l’Espresso 2.5.14
Quelli che Renzi no
Cominciano i guai per il premier. Che fa i conti con i nemici: banche, boiardi di Stato, industriali. Fino a Fi e minoranza Pd
di Marco Damilano
Non è ancora una preoccupazione, ci mancherebbe, per un ottimista come il premier significherebbe tradire il dna, soprattutto a ormai quattro settimane dal voto per le elezioni europee. Né a intimorire l'ex sindaco sono gli avversari, i soliti «gufi» o «rosiconi», come il capo del governo usa definire i critici delle mosse governative, in modo assai poco istituzionale. «Ma negli ultimi giorni qualcosa è cambiato», ammette Matteo Renzi. Che sfodera di nuovo l'arma da fine del mondo: «Non resto qui a tutti i costi. Sono pronto ad andare a casa». Un clima da fine luna di miele, non tanto con l'opinione pubblica, punto di forza di tutta la strategia renziana (il livello di gradimento sia pure in flessione continua a restare molto elevato), ma con i poteri forti e diffusi che all'inizio dell'anno hanno puntato su un cambio di marcia (e di inquilino) a Palazzo Chigi. E che cominciano a presentare le prime insoddisfazioni o delusioni, in parallelo con alcuni leader di partito e spezzoni di forze politiche.
Banche, industriali, giornali. Boiardi di Stato e grand commis. Associazioni di categoria. La minoranza del Pd e la maggioranza di Forza Italia. Un groviglio di interessi che punta a seminare dubbi sulla perfetta macchina propagandistica del governo, se non a bloccare, a rallentare la marcia del premier. Un fronte della resistenza, variegato, che accomuna le critiche giuste e fondate alla strenua difesa della ditta, della lobby, del particolare. Il premier procede ad alta velocità, il movimento No-Renzi, finora sussurrato, si sta organizzando. È in crescita, non ha dichiarato guerra aperta perché indebolito e frammentato, ma si è messo in azione costringendo il premier alle prime retromarce. Ed è molto trasversale.
Sul decreto sul mercato del lavoro firmato dal ministro Giuliano Poletti, per esempio, la Cgil ha alzato la barricata, senza portare a casa grandi modifiche. In una riunione con Cesare Damiano, ex sindacalista della Fiom, esponente di peso della minoranza Pd e presidente della Commissione Lavoro la sinistra del partito aveva chiesto al premier che la durata del contratto fosse al massimo di 24 mesi e con l'obbligo di causale: è finita con la conferma dei contratti a trentasei mesi e senza l'obbligo di indicare le ragioni per l'apposizione del termine. Ma l'ostilità del sindacato si è fatta sentire nell'iter parlamentare. Sul versante opposto, quello degli imprenditori, il quotidiano della Confindustria "Sole 24 Ore" da giorni dedica la prima pagina a ridimensionare il decreto Irpef, quello che contiene il bonus di 80 euro, considerato dal premier la benzina di tutta la Renzinomics, oltre che della campagna elettorale. «Edilizia, solo 244 milioni per le scuole», titola il foglio confindustriale il 26 aprile (Renzi aveva annunciato 3,5 miliardi). «Tagli strutturali rimandati a settembre», si avverte lo stesso giorno. Il 27 aprile il direttore Roberto Napoletano scrive una lettera aperta al premier: «Questo Paese non ha bisogno di un uomo solo capitato da Marte, anzi, da Campo di Marte... È paradossale che un giovane presidente del Consiglio, come è lei, indulga alla veduta corta, l'esigenza di comunicare il risultato di oggi. L'Italia chiede di credere in un sogno, ma non merita di ripercorrere sentieri "illusionistici" che hanno segnato (amaramente) la Seconda Repubblica». Un giudizio severo che rispecchia l'atteggiamento dell'organizzazione degli industriali e del presidente Giorgio Squinzi, impaziente di un cambio di passo nei giorni dell'agonia del governo Letta ma accomunato da Renzi alla Camusso, «sono la strana coppia che non vuole le riforme». Da viale dell'Astronomia, finora, è arrivato un prudente via libera alla riforma del mercato del lavoro e al decreto Irpef, espressi a cosa fatte. Perché di certo, ed è uno degli strappi principali con il passato, il governo Renzi ha eliminato tavoli verdi, negoziazioni preventive, la concertazione del passato. A nessuna parte sociale è riconosciuto un diritto di veto. Un cambio di verso che colpisce la Cgil, la Cisl e gli altri sindacati al pari della Confindustria. E le organizzazioni colpite nel loro ruolo si difendono, come possono.
Si è schierata contro il governo L'Anm, l'Associazione nazionale magistrati, sugli stipendi delle toghe. E si è mobilitata l'Abi, la potente associazione delle banche italiane, un tempo presieduta da Giuseppe Mussari di Monte dei Paschi di Siena, oggi da Antonio Patuelli, un caso di auto-rottamazione precoce, nella Prima Repubblica era diventato deputato e poi vicesegretario del Partito liberale a 32 anni, più giovane di Renzi, immancabile nel pastone dei tg che andavano di moda all'epoca, nella Seconda Repubblica si è riconvertito come banchiere alla guida della Cassa di Risparmio di Ravenna. Patuelli è stato avvisato dal premier della stangata sulle quote di Banca d'Italia, una botta da 2,1 miliardi, a decisione presa. «Avreste dovuto vedere la sua faccia. Non se l'aspettava», ha commentato Renzi. Ma ora l'Abi minaccia ricorsi alla Corte costituzionale o alla Corte di giustizia europea, riserva al governo una trafila di bordate, fa terrorismo psicologico: «Pagheranno i risparmiatori».
Denunce poco credibili in bocca a chi rappresenta gli istituti bancari fortemente invisi a un bel pezzo di opinione pubblica. Così come è difficile che possano trovare ascolto le grida di dolore che arrivano da una parte dell'amministrazione statale, direttori generali, capi dipartimento, consiglieri di Stato, la filiera che un tempo si sentiva protetta dai Catricalà e dai Patroni Griffi, coppia di vertice nei governi e nell'amministrazione, e che oggi appare in rotta e senza punti di riferimento, nel mirino del premier. Ma non è sul grado di popolarità che si giocano queste partite. L'imperativo categorico è resistere, e intanto magari bloccare i provvedimenti del governo. La strategia della palude. E ci pensa Renzi a dare una mano ai suoi nemici con nomine come quella di Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze, al vertice del dipartimento legislativo di Palazzo Chigi, respinta dalla Corte dei Conti per mancanza di requisiti e poi ripresentata. Con i renziani presentati come cacciatori di poltrone la vecchia guardia ha buon gioco a difendersi.
Il fronte No-Renzi ha trovato nelle ultime settimane la sua Fortezza Bastiani a Palazzo Madama, nella commissione Affari costituzionali presieduta da Anna Finocchiaro chiamata a votare per la riforma del Senato e del Titolo V, i poteri delle Regioni. Il suo sottotenente Giovanni Drogo è il senatore toscano Vannino Chiti, alla testa di un drappello di colleghi nel Pd, autore di un progetto che prevede cento senatori eletti e un dimezzamento dei deputati, alternativo a quello del premier e del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Un'iniziativa senza padrini politici, senza la benedizione di Massimo D'Alema e neppure quella di Pier Luigi Bersani («Cosa vuole Chiti? Boh, quando si fissa su una cosa è difficile smuoverlo...», commenta l'ex segretario), ma che ha fatto il pieno dei consensi nell'altra minoranza, quella di Pippo Civati, nel Movimento 5 Stelle e soprattutto nel cuore di Forza Italia. Costringendo Renzi a una marcia indietro su alcuni punti chiave della riforma: via i 21 senatori nominati dal Quirinale, delega alle Regioni per decidere le modalità di elezione dei futuri senatori, taglio del numero dei sindaci-senatori. E a frenare sull'iter delle riforme. «Votare la legge elettorale prima del 25 maggio è fondamentale», ripeteva Renzi nei giorni della nascita del governo. «Non mi impicco alle date», dice ora il premier. Appunto: c'era il rischio di finire impiccato. Tra i balletti del Pd e quelli berlusconiani.
In Forza Italia c'è chi avrebbe il curriculum adatto per aspirare alla leadership di un ipotetico partito No-Renzi: l'infaticabile capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Ogni giorno l'ex ministro martella sul governo e sul premier sul suo house organ, il "Mattinale". Un cahier senza fine: «Renzi governa senza legittimazione democratica, è un peronista, uno spudorato, un giovane sbruffone, vuole una mattanza sociale» e, come se non bastasse, «voleva inquinare la partita del Cuore». Nell'ex cerchio magico berlusconiano c'è chi la pensa all'opposto: Sandro Bondi vorrebbe spingere Forza Italia a votare le riforme renziane, Denis Verdini si muove come un ambasciatore di Palazzo Chigi presso Palazzo Grazioli, più che il contrario. E Berlusconi alterna il sì e il no a Renzi. La campagna elettorale, disperata con i sondaggi che danno Forza Italia in picchiata, impone all'ex Cavaliere di combattere contro il premier. In contrasto, però, con l'unico ruolo che lo tiene politicamente in vita, il patto del Nazareno sulle riforme.
Ecco perché, come ha ammesso Renzi, qualcosa è cambiato. C'è la necessità di rallentare prudentemente, come ha suggerito Giorgio Napolitano, per evitare che il voto sul Senato si trasformi in un palcoscenico per partiti a caccia di visibilità elettorale. Tanto vale rassegnarsi e puntare a fare il pieno alle urne, ragiona Renzi, indicando all'elettorato la responsabilità di chi frena sulle riforme economiche e istituzionali: banche, sindacati, corporazioni, senatori, oltre all'unico nemico dichiarato, Beppe Grillo. Il fronte No-Renzi può trasformarsi perfino in una carta da giocare per un leader abituato a vivere di sfide e di avversari da battere. «Nessuno come lui sa presentare anche un rallentamento come una vittoria», spiega il renziano della primissima ora Matteo Richetti. «E finora ha portato a casa tutto, sul lavoro e sulla legge elettorale». Ma Renzi sa anche che puntare sulle elezioni europee per ottenere quella legittimazione popolare che finora gli è mancata presenta una grave contro-indicazione, soprattutto in una competizione in cui gli elettori si sentono svincolati dal voto utile perché non è in gioco la scelta del governo. Il rischio che i numerosi poteri abituati a vivere di mediazioni possano puntare su un risultato del Pd sotto le attese. Una vittoria contenuta di Matteo, che si trasformerebbe in una quasi sconfitta, è il sogno non dichiarato del fronte No-Renzi
l’Espresso 2.5.14
Chi ce l'ha con i burocrati
di Salvatore Settis
CHISSÀ QUANTI, fra quelli che esultano per la «violenta lotta alla burocrazia» proclamata da Renzi (12 aprile), ricordano che l'identica fatwa fu spesso lanciata da Berlusconi: «La burocrazia è un cancro da estirpare», «bisogna combattere l'oppressione burocratica», e così via. Per non dire
del diluvio di «pacchetti semplificazione» allegati a leggi di stabilità, patti di legislatura e altri testi sacri. Memorabile la "semplificazione della pubblica amministrazione" promessa dal duo Brunetta-Calderoli, con roghi di leggi e simili rituali, presumibilmente celtici. La manovra Tremonti prevedeva di istituire nel Sud «zone a burocrazia zero», demandando gli atti amministrativi al prefetto o a commissari del governo: donde la «prospettiva raccapricciante di un'Italia a due velocità: federalismo
al Nord e accentuazione del centralismo statale al Sud» (Scalfari, Repubblica, 31 maggio 2010).
Di questi raid antiburocratici, lanciati con grandi clamori e zero risultati, non resta nulla. Allora come oggi, viene il sospetto che la loro vera ratio sia mettere nei posti chiave i propri fedelissimi, illudendosi o illudendoci che sappiano miracolosamente "semplificare". E chi è più fedele del proprio medico, del proprio commercialista, notaio, vigile urbano? Ora, la fedeltà al capo è importante (specialmente quando in fedeltà il capo non eccelle), ma non può sostituire la competenza. Esempio classico, Michael Scheuer, fedelissimo di Bush II e dunque capo dell'unità speciale Bin Laden, con sofisticati apparati di ascolto. Peccato che Scheuer non sapesse l'arabo. Risultato, le intercettazioni c'erano,
ma non impedirono l'11 settembre. Insomma, bene la lotta contro la burocrazia. Purché non sia la scusa per riorganizzare lo Stato in nome di fedeltà, appartenenze e combriccole. Purché non sia una «violenta lotta» contro la competenza, all'insegna della grande sveltezza.
l’Espresso 2.5.14
Sprechi e privilegi
Parco degli affari
Soldi buttati. Spese sospette. E un lido tutto per i dipendenti. Nella tenuta di San Rossore
di Giuliano Fontani
Èstata la residenza dei Medici, dei Lorena, dei Savoia . E poi dei presidenti della Repubblica. Una tenuta di dune e pinete incontaminate, chiusa tra l'angolo più bello del Tirreno e le foci di Arno e Serchio. Un posto incantevole, insomma. Protetto con un apposito Parco Regionale della Toscana costiera che lo gestisce. Ma non come dovrebbe, secondo la Procura di Pisa che ha aperto un'inchiesta, ipotizzando le accuse di peculato, truffa, abuso d'ufficio, falso ideologico a carico di funzionari e dirigenti della struttura. Perché in ballo ci sarebbero molti soldi che gli inquirenti sospettano non siano stati usati per proteggere la riserva. Nel mirino degli investigatori ci sono infatti sette persone, tra cui, l'ex direttore Sergio Paglialunga; Massimo De Prosperis, nel frattempo rimosso dall'ufficio "Ripristino del territorio", e l'ex ragioniere capo Vittorio Monni, che avrebbe usato i fondi dell'ente anche per offrire prestiti ai dipendenti.
La Guardia di Finanza ha sequestrato 250 delibere e compiuto numerose perquisizioni per mettere a nudo le decisioni prese nel parco tra il 2008 e il 2012, durante la presidenza di Giancarlo Lunardi, oggi sindaco di Vecchiano in provincia di Pisa.
Le Fiamme Gialle stanno vagliando le posizioni dei dipendenti: in tutto 69 persone. Ci sono venti guardie del parco e dieci operai dell'azienda agricola, e 39 impiegati negli uffici con vista sulla macchia mediterranea più pura, tra pioppeti e oasi protette. Diversi i capitoli sotto l'esame del sostituto procuratore Flavia Alemi. Oltre ai prestiti incongrui, l'obiettivo è puntato su una spesa di 400 mila euro investiti per acquistare e spargere lungo i corsi d'acqua della riserva stuoie asiatiche, speciali tapparelle delle quali si vuole capire utilità e opportunità. Che, però, dovevano apparire chiare all'allora dirigente delle risorse, Simone Sorbi, 65 anni, in pensione dal 2009, sotto inchiesta. All'esame c'è anche la congruità del prezzo di due griglie, costruite per facilitare il passaggio delle rane: ben dodicimila euro.
A far muovere la magistratura penale e contabile sono stati i nuovi responsabili dell'ente, Fabrizio Manfredi e Andrea Gennai preoccupati dalla cattiva gestione del tesoro naturalistico. Basti pensare che la struttura riceve due milioni di euro l'anno dalla Regione, ma ha incassi irrisori: le visite guidate, con un servizio dato in concessione a tre imprese private, fruttano soltanto 86 mila euro mentre il resto degli 80mila visitatori annui paga il biglietto a Legambiente, Wwf, Lipu.
Non solo: fino a due anni fa erano disponibili 2,2 milioni di euro, come trasferimento di capitale dalla dotazione della Presidenza della Repubblica, versati sia per la manutenzione della villa del Gombo - fatta costruire nei terreni che oggi sono del Parco da Giovanni Gronchi per rimpiazzare il casino di caccia dei Savoia - sia per la tutela dei 50 mila metri cubi di case, poderi, casolari, vecchie cascine e, borghi rurali, oltre che di un fortino e una torre. Il nuovo direttore del Parco, Andrea Gennai, sostiene di aver trovato in cassa otto milioni di euro mai utilizzati, destinati a progetti di restauro non realizzati, mentre molti di questi edifici cadono a pezzi. Uno scempio che si consuma mentre quindici appartamenti sono affittati a ex dipendenti e a personale delle forze dell'ordine con canoni che variano dai cento ai trecento euro al mese. Altri venticinque sono vuoti, altri ancora ospitano a Piaggerta i rifugiati politici siriani.
A chi si chiede come mai la riserva non possa essere in qualche modo produttiva, il presidente Manfredi risponde: «Gestiamo una cosa preziosa come la biosfera e questi enti non sono valutabili in termini economici». Ma su quelle spiagge si distendono al sole i dipendenti del Parco, che si sono creati un piccolo stabilimento balneare: un lido tra le dune affidato al loro Cral aziendale; e, soltanto dopo le proteste dell'opinione pubblica, la spiaggia è stata aperta anche a gruppi di disabili.
l’Espresso 2.5.14
Chi lavora non torna in carcere
I detenuti con un'occupazione quasi sempre non ripetono il reato. Ecco come si può aiutare il loro recupero
di Giovanni Tizian
Irifiuti erano l'oro della camorra, adesso sono il tesoro dei detenuti del carcere napoletano di Secondigliano. Ogni mattina trenta reclusi selezionano le bottiglie di plastica, di vetro e le lattine di alluminio raccolte all'interno del penitenziario e in alcuni quartieri della città. Nelle stesse ore anche dietro i cancelli di Rebibbia avviene l'identica scena. Frammenti di vita quotidiana tra condannati, alcuni con sulle spalle la sentenza "fine pena mai", che così ottengono dignità e un'occasione di riscossa. Lavorare dovrebbe essere un loro diritto, non l'eccezione: la strada maestra di quella rieducazione che per la Costituzione resta lo scopo della prigione. Una missione ignorata: a sei mesi dal suo discorso al Parlamento, Giorgio Napolitano è tornato a chiedere misure urgenti per migliorare le condizioni dei reclusi. E la sentenza della Corte Europea che ha condannato il nostro sistema carcerario impone di dare risposte entro poche settimane (vedi box a pag. 41). Offrire un impiego ai detenuti in un paese alle prese con una disoccupazione spietata può apparire come un'utopia, in realtà si tratta di una prospettiva sempre più apprezzata. Anche perché è l'unica che porta quasi sempre a un reale reinserimento quando si esce dalle mura dei penitenziari.
Più lavoro meno reati
Otto volte su dieci chi ha lavorato durante la detenzione non commette più crimini dopo la scarcerazione. Un risultato doppiamente positivo: quelli che non hanno questa opportunità, nell'80 per cento dei casi ricominciano a vivere di reati. Insomma, è la soluzione ideale. Ma per pochi. «Solo il 5 per cento lavora», spiega a "l'Espresso" Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, «purtroppo il livello è ancora molto basso ma puntiamo a raddoppiarlo per il prossimo anno. Contiamo di creare duemila nuovi posti aumentando le assunzioni da parte delle cooperative sociali e delle aziende private e grazie alle convenzioni con gli enti locali per i lavori di pubblica utilità. Infine, potremo garantirne altri con gli impieghi per la manutenzione all'interno degli istituti di pena». Le statistiche sono spietate. Nelle carceri vivono 61.449 persone, ma soltanto 14 mila hanno una qualche occupazione. Di questi, solo un quinto ha un vero contratto con aziende o cooperative: più di novemila si occupano delle attività interne ossia fanno i portantini, i magazzinieri, i cuochi. Dieci anni fa la situazione era di gran lunga peggiore: i reclusi con un impiego retribuito erano 644. A farli quadruplicare è stata una legge speciale, "la Smuraglia", che concede sgravi fiscali e contributivi agli imprenditori che li ingaggiano. Nel 2013 è stata un'opportunità colta da 150 tra aziende e coop, che hanno assunto 1280 detenuti. Si sono creati posti in tutti i settori: dall'agricoltura al tessile, dalla ristorazione all'informatica. Una ditta metalmeccanica di Bologna ha selezionato nell'istituto cittadino ben 16 part time.
Eppur si muove
Il fondo per incentivare i contratti negli ultimi due anni ha avuto a disposizione 20 milioni, calati a cinque nel 2014. Briciole, rispetto alla massa di persone costrette all'inattività nelle celle, che restano comunque una risorsa importante in una stagione di tagli feroci. Altre iniziative sono in cantiere. Rita Ghedini del Pd ha appena presentato un disegno di legge che aumenta i vantaggi per chi assume i detenuti, con una previsione di spesa di quattro milioni annui. È già operativo invece il protocollo firmato tra il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Legacoopsociali e Confcooperative. «L'accordo ha permesso di avviare nuove esperienze», spiega Giuseppe Guarini portavoce dell'Alleanza Cooperative Sociali e presidente di Federsolidarietà(Confcooperative). «E di dettare delle linee guida per diffondere le buone pratiche di alcuni istituti», continua. Guarini è al vertice di una rete di 150 cooperative, presenti nella metà delle carceri del Paese, che hanno dato occupazione a 1.500 detenuti. Del network fa parte "Libera Mensa", che ne impiega più di trenta: sotto la guida di cuochi professionisti, preparano piatti con prodotti del territorio e organizzano catering in matrimoni, congressi, riunioni di affari e cene private. Tutto rigorosamente "fatto in casa", nel carcere della Vallette di Torino. Dà lavoro anche agli stranieri reclusi, molti dei quali però non hanno il permesso di soggiorno. «Ed è un problema», denuncia Piero Parente responsabile della cooperativa, «perché due nostri ottimi collaboratori, uno marocchino e uno albanese, esaurita la pena hanno dovuto lasciare il Paese». Dal Piemonte alla Sicilia, passando per Umbria e Lazio proliferano esperienze di questo genere con nomi ispirati ironicamente al desiderio di fuga: una libertà però ottenuta con il sudore della fronte e non con rocambolesche evasioni. A Ragusa la neonata "Sprigioniamo sapori" occupa tre detenuti. Producono dolci di mandorla e torroni tipici dell'isola che vendono in tutta Italia, e a breve partirà anche nel femminile di Catania. A Terni impastano pane e biscotti con il "Forno solidale". A Perugia la cooperativa Gulliver coltiva frutta e verdura nel "Podere capanne". E poi c'è la produzione di caffè a Pozzuoli, quella della birra artigianale a Saluzzo, le biciclette "Apiedelibero" montate a Firenze Sollicciano. «È ancora uno sviluppo disomogeneo, in alcune carceri è complicato portare a termine i progetti, altri invece sono ben disposti. Per colmare questo gap è necessario avere delle regole comuni da seguire», osserva il presidente di Federsolidarietà. Ma bastano le "imprese sociali"? C'è chi le ritiene la migliore soluzione. Altri invece credono che per raggiungere numeri significativi serve l'appoggio dei colossi dell'economia nazionale, che con il loro turnover possono garantire la continuità delle mansioni anche dopo la fine della pena.
Obiettivo Società per azioni
«Al momento mancano contatti con grandi aziende, più volte abbiamo tentato di portare dentro il carcere le catene di montaggio», racconta Tamburino, «ma dall'altra parte non c'è mai stata una risposta positiva. In prospettiva posso dire che i nostri sforzi andranno in questa direzione. Per ora in Italia nessuno vuole delocalizzare in carcere. A differenza di quanto avviene in Germania dove a Stoccarda la Mercedes impiega detenuti all'interno degli istituti». Un tentativo è stato portato avanti con Fiat per la produzione di tergicristalli, ma il progetto si è arenato perché andrebbe modificata la normativa. Eni invece vuole investire nella formazione dei reclusi per poi assumerli una volta scontata la sentenza. Lo ha fatto con Giuseppe, ex trafficante internazionale di droga, e ha intenzione di proseguire nel progetto. «Dovremmo diffondere queste esperienze anche al dì fuori delle imprese sociali», osserva Giuseppe D'Agostino funzionario del Garante dei detenuti del Lazio. «Solo così sarà possibile crescere. Non sono molte le grandi aziende che conoscono i benefici della Smuraglia. La soluzione è informare di più e meglio rispetto all'utilizzo di questi fondi».
Pronto? Qui Rebibbia
E quelle poche che hanno scelto di investire, con la crisi e le ristrutturazioni hanno tagliato. Come Telecom. Da dicembre, dopo 7 anni, ha chiuso il call center a Rebibbia lasciando in cella ventiquattro operatori che prima rispondevano alle chiamate del 1254. Ma il merito è stato premiato: visto l'ottimo lavoro svolto, sei della squadra sono stati ricollocati e ora si occupano delle prenotazioni dell'ospedale Bambin Gesù. «Hanno risultati migliori, sono motivati dalla voglia di dimostrare a familiari e società che possono recuperare», sottolinea D'Agostino. Nella casa circondariale di Civitavecchia c'è un altro esempio virtuoso. Da pochi mesi è attiva una falegnameria. Cinque fabbri assunti dal consorzio Solco - lo stesso dei call center di Rebibbia - si preparano a realizzare porte, laminati, mobili, per committenti esterni. Puntano in alto, e stanno tentando di proporre a Ikea una collaborazione. «La legge Smuraglia è per noi vitale, ci permette di abbattere della metà il costo del lavoro e di avviare così progetti altrimenti impensabili», racconta Mario Monge, presidente di Solco che riunisce 37 imprese sociali. Tra queste c'è la New Horizons, nata alla fine degli anni 80 come officina meccanica dall'esperienza maturata all'Asinara da un detenuto. Oggi è specializzata nella raccolta dei vestiti usati. Da sei anni si è trasferita nel quartier generale del cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti confiscato dallo Stato. Quello che era il luogo per antonomasia del romanzo criminale è diventato uno spazio dove ex detenuti e disabili costruiscono il loro futuro. Confrontarsi con la pubblica amministrazione spesso però significa essere pagati dopo un anno o in tempi ancora più lunghi. Lo sa bene la coop 29 giugno, che dall'alto dell'ultimo fatturato di 60 milioni, vanta crediti per 20: una condanna a morte per le imprese sociali. Anche la cooperativa Terre di Mezzo opera con per gli enti locali: impiega otto carcerati nella falegnameria delle Vallette e dà una seconda chance ai reclusi dell'istituto minorile di Cagliari. Tra i loro dipendenti c'è un ex trafficante di droga arrestato come socio del calciatore Michele Padovano, considerato un fenomeno nel suo nuovo mestiere di ebanista.
Il lavoro porta risparmio
C'è uno squadrone di 750 detenuti che fa risparmiare allo Stato oltre mezzo miliardodi euro. Si occupa della piccola manutenzione degli istituti e rispetto a operai esterni, che costano al mese 1500 euro al mese, la loro busta paga è la metà. Questa manodopera low cost è richiesta dai Comuni, che affidano a semiliberi (vedi box qui sopra) la cura del verde, la raccolta dei rifiuti, il portierato e la manutenzione delle strade. A Palermo la giunta ha firmato il mese scorso un accordo con il ministero per inserire i reclusi in percorsi di occupazione. E nei laboratori tessili femminili c'è grande fermento. Il successo di alcune iniziative - come Made in Jail a Rebibbia, Extraliberi alle Vallette e O' Press a Marassi - ha spinto a creare anche un certificato etico per abiti e gadget prodotti dalle donne recluse: il marchio "Sigillo". Gatti Galeotti, Filodritto, Ora d'aria, Impronte di libertà: sono alcune delle coop nate tra San Vittore, Bollate, Enna, Como, Torino, Vigevano, Venezia. E stanno per partire nuove sartorie a Santa Maria Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Catania, Genova e Monza. Un settore in espansione, sul quale il ministero punta molto per far crescere l'occupazione nelle sezioni femminili, ancora a livelli molto bassi. Per due motivi: «I direttori delle carceri ci segnalano principalmente uomini», spiega Carlo Guaranì, vicepresidente della cooperativa 29 giugno, «e poi ci sono lavori manuali, faticosi, che sono considerati più adatti agli uomini». Solimene è una delle fortunate. All'alba di ogni mattina lascia Rebibbia per andare in uno dei mercati rionali della periferia romana. Ripulisce la zona dagli scarti di frutta e verdura: quelli che per altri sono rifiuti, per lei sono il futuro.
l’Espresso 2.5.14
Hollywood Cina
Cinquemila nuove sale l'anno. Studi di produzione sempre più grandi. Ora è Pechino la nuova mecca del cinema. E gli Stati Uniti corrono ai ripari
di Lorenzo Soria
Da decenni, ogni volta che gli studios di Hollywood organizzano tour promozionali delle star per lanciare i loro film, le metropoli da visitare si ripetono. Londra è un punto fisso, poi vengono Parigi e Berlino, se c'è più tempo si aggiungono Tokyo e Sydney, talvolta Seul e Mosca, quando va proprio bene spunta fuori anche Roma. Ma quando a fine marzo la Warner ha dovuto presentare "Transcendence" e ha visto che Johnny Depp, il protagonista, aveva solo pochi giorni disponibili, non ha avuto dubbi e lo ha spedito a Pechino. Durante le 48 ore della sua prima visita in Cina, l'attore si è dato molto da fare: ha esibito con fierezza i suoi tatuaggi ispirati all'I-Ching, ha mostrato di conoscere rudimenti di calligrafia cinese, ha anche fatto sapere quanto ha apprezzato la cucina locale. Alla fine però non si può dire che sia andata molto bene. "Transcendence" (che era stato co-finanziato dalla cinese Dmg Entertainment) ha incassato una quindicina di milioni di dollari, l'equivalente di quanto realizzato negli Usa. E poco più di quello che il re del box office cinese, "Where are we going dad?", ha incassato in un solo week-end. "Captain America: The Winter Soldier" invece è andato meglio. Anche in questo caso c'è stata la visita rituale del cast, con Chris Evans, Samuel L. Jackson e Scarlett Johansson a scorrazzare per le strade della capitale cinese. Ma in quel caso i loro sforzi sono stati ripagati: 39 milioni di dollari al primo week-end, oltre 100 dopo dieci giorni. Un risultato senza precedenti, che ha portato molti fan a chiedersi attraverso i social media locali quando verrà il giorno di un "Captain China", di un supereroe che combatte contro la corruzione del governo loro e non solo di quello a stelle e strisce. Il tutto in attesa del 4 maggio, giorno dello sbarco in Cina del nuovo "Spider-Man", per la cui promozione Andrew Garfield è arrivato a farsi fotografare a zonzo nella Città Proibita con la co-protagonista Emma Stone e con Jamie Foxx.
«La Cina in questo momento è il luogo più caldo del mondo dell'entertainment», assicura Peter Shiao, fondatore dell'Orb Media Group, con sedi a Los Angeles e Pechino. Non male per un luogo che agli occhi di Hollywood solo dieci anni fa era inesistente: e la trasformazione, come accade spesso, è stata dettata dal denaro. Tanto denaro: il botteghino cinese continua a crescere proprio ora che quello americano è stagnante. Anzi, nel primo trimestre di quest'anno gli incassi negli Usa sono scesi del 6 per cento, mentre quelli cinesi hanno fatto un salto del 30 per cento, superando il miliardo di dollari. E non è finita. Con cinquemila nuove sale costruite ogni anno, nel 2017 accadrà un evento che solo pochi anni fa sarebbe stato inimmaginabile: il sorpasso del mercato Usa. E, se le proiezioni reggono, per il 2023 ci sarà il raddoppio.
Anche se le autorità consentono la distribuzione di solo 34 film stranieri l'anno (che presto dovrebbero salire a 44) ci sono insomma abbastanza soldi per giustificare lo sforzo di adattare le produzioni hollywoodiane al gusto degli spettatori cinesi e, quando necessario, a quello dei suoi imprevedibili censori. Il presidente e fondatore della Dreamworks Jeffrey Katzenberg, accusato di avere ceduto alle pressioni governative nel produrre la serie "The Tibet Code", è stato costretto a chiarire che la nuova serie animata sarà un adattamento di romanzi ambientati nel nono secolo e che non ci sono secondi fini politici, ma solo il desiderio di trarne un blockbuster. Brad Pitt, che nel 1997 era stato il protagonista di "Sette anni in Tibet", film non ben visto dalle autorità di Pechino anche se ambientato prima dell'occupazione della regione, quando si è ritrovato a produrre "World War Z" ha pensato che era meglio che l'origine dell'epidemia di zombie non fosse cinese ma russa. Anche i cattivi del remake di "Red Dawn" hanno cambiato nazionalità, da cinesi in nord-coreani, mentre per il terzo "Iron Man" non è bastato che Robert Downey Jr. arrivasse a sostenere di avere adottato «uno stile di vita molto cinese»: per evitare ogni confusione, il nome del cattivo interpretato da Ben Kingsley è stato modificato da "Mandarin" a "Man Daren". Poi c'è il numero quattro di "Transformers", in uscita a giugno, che ha usato un reality per selezionare quattro attori cinesi che recitano al fianco dei mega-robot.
Hollywood può insomma dormire sonni tranquilli: anche se in patria la tendenza è al ribasso, le sue fabbriche di sogni continuano a sfornare prodotti che incantano il resto del mondo. «Abbiamo avuto un incredibile, fantastico 2013 grazie al mercato estero, anche cinese», assicura Chris Dodd, che ha lasciato il mestiere di senatore per prendere le redini della Motion Picture Association of America. Ma la concorrenza cinese è destinata ad aumentare: l'obiettivo delle autorità locali infatti non è la semplice crescita del numero di sale, e quindi degli incassi al botteghino, ma anche quella delle produzioni locali, che oggi rappresentano il 60 per cento del mercato. La non troppo segreta ambizione del Presidente Xi Jinping è anzi quella di fare della Cina molto di più che un gigante manifatturiero che esporta mobili e maglieria da pochi soldi. Ora punta sul "soft power" o meglio, come ha spiegato il politologo di Harvard Joseph Nye, «sulla capacità di ottenere ciò che vuoi attraverso l'attrazione invece che la costrizione». Il presidente ha chiesto dunque una «spinta alla competitività e all'influenza della cultura cinese sulla scena mondiale».
Per ottenere questo obiettivo politico, non bastano i successi che funzionano solo per il mercato cinese, come "From Vegas to Macau": bisognerebbe riuscire a riprodurre fenomeni come "La tigre e il dragone" di Ang Lee, quattro Oscar e 213 milioni di dollari in giro per il mondo, che risale all'ormai lontano 2000. Per arrivarci si profilano varie strade. La prima è la creazione di un'adeguata infrastruttura: il numero delle sale che cresce in forma esponenziale, dunque. E poi studi e teatri di posa, come la Oriental Movie Metropolis che Wang Jianlin, uno dei cinesi più ricchi, sta costruendo a Qingdao, giusto a metà strada tra Shanghai e Pechino. Due anni fa il magnate ha comprato pure la Amc, seconda catena di cinema negli Usa. E ora sta costruendo il più grande e moderno studio cinematografico al mondo, con venti sale di posa per cinema e Tv che potrebbero produrre cento progetti l'anno, oltre che un festival, più alberghi e uno yacht club. Wang Jianlin si è impegnato a investire otto miliardi di dollari. E per dare fin da subito un tono internazionale al tutto ha pensato bene di fare arrivare a bordo di jet privati Nicole Kidman, Christoph Waltz, John Travolta, Catherine Zeta-Jones e Leonardo DiCaprio. «È l'inizio di una nuova era», ha commentato solenne Travolta.
È una stagione segnata dalle co-produzioni: solo nelle ultime settimane ne sono state annunciate una mezza dozzina. Il China Film Group ha deciso di investire in due progetti della Legendary Pictures, "Seventh Son" con Jeff Bridges e "Warcraft", basato sull'omonimo videogame. Ha anche annunciato che assieme con la Paramount produrrà un film di azione in 3D basato sulla vita di Marco Polo. Lo Shanghai Media Group ha firmato per sviluppare film con la Disney mentre la Huayi Bros ha investito 150 milioni di dollari in una società gestita da Jeff Robonov, ex numero uno della Warner Bros. «Procederemo seguendo le regole di Hollywood», assicura Wang Zhongjun, presidente della Huayi.
Con cinquemila anni di imperatori, di guerre e di miti a cui ispirarsi le storie non mancano, ma ci sono vari ostacoli. «Il problema della nostra industria non è il denaro», spiega ancora Wang Zhongjun. «Quello di cui abbiamo bisogno è il talento». C'è anche la questione della lingua. Ma ancora più ingombrante è il problema della censura, che porta molti registi a cercare rifugio nella commedia o in film storici ricchi di allegorie che gli spettatori occidentali non riescono a cogliere. Ogni film distribuito nel territorio cinese deve infatti venire approvato dal Censorship Board, un corpo costituito da 37 individui che passano al setaccio ogni scena e ogni battuta e che possono impedire o rinviare l'uscita di un film per i motivi più pretestuosi. Come accaduto al terzo episodio di "Mission Impossible", reo di avere mostrato dei panni stesi fuori dalle finestre di Shanghai. O a "Django" di Quentin Tarantino, sospeso al primo giorno di programmazione per la troppa violenza, anche se c'è chi sospetta che a far agitare i censori sia stata la storia in sé, con quegli schiavi che si ribellano ai padroni. E guai a rappresentare temi come la corruzione, la prostituzione, le disuguaglianze, la violenza. Ne sa qualcosa Jia Zhangke, il cui "Touch of Sin" ha vinto l'anno scorso a Cannes per la miglior sceneggiatura ed è stato salutato dalla critica occidentale come il "Taxi Driver" cinese. E che in Cina non è uscito nemmeno in Dvd.
Anche se non è stato detto apertamente è proprio in segno di solidarietà a Zhangke che alla premiazione annuale dei registi cinesi, all'inizio di aprile, la giuria ha deciso di non assegnare i due riconoscimenti più importanti, la miglior regia e il miglior film. «Nessun film ha avuto uno standard sufficientemente elevato», ha spiegato non troppo diplomaticamente Feng Xiolgang, che dell'associazione dei registi è il presidente e che, con alle spalle film come "Aftershock" e "Back to 1942", viene considerato lo "Spielberg cinese". È anche uno dei pochi che non hanno paura di parlare in modo esplicito, arrivando a definire i censori «il tormento» dei registi cinesi. «Arrivano i loro ordini», continua, «e non sai se ridere o piangere». Un dilemma che vorrebbe venisse affrontato da Xi Jinping e dai suoi colleghi del Comitato Permanente del Politburo, specie se davvero vogliono che il paese si trasformi da maggiore mercato di Hollywood in esportatore di cinema