domenica 6 aprile 2014

l’Unità 6.4.14
Abusi su minori, arrestato parroco
di Vincenzo Ricciarelli

ROMA Atti sessuali con minori: è l'accusa nei confronti di don Giovanni Desio, parroco di Casal Borsetti, paese sui lidi nord della Riviera Ravennate arrestato ieri nella tarda mattinata. Nei confronti del prete, la polizia ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Ravenna. Il religioso, nel febbraio scorso, tamponò, con il nuovo Suv nero, modello Bmw X1 (da 35mila euro) un’auto ferma in un parcheggio finendo poi in un canale. Aveva un tasso alcolemico quasi quattro volte oltre al limite. Il parroco poi sostenne che non era ubriaco spiegando che quella sera aveva bevuto solo pochi bicchieri di vino bianco durante una cena con alcuni fedeli. Dopo l'incidente fu salvato da tre uomini che, sfondando i vetri del mezzo riuscirono a tirare fuori il prete dall’abitacolo.
Quella vicenda portò probabilmente all’attenzione degli agenti un comportamento tutt’altro che sobrio. Ieri il cambio di passo per un’inchiesta partita qualche settimana fa, proprio nei giorni seguenti all’incidente con il Suv: il provvedimento restrittivo è stato eseguito dagli uomini della squadra mobile di Ravenna presso l'abitazione e canonica del parroco a Casal Borsetti. Nel corso della perquisizione (contestuale all’arresto) è stato sequestrato anche diverso materiale che verrà analizzato dalla polizia. Al prete viene contestato anche il reato di adescamento di minori. L'inchiesta, coordinata dal pm Isabella Cavallari, era partita qualche settimana fa. Nel quadro accusatorio, secondo quanto si apprende, vengono indicati alcuni episodi ai danni di più di un minorenne. Per il dirigente della squadra mobile di Ravenna, Nicola Gallo, si tratta di un'inchiesta «solida perché ha ottenuto numerosi riscontri ed ha impegnato tutto il personale specializzato della seconda sezione». Nell’ordinanza alla base dell’arresto c’è un passaggio durissimo: al parroco si contesta una «spiccata spregiudicatezza e capacità a delinquere con totale assenza di freni inibitori».
Don Desio originario di Milano è anche giornalista: nel suo curriculum ha anche la direzione del settimanale diocesano Risveglio 2000. Da 13 anni parroco della piccola località rivierasca dove è conosciuto con il soprannome di «John».

La Stampa 6.4.14
Prete arrestato per sesso con minori
Si tratta di Giovanni Desio, “don” di Casalborsetti, in provincia di Ravenna.
I pm: «Una persona spregiudicata e con totale assenza di freni inibitori»
qui

il Fatto 6.4.14
Lecca Renzi
Matteo il religioso Santino subito
di Daniela Ranieri
TUTTO UN BISBIGLÌO di preghiere sussurrate, un sobrio meditare in un cono di luce alitato dagli angeli. Repubblica , giornale del progressismo italiano, dedica a firma di Paolo Rodari un toccante, squisito ritratto del premier arrembante in pubblico ma santino di virtù private: “Una vita religiosa autentica, custodita nel silenzio di Pontassieve, nella chiesa di San Giovanni Gualberto”. Ma anche a casa, dove la fede si vede “nei gesti intimi di tutti i giorni, il segno della croce prima di mangiare, le preghiere della sera”. In una politica dalla sintassi brutale non rischiarata dalla luce dell’Altissimo, il presidente-chierichetto nutre una fede low pro-file, e alle spruzzate d’incenso romano preferisce “un ciclo di esercizi spirituali guidati dal gesuita padre Enrico Deidda” in Sardegna. E dire che Renzi non ha “entrature” in Vaticano, a parte l’amico Carrai, “manager con contatti eterogenei”, tra cui CL e Opus Dei, alle quali però egli “non ha mai aderito”. Tanto è vero che in Vaticano “è entrato da un ingresso principale dove hanno accesso i fattorini di Santa Marta, i domestici, cuochi e donne di servizio”. Il pezzo non dice se l’ex-scout abbia detto a Bergoglio di stare sereno. Ma solo che va in ritiro “per discernere il proprio posto nel mondo alla luce delle indicazioni di Dio, nella consapevolezza però dell’autonomia della coscienza”, e qui la musica d’organo copre l’immagine più spaventosa di tutte, quella di un medico che deve salvarci la vita e si mette a pregare.

il Fatto 6.4.14
Renzi il bersagliere fa fuori il Senato (correndo)
di Furio Colombo

Domandatevi quante volte i lavoratori che guadagnano meno di 25 mila euro all’anno hanno già ricevuto l’aumento di 80 euro al mese. Se tenete i televisori accesi, se esplorate la rete, se sfogliate i giornali, il provvidenziale pagamento è già avvenuto, sta avvenendo mentre parliamo o scriviamo, sta per avvenire e continuerà a ripetersi. Non potete né ignorarlo né dimenticarlo perché l’annuncio del fatto, non ancora avvenuto, è ripetuto senza sosta come se fosse il primo balzo del pil e non l’ultima e arrischiata soluzione di soccorso e conforto (e di ancora incerta copertura). Ma l’uomo corre e dobbiamo tentare di inseguirlo. Ci aiuta esaminarne il metodo.
Due i fondamenti delle riforme immediate, secondo Matteo Renzi: l’improvvisazione e la determinazione. La seconda parola fa luce sulla prima: si deve fare, si fa e basta. E non ditemi se la riforma è bella o brutta, migliore o peggiore, utile o inutile. L’importante è che si fa e si spunta dalla lista. La prima grande prova è stata la nuova legge elettorale. Non è venuta bene perché si adatta a una sola Camera (Deputati). Bene. E allora aboliamo l’altra Camera (il Senato). Interessanti le ragioni: risparmieremo gli stipendi. E faremo più in fretta.
INTANTO a Palazzo Madama svuotato arriveranno in autobus i senatori non eletti e non pagati, perché sono eletti e pagati altrove, più una ventina di rappresentanti della “società civile” molto onorati ma senza stipendio (il che fa pensare che saranno senatori nel tempo libero e presumibilmente nelle ore serali). Come ci dice e ripete, con un bel sorriso, il due volte ministro Elena Boschi (rapporti con il Parlamento e Riforme) “le riforme non possono aspettare”. Ora questa del Senato è come la legge elettorale: è venuta male, ma è fatta. Fai una crocetta sul taccuino e “next”, via la prossima, dirà Renzi-Blair contando all’americana, e facendo sapere che lui va avanti “come un rullo compressore”.
Ma vogliamo perdere un minuto (tranquilli, faremo in fretta) per vedere perché la riforma del Senato (che, come tutti vedono, è una rude abolizione) è venuta male. Il risparmio è nullo. Bastava tagliare, anche di due terzi, i seggi, ridisegnare costi, spese e pagamenti (debitamente ridotti), per avere un risultato economico molto più grande, ed evitare lo smantellamento di un pezzo della Costituzione.
Non è né vero né falso che una Camera sola lavora più in fretta. Dipende dai regolamenti, delle singole Camere (al momento totalmente sottoposte alla egemonia dei partiti) regolamenti che non sono stati toccati neppure in un punto. Dipende dalla organizzazione del lavoro che, attualmente, farebbe fallire qualunque impresa, perché ogni ora e ogni minuto di attività alle Camere (adesso si dovrà dire: alla Camera) non dipende dal presidente o dalla presidente del momento. Dipende dalla decisione della “Conferenza dei capigruppo”. Che vuol dire la volontà e l’umore dei partiti in ogni dato momento. Ma nulla di tutto ciò ha attratto l’attenzione dei colleghi commentatori e dei lanciatori di telegiornali. Per esempio Enrico Mentana (La 7) ha celebrato la morte del Senato ricordano i frequenti episodi di comportamento indegno di quella Camera. Ma mentre lui, Mentana, e molti altri colleghi dello straordinario mondo della informazione, ricordavano, post mortem, le colpe del Senato, alla Camera dei Deputati l’onorevole Bonanno, Lega Nord, già noto per altri delicati interventi, stava sventolando una spigola in aula, invano richiamato dal vicepresidente di turno. E qui si intravede una buona ragione che, all’improvviso, potrebbe spingere il corridore di fondo Matteo Renzi verso un’altra urgente riforma. Potrebbe andare dritto a colpire la Camera. Cosa ne dite di una riforma della Camera, allo scopo di sottometterla una volta che il governo, dopo tante implorazioni di Berlusconi, sarà stato finalmente rafforzato (nel senso di più potere e meno controllo)?
EPPURE CIÒ che colpisce di più, nel favoloso mondo di Matteo Renzi è la modestia dell’orizzonte. Si vede un mondo molto piccolo, con protagonisti molto piccoli (a cominciare dai suoi ministri) che producono conseguenze economiche molto modeste senza badare a quanto possano essere gravi, invece, le conseguenze nella percezione dei cittadini. Per poter mantenere il ritmo della corsa occorre dare l’impressione di produrre in fretta e moltissimo. Comincia la frenetica strategia del prendere in basso per dare in basso, prendere ai poveri per dare ai poveri, prendere ai pensionati per dare ai pensionati, spingere fuori e pre-anziani per fare largo ai post-giovani. Ecco, diventa chiaro il perché della corsa di Matteo Renzi. È come quella dei bersaglieri. Non serve, perché non si combatte correndo. Ma, nelle sfilate, specialmente se le fai molte volte di seguito dando l’impressione di una grande armata, fai spettacolo e la gente, per forza, batte le mani.

il Fatto 6.4.14
Sali e scendi
Renzi è un pancake farcito
Ce l’ha detto (solo) Gazebo
di Carlo Tecce

Posologia: questo pezzo non va somministrato a quelli che “de sinistra” non sopportano i programmi non culturalmente berlusconiani perché, scopri e scava, capiscono che sono “de palazzo Grazioli”. Effetti collaterali: le telecamere di Gazebo (Rai3) non sono contraffatte, non provocano allucinazioni né alterazioni psicofisiche, ma fanno emergere la realtà. Prognosi: il telespettatore italiano che vuole carpire un significato o un’informazione oltre le minestre di un telegiornale e le fagiolate di un dibattito, deve guardare la striscia di satira, musica e comunicazione politica, a volte ridotta a volte diliuta, di Diego Bianchi, detto Zoro. Questa non è una prescrizione, ma un riepilogo di una settimana che s’è generata con l’incontro a Londra di Matteo Renzi con il governo, il sindaco, le modelle, Dolce&Gabbana. Un servizio di cinque minuti, raccontato con caustica precisione, senza pregiudizi e senza referenze, ha illustrato il Renzi da esportazione, il Renzi non diplomatico, il Renzi un po’ cialtrone. Senza annoiare il pubblico con la ricerca analitica di semiotica, fisiognomica e prossemica renziana, roba buona per lezioni universitarie a luci spente col prof. sonnecchiante e gli alunni scaltri ad allungar le mani, Zoro ha beccato il Renzi che improvvisa, che risponde a una domanda con un paio di frasi in inglese, scolastico ovvio, e poi prosegue in italiano: cambia la forma, non cambia il contenuto. Sempre uguale la confezione: un sorriso così mascellare che neanche gli steroidi lo reggono. Quando la telecamerina, caricata in borsa da Lorenzo Scurati e David Allegranti, viene puntata sugli intrusi che accompagnano Renzi in visita agli imprenditori italiani espatriati (anche per il fisco) o dal sindaco Boris Johnson, un mattacchione che Renzi da sobrio non può raggiungere, t’accorgi che Matteo modello-estero è un pancake farcito di tutto un po’: ci stanno il portiere Viviano, l’ex centrocampista Tardelli, la mitologica Sozzani, Tronchetti Provera in Afef. E poi la chicca: la ripresa verso il tappeto fasciato e il parquet consunto al numero 10 di Downing Street. L’atmosfera e il Renzi vero: decine di servizi non hanno saputo, non hanno voluto trasmettere.
LA STAGIONE televisiva che rumina pubblicità e ascolti sta per finire e, senza timore di smentita da parte di Dolce&Gabbana, potremmo nominare Gazebo miglior programma sperimentale: certo, direte, nessuno sperimenta. No, forse in tanti provano a sperimentare, ma il pubblico neanche se ne accorge.
Gazebo aveva un limite, geografico, quasi antropologico, spesso ripetuto in trasmissione come un feticcio: il raccordo anulare. Dentro, al raccordo, c’era la narrazione (brutta parola, perdono) di Gazebo per motivi economici: le puntate costano poco, mandare in giro un inviato con un operatore è troppo, non è previsto. Ora che Gazebo, dopo la fortunata spedizione di Londra s’è liberato dello stradone che circonda la capitale, non c’è bisogno di confinarlo in seconda serata per mezz’ora e con risorse limitate. Tocca all’azienda. Per avere coraggio, ci vuole pace interiore .

il Fatto 6.4.14
Boschi, le riforme e i professori
Non è una questione femminile
di Silvia Truzzi

LO AVEVA chiesto lei, ospite di Daria Bignardi alle Invasioni barbariche: “Non giudicatemi dalle forme, ma dalle riforme”. Quindi, anche considerando che il ministro Maria Elena Boschi non è Marilyn Monroe, cercheremo di esaudire i suoi desideri, analizzando il discorso politico e non quell’avvenenza che ha fatto esclamare a Silvio Berlusconi (un vero intenditore): “Lei è troppo bella per essere comunista! ”. Siccome siede su una poltrona piuttosto impegnativa – il ministero per le Riforme costituzionali – delle suddette riforme proveremo a occuparci. Ad Agorà (questo è un esecutivo-reality: sono sempre in tv) la Boschi ha detto: “Io temo che in questi trent’anni le continue prese di posizione dei professori abbiano bloccato un processo di riforma oggi non più rinviabile”. Naturalmente non ha specificato quali riforme sarebbero state bloccate. Il piano rinascita della P2? La Bicamerale, contro cui alcuni dei firmatari dell’appello di Libertà e Giustizia si erano schierati, ma che fu Berlusconi a far saltare? O la riforma-pasticcio (oltre alla diminuzione del numero dei parlamentari e alla fine del bicameralismo perfetto, prevedeva anche maggiori poteri al presidente del Consiglio), che fu sonoramente bocciata dai cittadini con il referendum del 2006?
IL MINISTRO Boschi ha voluto dare anche una lezione di coerenza a uno dei professoroni: “Ci possono essere posizioni diverse che sono legittime: in particolare trovo legittimo che Rodotà abbia profondamente cambiato idea, perché ricordo che nell’85 fu il secondo firmatario di una proposta di legge che voleva abolire il Senato. Ma ci sono altrettanti costituzionalisti validi che invece sostengono il progetto”. Per far capire quanto la semplificazione è pericolosa, basterà riportare le parole di Stefano Rodotà, in risposta alle accuse di Renzi (i ministri, duole dirlo, paiono privi di posizioni autonome): “Nel 1985 c’erano il proporzionale, le preferenze, i grandi partiti di massa, regolamenti parlamentari che davano enormi poteri ai gruppi di opposizione. Il nostro obiettivo era dare la massima forza alla rappresentanza parlamentare, mentre oggi la si vuole mortificare”. Certo, il concetto è troppo complesso per essere cinguettato su Twitter, e dunque è difficile pensare che i ministri possano prestargli attenzione. Però la Costituzione non si cambia su Facebook e non è affatto vero che non è mai stata toccata: in fretta e furia nel 2001 il governo di centrosinistra patrocinò la riforma del titolo V e due anni fa, durante il governo tecnico, le Camere approvarono l’introduzione dell’obbligo di pareggio di bilancio (con la maggioranza dei due terzi, così che non è stato possibile promuovere un referendum). Quando ci mettono le mani, di solito la manomettono. Dunque meglio andarci cauti, i rulli compressori di disastri ne han fatti abbastanza. Soprattutto: davvero qualcuno pensa che i “professoroni” manipolino milizie parlamentari in grado di affossare le riforme, e per trent’anni? Di sicuro, abituati come sono al dialogo con Berlusconi, per i Renzi boys interloquire con Zagrebelsky, Rodotà, Pace e Carlassare dev’essere uno shock.
Ps: Appena nominata, nel salotto di Vespa, il neo-ministro, lodando il governo che valorizzava le giovani donne, disse: “Non credo bisogna mortificare la propria femminilità per essere più credibili e sembrare più serie”. Infatti: non è la femminilità, ministro Boschi.

Corriere 6.4.14
Quell’Italia arcaica e illetterata che teme il potere dei professori
di Gian Arturo Ferrari

È un errore confondere i professori con i professoroni, il vero bersaglio degli strali del ministro Boschi e così più precisamente denominati da Stefano Fassina. I professori, universitari s’intende, sono sterminate e anonime legioni figlie del tentativo (malriuscito) di democratizzare l’università italiana e di quello parallelo (e peggio finito) di modernizzarla. Sparsi per la penisola secondo una bislacca geografia accademica, ispirata al criterio «l’università nel mio cortile», dediti a discipline spesso incomprensibili fin dalla loro denominazione, inseriti in una miriade — alla lettera — di corsi di laurea che non hanno riscontro in alcun Paese civile, i professori soffrono acutamente di un drastico ridimensionamento del proprio ruolo e del proprio prestigio sociale, simile a quello che nel dopoguerra colpì gli insegnanti di liceo.
I professoroni invece sono a tutti gli effetti gli eredi dei cattedratici di una volta. Individui, innanzitutto, con fisionomie ben marcate, non di rado circondate da aloni leggendari, se non mitologici, e da fiorenti aneddotiche. E insieme carichi di riconoscimenti, fama, allori, onusti di gloria. Ma a questi tratti ereditari i professoroni odierni hanno aggiunto le invidiate luci della ribalta. Cioè il contatto diretto con il pubblico ben al di fuori dalle aule universitarie. La dimestichezza con i media, con tutti i media. La frequentazione e la consuetudine (cosa diversa dall’appartenenza a un partito, che c’è sempre stata) con il mondo della politica. Un pericoloso scivolo, che inclina dal sacerdozio del sapere alla star televisiva.
Tutto questo rende incompatibili e contrastanti le logiche dei professori con quelle dei professoroni. Lo si è visto molto bene nel recentissimo caso dei concorsi di archeologia, quando un gruppo di accademici (professoroni) ha fatto notare che, stando all’esito dei suddetti e recenti concorsi, l’Italia si verrebbe a trovare con più archeologi (professori) di tutti gli altri Paesi europei messi insieme. Dove si vede benissimo in trasparenza il contrasto tra il brulicare, il trafficare e il ronzare di sperdute sedi per piazzare, sistemare, aiutare i propri virgulti e il fastidio irritato dei competenti, sorretti innanzitutto da un elementare buonsenso (che va loro riconosciuto), ma anche imbarazzati dal dover spiegare alla comunità internazionale, cui appartengono, in che razza di Paese vivono.
In una ragnatela di sentimenti così delicati e complessi l’invettiva del ministro Boschi sembra un po’ facile, un po’ tirata via. E un po’ antiquata. Sembra fare appello a un’Italia illetterata e arcaica, ossequiente di fronte al sapere titolato, ma in realtà diffidente e sospettosa se non ostile, convinta com’è che alla fine i detentori del sapere medesimo lo useranno contro di lei, per intrappolarla, per danneggiarla. Vi sono in Italia due archetipi del come la gente comune vede gli uomini di cultura — non proprio professoroni, ma quasi — e si trovano entrambi in quella sorta di carta costituzionale della nostra cultura che sono I promessi sposi . E rispondono al nome di Azzeccagarbugli e di Don Ferrante. Il dottor Azzeccagarbugli («una cima d’uomo» secondo Agnese) rappresenta la cultura giuridica nel suo insieme, dominante nel nostro Paese e, come ben si vede, tuttora al centro della polemica. Sono giuristi infatti i professoroni evocati dal ministro. Del resto il gruppo dirigente democristiano è stato fatto per decenni da giuristi. Che rimanevano contemporaneamente professori, anche se non sempre professoroni. Al punto che Aldo Moro, l’uomo politico più importante del Paese, quando venne rapito si recava a discutere tesi di laurea. (Una cosa fuori d’Italia del tutto impensabile.)
La sostanza giuridica della cultura italiana non ha certo contribuito alla sua popolarità, dato che, come Azzeccagarbugli luminosamente dimostra, l’essenza del giure consiste nel piegare la legge a tutto svantaggio della gente comune. Don Ferrante rappresenta invece l’archetipo di un sapere tanto vasto e paludato quanto sconnesso dalla realtà. E per questo pericoloso se non letale. Egli infatti, dopo aver dedotto che, non essendo né sostanza né accidente, la peste che infuriava per Milano non esisteva, prese la peste e morì. In cuor suo, ammesso che i ministri abbiano un cuore, il ministro Boschi pensa probabilmente che i professoroni siano dei Don Ferrante. Esseri astratti e togati che non vedono e non vogliono vedere la realtà. Passatisti. Conservatori. Ma sa bene che simili argomenti non hanno grande efficacia sulla pubblica opinione. Meglio allora sollecitare quel riflesso antico, ridestare la diffidenza contadina, prospettare la possibilità che i professoroni difendano i loro interessi e non i nostri. Forse i professoroni sono solo Azzeccagarbugli.

l’Unità 6.4.14
I tagli alla Sanità sulla strada del Def, Regioni in allarme
Fassina (pd): «Spero che il governo smentisca, sarebbe una beffa per i cittadini»
di Bianca Di Giovanni

ROMA Matteo Renzi è tornato ieri pomeriggio a palazzo Chigi per lavorare alla proposta finale del Def, che sarà varato martedì prossimo. Il documento assume un valore politico decisivo in quanto conterrà le linee di sviluppo e gli interventi ritenuti necessari per modernizzare il Paese. Le ultime ore di lavoro sono caratterizzate da ipotesi di nuovi tagli e risparmi, che potrebbe suscitare contrasti e proteste.
Ne è consapevole, ad esempio, il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, intervenuto ieri a Cernobbio: “Avremo la forza di resistere politica per reggere l'urto della reazione difensiva di larghi settori della pubblica amministrazione e anche dell'opinione pubblica che sono legati alla dimensione della spesa pubblica?». Parole che la dicono lunga sulle difficoltà del governo nell’attuare il piano Cottarelli ieri il commissario alla spending review è stato in silenzio per reperire quei 10 miliardi su base annua destinati a finanziare la promessa degli 80 euro in più in busta paga per i dipendenti che guadagnano fino a 1.500 euro netti. I tagli sono difficili, e non solo per le lobby in azione. Quello che Morando non dice è che a pagare lo sconto non saranno solo i “ricchi” ambasciatori, i “tutelati” funzionari degli organi costituzionali, Camera e Senato in primis, i dirigenti della Pa (che il viceministro prende particolarmente di mira), o i colonnelli delle forze armate. Qui rischiano di pagare anche semplici cittadini con minori servizi sanitari. Gran parte dei 5 miliardi che si attendono quest’anno (non i 6,6 che servirebbero per una manovra di 10 miliardi in 10 anni) provengono infatti proprio dalla spesa sanitaria, tanto che la ministra Beatrice Lorenzin e le Regioni sono in allarme. E non solo. Il contributi degli statali scatterebbe a partire dai 70mila euro lori all’anno: non si tratta certo di paperoni.
SPESA PUBBLICA: -32 MILIARDI
Morando però tira dritto. Anzi, rilancia: l'obiettivo è che ci sia «un taglio di 30-32 miliardi che deve arrivare dalla riduzione della spesa pubblica che si può fare in tre anni, a patto che si inizi da adesso». Tanto serve per riportare il cuneo fiscale in linea con quello europeo. Tanto è stato previsto dalla spending review di Cottarelli (anche se quelle somme sono già destinate in parte a copertura del deficit e spese incomprimibili). Il binomio è: Stato leggero, tasse leggere. E la scure calerà come si è detto anche sul fondo sanitario nazionale.
Si parla di risparmi molto maggiori di quanto lo stesso Cottarelli avesse previsto con l’introduzione dei costi standard: dai 300 milioni iniziali previsti per quest’anno si partirebbe subito da quota 2,5 miliardi di cui almeno un miliardo dal fondo sanitario e il resto da altre voci, come la spesa farmaceutica. Una rasoiata che si aggiunge ai tagli già varati in questi anni, che arrivano a 25 miliardi di minori spese. Ma la cosa più preoccupante è che il prelievo sarebbe fissato ope legis, senza alcuna “concertazione“, cioè prima che la conferenza Stato Regioni abbia riaperto il tavolo sui livelli essenziali di assistenza. In altre parole, tagli lineari. Gli stessi che aveva provato a fare Enrico Letta per avviare un taglio del cuneo più sostanzioso. L’ex premier fu fermato nelle ultime 48 ore dall’opposizione della ministra. E si giocò la poltrona. Oggi siamo tornati a quel punto: 48 ore per decidere tutto. Lorenzin ha già mandato inviato messaggi inequivocabili. «No ai tagli con l’accetta. Non sono d'accordo con Cottarelli, non sono in linea per lo meno sul metodo. La sanità non può sopportare altri tagli, men che meno lineari», ha dichiarato. Chiaro che la ministra non ne vuole sapere di nuovi sacrifici, da aggiungere a quelli già attesi dalla prima versione del piano Cottarelli: 300 milioni quest'anno, 800 milioni nel 2015 e 2,4 miliardi nel 2016. In più per il suo dicastero e per le Regioni titolari della spesa sanitaria, qualsiasi risparmio dovrebbe essere reinvestito nel comparto, non certo andare a coprire sconti Irpef. Ma per il governo la coperta è corta. «Speriamo che il governo smentisca gli ulteriori tagli alla sanità, per 4 miliardi all'anno, per coprire la riduzione dell'Irpef» commenta Stefano Fassina del Pd. «Così aggiunge sarebbe una beffa e un danno. Sarebbe quasi una partita di giro per quanti beneficiano della minore Irpef: più soldi in busta paga, più spese per i servizi sanitari e le medicine»
TROVATI PER ORA 5 MILIARDI
Finora non si sono trovati più di 5 miliardi, e Pier Carlo Padoan resta inflessibile sulle coperture da tagli di spesa. Niente misure spot. Lo stesso Morando conferma la rigidità del ministero. Per lo sconto Irpef, “ciò che conta – dichiara è che il passaggio non venga percepito come un intervento spot legato a vicende elettorali». Secondo il Sole 24Ore il taglio da 1 miliardo allo studio dei tecnici del Mef, farebbe scendere il Fondo sanitario a 112,452 miliardi tutto compreso, quello per il 2015 a 116,563, se non meno. Con un effetto scivolamento che potrebbe valere anche per il 2017 (sulla carta 122 miliardi). Per il comparto non è poco, considerando che medici e manager delle Asl contribuirebbero anche con il taglio delle retribuzioni previsto per i dirigenti della Pa. Dai pubblici si attendono 700 milioni di risparmio, dalla Difesa 500, 7-800 dalla spesa per beni e servizi. Così si arriva a 4,5 miliardi quest’anno: manca l’ultimo miglio da costruire nelle prossime 48 ore.

Corriere 6.4.14
Irpef, il nodo degli 80 euro in più al mese
Resta ancora da sciogliere il nodo sui 7,7 miliardi necessari per finanziare le detrazioni Irpef ai lavoratori, portando 80 euro in più in busta paga già dal prossimo mese di maggio per i redditi inferiori a 25 mila euro l’anno.
L’agenda dell’esecutivo per questo tipo di intervento prevede tempi stretti: le norme dovrebbero essere inserire in un decreto che andrà all’esame del Consiglio dei ministri previsto per il 15 o il 16 aprile. Su questo provvedimento incombe lo spettro dei tagli lineari per poter finanziare la misura.

Corriere 6.4.14
Manovra, sulla sanità stretta da 500 milioni
Resta l’obiettivo dei conti vicini al pareggio
di Antonella Baccaro

ROMA — Un problema alla volta. Al ministero dell’Economia, dove si sta lavorando per presentare martedì il nuovo Documento di economia e finanza (Def) l’imperativo è non sovrapporre i piani di lavoro: «Lasci stare un attimo gli 80 euro, adesso stiamo preparando il piano macro» dice una fonte. Il Def non conterrà molti numeri a parte quelli chiave già resi noti per il 2014: Pil a +0,8% e indebitamento tendenziale al 2,6%.
Il tentativo dei tecnici del Tesoro è quello di comunicare a Bruxelles, cui il Def sarà sottoposto entro il 30 aprile, l’impressione di uno scenario messo in movimento dalle riforme che il governo ha intenzione di adottare progressivamente. Perciò se da una parte verranno indicati gli effetti generati sui conti dalla spending review, dal Jobs Act, dalla riforma fiscale in arrivo, dalle modifiche costituzionali, dall’altra il governo intende spingersi oltre, a immaginare anche quelli determinati dagli interventi in itinere , come il taglio del cuneo fiscale e i pagamenti della pubblica amministrazione. Lo ha fatto intendere ieri il viceministro all’Economia, Enrico Morando, quando ha detto che le riforme che l’esecutivo intende portare avanti saranno veramente efficaci «se l’orizzonte del governo sarà il 2018».
In questo modo il quadro complessivo che dovrebbe emergere dal Def sarà quello di un Paese che rispetta le regole e si prepara al rilancio attraverso una serie di riforme da cui si aspetta degli effetti sul Pil, alla fine del ragionamento, più lusinghieri di quelli attesi oggi dall’Ue. Com’è noto Bruxelles prevede che l’indebitamento strutturale italiano sarà pari allo 0,6% del Pil nel 2014 e allo 0,9% nel 2015. Mentre il ministero dell’Economia ritiene che l’Italia è ancora in condizione di raggiungere un sostanziale pareggio strutturale di bilancio nel 2014, cioè un deficit non superiore al mezzo punto di Pil al netto del ciclo e delle una tantum.
Anche per questo non potrà essere sfruttata per ora la possibilità di aumentare il deficit a ridosso del 3% per liberare risorse utili per la crescita, ad esempio per il taglio del cuneo fiscale. Quanto a quest’ultimo, che sarà presentato nei giorni immediatamente prima della Pasqua, la ricognizione del commissario alla spending review Carlo Cottarelli sulle coperture procede con le prevedibili difficoltà. Ieri è stata la volta di Beatrice Lorenzin, il ministro della Salute, che si è levata contro l’ipotesi di un taglio da 2,5 miliardi al comparto che amministra. Si tratterebbe di aggiungere ai previsti 300 milioni di semplici risparmi da efficientamento e al miliardo che già dovrebbe venire dall’adozione di nuove regole per gli acquisti, un altro miliardo, questa volta prelevato dal Fondo sanitario nazionale. «Non sono in grado di rassicurare nessuno — ha detto —, faccio il mio lavoro, però non mi è stato proposto in maniera ufficiale un taglio lineare al sistema salute. D’altra parte ho detto con chiarezza che i tagli lineari non riescono ad aiutare una riprogrammazione del Ssn che elimini gli sprechi e porti fondi e investimenti in efficienza». E ha aggiunto: «Il fatto che questa notizia sia sui giornali però non è che non mi preoccupi». Alla fine è possibile che i tagli del comparto salgano a 500 milioni al netto dei risparmi sugli acquisti, in questo modo pareggiando quelli che dovrebbero venire dal settore Difesa.
Facendo una ricognizione della tabella presentata da Cottarelli a marzo si scopre che, tolto il settore delle pensioni, dimezzati i tagli ai trasferimenti, la maggior parte dei tagli verranno dall’efficientamento della macchina pubblica: dai risparmi sul sistema degli acquisti ai tagli agli stipendi dei dirigenti, che potrebbero produrre 350 milioni, a quelli dei costi della politica, per ottenere i quali il governo dovrà esercitare la moral suasion su enti locali e organi costituzionali. Ed è per questo che l’esempio verrà dall’alto, con i tagli su Palazzo Chigi.

il Fatto 6.4.14
Poletti come B: promette 1 milione di posti di lavoro
Il ministro del Lavoro: piano per 900mila giovani
Ma è quello del governo Letta
Per avere il sussidio di disoccupazione si dovrà servire alla Caritas
di Salvatore Cannavò

Leggendo l’intervista rilasciata dal ministro del Lavoro a Repubblica, e offerta con grande risalto ai lettori, si ha tutta la sensazione del bluff. Giuliano Poletti, infatti, non riesce a resistere alla tentazione berlusconiana promettendo 900 mila posti di lavoro in 24 mesi come se fosse vero. Soprattutto, come se la promessa poggiasse su atti e intenzioni del governo Renzi e non su quello precedente. Poletti, però, nella foga di fare bella figura si spinge oltre: smentisce una delle promesse principali del Jobs Act, il contratto a tutele crescenti, e aggancia il futuro del sussidio di disoccupazione alla carità cristiana.
I POSTI DI LAVORO. “Un piano lavoro per 900 mila giovani” è l’entusiastico titolo di prima pagina del quotidiano di Ezio Mauro. Il ministro, nell’intervista, utilizza parole più sobrie: “Il bacino potenziale è di 900 mila giovani che nell’arco di 24 mesi riceveranno un’opportunità di inserimento”. Tutto è molto più sfumato e lo è perché così funziona il piano che altro non è che la Youth Guarantee, la Garanzia giovani, promossa dall’Unione Europea e già messa a punto dal predecessore di Poletti, Enrico Giovannini. Il governo Letta aveva stanziato, infatti, 1,5 miliardi di euro (750 milioni europei e altrettanti nazionali) per “assicurare ai giovani con meno di 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o altra misura di formazione, entro 4 mesi dall’uscita dal sistema di istruzione formale o dall’inizio della disoccupazione”. Il fatto che nell’offerta ci siano apprendistato e tirocinio spiega chiaramente come buona parte dei possibili posti di lavoro non saranno affatto stabili. Le spiegazioni offerte dallo stesso ministero sono ancora più chiare: “Ai giovani che presenteranno i requisiti verrà offerto un finanziamento diretto (bonus, voucher, ecc.) per accedere a una gamma di possibili percorsi, tra cui: l’inserimento con un contratto di lavoro dipendente, l’avvio di un contratto di apprendistato o di un’esperienza di tirocinio, l’impegno nel servizio civile, la formazione specifica professionalizzante e l’accompagnamento nell’avvio di una iniziativa imprenditoriale o di lavoro autonomo”. Tutto questo, inoltre, è stato già predisposto e l’attuale governo lo ha trovato bell’e pronto. Ma il ministro Poletti non ne fa menzione.
IL BLUFF DEL JOBS ACT. Dall’intervista, ma anche dal disegno di legge delega presentato due giorni fa al Senato, si ricava un’altra constatazione: il Jobs Act non è affatto quello che era stato promesso. La novità più rilevante del piano di Renzi, infatti, era la promessa di abolire i vari contratti precari per introdurre un contratto a tempo indeterminato, a tutele crescenti, in cui sacrificare un po’ di diritti per i primi tre anni (innanzitutto, l’articolo 18) in cambio di un contratto stabile. L’ipotesi aveva ricevuto il sostanziale via libera dei sindacati, compresa quella Cgil che con l’attuale governo ha un contenzioso che va oltre il merito delle proposte ma riguarda le relazioni sindacali nel loro complesso. Invece Poletti chiarisce che il contratto a tutele crescenti, che nella legge-delega è previsto in forma “eventualmente sperimentale”, si affiancherà soltanto, e non sostituirà, i contratti a tempo determinato e le altre tipologie lavorative. Che saranno asciugate e razionalizzate ma che vedranno, di fatto, quattro insiemi: il nuovo contratto a tempo determinato, ulteriormente liberalizzato dal decreto in discussione alla Camera; il nuovo contratto a tutele crescenti (quando sarà sperimentato) ; il classico contratto a tempo indeterminato attualmente in vigore; i nuovi contratti temporanei basati sui voucher, a somiglianza dei mini-jobs tedeschi (come Il Fatto aveva anticipato) e che saranno potenziati. In questo nuovo quadro, il centro di gravità sembra poggiare sui contratti a tempo determinato anche se il responsabile Pd dell’Economia, Filippo Taddei, insiste nel dire che il contratto indeterminato costerà “sensibilmente meno”.
SUSSIDIO DA CARITAS. Mentre il viceministro all’Economia, Enrico Morando, ribadisce la possibilità del salario minimo orario, immaginando “il carcere” per le imprese che non lo rispettino, Poletti fa un nuovo annuncio: il “servizio comunitario” per chi riceverà un sussidio di disoccupazione. Che vuole dire? Ad esempio, “rendersi disponibile a distribuire i pranzi alla Caritas o assistere gli anziani”. Niente a che vedere con i lavori socialmente utili, che facevano ritenere di avere diritti all’assunzione. Qui, di diritti esigibili, non si fa menzione.

il Fatto 6.4.14
I finti tagli della Farnesina: soppresse sedi inesistenti
Annunciata la chiusura di 4 ambasciate e di sezioni distaccate: ma non erano mai state aperte, o non erano attive da anni
di Alessio Schiesari e Thomas Mackinson

Magie della politica degli annunci. Venerdì la Farnesina ha soppresso quattro sedi diplomatiche: ma erano già state chiuse da anni, o addirittura non erano mai esistite. Nell’ambito dell’annunciata spending review da 108 milioni di euro del ministro degli Esteri, Federica Mogherini, il Consiglio dei ministri ha deliberato la chiusura delle ambasciate italiane a Reykjavik (in Islanda) e a Nouakchott (in Mauritania). Peccato che queste sedi non solo non siano attive, ma non siano mai esistite. Per i servizi di ambasciata in Islanda l’Italia si appoggia infatti alla sede di Oslo. Stesso discorso per la Mauritania, che fa affidamento al Senegal. In entrambi i Paesi non esiste né è mai esistito uno di quegli ambasciatori con stipendi a cinque zeri che il ministro ha promesso di ridimensionare. Nei due Paesi l’Italia è rappresentata da semplici consoli onorari il cui contributo spese (a rigor di legge non si può nemmeno chiamare stipendio) alla Farnesina costa la miseria di quattrocento euro lordi al mese. Si tratta infatti di figure meramente simboliche che si limitano a ricevere la posta diplomatica e a svolgere qualche compito di rappresentanza. Chi accetta questa onorificenza infatti non lo fa per soldi, ma per ottenere un passaporto diplomatico. La Farnesina ammette che “le due ambasciate in Islanda e Mauritania non esistono fisicamente, ma erano state istituite per decreto e comportavano degli oneri di bilancio”.
UNA SITUAZIONE SIMILE si scopre scorrendo la lista degli Istituti italiani di Cultura all’estero soppressi. Nel provvedimento approvato venerdì si legge che sono state soppresse le sedi di Grenoble e Innsbruck. Ottima notizia, peccato però che risalga a tre anni fa: basta andare sulla pagina Facebook dell’Istituto nella città francese per scoprire che l’ultimo post è datato settembre 2011. Sul social network viene reclamizzata perfino la festa per la chiusura. Ad annunciare la prematura scomparsa (tre anni prima della soppressione da parte di Mogherini) dell’istituto in Austria è lo stesso ministero degli Esteri, che - sul sito dell’ambasciata a Vienna - recita: “A seguito della cessazione delle attività dell’Istituto Italiano di Cultura di Innsbruck, la competenza territoriale è stata assunta da Vienna”.
Nello stesso documento il governo ha soppresso anche le ambasciate di Santo Domingo (Repubblica Dominicana) e Honduras, ma il risparmio è solo parziale perché verranno mantenuti due posti diplomatici. Il documento prevede inoltre la cancellazione degli Istituti italiani di cultura a Lussemburgo e a Salonnico, di quattro sedi distaccate e di 22 tra consolati e sportelli consolari. In totale la razionalizzazione dovrebbe portare a un risparmio di 11 milioni di euro. Sempre che, tra soppressioni fasulle e ambasciate fantomatiche, i funzionari del ministero non abbiano nascosto nelle pieghe del documento qualche altra sorpresa.
Anche sul fronte del taglio alle retribuzioni, annunciate ma ancora da formalizzare in un documento, non mancano le perplessità. Stando alle linee guida presentate dal ministro le indennità Ise (quelle di missione all’estero) dovrebbero essere abbattute. Oggi questo benefit costituisce i tre quarti dell’assegno mensile che finisce nei conti correnti dei diplomatici all’estero, anche perché lo stipendio vero e proprio, quando si lavora fuori dall’Italia, viene sensibilmente ridotto. Stando alle linee guida fornite dal ministro, questi due fattori saranno invertiti. Se da un lato quindi i diplomatici vedranno decurtato l’astronomica indennità (spesso nell’ordine dei 15 mila euro al mese), dall’altra riceveranno per intero lo stipendio da 180 mila euro l’anno. Un regalo che compensa i tagli finché si è in servizio. Ma, se fosse confermato questo impianto, quando i diplomatici andranno in pensione si ritroveranno con un assegno mensile ancora più lauto di quello che percepiscono oggi: l’aumento di stipendio, a differenza dell’indennità, finanzierà anche i contributi pensionistici. I diplomatici, anche quando cadono, cadono in piedi.

La Stampa 6.4.14
Gli Usa confermano
“Dall’Italia nessun taglio alla fornitura di F35”
di Paolo Mastrolilli

«La fornitura complessiva di F35 all’Italia è rimasta invariata, durante l’ultima riunione dell’Executive Steering Board che gestisce il programma. Può darsi che in futuro ci saranno aggiustamenti, magari sui tempi degli acquisti, ma per ora non sono arrivate comunicazioni formali in proposito». A rivelarlo è Joe Della Vedova, Public Affairs Director for the Joint Program Office F35, ossia portavoce dell’operazione F35 per il Pentagono. «L’assemblaggio del primo aereo in Italia - aggiunge - è iniziato a dicembre e continua regolarmente. Secondo i nostri calcoli, nel lungo periodo la partecipazione di un Paese darà vantaggi economici superiori all’investimento iniziale».
Il programma per la costruzione e la vendita dei caccia F35 è gestito dal Joint Strike Fighter Executive Steering Board, che include i rappresentanti di tutti i paesi membri e si riunisce due volte all’anno per fare il punto. In passato questo organismo si era dato appuntamento anche a Roma. L’ultimo incontro è avvenuto giovedì a Washington, e l’Italia era presente con il contrammiraglio Francesco Covella. Secondo Della Vedova non sono stati annunciati cambiamenti rispetto agli impegni del passato, che per Roma prevedono l’acquisto di sessanta F35 A e trenta F35 B, da completare fra il 2024 e il 2025. Il prezzo al momento, secondo l’ultimo contratto firmato con la Lockheed che costruisce gli apparecchi, è di circa 117 milioni di dollari per aereo, ma diminuirà nel tempo, e nel 2019 dovrebbe scendere fra 80 e 85 milioni. L’Italia inoltre è coinvolta nella produzione del caccia, attraverso lo stabilimento di Cameri, e lo sarà nella sua manutenzione. Durante la riunione di giovedì sono stati forniti gli ultimi dati sull’avanzamento del progetto, ma non sono stati annunciati cambiamenti: la prossima sarà a settembre in Norvegia.
«Ci rendiamo conto - dice Della Vedova a La Stampa - che in Italia è cambiato il governo, e quindi i nuovi leader devono essere informati per prendere le loro decisioni. Su questo progetto, infatti, circolano anche molte notizie sbagliate. Inoltre è chiaro che la crisi economica in corso ha pesato sui bilanci di tutti». Alla luce di questi problemi, una soluzione che alcuni Paesi membri stanno adottando è ritardare i propri acquisti, senza modificare i numeri: «Lo ha fatto la Norvegia, e gli stessi Stati Uniti. Gli Usa si sono impegnati a comprare 2.423 F35 e questo totale non è mai cambiato. Tuttavia nel bilancio per il 2015, appena presentato dal presidente Obama, l’acquisto di alcuni aerei previsto nell’arco dei prossimi cinque anni è stato rinviato. Avverrà, ma più avanti nel tempo, per consentire ora dei risparmi. Su questo non c’è alcun problema».
Durante l’incontro di giovedì, si è discusso molto del rapporto fra i costi e i benefici per i membri. «Ci sono almeno tre ragioni per cui un Paese come l’Italia trarrebbe vantaggio dalla conferma degli impegni attuali. La prima sta nella produzione stessa: voi ospitate uno stabilimento, e ognuno degli oltre tremila caccia che verranno costruiti e venduti avrà parti realizzate dalle vostre aziende. La seconda sta nella manutenzione. Gli F35 voleranno per almeno venti o trent’anni, e durante questo periodo avranno bisogno di assistenza. L’Italia è coinvolta nella manutenzione e ne trarrà grandi benefici economici. La terza ragione, poi, sta nel recupero degli investimenti iniziali. Come Paese fondatore del progetto, voi avete partecipato al suo sviluppo, e quindi avete il diritto di ricevere i compensi relativi alle adesioni future. Negli ultimi tempi, per esempio, Giappone, Israele e Corea del Sud hanno deciso di unirsi all’iniziativa, e questi nuovi acquisti forse aprono lo spazio per limare alcuni ordini fatti da altri. Non avendo partecipato all’investimento iniziale, però, dovranno corrispondere pagamenti di recupero che andranno ai membri originari, come l’Italia. Se si considerano tutti questi elementi e la riduzione del prezzo degli aerei, alla fine ci guadagnerete sul piano economico, oltre a quello strategico».

il Fatto 6.4.14
Da Enrico a Matteo
I 500 giovani per la Cultura? Una presa in giro lunga un anno
di Carlo Tecce

Accadde sette mesi fa, fu un attimo. Con una sequenza quasi comica di propaganda, la cultura italiana fu resa commestibile. Evviva.
Ancora più traumatico che rompere un embargo, politicista e psicologico: la cultura italiana può generare stipendi. Evviva.
Vi ricordate i 500 posti di Enrico Letta per la cultura per 500 giovani?
La memoria può ingannare e va sollecitata. I posti ci sono? No. Ci saranno? Boh. E i giovani, che non dovevano superare i 35 anni al 31 agosto 2013, stanno per invecchiare.
IL 2 AGOSTO 2013, un così mai energico Letta ne diede il formale annuncio: “Diamo lavoro a 500 giovani per la cultura”. Evviva. Il 21 ottobre 2013, per convincere i più scettici, in televisione bissò lo stesso, e ugualmente formale, annuncio: “Diamo lavoro a 500 giovani per la cultura”. Un groviglio di penne essiccate furono travolte da un’euforia contagiosa: “Danno lavoro a 500 giovani per la cultura”. Evviva. A inizio dicembre 2013, l’allora ministro Massimo Bray, pratico, pubblicò un primo bando di gara: non era un lavoro, ma un tirocinio da 1.400 ore a 5.000 euro (lordi) l’anno per digitalizzare l’archivio di uno sterminato patrimonio che su carta non ha più spazio e senso di esistere. I 500 giovani strafighi, laurea col massimo dei voti, sofisticato certificato di lingua inglese, già esperti e già formati, non avrebbero “mangiato” con la cultura, ma avrebbero patito la miseria svolgendo un servizio per la cultura.
Seppur la divisione fosse semplice aritmetica, in ritardo, a palazzo Chigi s’accorsero che 5.000 euro per 12 mesi non garantivano più di 3,5 euro l’ora. E l’irritato Bray, che smaltiva le topiche di Letta, ordinò un nuovo bando con un po’ di logica: il compenso, anzi il rimborso, restava inchiodato a 5.000 euro, ma l’orario totale scendeva da 1.400 a 600, referenze più morbide, permessi più laschi, addirittura con pausa di tre mesi per motivi di studi. Letta e Bray, rassegnati, chiosarono: il ministero dei Beni Culturali non ha denaro per offrire uno stipendio a 500 giovani. Con estrema premura, potevano rilasciare un attestato di frequenza. Vuol dire: niente pretese in futuro.
I cantori di Letta, ormai già convertiti a Matteo Renzi senza prove di miracoli, non furono ostili: meglio 500 corsi (o stage) di formazione che la chiusura ermetica dei luoghi di cultura per i ragazzi preparati e volenterosi. E pazienza per l’enorme lista d’attesa di chi, giovane di 40 anni, collabora con il Mibac. E pazienza anche per Bray che, in Commissione al Senato, lamentò la mancanza di 600 dipendenti nell’organico ministeriale. Questa farsa, però, non ha un bel finale. Al ministero, adesso diretto da Dario Franceschini, sono pervenute 21.552 domande, ne hanno selezionate 2000. E la burocrazia s’è spaventata. La direzione generale ha chiesto agli uffici regionali di costituire una commissione, e dunque ci saranno 19 commissioni con un dirigente di seconda fascia al vertice. A ciascuna regione corrisponde una commissione, ma la Valle d’Aosta viene inglobata dal Piemonte. Un comitato centrale controlla le 19 commissioni, entro il 31 maggio, devono scremare i 2.000 candidati e calare lentamente a 1.500. E poi avanti con gli esami.
ASSORBITA la pausa estiva, blindato lo stanziamento (3 milioni) e risolti gli arzigogoli, in autunno (forse) sapremo l’elenco dei 500 fortunati. Per non commettere l’ennesimo errore, al ministero credono, pardon, sperano che nel 2015 sarà possibile cominciare. Ma temono una gragnuola di rincorsi al Tar. Il primo l’ha depositato l’Associazione nazionale archeologi per bloccare la “presa in giro” e convincere Franceschini a presentare un vero piano per i precari: il tribunale amministrativo laziale, lo scorso 28 marzo, ha accolto la richiesta. Il 14 luglio è fissata la prossima udienza. In decine di musei, istituiti e biblioteche attendono lo sbarco di questi coraggiosi 500. Per il momento, di biblico, ci sono i tempi.

Repubblica 6.4.14
Le “otto Italie” dell’evasione fiscale
L’Agenzia delle entrate ha mappato il rapporto del Paese con le tasse, incrociando contesto socio-economico e tenore di vita
Oltre 11 milioni di residenti nelle aree ad “alto rischio”
Roma e Milano tra le province della fascia “media”
di Valentina Conte

C’È L‘Italia disoccupata, povera. Basso Pil, poche imprese, poco Internet. Strade e treni malmessi. E scarsa consuetudine con il pagamento delle tasse. Ma c’è anche l’Italia che corre, dinamica, scarsi reati, alta velocità, aziende leader, redditi alti e dichiarati. Tra le due, altre Italie, più sfumate.
OTTOin tutto ne ha rintracciate l’Agenzia delle entrate che ha potenziato DbGeo, un enorme database, integrato con dati di Istat, Banca d’Italia e Catasto. Mappando, per la prima volta in modo così compiuto, lo Stivale secondo zone omogenee per caratteristiche non solo fiscali, economiche e industriali. Ma anche sociali. Tenendo conto del disagio, della criminalità, dell’importo medio della pensione, dei senza lavoro e degli occupati. Con l’obiettivo di stanare chi non paga le tasse, certo. Ma calibrando gli interventi, anche in base ad un lettura del contesto. Forte con i forti, più vicina ai deboli. Almeno nelle intenzioni. Pronta forse a superare il record del 2013: 13,1 miliardi di somme recuperate, sui 90 di tax gap( differenza tra imposta dovuta e versata). «La condizione socio-economica è un fattore che influenza l’adempimento spontaneo», ha dichiarato il 2 aprile in Parlamento il direttore dell’Agenzia, Attilio Befera. Quasi una svolta.
La mappa di Arlecchino che ne viene fuori racconta storie dentro le macchie di colore. Vero che nel Meridione si tende di più ad evadere, ma il contesto è anche più difficile, il sommerso quasi un obbligo. Non che questo giustifichi, ma se ne tiene conto. Laddove i grandi capitali esentasse, con astuzie e alchimie, prendono il volo soprattutto al Nord. L’Agenzia delle entrate dunque prova a leggere i profili di quest’Italia. Sceglie 36 variabili (dalle 246 analizzate) e le sistema in sette gruppi: numero contribuenti, pericolosità fiscale, pericolosità sociale, tenore di vita, maturità della struttura produttiva, livello di tecnologia dei servizi, disponibilità di infrastrutture di trasporto. Emergono otto profili, declinati secondo titoli di film. Roma e Milano, ad esempio, finiscono in Metropolis, capolavoro di Fritz Lang.
Il Sud si muove tra Rischio totale, Non siamo angeli, Niente da dichiarare?. Il Nord spazia tra Stanno tutti bene e L’industriale. Il Centro cammina sul filo, tra Gli equilibristi e Pericolose abitudini. Al top della pericolosità fiscale, il Sud. Che però vince anche la palma di quella sociale (estorsioni, truffe, delitti, frodi). In teoria, dunque, oltre 11 milioni di potenziali furbetti tra Calabria, Campania, Puglia, Isole e le altre terre del Meridione. Contro 23,3 milioni di presunti virtuosi, a basso rischio (Centro-Nord). E 9,4 milioni in bilico (Roma e Milano).

Repubblica 6.4.14
Il ricercatore
“Ma nei miei dati Nord e Sud sono uguali”

ROMA. «Non è una mappa dei buoni e dei cattivi». Stefano Pisani, responsabile dell’ufficio analisi statistiche econometriche e “papà” del DbGeo - la macchina dell’Agenzia delle Entrate che ha scandito l’Italia in otto zone - non vuole salire in cattedra.
È l’Italia che evade...
«Ma non solo. È la fotografia di un Paese complesso, eterogeneo, diversificato. In cui Caserta assomiglia a Napoli, ma è diversa da Benevento, pur essendo nella stessa Regione. In cui Latina differisce completamente da Rieti, ma è più vicina ad Imperia. Un Paese in cui l’indicatore dei rifiuti urbani di Prato è stranamente elevato, indice di un’economia sommersa rilevante. L’Italia dalle mille sfaccettature».
Un Paese strozzato dalla solita dicotomia, però: Nord produttivo
e ligio, Sud assistito e pieno di evasori.
«Solo in apparenza. E il DbGeo ci aiuta a chiarire il più comune degli equivoci. È vero, l’indicatore che abbiamo scelto per misurare la pericolosità fiscale, la tendenza a pagare le tasse, è assai sotto la media nelle Regioni meridionali. Ma attenzione, si tratta della propensione ad evadere, dunque del rapporto tra le somme non pagate e quelle dichiarate. Se guardiamo all’entità dell’evaso, il Centro-Nord la fa da padrone. In altre parole, nel Mezzogiorno si evade in modo diffuso, ma per cifre in media molto più basse che altrove. La dicotomia non esiste».
Cosa le fa dire questo?
«Le forme di elusione ed evasione sono assai più sofisticate al Nord. L’area industriale emiliana, ad esempio, che si espande verso la Lombardia ha lo stesso profilo: una media impresa dinamica e una certa tranquillità sociale. Ma questo non la mette al riparo dalla grande evasione. Mentre laddove la realtà produttiva è più povera, i redditi più bassi, il sommerso più diffuso, la propensione ad evadere sale. Ma le cifre sono più basse».
Ma a cosa serve la mappa, se non consente classifiche?
«Il nostro intento non era di stilare una graduatoria. Ma capire i punti di forza e di debolezza di ogni area. Ecco perché abbiamo scelto i nomi dei film, proprio a sottolineare caratteristiche qualitative omogenee. Questo lavoro serve a rendere l’Agenzia delle entrate più utile ai cittadini e più selettiva. Ad arrivare in posti diversi con strumenti diversi».
I blitz stile Cortina non si addicono a tutti?
«In un’area con pericolosità sociale bassa, basta il controllo di un funzionario. Per realtà più complesse, si attiva la Guardia di Finanza. Ecco perché non è sufficiente ragionare in termini di Regioni, ma disaggregare, arrivare al territorio. E non guardare solo alle auto di lusso, ma anche al consumo di energia elettrica, alla quantità di spazzatura, all’indice di disoccupazione».
Per stanare gli evasori non basta incrociare i famosi dati fiscali?
«Quello è il livello micro. Diciamo che il DbGeo è come la centralina dell’inquinamento: segnala i fumi ma non dice chi inquina. Noi orientiamo l’azione dell’Agenzia descrivendo a livello macro le zone. Poi dopo certo, partono i controlli mirati».

Corriere 6.4.14
Le acrobazie di una doppia maggioranza
di Antonio Polito

La doppia maggioranza e le tentazioni elettorali
L’ex premier alza la voce anche per le urne Ma il Pd non usi le riforme come uno scalpo

Prima o poi doveva accadere. La doppia maggioranza, una con Berlusconi e una senza, era insieme obbligata e spericolata, un filo  di acrobata vertiginosamente teso sopra le vicende  umane e giudiziarie  di un leader  a fine carriera.
D’altra parte il Berlusconi che ieri ha minacciato di ritirarsi dal processo delle riforme è lo stesso che fece saltare le stesse riforme ai tempi del governo Letta, dopo la sua condanna in Cassazione.
Ciò nonostante un brivido di allarme ha percorso l’intero mondo politico quando il capo di Forza Italia, a pochi giorni dagli arresti domiciliari o dall’affidamento ai servizi sociali, ha annunciato che, cosi com’è, il suo partito non voterà la legge che trasforma il Senato. Perché quella legge è un po’ l’architrave di tutto l’attuale, e fragile, edificio politico: senza di quella, la legge elettorale approvata alla Camera non vale nulla, e dunque anche la legislatura vale poco.
È da vedere se Berlusconi fa sul serio. Potrebbe star solo tentando di riaccendere i riflettori su di sé e su Forza Italia, sempre più negletti dai sondaggi; o forse alza la voce per farsi sentire anche dal Tribunale di sorveglianza di Milano; o magari cerca di riportare un po’ d’ordine in un partito che sembra aver perso fiducia nel capo, e ne parla in privato nei termini ascoltati ieri nel fuorionda tra Toti e Gelmini.
In ogni caso, che faccia sul serio o no, vista la parziale retromarcia successiva, l’uscita di Berlusconi non va sottovalutata, e vanno approntate le contromisure necessarie per evitare che anche questa non sia la volta buona per cambiare legge elettorale e istituzioni invecchiate.
Bisogna innanzitutto districare la vicenda giudiziaria di Berlusconi da quella istituzionale. E questo può farlo solo lui. Non c’è niente, assolutamente niente che possa cambiare le cose nei prossimi dieci mesi, se non la serietà, la dignità e l’orgoglio del suo comportamento. Berlusconi ha davanti a sé una prova molto difficile, ma può superarla solo riconquistando nel servizio al Paese, e alle riforme di cui ha bisogno, l’onore politico ferito dalla sentenza.
Poi però bisogna districare le riforme dalla campagna elettorale, e questo spetta a Matteo Renzi. Non si può cambiare di corsa il sistema parlamentare solo perché tra due mesi ci sono le Europee e le riforme devono essere portate come uno scalpo sulle piazze. Renzi ha il dovere di ascoltare le critiche, quelle dei professoroni di sinistra alla Zagrebelsky e quelle dei professorini di destra alla Brunetta. Deve accettare il fatto che il suo progetto di Senato presenta molti limiti e contraddizioni, e che in queste materie gli errori di precipitazione non sono ammessi perché producono effetti per i prossimi cinquant’anni. Invece di cercare un accomodamento privato con Berlusconi, Renzi deve trovare in un libero e trasparente dibatto parlamentare le buone ragioni di una riforma cui l’opposizione non possa dire no per motivi strumentali o irrazionali.
È vero che il premier potrebbe anche sfidare Berlusconi: approvare la sua riforma a maggioranza semplice e poi farsela confermare con un referendum popolare. Ma senza la spalla di Forza Italia, Renzi dovrebbe in ogni caso consegnarsi alla volontà del corpaccione del suo partito e a quella che lui chiama «palude», dove si annidano gli istinti più conservatori in materia costituzionale. Forse gli conviene dismettere un po’ del suo arditismo elettorale per guadagnare un po’ di profondità politica. Non può insomma usare le riforme per prendere voti a Berlusconi, almeno non con i voti di Berlusconi. Ma non può perderle senza perdere il consenso degli italiani. Per il giovane e scapestrato fiorentino è giunta l’ora della maturità.

l’Unità 6.4.14
Migranti, gli sprechi e le emergenze inventate
di Filippo Miraglia
Responsabile immigrazione Arci

DA ALCUNE SETTIMANE, IN MANIERA ANOMALA rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (probabilmente per le diverse condizioni meteo), gli arrivi alle nostre frontiere marittime di migranti in cerca di protezione hanno fatto registrare un aumento: circa 10mila nuovi arrivi rispetto ai mille dello stesso periodo dello scorso anno. Si tratta di un’emergenza? Dipende da cosa s’intende: se si vuol dire che i numeri sono tali da determinare una situazione straordinaria, non prevista né prevedibile, si può affermare che non è così; se invece si tratta dell’ennesima situazione nella quale lo Stato, e segnatamente chi ha la responsabilità di questa materia, cioè il Ministero dell’Interno, ancora una volta, nonostante le esperienze degli ultimi anni, le previsioni e i richiami da parte di tutti i soggetti che hanno competenze in quest’ambito, non ha fatto nulla per programmare gli interventi necessari, allora sì, si tratta di un’emergenza.
Un’emergenza che però deriva da impreparazione, mancanza di senso di responsabilità e forse anche una certa presunzione, considerato che le organizzazioni sociali impegnate da anni su questo terreno non sono state mai coinvolte, nonostante poi vengano chiamate come in queste settimane dai Prefetti per cercare soluzioni per l’accoglienza.
Quali sono le conseguenze di questa ennesima emergenza causata dalle inadempienze dello Sato? La prima è l’assoluta casualità con la quale si trovano risposte sul territorio. Le persone sono accolte da chi è disponibile, a gruppi di quaranta per provincia. Non ci sono regole da rispettare sulla competenza, sugli standard e sull’affidabilità dei soggetti gestori. Un metodo già visto con la cosiddetta Emergenza Nord Africa (Ena), che ha prodotto ingiustizie e sprechi. Questa casualità determina disuguaglianze, perché ci sarà chi avrà la fortuna di capitare in strutture adeguate, con operatori competenti e servizi con standard dignitosi. Un’altra parte di richiedenti asilo finirà invece in alloggi inadeguati, senza servizi o con servizi ben al di sotto degli standard necessari, senza nessuna certezza sui percorsi futuri, il che alimenta malcontento e frustrazione. La casualità, l’assenza in molti casi di operatori qualificati, il mancato coin-
volgimento degli enti locali inevitabilmente finirà per produrre anche un impatto negativo sul territorio, alimentando razzismo e insofferenza nella popolazione locale.
Infine, conseguenza insopportabile in questa fase di tagli alla spesa pubblica, le poche risorse investite (molto inferiori a quelle degli altri Paesi europei) vengono palesemente sprecate. A causa dei percorsi di accoglienza e inclusione non adeguati, i migranti arrivati in cerca di protezione vengono di fatto parcheggiati in attesa di avviare un reale processo di inserimento. Questo periodo può durare sei mesi oppure anni, com’è avvenuto di recente per l’Ena. Così, mentre da un lato si predica la necessità di risparmiare, dall’altro si agisce, in nome di un’emergenza inventata, sprecando risorse pubbliche.
Il ministero dell’Interno avrebbe dovuto utilizzare le risorse per attivare i posti del sistema Sprar, che vede protagonisti gli enti locali in un quadro di trasparenza e con la garanzia di standard adeguati. Per quei posti però manca la copertura finanziaria, prevista invece per le «emergenze».
È evidente che la mancanza di programmazione provoca un cortocircuito in tutto il sistema dell’accoglienza, e così anche le risorse che potrebbero essere usate con criteri di efficienza rischiano di andare sprecate a causa di pastoie burocratiche e ritardi. È troppo chiedere che finalmente si intervenga con razionalità per evitare ulteriori danni?

La Stampa 6.4.14
È guerra sulla privatizzazione della Cri
Due comunicati diversi alla fine dell'incontro al ministero della Salute rendono ancora più confusa la disputa sulla data della trasformazione dei comitati locali e provinciali
di Flavia Amabile
qui

Repubblica 6.4.14
Più lusso che storia ecco l’hotel Gramsci che imbarazza Torino
Piscina, sala fitness e comfort a cinque stelle: si apre a giugno Il palazzo dove si pubblicava Ordine nuovo diventa un albergo
di Guido Andruetto

TORINO. Si chiamerà Hotel Gramsci il nuovo albergo di lusso e design che tra maggio e giugno sarà inaugurato nel palazzo dove Antonio Gramsci abitò a Torino tra il maggio del 1914 e il 1922. Entrando oggi dall’ingresso di piazza Carlina 5, pieno centro città, ci si affaccia su un cantiere che procede a ritmi serratissimi. Dal piano terra si devono salire soltanto quattro scalini per tornare indietro di un secolo. Portano direttamente al piano ammezzato dove Gramsci, da studente, si riuniva con gli altri compagni della redazione del giornale “L’Ordine Nuovo”, che fu l’organo ufficiale del movimento dei Consigli di fabbrica nella città operaia di allora. Tre stanze con soffitti bassi e pochissima luce che sono in questo momento l’unica zona vincolata e intoccabile del maxicantiere che ha trasformato l’intero edificio in un albergo quattro stelle superiore.
Diecimila metri quadrati di superficie, cinque piani, centosessanta stanze, due negozi, un ristorante e un’area fitness con piscina sul tetto. Un cambio di pelle radicale rispetto all’antica “Casa Gramsci”. Per volere della società Immobilare Carlina l’hotel sarà intitolato non senza polemiche al fondatore del Partito comunista, ed è questa la novità che alla “vigilia” dell’apertura sta creando maggiori discussioni fra i promotori di un’operazione immobiliare e commerciale stimata intorno ai trenta milioni di euro.
I primi a esprimere perplessità sulla scelta sono stati in questi giorni innanzitutto i vertici della catena spagnola Nh Hoteles, partner dell’iniziativa cofinanziata da Intesa Sanpaolo e Credito Valtellinese, che gradirebbero un nome storico più “neutro”, ad esempio quello del Conte Cavour in relazione alla statua dello statista collocata proprio al centro di piazza Carlina. La rilevanza della figura di Gramsci anche fuori dai confini europei, però, ha convinto in via definitiva la società partner torinese a dedicargli la nuova struttura. «Parliamo di un hotel con uno standard internazionale — spiega Federico De Giuli, architetto e socio dell’Immobiliare Carlina, mentre mostra le nuove stanze e gli altri spazi comuni — che abbiamo progettato non solo per ospitare una clientela di fascia alta ma anche per valorizzare nei modi migliori possibili le memorie gramsciane legate al luogo».
Ex albergo di virtù per il ricovero e l’istruzione dei poveri, “Casa Gramsci” negli anni Trenta passò di proprietà alla comunità israelitica continuando ad ospitare alloggi e botteghe, ma è alla fine degli anni Settanta che il Comune la acquista per convertirla in case popolari. Una parentesi che si chiuderà una ventina d’anni dopo con lo sgombero degli occupanti a causa dello stato fatiscente dell’immobile. Seguiranno anni di abbandono e l’avvio di un discusso cantiere ormai al traguardo. Entro giugno l’Hotel Gramsci aprirà i battenti ma avrà una specie di zona franca al suo interno, proprio nelle stanze dell’Ordine Nuovo, che ospiterà iniziative divulgative di carattere esclusivamente storico-politico e culturale.
Tutto sta nascendo con la collaborazione dell’Istituto Piemontese Antonio Gramsci, che all’interno dello spazio organizzerà delle piccole riunione ed allestirà una biblioteca con tutte le opere del filosofo. «È una possibilità importante quella che ci viene data dall’hotel — commenta il professore Sergio Scamuzzi, direttore dell’Istituto — non potevamo certamente rifiutarci di supportare un’iniziativa che mira a salvaguardare la memoria di Gramsci e anche la storia del suo rapporto con la città. Con la prossima apertura, oltre alla biblioteca, nel centro convegni che sarà presente all’interno daremo il via ad una serie di conferenze, la prima delle quali sarà una maratona di letture di favole di Gramsci, che è stato anche scrittore e pedagogista». E se gli eredi di Gramsci, in testa il nipote Antonio Gramsci Jr, che oggi vive a Mosca, hanno espresso più volte apprezzamento per la riconversione della Casa in queste forme, a storcere il naso, sia sull’intitolazione che sul progetto stesso, è il professore Nicola Tranfaglia, che per anni ha insegnato storia contemporanea all’Università di Torino. «Credo sia quanto meno opinabile intitolarlo a Gramsci — dice piccato — Il carcere duro e la terribile morte che gli sono toccati in sorte hanno poco a che fare con l’immagine di un hotel di lusso».

La Stampa 6.4.14
L’Ungheria e la democrazia manipolata
di Enzo Bettiza

L’inquietudine dell’Ungheria è per tanti aspetti fisiologica ed epocale. Già ai tempi dell’impero austro-ungarico, la seconda componente absburgica era stata la più problematica e la più complessa. Mentre Vienna cercava sempre forme di mediazione e di convivenza con le diverse popolazioni non germaniche, le quali, come diceva Slataper, costituivano in Europa un secondo impero slavo dopo quello russo, il governo parallelo di Budapest agiva in modo pressoché opposto: emanava leggi e assumeva comportamenti spesso conflittuali proprio con le popolazioni slave, in particolare croati e serbi, sui quali cercava di esercitare un predominio speciale e prioritario. Era molto più facile in effetti per sloveni, istriani e dalmati, anche italiani, convivere con l’amministrazione viennese di quanto non fosse per i croati dell’interno e per i serbi coesistere e soggiacere alla più invadente giurisdizione di Budapest. L’Ungheria rappresentava il nucleo più duro della duplice e imperialregia Monarchia nella quale i magiari si trovavano spesso in conflitto con i cechi, gli slovacchi, i croati e i serbi. La durezza era stata sempre una componente del rapporto tra i governanti magiari e le popolazioni slave incluse nei perimetri orientali del Commonwealth absburgico.
Questo particolare carattere autoritario, conservatore, esigente, era paradossalmente sopravvissuto attraverso il secolo e mezzo che aveva conferito all’Ungheria, accanto all’Austria, un prestigio politico e giuridico d’incisivo impatto continentale. La storia non è stata certo avara con Budapest. L’imperatore Francesco Giuseppe diventava soltanto re con corona leggera nell’Ungheria, mentre gli ungheresi si comportavano da padroni pressoché assoluti nei territori di loro dominio. Diffidente e spesso contestatrice nell’Ausgleich con Vienna del 1867, l’Ungheria descriverà e traccerà da allora in poi una sua parabola, per due terzi autonoma, attraverso le guerre mondiali, il fascismo, il comunismo, la rivoluzione antirussa, il ritorno infine alla libertà e alla democrazia. Non c’è violenza storica nel Novecento che le sarà risparmiata.
Le è stato comunque tutt’altro che facile il reinserimento nella libertà e nella democrazia occidentale dopo il lungo abbraccio matrigno con la Russia comunista. Si liberò con fatica dal sanguinario Quisling sovietico Rakosi, vivacchiò alla meno peggio con il comunismo al gulash di Kadar, ritornò alla libertà con la caduta del Muro di Berlino e nell’aprile del 1994 fece richiesta di adesione all’Unione europea.
Ma il passato pesante si è fatto sentire anche nel ritorno di Budapest alle dimensioni, se non altro formali, della democrazia liberale. Una strana e inquietante democrazia manipolata si è impadronita dopo il crollo comunista delle sue strutture governative che hanno visto salire al potere, per due mandati, il primo ministro Viktor Orban. Orban e il suo partito si sono insediati al vertice come una forza d’impatto populista che ricorda, in chiave di destra, molte pecche del passato regime comunista. Oggi Orban, con quel suo partito equivoco, sembra voler conferire all’Ungheria il più ambiguo dei sistemi governativi emersi dal crollo dei vecchi regimi parasovietici.
Uomo d’avventura, demagogo, populista, forte di un partito che gode del 33 per cento di preferenze, gli elettori si preparano a conferire oggi a lui e al suo Fidesz un terzo mandato (a fronte del 19 per cento dell’Alleanza di sinistra e il 14 del movimento di estrema destra Jobbik). Nessuno s’aspettava, e oggi nessuno s’aspetta, un arretramento significativo della destra e del suo capo. È stato per esempio impressionante il raduno di 400 mila sostenitori del Fidesz il 29 marzo nella piazza degli Eroi di Budapest. Alle opposizioni non sono rimaste che i lamenti e le lacrime per piangere. La maggioranza degli osservatori ha continuato a sostenere in questi ultimi giorni che le elezioni, pur libere nel segreto d’urna, saranno tuttavia lungi dall’essere davvero corrette. Secondo diversi oppositori, soprattutto liberali e socialisti, Orban starebbe cercando di costruire un Paese postsovietico sul modello dell’Ucraina o della Bielorussia. Si teme che l’Ungheria si stia avviando a diventare sempre di più una specie di democrazia manipolata. C’è addirittura chi rievoca con memoria intimorita la passata dittatura. L’Economist sottolinea: «Il Fidesz di Orban ha instillato molta paura nel cuore di tante persone».
Sono all’ordine del giorno fra la popolazione insinuazioni, diffidenze, supposizioni oblique. Si accenna a brogli elettorali che verrebbero stimolati, per esempio, dalla nascita improvvisata di dubbi partiti artificiali, creati apposta per confondere e deviare il voto. I media, in particolare la televisione e la Rete, sarebbero diventati, secondo le più recenti opinioni, portavoce del movimento di Orban.
Purtroppo il trionfo di Orban è assicurato in gran parte dalla diffusa debolezza delle opposizioni. Cinque partiti, d’orientamento liberalsocialista, vorrebbero formare un’unione anti Orban ma non riescono a mettersi d’accordo. Intanto varie pressioni di natura censoria e poliziesca si fanno sentire sempre più: non a caso un importante esponente del partito socialista, Gabor Simon, è stato arrestato sotto il sospetto di evasione fiscale e falsificazione di documenti. In definitiva, opposizioni degne di nota e di incisività elettorale non se ne scorgono in giro; un vociante ma inconcludente partito d’estrema destra, che si chiama Jobbik, è favorito specialmente da giovani al primo voto. Altri partiti di destra e di sinistra, che per ora possono covare solo un futuro remoto, cercano intanto di rammodernare le parole d’ordine e le loro strutture. Ma i tempi non sono favorevoli. Tempi veloci e spazi ampi non si vedono. Insomma: Viktor Orban marcia spedito verso il suo terzo termine e ha in mente soprattutto un potere forte, centralizzato, poco europeo, con forte mordente nazionalistico. Ad una certa Ungheria antica, intrisa di nostalgia per i suoi secoli ruggenti, la carica di adrenalina in fondo non è mai dispiaciuta.

Corriere 6.4.14
Marine Le Pen: menu unico nelle scuole
L’erede della Vandea scopre la laicità
di Stefano Montefiori

Uscire dall’euro, ristabilire le frontiere, tornare alle patrie nazionali, garantire un posto di lavoro ai francesi innanzitutto: la campagna per le elezioni municipali che si sono concluse una settimana fa ha visto Marine Le Pen e il Front national impegnati in una battaglia epocale contro l’Europa. E adesso che i sindaci lepenisti sono al potere in undici città, quali sono le prime misure annunciate? Riportare la carne di maiale nelle mense scolastiche.
«Non accetteremo alcuna pretesa religiosa nei menu delle scuole — ha detto Marine Le Pen —. Non c’è alcuna ragione perché la religione entri nella sfera pubblica, è la legge. Troppo spesso la laicità non è applicata, chiudere gli occhi sulle violazioni della laicità è nello spirito di molti sindaci Ump (centrodestra, ndr) e Ps che vogliono assicurarsi la benevolenza delle comunità».
La lotta contro i cibi halal (per i musulmani) e kosher (per gli ebrei) nelle mense scolastiche è un vecchio cavallo di battaglia della leader del Front national. La difesa della carne di maiale nelle scuole, così come gli aperitivi «vino e salsiccia» organizzati in passato da suoi simpatizzanti nelle piazze di Parigi, sono un modo per mascherare le posizioni anti-immigrazione e in particolare anti-islam sotto il manto moderno della laicità.
Anche in questo Marine Le Pen dimostra di avere cambiato comunicazione rispetto al passato. Il Front national si è schierato spesso contro la Repubblica per difendere i valori della vecchia Francia aristocratica e monarchica, Jean Marie Le Pen in passato e adesso sua nipote Marion si battono per il riconoscimento del «genocidio vandeano», nel quale 170 mila persone trucidate dai giacobini nella repressione della rivolta cattolica del 1793. Ma quando fa comodo, ecco il Front national nuovo paladino della laicità, intesa in questo caso come esclusione di chi non fa parte dei «français de souche», i francesi nati in Francia da famiglie francesi da più generazioni. La possibilità di avere almeno un’alternativa di menu è riconosciuta ovunque, pure sugli aerei, ma 11 città francesi la negheranno. Per giunta, in nome della République.

Repubblica 6.4.14
La mensa anti-Islam di Marine Le Pen
A pochi giorni dal successo elettorale, il capo del Front National ordina ai “suoi” sindaci: “Carne di maiale nelle scuole”
Una proposta che indigna anche gli ebrei. E i comunisti insorgono: “Questa è una vera e propria discriminazione”
di Anais Ginori

PARIGI. Appena una settimana dopo aver vinto le elezioni amministrative in dieci città, Marine Le Pen annuncia la sua prima azione di governo a livello locale. La carne di maiale tornerà nei menù di tutte le scuole pubbliche nei comuni guidati dal Front National. «Non accetteremo più differenze religiose nelle mense scolastiche» ha detto la presidente del Fn. Da molti anni, gli istituti francesi hanno introdotto dei pasti senza carne di maiale per venire incontro ai bambini di famiglie musulmane ed ebree. «E’ un attacco alla laicità» commenta Le Pen secondo cui i menù halal e kosher non devono più esistere per i bambini che frequentano scuole dello Stato.
Il ministero dell’Interno, incaricato anche della libertà dei culti, ha ricordato che non esiste alcun obbligo per i comuni responsabili delle mense scolastiche di servire pasti adattati alle convinzioni religiose degli studenti. Finora, ogni istituto si è regolato autonomamente, tenendo conto delle richieste delle famiglie. In particolare, l’idea di servire pasti halal o kosher è difficile da organizzare per via dei controlli sanitari che si applicano in tutte le scuole. Esiste invece una “diversificazione” alimentare sempre più diffusa, come a Lione dove i bambini che non mangiano maiale possono scegliere un menù vegetariano. Anche a Fréjus e Cogolin, due comuni appena conquistati dal Fn, gli istituti propongono dei piatti senza maiale. Una dieta speciale che, secondo Le Pen, dovrebbe ora scomparire.
I sindaci del partito appena eletti sono stati in parte colti di sorpresa dalla nuova intemerata della loro leader. Molti non hanno ancora saputo spiegare come intenderanno fare. «Vedremo quale cambiamento introdurre. Di certo, non lasceremo i bambini morire di fame» ha commentato Cyril Nauth, nuovo primo cittadino di Mantesle- Ville, nella regione di Parigi. Nauth ha fatto capire che ci sarà comunque un menù adatto a chi non mangia maiale. «La laicità deve essere rispettata e applicata» ha detto invece, più convinto, Robert Ménard, neosindaco di Béziers, nel sud della Francia. Davanti all’allarme di molte associazioni di genitori, il vice-presidente del Front National, Florian Philippot, ha risposto: «Nessuna discriminazione. Ma non si possono accettare divieti imposti dalla religione».
Durante la campagna elettorale per le amministrative, il Front National ha evitato accuratamente di fare proclami xenofobi o contro alcune comunità, in particolare i musulmani. I candidati hanno cercato di dare un’immagine pacificatrice, puntando soprattutto sui temi economici. Ma dopo il risultato del voto, che per la prima volta consegna oltre mille consiglieri municipali al partito, da nord a sud del paese, sono tornati gli slogan di sempre. «Marine Le Pen fa la laicità al contrario» ha denunciato il partito comunista, parlando di «un’offensiva anti-musulmana a malapena nascosta». In Francia vivono oltre cinque milioni di musulmani. «Reintrodurre obbligatoriamente la carne di maiale nelle mense scolastiche è un ricatto sui genitori che penalizza i bambini» ha commentato Pierre Dharréville, responsabile per la laicità nel partito comunista. Poche e timide invece le reazioni nel partito socialista. Il Front National ha già incominciato la campagna elettorale per le europee, cambiando registro. E’ tornato a cavalcare i suoi temi preferiti, tra cui il presunto “comunitarismo” termine con cui Le Pen definisce misure e deroghe nella sfera pubblica per le minoranze etniche e religiose.

La Stampa 6.4.14
“Israele ora deve accettare l’accordo bilaterale”
Abu Mazen verso la “svolta radicale”
La svolta del presidente palestinese, sfida aperta a Netanyahu:
«Siamo pronti a denunciarvi per crimini di guerra nei Territori»
La nuova strategia del presidente palestinese che con la firma alla richiesta di adesione a trattati e convenzioni dell’ Onu rinegozia la sua posizione politica
di Maurizio Molinari
qui

Corriere 6.4.14
La Cina è entrata da protagonista anche nel pianeta dei mercanti d’armi
Produzione di armi Il pericolo viene da Est
di Danilo Taino

La Cina è entrata da protagonista anche nel pianeta dei mercanti d’armi. Nel quinquennio 2009-2013, è risultata esserne il quarto esportatore al mondo, con una quota del 6%. Nei cinque anni precedenti, 2004-2008, non era nemmeno nella classifica dei principali esportatori stilata da Sipri — Stockholm International Peace Research Institute —, il più autorevole centro di ricerca in fatto di questioni militari. Tra i due periodi considerati, la crescita delle esportazioni militari di Pechino è stata superiore al 200%. Gran parte degli armamenti, il 40%, è destinata al Pakistan; il 13% va al Bangladesh e il 12% alla Birmania. L’altro gigante del settore che continua a crescere è la Russia, seconda nella graduatoria, passata dal 24 al 27% del totale delle armi esportate nel mondo: Mosca ne vende il 38% all’India, che è il maggiore importatore di armi, con il 14% del totale; un 12% lo manda in Cina, un altro 11% in Algeria.
Questa classifica è interessante perché, tra le altre cose, illumina sulle ambizioni internazionali di molti Paesi, sulle loro alleanze e sul modo di intenderle. Il primo esportatore al mondo per ora è ancora l’America, con una quota di mercato del 29%, in calo rispetto al quinquennio precedente, quando era il 30%. Anche Washington, naturalmente, fa scelte politiche quando vende armamenti. Ma non ha alcun cliente che superi il 10% di quello che vende: a questa quota ci sono l’Australia e la Corea del Sud, al 9% ci sono gli Emirati Arabi Uniti 9% ci sono gli Emirati Arabi Uniti e il restante 71% è distribuito tra decine di altri Paesi. Lo stesso dicasi della Germania, al terzo posto nella classifica con il 7% dell’export globale: il 10% va negli Stati Uniti, l’8% in Grecia, un altro 8% in Israele e il restante 74% è ampiamente diffuso. Il commercio d’armi ha sempre una valenza politica: non le vendi a chi domani potrebbe usarle contro di te (salvo casi di follia e di avidità ir- refrenabile). Ma sembra evidente che i Paesi occidentali oggi la- scino — in misura maggiore rispetto agli anni della Guerra fredda — molto più spazio a considerazioni di business. La Francia, quinta in classifica, non fa eccezione, nonostante la sua quota di mercato sia scesa dal 9 al 4%: il 13% del suo export di armi va alla Cina, l’11% al Marocco, il 10% a Singapore. L’Italia, che tra i due quinquenni considerati ha aumentato le vendite all’estero di quasi il 30%, nella lista degli esportatori è nona, con il 3% del mercato. Se c’è un rapporto tra armi e probabilità di guerra, il pericolo viene da Oriente. Nel periodo 2004-2008, la regione Asia-Oceania importava il 40% di tutte le armi commerciate. Tra il 2009 e il 2013 la quota è salita al 47%, quasi la metà degli scambi globali: tra i primi dieci importatori, sette sono Paesi asiatici. Anche l’Africa ha aumentato la sua quota: prima comprava il 7% delle armi sul mercato e ora è passata al 9%. Complessivamente, il volume di armi trasferite, che aveva toccato il minimo nel 2002, è tornato a crescere e ora è sui livelli della prima metà degli anni Novanta. Segnale di nervosismo.

Repubblica 6.4.14
Kabul
Al seggio con Jamila “Un voto contro i Taliban per i diritti delle donne”
In occasione delle ultime presidenziali ben il 40 per cento degli elettori sono state donne
Su 2700 candidati locali oltre 300 sono donne. Mai così tante le donne candidate
di Giampaolo Cadalanu

Milioni di afgani in fila ieri per eleggere il presidente Malgrado la paura di attentati e il sangue delle ultime settimane Anziane col burqa e giovani con hijab e tacchi a spillo Un giorno storico: “Il nostro futuro adesso può cambiare”

KABUL JAMILA appartiene alla generazione che gli uomini dal turbante nero li ha affrontati. Erano spaventosi, dicevano cosa si poteva fare e cosa no. A 45 anni non si vergogna nell’ammetterlo: «Mi sono chiesta tante volte se valeva la pena di andare a votare. Avevo paura. Sapevo che i Taliban hanno minacciato rappresaglie. Ma ho voluto avere fiducia, per me stessa e per il paese. Ho pensato: forse il futuro dell’Afghanistan può cambiare, anche per un solo voto». Alle nove del mattino è uscita di casa sotto la pioggia, sfidando assieme il monito dei fondamentalisti e il fango della scarpata, e si è avvicinata al seggio, nella moschea Gaghoria.
Accanto a lei c’era Maria, al suo primo voto di diciannovenne. Era emozionata e decisa, con il sorriso dell’altra generazione. Lei i barbuti che si facevano chiamare “Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” non li ha mai conosciuti. Per lei, gli uomini non possono che essere come Abdulhakim, suo padre, base di ogni certezza e affetto anche per Jamila e per gli altri sette figli, dritto come un fuso nonostante i 62 anni e la barba candida.
Tutti e tre hanno infilato l’indice nell’inchiostro, hanno ritirato le schede, hanno segnato una crocetta accanto al nome di Abdullah Abdullah. «Ci fidiamo di lui. Lo sappiamo, non svenderà i diritti delle donne ai Taliban in cambio di un compromesso. O almeno, contiamo su di lui all’ottanta per cento», ride Jamila.
Sapevano benissimo che cosa c’era in palio ieri, le afgane in fila davanti ai seggi, anziane curve sotto il burqa e giovanissime con hijab e tacchi a spillo, madri sfiancate con i bambini attaccati al collo e contadine centenarie con la pelle cotta dal sole. Sapevano che il nuovo presidente afgano avrà un solo grande punto da decidere. Non farà il miracolo di riavviare l’economia dalla paralisi. Non potrà cambiare gran che nello scenario geopolitico. Non avrà la forza di stravolgere le regole più arcaiche della cultura afgana. Ma l’uomo che prenderà il posto di Hamid Karzai, se vorrà, potrà resistere alla tentazione di cedere i diritti di tutte loro: delle più povere, spettri timidi sepolti sotto il poliestere azzurro, come delle più ricche, padrone di casa orgogliose, con il rossetto e le unghie laccate. “Svenderle”, approfittando della progressiva disattenzione dell’Occidente, sarebbe una scorciatoia per un accordo con i Taliban, forse verso quella pace che tutti gli afgani sognano. Ma per loro sarebbe il ritorno al Medioevo.
Per questo erano oltre due milioni e mezzo, secondo la Commissione elettorale, le afgane che hanno celebrato i meccanismi della partecipazione, spingendo la scheda con le dita macchiate fino in fondo agli scatoloni di plastica con i sigilli verdi, le urne della giovane democrazia afgana. Lo schiaffo al fondamentalismo si è sentito chiaro e forte, sette milioni di persone l’hanno assestato con energia e con il sorriso, facendo segnare ai trionfanti funzionari di governo un insperato 58 per cento di affluenza e pochi incidenti.
Jamila ride, di un riso leggero: «Il tempo dei Taliban è finito». Chiediamo del ricordo più brutto, e lei continua a sorridere: «Una volta, era d’estate, ho comprato un gelato. Al mango, è il gusto che mi piace di più. Subito mi sono sentita arrivare una frustata sulla nuca. Era un Talib: considerava indecente l’idea che fossi entrata nella gelateria senza accompagnatori. Ho buttato via il gelato, sono andata via. Il gusto di mango mi piace, quello delle frustate molto meno». Solo per un momento la voce si abbassa e il sorriso si vela: «No, non lo sopporterei di vedere mia figlia frustata per un gelato. Per fortuna è finita».
Jamila guarda Maria con un’occhiata tenera. Per la nuova generazione, l’ipotesi di affrontare la frusta equivale a quella di viaggiare nel tempo: «Picchiare le donne? Non succede più. Io sto finendo il liceo, voglio andare all’università, studiare Informatica». Maria le speranze le coltiva, è cresciuta lontana dai guardiani del vizio: «Voglio restare in Afghanistan, voglio diventare una persona colta e buona, voglio essere utile al mio paese, se ne avrò la possibilità. Mi fido del dottor Abdullah, almeno per quanto ci si può fidare di un candidato. Ha preso l’impegno di fermare le violenze contro le donne».
Persino Abdulhakim, orgoglioso della sua famiglia, è ottimista. E per sottolineare la sua fiducia, spiega in una frase tutto l’Afghanistan: «Credo anch’io che Abdullah si impegnerà per le donne. Altrimenti non le avrei lasciate andare a votarlo».

l’Unità 6.4.14
Il liberale che stregò la sinistra
I 90 anni di Eugenio Scalfari tra memoria e preveggenza
Un’avventura, la sua, che appartiene a una intera generazione intellettuale: quella che ha generato la democrazia italiana
di Bruno Gravagnuolo

ILLUMINISTA RADICALE, AMANTE DELLA SCRITTURA E DELL’AVVENTURA CON VOCAZIONE ALL’EGEMONIA CULTURALE E POLITICA Seppur declinata sul versante di una certa idea della borghesia illuminata in Italia. Non su quello della sinistra classica e del movimento operaio, per intendersi. C’è tutto questo nei 90 anni di Eugenio Scalfari. Con la parabola di un’esistenza speciale. Che al contempo appartiene a una intera generazione intellettuale: quella nata negli anni del fascismo. E che, con viaggio lungo o breve, ha generato la democrazia italiana e il suo «spirito pubblico». Laico e progressista in questo caso.
L’avventura comincia lo sappiamo bene dalla sua densa autobiografia dai Meridiani a Civitavecchia. A poca distanza dagli ormeggi di un porto che alimenta l’immaginario infantile del futuro inventore de l’Espresso e Republica. E comincia dalle radici giacobine, massoniche e carbonare, di due famiglie singolari che gli danno le radici, e di cui Scalfari rivendica le ascendenze. Grandi radici, calabresi e trapiantate a Sanremo e a Roma. E grandi ricordi intimi, che a ben guardare forgiano un «carattere». Paterno, egemonico, come quello di chi tiene uniti i genitori che non si amano o si amano poco. E malgrado la latitanza familiare di un padre dannunziano (va a Fiume), poi direttore di Casinò e in futuro tra i datori di lavoro del figlio (nel dopoguerra tra escursioni professionali varie).
Esperienza cruciale in questi anni: il fascismo, il Guf. E prima ancora gli studi a Roma e Sanremo con preti modernisti e altri grandi insegnanti e l’amicizia con Calvino. Scalfari è fascista, studioso di economia e corporativismo. Ultra fascista, frondista e dissidente. Espulso da Scorza perché su Roma fascista attacca l’Eur, gli arricchimenti e la speculazione edilizia (è nuovista e contro i burocrati corrotti). Qualcosa del genere gli capiterà quando Bonomi esigerà il suo licenziamento dalla Bnl, per gli articoli sul Mondo di Pannunzio contro la «bonomiana» e gli ammassi superpagati dallo stato, a fini clientelari. Ma la svolta nel frattempo è questa: Scalfari è entrato nel giro di Raffaele Mattioli, gran patron della Comit, di La Malfa, di Giulio De Benedetti, di cui sposa la figlia Simonetta, di Bruno Visentini, Leopoldo Pirelli e di grandi intellettuali come Strehler, Cancogni, Bo, Montale, Elena Croce. E nel salotto Comit conosce anche Piero Sraffa.
Così l’ex monarchico e crociano, diviene un liberale di sinistra a contatto con l’eredità dello scomparso partito d’Azione. Un “liberal” insomma che tenterà senza successo di mettere in piedi un altro partito liberale, dalle cui costole viene anche il primo partito radicale. Ma non è la politica la vera artiglieria del giovanotto versatile e ben accolto dai salotti della borghesia riformista. È l’editoria, l’opinione, la battaglia delle idee. Ritradotta nel linguaggio alto-basso dei giornali. Dall’elitario Mondo, con Pannunzio, tra Croce, la Malfa, Carandini, e Ricardo Lombardi. All’Europeo, dove Scalfari impara a spiegare l’economia, previa cestinatura da parte di Benedetti dei primi suoi tre pezzi. Con Benedetti nel 1955 è la volta dell’Espresso, che all’inizio doveva essere quotidiano, e che sarà matrice e dna originario della Repubblica. Slalom tra i finanziamenti, oltre al mondo già citato, c’è Olivetti, e inizialmente Enrico Mattei (ma la joint tra i due non può funzionare). Sicché Scalfari, con Benedetti e l’amico Caracciolo, cognato di Agnelli, si ritrova controllore azionario della sua creatura. La «lenzuolata» che fa la storia della stampa italiana: un settimanale dalla grinta «quotidiana». Con il meglio della cultura alta e memorabili inchieste e scoop. «Capitale corrotta, nazione infetta», Sifar, rumore di sciabole, la campagna contro la «razza padrona» del capitalismo assistito e di stato. E pure l’avanguardia letteraria, a dispetto del crocianesimo e del «proustianesimo» di Scalfari: «Avanguardia in vagone letto», come da titolo ironico in testa all’inchiesta di Viola sul Gruppo 63. Qual è il punto di «costume» cruciale in questo scorcio finale degli anni 60 che incrocia il 1968? Eccolo: la cultura radical socialista di Scalfari in condominio iniziale con Arrigo Benedetti prima della rottura su Israele conquista una egemonia «terzaforzista». Conquista borghesia riformista e ceti medi progressisti. Apre falle nell’insediamento comunista e all’insegna del rifiuto dell’anticomunismo, moderato e non. L’Espresso è una sorta di lasciapassare per il comunismo italiano: non più demonizzato ma difeso, ancorché criticato per i suoi suoi ritardi. Che sdogana al contempo l’azionismo sconfitto, sia a destra che a sinistra, favorendone la presa trasversale tra schieramenti e generazioni diverse. È uno status symbol illuminista al tempo della contestazione. Un difensore civico dell’Italia che chiede laicità, diritti civili, modernità non clientelare, capitalismo democratico. Contro le paure dell’Italia reazionaria e i «padroni del vapore», per citare lo slogan di Ernesto Rossi, di cui Scalfari diviene la reincarnazione non elitaria.
Il codice di Repubblica nel 1976, fortificato dalla battaglia di Segrate anti Craxi e anti-Berlusconi sarà lo stesso: contro il terrorismo, contro la degenerazione politica e clientelare. E per l’evoluzione «berlingueriana» del Pci. Da associare a governi istituzionali, e presidenzial-parlamentari: per la modernizzazione italiana. Sulla falsariga di ciò che fu la destra storica dopo l’unità italiana. Operazione egemonica ancora vincente, ora che la sinistra storica pare dissolta e Repubblica ha assunto il format veloce «news-commento in uno». Il «fondatore» comunque è ancora lì, e su Renzi da Repubblica a lungo evocato scriveva solitario a marzo: «Ci sta vendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione del suo predecessore». Incontentabile, ma è Scalfari. Figlio del 900 ma intriso di memoria e preveggenze. Resterebbe lo Scalfari filosofo, di cui diremmo solo questo: è un «Io» che si mette in comune ragionando ad alta voce con gli altri. Sulla finitezza e sul dar «forma», leopardiano e nietzscheano, al «non-senso» e al dolore. Per vincere la morte, con la civiltà con-vissuta e rammemorata. È un invito che raccogliamo volentiri, e che «ricambiamo» con l’augurio più sincero a Scalfari. Di continuare ancora a lungo.

Repubblica 5.4.14
In povertà sua lieta sciala da gran signore
di Eugenio Scalfari

A volte le parole diventano di ghiaccio e non sono più pronunciabili
Bisogna dare alla parola Senato un nuovo ma sostanzioso significato

MATTEO Renzi è per il cambiamento? Anche noi siamo per il cambiamento. Renzi è per le riforme? Anche noi siamo per le riforme. Renzi è per la prevalenza della politica sull’economia? Noi siamo per l’economia politica, forse è la stessa cosa detta con altre parole, ma forse no, dipende. Renzi è per gli annunci ai quali seguiranno i fatti? Noi siamo per i fatti e per i programmi che inquadrano i fatti già avvenuti nel quadro di un sistema.
Infine, Renzi è per la riforma del Senato ed anche noi lo siamo, ma c’è riforma e riforma, cambiamento e cambiamento, innovazione e innovazione. A volte, come diceva Rabelais nel suo Pantagruel, le parole diventano di ghiaccio e non sono più pronunciabili. Bisogna dunque farle sciogliere e dar loro un senso, un significato. Il problema dunque è questo: dare alla parola Senato un nuovo ma sostanzioso significato. Oppure tanto vale abolirlo.
Il Senato delle autonomie non ha senso alcuno, c’è già la conferenza Stato-Regioni, che comprende anche i Comuni; è formata da tutti i governatori e da tutti i sindaci ed ha un comitato ristretto eletto dall’assemblea di tutti i suddetti. Non costa un centesimo se non il viaggio a Roma quando l’incontro col governo ha luogo.
Il Senato delle autonomie sarebbe un inutile doppione. I romani, quando parlavano della loro Repubblica, dicevano Senatus populusque. Durò quattrocento anni, Ottaviano Augusto lo conservò, Nerva e i suoi quattro successori lo restaurarono; poi ebbe inizio il declino dell’impero che durò per altri quattro secoli. Adesso il tempo corre assai più velocemente.
DUNQUE cominciamo dal Senato. Nessuno, tranne il movimento di Rodotà e Zagrebelsky, si oppone all’abolizione del bicameralismo perfetto perché, appunto, è una gigantesca imperfezione.
In teoria neppure il Movimento 5 Stelle vi si oppone anche se voterà contro adducendo pretesti privi di consistenza. Lo vuole Renzi, lo vuole Berlusconi, lo vuole Alfano, lo volevano i “saggi”, lo vuole anche l’attuale presidente Pietro Grasso e lo vuole Giorgio Napolitano. E non soltanto per tagliare il numero dei senatori e non spendere neppure un euro per chi vi partecipa. Anche il numero dei deputati dovrebbe essere tagliato, ma queste sono economie che equivalgono a voler prosciugare il mare usando il cucchiaio.
Qui invece stiamo parlando di architettura costituzionale che è tutt’altra cosa. Il Senato non dovrà più votare la fiducia al governo né approvare il bilancio dello Stato e la legislazione connessa, salvo che non si ravvisi una violazione costituzionale. Sulla costituzionalità di tutti gli atti del governo il Senato potrebbe anzi dovrebbe esercitare la sua vigilanza allo stesso modo in cui l’esercita la Camera.
Così pure potrebbe, anzi dovrebbe esercitare un accurato controllo sulla pubblica amministrazione, tanto più rigoroso in quanto la Camera esprime il governo e lo sostiene con la sua fiducia. Il Senato è dunque il ramo del Parlamento più consono al controllo della regolarità e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Si dirà che una parte di questo controllo è affidato alla Corte dei Conti, ma quella è una magistratura che persegue irregolarità o addirittura reati di natura contabile; negli ultimi tempi è andata al di là di queste sue competenze e non è comunque un ramo del Parlamento.
Infine il Senato potrebbe, anzi dovrebbe svolgere un ruolo culturale approfondendo temi scientifici, sanitari, ecologici, umanistici, che spesso sono affrontati dal governo e dalle Regioni senza preparazione e quindi compiendo errori che possono essere di grave nocumento per i governati. Per adempiere a questo compito il Senato dovrebbe esser composto da un certo numero di membri che rappresentino altrettante “eccellenze” e le mettano a tempo pieno a disposizione del paese. Non possono certo essere eletti, ma nominati dal capo dello Stato che potrà avvalersi di rose di nomi fornite da Accademie culturali, Università, scuole specializzate. Concordo pienamente su questo punto con la senatrice a vita Elena Cattaneo che ha formulato in proposito una sua specifica proposta.
Questo è il mio pensiero che vale quel che vale, cioè assai poco. Ma i temi no, non sono soggettivi. I temi per fare dell’attuale Senato non una scatoletta vuota ma una Camera Alta nel pieno senso della parola, sono questi e su di essi si può e anzi si deve svolgere un libero dibattito che porti ad una legge costituzionale idonea a costruire un’equilibrata architettura costituzionale.
In una fase in cui si aumenta il potere decisionale del governo e soprattutto quello del premier, annullare completamente una delle due Camere configura una tendenzialità autoritaria estremamente rischiosa specie in tempi di partiti personalizzati. La premiership è cosa del tutto diversa dall’attuale presidenza del Consiglio. Diversa e probabilmente necessaria purché opportunamente bilanciata. I poteri e il rapporto tra di essi in Usa tra il Presidente degli Stati Uniti e il Congresso ne sono la prova, confortata da quella del Regno Unito britannico nel rapporto tra il premier e i Comuni. Congresso in America, Camera dei Lord in Gran Bretagna sono due esempi da non perder di vista in Italia e nella futura Europa nel giorno auspicabile in cui diventerà un vero Stato federale.
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C’è un secondo tema di estrema attualità e più sentito di ogni altro dalle persone e dalle famiglie che sopportano ormai da almeno due anni e forse più gravi sacrifici economici ed hanno perso la speranza di poterli rapidamente attenuare. Gli interventi per alleviare quei sacrifici e risvegliare quella speranza sono stati annunciati e per alcuni di essi è stata fornita la data d’esecuzione: i 10 miliardi di diminuzione del cuneo fiscale (che per quest’anno saranno soltanto 6,5-7) e il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese creditrici.
La data di abbattimento del cuneo fiscale avrà inizio con le buste paga del 27 maggio ed avrà luogo con una detrazione o un bonus di 80 euro mensili (16 dei quali già contabilizzati dalla legge di stabilità votata ai tempi del governo Letta).
Quanto ai debiti della pubblica amministrazione, il pagamento è un problema tutt’altro che risolto. La cifra complessiva è stata valutata a circa 60 miliardi, ma le relative fatture non sono mai state certificate dai debitori e cioè dal Tesoro e soprattutto dalle Regioni e dai Comuni. In alcuni casi la mancata certificazione è responsabilità delle imprese che pretendono di esser pagate per lavori mai fatti o contestati dall’ente committente.
Insomma i debiti pagabili non sarebbero più di 5 miliardi che si aggiungono ai 27 già contenuti nella legge approvata durante il governo Letta.
La Cassa depositi e prestiti dal canto suo è immediatamente disponibile a garantire le banche per i pagamenti suddetti fino a una cifra che quest’anno non supera i 30 miliardi e quindi liquidarne 60 è fuori questione.
Quale che sia l’ammontare effettivo di questa operazione, essa sarebbe estremamente importante per immettere liquidità nel sistema ed obbliga le banche ad uscire dal loro malsano torpore nei confronti dell’economia reale. La quale comunque dovrebbe ricevere un decisivo sostegno dalle iniziative preannunciate da Mario Draghi tre giorni fa col sostegno unanime del Consiglio della Bce, rappresentanti della Bundesbank compresi.
L’impegno di Draghi ha come obiettivo quello di fronteggiare un’ulteriore caduta dei prezzi nei paesi dell’eurozona (e non soltanto) prevedendo iniziative «convenzionali e non convenzionali». L’ammontare è enorme perché si parla d’una cifra tra i 900 e i 1.000 miliardi di euro che potrebbero essere impiegati nell’acquisto di bond e di obbligazioni dei debiti sovrani ma anche emessi da imprese private. Lo scopo non è soltanto quello di aumentare la liquidità del sistema ma anche di favorire un ribasso nel tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro incentivando in tal modo le esportazioni europee e soprattutto quelle degli Stati meridionali dell’Unione verso l’area del dollaro. Se il rapporto di cambio scendesse verso l’1,20 dall’attuale 1,37 non c’è dubbio che gli investimenti segnerebbero una ripresa con benefici notevoli sull’economia reale.
Le altre iniziative in corso da parte del governo Renzi sono ancora vaghe specie per quanto riguarda le relative coperture. Perfino lo sgravio dell’Irpef è ancora in cerca di copertura anche se Renzi la dà per trovata. La spending review nel 2014 difficilmente fornirà una cifra superiore ai 3 miliardi; altre risorse immediatamente disponibili sono già impegnate per finanziare i Comuni in difficoltà, per risanare edifici scolastici in dissesto e completare lavori pubblici di urgente necessità. Infine per finanziare l’occupazione dei giovani, già iniziata dal governo Letta come abbiamo ricordato domenica scorsa, ma bisognosa di ulteriore sostegno e ampliamento.
Renzi promette ed è utile che lo faccia per conquistare consensi in vista delle imminenti votazioni europee, ma affinché quegli annunci si trasformino in fatti concreti ci vogliono mesi e spesso anni come del resto ha avvertito il nostro ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. «In povertà mia lieta, scialo da gran signore» dice il protagonista della Bohème a Mimì. Non vorremmo applicare questa parola al nostro presidente del Consiglio, ma il rischio c’è e non è affatto da poco.
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Le elezioni europee del 25 maggio produrranno secondo il loro risultato varie conseguenze nei singoli paesi membri della Ue e nel Parlamento di Strasburgo.
Per quanto ci riguarda esse misureranno col sistema proporzionale la consistenza delle varie forze in campo che, lasciando da parte partitini di piccolissime dimensioni, si riducono a cinque: il Pd di Renzi, i pentastellati di Grillo, Forza Italia di Berlusconi, il centrodestra di Alfano e la Lega.
Due di questi partiti sono decisamente antieuropei e antieuro: Grillo e la Lega. Forza Italia di Berlusconi è a mezza strada secondo quelli che saranno durante la campagna elettorale gli umori del capo. Due, il Pd di Renzi e il centrodestra di Alfano, sono europeisti e decisamente favorevoli all’euro. Tutti comunque, nessuno eccettuato, puntano a favorire la crescita dell’economia reale, ma gli anti- euro immaginano una crescita mentre parteggiano per un obiettivo che produrrà soltanto rovine e macerie portando gli Stati che abbandoneranno la moneta unica a livello dei paesi economicamente poveri e politicamente del tutto irrilevanti.
Se poi vogliamo considerare lo scacchiere politico italiano per quanto riguarda la natura delle forze che si confrontano, constatiamo che Grillo, Berlusconi e la Lega sono partiti di natura chiaramente populista; il centrodestra di Alfano ed anche di Casini certamente no. E Renzi? Che cos’è Renzi e il partito renziano che ancora chiamiamo Pd ma la cui natura è profondamente cambiata?
Esprimo qui un’opinione personale: Renzi è un populista che combatte il populismo in casa d’altri ma lo applica in casa propria. Dicono gli osservatori che circa cinque ore al giorno sugli schermi delle varie trasmissioni televisive appare lui con la sua facondia, la sua capacità di ispirare simpatia, il fascino seduttivo che emana dal suo viso, dai suoi gesti, dalla sua figura. Renzi persegue l’obiettivo di guadagnare consensi e stravincere alle prossime europee.
La tecnica seduttiva non si impara, ci si nasce. Poi con il tempo e l’esperienza la si affina e se ne fa uno strumento di potere a favore del partito di cui si ha la guida, e se l’operazione funziona porta al possesso di quel partito. Questo è Renzi. Con le caratteristiche di Berlusconi senza i vizi e i crimini di Berlusconi. È il figlio buono e bravo di Silvio e infatti lo dice e ne è alleato e lo sosterrà, pronto però a pugnalarlo alle spalle se dovrà in qualche modo evitare la sconfitta alle europee. Renzi lo sa che può anche avvenire questo; d’altra parte è lui che ha rimesso Berlusconi in circolazione politica e chi può essere causa del suo male pianga se stesso. Renzi comunque ha due nemici, uno dichiarato è Grillo, l’altro potenziale è Berlusconi. Tre populismi si affronteranno dunque il 25 maggio con l’obiettivo di non perdere i voti che già hanno, di prenderne il più possibile dal partito delle astensioni e qualcuno dagli avversari.
Nella storia moderna il populismo, i partiti personalizzati, le leadership assolute e il decisionismo sono diventati conseguenze inevitabili del suffragio universale, perciò il livello della politica e la qualità del bene comune sono precipitati in basso.
A noi piacerebbe risollevarli, usare la critica responsabilmente tutte le volte che ci sembri necessario, sostenendo anche ciò che non ci piace se non vi sono alternative disponibili. Ma le alternative — se non ci sono — bisogna comunque prepararle. Ecco un ruolo che possiamo e dobbiamo assumerci con il massimo impegno. Informare la gente e aiutarla a capire educandola alla democrazia. Non è facile ma è ciò che abbiamo tentato di fare per tutta la vita.
Post scriptum. Parlando a studenti belgi e olandesi papa Francesco ha detto che i poveri sono il cuore del mondo e aiutare i poveri è la sola cosa che ci procuri la salvezza. Qualcuno l’ha accusato di comunismo e lui ha risposto: dico quello che c’è scritto nel Vangelo.
Io ho scritto più volte che questo papa è rivoluzionario e non certo perché è comunista ma perché ripete a duemila anni di distanza la predicazione di Gesù di Nazareth. Questo a centinaia di milioni di persone piace sentir dire e piace molto anche a me che non sono né credente né comunista.

Repubblica 6.4.14
Il fondatore di “Repubblica” compie oggi novant’anni
Ci confessa ricordi, paure desideri. E affronta nuove sfide intellettuali
Eugenio Scalfari: “Ho inseguito l’ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo sul caos”
intervista di Antonio Gnoli
qui

Repubblica 6.4.14
Speciale
I 90 anni di Eugenio Scalfari
qui

Corriere 5.4.14
Capiamo i numeri prima del linguaggio
Le magie del cervello a due giorni di vita
Quantità, tempo e spazio sono innati e non derivati dall’esperienza
Il test sui neonati dà ragione a Kant: «Prestano più attenzione a suoni e oggetti correlati»
di Massimo Piattelli Palmarini

L’esperimento. Ai bimbi di un reparto maternità sono stati  mostrati stimoli visivi e sonori con un grande schgermo mentre gli scienziati misuravano la durata del loro sguardo

Immanuel Kant (1724-1804) è l’autore della “Critica della ragion pura”, opera nella quale sostenne che il tempo e lo spazio sono forme a priori

 Non capita tutti i giorni, anzi nemmeno tutte le settimane e nemmeno tutti i mesi, che una tesi filosofica fondamentale sia confermata sperimentalmente. Eppure questo è appena successo, grazie a un lavoro appena uscito sull’ultimo numero dei Proceedings of the National Academy of Sciences of the Usa (in breve PNAS) co-firmato da una delle piu’ note e autorevoli psicologhe cognitive: Elisabeth Spelke di Harvard. Insieme alle colleghe Véronque Izard, Coralle Sann e Atlette Streri del Laboratorio di Psicologia della Percezione del CNRS e dell’Università di Parigi Descartes, hanno confermato la tesi Kantiana che spazio, tempo e numero sono innati.
La Spelke ha indagato per anni e riportato in numerose pubblicazioni le radici cognitive dell’aritmetica e della nostra percezione dello spazio. Me lo conferma in un’intervista in esclusiva. Mi dice, infatti: «Le mie collaboratrici ed io avevamo recentemente scoperto che i neonati sono sensibili ai numeri e che bimbi appena più grandi, a cinque mesi, notano la correlazione tra numeri crescenti o decrescenti e spazi, rispettivamente, più o meno grandi. Volevamo, quindi, meglio indagare l’origine di questa capacità. Ovviamente, nel mondo che ci circonda, numeri, lunghezze e durate vanno insieme. Serie più numerose di oggetti occupano maggior spazio e sequenze più numerose di suoni durano più a lungo. Ci siamo chieste se queste correlazioni sono apprese o invece innate. Ora lo abbiamo fatto studiando i neonati, che ancora non hanno potuto avere esperienze di queste correlazioni».
Effettuare esperimenti di natura cognitiva su bimbi molto piccoli, in particolare su neonati a solo due o tre giorni dopo la nascita, sembrerebbe presentare formidabili difficoltà. Chiedo alla Spelke come hanno fatto. «Arlette Speri ha condotto questi esperimenti pionieristici a Parigi, in un reparto maternità, quando i bimbi sono svegli e attenti. Si pone loro di fronte un grande schermo e si fanno loro udire sequenze di suoni più o meno numerose, ciascuno di durata più o meno lunga, per uno o due minuti, prima che sullo schermo appaiano gruppi di oggetti più o meno numerosi, oppure linee di diverse lunghezze. La durata del loro sguardo viene rigorosamente misurata, mentre le serie di suoni continuano. Come noi, i neonati prestano maggior attenzione, cioè guardano più a lungo, eventi tra loro correlati, in questo caso, sequenze di suoni più numerosi, o che durano più a lungo, abbinate a un numero corrispondente di oggetti, oppure a linee più lunghe».
Vale la pena, per rendere questi esperimenti a noi palpabili, precisare che i numeri delle ripetizioni di sequenze acustiche (tipo tu-tu-tu... oppure ra-ra-ra-ra..., oppure tuuuu-tuuuuuu... oppure raaaaa-raaaa-raaaa...) variano tra quattro e diciotto e sullo schermo appaiono, in corrispondenza, o senza corrispondenza, quattro triangolini gialli, oppure sei o dieci cerchietti rosa e così via.
Faccio l’avvocato del diavolo e chiedo alla Spelke perché questi risultati mostrano che spazio, tempo e numeri sono innati. Risponde: «I suoni sono udibili, seppur distorti, già in utero, quindi in astratto è possibile che l’abbinamento tra suoni e durate sia stato appreso prima della nascita. Ma certo non l’abbinamento tra durate e stimoli visivi. Dormire, guardare il soffitto e guardare mamma, papà e parenti occupano totalmente i primi tre giorni di vita. Non vengono loro, ovviamente, dati giocattoli, né hanno alcuna esperienza di linee che si allungano o si accorciano né di figure geometriche colorate. Quindi ci sentiamo autorizzate a concludere che non possono aver anticipato, sulla base della loro precedente esperienza, l’abbinamento tra linee più lunghe, oggetti più numerosi e sequenze uditive di maggior durata. Assai più plausibilmente, la mente e il cervello di un essere umano sono pre-organizzati alla nascita per fare tali abbinamenti fondamentali».
Le chiedo, infine, quali saranno i prossimi esperimenti del suo gruppo. «Vogliamo sapere se queste capacità, presenti alla nascita, aprono la strada al susseguente progresso di concetti e intuizioni in matematica. Stiamo studiando, nel mio dipartimento a Harvard, bimbi più grandi e adulti. Vedremo come questi primordi si innestano su ulteriori sviluppi cognitivi di tipo matematico».
Riaffioreranno in alcuni di noi, penso, ricordi di filosofia del liceo. Gli empiristi inglesi amavano il motto: niente nell’intelletto se prima non è passato attraverso i sensi. Emanuele Kant obiettò: tranne l’intelletto stesso. Appunto, ora lo abbiamo constatato. Peccato che Liz Spelke non possa averlo come collega, in una cattedra di psicologia a Harvard.

Il Sole Domenica 6.4.14
Il pensiero dei bambini
Mettiamo le ali alle parole
La naturalezza infantile in realtà è un complicato meccanismo capace, ben più degli adulti, di attivare quello che Ermogene chiamava «l'occhio della mente»
di Dorella Cianci

Prendere la parola sul corpo, per dirla con l'ultimo libro di J.L. Nancy, significa avere un universo di parole che lo componga, lo crei e lo definisca, rendendolo altro e al tempo stesso unico. Lo stesso Nancy si è rivolto a un pubblico di piccoli per definire "il giusto" (Il giusto è ciò che è dovuto? «L'amore è dovuto a tutti. Sappiamo benissimo che amare qualcuno vuol dire che lo si considera per quel che è»). Parlare invece del corpo vuol dire avere a disposizione così tante parole da poterne descrivere la sua esteriorità senza cadere in quello che è stato indicato come il paradosso di Platone: denigrare il corpo a partire dalla memorabilità e dalla straordinarietà funzionale di un corpo. Un buon pretesto per queste (e altre) riflessioni è il volume di Viti, Il sasso e il filo di lana, il quale propone una serie di conversazioni su finito/infinito, su natura/cultura, su tempo/eternità, ma in particolare propone una poderosa riflessione sul dualismo corpo/mente nata all'interno del filosofare dei e con i bambini, doverosamente da distinguere dall'idea di scrivere per i bambini. Possibile affrontare temi così densi con i bambini? Fattibile, nella misura in cui il mondo meno strutturato del percepire infantile riesce a percepire il "rumore" della separazione fra coscienza e vita, senza legarsi al primo elemento, senza affidarsi ciecamente al secondo. La scissione fra corpo e mente non è presente nella prima infanzia, ma inizia a definirsi più tardi, anche se «la mente e il corpo sono amici», come dichiara la piccola Sofia, a differenza della sua compagna di banco, Rebecca, la quale afferma: «il corpo è inutile, perché non riesce a racchiudere i pensieri e la fantasia». Una svalutazione del corpo potrebbe portare il bambino a credere che solo la mente «sia utile, perché con lei s'inventano amici immaginari, che ci consolano e ci fanno compagnia»: un'idea tutta a vantaggio della creatività, anche se studi neuroscientifici hanno dimostrato che il bambino ha necessità del corpo per dare più ampio respiro alla fantasia, il bambino inventa anche a partire dal suo circoscritto mondo epidermico. Proprio come accade osservando il mondo animale, il bambino ha la necessità di toccare, di odorare, di saltare, di vedere nel dettaglio, senza l'appiattimento proveniente dalla "infosfera", che in seguito arriverà (interessante il saggio dello psicologo Peter Gray, Free to learn, edito di recente).
Roland Barthes racconta di un bambino che gioca in un clima di totale serenità, portando alla madre un sassolino o un filo di lana, simbolo di un piccolo dono, ma anche sema di una realtà afferrabile che ha sede fuori dal proprio corpo, nel set di azione, che in questo caso è il luogo di gioco. Il bambino si muove con spontaneità e fa venire in mente, ricorda Barthes, che «si insegna ciò che si sa, ma anche ciò che non si sa e questo si chiama cercare». Il bambino cerca uno scenario dove il corpo e il pensiero siano liberi dall'ottica unilaterale e taglia l'affettata realtà circostante con domande che seguono a domande, sulla scia dei dialoghi socratici, forse un po' abusati, ma di certo reali, i quali rappresentano il fondamento del dibattito, il principio della democrazia quando è realmente dialogico, quando davvero si mette nei "panni di". Da quel momento corpo e mente possono anche esser separati, ma questo non conta, perché il bambino ha iniziato la sua esperienza di ricerca, fatta di tante parole che compongono una realtà descrittiva (ecfrastica) e sono principio di creazione di idee: il corpo non riesce a trattenere le idee, le parole mettono le ali e vanno fuori dai corpi, in un processo ben definito dal regista teatrale Sellars, efficacemente citato da Viti: «i dialoghi di Platone si fondano sul concetto che la verità esiste non da una parte o dall'altra, ma tra le due parti. Quando due persone si parlano, la verità è presente, ma nessuno dei due la possiede interamente». I bambini superano il paradosso di Platone con le parole, come afferma Nicola: «il corpo e la mente collaborano. Per esempio quando uno parla dei contrari filosofici, pensa dei pensieri e il corpo li scrive con le mani, gli occhi e le corde vocali li riescono a leggere». La naturalezza infantile in realtà è un complicato meccanismo capace di attivare quello che un retore greco, Ermogene, in un altro contesto, chiamava «l'occhio della mente».
La peculiarità di questo interesse verso il pensiero dei bambini non è tanto rivolta ai processi cognitivi dei bambini stessi, che una lunga tradizione di studi pedagogici e scientifici ci ha fatto conoscere nel dettaglio, quanto in una straordinaria accelerazione impressa alla rivalutazione della grande peculiarità della filosofia greca vista come modo di vivere espresso in chiave dialogica, recuperando l'importanza del parlato quasi come "esercizio spirituale" per dirla con Hadot, sul quale in futuro occorrerà tornare più nel dettaglio. Il volume di Viti coniuga molto agevolmente una parte teorica a una sezione di dialoghi appuntanti ascoltando gli alunni e si rimarrà stupiti dalla bellezza di alcune riflessioni, come quella della piccola Beatrice: «fra la realtà e l'apparenza ci deve essere equilibrio: troppa realtà potrebbe essere crudele, troppa apparenza non ti farebbe scoprire la verità». Una frase che apre le porte a diverse domande, affrontate dall'segnante insieme agli alunni nel nome del "non sprecare la mente".

Sergio Viti, Il sasso e il filo di lana. Essere maestri, essere bambini, Manifestolibri, Roma, pagg. 170, € 22,00

Repubblica 6.4.14
Super memoria
L’Università della California sta studiando 55 persone dotate di un potere particolare per capire se è riproducibile
Ricorderemo tutto (anche se pioveva un lunedì qualsiasi di vent’anni fa) e senza computer
di Arnaldo D’Amico

ROMA L’UOMO FISSERÀ I RICORDI spontaneamente, senza fare più alcuna fatica. E la sua memoria sarà infinita, non avrà più limiti, potrà contenere tutte le informazioni che desidera. Attenzione: è il crollo di un dogma. Perché queste non sono le previsioni fantascientifiche accese da ricerche su un gene o un circuito nervoso: sono le caratteristiche di cinquantacinque esseri umani che vivono negli Stati Uniti. Uomini, donne e bambini scoperti da uno che di memoria se ne intende, finito sui giornali un decennio fa per aver messo a punto la pillola cancella-traumi. «Supermemoria autobiografica, così ho definito la loro capacità straordinaria — spiega James McGaugh, direttore del dipartimento di Neurobiologia dell’apprendimento e della memoria, università della California, Irvine — Scherzando invece li chiamo “google people” perché, dopo neanche un secondo dalla domanda, iniziano a sciorinare una lunga e complessa risposta. Non hanno limiti: ricordano qualunque cosa gli sia successa o abbiano letto o visto in tutta la loro vita, è una capacità mai osservata prima. Che è naturale e quindi riproducibile. Bisogna solo capire perché si manifesta questo fenomeno solo in alcuni e il meccanismo che si attiva nel loro cervello. Poi potremo metterlo in moto anche nei nostri». È così, quasi casualmente, che dalla capacità di qualche ricercatore di cogliere un fenomeno naturale, a volte sotto gli occhi di tutti, sono arrivati i grandi progressi
della medicina. Fu la scoperta di contadini mungitori di vacche invulnerabili al vaiolo che fece nascere i vaccini. Dai misteriosi cerchi senza batteri intorno alle colonie di muffe arrivò la penicillina e poi gli antibiotici. Mentre altri farmaci che hanno cambiato il destino dell’umanità, come il cortisone, sono nati dall’incontro con malati i cui stranissimi sintomi portarono all’identificazione di nuove sostanze salvavita.
McGaugh ripercorre la sua ricerca nello studio della professoressa Patrizia Campolongo, dipartimento Fisiologia e Farmacologia, Università Sapienza di Roma, che lo ha invitato a tenere una lettura magistrale affollatissima. I due collaborano da anni per studiare come certe molecole del sistema nervoso simili a quelle della marijuana, e per questo dette endocannabinoidi, influenzano la funzione della memoria. «Jill Price è stato il primo caso — racconta McGaugh che porta i suoi ottantatré anni come un bel sessantenne — mi scrisse nel 2006 per sapere se potevo fare qualcosa per il suo “fastidio”. Spesso si perdeva nei ricordi della sua vita, tutti lucidi e precisi e questo le creava qualche intralcio nel concentrarsi sulle incombenze quotidiane. Con la relativa documentazione sotto mano, come raccolte di quotidiani, registri meteorologici, calendari eccetera cominciai con domande tipo: che tempo faceva il 9 gennaio 1981? e nella prima settimana di marzo del 1993? in che ufficio si è recata il 6 febbraio 1984? cosa è successo una settimana dopo? e così via. E Jill, allora cinquantottenne, ricordava tutto perfettamente». McGaugh continuò a studiare Jill per essere sicuro che non fosse solo un’abile illusionista. «Partecipammo a una puntata di 6-0 minutes, la trasmissione tv più popolare negli Stati Uniti. Novanta milioni di americani videro il primo caso di persona con supermemoria. In pochi giorni arrivarono centinaia e centinaia di email da tutti gli Stati Uniti. Ma dopo i colloqui e i test, durati tre anni, i casi veri di supermemoria si ridussero a cinquantaquattro. La prima conseguenza dell’avere tanti soggetti come Jill è stato l’abbandono del termine di “ipertimesia” con cui avevo chiamato il fenomeno. Significa “ipermemoria” in greco, lingua usata per indicare una condizione patologica. Pochi di loro invece si lamentano della loro condizione, la maggior parte si rende conto di avere una facoltà che gli altri non hanno. Qualcuno l’ha tenuta nascosta quando se n’è accorto, per paura di essere considerato come un diverso ed emarginato».
Dal confronto dei casi cominciano a emergere i primi tratti in comune. I ricordi si fissano spontaneamente e solo spontaneamente. Questi soggetti infatti faticano come tutti quando devono memorizzare, come nello studio e poi nel lavoro. Le emozioni hanno un ruolo meno importante. «Tutti ricordiamo dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001, mentre assistevamo al crollo delle Torri Gemelle — spiega Mc-Gaugh — quelli con la supermemoria invece ricordano ogni giorno della propria vita anche se non è stato emozionante. E però se mostriamo loro una storia filmata fatta apposta per non suscitare la benché minima emozione e due giorni dopo chiediamo loro dei particolari, ricordano male e sbagliano come tutti gli altri».
Altri caratteri in comune che guidano le ricerche sono l’assenza di una componente ereditaria. Il supermemore compare all’improvviso in una famiglia normodotata e può essere uno solo di una coppia di gemelli. Infine nei dodici sottoposti a risonanza magnetica funzionale, le strutture del cervello che formano il circuito della memoria rivelano un volume di poco superiore alla media. Da questo dipende la supermemoria? O è la gran quantità di ricordi che ne ha aumentato il volume? «Al momento stiamo indagando in tutte le direzioni — conclude McGaugh — indicate dalle quattro fasi della memoria. La supermemoria si realizza nella prima fase, quella in cui l’esperienza che si sta vivendo si codifica in un ricordo. Oppure nella seconda, del consolidamento, quella in cui l’emozione è determinante. O nell’immagazzinamento del ricordo o nella quarta, in cui si recupera il ricordo. Infine, potrebbe dipendere anche, in parte, da ognuna di queste fasi. Non lo sappiamo ancora. Abbiamo però una certezza, la supermemoria esiste. Non so dire quanto tempo ci vorrà ma riusciremo a riprodurla».

La Stampa TuttoLibri 5.4.14
La Fisica di Carlo Rovelli
Il tempo gocciola come un rubinetto
Tra stringhe che vibrano, “loop” e particelle di Dio: il funzionamento dell’universo nella gravità quantistica
di Piero Bianucci

Può capitare che un libro di fisica «dura» arrivi nella classifica dei saggi più venduti. Capita perché la fisica cerca di rispondere a una domanda antica: com’è fatto il mondo? E questa domanda riguarda tutti. Forse si spiega così il successo del libro di Carlo Rovelli, che la risposta, sia pure per esclusione, la serve già nel titolo:
La realtà non è come ci appare
Il primo ad affermarlo fu il filosofo greco Democrito 2500 anni fa. A noi la realtà appare come qualcosa di continuo. Un tavolo sembra un oggetto solido e liscio. Democrito fece un esperimento mentale: immaginò di suddividere un pezzo di materia in frammenti sempre più piccoli. Si può fare all’infinito? No, perché arriveremmo a frammenti infinitamente piccoli, cioè a punti senza dimensione. Ma se i punti sono senza dimensione, puoi metterne insieme quanti vuoi, non avrai mai un oggetto dotato di volume. Dunque la materia deve essere fatta di pezzetti piccoli ma non infinitamente piccoli, e non ulteriormente divisibili. Democrito li chiamò atomi.
In 2500 anni il concetto di atomo è molto cambiato. E’ rimasta però l’idea di base: la struttura profonda della materia è granulare. Se potessi guardare il tavolo ingrandendolo un milione di miliardi di volte vedrei che è fatto essenzialmente di vuoto, la distanza tra un «grano» e l’altro (i nuclei atomici) è enorme rispetto ai grani. Se i grani fossero palloni da calcio, ne troveremmo uno ogni qualche chilometro. E in mezzo che c’è?
Lo spazio. Non però quello di Newton, che ricorda una scatola vuota nella quale possiamo mettere degli oggetti. Con la teoria della relatività speciale (1905) e generale (1916), Einstein ci ha spiegato che materia ed energia sono intercambiabili, che anche l’energia è granulare, che tempo e spazio sono intimamente connessi e che a dettare la forma dello spazio-tempo è la massa-energia. Lo spazio, dunque, non è la scatola vuota di Newton ma il «campo» che la massa-energia crea intorno a sé, come una calamita crea il campo magnetico visualizzabile con la limatura di ferro. Due grandi sistemi di idee regolano il tutto: la meccanica quantistica rende conto con estrema precisione delle particelle elementari (nipotine degli atomi di Democrito) e delle loro forze (elettromagnetica, interazione debole e interazione forte); la relatività generale rende conto del cosmo a grande scala e della sua forza, la gravità.
Purtroppo c’è un problema: per la meccanica quantistica il mondo è granulare, per la relatività generale no. Oggi la sfida è mettere d’accordo queste visioni del mondo costruendo una teoria quantistica della gravità.
Fin qui Carlo Rovelli si muove su fisica consolidata. Il resto è un cantiere aperto. In una teoria quantistica della gravità anche lo spazio-tempo dev’essere granulare, altrimenti ricadiamo nel paradosso della divisibilità all’infinito già affrontato da Democrito. Quindi lo spazio dev’essere per così dire fatto di «atomi di spazio» e il tempo non scorre come un fiume ma gocciola come un rubinetto. In altre parole, c’è un limite alla distanza più breve e al tempo più breve. Per motivi di meccanica quantistica che tralasceremo, tali limiti sono la lunghezza di Planck, pari a 10 alla meno 35 metri, il tempo di Planck, pari a 10 alla meno 43 secondi.
A questo punto i teorici si dividono. Da un lato abbiamo i fisici della gravità quantistica a «stringhe»: il mondo sarebbe fatto di «cordicelle» della lunghezza di Planck che con le loro vibrazioni darebbero origine a particelle e forze fondamentali. Dall’altro lato abbiamo i fisici della gravità quantistica a loop, nella quale lo spazio è quantizzato da linee chiuse (loop) in una rete costituita dal pullulare di quanti di gravità.
Carlo Rovelli sta dalla parte (minoritaria) dei loop. Witten e molti altri dalla parte delle stringhe. Il fatto che al Cern abbiano trovato il bosone di Higgs ma non particelle supersimmetriche farebbe pendere la bilancia dalla parte dei loop. Chi vivrà, vedrà.
Tornando al libro, è notevole che Rovelli, capo del gruppo di ricerca in gravità quantistica all’Università di Aix-Marseille e autore di importanti contributi alla teoria a loop, sia riuscito a divulgare concetti così esoterici. L’ha fatto con uno stile lievemente paternalistico: «caro lettore», uso del «noi inclusivo», analogie tratte dalla vita quotidiana, toni confidenziali tipo «vorrei fare una pausa». Ma l’ha fatto. C’è forse una svista. Rovelli scrive che tra la lunghezza di Planck e le dimensioni dell’universo ci sono 120 ordini di grandezza. Sommessamente, dovrebbero invece essere 61. Assai meno, ma sempre tanti.

Repubblica 6.4.14
La nuova macchina del tempo
Viaggiare nel futuro o cambiare il passato: libri film e tv riscoprono l’idea cardine della fantascienza E se non fosse fantascienza?
In basso le ore passano più lente che in alto, nel centro della Terra più lente ancora, in una stella densa molto di più
La logica ci impedisce di superare i paradossi, ma la realtà è coerente: è la nostra intuizione che zoppica
di Carlo Rovelli

POSSIAMO davvero viaggiare nel tempo, come fanno sempre più spesso protagonisti di film e romanzi? Possiamo innamorarci di una ragazza venuta dal futuro e rincorrerla fino al suo secolo, oppure tornare nel passato e salvare John Kennedy dall’assassinio? Negli ultimi cento anni la fisica ci ha insegnato molte cose sul tempo, e soprattutto ci ha insegnato che la struttura del tempo è più sottile e interessante del fluire lineare a cui siamo abituati. Oggi sappiamo che saltare rapidamente nel futuro è possibile. Non solo è possibile, ma in piccola misura siamo già in grado di farlo. Per andare in fretta nel futuro, è sufficiente trascorrere del tempo sotto terra, oppure su un aereo veloce.
L’accorciamento del tempo per chi stia in basso e per chi viaggi veloce è un effetto piccolo, ma oggi abbiamo orologi molto precisi che sono sufficienti per misurarlo: un orologio preciso, tenuto tre metri sotto terra indica un tempo minore di tutti gli altri orologi, quando sia riportato su. Questo significa che per l’orologio in basso (e per chiunque sia stato presso l’orologio) il tempo trascorso per arrivare nel futuro è minore del tempo trascorso da tutti gli altri. Al contrario, in alto il tempo passa più veloce. Quando l’esercito americano ha messo in funzione il primo sistema di navigazione
satellitare (il GPS ora in tante automobili), i fisici avevano segnalato che gli orologi sui satelliti sarebbero andati più veloci di quelli a terra. I generali americani responsabili del progetto non hanno voluto crederci, inizialmente, e i primi satelliti sono stati provati senza tener conto dell’accelerazione del tempo ad alta quota. Non hanno funzionato. Così perfino i generali dell’esercito hanno dovuto ammettere che lassù il tempo va più veloce.
Il tempo non scorre uguale per tutti. Ogni oggetto ha il suo tempo, che dipende da dov’è, e da come si muove. Se andiamo nel centro della Terra, il tempo passa ancora più lento. Se andiamo nelle vicinanze di una stella molto densa, dove la gravità è forte, il tempo passa estremamente lento. E’ sufficiente passare un paio di giorni nei pressi di una stella molto densa, per poi tornare qui un numero arbitrario di secoli nel futuro. Un soggiorno sulla superficie di una stella densa è una scorciatoia per il futuro. Oppure, è sufficiente partire a grande velocità con un’astronave e fare un viaggio di pochi giorni per poi tornare sulla Terra un numero arbitrario di millenni nel futuro. Se non siamo ancora capaci di fare simili salti concretamente, è solo per il costo dell’astronave. La fisica che chiarisce e mette ordine in tutto questo è invece chiara: è la relatività generale, una teoria che è stata scritta novantanove anni fa, oggi è solidamente suffragata dall’esperienza e fa parte del nostro sapere solido sul mondo. Correre nel futuro in breve tempo è possibile.
Ma poi possiamo tornare indietro? Possiamo viaggiare anche verso il passato? Qui la cosa si complica un po’, e le opinioni non sono sempre concordi. Io ritengo che non ci sia nulla che impedisca di viaggiare anche verso il passato, ma farlo è complicato e non abbiamo una ricetta semplice. La relatività generale prevede possibili situazioni dove un oggetto può tornare sul suo passato (tecnicamente si chiamano “curve temporali chiuse”). Nulla sembra vietare che alla vostra porta possa bussare qualcuno che sia voi stesso venuto dal futuro. L’unica indicazione che la cosa sia difficile da realizzare è il fatto che non sembrano esserci in giro molti turisti venuti dal futuro; ma non è un argomento forte; magari per i nostri discendenti siamo solo poco interessanti.
Se andiamo nel passato, possiamo modificarlo? Posso andare nel passato e salvare John Kennedy, come vuole fare Jake Epping, il protagonista di un famoso romanzo di Stephen King? Qui nascono problemi: se per esempio vado nel passato e uccido mia nonna prima che lei dia alla luce mia madre, ne segue che io non esisto. E se non esisto, chi ha ucciso mia nonna? L’illogicità di questa situazione rende i viaggi nel passato difficili da concepire, e per evitare questi paradossi alcuni preferiscono assumere che viaggi nel passato siano impossibili, e siano impediti da qualche legge scientifica ancora sconosciuta. Ma si tratta di difficoltà solo apparenti, come ha mostrato David Lewis, uno dei maggiori filosofi contemporanei, in un limpido saggio intitolato I paradossi dei viaggi nel tempo. Il paradosso nasce solo perché usiamo un’idea di tempo che non è quella giusta. Il passato non può essere cambiato viaggiando nel passato, perché se qualcuno ha viaggiato nel passato lo ha già cambiato, e dunque noi siamo già nel presente che ha subìto gli effetti del viaggio nel tempo, e non c’è nulla da cambiare ulteriormente. In altre parole, se qualcuno andrà nel passato, quel qualcuno è già stato nel nostro passato, e il presente è già l’effetto della sua presenza. Se un me stesso futuro andrà nel passato, io so che non avrà ucciso mia nonna, perché io qui sono nel suo futuro e quindi posso già sapere cosa ha scelto di fare. Un’eliminazione della propria nonna è impossibile, perché il passato è già accaduto, anche se un pezzo di questo si trova ad essere anche nel futuro.
L’apparente paradosso viene dal cercare di applicare le nostre idee intuitive sul tempo, che sono inadeguate, o nostre idee ingenue sul libero arbitrio, a una situazione temporale complessa. Come nel cortometraggio del 1962 La jetée di Chris Marker, uno dei film più strazianti e belli della storia del cinema, il passato possiamo rincorrerlo, forse addirittura raggiungerlo, ma non cambiarlo.
La realtà è coerente; è la nostra intuizione che zoppica. La difficoltà di pensare a un passato che possa essere anche futuro è simile alle difficoltà che avevamo da bambini quando ci hanno detto per la prima volta che in Australia la gente vive a con un di sopra che è anche sotto un di sotto; il mondo è semplicemente più complicato di quanto ci dica la nostra intuizione ingenua. È più strano, e secondo me anche molto più divertente. A proposito, questo articolo non l’ho scritto io: l’ho ricevuto in una strana lettera comparsa stamattina sul mio tavolo, datata 3 aprile 2114…

Repubblica 6.4.14
“Time traveler” attraverso i secoli in cerca d’amore
di Leonetta Bentivoglio

VIAGGI nel tempo reiterati, martellanti, rivelatori. Invadono i romanzi, il cinema e la tivù, radicandosi con crescente ostinazione nell’immaginario. Forse non è più questione di fantascienza, ma di risposta a certe urgenze interne. Affastellato dalla velocità che ci comprime, il nostro tempo brucia le attese sentimentali e sancisce dimensioni effimere nei rapporti. Inducendo i personaggi ad attraversare i secoli, le fiction guidano il lettore verso sfere “vecchie” dell’affettività, e quindi paradossalmente nuove. In un mondo incline a legami fluidi fino alla “liquidità”, secondo la definizione di ZygmuntBauman, dove nulla garantisce la durata e si è in perenne ricerca di connessioni mobili, solo trasmigrazioni in fasi storiche più indulgenti dal punto di vista passionale legittimano la voglia di principi azzurri o di principesse rosa.
Lo insegna il film-capostipite del culto: Kate & Leopold, dove Meg Ryan, innamorata del “Time Traveler” Hugh Jackman, decide di seguirlo nelle brume emozionanti del romanticismo ottocentesco da cui era atterrato nella New York del Duemila, dove l’aveva conosciuta. Testimonia questa tendenza l’ondata di libri in cui gli itinerari in epoche diverse alimentano inclinazioni oggi obsolete. Ne Il fiume del non ritorno di Bee Ridgway (Sonzogno), un duca britannico, caduto in battaglia durante le guerre napoleoniche, si trova catapultato in un ospedale londinese del terzo millennio. Avendo il cuore stretto a Julia, rimasta nell’Ottocento, il nobiluomo arretra pericolosamente nella Storia come un Orfeo che sfida il regno della morte in nome di Euridice. Più eterogeneo nel mix di registri narrativi è Storia d’inverno, long seller di Mark Helprin dell’83, ma portato in Italia da Neri Pozza solo adesso, in occasione dell’uscita (in febbraio) del dimenticabile film che ne è stato tratto. Nel volumone che intreccia, in un tessuto manierato, l’affresco storico, l’epopea amorosa, l’urban fantasy e il tuffo nel paranormale, è la chiave del percorso all’indietro nel tempo a decretare il trionfo della coppia. Recente è anche la pubblicazione de Le vite impossibili di Greta Wells di Andrew Sean Greer (Bompiani), dove Greta è spinta dagli elettroshock in balzi temporali chele permettono slittamenti identitari sul fronte dell’amore.
Trasferte di quel tipo possono formulare un’alchimia risolutiva per catturare il partner più desiderato. Lo dimostra Tim, goffo protagonista di una fiaba cinematografica americana dell’anno scorso, Questione di tempo. Il suo dono genetico, che lo immunizza dalla scansione dell’orologio, lo porta ad avventurarsi nel passato per sedurre Mary. Un’altra romantic comedy, stavolta affidata a un libro, è Stay. Un amore fuori dal tempo di Tamara Ireland Stone (Mondadori), che inventa un “Time Traveler” di nome Bennett tentando di emulare La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger, un classico dei voli cronologici, centrato sull’intensa relazione tra Henry e Clare. Ma mentre il bestseller della Niffenegger (Mondadori, 2005) rendeva i salti temporali di Henry involontari, repentini e struggenti, gli spostamenti di Bennett, che dal 2012 approda nel 1995 per amore di Anna, hanno un’artificiosità da “teletrasporto”. Se il sogno di un’immersione conturbante in un incontro “vero” grazie al viaggio nel tempo sancisce un fenomeno nuovo, d’altra parte la fantascienza si diverte da sempre a scardinarne le successioni, e la nostra frenetica accelerazione percettiva ha portato a un incremento del filone, con film quali Ritorno al futuro e Donnie Darko. Si moltiplicano su questo versante anche le serie televisive, da quelle che usano escursioni in periodi differenti per le imprese di una poliziotta contro i terroristi ( Continuum) o per le lotte al crimine di un’ispettrice (“Ashes to Ashes”), fino ad altre in cui lo sfondamento della logica temporale dà strumenti investigativi futuribili ad agenti federali (Flash Forward) e a detective beat (Life on Mars). E mentre nel virtuosistico 1-1/ 2-2/ 6-3, di Stephen King, correre a ritroso può sventare un attentato (a JFK), il cinema d’animazione non sfugge al trend, con Mr. Peabody e Sherman, dove un cane geniale crea la macchina “Tornindietro”, che lo fa interagire con campioni storici e vivere eventi trascorsi.

Repubblica 6.4.14
Il regno italiano di Saturno
di Piergiorgio Odifreddi

NOTIZIE eccezionali dallo spazio: la rivista Science ha pubblicato i risultati di una ricerca coordinata da Luciano Iess dell’Università La Sapienza di Roma e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana, secondo la quale su Encelado, una delle più piccole lune di Saturno, un grande lago, profondo otto chilometri e con un fondale roccioso, dovrebbe permettere reazioni chimiche ricche come quelle necessarie per sintetizzare la vita. La nostra scienza ha sempre dato contributi fondamentali allo studio di Saturno. Il primo fu Galileo, quando annotò il 30 luglio 1610 che «la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di tre, le quali quasi si toccano, né mai tra loro si muovono o mutano». Egli credeva che Saturno fosse “trigemino” a causa della bassa risoluzione del suo cannocchiale a 20 ingrandimenti. Con uno a 50 ingrandimenti Christiaan Huygens scoprirà nel 1655 che il pianeta ha in realtà «un anello sottile e piatto», e possiede un satellite che chiamò Titano. E nel 1671 Giovanni Cassini scoprirà altri due satelliti, Giapeto e Rea, e capirà che gli anelli sono in realtà più d’uno, concentrici e complanari. Di qui il nome della sonda Cassini-Huygens, che dal 2004 è in orbita attorno al pianeta, e alla quale dobbiamo le osservazioni che hanno portato alla scoperta su Encelado, che corona un interesse tutto italiano per Saturno.

Repubblica 6.4.14
Così cambiano le stagioni della vita
L’analisi biopolitica del filosofo Remo Bodei racconta le generazioni come luogo di conflitti e tensioni
di Roberto Esposito

Generazioni. Età della vita, età delle cose di Remo Bodei
Editori Laterza, pagg. 96, euro 14

DATEMPO si assiste a un trasferimento di fenomeni biologici dall’ambito della natura a quello della storia. Ciò riguarda da un lato il corpo degli individui, sempre più coinvolto nelle dinamiche del potere, dall’altro il succedersi delle generazioni. A tale mutamento si rivolge, con la consueta efficacianarrativa,ilnuovolibrodiRemoBodei Generazioni. Età della vita, età delle cose (Laterza).Essoregistra,comeunsapientesismografo, il transito semantico che tale nozione sperimenta rispetto alla sua declinazione classica. Tradizionalmente intesa come eterno ciclo delle tre stagioni della vita umana – giovinezza, maturità e vecchiaia –, la generazione diventa epicentro di tensioni e conflitti che riguardano la storia e la geografia, l’economia e la politica.
A mutare è intanto la percezione che abbiamo di noi stessi nelle tre età della vita. Contro l’antico luogo comune che colloca la saggezza nella sua seconda metà, già Machiavelli rilevava come gli anziani comprendano il proprio tempo meno dei giovani. Rispetto a queste due tesi contrapposte una valutazione più equilibrata è parsa sempre quella di
Aristotele, che pone il culmine della vita nella maturità, in cui si assommano le virtù e si temperano i difetti delle altre età. Questa visione tradizionale comincia, però, a vacillare sotto la spinta delle grandi trasformazioni che investono le popolazioni europee già nel Settecento, intensificandosi nei due secoli successivi. Se già alla fine delle epidemie della lebbra e della peste la mortalità infantile tende a decrescere, successivamente la giovinezza si protrae sempre più, invadendo lo spazio un tempo riservato all’età adulta. La quale, con l’al- lungamento progressivo e sempre più accelerato della vita, si vede adesso insidiata anche da una vecchiaia essa stessa dilatata nel tempo. Così l’aumento degli estremi restringe sempre più la fascia della maturità – se oggi un quarantenne è definito ancora giovane, un sessantenne entra già nell’aspettativa del pensionamento.
Questa mutazione determina una doppia conseguenza. Da un lato una differenziazione geopolitica tra Paesi a diverso tasso di sviluppo demografico: mentre nel vecchio mondo, caratterizzato da una forte crisi di natalità, i nonni superano i nipoti, nei cosiddetti Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – la proporzione s’inverte. L’altro effetto di questa vera e propria svolta biopolitica è quello di un latente conflitto tra generazioni. In Italia da qualche tempo non si parla altro che di “gerontocrazia” e di “rottamazione”, a testimonianza di un passaggio generazionale che stenta ad adattarsi al patto sociale della restituzione tra vecchi e giovani. Senza il quale, tuttavia, la società è destinata a perdere il suo collante interno e a disgregarsi.

Corriere 6.4.14
L’Alta Corte australiana ha riconosciuto il diritto di essere identificati come sessualmente «neutri»
Il genere neutro nella società individualista
di Mauro Magatti

La notizia che l’Alta Corte australiana abbia riconosciuto il diritto di essere identificati come sessualmente «neutri» — rispondendo così all’istanza avanzata da un cittadino nato maschio, successivamente diventato femmina grazie ad una operazione chirurgica e infine pentitosi della scelta fatta — ha un rilievo che va al di là del caso particolare.
Nell’asilo di infanzia Egalia a Stoccolma si propone un modello educativo in cui i bambini vengono cresciuti in un ambiente neutro dove si evita, cioè, di qualificare preventivamente il maschile e il femminile. I pronomi personali lui (hon) e lei (hen) sono sostituiti da una forma indeterminata (han). Contro ogni stereotipo, questa pratica intende ampliare lo spazio per una libera autodeterminazione di genere. E, da quest’anno, anche a Milano, seguendo l’esempio di altre città, sui moduli di iscrizione dei bambini alle scuole di infanzia, il padre e la madre sono stati sostituiti dal termine neutro genitore 1 e genitore 2.
Piccoli grandi segnali che vanno tutti nella stessa direzione: l’affermazione del genere neutro.
Ci sono tre piani che congiuntamente si muovono dietro questi fenomeni.
Il primo è quello della soggettività a cui oggi si riconosce un potere di autodeterminazione pressoché assoluto. L’idea è che noi siamo legislatori di noi stessi e possiamo dunque decidere liberamente semplicemente in base a ciò che si può fare. A prescindere da qualsiasi vincolo esterno.
Il secondo piano è quello della tecnica. Tutti questi fenomeni hanno a che fare, in modo più o meno diretto, con le nuove possibilità che la tecnica mette a disposizione per modificare noi stessi e le nostre relazioni. Una tendenza che traduce a livello sistemico ciò che l’Io sovrano esprime nella sfera della soggettività.
L’ultimo piano è quello della legislazione dello stato democratico. Portato ad assecondare, per quanto possibile, le domande di riconoscimento dei suoi cittadini, esso tende a prendere atto del dato di fatto e così a conformarsi alla realtà. L’applicazione sistematica del principio di non discriminazione — che mira a garantire la parità di trattamento tra persone diverse — ha, come conseguenza, la creazione del «regime dell’equivalenza», nel quale ogni differenza va parificata a qualsiasi altra.
Come si può capire, il combinarsi di questi tre piani è assai potente. E ancor più difficile da contrastare. Il suo ideale è quello di un mondo dove ognuno decide per sé grazie alle possibilità crescenti che la tecnica mette a disposizione in un regime di neutralità etico-valoriale garantito dal formalismo democratico. Un individualismo 2.0 che i nostri padri non erano nemmeno in grado di immaginare.
Tutto origina dal modo di porci nei confronti di ciò che ci sta attorno. Se cioè riconosciamo, o meno, qualcosa che ha una sua consistenza, al di là della nostra umana capacità di azione. Nel primo caso, la libertà — di ciascuno e quindi di tutti — ritiene ancora plausibile interrogarsi su quello che fa, sul modo in cui ciò che non si riduce all’Io, e come tale è altro — la fisicità, la natura, la tradizione — si rapporta con la volontà soggettiva. Nel secondo caso, invece, tutto essendo a nostra disposizione, ci ritroviamo in una sorta di innocenza originaria: dato che non c’è più nulla da poter essere violato, è la possibilità stessa della violenza a essere eliminata (o almeno così crediamo).
Questioni enormi, più grandi di noi. Ma su un punto almeno si può convenire. A ben pensarci, nel mondo della singolarità assoluta che stiamo costruendo — in cui ognuno pretende il riconoscimento della propria irripetibile individualità — il genere neutro è il destino a cui rischiamo di essere destinati. I tre piani sopra ricordati ci spingono, infatti, nella medesima direzione: se ogni singola esistenza si pensa sciolta da qualsiasi legame sociale originario, incarnato prima di tutto nella lingua, accedendo così al regno della numerazione, propria della tecnica, nel quadro di una pura procedura formale che si limita a rendere possibile qualunque manifestazione di differenza, non c’è più posto non solo per l’etica — cioè la domanda sul senso, su ciò che è bene e ciò che è male — ma nemmeno per la cultura, che non può che diventare un ammasso informe e instabile di eventi, momenti, segni, incapace però di tessere un ordito di significati condivisi.
Siamo solo ai primi passi di una vicenda che diventerà ben più seria avanzando il XXI secolo. Ma siamo proprio sicuri che sia questa la strada che vogliamo percorrere?

il Fatto 6.4.14
Nemesi storica
L’amante del Führer e il Dna nella spazzolaUna tv inglese ha comprato 8 capellidella donna morta assieme a Hitler: il genoma coincide con quello askenazita
di Carlo Antonio Biscotto

Eva Braun, la storica amante di Adolf Hitler da lui sposata nel bunker della Cancelleria poco prima che entrambi si suicidassero, forse aveva sangue ebreo nelle vene. Questo almeno è quanto emergerebbe da un test del Dna.
Il programma “Dead Famous Dna”, che va in onda su Channel 4, la prossima settimana trasmetterà un documentario su Eva Braun che si annuncia sensazionale. Nella stanza che Eva Braun occupava a Berghof, in Baviera, il famoso “Nido delle aquile” di Hitler, alla fine della seconda guerra mondiale fu trovata e conservata una spazzola per capelli appartenuta alla Braun.
Gli scienziati analizzando i capelli hanno trovato una specifica sequenza nel Dna mitocondriale, un minuscolo genoma che viene trasmesso per linea materna nel corso delle generazioni e che apparterrebbe allo “haplogroup” N1b1, in genere associato agli ebrei askenaziti. Lo haplogroup è una sequenza di Dna mitocondrale trasmessa per linea materna, e, come è noto, anche l’ebraismo si trasmette di madre in figlia.
QUANDO LA 17ENNE EVA Braun si innamorò perdutamente di Hitler, questi ordinò al suo braccio destro Martin Borman di indagare approfonditamente sulla famiglia di Eva per avere la garanzia che fosse una vera “ariana” e che non avesse antenati ebrei.
I capelli usati dagli scienziati sono quelli recuperati nell’estate del 1945 da Paul Baer, capitano della 7a armata Usa, che comandava i soldati messi a presidiare Berghof. I capelli sono stati sottoposti al vaglio di esperti ed è stato accertato che erano di Eva Braun. Il figlio di Baer li vendette a un collezionista il quale a sua volta li rivendette a John Reznikoff. Il conduttore del programma ha comprato da Reznikoff 8 capelli della Braun per la somma di 2.000 dollari.
Il conduttore del programma, Mark Evans, ritiene che Eva Braun non fosse al corrente delle sue origini ebraiche e ricorda che nel 19° secolo in Germania diversi ebrei askenaziti si erano convertiti al cattolicesimo. Evans ha persino tentato di contattare due discendenti di Eva Braun per far esaminare il loro Dna, ma le due donne hanno rifiutato di offrire un campione da sottoporre al test.
Evans non sta nella pelle: “È un risultato straordinario. Non avrei mai sognato di poter arrivare a un risultato del genere, che si fa beffe di tutte le idee razziste e fasciste che hanno insanguinato l’Europa nel XX secolo”.

Repubblica 6.4.14
La demonizzazione del Moderno nel Terzo Reich
Arte degenerata
Dipinti, sculture, cornici vuote...
Alla Neue Gallery una mostra rilegge in chiave politica l’esposizione che mise alla gogna le avanguardie
di Anna Ottani Cavina

“A NEW YORK ABBIAMO avuto il futurismo, l’espressionismo, il cubismo, perfino il dadaismo. Può la pazzia andare oltre?”. In visita alla mostra sull’arte ‘degenerata’ apertasi a Monaco alla Haus der Kunst il 9 dicembre 1937, il Führer brutalmente dava voce alla filosofia culturale del Terzo Reich. Sono passati tanti anni. La storia di quella prima esposizione itinerante (idea non banale di Göbbels: Monaco, Berlino, Lipsia, Vienna, Francoforte… dodici grandi città; 65 l’avevano richiesta!) è stata rivisitata molte volte, anche nel successo paradossale e non voluto (2.600.000 presenze), che impose all’attenzione dell’Europa il piatto forte tedesco espressionista nel menù delle avanguardie, messo a punto quasi esclusivamente nell’alta cucina di Parigi.
Oggi a New York, alla Neue Galerie sulla quinta strada, Degenerate Art: The Attack on Modern Art in Nazi Germany, 1-937( fino al 30 giugno) ricostruisce quella demonizzazione del Moderno che portò alla confisca in Germania di oltre 22.000 opere d’arte, 5000 i dipinti. Stipate, sbilenche, appese a delle corde secondo una drammaturgia espositiva che tendeva a creare delle “camere degli orrori” in sequenza, 600 di quelle opere furono messe alla gogna alla Haus der Kunst nel 1937, in contrasto programmatico con la pittura “ariana” e accademica di Adolf Ziegler che, ugualmente a Monaco, veniva celebrata nelle sale neoclassiche della Haus der Deutsche Kunst, quella sì la vera Casa dell’Arte Germanica.
La capitolazione culturale di quei giorni è impressa da sempre nella memoria di noi europei, costretti a riavvolgere il nastro della storia che ci ha coinvolto molto da vicino, quando la separazione allora introdotta fra arte legittimata dallo Stato e arte “degenerata” finì per aprire la strada a distinzioni perverse in tema di religione, pensiero, libertà, infine diritto alla vita. A New York, dove massima è la concentrazione dei surviversalle stragi naziste, la mostra ha un impatto ancor più emozionale. Non è il riscatto (ormai incontestato) dell’espressionismo tedesco a colpire le fila dei visitatori, sono i cinque minuti di proiezione del cortometraggio girato da un fotografo americano nel 1937. Prestato dall’archivio ebraico di Steven Spielberg, questo frammento è il solo rimasto a documentare l’arroganza dei despoti in visita alla Entartete Kunst, quei gerarchi di piombo e quella gente silenziosa e sgomenta che si fa strada fra le sculture ammassate di Ludwig Gies e di Ernst Barlach. Prima che sull’Europa scenda la notte.
Nell’accrochage caotico e ostile del 1937, passano Klee, Kandinsky, Chagall, Otto Dix, Nolde, Schwitters, Max Ernst, Kokoschka, Beckmann, Grosz, Picasso… in nome di un’azione “educativa” e di censura.
Censura di cosa esattamente? La risposta è che le avanguardie non avevano soltanto ridefinito in modo radicale le forme dell’arte. Avevano anche introdotto un’idea soggettiva e assoluta di libertà. E questo soggettivismo, che si era espresso con linguaggi estremi e destabilizzanti, appariva inconciliabile e sovversivo rispetto al progetto nazista di ordine e comunità controllata. In questa chiave, decisamente politica e di risarcimento alla tragedia ebraica, è stata realizzata questa mostra nel tempio della civiltà austro-tedesca a New York, quella Neue Galeriepiena di charme, diventata, con il suo molto viennese Café Sabarsky, uno dei luoghi del cuore della città, monito perenne nei confronti dell’ideologia hitleriana. Due gigantografie si affrontano all’ingresso: la fila dei visitatori a Berlino(1938) per la mostra “Entartete Kunst” e la fila senza fine degli ebrei smarriti, scaricati come bestie alla stazione di Auschwitz-Birkenau, anno 1944. Come dire che esistono delle relazioni e quello che era accaduto nell’ambito della cultura non poteva non essere presagio di rovine devastanti.
Molte sono le ragioni che accendono oggi la curiosità della gente attonita davanti ai dipinti, alle sculture, alle fotografie, alle corni- ci simbolicamente vuote che, nell’assenza, stanno ad evocare le opere perdute. C’è naturalmente il film di George Clooney, apologia in chiave western dei Monuments Men, ma c’è soprattutto l’affare Cornelius Gurlitt, il misterioso recente ritrovamento a Monaco di un bottino di 1406 opere trafugate dai nazisti (Matisse, Picasso, Beckmann, Klee, Kokoschaka …). Ancora più inquietante perché Gurlitt è ebreo, figlio di un potente mercante di Dresda, che in prima linea, nella cerchia di Göbbels, aveva pilotato i sequestri dell’arte “degenerata” spogliando le collezioni ebraiche in Germania. L’ombra lunga del collaborazionismo tocca del resto anche la non resistenza al potere del pittore Emil Nolde, anche se si deve ogni volta ricordare che la linea di demarcazione, nell’inferno del Reich, passava attraverso compromessi non negoziabili: per non soccombere, Ernst Ludwig Kirchner nel 1938 decise di spararsi una pallottola alla testa.
Questo cercava di spiegare in anni recenti la scrittrice Christa Wolf, anche lei coinvolta nella ragnatela di spie della Stasi, i servizi segreti della DDR. Citando, a sua difesa, il verso di un grande romantico tedesco, Friedrich Hölderlin:“Was bleibt …quello che resta, alla fine, è quello che il poeta ha creato”. Una scheggia di luce alle porte della notte.

Corriere 6.4.14
Quando Dante conquista il cinema
«Un faro che influenza le mie visioni»
Majewski: il film «Onirica» ispirato alla Divina commedia
di Maurizio Porro

A tutto Dante. La Divina commedia è una specie di self service del senso immaginifico che oggi spadroneggia nel cinema grazie alle nuove tecnologie: il poema è una specie di salvavita. «Dante ha influenzato le mie visioni e il modo di vedere le cose, quando leggi la Commedia ti senti sollevato da terra», dice il polacco Lech Majewski che domani a Bari, al Festival di Laudadio e Scola, presenterà il suo ultimo film, Onirica .
«La Divina commedia mi accompagna da tempo, è un universum che racchiude un’epoca e per me è stato un faro, quello di Dante è l’immaginario più potente del mondo». I film danteschi iniziano muti e solenni nel 1911 con le 5 bobine di Bertolini, con l’inevitabile Beatrice del ‘19, continuando con innumerevoli esempi da Dante’s Inferno (La nave di Satana ) con Spencer Tracy nel ‘35 ai vari medaglioni di personaggi cult (Ugolino, Paolo e Francesca, Pia de Tolomei) fino a Maciste all’inferno e Totò all’inferno . Nella casa del killer di Seven troneggia una copia della Commedia , Hannibal Lecter parla di Pier Delle Vigne e De Oliveira nel 91 gira una Divina commedia in cui i degenti di un manicomio sono figure della letteratura.
Si arriva poi alla serie tv, sempre l’Inferno, il più gettonato (il peccato vende di più della purezza) firmata nell’89 da Phillips, Ruiz e Greenaway, artista votato al visionario; e poi il film con Robin Williams What dreams may come (Al di là dei sogni ) fino all’atteso, contagioso e prepotente Onirica di Majewski che ha nel suo curriculum due stravaganze di classe visionaria su Bruegel e Bosch.
E intanto Benigni continua ad essere al top delle vendite col suo Tutto Dante che ha reso degne molte serate in tv, mentre Luis Nero ha girato Il mistero di Dante con Murray Abraham nel ruolo del Poeta in una corte di studiosi, fra cui Franco Zeffirelli. Non solo, ma c’è stato anche un kolossal musical e un raffinatissimo spettacolo di Tiezzi e Lombardi, mentre anni fa furono Orazio Costa e Roberto Herlitzka a tentare la mission impossibile.
Ora con Onirica il poema si fa carne e incubo, quelli di un uomo che, sconvolto da un incidente d’auto in cui ha perso i suoi cari, non riesce a riprendere i contatti col mondo e solo nei sogni trova cura alle sue pene. Ma sono sogni danteschi (complicati da girare, assicura l’autore che ha immaginato un aratro in un super market ed ha allagato con una cascata una cattedrale) perché è un letterato che ci sta lavorando e Gustavo Dorè e Francesco Scaramazza fanno da scenografi al suo inconscio, mentre la Polonia vive il suo orribile 2010 con grandi calamità anche pubbliche.
«Ogni giorno assistiamo a una esplosione di informazioni e a una implosione di significati» dice il regista citando Baudrillard «e dopo il funerale del presidente polacco si è stagliata un’enorme nube nera che ha paralizzato i voli. Mi dica se non sembra una biblica profezia dantesca». Voleva raccontare qualcosa dell’oscurità da cui ha cercato di uscire: «Del resto ci sono libri che aiutano a vivere e altri, oggi in maggioranza, che distruggono».
Onirica ha i pregi del cinema che s’illumina d’immenso anche se Majewski sorridendo si considera un neo realista nel guardare dentro l’uomo. «Il fatto è che l’arte aiuta a vivere e noi siamo sempre l’estensione di chi ci ha preceduto: ognuno rivedrà la sua Beatrice». Prima la pittura e oggi il poema: il cinema è parente di tutte le arti? «Sono influenzato dall’arte del passato, poco da quella crudele e riduttiva del presente. Viviamo in un tempo in cui si celebre il vuoto, se vai alla Biennale poche cose colpiscono».
Majewski ha una raccolta di super io di pregio, prima Bruegel, poi Bosch: «Una traccia autobiografica c’è» confessa per la prima volta «è un film molto personale che conclude una ideale trilogia che ha posto nella contemporaneità tre maestri del passato catturando emozioni, sentimenti e tragedie personali, un cinema intimo che parli in modo confidenziale allo spettatore».
Ma perché si ritorna a Dante? «Il mondo descritto da Dante ha un’armonia che è difficile ritrovare, si parte per un viaggio verso la luce, ma la domanda su Dio è stata cancellata dalla società contemporanea. Sartre diceva che nel passato il Paradiso era raffigurato dorato, nel Rinascimento blu, nel Barocco nero e oggi è scomparso, perché se ne è andata tutta la trascendenza».
Certo, rifugiarsi nei sogni non è la soluzione neppure per un regista grandioso come questo, si vive addormentati e non va bene «ma gli autori di cui mi sono occupato con i loro sogni e i loro incubi hanno creato capolavori mentre ciò che produciamo oggi ha la durata di un battito d’ali di farfalla». Prossimamente sugli schermi? «Sto lavorando a un film con elementi italiani, sull’uomo più ricco del mondo, un Citizen Kane di oggi».
Ancora e sempre l’Italia. «Mi sono innamorato della vostra cultura a 16 anni quando ho visto La Tempesta del Giorgione e poi Fellini, Antonioni e Buzzati che considero il miglior scrittore del XX secolo. L’Italia è la mia patria interiore».

Corriere 6.4.14
Minoli e la rinascita lontano dal video: perché scelgo di portare la tv in radio
L’autore di La Storia siamo noi” è ai microfoni del programma “Mix24”
Il conduttore: il mio percorso inverso senza alcuna nostalgia
di Maria Volpe

La sua seconda vita, in radio. Giovanni Minoli, dopo 40 anni di televisione, in Rai, dove ha fatto di tutto — direttore, produttore, autore, conduttore di «Mixer» e «La Storia siamo noi», e moltissimo altro — lo scorso luglio ha lasciato la tv pubblica. «Ero al mare, stavo partendo per il cammino di Santiago de Compostela, 800 km a piedi — racconta —, ma una telefonata ha cambiato tutto. Era Roberto Napoletano (direttore de Il Sole 24 ore e di Radio 24, ndr ) che mi ha detto “Farai Mixer alla radio e sarà una rivelazione”. Ero perplesso, ma ha avuto ragione lui. Gli devo tutto».
Comincia così una nuova avventura per Minoli che del resto dice di sé «ho la start up nell’animo. La nostalgia non so neanche cosa sia». E dire che lui non è mai stato un grande fan della radio, «non mi ha mai appassionato», lui che ha vissuto per la televisione, con la televisione, nella televisione. Amandola all’inverosimile. Eppure... «Eppure Napoletano ha insistito, mi ha detto “Sarai il Pirlo della radio” e visto che sono juventino sfegatato mi è sembrato un ottimo augurio».
Ovviamente il direttore di Radio 24 si riferiva al fatto che la tv (il Milan) si era fatto scappare un pezzo da novanta, «cedendo» Minoli (Pirlo) alla radio (la Juve), dove ha vinto moltissimo. Sport a parte, Minoli si mette al lavoro e nasce «Mix 24», programma radiofonico dalle 9 alle 11 del mattino, diviso in due parti. La prima di attualità, che prevede anche dei faccia a faccia radiofonici con grandi personaggi; e una seconda parte storica dove in ogni puntata si rievoca la vicenda di un illustre del passato. Un grande successo di ascolti.
Nella prima parte ci sono due compagni di viaggio che Minoli ha voluto con sé, piuttosto insoliti: Mario Sechi e Pietrangelo Buttafuoco «due persone di grande cultura e sensibilità». «Quasi non li conoscevo — svela Minoli — ma leggendoli, ascoltandoli ho pensato fossero la scelta giusta, ed effettivamente abbiamo trovato un’armonia insolita per persone adulte». Tra un quiz colto sui libri, una canzone (di solito francese), una sottolineatura economica o politica, i tre per un’ora scherzano, evocano, danno notizie e spunti di riflessione. Tre profili molti diversi che convivono ottimamente.
Non solo. «Mi sono portato con me, dalla tv, due ragazze bravissime — prosegue Minoli — Sara Tardelli e Marina Milone, entrambe figlie di campioni del mondo: la prima del giocatore di calcio Marco, la seconda di Giuseppe Milone, campione di vela. Sono ragazze che sanno che c’è solo quello che ti conquisti con il lavoro. È la generazione dopo di quelli che pensano che qualcuno ti aiuta».
La vera novità è che mentre «tutti fanno la radio in televisione, tu farai la televisione in radio» (Napoletano dixit). È così Minoli? «Sì, io ho fatto un percorso inverso a quello solito. Oggi se togli Santoro che ha sempre meno ospiti e che ha il gusto delle immagini, il gusto del racconto, come peraltro Iacona e Gabanelli, tutti gli altri talk sono molto radiofonici».
Certo, un vantaggio Minoli ce l’ha: quando ascolti le interviste serrate in radio, quelle domande (60) incalzanti in pochi (25) minuti, la mente corre a «Mixer» e provi a immaginarti la fisicità dell’intervista, anche perché Minoli i suoi faccia a faccia radiofonici esige di farli «assolutamente in studio, di persona. Perché quello ti cambia il ritmo e l’interlocuzione. Se ti guardi negli occhi è tutta un’altra cosa». Ma quando guarda la tv, da spettatore dopo 40 anni, come la trova? «Alla ricerca di se stessa. A parte la fiction: unico comparto che si è dato una dimensione industriale. Rai5 sta facendo un bel lavoro, Rai news sarebbe da sviluppare di più. Ho sofferto molto quando ho visto che il film di Veltroni sulla storia di Berlinguer l’ha prodotto Sky e non la Rai: questo è abdicare alla funzione di servizio pubblico».
Ma non è che alla fine la radio è solo un «tradimento» rispetto al suo grande amore-tv? «Assolutamente no. I veri grandi amori si sommano».

Corriere La Lettura 6.4.14
Così il nuovo capitalismo crea (e sfrutta) i nuovi schiavi
di Luciano Canfora

Una delle grandi novità del XXI secolo è il riapparire su larga scala delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile. Un segnale in tal senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è avuto, in sede ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da Ole Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre 2013). Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri impiegati nelle campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò. Beninteso, il pomodoro poco «etico» è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale, nel quale rientrano le maestranze schiave del Sud-Est asiatico o del Bangladesh, per non parlare dei minatori neri del Sud Africa, sui quali spara ad altezza d’uomo una polizia, anch’essa fatta di neri, per i quali la meteora Mandela è passata invano. È chiaro che il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto, se non proprio formalmente). E il profitto è più sacro del Santo Graal nell’etica del «mondo libero».
La mondializzazione dell’economia e il venir meno di qualunque movimento — o meglio collegamento — internazionale dei lavoratori ha creato le condizioni per questo ritorno in grande stile di forme di dipendenza che in verità non erano mai scomparse del tutto. Basti ricordare che soltanto «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento della Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù volontaria o involontaria non potrà esistere entro i confini degli Stati Uniti» («Corriere della Sera», 19 febbraio 1995). E, quanto all’Europa, non sarà male ricordare che l’abrogazione della schiavitù coloniale, varata dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio 1794, rimase di fatto lettera morta, poiché nel frattempo buona parte delle colonie francesi nelle Antille era passata, nel turbine della rivoluzione in Francia, sotto controllo inglese e la liberale Inghilterra aveva vanificato gli effetti dell’abrogazione. Di qui la necessità di una nuova solenne abrogazione, nel 1848, sotto l’impulso di Henri Wallon e di Victor Schoelcher. Intanto incubava, negli Usa, la feroce guerra civile causata dalla secessione del Sud, baluardo della schiavitù.
Il nesso tra capitale e schiavitù non si è dunque mai del tutto spezzato. Ora un bel libro di Herbert S. Klein (Il commercio atlantico degli schiavi , Carocci, pp. 288, e 20) ricostruisce, con fredda e tanto più efficace documentazione, questa vicenda sulla scala dei secoli (soprattutto XV-XIX), non senza un breve ed efficace preambolo sulle origini antiche dell’ininterrotto fenomeno. Nel rapido sguardo che Klein rivolge alla schiavitù antica si apprezza lo sforzo volto a distinguere l’entità del fenomeno in Grecia da un lato e dall’altro nel mondo mediterraneo e continentale unificato da Roma, dove la massa di schiavi, soprattutto nei secoli II a.C. - fine II d.C., fu di gran lunga più grande che nella Grecia delle poleis . Forse Klein non conosce il sesto libro dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (fine II d.C.) — cioè la più grande enciclopedia a noi giunta di epoca ellenistico-romana —, ma certo lì la questione viene ampiamente sviscerata, cifre alla mano: e non è del tutto vero, a stare a quell’importante repertorio antiquario, che nella Grecia del tardo V e IV secolo a.C. non si riscontrassero realtà schiavistiche imponenti.
La schiavitù in Grecia ha creato qualche imbarazzo a una parte degli studiosi moderni (quelli in particolare cui è parso che il fenomeno offuscasse la purezza del miracolo greco), i quali perciò si sono affannati a screditare le poche cifre tramandate intorno all’entità del fenomeno. Altri interpreti hanno ritenuto preferibile una linea più provocante, e cioè: la schiavitù fu un bene perché rese possibile il miracolo greco. Altri ancora, come il dilettante onnivoro, ciclicamente «riscoperto» per amor di paradosso, Giuseppe Rensi (1871-1941), propugnarono in pieno XX secolo il ripristino della schiavitù come unica garanzia di difesa del capitale: «Il lavoratore — scriveva Rensi nei Principi di politica impopolare (1920) — in quanto lavora non può non essere dipendente, sottoposto, servo di colui che gli richiede le sue funzioni (…). Aveva perfettamente ragione Aristotele quando sosteneva la necessità e l’eternità della schiavitù».
Questo modo di ragionare può avere vaste ramificazioni. Per esempio negli anni Settanta ebbe un quarto d’ora di celebrità Eugene D. Genovese: non già per i suoi studi molto utili sull’Economia politica della schiavitù (Einaudi, 1972), ma per i suoi paradossi sul carattere «progressivo» della schiavitù negli Usa del XIX secolo (Neri d’America , Editori Riuniti, 1977). E invece gli studi di Genovese meritano di essere ricordati per altre ragioni: per aver messo in luce l’intreccio nell’epoca nostra, o molto vicina a noi, tra capitalismo e schiavitù. «Il capitalismo — scrisse — ha assorbito e anzi addirittura incoraggiato molti tipi di sistemi sociali precapitalistici: servitù della gleba, schiavitù etc.» (L’economia politica della schiavitù ). Quelle sue osservazioni risalenti all’inizio degli anni Sessanta, e focalizzate — tra l’altro — sul caso emblematico dell’integrazione perfetta dell’Arabia Saudita nel sistema capitalistico mondiale, tornano attualissime oggi, visti il ritorno in grande stile del fenomeno schiavitù come anello indispensabile del cosiddetto «capitalismo del Terzo millennio», nonché il ruolo cruciale della feudale monarchia saudita nella difesa del cosiddetto «mondo libero» e nella strategia planetaria degli Stati Uniti.
Per gli Usa infatti il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio, in questo come in altri campi: la forza e il tornaconto come potenza erano il fondamento, mentre la «dottrina» volta a volta esibita era, ed è, il paravento. La tratta degli schiavi è stata praticata senza problemi (anche il virtuoso Jefferson aveva i suoi schiavi, con tutte le implicazioni economiche ed etiche che ciò comportava). Klein dimostra molto bene nel suo saggio, dal quale abbiamo preso le mosse, che fu la penuria di mano d’opera interna a incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il meccanismo incominciò a declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto in conseguenza della guerra civile americana, quanto piuttosto per l’irrompere sulla scena della massiccia emigrazione dall’Europa. Il fenomeno accomunò le due Americhe: «La colonizzazione dell’Ovest statunitense e la conquista argentina del deserto furono movimenti del primo e del tardo Ottocento che provocarono il massacro delle native popolazioni amerindie che vi si opposero e la loro sostituzione con coloni immigrati».
La «macchia» rappresentata dalla schiavitù non passava inosservata in Europa: non bastava l’autoesaltazione retorica americana a celarla. Nel 1863 un politico inglese di rango, che era anche un fine studioso di storia antica, John Cornewall Lewis, pubblicò un dialogo, di tipo platonico-socratico, intitolato Qual è la miglior forma di governo? (riedito vent’anni fa da Sellerio), nel quale la pretesa dell’interlocutore denominato «Democraticus» di provare la possibilità di attuare il modello democratico e repubblicano con l’argomento «gli Stati Uniti lo sono» viene demolito dall’antagonista, il quale osserva che tale non può essere un Paese in cui esista la schiavitù.
È una considerazione, oltre che un monito, che vale anche per il nostro presente. Nel giugno 2013 si tenne a Kiev, mentre era al governo il presidente eletto Yanukovich, la conferenza dell’Osce sul traffico di esseri umani. Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Dal 2003 il traffico di esseri umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria minaccia transnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani. Sono stati sviluppati nuovi sofisticati metodi di reclutamento, sottile coercizione e abuso della vulnerabilità delle vittime, nonché di gruppi emarginati e discriminati». A questo si aggiungano le risultanze del rapporto Eurostat sul traffico di esseri umani in Europa dell’aprile 2013. Negli stessi mesi «La Civiltà Cattolica» pubblicava un saggio del gesuita Francesco Occhetta, La tratta delle persone, la schiavitù nel XXI secolo , mentre sul versante giuridico appariva un volume denso non solo di dottrina ma anche di storia, La giustizia e i diritti degli esclusi di Giuseppe Tucci con una significativa introduzione di Pietro Rescigno. Si può ben dire, in conclusione, che l’intreccio tra ramificata, onnipresente e indisturbata malavita e finanza incontrollata e incontrollabile (riciclaggio del denaro «sporco») rappresenta ormai il contesto ideale per lo sfruttamento intensivo e lucroso delle nuove forme di schiavitù. Altro che articolo 600 del nostro codice penale! Il culto feticistico del profitto, del denaro che produce sempre più denaro, è giunto al suo criminogeno apogeo. Ed è tragicomico vedere e ascoltare il personale politico che amministra i Paesi in cui tutto questo è consentito pontificare ipocritamente sulla tutela, in casa d’altri, dei «diritti umani».

Corriere La Lettura 6.4.14
Il corrispondente dell’Unità da Mosca agli ordini di Togliatti
Giuseppe Boffa, un sovietologo non imparziale
di Dino Messina

Quale idea dell’Unione Sovietica avevano i militanti del Partito comunista italiano durante il terribile 1956, nei mesi del XX Congresso del Pcus e poi dell’invasione dell’Ungheria? Un ruolo cruciale nell’informazione di un vasto pubblico venne svolto dal corrispondente dell’«Unità» da Mosca, Giuseppe Boffa (1923-1998). Alla figura di questo giornalista, che poi divenne il più influente sovietologo comunista italiano (scrisse tre volumi di storia dell’Urss), è dedicato l’acuto saggio di Ettore Cinnella Il «compromesso storiografico». Il Pci e il giudizio storico sull’Urss (56 pagine), che sarà pubblicato nel prossimo numero della «Nuova Rivista Storica», diretta da Gigliola Soldi Rondinini ed Eugenio Di Rienzo. Qui non c’è lo spazio per seguire la lunga traiettoria professionale del giornalista, ma si può accennare al suo atto di nascita di sovietologo, che illumina tutta la produzione successiva. Boffa arrivò in Urss nel dicembre 1953, accompagnato dall’alto dirigente Giancarlo Pajetta. Era a Mosca al tempo del XX Congresso del Pcus e del rapporto di Krusciov sul «culto della personalità». Non volendo sbagliare, il brillante giornalista chiese consiglio sul da farsi a Palmiro Togliatti. E questi, con una delle sue proverbiali uscite, gli rispose di «non lasciarsi sfuggire nulla di quello che verrà rivelato in pubblico». Il messaggio era: dai conto di tutta l’ufficialità, ma non scrivere nulla del dibattito riservato. Così, mentre il mondo e l’Italia discutevano delle sconvolgenti rivelazioni di Krusciov, i lettori dell’«Unità» apprendevano dalle «acrobazie di Boffa che anche Stalin aveva commesso errori». Tanta reticenza spinse a Mosca alcuni dirigenti, come Alfredo Reichlin e Luciano Barca, desiderosi di capire. La stessa sorda cautela seguita per il XX Congresso venne applicata da Boffa durante l’aggressione dell’Urss all’Ungheria: il giornale comunista non poteva dissociarsi dall’attacco a un Paese indipendente, così il suo corrispondente denunciò raccapriccianti episodi di «terrore bianco». Dietro questa linea c’era ancora l’ispirazione di Togliatti, il quale nell’ormai nota lettera del 30 ottobre 1956 ai vertici del Pcus accusò il governo ungherese di andare verso una «direzione reazionaria» e quindi ne sancì la condanna a morte.

Corriere La Lettura 6.4.14
Il dono di un maiale mise fine alla lite
Quando usi e costumi dei migranti portano a violare le leggi
Il delitto etnico: come separare i fattori culturali dagli stereotipi
di Adriano Favole

«Nulla si vede di giusto o di ingiusto — scriveva Blaise Pascal — che non muti qualità col mutare del clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità». La questione è antica: nonostante la tensione verso l’universale, il diritto e la giurisprudenza sono condizionati dagli usi, dalle abitudini, dalla cultura. Anche oggi, in non poche società, esistono forme di amministrazione della giustizia che non prevedono avvocati, fori e codici scritti. In alcuni territori d’oltremare anche la Francia, considerata Paese «assimilazionista» per eccellenza, che impone una laica neutralità ai cittadini, ammette un diritto consuetudinario a cui sono soggette le popolazioni aborigene. Tale diritto regola la gestione delle terre, ma può anche intervenire in fatti di grave rilevanza penale.
Nel corso delle mie ricerche etnografiche a Futuna (un lembo di Francia e d’Europa situato in Polinesia, a 20 mila chilometri da Parigi), mi sono imbattuto in una vicenda che vide coinvolte due famiglie in un aspro conflitto. Un bambino era stato investito da un’auto e gravemente ferito. Temendo l’avviarsi di una faida, i gendarmi consigliarono alla famiglia del ferito di denunciare il fatto alla giustizia statale, ottenendone un secco rifiuto. Dopo lunghe ed estenuanti trattative, con la mediazione dei capi villaggio, le due famiglie trovarono un accordo per la riconciliazione: il dono di un maiale e di una radice di kava (una sostanza rituale psicoattiva) posero fine allo scontro. Non si tratta di bizzarre curiosità esotiche: un Paese multiculturale come il Canada ha adottato il metodo del cosiddetto sentencing circle , camere di consiglio allargate ai membri del gruppo etnico di appartenenza dell’imputato, chiamate a interagire con i giudici per armonizzare la sanzione con le tradizioni locali.
Un conto, tuttavia, è prendere atto dell’esistenza di forme culturalmente modellate di diritto: questione ben più delicata è chiedersi quanto la cultura di origine di un migrante possa essere invocata come attenuante o, al contrario, aggravante di un delitto. È questa la domanda che sta al centro di un bel libro dei penalisti torinesi Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, Culture alla sbarra (Einaudi), un testo interamente dedicato ai cosiddetti «reati culturalmente motivati». I numerosi esempi riportati pongono con efficacia comunicativa e rigore scientifico la questione del rapporto tra diritto e multiculturalismo.
Singh è un mungitore sikh, originario del Punjab: come molti connazionali si è trasferito da noi e contribuisce, silenziosamente, a riprodurre le «vere» tradizioni alimentari italiane, i formaggi noti in tutto il mondo. Porta una lunga barba e l’immancabile turbante. Un giorno, mentre passeggia per le vie di Cremona, viene fermato dalla polizia, denunciato e condannato per porto abusivo di arma da taglio. Nella cintola infatti tiene il kirpan , un pugnale che simboleggia l’onore, la libertà di spirito e l’ahimsa , la «non violenza». La sua cultura gli impone di portare sempre con sé il kirpan , come se fosse parte del suo corpo, ma la giustizia del Paese ospitante non vuol sentire ragioni (culturali).
I tribunali italiani si sono occupati più volte dell’accattonaggio minorile. In una società che, perlomeno a livello ideologico, protegge e tutela i bambini anche dalle attività lavorative, la presenza di piccoli mendicanti suscita scalpore. Nel caso dei Rom, tenendo conto che l’attività avviene spesso nel contesto di povertà materiale ed emarginazione, un giudice può attenuare le colpe dei genitori per il fatto che il mangel , chiedere elemosina come lavoro, rientra nella tradizione di questi popoli? La legge n. 94 del 2009 punisce chi si avvale di un minore di 14 anni per chiedere l’elemosina: è una legge decisamente contro la cultura.
Il pugnale kirpan e l’elemosina sono questioni non da poco, ma reazioni ancora più forti suscitano i crimini che hanno a che fare con i rapporti di genere e i costumi sessuali. Il caso di Hina Saleem, la ragazza di origini pakistane uccisa a Brescia nel 2006 dal padre perché accusata di tradire con i suoi comportamenti l’«onore» della famiglia (vestiva all’occidentale, lavorava in un bar, beveva alcoolici), ha avuto ampia eco mediatica. In primo grado, il tribunale riconobbe l’esistenza di un «reato culturalmente motivato». I gradi successivi trascurarono i fattori culturali, attribuendo piuttosto all’indole del padre la responsabilità di un crimine compiuto per motivi «futili» e «abbietti». Nello stesso 2006, un tribunale tedesco riconosceva a Maurizio Pusceddu, originario di Cagliari, autore di una efferata aggressione ai danni della fidanzata lituana, una riduzione di pena in quanto il suo crimine avrebbe portato «particolari impronte culturali» tipiche della Sardegna, dove «la concezione del ruolo della donna è tale da comportare, se non una scusante per la condotta violenta, una giustificazione culturale che deve condurre a una riduzione di pena». La sentenza fu accolta in Italia con sdegno.
Come riconoscere un reato «culturalmente motivato»? Cosa distingue una cultural sentence da altre motivazioni? Gianaria e Mittone si chiedono, in primo luogo e molto opportunamente, che cosa intendiamo con il concetto di «cultura». Il giudice e l’antropologo finiscono inevitabilmente per incontrarsi su questo terreno. «Le culture — osservano — non sono entità circoscritte, ritagliabili come figurine. I loro confini sono vischiosi, spesso arbitrari. Esse si mescolano, si ibridano, dando vita a forme di meticciato che il tempo contribuisce a far evolvere». Occorre allora recidere ogni legame meccanico tra cultura e delitto, introducendo variabili come la durata dell’esperienza migratoria, la qualità dell’integrazione, le chance che la società di accoglienza offre al migrante di diventare consapevole delle caratteristiche della cultura che lo ospita.
Come osserva l’antropologa Paola Sacchi, che ha dedicato un articolo alla vicenda di Hina Saleem («Il peso della cultura in un tribunale italiano», nel volume Antropologia giuridica di Antonio de Lauri, Mondadori), occorre prestare molta attenzione all’interazione tra il migrante e la società di approdo. Le condizioni dei migranti, la loro marginalità o integrazione possono attenuare o accentuare tratti culturali in contrasto con le norme locali. Valutare quanto un comportamento sia condiviso nella comunità di origine — davvero gli uomini pakistani approvano la condotta del padre di Hina? — è un altro modo di riconoscere il carattere culturalmente indotto di crimine. Le furiose reazioni degli italiani e dei sardi alla sentenza Pusceddu mostrarono che il tribunale tedesco aveva applicato uno stereotipo, più che stanare una motivazione culturale.
Anche tenendo conto di queste variabili, il ruolo del giudice non è facile. È meglio in ogni caso, secondo gli autori di Culture alla sbarra , non mettere mano alla legge, proibendo o approvando pratiche che, per lo più, mutano incessantemente, ma affidare alla pratica giurisprudenziale il compito di esprimersi.

Corriere La Lettura 6.4.14
Platone l’africano. E australiano, anche
Whitehead disse: «La filosofia è una serie di note vergate in margine a Platone»
Un saggio esamina figure e scuole di pensiero fuori dalla prospettiva europea
E va ben oltre le antiche tradizioni di India e Cina
di Armando Torno

La filosofia fu la più bella invenzione dei Greci. Alfred North Whitehead, un pensatore che ha lasciato tracce anche in matematica, asserì che essa è una serie di note vergate in margine a Platone. Non aveva torto. Ma, detto questo, è lecito chiedersi: ci sono filosofie nazionali o sistemi nati oltre l’Occidente che hanno sviluppato qualcosa di simile al miracolo greco? In Africa? Nell’Asia, che ha nel suo seno le sapienze di Cina e India? A questa e a simili domande risponde un libro curato da Virgilio Melchiorre: Filosofie nel mondo (Bompiani). Uno sguardo sulle avventure di pensiero delle «altre» culture che possono dipendere o no dalla nostra. Dalla scuola australiana alle correnti dell’islam contemporaneo, dai sistemi latinoamericani alle istanze ebraiche e giapponesi. Tredici capitoli con dodici profili, giacché il primo, di Ugo Perone, è intitolato Philosophia Occidentalis .
Lo stesso Melchiorre spiega come è stata realizzata l’opera: «Questo volume nasce dall’esigenza di risalire alle fonti delle diverse civiltà. Si è pensato di raccogliere a confronto alcune voci presenti nella recente Enciclopedia filosofica , curata per le edizioni Bompiani dal Centro studi filosofici di Gallarate... Le abbiamo aggiornate, ove occorreva, e le abbiamo integrate con voci nuove». Il libro si riallaccia a una nobile tradizione. Già nel decimo volume della Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra (usciva da Vallardi nell’ottobre 1978; parte che verrà poi ripensata in tre tomi editi da Piccin) vi erano due capitoli di Gianni Paganini dedicati rispettivamente alla filosofia negli «altri Paesi europei» (con Russia sovietica e Jugoslavia) e ai «Paesi minori extraeuropei», tra cui non mancavano il Canada, il continente africano, l’Australia e così di seguito. All’India e alla Cina erano dedicati i primi due volumi della grande opera, che precedevano le trattazioni sulla Grecia.
Filosofie nel mondo , che offre utili bibliografie aggiornate, comincia con un essenziale profilo dell’Occidente: emergono i due pilastri su cui si regge ancora molta parte del nostro pensiero, ovvero Platone e Aristotele. Soprattutto vengono messe in evidenza alcune tematiche che percorrono epoche e correnti, quasi incuranti delle infinite discussioni causate. Tra esse il tempo, presente in Agostino e ancora motivo d’angoscia in pieno Novecento (Heidegger insegna). Si passa poi all’esame delle scuole: la prima è l’australiana, che ha elaborato una significativa filosofia analitica e una discreta logica, tanto che Franca D’Agostini, autrice della parte, parla di uno «stile australiano». Una figura di riferimento, tra le diverse possibili, indicata per la logica è Richard Routley.
Segue la filosofia russa. Sostanzialmente il vero esame è dal XVIII secolo, epoca in cui nell’immenso territorio degli zar ci si rivolse al pensiero europeo, a cominciare da figure quali Aleksandr N. Radišcev, autore del libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) che costò all’autore la condanna a morte da parte di Caterina II. I periodi precedenti invece risentono, o si confondono, con l’eredità di Bisanzio; e l’inventario passa più per la teologia che per le costruzioni logico-concettuali. L’autrice Chiara Cantelli, oltre le correnti e le scuole ottocentesche e sovietiche, oltre slavofili e occidentalisti, evidenzia figure quali Florenskij o Dostoevskij; anzi, quest’ultimo con i suoi romanzi costituirà «un essenziale punto di riferimento nella discussione filosofica del Novecento europeo» e creerà le basi nel contesto russo «per accogliere Nietzsche».
Un breve profilo — i caratteri generali sono esposti da Alberto Ventura e Carmela Baffioni — della filosofia islamica (ricchissima nel Medioevo, giacché ha riportato molto di Aristotele in Occidente e ha avuto sommi maestri come Avicenna e Averroè) lascia spazio a una parte contemporanea, trattata da Massimo Campanini e Stefano Minetti. Figure sorprendenti, anche di femministe: tra esse la conservatrice Zaynab al-Ghazali, la quale «pur rivendicando alle donne il diritto alla rappresentanza e all’attività politica attiva e passiva, ha voluto custodire il ruolo prevalente di moglie e di madre». Della filosofia ebraica la figura centrale resta il medievale rabbino e medico Maimònide; tuttavia una questione posta da Giuseppe Laras, che ha scritto la parte, è quella di interrogarsi sul contributo dei pensatori ebrei a idee e tendenze occidentali. In tal caso protagonisti quali Spinoza o Bergson sono da evidenziare. C’è poi una filosofia ebraica dopo il 1945, in seguito alla Shoah: è un profilo firmato da Massimo Giuliani. Tra le figure portanti della neo-ortodossia contemporanea ricordiamo Joseph B. Soloveitchik.
La filosofia cinese, esplorata da Alfredo Cadonna, non può prescindere da Confucio, il Platone del Celeste Impero. Per giungere nell’ambito contemporaneo si potrebbe segnalare Fang Dongmei, che indica come le tradizionali categorie confuciane siano ancora utilizzate per distinguere il pensiero cinese da quello greco (o europeo). Per l’America Latina, esaminata da Pio Colonnello, va notato il fatto che solo dopo il 1856 è possibile parlare in questi termini: prima non aveva un nome. Tra i numerosi pensatori che si sono distinti in quel continente, vale la pena ricordare il messicano (molto occidentale) Antonio Caso, scomparso nel 1946; né mancano spagnoli rifugiatisi là con l’avvento del franchismo. Eduardo Nicol elaborò una filosofia in contrasto con gli altri esiliati. Per l’Africa — la parte è di Lidia Procesi — è posto in evidenza chi ha dato vita a una filosofia autoctona, come Alexis Kagame, morto nel 1981; c’è stato anche chi ha elaborato una sociologia e una teologia (Il Dio che libera ) come il camerunense Jean-Marc Ela, morto nel 2008.
L’India, di Gianluca Magi, è il ventre di una sapienza superiore: oltre le grandi correnti di induismo, buddhismo, jainismo, si potrebbe giungere al mondo contemporaneo per ricordare Ramana Maharshi, morto nel 1950, pensatore caratterizzato da «una rigorosa forma di astinenza interiore ed esteriore per giungere alla realizzazione della propria identità col divino». Un grande induista del nostro tempo. C’è infine — ne scrive Giuseppe Jiso Forzani — la filosofia del Giappone, che rampolla da una spiritualità arcaica e che ha nel principe Shotoku Taishi (574-622) con la Costituzione di diciassette articoli un riferimento etico ed esistenziale. Del tempo moderno ricordiamo Nishi Amane, che nel 1862 preparò le prime conferenze sul pensiero occidentale; quindi la scuola di Kyoto (di Brian Shudo Schroeder), che trattò il nulla assoluto e la Grande Morte. Il punto di partenza è Nishida Kitaro, lo sviluppo vide Hajime Tanabe e Keiji Nishitani. Ma qui si torna al linguaggio dell’Occidente. Proprio Nishitani intende la Grande Morte come un progettarsi in cui si passa attraverso la nullità e si «rinasce» con il morire. O meglio è «il ritorno del sé a se stesso nel suo modo di essere originario». Heidegger insegna ancora.

Il Sole Domenica 6.4.14
Davvero i filosofi sono inadatti a governare?
di Armando Massarenti

«In mezzo al mare / con la nera nave veniamo trascinati / fiaccati da una terribile tempesta». L'allegoria della nave che rappresenta la crisi dello Stato è antica: la si incontra già in un frammento del poeta lirico greco Alceo e, nella sua forma forse più celebre, nel VI libro della Repubblica di Platone, di cui esce per Marsilio in questi giorni una bella edizione a cura di Franco Ferrari con il titolo Il governo dei filosofi. Qui vediamo un capitano non del tutto competente di cose nautiche, ma espertissimo di astronomia e metereologia, che viene spodestato dai membri della ciurma, completamente incompetenti, i quali s'azzuffano per mettere le mani sul timone, sostenendo che solo stando al timone si può apprendere l'arte del governare la nave. Con quest'esempio Socrate risponde alla provocazione di Adimanto, il quale sostiene che chi si occupa di filosofia oltre il ristretto periodo dell'età scolare, diviene un uomo del tutto inutile alla città, un originale con la testa tra le nuvole. L'esempio di Socrate è eloquente: il capitano s'accosta all'arte nautica da lontano, applicando le regole del ragionamento speculativo alla prassi della navigazione; ma purtroppo è considerato dalla ciurma uno che discute di cose senza senso. Con questo esempio, e prima di esporre la sua utopia politica, Platone ci tiene a sfatare il mito negativo della filosofia diffuso ad Atene. Non è vero che il vero filosofo sia privo di talento nella vita pratica: al contrario, solo chi ha la visione di cosa sia il Bene in sé può, più di chiunque altro, sforzarsi di offrirne una realizzazione – per quanto sempre assai imperfetta e inadeguata – nel mondo della storia. La cattiva fama dei filosofi, considerati uomini bizzarri e capricciosi – si ricordi la rappresentazione che di Socrate dà il comico Aristofane – proviene, secondo Platone, dalla ciarlataneria dei sofisti che la gente scambia per filosofi. La vera filosofia, invece, è assai utile nella gestione dello Stato. È, anzi, indispensabile. Operando una distinzione tra i due procedimenti intellettivi superiori non fondati sull'opinione, la diánoia e la nóêsis, Platone osserva come l'ultima, ovvero la dialettica, sia lo strumento privilegiato di cui dovrebbe servirsi chiunque governa. Il ragionamento dialettico, che dalle ipotesi giunge a cause certe, è fondamento del lógos, è un metodo per discutere proficuamente ogni emergenza politica all'ordine del giorno, di qualsiasi ambito si tratti. Pertanto Platone sottolinea, nel VI libro, come non solo sarebbe utile avere i filosofi al governo, ma lo sarebbe altrettanto o forse più se i governanti stessi si convertissero alla filosofia, come a uno strumento che dovrebbe garantire un'applicazione pratica del Bene e della Giustizia che sia il meno lontano possibile dalle forme assolute di Bene e di Giustizia. Ma da un punto di vista più generale, se torniamo alla nave di Alceo, potremmo chiederci di che tipo di competenza deve essere in possesso il politico. Per Platone il politico democratico nella vita concreta della polis alla fine si riduce essenzialmente a essere un demagogo, ossia privo di competenze circoscrivibili e universalizzabili e capace solo di persuadere le anime o di orientarle al piacere. Non al bene, dunque. Né alla conoscenza. Forse c'è un briciolo di attualità in tutto questo.

Corriere La Lettura 6.4.14
Artaud avvocato di van Gogh
Lo scrittore contestava la tesi che voleva l’artista alienato: è vittima delle «coscienze normali»
Viaggio a due nella psiche: esistenze parallele segnate dal disagio, altrimenti detto (forse) genio
di Sebastiano Grasso

Che cos’hanno in comune l’olandese Vincent van Gogh (1853-1890) e il francese Antonin Artaud (1896-1948)? La follia del genio. Invade le loro opere e stravolge la loro vita, dato che entrambi soffrono di disturbi mentali e trascorreranno molto tempo negli ospedali psichiatrici. Grande pittore, van Gogh; scrittore, attore, regista, teorico ( Il teatro e il suo doppio ) e disegnatore, Artaud.
Artaud nasce sei anni dopo la morte dell’autore dei Girasoli . A quattro anni ha la meningite. Da qui, balbuzie, depressione e vari problemi neurologici. Il colpo finale glielo dà, in sanatorio, il laudano che lo porterà a far uso degli oppiacei e all’alienazione. È il sistema psichiatrico — dice Artaud — che spinge su questa strada.
Van Gogh trovava conforto nella pittura; Artaud, nel disegno. Una sorta di autodifesa — come ha notato Caterina Pecchioli in un saggio sullo scrittore francese — che si snoda in diverse fasi: lettere-sortilegio, disegni-scritti, ritratti e autoritratti.
Nel 1947, per una retrospettiva parigina dedicata a van Gogh, il gallerista Pierre Loeb invita l’amico Artaud a scrivere un saggio sull’artista olandese, per confutare la tesi dell’alienazione. Van Gogh è rimasto vittima delle cosiddette «coscienze normali» che, con la loro indifferenza, gli hanno impedito di essere se stesso. Titolo, Van Gogh, il suicidato della società . Viaggio nella psiche e nell’arte del «più pittore di tutti i pittori».
Partendo da qui, Isabelle Cahn ha allestito una mostra di una cinquantina di dipinti di van Gogh — gli stessi citati nel saggio di Artaud — e un buon numero di disegni del regista francese che li considerava veri e propri documenti capaci di «assassinare la magia».
Dipinti e disegni da un lato e biografie complicatissime dall’altro. Soprattutto quella di van Gogh, morto a soli 37 anni in seguito a una ferita da arma da fuoco. Qualcuno gli aveva sparato o si era sparato da solo? Più probabile la seconda ipotesi.
Se Vincent comincia a disegnare prestissimo, solo a trent’anni si dedica alla pittura. Precedenti lavori: impiegato nella casa d’arte Goupil, insegnante, missionario nella miniera belga di Wasmes, commesso in una libreria. Il lavoro da Goupil lo spinge a frequentare musei e studi di artisti. Il suo interesse per la pittura spazia dal Seicento olandese ai contemporanei. Le sue impressioni? Le trovate nelle 600 lettere (fra il 1872 e il 1890) al fratello Théo.
Vincent ha una vita errabonda, tormentata e povera, anche se Théo lo aiuta economicamente. Nel 1882 viene ricoverato per una gonorrea trasmessagli da una prostituta trentenne. Quando Vincent comunica ai suoi di volerla sposare, questi cercano di farlo internare. Dalla tavolozza al pianoforte. Van Gogh prende lezioni di musica. Facendo proprie le teorie di Wagner e dei simbolisti, vuole scoprire le relazioni fra colore e musica.
Il pittore conosce bene francese, inglese e tedesco; gira in lungo e in largo l’Europa: L’Aia, Bruxelles (s’iscrive all’Accademia di Belle arti), Amsterdam, Londra, Anversa, Parigi, Arles. Qui invita Gauguin. Cominciano le allucinazioni: durante un litigio, tenta di aggredire l’amico con un rasoio. Non riuscendovi si taglia mezzo orecchio sinistro.
Ricoverato, dipinge come un forsennato. I suoi amici? Il medico curante, un pastore e un postino. Esplode la follia. Dimesso, nuovamente ricoverato. Si dà all’alcol. Nel 1889 entra volontariamente in un vecchio convento che ospita l’ospedale psichiatrico. «Psicosi epilettica», schizofrenia, disturbi bipolari, sifilide, attacchi di panico, tentativi di suicidio.
Vincent lavora in giardino o nella sua stanza. Paesaggi, ritratti, cipressi, campi di grano, notti stellate, girasoli: «Osservando la realtà della vita dei pazzi in questo serraglio, perdo il vago terrore, la paura della cosa e lentamente arrivo a considerare la pazzia una malattia come un’altra». È il periodo in cui vende il suo primo quadro in vita. E l’unico: La vigna rossa . Quando, in un momento di estrema confusione, van Gogh si mangia i colori, gli impediscono di dipingere ed egli raggiunge Théo a Parigi. Quindi, si trasferisce in un alberghetto di Auvers-sur-Oise.
Théo lo affida all’amico-medico Paul-Ferdinand Gachet. Con lui Vincent litiga: «Non bisogna contare in alcun modo sul dottor Gachet. Mi sembra — scrive — che sia più malato di me, o almeno quanto me».
Quello di Auvers-sur-Oise è un periodo abbastanza creativo, anche se solitario. Gli altri pittori lo evitano. «Aveva un’espressione assolutamente folle, con gli occhi infuocati, che non osavo guardare», ricorderà l’olandese Anton Hirschig. Il 27 luglio 1890, Vincent non scende per la cena. Lo trovano disteso sul letto, sanguinante. Gachet non riesce a estrarre il proiettile. Due giorni dopo, van Gogh muore. Da allora, decine di psichiatri hanno suggerito una trentina di diagnosi differenti.
Sulla base della propria esperienza, Artaud le confuta tutte. Soprattutto dopo il 1936, quando passa da una clinica all’altra. Camicia di forza, elettroshock. Internato.
Perché? «Dipende — scriverà — da una palese azione della cattiva volontà generale. A nessun costo vuole che Antonin Artaud, scrittore e poeta, possa realizzare nella vita le idee che manifesta nei libri» .
Il Sole Domenica 6.4.14
epicuro (342-270 a.c.)
Via le irrequiete passioni
Cosa sappiamo di Epicuro e della sua dottrina? Un puntuale saggio di Francesco Verde ora ci consente di fare un bilancio
di Maria Bettetini

L'anima col corpo morta fanno, i seguaci di Epicuro secondo Dante (Inferno 10, 15). Mentre i Campi Elisi ospitano con Aristotele anche Democrito, che pure «'l mondo a caso pone», non è prevista salvezza per gli Epicurei, condannati ad ardere dentro sepolcri che nel giorno del giudizio verranno sigillati, se pur in buona compagnia: Farinata, Cavalcante, Federico II. Persone di alto livello politico e culturale, purtroppo Epicurei, quindi dediti alla ricerca del piacere, senza timori per un'eternità cui non credono, legati alla materialità della vita. Questa è la versione dell'Epicureismo giunta fino a noi, che ancora definiamo con un sorriso come epicurea ogni gozzoviglia, e presunti epicurei i partecipanti. In verità, come è noto, Epicuro predicava una vita di astensione da ogni piacere non necessario alla sopravvivenza, come bere per dissetarsi o dormire per riposare. Il culmine della felicità è infatti nella assoluta assenza di turbamento e passione, nella atarassia che comporta anche assenza di dolore, aponia. Altro che orge. Se è nel momento della morte che si capisce l'uomo, ecco le parole di Epicuro nel frammento a noi giunto della Lettera a Ermarco: «Epicuro a Ermarco, salute. Volge per me il supremo giorno. Così acuti sono i dolori alla vescica e alle viscere, che più oltre non può procedere il dolore. Pure a essi s'adegua la gioia dell'animo mio, nel ricordare le nostre dottrine e le verità da noi scoperte». Morì di calcoli, e pur tra atroci dolori provava gioia nel ricordare i dialoghi con i discepoli e gli amici della sua scuola, il Giardino. Lo Stoico si sarebbe ritenuto superiore al dolore, imperturbabile anche se racchiuso nella fornace bronzea del «toro di Falaride», la più crudele pena capitale greca. Epicuro invece del dolore prende atto, scrive a Ermarco di una gioia tutta intellettuale e poi gli chiede di provvedere ai figli del suo amico Metrodoro, rimasti orfani. Un altro segno di differenza con l'isolamento del sapiente stoico, questo atteggiamento paterno e fraterno. Epicuro teneva infatti in gran conto l'amicizia, era per lui il valore più importante nella vita sociale, grazie al quale venivano superate le barriere tra uomo e donna, tra cittadino e schiavo o straniero: a mezzo secolo dall'Etica Nicomachea, Aristotele con la sua amicizia solo "tra pari" è del tutto superato da Epicuro. Abbiamo solo frammenti e parti delle molto numerose opere di questo ateniese nato nel 342 a.C. sull'isola di Samo, dove il padre era stato mandato come maestro di scuola: tre lettere, qualche libro dell'opera Sulla natura, citazioni.
Ora un saggio introduttivo del giovane Francesco Verde, aggiornato e preciso, consente un bilancio su ciò che noi possiamo dire di sapere di Epicuro e della sua dottrina. Gli scritti indicavano la via da seguire per raggiungere il piacere dell'impassibilità o piacere "catastematico": dapprima lo studio della fisica permetteva di comprendere la struttura di un mondo fatto di atomi che cadono paralleli e a caso a volte si incrociano per via di un casuale clinamen, una casuale inclinazione (fu Epicuro quindi che «'l mondo a caso» pose). Anche la conoscenza avviene attraverso uno spostamento di atomi che rende sempre veritiere le sensazioni, sarà casomai sbagliato il giudizio che da queste si fa discendere. Tale giudizio è possibile grazie alla prolessi, ovvero grazie alla possibilità di anticipare con il ricordo la forma di quello che ci si presenta ai sensi. Non è l'anamnesi di Platone, perché non c'è un "prima" nelle praterie della verità da richiamare alla memoria. Non è nemmeno l'illuminazione dei neoplatonici: si tratta proprio materialmente di modellini che si staccano dall'oggetto mantenendone la forma e vengono catturati dalla vista o dagli altri sensi. Così se una torre quadrata da lontano sembra tonda, non è per un errore della vista, ma perché davvero la forma della torre attraversando tanto spazio "diventa" tonda. Dopo la fisica, la «scienza del canone» organizza il sapere come farà poi la scienza moderna, secondo le regole dell'esperienza e non secondo teorie predefinite. Il culmine di tutto questo sapere è l'etica, perché lo scopo del sapiente è vivere bene. Qui Epicuro ha proposto soluzioni molto originali, riprese poi da Lucrezio (con maggior pessimismo) come da Ugo Foscolo e parte degli Illuministi. Andando alla radice di tutto, è la paura della morte e dell'aldilà che per prima toglie piacere al vivere. Ma, come si legge nella Lettera a Meneceo, quando ci sarà la nostra morte, noi non ci saremo più. Il dolore? Se è leggero passa; se è intenso finirà presto, perché ci porterà alla morte. Gli dei? Per accettarli come buoni e potenti, si devono pensare del tutto indifferenti alla sorte dell'uomo, forse nemmeno consapevoli della sua esistenza, in un loro mondo a parte. Non possono farci paura, così come non dobbiamo temere la mancanza di godimento, perché sapendo scegliere e perseguire solo i piaceri necessari, non saremo mai delusi dal desiderio insoddisfatto. Chiamava "quadrifarmaco" queste sue dottrine, Epicuro, medicina contro la paura, per una vita libera dall'affanno del desiderio frustrato, contenta di quello che ha, come un invitato a un banchetto che non sa quando dovrà andarsene: se sapiente, l'invitato saprà gustare una per una le portate, senza pensare a quella che forse non potrà assaggiare. Ma Epicuro e i suoi amici del Giardino di Atene erano avvantaggiati, nessuno intorno a lor prometteva bellezza, immortalità e gloria in cambio di qualche acquisto, un po' di improcrastinabile shopping.

Francesco Verde, Epicuro, Carocci editore, Roma, pagg. 278, € 22.00
Epicurea, nell'edizione di Hermann Usener, a cura di Ilaria Ramelli, testo greco e latino a fronte, Bompiani, pagg. 898, € 30.00
Epicuro, Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita, a cura di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari, pagg. 138, € 7,50
Opere di Epicuro, a cura di M. Isnardi Parente, Utet, Torino, pagg. 628, ill., ristampato anche nell'edizione economica Tea
Epicuro, Sulla natura libro II, a cura di G. Leone, testo greco a fronte, CD-ROM, Bibliopolis, Napoli, pagg. 714, € 130,00.

Il Sole Domenica 6.4.14
Razionalità pratica
Cosa ci serve? Immaginazione
di Nicla Vassallo

A volte capita, erroneamente, di pensare che la capacità di vivere bene o male consista in una questione di fatalità, con le sue venture e avversità, come se la vita viaggiasse parallela (in una geometria non euclidea) a una sorta di esorcismo, in cui un qualche stregone riuscisse a indurre chissà chi a restituirti l'anima, o l'animo, per riapparire in un'esistenza magica, alchemica, al limite dell'esoterismo o dell'esotismo - a seconda dei gusti. Ma dubito che una dottrina segreta (col termine "segreto" declinato in ogni modo, anche quel segreto conosciuto ad alcuni prediletti e nascosto a ogni altro) riesca a conferire un valore al vivere bene, seppur, ammetto, che il valore stesso possa descrivere, spiegare, giustificare un tipo di vivere che si conclude (lo sappiamo, seppure tendiamo a rimuoverlo) con la fine dell'esistenza che, purtroppo, pure quando la desideriamo, non ci viene sempre accordata.
I valori aiutano. Per esempio, nel riporre il nostro bene e il nostro viver bene nella felicità. Tesi questa dell'etica di una certa filosofica antica, che ha però posto e pone non pochi problemi. Felicità esteriore, coincidente perlopiù con i mezzi economici di cui si dispone, oppure felicità interiore connessa a una bella appagata o estasiata, a tratti tormentata, condotta del proprio intimo, del proprio conoscere se stessi in una propizia consapevolezza, al di là delle apparenze, ingannevoli o no che siano? Felicità rispetto agli altri e agli altri mostrata, oppure felicità interiorizzata? O, ancora, infelicità che osteggiata, per carenze interiori e/o esteriori, si tramuta in felicità, nel momento in cui altri se ne fanno carico, oppure, peggio ancora, nel momento in cui si sfruttano altri, magari simulando, a propria insaputa, amore (e che tipo di amore!) nei confronti di costoro per mostrare una qualche conquista superficiale o trofeale, rispetto alla mente/corpo di qualcun'altro/a. E via dicendo, o non troppo dicendo.
Costituisce una virtù un certo viver bene, a partire, però dal dibattito sulla definizione di ciò che è bene e sulle nostre giustificazioni di perseguire il bene, una volta che lo si è appreso, anche sulla base della ragionevolezza della considerazione di sé innanzitutto - serve non poco, in proposito, la discussione di Mark LeBar, che tenta di conciliare concezioni aristoteliche con la nostra contemporaneità (fino a affrontare filosofi quali McDowell e Wiggins), misurandosi con cospicui dilemmi, concludendo il suo corposo volume con un intero capitolo dedicato al rispetto degli altri e alla sua estensione, affinché risulti chiaro che tale rispetto non coincide col cieco sacrificio di sé, o peggio con l'immolarsi all'altro: ne verrebbe meno il valore del vivere bene nell'ottica di una razionalità pratica e, aggiungo io, della pratica della razionalità.
Eppure qualcosa manca al vivere bene, un "qualcosa" che non compare neppure nell'indice del volume. Mancano emozioni e immaginazioni. Emozioni e immaginazioni che appartengono di fatto al vivere, benché non tutte si rivelino - annotiamolo sempre - confacenti al vivere bene, come viene sottolineato, in modo forte, da Adam Morton, notoriamente allergico alle formule elementari e alle ricette banali. Il suo lavoro non è però così provocatorio, come sostenuto da alcuni, bensì mirato a soluzioni innovative - e rimane un peccato che si confondano, ormai troppo spesso, le provocazioni con le innovazioni. Ciò non toglie che, a differenza del consistente impegno filosofico e scientifico, di recente sempre più dirompente e irrompente, sulle tematiche dell'emozioni e dell'immaginazione, le due non abbiamo trovato opportune connessioni: questo è il tentativo, ben riuscito, di Morton, connessioni da lui indagate con puntualità - si provi solo a pensare all'immaginare quanto non dovrebbe emozionarci, o allo sviluppo delle proprie emozioni, "sagomando" queste ultime, o alle virtù dell'immaginazione: così si torna al valore, alla virtù del vivere bene. Perché la felicità, piattaforma solida di tale vivere, se procura il bene (mio, tuo, nostro), e non altro, rimane un'emozione positiva. Attenzione, però, ci avverte Morton: noi esseri umani proviamo un'ampia gamma di emozioni, proprio a causa della nostra immaginazione, e, perciò, occorre comprendere quali emozioni siano da preferire, e in quali occasioni. Cercando di qualificare prima, e di evitare poi, alcune azioni, cui le emozioni possono indurci, azioni nocive, azioni perverse, azioni contro produttive, e via dicendo. Ci nuociamo e pervertiamo pure con modalità "semplicistiche", quali il contrabbando di noi stessi, la presunzione, la sottomissione. E in tal modo rechiamo danni agli altri. Negando loro il valore del vivere bene.

Mark LeBar, The Value of Living Well, Oxford University Press, Oxford, pagg. 384, $ 74,00.
Adam Morton, Emotion and Imagination, Polity Press, Cambridge, pagg. 230, $ 21,95.

Il Sole Domenica 6.4.14
Gli automi di Johnny
Il sistema nervoso visto da un matematico
Il geniale e profetico manoscritto delle lezioni che von Neumann, invitato a Yale nel 1955, non riuscì a tenere, a causa della malattia
di Umberto Bottazzini

All'inizio del 1955 John von Neumann venne invitato dalla Yale University a tenere le Lezioni Silliman nella primavera dell'anno seguente. Tenere tali Lezioni «è considerato un privilegio e un onore tra gli studiosi di tutto il mondo», ricordava la moglie Klara, e Johnny – com'era familiarmente chiamato – «fu profondamente onorato e lusingato dell'invito». All'epoca von Neumann era una delle figure più autorevoli e prestigiose sulla scena scientifica internazionale. Nato a Budapest nel 1903 da una famiglia ebrea, fin da bambino aveva dimostrato di possedere una memoria prodigiosa, oltre che una straordinaria predisposizione per la matematica. Dopo gli anni di liceo, nel clima di acceso antisemitismo allora diffuso in Ungheria, il giovane von Neumann riesce a iscriversi a matematica all'università di Budapest nonostante le severe restrizioni imposte al numero di studenti universitari ebrei. Tuttavia, per seguire i consigli del padre, intraprende invece studi di chimica, prima a Berlino e poi a Zurigo, dove si laurea in ingegneria chimica nel 1926. Nello stesso anno, senza aver seguito alcun corso, ottiene il dottorato in matematica a Budapest con una tesi di teoria degli insiemi. Inizia allora per von Neumann una folgorante carriera accademica: a Berlino, e poi nella Gottinga dominata dalla figura di Hilbert, si afferma come un vero e proprio genio, capace di contributi profondi e originali nei campi più diversi della matematica pura e della fisica teorica, dalla teoria assiomatica degli insiemi alla logica matematica alle algebre di operatori che oggi portano il suo nome.
Il suo volume Mathematische Grundlagen der Quantenmechanik (1932), che fornisce i fondamenti matematici alla nuova meccanica dei quanti, diventa ben presto un classico. Chiamato con Einstein a insegnare all'Institute of Advanced Study allora fondato a Princeton, nel 1933 si stabilisce definitivamente negli Stati Uniti. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, lavorando per la Difesa al problema dell'interazione delle onde d'urto, che comportava un'enorme mole di calcoli, von Neumann si rende conto dell'utilità di avere a disposizione potenti macchine per eseguire calcoli numerici in tempi rapidi. La moglie ricordava che l'ENIAC, il calcolatore messo a punto a scopo militare per i Ballistic Research Laboratories, «introdusse Johnny per la prima volta alle immense possibilità che il supporto del calcolo automatico apriva nella risoluzione di molte questioni ancora aperte». Nel 1943, lavorando al Progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica, von Neumann si convince definitivamente che i calcolatori elettronici avrebbero consentito di risolvere problemi scientifici altrimenti intrattabili, e nell'immediato dopoguerra realizza a Princeton un calcolatore elettronico, prototipo di quelli realizzati in seguito nel paese. Nel progettarlo, von Neumann aveva cercato di simulare alcune delle operazioni allora conosciute compiute dal cervello umano. Alle ricerche su macchine e cervello dedica ogni ritaglio di tempo lasciato libero dai suoi numerosi incarichi in organismi militari e governativi.
Non stupisce quindi che, accettando l'invito della Yale University, von Neumann avesse deciso di farne l'argomento delle sue Lezioni Silliman. Qualche mese dopo, tuttavia, egli avvertì i primi sintomi di un cancro alle ossa che ben presto lo costrinse su una sedia rotelle e lo portò alla morte l'8 febbraio 1957.
Fino all'ultimo lavorò al testo di quelle Lezioni, che non riuscì a tenere. Pubblicato in questo volume, il manoscritto lasciato da von Neumann rappresenta una sorta di testamento scientifico, e insieme una prefigurazione geniale del futuro, consegnataci dal l'uomo che, più di ogni altro, ha lasciato un'impronta sul successivo sviluppo dei calcolatori e delle ricerche sull'intelligenza artificiale. E, a più di mezzo secolo di distanza, nonostante gli straordinari progressi compiuti sia nella realizzazione di macchine sempre più potenti e veloci, sia nelle neuroscienze, questo scritto mantiene un inalterato carattere profetico. «Si tratta – scrive von Neumann presentando il suo lavoro – di un approccio alla comprensione del sistema nervoso dal punto di vista di un matematico». O, più precisamente, di «un insieme complessivamente organizzato di ipotesi su come si debba realizzare un tale approccio», individuando le prospettive che appaiono più promettenti, e privilegiando gli aspetti logici e statistici concepiti «come gli strumenti di base di una teoria dell'informazione». Come promette il titolo, il testo di von Neumann si divide in due parti. Nella prima, egli illustra quella che viene chiamata "architettura di von Neumann" di un computer, ossia l'organizzazione funzionale alla quale si ispirano ancora oggi le macchine, che utilizza un "programma" contenuto nella "memoria" (modificabile) della macchina per prescrivere i passi computazionali eseguiti dal "processore centrale". Certo, il linguaggio è mutato nel tempo, così come la velocità dei processori, ma non le idee fondamentali esposte da von Neumann.
Diverso, e più complesso, il discorso per il cervello, cui è dedicata la seconda parte del libro. «L'osservazione più immediata sul sistema nervoso – esordisce von Neumann – è che il suo funzionamento è prima facie digitale». Un'assunzione fin troppo drastica anche agli occhi di von Neumann, che egli riconosce «necessario discutere con un certo livello di approfondimento». Un approfondimento che egli conduce alla luce delle conoscenze del tempo, illuminato da geniali intuizioni sul confronto tra il funzionamento dei «grandi ed efficienti automi naturali» (altamente paralleli) e i «grandi ed efficienti automi artificiali» (molto più seriali). Qualunque sia il linguaggio, la tipologia di comunicazione, utilizzato dal sistema nervoso centrale, conclude von Neumann, esso «non può non differire notevolmente da ciò che consapevolmente ed esplicitamente pensiamo sia la matematica». In una parola, che «il linguaggio del cervello non è il linguaggio della matematica». La congettura, discussa da von Neumann, che le operazioni del cervello siano prima facie digitali si è rivelata sbagliata. Ma anche a distanza di mezzo secolo, nonostante il formidabile sviluppo delle neuroscienze, i nostri modelli di attività cerebrale sono poco più che rudimentali approssimazioni della realtà neuro-computazionale. Il cervello nasconde ancora molti enigmi, e la ricerca è destinata a riservarci grandi sorprese.

John von Neumann, Computer e cervello, Il Saggiatore, Milano,
pagg. 144, € 14,00

Il Sole Domenica 6.4.14
Cavalli Sforza-Padoan: “Razzismo e noismo”
Le nostre molteplici identità
di Guido Barbujani

Ci sono eccezioni alla regola secondo cui fra umanisti e scienziati il dialogo sarebbe fra sordi. Se lo scienziato è uno dei più grandi genetisti viventi, Luca Cavalli-Sforza, e l'umanista è Daniela Padoan, che da anni raccoglie storie delle vittime della Storia, dalle deportate ad Auschwitz alle madri dei desaparecidos argentini, e se fra i due la curiosità è reciproca, ecco che ne risulta un bel libro su un tema che riguarda tutti, quello dell'identità. In italiano la parola «identità» non si declina al plurale, e ne sorgono equivoci. Si finisce infatti per credere che di identità ognuno ne abbia una sola, generalmente radicata in un preciso luogo geografico, cioè quello dove da sempre sarebbero vissuti gli antenati («sangue e suolo», come dicevano i nazisti che di queste cose se ne intendono); e tutto ciò circoscriverebbe un gruppo, un "noi" come lo chiamano gli autori, di persone con la stessa identità, cioè, appunto, identiche. Ma non è vero: ognuno ha passioni, fissazioni e interessi diversi, cioè molteplici identità (attenzione: plurale) e ci aveva già pensato Amartya Sen, in Identità e violenza (Laterza), a metterci in guardia contro queste micidiali semplificazioni. Qui gli autori ragionano insieme su come le vicende dell'evoluzione biologica abbiano plasmato le strutture sociali, e così passano criticamente in rassegna i concetti di umano, razza, gruppo dominante. Operazione complessa, perché magari abbiamo letto da qualche parte che siamo tutti immigrati africani, e prima ancora tutti ominidi, ma le conseguenze di queste comuni origini non sono né intuitive né banali.
I passaggi più stimolanti del libro sono quelli in cui emergono le diverse sensibilità dei due autori: per esempio quando Cavalli-Sforza si dimostra più interessato alla descrizione (meglio: narrazione) dei fenomeni e Padoan lo esorta a ricavarne giudizi di valore. E ancora: per poter funzionare, la scienza ha bisogno di nominare le cose, di categorizzarle, constata Cavalli-Sforza. Vero, però queste etichette inchiodano la complessità del reale in schemi illusoriamente semplici, in dicotomie di cui può sfuggire l'inevitabile tasso di arbitrarietà, obietta Padoan. Possiamo distinguere pelle scura e pelle chiara, ma nella realtà le sfumature sono moltissime; e anche il limite fra chi è "noi" e chi non lo è si è indebolito, oggi che lo studio del Dna suggerisce possibili ibridazioni fra quelle che in paddato ci sembravano specie diverse, per esempio noi e i Neandertal.
Meglio prendersela calma quando si apre questo libro: ci vuole tempo per apprezzarlo. Non è un trattato organico quanto una raccolta di divagazioni. Come in ogni conversazione, gli argomenti si accavallano, e capita che ritornino in capitoli diversi, oppure che l'intervistato vesta per un po' i panni dell'intervistatore. Ma così gli autori riescono a spingersi in ambiti molto vasti e a trovare sorprendenti connessioni. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alle note a piè di pagina: si va da Montaigne a Jeremy Rifkin, da Platone e Gadda a Jared Diamond (con qualche carenza sul versante scientifico, se proprio vogliamo essere pignoli). Anche senza volerlo, si finisce perciò per constatare che il sapere umano è uno nonostante le etichette disciplinari a cui siamo assuefatti, che i pigmei hanno qualcosa da insegnarci su Facebook, e che fra Leopardi e l'etologia i rapporti sono più stretti di quanto non si pensi.
Detto questo, è chiaro che non si possono trarre norme di comportamento dallo studio degli altri mammiferi, come Luca Cavalli-Sforza ci ricorda in un passaggio memorabile. Sapere da dove veniamo è interessante di per sé e ci aiuta a capire perché siamo arrivati dove siamo arrivati, ma i responsabili delle nostre scelte siamo noi, non l'animale da cui ci siamo evoluti. La violenza verso i propri simili e l'infanticidio sono diffusi nel mondo animale, cioè non sono innaturali, ma lo sono anche molte forme di comportamento altruistico. Insomma: nei nostri geni sono iscritte le nostre potenzialità, e sono tante; quali poi svilupperemo dipende da noi. E quindi vale la pena studiare le vite sessuali dei primati, ma non illudiamoci che così potremo stabilire ciò che va bene per noi: come noi, i primati possono essere monogami i poligami, omo o etero-sessuali, amanti fantasiosi o ripetitivi; inutile tirare Darwin per la giacca, non saranno le sue geniali intuizioni sul nostro passato a darci la direzione verso cui procedere in futuro.

Luigi Luca Cavalli Sforza, Daniela Padoan, Razzismo e noismo, Einaudi, Torino, pagg. 250, € 19,00

Il Sole 6.4.14
Anniversari paralleli
William e Galileo, padri moderni
Nel 1564 (450 anni fa) nascevano i due geni. complementari
Proponiamo «Galwill» un grande esperimento didattico europeo
di Massimo Bucciantini

Anche noi siamo nati il 15 febbraio e il 23 aprile del 1564. Anche se – a cominciare dai nostri programmi scolastici – facciamo di tutto per non rendercene conto o, distratti come siamo, ce ne dimentichiamo, quei due giorni di tanti secoli fa dovrebbero essere festeggiati insieme, come meritano. E per una ragione molto semplice: perché senza quei due compleanni saremmo tutti molto più poveri e certamente diversi da quello che siamo diventati.
Ma perché festeggiarli insieme? Shakespeare e Galileo, in fondo, non si sono mai conosciuti. Neppure per interposta persona, neppure per lettera. E non risulta neppure che l'uno abbia letto gli scritti dell'altro. Il drammaturgo inglese, scomparso all'età di 52 anni, morì il giorno stesso della sua nascita, il 23 aprile del 1616. Lo scienziato italiano gli sopravvisse per altri 26 anni, fino a quando, ormai cieco e da nove anni agli arresti domiciliari nella sua casa di Arcetri, non esalò l'ultimo respiro l'8 gennaio 1642. Del primo sappiamo così poco che interi periodi della sua vita ci sono completamente ignoti, come gli anni che vanno dal 1585 al 1592. E quindi non conosciamo le ragioni della sua decisione di trasferirsi a Londra o come sia potuto accadere che un figlio di un guantaio in rovina sia potuto diventare in così breve tempo William Shakespeare, uno degli scrittori di teatro più famosi prima in Inghilterra e poi nel mondo intero. Come ha osservato Stephen Greenblatt, «le tracce sopravvissute della vita di Shakespeare sono molte ma sottili», e non esiste «nessun indizio immediatamente ovvio per districare il grande mistero di una forza creativa tanto immensa».
Dell'altro, invece, sappiamo "quasi" tutto. Conosciamo ogni momento della sua vita, sia quelli tragici sia quelli segnati da successi e da veri e propri trionfi. La sua corrispondenza ammonta a migliaia di lettere. Le sue carte sono gelosamente conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Due dei suoi telescopi, tra le centinaia che lui stesso fabbricò, si possono ancora ammirare nelle splendide sale del Museo Galileo che si trova a un passo dagli Uffizi e dal Ponte Vecchio.
Ho detto che nessuno dei due ha mai letto gli scritti dell'altro. O meglio: se per Galileo, non ci sono dubbi al riguardo, nel caso di Shakespeare non siamo così sicuri, anche se fino a oggi i tentativi di trovare nelle sue opere teatrali riferimenti allo scienziato e al filosofo italiano non hanno portato a risultati significativi. L'unica esile traccia è nel Cimbelino. E si trova in una delle ultime scene di questa tragedia scritta tra il 1609 e il 1610 e messa in scena la prima volta nel 1611, quando a Postumo apparve in sogno Giove circondato dagli spiriti dei genitori e dei due fratelli, un evidente allusione, secondo alcuni interpreti, ai quattro satelliti appena scoperti da Galileo.
Eppure la scoperta del telescopio venne immediatamente divulgata a Londra dall'ambasciatore inglese a Venezia, sir Henry Wotton. E ciò accadeva proprio il giorno della pubblicazione – il 13 marzo 1610 – del Sidereus Nuncius, che conteneva le novità celesti che tutti conosciamo e che avrebbero reso il loro scopritore, come annotava senza mezzi termini l'ambasciatore, «o estremamente famoso o estremamente ridicolo». Del resto sappiamo – grazie anche al bel libro di Gilberto Sacerdoti, Nuovo cielo, nuova terra. La rivelazione copernicana di Antonio e Cleopatra di Shakespeare – quanto Shakespeare fosse attratto dai temi cosmologici e ammirasse i dialoghi italiani di Giordano Bruno, pubblicati a Londra tra il 1584 e il 1585; quanto, cioè, il nuovo cielo senza limiti del Nolano trovasse la sua trasfigurazione scenica nell'infinito amore di Antonio.
Ma allora se non si sono conosciuti, e forse mai letti, che cosa hanno in comune questi due grandi protagonisti della nostra modernità? La risposta a questa domanda va cercata nel modo in cui Galileo e Shakespeare, ciascuno per proprio conto, si pongono di fronte al loro "oggetto" di indagine. Se volessimo provare a dire in una sola frase ciò che li accomuna forse dovremmo dire che niente per loro è come appare. Niente è come appare è il principio che li unisce e la chiave del loro successo. Sta qui, in questo modo di guardare l'uomo e il mondo, la differenza che più di ogni altra li separa dai loro contemporanei. E ciò fa sì che tra loro si stabilisca un'intima e segreta corrispondenza di intenti. Anzi, si ha quasi l'impressione che si siano suddivisi i compiti in modo perfetto: Galileo applica questo principio al mondo delle cose, all'universalità dei fenomeni della natura; Shakespeare, invece, alla natura contorta e inafferrabile dell'uomo. L'uno scopre che il vero alfabeto della natura è da ricercare dentro le forme invisibili della matematica e, al tempo stesso, con il perfezionamento del telescopio, si accorge che il cielo non è più quello che da duemila anni appariva alla nostra vista; l'altro è un impietoso e scomodo indagatore della natura umana, tanto da reinventare l'intero alfabeto dei nostri sentimenti. Che riesce a penetrare come pochi, spingendosi oltre la loro scorza e le loro scolastiche definizioni e mettendo in scena i tanti volti del tradimento, dell'ingiustizia, della crudeltà, della vendetta, della rivalità, della gelosia, del disonore, dell'incesto, del lutto.
Come ha scritto Colin McGinn in Shakespeare filosofo, la tragedia per Shakespeare nasce dalla consapevolezza che «la mente non è qualcosa che si mette in mostra: la segretezza è parte essenziale della sua natura». Allo stesso modo accade nel mondo fenomenico, che ci appare inconoscibile finché ne affidiamo la comprensione ai nostri sensi. Certo, poi le strade si divaricano perché differenti sono i temi di indagine. Se alle spalle di Galileo si intravedono il "divino" Archimede e il maestro Copernico, ed è in loro che lo scienziato italiano trova la sua guida e gli strumenti per trasformare il mondo-labirinto in un mondo-libro, dietro Shakespeare bisogna guardare in altre direzioni, guardare a Montaigne, ad esempio, alla lezione ricevuta dal filosofo francese, grande anatomista dell'incertezza e dell'illusione del sapere umano.
Nel 1623, sette anni dopo la morte, veniva data alle stampe la prima edizione in folio delle commedie e tragedie di Shakespeare. La metà esatta, ben diciotto su trentasei, erano inediti, e tra questi c'erano capolavori come Giulio Cesare, Macbeth, La tempesta, Antonio e Cleopatra. Nello stesso anno Galileo pubblicava il Saggiatore. Non la sua opera più famosa ma certamente quella che contiene le sue parole più celebri, quelle che tutti dovrebbero imparare a memoria come si fa (o si dovrebbe fare) con L'Infinito di Leopardi. «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima…». Sono parole, ogni volta che le leggiamo, che ci affascinano nella loro assoluta e straordinaria semplicità, così come non ci lasciano in pace e ci inquietano perché sono destinate proprio a noi quelle altrettanto famose pronunciate dal mago Prospero: «Sono finiti i nostri giochi. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell'aria, in aria sottile».
È un doppio compleanno che dovrebbe essere festeggiato con tutti gli onori, dicevo. Ma forse non basta. Forse bisognerebbe fare qualcosa di più e dire che le loro opere dovrebbero entrare davvero nelle nostre scuole, perché è anche attraverso la scelta dei testi che si leggono in classe che si formano le nuove generazioni e si costruisce l'Europa del futuro. Ecco, forse, una cosa su cui riflettere e su cui lavorare. Altrimenti continueremo solo a lamentarci e a baloccarci nel nostro scontento, ripetendo che l'Europa non deve essere solo Pil, banche, poteri forti e via dicendo.
Galwill potrebbe essere un buon esperimento didattico, a Londra come a Roma, a Parigi come a Berlino, per provare a dire che l'Europa si costruisce anche a partire dalla riforma dei programmi scolastici. Un segnale forte e concreto a favore di una visione unitaria della cultura.

Il Sole 6.4.14
Shakespeare e le incongruenze
Di età e volto piuttosto incerti
di Antonio Audino

È senza dubbio l'autore teatrale più studiato, tradotto e rappresentato in ogni angolo del mondo, ma William Shakespeare è anche l'artista di tutti i tempi maggiormente avvolto dalla fitta nebbia del mistero. Date, elementi biografici, aspetto fisico, perfino la sua scrittura, tutto si presta a uno scandaglio degno di un detective o sembra voluto dagli intrecci e dai depistaggi di un geniale giallista.
Ma andiamo con ordine. Quando è nato il grande drammaturgo? Chissà. A esserci pervenuta è soltanto l'annotazione sul registro dei battesimi a Stratford-upon-Avon il 26 aprile 1564, ma da quanti giorni il piccolo Willie aveva aperto gli occhi sull'affollato e confuso palcoscenico del mondo? Due, tre, un mese? Soltanto un centinaio di anni dopo i suoi orgogliosi conterranei avrebbero deciso di segnare la sua nascita al 23 di aprile, festa di San Giorgio, patrono nazionale, data coincidente per altro col giorno della morte del drammaturgo nel 1616. Già, ma ammesso che fosse vera questa singolare coincidenza, su quale almanacco stiamo fissando queste date? Bisogna tener conto che l'Inghilterra resterà fedele al calendario giuliano fino al 1752 mentre in quasi tutto il resto d'Europa era entrata in uso nel 1582 la riforma gregoriana. Se quindi la presunta data di nascita potrebbe andar bene a tutti, per la morte bisognerebbe calcolare dieci giorni in più (visto che ne furono aboliti undici con un tratto di penna quando anche oltre Manica ci si uniformò al continente) arrivando quindi al 4 maggio. Si riduce così a una clamorosa svista l'idea che Shakespeare sia morto nello stesso giorno del 1616 in cui a Madrid spirava Cervantes e a Cordova lo scrittore incaico-spagnolo Garcilaso de la Vega, equivoco così ben radicato da far decidere all'Unesco che in quella data venga festeggiata la giornata mondiale del libro.
Altrettanto difficile è capire che faccia avesse Shakespeare. Tutti pensiamo a quel omino minuto, pelato, con i baffetti e un gran colletto rigido che appare in una celebre incisione. Sarà stato veramente così? Già il fantoccio eretto nella chiesa di Stratford sopra la sua tomba, capigliatura a parte, sembra assomigliare poco all'altra fisionomia. Fatto sta che questi due ritratti, ritenuti i più attendibili, sono stati eseguiti diversi anni dopo la scomparsa del drammaturgo, mentre per quello che riguarda il dipinto conservato alla British National Portrait Gallery (nella foto), da qualcuno attribuito al più noto attore della compagnia con cui Shakespeare lavorava, Richard Burbage, i dubbi si estendono ormai sia all'autore che alla figura effigiata. A infittire la congerie di ipotesi si è aggiunto da qualche anno il celebre ritratto ritenuto perduto, l'unico che sia stato realizzato in vita, quando Shakespeare aveva 46 anni, quindi sei anni prima della morte, ritrovato nel momento in cui un aristocratico inglese, discendente del chiacchierato amico del drammaturgo, il Duca di Southampton, scoprì, osservando una copia fiamminga vista in una mostra, che l'originale era su un camino del suo castello da centinaia di anni. Fatto sta che il cosiddetto ritratto Cobbe (lo vedete nella copertina di «Collezione») ci presenta un uomo giovanile dalla folta chioma, dalla barba rossiccia e dai lineamenti affinati e sottili, piuttosto differente dalle altre raffigurazioni. In così poco tempo il volto del drammaturgo sarebbe stato poi «dalla mano oltraggiosa del tempo sgualcito e consunto», per usare un'immagine dei suoi Sonetti? Il pittore aveva voluto compiacere il suo soggetto aggraziandolo? La memoria di chi lo aveva immortalato successivamente era così fallace? Non lo sapremo mai.
Certamente nulla a che vedere con le fattezze di Joseph Fiennes nel film Shakespeare in Love, dove l'autore viene reso nostro contemporaneo grazie alla triangolazione muscoli-sesso-psicanalisi, componendo il più illegittimo dei profili che si potessero tracciare. Ma facciamo conto che tutto questo rientri in un generico ambito di curiosità, relativamente a un personaggio di cui, in fondo, ci interessano soprattutto le opere. A questo punto al detective o al giallista è bene che si affianchino filologi e storici, o per lo meno tutti coloro che hanno perso la testa nel capire cosa questo autore abbia veramente scritto. Di tutti i suoi testi teatrali Shakespeare non ci ha lasciato neppure una riga autografa, tantomeno un testo a stampa da lui commissionato o seguito. Restano invece una serie di pubblicazioni clandestine realizzate dopo il successo degli spettacoli, dissonanti e contrastanti tra di loro.
A far giustizia e chiarezza sarebbe dovuta servire l'edizione completa delle sue opere, assemblata dai suoi compagni di teatro, il prezioso In Folio del 1623. Se non fosse che tutto ciò avvenne soltanto sette anni dopo la sua morte con testi tratti da copioni più volte trascritti, sottoposti alle variazioni della pratica scenica e affidati a un gruppo di tipografi spesso un po' distratti. Le versioni che oggi si trovano in volume sono un'attentissima ricostruzione che mette insieme fonti diverse costruendo un'ipotetica verità, ricercata in virtù della coerenza interna, linguistica e narrativa delle varie parti. Si potrebbe quindi inanellare un singolare catalogo di incongruenze nei capolavori di questo autore: come mai ci viene annunciato all'inizio del Sogno di una notte di mezza estate che le nozze tra Teseo e Ippolita verranno celebrate dopo tre giorni mentre poi, finita la notte degli incanti, i due convolano al talamo? Perché Prospero dice ad Ariel nella Tempesta di divenire invisibile a tutti invitandolo contemporaneamente ad assumere l'aspetto di una ninfa del mare? Esigenze di scena? Rimaneggiamenti successivi? Distrazioni di copisti o qualche riga di piombo scomposta? Nessuno ce lo dirà mai, anche in tutti questi casi il resto è silenzio.

Il Sole 6.4.14
Cortona
Dear Etruschi siete un mito!
Palazzo Casali ospita una raffinata rassegna che illustra la nascita dell'interesse in Inghilterra per l'antico popolo italico
Con eccezionali prestiti dall'estero
di Cinzia Dal Maso

In mostra a Cortona si narra una bella storia: la storia di un mito, il mito degli etruschi, che alimentando se stesso fa poi nascere la ricerca scientifica vera. Lo fa grazie a un'opera che è mito essa stessa: De Etruria Regali si chiama, e il nome dice tutto. La volle Cosimo II de' Medici agli albori del Seicento, per nobilitare il proprio mercantil casato con origini tra gli antichi e famosi abitanti della sua terra. Nulla di più facile, allora. Strano è invece che si affidò per questo a un erudito scozzese, tale Thomas Dempser, attaccabrighe cattolico inviso all'Inghilterra elisabettiana e a cui Cosimo aveva offerto rifugio. Ma aveva visto giusto, perché il Dempser confezionò il primo studio dettagliato sui vari aspetti della civiltà etrusca che sia mai stato scritto: un densissimo manoscritto in sette libri che però, donato al granduca, a lui rimase e quasi nessuno lesse.
Un vero peccato, pensò oltre un secolo dopo Thomas Coke, conte di Leicester, uno dei tanti rampolli della nobiltà europea giunti in Italia per l'educativo Grand Tour. Collezionò nei suoi viaggi manoscritti e opere raffinate, ma per lui il De Etruria Regali era la vera leggenda; lo acquistò per darlo alle stampe e diffonderlo ai più, e questa fu la sua grande impresa realizzata con notevole spesa. Perché fece tutto con raffinatissimo rigore, affidando all'erudito Filippo Buonarroti la revisione e l'aggiornamento dell'intero testo, nonché la realizzazione di 93 incisioni delle principali opere d'arte etrusche: non si poteva più raccontare gli etruschi basandosi solo sulle fonti storiche, ma bisognava dare giusta rilevanza anche alle scoperte archeologiche. Fu un lavoro di anni in cui il Buonarroti studiò e inviò disegnatori in ogni dove, e alfine l'opera intera fu pubblicata a Firenze in due volumi, in folio, nel 1726 tra grande clamore: è universalmente nota come la miccia che fece nascere l'etruscologia moderna.
I tempi erano cambiati, lo spirito illuministico aleggiava nell'aria, e non si pensava più solo a Firenze ma alla Toscana tutta che si costruiva così un'identità regionale moderna ispirata all'eredità etrusca. Per conoscere e studiare gli etruschi nacquero le accademie, prima fra tutte nel 1727 proprio quella di Cortona che oggi ospita la curiosa mostra: suo primo "lucumone" fu il Buonarroti stesso e vi fecero parte tutti gli eruditi del tempo tra cui personaggi del calibro di Montesquieu, Voltaire, Winckelmann e moltissimi inglesi. Insomma il legame tra Cortona e quella famosa opera è quasi un legame filiale, tra un padre e il suo figlio prediletto, e dunque la città "etrusca" non poteva sottrarsi a celebrare la riscoperta degli originali delle famose incisioni realizzate sotto la direzione del Buonarroti, oltre ai manoscritti autografi, i disegni, i libri contabili che hanno consentito di ricostruire protagonisti e particolari di quella grande avventura. È scoperta del 2007 ma i documenti più rivelatori sono emersi solo nei mesi scorsi, sempre tra i corridoi dell'immensa dimora palladiana che Thomas Coke costruì per vivere tra le proprie collezioni. E da Holkham Hall le incisioni si mostrano per la prima volta al pubblico proprio a Cortona, sapientemente accostate ad alcuni dei capolavori che ritraggono: ci sono il grandioso bronzo dell'Arringatore dal Museo archeologico di Firenze e il cosiddetto Putto Graziani dai Musei Vaticani; e poi la Patera Cospiana, famosissimo specchio ora a Bologna, che da quando fu rinvenuto ad Arezzo nel Seicento fece molto parlare di sé tra gli eruditi, perché ritrae Atena armata mentre nasce dalla testa di Tinia, lo Zeus etrusco, in un perfetto esempio di contaminazione culturale.
C'è poi in mostra, ovviamente, il manoscritto originale di Dempser tuttora conservato a Holkham Hall, e ci sono oggetti che aiutano a ricostruire il clima culturale in cui prese forma la grande opera a stampa: le edizioni miniate di Tito Livio che Coke acquistò in Francia, i disegni ispirati all'antico che fece fare nei suoi viaggi, le molte riproduzioni di capolavori antichi, i dipinti che acquistò o commissionò, compresa una replica della Visione di Enea nei Campi Elisi di Sebastiano Conca, dove il nostro conte è ritratto nei panni di Orfeo o di Virgilio. Ci sono poi le opere etrusche che il Buonarroti aveva in casa, e quelle delle collezioni medicee che tutti gli eruditi di allora frequentavano. C'è insomma, tra dipinti e documenti, tutta la cronaca di un dialogo con l'antico che a poco a poco si affrancò dall'immedesimazione per diventare analisi rigorosa e distaccata. E c'è infine il racconto della fortuna del De Etruria Regali, soprattutto in Inghilterra dove suscitò un fascino senza eguali per gli etruschi e la loro terra. E dopo che, nel 1837-38 i fratelli Campanari misero in mostra a Londra le tombe etrusche, quel fascino divenne vera e propria etruscomania e diede vita a tutte le collezioni etrusche inglesi, prima fra tutte quella del British Museum dove col tempo confluirono anche molte raccolte private. Il museo ha eccezionalmente prestato a Cortona quaranta sue meraviglie etrusche, senza scordare né il famosissimo Offerente, bronzo del V secolo a.C. lavorato con sapienza sopraffina, mentre riecheggia fogge greche o addirittura orientali, né Musica per l'aldilà, cippo funerario da Chiusi in pietra fetida con musici che suonano mentre uomini e donne accennano a eleganti passi di danza. Sono veri capolavori, luce e splendore per gli occhi. La mostra di Cortona racconta, ma anche stupisce.

Seduzione etrusca, Cortona, Palazzo Casali, fino al 31 luglio. Catalogo Skira. Info: www.cortonamaec.org

Il Sole 6.4.14
Archeologia, missione italiana
Le iscrizioni di Nina in Iraq
di Paolo Matthiae

E' una storia, bella, dell'Italia dei nostri giorni. Due giovani e assai brillanti archeologi della scuola di archeologia orientale della Sapienza, Davide Nadali e Andrea Polcaro, per la stessa Sapienza Università di Roma e per l'Università di Perugia, dove svolgono la loro attività scientifica come ricercatori, hanno ottenuto dalle Autorità archeologiche dell'Iraq la concessione di scavo di uno dei più importanti siti del paese di Sumer nell'Iraq meridionale, l'antica Nina, dove lavorò per alcune settimane nel lontano 1887 solo Robert Koldewey, che sarebbe poi divenuto famoso per lo scavo di Babilonia, e vi hanno appena condotto una pur assai breve ricognizione in vista di una prossima prima campagna regolare di scavi. Impegnati per una decina di anni, fin da giovanissimi, nell'archeologia da campo sul celebre cantiere di Ebla in Siria, dopo aver conseguito il dottorato con eccellenti dissertazioni, ambedue pubblicate, su problemi della cultura figurativa d'Assiria e dei costumi funerari del Levante meridionale, i due ricercatori della Sapienza e di Perugia, pur tra difficoltà non lievi, hanno diversificato i loro interessi, partecipando a congressi e seminari internazionali e ripetutamente compiendo soggiorni di ricerca all'estero in prestigiose sedi universitarie d'Europa e d'America, senza divenire "cervelli" in fuga, ma impegnandosi tenacemente in Italia e vincendo un Firb nazionale su metodi tecnologicamente innovativi applicati all'archeologia. Ora si apprestano a intraprendere uno scavo in una delle più storicamente affascinanti e problematiche regioni dell'Oriente antico e su un centro intatto di quella che è la più antica cultura urbana dell'umanità.
Quando il francese Ernest de Sarzec, nel 1870, intraprese il primo scavo regolare nella Babilonia non poteva immaginare che in dodici epiche campagne di scavo avrebbe riportato alla luce a Telloh statue votive e documenti cuneiformi di una cultura antichissima della Mesopotamia di cui si era perso ogni ricordo e che anche i redattori biblici dei secoli centrali del I millennio a.C. avevano dimenticato. La allora recente decifrazione della scrittura cuneiforme permise di identificare nel principe che aveva dedicato un'ampia serie di statue trovate a Telloh Gudea, signore di Lagash, vissuto nel XXII secolo a.C., ma non permise di comprendere il contenuto delle migliaia di tavolette, perché la lingua di quelle tavolette era il sumerico, la più antica lingua dell'umanità documentata dalla scrittura, che era ancora sconosciuta. Proprio i ritrovamenti degli scavi francesi di Telloh rivelarono al mondo per la prima volta la civiltà dei Sumeri e oggi un'intera grande sala del Louvre, dedicata a Gudea di Lagash, ospita i reperti maggiori di quella memorabile e pionieristica esplorazione.
Telloh, per il ritrovamento delle numerose statue di Gudea che di Lagash si proclamava sovrano, fu subito identificata con l'antica Lagash e solo dopo alcuni decenni di faticosi e lenti progressi della Sumerologia si poté correggere questa falsa identificazione, quando i numerosissimi testi amministrativi di Telloh poterono essere adeguatamente indagati. Allora si comprese che Telloh non era l'antica Lagash bensì l'antica Girsu, che l'antica Lagash era invece il non molto distante sito moderno di Hiba e che una terza città importante localizzata un poco più a sud, Nina, forse sul luogo della moderna Surghul, completava il sistema urbano del regno di Lagash, che comprendeva appunto Girsu, Lagash e Nina.
Oggi, dopo quasi un secolo e mezzo dall'avventura di de Sarzec nelle desolate piane della Mesopotamia meridionale, la letteratura sumerica conta decine e decine di testi tanto complessi quanto affascinanti che oggi si leggono quasi senza difficoltà, l'archeologia mesopotamica ha fatto progressi enormi e centri sumerici come Girsu, Ur, Uruk, Shuruppak, sono entrati nella storia e nella leggenda, Hiba, la vera Lagash, è stata oggetto di importanti scavi americani che hanno riportato alla luce un suo grande santuario citato da Gudea, il territorio del paese di Sumer nei terribili anni appena trascorsi è stato saccheggiato ignobilmente da bande organizzate di cacciatori di tesori che hanno fatto affluire a decine di migliaia tavolette cuneiformi sui mercati antiquari dell'Occidente.
Nina, dove i giovani archeologi italiani cominceranno le loro ricerche nei prossimi mesi con la piena collaborazione delle autorità irachene di Nassiriya che serbano grato ricordo dell'impegno del nostro nucleo speciale dei Carabinieri proprio a salvaguardia del patrimonio culturale della Babilonia, è una collina di rovine assai estesa, di circa sessanta ettari di superficie, rimasta miracolosamente indenne dalle selvagge scorribande degli scavatori clandestini degli ultimi anni. La città, che era il porto del regno di Lagash sulle rive del Golfo, aveva un celebre santuario, chiamato Sirara, citato in una delle famose statue di Gudea, che era dedicato alla grande dea Nanshe e che rimase un importante luogo di culto fino ai primi secoli del II millennio a.C., quando la città era già in piena decadenza.
Fin dalla prima breve esplorazione del sito la missione inizia sotto i migliori auspici. Sul terreno sono apparsi già resti di mattoni stampigliati con il nome di Gudea e del santuario Sirara, confermando senza ombra di dubbio che Surghul è l'antica Nina. Due emergenze topografiche chiarissime è probabile che siano due monumentali centri cultuali della città, il maggiore dei quali è probabile che sia il luogo del Sirara, che aveva probabilmente una torre templare, di cui sul terreno si scorgono chiaramente le tracce di una lunga rampa, come nelle più monumentali ziqqurat del mondo sumerico. Solo gli scavi potranno chiarire che cosa celi la seconda emergenza.
Oggi questo è solo l'inizio di una nuova storia dell'archeologia italiana in Oriente, dove giovani di grande talento affrontano una sfida di ricerca ricca di promesse. Perché queste promesse possano realizzarsi, la "virtù" dei ricercatori dovrà essere sostenuta, come diceva il grande Segretario fiorentino del nostro Rinascimento, dalla "fortuna", determinata non solo dagli eventi, ma anche dalla volontà delle Istituzioni italiane preposte ai finanziamenti dell'agonizzante archeologia italiana all'estero.

Il Sole Domenica 6.4.14
Storia dell'arte in guerra
La sorte dei beni artistici durante i conflitti raccontata in sintesi da Sergio Romano
Un'epopea cominciata con Napoleone e culminata con la Seconda guerra mondiale
di Marco Carminati

Immaginiamo che uno spettatore un po' deluso dal film Monuments Men esca però dal cinema tutto infervorato dall'argomento e corra in libreria per approfondire il tema dell'arte messa in pericolo dalle guerre. Oltre al libro bellissimo di Robert M. Edsel Monuments Men (Sperling & Kupfer), da cui il film di Georges Clooney è tratto, sugli scaffali potrà trovare fresche di stampa due biografie di Rodolfo Siviero (di Francesca Bottari per Castelvecchi e di Luca Scarlini per Skira), assieme alle peripezie del tesoro di Montecassino brillantemente raccontate da Benedetta Gentile e Francesco Bianchini (Le Lettere), e forse trovare ancora disponibile l'avvincente Salvate Venere di Ilaria Dagnini Brey (Mondadori). In arrivo sugli scaffali sono, inoltre, libri come Operazione Salvataggio. Gli eroi sconosciuti che hanno salvato le opere d'arte dalle guerre di Salvatore Giannella (Chiarelettere, in libreria il 30 aprile) e il secondo volume dei Monuments Men. Missione Italia di Robert M. Edsel (Sperling & Kupfer in libreria il 27 maggio).
Sembra molto ma è ancora poco. Sul vasto argomento dell'arte messa in pericolo dalle guerre sono stati scritti libri memorabili, oggi di difficile reperibilità, come ad esempio I furti d'arte di Paul Wescher (Einaudi), dedicato alle spoliazioni napoleoniche, oppure The Rape of Europa di I.H. Nicolas, sulle razzie del Terzo Reich, o ancora Lost Treasure in Europe di H. La Farge, sulla situazione dell'arte alla fine del conflitto. A tutto ciò andrebbero aggiunti i diari di Rose Valland, Palma Bucarelli, Rodolfo Siviero e Pasquale Rotondi, editi tra il 1960 e il 2000.
Siamo scesi nel dettaglio. Ma chi volesse farsi velocemente un'idea generale sul tema, che cosa dovrebbe leggere? La risposta è facile: il piccolo, delizioso libretto appena pubblicato da Sergio Romano per la collana «Sms» di Skira con un titolo che va diretto al tema: L'arte in guerra.
Redatto con chiarezza e sintesi esemplari, quest'aureo libretto definisce subito il campo d'azione cronologico (dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni) mettendo a fuoco momenti e temi di particolare rilevanza, come l'Età napoleonica, il Risorgimento italiano, i saccheggi coloniali, la politica artistica di Hitler, la Guerra civile spagnola, la Prima e soprattutto la Seconda guerra mondiale, le restituzioni alla fine del conflitto.
Dovendo lavorare di sintesi, il libro definisce subito anche i "moventi" che hanno scatenato la caccia alle opere d'arte durante le guerre. Sono sostanzialmente due, in forte contrapposizione: primo, la conquista dell'arte (amata e adorata) quale simbolo del potere e del prestigio di chi la detiene e dunque premio per la vittoria; secondo, la rapina e distruzione dell'arte in quanto simbolo (odiato e disprezzato) dell'esecrando nemico.
L'arte in guerra è stata sempre una duplice vittima, di chi l'ha distrutta durante i conflitti e di chi, approfittando della vittoria, se ne è impossessata come simbolo del trionfo. E questo da sempre, come sottolinea Sergio Romano citando casi antichi ed emblematici quali la sottrazione della Menorah dopo la conquista di Gerusalemme o il furto dei cavalli di San Marco dopo il saccheggio di Costantinopoli.
A questo punto si entra nell'alveo della storia. Durante la prima fase della Rivoluzione francese, le opere d'arte corsero pericoli gravissimi perché, caricate di forti valenze ideologiche, vennero sommariamente considerate simboli dell'odiato Antico Regime e pertanto brutalmente assaltate e distrutte (il volume racconta il caso tristissimo delle statue delle facciata di Notre-Dame a Parigi). Per fortuna, qualche anno più tardi, i rivoluzionari cambiarono radicalmente rotta ideologica: l'arte – seppur creata durante le odiate monarchie – doveva essere ora salvaguardata ed esposta in pubblici musei, a servizio dell'educazione del popolo e quale simbolo della conquistata libertà.
Napoleone si mosse in quest'ottica attivando il più grande trasloco di opere d'arte della storia. A seguito delle campagne militari, il generale convogliò su Parigi i tesori artistici delle nazioni "liberate" dalle antiche tirannie. Com'è risaputo, l'Italia e i suoi staterelli diedero un contributo enorme alla "bella idea", che però – tramontata la stella di Napoleone – venne ritenuta del tutto illegittima. Nel 1815 le nazioni europee si organizzarono per avviare la stagione dei "ricuperi", facendo tornare in patria le opere d'arte asportate dai francesi.
Nella seconda meta dell'Ottocento, l'Europa incrementò un tipo di saccheggio artistico finito oggi un po' in ombra, ma che il libro di Romano non dimentica: quello legato alle guerre coloniali. L'Asia e l'Africa sono state letteralmente setacciate dagli europei e il frutto di queste "rapine" si trova oggi tranquillamente esposto nei musei "orientali" e "etnologici" di Parigi, Bruxelles, Roma, Venezia, Lione, Londra eccetera.
Sergio Romano ci ricorda anche un'altra storia poco nota, quella delle rivendicazioni artistiche dell'Italia Unita nei confronti dell'Austria, che – ritirandosi dai nostri territori dopo il 1866 – si era portata via un sacco di opere d'arte importanti come, ad esempio, la Bibbia di Borso d'Este da Modena.
Il libro dedica spazio alle peripezie delle opere d'arte durante la Guerra di Spagna, indaga la fame patologica di prodotti artistici espressa personalmente da Hitler e da Goering, ricostruisce la nascita delle loro folli collezioni, frutto di vendite coatte e di furti a danno degli Stati occupati e delle comunità ebraiche decimate.
Durante l'ecatombe del secondo conflitto mondiale, anche sul fronte dell'arte si poterono distinguere due "eserciti" contrapposti: da un lato i tedeschi, con il loro "Kunstschutz", un corpo creato per "salvare" i capolavori dell'Europa e dell'Italia dalle mani dei "barbari" alleati trasferendoli in Germania e Austria e nascondendoli in tunnel ferroviari e miniere. Dall'altro i "Monuments Men" alleati, che salvarono a loro volta gli stessi capolavori andandoseli a riprendere nei nascondigli tedeschi e restituendoli ai legittimi proprietari. Al contrario dei russi, che ritennero i bottini artistici di guerra sottratti ai nazisti un loro sacrosanto diritto, per cui prelevarono molte opere d'arte dalla Germania e le portarono in Russia, nascondendole alla vista per decenni, come nei celebri casi della Madonna Sistina di Raffaello e del Tesoro di Priamo.
Oggi i pericoli sono finiti? No, dice Sergio Romano: laddove ci sono disordini e guerre (Siria, Irak, Egitto, eccetera) anche l'arte, purtroppo, è sempre in guerra.




La Stampa 6.4.14
Così l’arte di Joan Mirò diventa un libro digitale
Come raccontare la storia dell’arte in digitale? È la sfida della nuova casa editrice emuse che inaugura la collana Impronte - Monografie d’arte digitali al debutto con l’opera Joan Mirò. La poesia della pittura. Per Michele Tavola, critico d’arte e autore dell’ebook, “la sfida è quella di riuscire a vedere il pendolare che la mattina sul treno spende parte del suo tempo per conoscere e imparare ad apprezzare la storia dell’arte”. Un modo per allontanarsi dal critichese oscuro che spesso accompagna le monografie d’arte e avvicinarsi all’emotività della gente, comunicando la forza dirompente che l’arte può avere nella nostra vita quotidiana. È l’opera di un critico che si fa mediatore culturale per tradurre in un linguaggio semplice e autentico la storia dell’arte.
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