diventare un modello. E a Roma un rammendo come questo, che non mi pare molto costoso, potrebbe innescare un processo virtuoso dando senso a un’insensata opera pubblica mai finita, che è un’altra specialità italiana». E vuol dire che l’insensatezza lo rende il più brutto dei viadotti italiani, che sono teatri della violenza seriale: i sassi dal cavalcavia, le crocifissioni delle prostitute… A Roma, che è la città dell’ironia, la crudeltà si concentra nella toponomastica: “viadotto Gronchi” e poi “viadotto Saragat”. «I nomi fanno i conti con la realtà e la grandiosità diventa beffa».
Dove comincia la periferia? «Se ci fosse un confine non sarebbe più periferia». Costeggiamo un mini Corviale, palazzoni grigi di edilizia popolare: «Sono le zone suburbane dell’umanità confinata che, a prima vista, sembrano uguali dappertutto. E però, guarda: quelle torrette rotonde sono belle». Poi si entra a Montesacro e l’edilizia diventa più aggraziata: «Queste sono le case popolari di una volta, quando si regalava ai poveri quel che era bello anche per i ricchi, che è l’essenza della generosità. Poi hanno cominciato a regalare porcherie». La vicepreside Alma Talu ci accoglie nella sua scuola, un edificio fascista di marmo e mattoni, che «nel 1972 - racconta - le famiglie del quartiere occuparono perché volevano una scuola». Piano, solidale, le mette la mano sulla spalla: «Anni terribili ma straordinari. A Parigi io facevo il Beaubourg, a Londra e a New York c’era la rivoluzione sessuale e qui voi trasformavate un territorio abbandonato in una scuola che ora ha 1.500 bambini». Quarant’anni dopo, questa scuola che non ha neppure un nome, ogni tanto “avanza” ancora e occupa spazi incolti che «genitori e insegnanti puliscono e attrezzano ». Piano si offre alla pirateria: «Ci chiami, se ha bisogno di aiuto per “avanzare”». Questa scuola «è un magnifico monumento allo squatter », una parola che, passando attraverso il francese antico exquatir, viene dal latino cogere , più esattamente dal participio passato coactus. E infatti “coatto” a Roma è chiamato l’abitante della periferia, il ghettizzato, l’emarginato, lo sradicato. «Ma questa non è periferia » rivendica con dolcezza la vicepreside, «ed è molto meglio che in centro». Dice Piano: «È un bell’esempio di periferia affermata con una negazione». E ancora: «Bisogna sempre iniziare dalla scuola che è importante come l’acqua corrente, l’elettricità e il panificio». Si possono davvero rammendare gli edifici scolastici degradati? Qui la stabilità è stata rinforzata con una putrella d’acciaio collegata a dei tiranti e avvitata al muro: «È un buon esempio di rammendo, senza grandi spese e senza chiudere la scuola per lavori. Ma è fondamentale la buona diagnostica che sola ti consente il cantiere leggero, il piccolo intervento d’amore». E Piano fa uno schizzo, un arco, il tufo che indurisce con l’umido... Ogni volta che vuole sottolineare un discorso, invece di agitare le mani, l’architetto disegna: su un tavolo, su una scorza d’albero, sulla tovaglia del ristorante. E ora, alto e magro com’è, piega le gambe elastiche come un ufficiale di cavalleria e disegna per terra, e tutti si piegano con lui: «È un modo di prendere appunti. E, come tutti, io stesso poi non li capisco». Ci sono pure due grandi piscine di marmo abbandonate, una coperta e l’altra scoperta, con il trampolino in pietra: «Sembra di vedere l’Italia della ginnastica nell’inaugurazione del 1934». Sono le cinque del pomeriggio e batte ancora il sole: «Credo che rimettere in funzione la piscina scoperta non costerebbe molto. Certo, se si dovesse passare dalla Sovrintendenza, i costi aumenterebbero. Ed è un altro paradosso questo delle cose giuste e dovute che fanno male. Guardate questi tappeti di gomma nera applicati sul marmo per aiutare i disabili. Fanno benissimo a metterli, ma perché così storti e brutti?».
Torno l’indomani, quasi a mezzogiorno, al mercato del Tufello. È la borgata che fu costruita con materiale di scarto della speculazione edilizia, la zona cantata dal rapper Rancore: “Giro cor cortello quando giro per Tufello / giro cor cortello quando passo di qui”. È facile essere mandati a quel paese. Un giovane pescivendolo, provocato, offre stati d’animo: «Ma che periferia, te poi gratta’ er cazzo dove te pare, ma se te lo gratti ar Tufello, fai scintille». Mi dice pure il nome, mi pare napoletano, Giuseppe Abbatino: sei nato qui? «Sì, ma so’ egiziano». Che fa tuo padre? «Faceva il muratore». Morto? «No. Disoccupato». Piano mi dice che «gli abitanti delle periferia negano che il loro quartiere sia una periferia. Rifiutano il sostantivo che è diventato aggettivo dispregiativo. Non vogliono essere periferia. E invece hanno ragione giovani e artisti che sempre più rivendicano con orgoglio il sentirsi periferia come motore, anche etico, di una creatività che spesso nella Storia si è espressa nel cosiddetto pensiero laterale, in ciò che sta di fianco, che è fuori norma, diverso e sorprendente, che si spinge oltre il Centro delle abitudini consolidate: il pensiero è periferia. Posso ben dirlo io che sono nato nella periferia di Genova dove “le montagne - dicevano i rivali veneziani - sono senza alberi e il mare senza pesci”. È ovvio che il Tufello affascini perché è un luogo dove ancora si costruiscono i sogni. A me piacerebbe che qualcuno dei miei giovani architetti ci venisse a vivere, ci prendesse casa. Se avessi 20 anni ci verrei io». Espongo il progetto di Piano ai ragazzi che vendono il pesce e non sanno nulla della sopraelevata di New York: «Noi er parco ce l’abbiamo già, ma è abbandonato. Ci portano i cani a pisciare». C’è il rischio che il degrado si riprenda domani quello che gli viene tolto oggi? «C’è il rischio - dice Piano - perché il futuro è sempre un rischio. Solo i conservatori pensano che il futuro sia opera del diavolo. Le periferie sono il futuro. In ogni città almeno l’80 per cento degli abitanti vive in periferia ». Il degrado dipende solo dalla cattiva politica? «No. Ci vuole l’amore, fosse pure sotto forma di rabbia, ci vuole l’identità, ci vuole l’orgoglio di essere periferia». Organizziamo il “Periferia Pride”? «Sarebbe ora».
Decidiamo di chiamarlo “Coatto Pride” perché il futuro dell’umanità è nelle mani sue, del coatto, che vuol dire sospinto, pressato, col corpo incassato in se stesso e dunque rannicchiato, seduto sulle calcagna come un indiano, accoccolato come un rospo, accovacciato attorno al fuoco che è la maniera più semplice e selvaggia di impossessarsi di un terreno, magari mentre il pascolo bivacca, «perché la periferia è anche uno stato d’animo, può significare rinchiudersi e farsi rinchiudere ma anche diventare abusivi e abusare di quei “frammenti di città felici che - ha scritto Calvino - continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. A vent’anni a Milano per me la musica era il Capolinea, famoso locale di periferia lungo i Navigli. È diventata città, poteva diventare barbarie ». Canta Rancore: “Prima o poi, supererai la paura del buio… / Un mondo più bello di questo dov’e?”. Il titolo del rap è “Capolinea”.
Repubblica 12.5.14
Tutte le lingue degli italiani
Come si dice a Milano “sciapo”? Dite “sette e mezzo o mezza”? Usate “gli” o “le”?
Uno studio decennale, da nord a sud, migliaia di dati. Ecco come parliamo
di Francesco Erbani
Qual è l’aggettivo usato per indicare che un cibo è senza sale? Stare in piedi o stare all’impiedi? Lei adopera il pronome gli indifferentemente per il maschile e il femminile? Senza nessuna intenzione normativa, quella che vuole stabilire se si dice così e non così, due storiche della lingua, Annalisa Nesi e Teresa Poggi Salani, hanno guidato per oltre un decennio un gruppo di colleghi, e anche di studenti, di giovani laureati e dottorandi, che in 31 città hanno cercato di documentare l’uso e la consapevolezza che si ha dell’italiano. È stato uno sforzo notevolissimo, sostenuto dall’Università di Siena e patrocinato dall’Accademia della Crusca. E non per compilare un dizionario, ma per sondare la diffusione della nostra lingua, la sua articolazione regionale e locale.
Dove, quanto e perché si predilige ora rispetto ad adesso e in quali contesti, invece, si va sul mo’. Emerge la sostanza reale dell’italiano, spiegano Nesi e Poggi Salani, «il suo sapore», il valore effettivo di certi fatti lessicali, sintattici e morfologici. Non l’italiano scritto, ma quello parlato, corrente, che si adopera quotidianamente a Torino e a Lecce, a Livorno e a Nuoro, a Verona e a Latina...
Nessuna fotografia potrebbe restituire una realtà tanto variabile, se non immergendosi e navigando in una banca dati che accumula 80 mila voci. E anche tentare una sintesi di un materiale così vasto è difficile. Convivono comunque due tendenze, segnalano le ricercatrici. Una all’uniformità, alla distribuzione ormai omogenea dell’italiano in tutto il territorio nazionale, senza significative differenze fra Nord e Sud, per esempio. L’altra tendenza consiste nel conservare, comunque, una certa quantità di varianti rispetto allo standard, varianti che a loro volta si standardizzano, prime fra tutte quelle dialettali, ma non solo, con buona pace di chi dei dialetti ha più volte annunciato la morte. L’italiano è insieme una lingua comune e differenziata, scrive nell’introduzione Francesco Bruni. E ne escono confermati gli accertamenti del linguista Tullio De Mauro sui dati Istat: solo nel 2006 coloro che parlano sempre in italiano diventano la maggioranza relativa (45,5 per cento), superando di pochissimo quelli che usano sia l’italiano che il dialetto (44,1) e distanziando nettamente quelli che si esprimono sempre in dialetto (5,4), i quali erano ancora la maggioranza non un secolo fa, nel 1982 (36,1).
Lo studio è fondato su un questionario di 230 domande. S’intitola La lingua delle città (la sua sigla è LinCi), è composto di due volumi, uno con tutti i dati raccolti in un cd, l’altro contenente saggi scientifici (edito da Franco Cesati). Il lavoro viene presentato domani all’Università di Siena dalle autrici, dalla presidente della Crusca, Nicoletta Maraschio e da De Mauro.
L’indagine si muove su terreni in gran parte inesplorati (un lavoro simile fu compiuto nel 1956 da uno studioso svizzero, Rüegg). I campi del sondaggio sono le forme di saluto, il corpo umano, i mestieri, gli oggetti domestici, i cibi… Non si registra solo il parlato: si chiede a un campione di 12 persone in ognuna delle 31 città esaminate («ma il lavoro procede, anche se su base quasi volontaria essendo esauriti i fondi», spie- ga Annalisa Nesi), un campione appartenente a fasce di età e formazioni culturali diverse, di riflettere sulla lingua che parlano. Di dare risposte secche, ma anche di ragionare, di sondare opzioni diverse. Di fare, come dicono gli studiosi, una riflessione metalinguistica.
Torniamo all’esempio del pronome gli. «L’uso polivalente, per maschile e femminile, è maggioritario», dice Nesi, «senza sensi di colpa, fino all’ammissione della sua correttezza ». Ma, sollecitati dai “raccoglitori”, da chi porge la domanda, le persone interrogate si spiegano meglio: «Correntemente molti usano gli per il maschile e il femminile; io ci sto attento », dice un intervistato a Milano. E c’è anche chi aggiunge che, scrivendo, non si riferirebbe mai a un’espressione femminile con gli. Sorprendente, sottolinea Nesi, che i meno criticamente riflessivi sull’esistenza di una regola che può essere violata siano i toscani, «per la loro pretesa di “saper di grammatica”».
L’uso polivalente, ma scorretto, di gli, mostra comunque che le variazioni dallo standard italiano non sono solo dialettali. Anche se queste sono le più consistenti. Un altro caso citato da Nesi: «se potevo venivo» usato invece del più proprio «se avessi potuto, sarei venuto». «Risponde all’obiettivo, tipico del parlato, di economizzare», insiste Nesi. «È un fenomeno non nuovo, già riscontrato nei testi dell’italiano antico, poi contrastato dalle istanze normative del Cinquecento».
La domanda 113 chiede di esprimersi su un cibo “scarso di sale”. Insipido, spiegano Nesi e Poggi Salani, è stabilmente accertato nelle regioni settentrionali, in Sardegna e a Lecce («84 informatori su un totale di 96 in queste aree»). A Milano sussistono varianti minoritarie: dissapito, poco salato, dolce. Un intervistato se la cava con manca il sale. Un altro ancora con «in milanese si diceva fat, fato». A Roma e in Toscana le resistenze sono più forti. Nella capitale domina sciapo, con una sola eccezione: poco saporito. La Toscana è compatta su sciocco, con la sola eccezione di Carrara, che ha influenze più settentrionali, dove torna a prevalere insipido.
« Sciocco è saldissimo e anche il parlante senese o livornese di buona cultura non sospetta neanche che questa minestra è sciocca si dice solo in Toscana».
Come per insipido si è poi fatto per fruttivendolo (che metà degli interpellati a Roma e tutti i reatini e i viterbesi chiamano fruttarolo) , per livido e per l’alternativa bernoccolo, per sette e mezza opposto a sette e mezzo, per calorifero, radiatore o termosifone, per abbi pazienza o porta pazienza.
«Sempre meno il rapporto tra italiano e dialetti viene percepito come conflittuale», aggiunge De Mauro. «Causa ed effetto di ciò è stato il diffondersi di un atteggiamento mutato nei ceti colti o, comunque, più istruiti. Nella scuola è cessata la caccia alle streghe dialettali e le realtà dialettali hanno goduto di una più benevola attenzione a vari livelli della vita intellettuale». Nel Gradit, il Grande dizionario della lingua italiana dell’Utet, sono ottomila le parole diffuse sul territorio nazionale, ma di origine dialettale. Per contro l’italiano è diventata «la lingua del cuore “che da ciuchi l’impareno a l’ammente e la parleno poi per esse intesi”, come diceva il popolano di Giuseppe Gioachino Belli». Nonostante i limiti più volte segnalati sempre da De Mauro: quel trenta per cento scarso di italiani, tendente ancora a diminuire, che con sufficiente sicurezza si orientano fra libri, giornali, istruzioni di farmaci, informazioni bancarie, documenti legislativi.
il Fatto 12.5.14
Il segno degli ebrei alla guerra di Spagna
di Furio Colombo
Si deve a Gianfranco Moscati, studioso e collezionista di vicende ebraiche contemporanee, un piccolo libro con molti inaspettati e quasi ignoti documenti sulla partecipazione di volontari ebrei nelle brigate internazionali che si sono battute contro l'insurrezione fascista di Francisco Franco nella “guerra di Spagna”. I Volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin è il volume di appena 55 pagine (con moltissimi documenti), che “La Collezione Granfranco Moscati” ha appena pubblicato, a cura del medico e storico torinese Gustavo Ottolenghi, già autore di Storia postale dell’antisemitismo nazista e di Racconti ebraici.
DAL MOMENTO CHE LA RIVOLTA militare e fascista contro la Spagna repubblicana appare ormai con chiarezza come il debutto militare del nazismo e del fascismo, nella storia europea, non avrei più usato il termine “guerra civile”. Come hanno ricordato a lungo i reduci di una parte e dell'altra di quella guerra sanguinosa, spietata e profetica, ciò che è accaduto in Spagna e che ha bloccato per decenni quel Paese congelato dal franchismo, è la prima crudelissima parte della seconda guerra mondiale, e prefigura tutto ciò che stava per accadere. Della Compagnia Botwin, (che prende il nome da un giovane sindacalista polacco condannato a morte negli anni Venti) sappiamo adesso dal libro che ha avuto sette comandanti, tutti morti in combattimento in un solo anno (1938), che ha avuto un organico di 160 uomini, e ne ha persi 66 in combattimento . È vero, la partecipazione ebrea alla guerra di Spagna è stata molto più alta, 7.760 volontari su 35 mila delle Brigate Internazionali. Ma la Compagnia Botwin aveva la sua bandiera con la scritta del nome in ebraico, il suo inno, in yiddish. E un giornale (con titoli in ebraico) che riuscirono a pubblicare per oltre un anno. Un cippo ricorda la Compagnia del parco di Barcellona. Ma, fanno notare Moscati e Ottolenghi, non è materia che si studi nelle scuole o a cui siano stati dedicati capitoli nei tanti testi sulla guerra di Spagna.
Eppure così pochi uomini lasciarono un segno in alcuni eventi indimenticabili: sono combattenti della Compagnia Botwin molti dei miliziani che appaiono nelle celebri fotografie di Robert Capa e Gera Taro. E fu Irving Groff, l’uomo che condusse l’attacco al ponte sul Guadalquivir, a ispirare a Hemingway la figura del protagonista in Per chi suona la campana.
Ma se avrete fra le mani questo piccolo libro, leggete le didascalie sotto le fotografie dei comandanti e dei combattenti ebrei in Spagna. Coloro che non sono morti in Spagna (i più fucilati dai franchisti) e sono riusciti a fuggire in Francia, sono stati internati dai francesi e poi consegnati ai nazisti e finiti nei campi di sterminio. Altri sono caduti nella Resistenza. Altri ancora, vi dice lo studio e la ricerca di Ottolenghi, sono morti combattendo nel ghetto di Varsavia, e nella Resistenza europea. Tutto ciò spiega, credo, l’importanza della pubblicazione.
Corriere 12.5.14
Bahrami: «Bach è la salvezza Consola dal dolore di Lampedusa»
Le note in fuga aiutano chi naviga tra le contraddizioni della vita
di Francesco Cevasco
C’è un posto piccolo così, appollaiato sulla Riviera ligure di Ponente. Si chiama FinalBorgo. È sospeso, in volo, sopra Finale, terra di fabbriche che stanno dismettendo e di mamme che portano i bambini al mare. Eppure quel posticino, strade strettissime come i caruggi genovesi, mura aristocratiche come quelle elevate dai padroni di una volta delle terre e del mare, accoglie, anche quest’anno, e per la settima volta di seguito, la Festa dell’inquietudine; un delirio di candidati al Nobel e di candidati al manicomio che si esibiranno su questo tema: «La Fuga». Chi non ha pensato, almeno una volta nella vita, di fuggire da…
Elio Ferraris, che della Festa dell’Inquietudine è l’artefice, snocciola: «La nostra è una fuga di cervelli, di capitali, di gas, di un ciclista, fuga da se stessi, da un luogo, da una relazione, dalle proprie responsabilità, fuga epilettica, latitare, fuga in Egitto, fuga nel sogno, fuga d’amore, arte della fuga. Ogni fuga si coniuga con l’Inquietudine e di essa è causa o conseguenza».
Per capirci: dal 15 al 18 maggio a FinalBorgo si esibiranno 29 maestri della Fuga. A cominciare da Ramin Bahrami, faccia da bambino anche se ha 38 anni, iraniano cui i fanatici integralisti hanno ammazzato il babbo e che ha fatto — giustamente — della fuga la sua ragion di vita. E adesso ha trovato in altre fughe, quelle di Bach, la sua salvezza. Come le esegue lui, forse nessuno. Come Bach mi ha salvato la vita , scrive in un libro autobiografico (Mondadori). Sarà lui a ricevere il premio «Inquieto dell’anno». Nemmeno un euro. Ma una pentolaccia, «sghimbescia» (cioè storta, asimmetrica) con dentro un pezzo di stoffa con su scritto il suo nome: Ramin Bahrami. Il premio sarà condiviso con la gente di Lampedusa. Inutile spiegare perché.
Un attimo prima di arrivare a Finale, Bahrami è a Salisburgo. Da lì dice: «Mi trovo in questo momento in uno dei posti più belli del mondo e che ispirano tanta serenità, in particolare a chi ama la musica. Salisburgo. L’avverto come contraltare di un luogo dove in questi momenti alberga tanto dolore: Lampedusa. Ecco che nella mia mente la musica di J.S.Bach è consolatoria e mi aiuta a superare le tante difficoltà e contraddizioni della vita. Bach è salvezza. La traduzione del suo nome è “ruscello”. Beethoven sostenne che il significato vero era “oceano”, tanto grande è l’opera di Bach: tanto grande da evocare l’immensità del mare». E l’inquietudine? «Sta nello scopo della mia vita: navigare in questo mare».
E tutti i fortunati che arriveranno a FinalBorgo (magari per caso, qui è pieno di ciclisti arrampicatori di salite, di umani arrampicatori di colline verticali come le montagne, di cercatori di acque di mare fredde, di velisti a caccia di vento, di surfer sospesi su onde lunghe) troveranno qualche cosa attorno alla quale fare un pensiero non banale. Tipo: Mister Richard Zenith vi racconterà il Livro do desassossego di Fernando Pessoa, nient’altro che il Libro dell’inquietudine . Pier Franco Quaglieni vi racconterà l’inquietudine di Norberto Bobbio stretto tra utopia dell’eguaglianza e necessità di giustizia. Paola Mastrocola vi racconterà l’inquietudine di chi deve districarsi tra il duro mestiere di insegnante e quello di genitore. Emanuela Rosa Clot vi racconterà come una gardenia possa dare un senso alla vostra vita. Dario Caruso vi racconterà come una fuga incisa su uno spartito possa farvi uscire dalla dimensione di maschio-femmina e entrare in «una inquietudine che si placa cedendo a noi posteri il testimone della sua bellezza». Ilaria Caprioglio vi racconterà non soltanto perché i nostri giovani colti vanno a cercare fortuna all’estero, ma anche perché (masochisti?) tornano in Italia. Edoardo Boncinelli vi racconterà dove andremo a finire: sapete quelle cose che leggiamo sui giornali — e che non ci capiamo niente — tipo al Dna hanno aggiunto una XY che tra quattro milioni di miliardi di anni noi umani cloneremo un essere quasi umano… Andrea Vitali, lo scrittore che non ha mai alzato le chiappe dal suo lago di Como, vi racconterà come fuggire significa stare sempre nello stesso posto. Domenico Quirico vi racconterà come fare l’inviato di guerra in Siria può significare stare 152 giorni prigioniero di quelli che pensavi — forse — hanno ragione. Ernesto Ferrero vi racconterà, con la sua eleganza, che cosa significava essere europei in Egitto l’altro ieri, ieri e oggi.
Se poi, tutto ciò vi dà alla testa, ecco la soluzione: la Festa dell’Inquietudine prevede aperitivi pisicologici: al prosecco vengono abbinate chiacchiere terapeutiche. E, per finire, il re della fuga: il mago Houdini. Vi racconteranno tutti i suoi trucchi per fuggire dalla realtà.
Reali, invece, sono il sindaco di Finale, l’aristocratico Flaminio Richeri; l’assessore alla cultura, l’imprevedibile Nicola Viassolo; il presidente musicista del Circolo degli inquieti Dario Caruso che hanno dato un senso a qualcosa che senso non ha: l’Inquietudine.
Repubblica 12.5.14
Un provinciale ma di successo così il Salone vince la sfida
Record di presenze nonostante pochi autori stranieri e ospiti scontati Una folla di giovani salva il Lingotto
di Curzio Maltese
NON c’è crisi per il Salone. Nell’anno più nero dell’editoria italiana la festa del libro di Torino straccia ogni record e sfonda la quota di 340 mila visitatori. Il segreto di tanto successo è forse molto semplice. Il Salone è uno specchio del Paese e la gente si ritrova a casa. Nel bene e nel male, s’intende. Cominciamo dal male, perché siamo più abituati a darci addosso. Per essere un grande evento internazionale, il Salone è un po’ troppo provinciale. Pochi scrittori stranieri, tolti i soliti affezionati, non diciamo indiani e cinesi, ma nemmeno americani o europei. Poco mondo anche nei dibattiti, dove prevalgono temi e sguardi tutti nostrani. E d’accordo che si taglia ovunque e quest’anno l’ospite straniero era lo Stato del Vaticano, ma insomma.
In compenso molta e forse troppa televisione. Come ovunque nell’Italia ipnotizzata dal piccolo schermo. Perché se è vero, come ha detto Franceschini, che la nostra signora televisione non parla di libri, bisogna aggiungere che quando lo fa, al novanta per cento, si tratta di marchette per far vendere libri del centinaio di giornalisti, politici e teledivi di cui si popolano già da mane a sera i palinsesti pubblici e privati. Sfugge dunque il senso di voler replicare al Salone di Torino gli stessi salotti televisivi con i soliti noti.
Il terzo vizio è l’autorefenzialità, per giunta lagnosa, altra piaga nazionale. Editori dibattono ovunque della crisi del libro, come i politici si danno convegno sulla crisi della politica, architetti sulla fine dell’architettura e così via. Mai un sospetto che se tutti questi si concentrassero un po’ di più sul vasto mondo esterno all’albo professionale, magari la crisi passerebbe.
E allora che cosa rimane di buono? Tantissimo. Vi sono la cortesia e l’efficienza di un’organizzazione quasi perfetta, nello stile di Torino. Lo splendore di una città che sta diventando con merito, ogni anno di più, una meta di turismo intelligente. E l’allegria del pubblico. In maggioranza composto di donne e di giovani. Non troverete in nessun grande evento culturale del mondo, festival della letteratura o del cinema o del teatro, un pubblico tanto giovane e tanto femminile. Decine di migliaia di adolescenti che magari fanno la fila per la Littizzetto o Fabio Volo, ma poi finiscono negli stand dei piccoli editori a scoprire capolavori sconosciuti ai programmi scolastici. Generazioni cresciute in mondi virtuali, naviganti precoci di Twitter e Facebook, abboffate di videogiochi dai genitori disposti a svenarsi per la Playstation 3 piuttosto che a spenderne una decina per Guerra e Pace, che pure sono capaci d’incantarsi ancora davanti a un libro da sfogliare, leggere, amare. Il mondo non si sa, ma almeno la scrittura la salveranno questi ragazzini.
Corriere 12.5.14
Tre virtù per il Salone del libro di Torino
di Gian Arturo Ferrari
A priori non era scritto che Torino dovesse diventare, come è diventata, la capitale morale del libro (e fors’anche della cultura) in Italia. Dignità quest’ultima cui è stata definitivamente elevata e per così dire consacrata dalla ventisettesima edizione del Salone, che oggi si conclude. Una consacrazione non solo metaforica, visto che il Paese ospite è stato quest’anno la Santa Sede e che il contributo più profondo e anche più seguito è venuto da agguerritissimi (sul piano culturale, s’intende) cardinali.
Alla fine degli anni Ottanta, quando il Salone nacque, altre erano le città italiane in cui libri e cultura parevano destinati a trovare stabile dimora. Alcune, leggasi Milano, per la concentrazione pressoché totale in loco delle capacità imprenditoriali. Altre, leggasi Roma, per la vivacità e la brillantezza dell’iniziativa pubblica. Torino, monarchica di una strana monarchia pluridinastica e borghese, factory town declinante, patria di fatto o di elezione di quasi tutti i segretari del Pci e dei partiti derivati, pareva avviata a un lento e onesto tramonto. E, culturalmente parlando, all’insignificanza. Se così non è andata lo si deve principalmente all’esercizio assiduo di tre virtù, che per essere nel nostro Paese poco popolari, poco apprezzate e ancor meno praticate, meritano non solo la menzione, ma qualche illustrazione. La prima è la perseveranza. Che vuol dire restare fedeli a una propria idea, a una propria visione delle cose resistendo agli inevitabili scoramenti e considerando ostacoli, intoppi e cadute come qualcosa da varcare o aggirare, ma di fronte ai quali non rinunciare, non arrendersi. Anche quando la situazione si era fatta grave, e in alcuni momenti lo è stata, la città di Torino e le istituzioni piemontesi hanno trovato la forza — anche concreta, economica — di far fronte, di non cedere, di perseverare. La perseveranza dei cittadini, dell’elettorato, ha consentito di mantenere un assetto politico sostanzialmente stabile per un arco di tempo molto lungo. La perseveranza della politica ha consentito prima di scegliere poi di applicare un indirizzo secondo il quale la cultura era non un doveroso accessorio, ma l’investimento principale della collettività. Altre città e regioni italiane hanno goduto di analoga o persino maggiore stabilità, ma nessuna ha compiuto una scelta così netta e così chiara. E andando a fare i conti si scoprirebbe forse che la città e la provincia di Torino, insieme con la Regione Piemonte, hanno investito in promozione della lettura più dello Stato italiano. La perseveranza dei gestori e dei responsabili culturali ha fatto il resto, ha cioè affermato in concreto un principio di libertà e di apertura a tutte le voci.
La seconda virtù è la solidità. Che vuol dire principalmente rifuggire dal melodramma nazionale, quell’oscillazione perpetua tra il faraonico e lo sconquassato. Il Salone internazionale del libro di Torino, grazie a Dio, non si è mai proposto mete grandiose, cambiamenti epocali della sensibilità, eventi di portata planetaria. E Torino è stata, attentamente, al suo. Guardandosi intorno con l’aria un po’ circospetta degli agricoltori piemontesi. Quell’aria che doveva avere anche il senatore, poi Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi quando acquistava le cartoline postali, dal costo di 7 centesimi l’una, tre alla volta. Per farsi dire dal tabaccaio, mentre si frugava in tasca: «Ma lasci stare, senatore, cosa vuole che sia per un centesimo!».
Il Salone del libro, come le altre istituzioni culturali torinesi, non ha inseguito chimere. Ha coltivato serenamente il proprio campicello. Serenamente anche perché sapeva che il suo campicello era grande come il mondo, era il sistema nervoso del mondo. Ma sempre nei suoi confini è rimasto. Il che ci porta diritto alla terza virtù, che è la manutenzione. La quale manutenzione non viene in genere annoverata tra le virtù, né cardinali, né teologali. Ma lo dovrebbe essere, specialmente in Italia, dove siamo professionisti del non tenere bene, con cura, con amore, quello che abbiamo. Il Salone del libro è stato invece tenuto bene, con attenzione. E di anno in anno si notano piccoli aggiustamenti, riparazioni, qualche comodità aggiunta. Nulla di emozionante, ma un lavorio continuo, un formicaio di attività sotto la superficie delle grandi manifestazioni, della folla che si accalca — ma poi si siede ordinatamente — per vedere i propri autori più amati. C’è qualcosa di confortante nell’assistere alla reiterazione: le sale, gli stand, i corridoi, persino gli autori. Un contenitore stabile, solido, ben tenuto. Perché intanto il contenuto, sta cambiando, si sente, là in fondo, un sordo brontolio e a qualcosa dobbiamo pure aggrapparci.
Nei corridoi del Salone del libro era percepibile una sensazione di schiarita e di conforto, come di ritornare nel vecchio e amato luogo di vacanza, come di sentirsi un po’ piu’ al sicuro. Come di energia ritrovata per affrontare quello che ci aspetta. Il domani, o più alla torinese, il dopodomani.
La Stampa 12.5.14
L’ultimo inedito di Salinger si chiama Il giovane Holden
Matteo Colombo ha ritradotto il romanzo per Einaudi
di Letizia Tortello
Dimenticatevi l’Holden che avete conosciuto. La copertina è sempre quella. Tutta bianca, come voleva Salinger, perché è importante la storia, non l’immagine di facciata. Quanto al testo, invece, facciamocene una ragione (e teniamoci stretta la copia che abbiamo in libreria, diventerà introvabile): Il giovane Holden non è mai stato così giovane. Praticamente, un esordiente. Einaudi ha deciso di tradurlo una seconda volta. Aggiornarlo. Con il coraggioso lavoro durato due anni di Matteo Colombo, passato al vaglio di severe approvazioni da parte della famiglia dello scrittore, inizialmente contraria a qualunque intervento sul testo.
Sono passati 63 anni dalla pubblicazione del longseller – era il 1951 – e 53 dalla traduzione che tutti abbiamo conosciuto di Adriana Motti. Per un classico che sembra scritto ieri, saper parlare alle nuove generazioni sul canale giusto è doveroso. Così, Einaudi si è fatta forza. Ha pesato sulla bilancia una perdita di copie importante, con il passare del tempo. E ha deciso di rischiare.
Ha affidato alle mani di Colombo, trentasettenne di Acqui Terme, ora residente a Berlino, faccia temeraria e rassicurante, l’impresa titanica. Niente più «infanzia schifa», o espressioni così. Un libro che è tutto il suo linguaggio, e che negli Anni 60 doveva fare i conti con la censura delle volgarità, oggi può dare spazio perfino alle parolacce. «Perché non ha più senso tradurre goddam con “dannazione” - spiega Colombo -. Holden ha un linguaggio povero, ristretto. Da quindicenne di forti opinioni condanna con disprezzo persone e situazioni che ritiene false. Usa la lingua in modo difensivo. È pieno di contraddizioni. Questo non risultava in tutta la sua pienezza».
Rabbia, disagio di un giovane che si confronta con l’età adulta, eppure un animo sensibilissimo. Che il nuovo traduttore - all’attivo decine di titoli di narrativa americana contemporanea, da Don DeLillo a Palahniuk, dice di aver «tirato fuori meglio di chi mi ha preceduto. Anche se Adriana Motti ha avuto tanti meriti». La traduttrice di mezzo secolo fa non conobbe mai lo scrittore, gli fu vicino con un carteggio. L’Einaudi dovette fare i conti con le proteste accese dello scontroso Salinger. «Ho ritrovato - dice Colombo - due telegrammi, in cui si diceva disgustato e risentito per la sovracopertina del libro. La Motti parlò di questo, in lunghe lettere inviate all’Einaudi, con Calvino, Fruttero, Foa».
Ma quando si inizia la scalata, tornare indietro non si può. «Se sento il peso della responsabilità? Certo, di qui in poi Salinger passerà dalle mie parole. Ma è stato facile. Ho ascoltato il testo originale. Il mio Holden, oggi, è più fedele». Un salto notevole, tra la versione di ieri e quella lanciata da Einaudi al Salone del libro (con un reading a cui hanno partecipato Giuseppe Culicchia, Concita De Gregorio, Diego De Silva, Fabio Geda, Paolo Giordano, Maurizio de Giovanni, Joe Lansdale, Elena Loewenthal, Paola Mastrocola, Michela Murgia e Anna Nadotti), Colombo l’ha compiuto cambiando il tempo verbale con cui il protagonista racconta: «Dal passato remoto al passato prossimo». Osare per osare, perché non aggiornare anche il titolo? «Quello più autentico sarebbe “Il pescatore nella segale”, ma tutti continuerebbero a chiamarlo Il giovane Holden”. Ci sono anche questioni di marketing da considerare».
Ma c’è un trucco, che Colombo ha avuto a disposizione, e la Motti no: «Google. Nell’era di Internet, e della parola che può essere cercata per immagini», tradurre è quasi un altro mestiere che negli Anni 60. «Salinger oggi», modestia a parte, ma neanche troppo, «sarebbe più contento del risultato».
Repubblica 12.5.14
Eugenio Scalfari e la difficile arte di incontrare sé attraverso gli altri
Alla kermesse di Torino il fondatore di “Repubblica” racconta ai lettori i grandi personaggi della sua vita
di Simonetta Fiori
DA GIANNI Agnelli a papa Francesco, dal banchiere Mattioli a Renzi. E poi il “principe biondo” Caracciolo e mille altri protagonisti della storia italiana. Con tutti Eugenio Scalfari ha discusso, contrattato, talvolta litigato. Recita il risvolto del suo ultimo libro: «Un’esistenza eccezionale».
E l’aggettivo appare il meno enfatico.
Sono stati in tanti ieri a volere condividere le passioni e gli incontri d’una vita, nel consueto appuntamento con il Salone del Libro. Un lungo viaggio “dentro” e “fuori” di sé che Scalfari ripercorre nel suo ultimo Racconto autobiografico (Einaudi), presentato a Torino insieme a Bruno Manfellotto. Storie private e storie pubbliche, perché non ci può essere distinzione. E la sua vita sarebbe stata diversa senza «le ricchezze e i sortilegi » ereditati dagli avi calabresi. E senza i grandi amori. E senza l’incontro con i suoi “maggiori” Raffaele Mattioli e Ugo La Malfa, Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, rievocati tra gli applausi di moltissime persone che forse sarebbero state diverse senza i suoi giornali.
Il filo di una vita «non serena ma fortunata e felice»? Innanzitutto la libertà. A cominciare dagli articoli che scriveva sul Mondo, che provocarono il suo licenziamento dalla Banca Nazionale del Lavoro. «Attaccai la Federconsorzi che era il principale cliente della banca. Così Bonomi chiese la mia testa». Libertà nel trattare con Adriano Olivetti ed Enrico Mattei per l’avventura dell’ Espresso. Libertà nelle sue celebri campagne contro Cefis e la “razza padrona”, che qualche problema gli avrebbe procurato anche con Agnelli: «Non approvavo che consentisse a Cefis la scalata al Corriere. “Avvocato di panna montata”, lo liquidai su Repubblica. Per molti mesi smise di chiamarmi. Poi un giorno una telefonata: le andrebbe di intervistarmi? Voleva liceziare Romiti».
Se la vita è l’arte dell’incontro, Scalfari l’ha esercitata con rara sapienza. Tra tutti giganteggia il sodalizio con Caracciolo: «Era un editore con straordinarie intuizioni. E capiva se facevi una cattiva scelta». I viaggi e le sfide, l’incontro con Jean-Jacques Servan-Schreiber a Parigi e con l’editore del Daily Express a Londra. «L’editore inglese non comprese il cognome principesco di Carlo, scambiandolo con quello di un noto sarto di vestiti maschili: in che modo posso essere utile mister Caraceni?». E poi ancora Montale e Pirelli, Valiani e Strehler. L’Italia testimoniata da Scalfari è un paese in cui ancora esisteva una robusta classe dirigente. Oggi Scalfari dialoga con papa Francesco. «L’ultima volta abbiamo parlato dell’amore per il prossimo. Per amare il prossimo, ho detto, devi amare te stesso. Più che te stesso, ha corretto il pontefice. Non ne ho potuto scrivere, ma mi sembra un grande tema».