La Costituzione merita rispetto
di Massimo Mucchetti
Matteo Renzi parlerà martedì 29 aprile ai senatori del Pd impegnati nella riforma della Costituzione in due dei suoi punti cruciali: le istituzioni parlamentari e il rapporto tra Stato e Regioni.
Segretario del partito e capo del governo (una concentrazione di potere che, sia detto sorridendo, ricorda momenti della storia sovietica), Renzi deve risolvere un problema, principalmente: come costruire l’unità del gruppo parlamentare; se provarci con l’imposizione della disciplina di partito, senza curarsi dell’articolo 67 della Costituzione che libera dal vincolo di mandato gli eletti in Parlamento, o se farlo con una mediazione vera, e cioè con una sintesi alta dei diversi contributi e delle diverse sensibilità. I giornali possono, per comodità, polarizzare queste sensibilità nel ddl del governo e in quello di Vannino Chiti e di altri senatori, tra i quali chi scrive, ma in realtà nel Pd e nel centro-sinistra le sensibilità sono ben più complesse e articolate. E per fortuna.
Finora, va detto subito, si sono ascoltati soltanto appelli alla disciplina, accompagnati da esibizioni muscolari (i firmatari del ddl Chiti non contano nulla, il patto del Nazareno trionferà) e da tristi tentativi di diffamazione (vogliono difendere il cadreghino e l’indennità). Questi tentativi di diffamazione meriterebbero solo il confronto delle biografie tra accusatori e accusati, ma per togliere qualsiasi dubbio si sappia che, all’esito della riforma elettorale, sarà bene andare subito al voto: Camera e Senato attuali sarebbero entrambi delegittimati dai nuovi assetti. Personalmente, ho sostenuto questo punto nell’assemblea del gruppo Pd al Senato. Attendo impegni precisi in proposito. Magari già martedì. E tuttavia la verità più generale è che, in Commissione Affari Costituzionali, le riserve sul ddl del governo sono state numerose e diffuse in tutti i gruppi. Forza Italia sta dibattendo al suo interno com’era prevedibile che accadesse. Scelta civica pure. Non parliamo del Ncd e della Lega. Il Movimento 5 Stelle, che il ddl del governo espellerebbe dal nuovo Senato, ha già detto come la pensa e così chi quel movimento ha lasciato, e pure Sel. È giusto evitare gli errori del passato quando si fecero riforme costituzionali a colpi di maggioranza, ma siamo sicuri che l’accordo a due, tra Renzi e Berlusconi, sia meglio sempre e comunque di un’intesa più vasta e partecipata e che dunque, per poter essere raggiunta, presuppone il superamento dell’egolatria dei paletti.
Non avrebbe senso, almeno adesso, proiettare meccanicamente il dibattito in corso nelle sedi proprie (ora la Commissione, più avanti l’Aula) in quello che potrebbe essere l’esito di votazioni sul ddl governativo nel caso questo restasse immutato, conficcato come una «canadese» per due nei quattro mitici paletti. Ma ancor meno senso ha oggi ridurre le posizioni altrui (non le nostre, per carità: noi del Pd siamo sempre vergini..., e ce lo diciamo da soli) a mere posizioni elettoralistiche per poi chiedere a chi dentro il Pd ha un’idea diversa di piegare la testa senza una discussione reale, di merito. Per di più di fronte al patto orale del Nazareno che comincia a essere raccontato in modo diverso dai due contraenti. Di fronte a certe uscite, a Groucho Marx verrebbero pensieri sui quali direbbe di non essere d’accordo. Gli verrebbe in mente il Sant’Uffizio che pretendeva l’abiura da Galilei non perché il cardinal Bellarmino avesse dimostrata con metodo sperimentale l’inconsistenza scientifica delle teorie dello scienziato, ma semplicemente perché il santo custode dell’ortodossia giudicava quelle teorie diverse dal Verbo.
Ecco, la riforma della Costituzione non può ammettere un Verbo perché interpella la coscienza di ogni singolo parlamentare. Mi preoccuperei se oggi il Pd scoprisse di avere bisogno di un Verbo. Tanto più se il partito va sempre più acquisendo un profilo carismatico, incentrato su una leadership costruita a mezzo delle primarie aperte a tutti. Come ognuno può constatare, queste primarie costituiscono una modalità di decisione plebiscitaria alla quale partecipano, senza il controllo di terzi soggetti di rilievo istituzionale, due o tre milioni di persone, più o meno il 5% del corpo elettorale. Possono andare bene in quello speciale club che è un partito politico. Mase poi il vincitore delle primarie prende tutto, allora abbiamo un problema. Far cadere dall’alto la linea su un partito dalla dialettica impoverita dai vantaggi della fedeltà al capo (o dell’opposizione di Sua Maestà) e, tramite questo partito, normalizzare i gruppi parlamentari riducendoli a sostenitori acritici del governo del segretario, questo schema top down minaccia di ridurre il tasso di democrazia. E di ridurlo in tanto in quanto diventa maggioritaria la legge elettorale, con candidati decisi in generale dal capo, e le istituzioni rappresentative passano dall’attuale bicameralismo perfetto - paralizzante e dunque non più sostenibile - al monocameralismo di fatto - efficiente nel sostenere l’azione di governo, ma incapace di correggerne gli errori fino a quando un disastro non faccia saltare il banco.
Per questo mi auguro che martedì si arrivi a una sintesi che, nel nuovo contesto maggioritario, superi il bicameralismo perfetto, ma ugualmente doti il sistema di una seconda camera, non di una camera secondaria, per dirla con Michele Ainis. Euna seconda camera è tale se può esercitare una funzione di garanzia, grazie a una saggia specializzazione e all’autorevolezza che deriva dal voto popolare diretto, magari non per tutti i suoi membri, ma certo per la grande maggioranza.
P.S. Ho notato che il sottosegretario Scalfarotto, nella sua intervista dell’altro ieri a l’Unità non ha potuto negare che il ddl Chiti farebbe risparmiare allo Stato molto di più di quello del governo. È già qualcosa.
il Fatto 27.4.14
Conversioni. Vertice al Quirinale sulle riforme, Re Giorgio torna al centro della scena
Renzi nella palude chiede aiuto al Colle
di Mao Palombi
Il premier incontra il capo dello Stato per una lezione di politica di un’o ra : di voto a ottobre non si deve nemmeno parlare e sul nuovo Senato niente azioni di forza, ma mediazione con la minoranza Pd. Intanto molte promesse restano solo parole: l’Italicum, ad esempio, è morto. Il voto anticipato a ottobre non va usato nemmeno come “minaccia tattica”. Di più: nemmeno per scherzo. Quanto al metodo, questo non è il momento per forzare la mano e velocizzare le cose, ma quello per trattare, mediare, sopire i conflitti e procedere solo quando si è sicuri del risultato. Questo, in sostanza, il sermoncino tenuto ieri da Giorgio Napolitano a Matteo Renzi, durante l’incontro (un’ora in tutto) chiesto dal premier al capo dello Stato. Volendo riassumere in una formula, si potrebbe dire che TurboRenzi va in soffitta, il volante torna in mano a Re Giorgio II, garante della legislatura costituente che vuole sia la sua eredità per il Paese: le riforme vanno fatte e basta, la strada la indica il Colle ed è quella di compattare soprattutto il Pd e la maggioranza che sostiene il governo. Forza Italia farà quello che crede e che può
IN POCHI GIORNI il presidente della Repubblica torna al centro della scena politica: prima la convocazione del ministro Pier Carlo Padoan per “chiarimenti ” sul decreto Irpef (ieri ha però spiegato ad uno scontento Renzi che era solo un incontro di routine), seguita da quella di Anna Finocchiaro, che gestirà le riforme costituzionali in Senato, ieri la lezione di politica al presidente del Consiglio. Renzi, va detto, ha capito il cambiamento di fase e fatto trapelare – in una giornata costellata di incontri internazionali – dichiarazioni perfettamente in linea con quelle dettate dal capo dello Stato: “Siamo a un passo dal chiudere positivamente la partita delle riforme – sostiene l’ex sindaco di Firenze –. L’orizzonte di questo governo resta il 2018: abbiamo davvero troppo da fare, troppo da cambiare per lasciarci distrarre da chi vorrebbe che non cambiasse mai nulla in questo paese”.
Il compito del premier, a questo punto, è compattare il suo partito, che – com’è noto – sulla riforma del Senato è spaccato: bene la fine del bicameralismo perfetto, bene pure che Palazzo Madama non voti il bilancio e la fiducia, ma sul meccanismo di elezione dei senatori c’è parecchia maretta. “Non è vero, le distanze non sono così marcate”, sostengono però fonti vicine a Palazzo Chigi: la minoranza Pd – bersaniani, dalemiani, lettiani e quant’altro – non è contraria ad un Senato non eletto, “tanto è vero che proprio Bersani ha invitato Vannino Chiti a ritirare il suo disegno di legge” (che prevede appunto l’elezione diretta). Tradotto: i ribelli veri sono quattro gatti, forse anche meno, con gli altri un accordo si trova.
LA TRATTATIVA, insomma, è aperta solo su alcuni aspetti secondari: il rapporto proporzionale tra il numero dei senatori e la popolazione della Regione e i 21 membri che il ddl Boschi lascia nominare al presidente della Repubblica. I numeri, secondo Palazzo Chigi, in commissione ci sono: la certezza la si avrà martedì, quando Renzi si presenterà alla riunione del gruppo Pd di Palazzo Madama per ottenere un accordo sui tempi di approvazione e qualche modifica. Questo percorso, però, rischia di uccidere la doppia maggioranza su cui si fonda il famigerato patto del Nazareno, ammesso che esista ancora: “Non è detto – replicano dal governo –. Abbiamo almeno tutta la prossima settimana per tenere Forza Italia dentro la partita”. Lo stesso presidente del Consiglio ieri ha ribadito che le uscite berlusconiane di questi giorni sono solo “fibrillazioni da campagna elettorale”. Può essere abbia ragione, ma queste fibrillazioni gli costeranno– se non altro – almeno un ritardo sulla tabella di marcia propagandistica che il nostro s’era prefissato: niente approvazione delle riforme in prima lettura entro il 25 maggio, giorno fatidico delle Europee. Renzi dovrà accontentarsi di un più modesto via libera della commissione Affari costituzionali, sempre che riesca a mettere tutti d’accordo.
C’È UN PROBLEMA dimenticato in questo schema: l’Italicum. La legge elettorale disegnata da Renzi e Verdini e formalizzata nell’incontro tra l’attuale presidente del Consiglio e l’ex Cavaliere nella sede del Pd è morta. La minoranza democratica, così com’è, non la vota neanche morta, Forza Italia nemmeno: “Non rifacciamo certo l’errore della legge Severino”, è la battuta arrivata a Palazzo Chigi. La legge, s’intende, che sancì la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore a novembre e la conseguente uscita dei suoi accoliti dalla maggioranza di Enrico Letta. Il motivo è ovvio: pensata per eternare il conflitto tra i due partitoni – Pd e Forza Italia, appunto – ora si ritrova precocemente invecchiata per il rapido deteriorarsi del consenso di Berlusconi. Per ora, Renzi non se ne preoccupa: il problema si porrà comunque dopo le elezioni europee, in una nuova era della vita politica italiana.
Repubblica 27.4.14
Il capo dello Stato irritato dai renziani che minacciano il voto anticipato per reazione alla frenata di Berlusconi. La replica: voglio arrivare al 2018
Napolitano a Renzi “Intesa con tutto il Pd o sul Senato rischi” Il premier: ce la farò
di Francesco Bei e Umberto Rosso
QUIRINALE. Matteo Renzi, all’uscita del Quirinale, elude a piedi i giornalisti e si concede alle foto dei turisti in visita a Roma
“CHE succede, Matteo? ” . Giorgio Napolitano, faccia a faccia per quasi un’ora e mezzo col presidente del Consiglio, convocato a mezzogiorno al Colle, è allarmato per il cammino delle riforme. Non è tanto Berlusconi a impensierire il capo dello
Stato.
GLI stop and go del leader di Forza Italia - Senato elettivo sì, poi no - vengono monitorati dal Quirinale ma al momento tutto è derubricato come la solita altalena di un Berlusconi in cerca di visibilità. Il problema più serio è lo scontro dentro al Pd sul disegno di legge Chiti, quello che prevede il Senato elettivo, e l’improvvisa fiammata dei pasdaran renziani, da Serracchiani a Giachetti, che minacciano elezioni anticipate in risposta alla melina di Forza Italia. «Le riforme vanno tenute fuori dalla mischia elettorale delle europee - è l’avviso del capo dello Stato - i partiti non devono usarle come strumento di ricatto reciproco».
Napolitano è determinato a chiudere la partita della legge elettorale e della riforma del Senato - a cui ha legato la suastessa permanenza al Colle con l’orizzonte fissato a fine 2014 - e a Renzi spiega perciò che se si torna alle «spallate», l’operazione rischia di incartarsi ben oltre la «scadenza» (ormai non più a portata di mano) del 25 maggio. Da qui il richiamo a tentare un’opera di mediazione, all’interno del Pd, in primo luogo. «Caro presidente, mi trova tranquillissimo sull’esito di questa partita », è la rassicurante risposta del premier. Le voci di elezioni anticipate, che tanto infastidiscono il Quirinale? «Io voglio andare avanti fino alla fine della legislatura, orizzonte 2018. Certo, anch’io registro come nel Pd si stia facendo strada la tentazione di andare subito al voto se continua la melina di Berlusconi. Non è la mia posizione, ovviamente. Abbiamo troppo da fare per lasciarsi distrarre da chi non vorrebbe cambiare niente in questo paese».
E tuttavia, nonostante le rassicurazioni di Renzi, il capo dello Stato non trova inutile ricordare al giovane segretario del Pd alcune condizioni imprescindibili. La prima riguarda proprio quella minaccia di elezioni anticipate che i renziani usano come arma di pressione. Andare al voto con due leggi elettorali diverse per Camera e Senato esporrebbe infatti il paese a un sicuro periodo di caos. Il secondo avviso di Napolitano riflette invece la condizione precaria della maggioranza a Palazzo Madama. Se Renzi tentasse una forzatura, provando a far approvare l’Italicum anche per il Pa-lazzo Madama, non è detto che avrebbe i numeri per farlo, vista la contrarietà di mezzo Pd. Ma la vera obiezione di Napolitano, quella che lo spinge a insistere per una soluzione di compromesso sulla riforma costituzionale, riguarda il ddl Chiti: oltre alla minoranza del Pd può raccogliere i voti dei 5Stelle, di mezza Forza Italia e dell’Ncd. Travolgendo il disegno di legge Boschi. Sarebbe una bomba per il governo Renzi.
Ma il premier ha un piano per evitare il fallimento. Perché, come ha spiegato ai suoi, «io mi gioco tutto e non posso fermarmi proprio adesso che siamo a un passo da un risultato storico». Un progetto in tre mosse per disinnescare la fronda più dura, con un’apertura invece ai Pd dialoganti. L’idea del presidente del Consiglio è di presentarsi martedì davanti ai senatori del suo partito e chiedere una piena e rinnovata fiducia sul suo progetto. Avvertendo che, a questo punto, non esistono alternative. Anzi, di fronte a una palude, il rischio è quelle tentazioni di elezioni anticipate diventino una valanga. E siccome - è la convinzione di Renzi - tanto Berlusconi quanto i malpancisti del Pd le temono, all’assemblea del gruppo conta di incassare un rinnovato mandato pieno dai suoi senatori. Da far approvare poi, ecco la sua seconda tappa, anche in Direzione. In cambio - sarebbe la terza mossa - arriverà un’apertura all’ipotesi messa in campo da Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, relatori del testo sulla riforma: il nuovo Senato resterà sempre su base non elettiva («il patto del Nazareno va preservato», avverte Renzi) ma con consiglieri regionali-senatori chiamati a svolgere un solo e specifico compito a Palazzo Madama. Saranno retribuiti dalle Regioni che li eleggono e “scalati” dal plenum del consiglio regionale. Un compromesso che salverebbe il punto, per il premier «assolutamente irrinunciabile », dell’elezione di secondo grado, salvaguardando l’esigenza di non trasformare Palazzo Madama «in un dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci» (secondo la minoranza dem). Non è un caso dunque che Renzi ieri abbia salutato come «un’apertura» la proposta Calderoli. Per consolarsi rispetto ai colpi che gli sparano dalla “riva gauche” del Pd, ieri sera Renzi ha incontrato il suo omologo francese Manuel Valls, anche lui alle prese con gli attacchi della sinistra del Ps. Entrambi con esperienza da sindaci, stessa generazione e impostazione blairiana, i due si sono specchiati l’uno nell’altro. «Anche se - sorride il premier - io sono più a sinistra di lui».
Il Sole 27.4.14
A Forza Italia convengono ancora Italicum e nuovo Senato
di Roberto D'Alimonte
È tutta una pantomima elettorale. Questa è la spiegazione più plausibile di quanto sta avvenendo in questi giorni su Italicum e riforma del Senato. Le dichiarazioni di Berlusconi hanno fatto scalpore, ma erano prevedibili. Era scontato che una volta accertata la possibilità di poter fare campagna elettorale nonostante l'affidamento ai servizi sociali ne avrebbe approfittato per non lasciare a Renzi la scena. La sostanza è che a Berlusconi non conviene rompere né sulla riforma elettorale né su quella del Senato. Per tanti buoni motivi.
Sulla prima il Cavaliere sa benissimo, e nel caso se lo fosse dimenticato c'è Verdini a ricordarglielo, che l'Italicum conviene anche a lui e non solo a Renzi e al Paese. Con questo sistema elettorale, e in particolare con il sistema di soglie di sbarramento che abilmente Verdini è riuscito a imporre, anche una Forza Italia indebolita resterebbe comunque il polo di aggregazione dello schieramento moderato. Cosa potrebbero fare i vari Alfano, Salvini, Meloni davanti alla prospettiva di dover superare l'8% dei voti alla Camera se decidessero di correre da soli? Con l'Italicum la loro sopravvivenza parlamentare sarebbe nelle mani di Berlusconi. È lui il solo che potrebbe concedere lo sconto sulla soglia dall'8% al 4,5%. A meno che non pensino di allearsi con Renzi. O di mettersi tutti insieme per fare una coalizione che superi la soglia del 12 % prevista appunto per le coalizioni. Tutte ipotesi che fanno sorridere. Non c'è che dire Verdini l'ha pensata bene. E ora Berlusconi butterebbe tutto a mare? Poco credibile.
Ma c'è dell'altro nell'Italicum. C'è un ballottaggio che scatta non al 40 %, al 45 % o al 50%, come avrebbe voluto chi scrive, ma al 37%. Questo per dare al centro-destra la possibilità di poter vincere al primo colpo senza dover ricorrere a un secondo turno rischioso. Ora si parla di un ripensamento del Cavaliere dopo aver visto che i sondaggi per le elezioni europee lo danno al terzo posto. Ma è un timore mal posto. Al ballottaggio vanno partiti singoli e coalizioni. Il M5s è un partito singolo. Forza Italia si presenterà con una coalizione. Difficile che abbia meno voti del M5s. Il problema di Forza Italia non è il sistema elettorale, ma la leadership e la proposta politica.
Un ragionamento simile vale per la riforma del Senato. Berlusconi sa che si tratta di una riforma molto popolare. È realistico che voglia passare tra le fila dei conservatori? Certo, vorrà dire la sua, visto che non tutti i dettagli della proposta del governo sono stati concordati con il patto del Nazareno. La tirerà per le lunghe per non dare a Renzi un trofeo da sventolare in campagna elettorale, ma sui punti essenziali l'accordo c'è. I senatori non saranno eletti a suffragio popolare, non daranno la fiducia e non saranno retribuiti. Su tutto il resto a tempo debito si potrà negoziare.
Sulla composizione, per esempio. L'attuale progetto è incentrato su una doppia parità. Stessi seggi per tutte le regioni. Ugual numero di rappresentanti delle regioni e dei comuni. Dubitiamo, conoscendo il pragmatismo del premier, che si impunterà su questo. Né lo farà sulla questione dei 21 membri della società civile nominati dal Capo dello stato. Anche sulle funzioni del nuovo Senato è possibile qualche modifica. Speriamo però che non siano tali da snaturare uno degli obiettivi principali del progetto che è la drastica semplificazione del processo legislativo.
Resta un dubbio. Se il ragionamento sviluppato fin qui fosse sbagliato? In fondo Berlusconi ci ha abituato a giravolte repentine di cui hanno fatto le spese gli interlocutori che di volta in volta si sono fidati di lui. Non si può escludere che abbia deciso di dar retta a Toti e al teorema dell'«abbraccio mortale» con Renzi. Se così fosse si aprirebbe un diverso scenario. Non uno scenario elettorale però. Non è credibile che si possa votare in autunno contro la volontà di Napolitano e di Alfano. Tra l'altro lo si potrebbe fare solo con l'attuale sistema di voto, quello della Consulta. Ma è molto rischioso. Meglio sarebbe con l'Italicum. Ma senza Berlusconi ci vogliono i voti di Alfano per approvarlo. E Alfano i voti li darà presumibilmente a due condizioni. La prima è che non si vada a votare subito. La seconda è che si cambi l'Italicum del Nazareno. Basterebbero due modifiche per convincere il leader del Ncd: una soglia unica al 4% e il voto di preferenza. Forse basterebbe anche solo la prima. Infatti con una soglia unica al 4% - sia per chi sta dentro che per chi sta fuori dalle coalizioni - Alfano conquisterebbe quella autonomia che le soglie "verdiniane" gli negano. Per Renzi non sarebbe un problema visto che con il ballottaggio un vincitore ci sarebbe comunque. Tra l'altro queste modifiche servirebbero anche a disinnescare l'opposizione della minoranza del Pd.
Tutto sommato questo scenario non sarebbe negativo per Renzi. Sarebbe invece molto negativo per Berlusconi. Per questo siamo propensi a credere alla tesi della pantomima elettorale. In ogni caso basta aspettare il 25 Maggio per sapere come stanno veramente le cose.
Il Sole 27.4.14
Senato delle Autonomie. La mediazione per ricucire con Forza Italia e sinistra Pd, ma restano fermi la non elettività e il taglio dei costi
Il nuovo testo: più peso alle Regioni, più funzioni
di Emilia Patta
Più peso alle Regioni rispetto ai Comuni nel nuovo Senato delle autonomie e più funzioni, anche di controllo, per i neo senatori. Il Ddl presentato dal governo sul superamento del bicameralismo perfetto e la riforma del Titolo V cambia volto per venire incontro alle richieste di molti senatori, del Pd come del Ncd e di Fi, e degli stessi governatori. Tanto che – come anticipato ieri dal Sole 24 Ore – mercoledì la commissione Affari costituzionali del Senato adotterà come testo base non quello del governo ma un testo nuovo già "emendato". Niente muro contro muro insomma, come ha sollecitato ieri anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano nel suo colloquio con il premier Matteo Renzi (si veda la pagina accanto).
Fermo restando che il nuovo Senato non sarà elettivo, che i senatori non riceveranno indennità e che la fiducia al governo sarà accordata dalla sola Camera – punti irrinunciabili per Renzi e condivisi anche dalla minoranza cuperlian-bersaniana del Pd – sul resto il governo tiene dunque le porte aperte. E già questo cambio di passo sul metodo dovrebbe far rientrare la dissidenza del Pd raccoltasi attorno a Vannino Chiti e al suo Ddl o almeno, è la speranza del premier e dei vertici dem del Senato, ridimensionarla politicamente. Va infatti ricordato che tra i firmatari del Ddl Chiti non vi è alcun esponente della minoranza cuperlian-bersaniana raccoltasi ora nell'"area riformista", né alcun lettiano. Si tratta di civatiani come Corradino Mineo e Walter Tocci o personalità certo non renziane ma autonome rispetto alle correnti interne come Felice Casson. Se Renzi riuscirà a tenere dentro la rete i senatori azzurri – e il numero 2 del Pd Lorenzo Guerini continua a ripetere che «l'accordo con Fi tiene, le riforme si fanno» – allora la riforma delle riforme è salva.
Per sapere come sarà cambiato il testo conviene dunque partire dalle parole pronunciate ieri da Berlusconi. L'ex premier non ha messo in discussione il Senato non elettivo, come aveva invece fatto in tv da Vespa giovedì scorso, anzi: «Vogliamo mantenere l'impegno fino in fondo e siamo in linea su un Senato meno costoso, con membri non eletti e che non voti la fiducia – dice Berlusconi elencando i punti del patto del Nazareno –. Ma ridurre il Senato a un dopolavoro dei sindaci in gita turistica a Roma ci pare fuor di ragione». Basta dare un'occhiata al colore delle Giunte nelle grandi città per capire il nervosismo di Fi: su 20 capoluoghi di Regione 17 sono di centrosinistra e 3 di centrodestra, su 104 capoluoghi di provincia 76 sono di centrosinistra e 28 di centrodestra. La composizione sostanzialmente paritaria Regioni-Comuni sarà dunque modificata a favore delle Regioni, fermo restando che il numero complessivo resterà attorno a 150 (148 nel testo del governo). La seconda modifica sulla composizione riguarda l'accoglimento di un'altra richiesta di Fi, condivisa dai governatori: i rappresentanti di ogni Regione saranno in numero proporzionale alla popolazione della Regione stessa e non in numero fisso come previsto dal testo del governo. Lombardia e Sicilia, insomma, peseranno più di Molise e Abruzzo. L'ultima modifica sulla composizione riguarda i tanto discussi 21 senatori nominati dal capo dello Stato: saranno eliminati del tutto oppure il loro numero sarà ridotto (5 o 10) e la nomina avverrà all'interno di rose di nomi preposte da organi culturali e scientifici indipendenti come l'Accademia dei Lincei e l'Istituto italiano di fisica nucleare.
Quanto alle funzioni del nuovo Senato, saranno rafforzate con l'estensione del bicameralismo paritario – nel testo del governo previsto solo per le modifiche costituzionali – anche alle materie relative alla ratifica dei trattati Ue e alla legislazione europea. Si sta inoltre lavorando affinché il nuovo Senato abbia dei poteri di controllo sull'efficacia delle leggi e sulla legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Non proprio un dopolavoro, insomma. Tanto che anche all'interno del Pd non dissidente ci si sta domandando se un Senato siffatto, più "pesante" nelle funzioni, potrà essere composto da sindaci e consiglieri con doppio incarico. In questo senso ha qualche chance di passare la proposta del leghista Roberto Calderoli, la cui apertura è stata apprezzata ieri dallo stesso Renzi: i nuovi senatori sarebbero a tempo pieno ed eletti contestualmente ai Consigli regionali in apposite liste. L'effetto risparmio, suggerisce Calderoli, ci sarebbe lo stesso: prenderebbero l'indennità da consigliere regionale e non sarebbero sostituiti da altri consiglieri.
Repubblica 27.4.14
Roberto Giachetti
“Matteo si guardi dai conservatori dem”
C’è un pezzo di Pd che è contro tutto, e invoca l’obiezione di coscienza su una riforma costituzionale
Nel nostro partito c'è chi ha utilizzato il problema della riforma del Senato per bloccare la nuova legge elettorale
La minoranza Pd, quella che ha preteso di non far valere l’Italicum per il Senato, oggi chiede un Senato elettivo che renderebbe inutilizzabile l’Italicum
intervista di Tommaso Ciriaco
ROMA . Matteo Renzi si guardi le spalle da una minoranza interna che lavora per far saltare le riforme. «Se non puoi contare sulla lealtà del tuo partito sostiene Roberto Giachetti (Pd), vicepresidente della Camera - è un problema. È come combattere a mani nude. In democrazia, in questi casi, non resta che affidarsi al popolo. E dire: «Questa è la mia riforma, ora decidano gli italiani».
Presidente, non è il Cavaliere a remare contro?
«È quasi fisiologico che Berlusconi cerchi di risalire nei sondaggi agitando le acque e utilizzando il terreno delle riforme per non appiattirsi troppo su Renzi».
Lei invita il premier a guardare in casa Pd.
«L’atteggiamento di Berlusconi si salda con una parte - ancorché minoritaria - del Pd. Nel nostro partito c'è chi ha utilizzato il problema della riforma del Senato per bloccare la nuova legge elettorale. Se dopo anni di chiacchiere si saldano vecchi e nuovi conservatori, allora non si può fare altro che tornare a votare».
Ma manca una legge elettorale che offra certezze.
«Se c’è un governo anomalo, è per colpa di chi ha perso le elezioni e oggi sbraita contro Renzi. Diciamola tutta: c’è un pezzo di partito che si mette contro tutto, dal decreto lavoro alle riforme. E domani chissà su cosa lo farà... C’è pure chi invoca l’obiezione di coscienza su una riforma costituzionale: strepitoso...».
Resta un problema: si voterebbe con il Consultellum.
«È probabile che finiremmo per fare un governo di coalizione, ma almeno avremmo gruppi parlamentari leali e una maggioranza che - per quanto riguarda il Pd - sarebbe coesa. E poi rilevo un paradosso: la minoranza Pd, quella che ha preteso di non far valere l’Italicum per il Senato, oggi chiede un Senato elettivo che renderebbe inutilizzabile l’Italicum».
Così rischia di risultare determinante Berlusconi.
«Sull’Italicum, in alcuni casi, è servito perché abbiamo perso voti per strada. Senza, la legge sarebbe stata a rischio. E quando un pezzo del Pd ha remato contro la riforma, FI ha tamponato le nostre falle interne, come quelle di Ncd e Sc. Noi, comunque, non siamo appesi a Berlusconi. Se mantiene i patti, bene. Altrimenti è meglio il voto».
Sulla riforma del Senato è possibile una mediazione?
«Come per l’Italicum, esistono sempre dei margini di miglioramento. Basta non stravolgere i principi».
Perché?
«A parte noi, il Consultellum fa comodo a tutti. Sono quelli che non ci mettono la faccia e fanno ammuina. Da vent’anni ».
il Fatto 27.4.14
Cambia verso? Tra annunci e realtà
TurboMatteo funziona solo quando decide da solo
di Stefano Feltri
Lui parla così tanto, in tv e su Twitter, che diventa difficile seguirlo. I giornali istituzionali annunciano riforme quando ancora non ci sono neppure le bozze e celebrano rivoluzioni ben prima che il Parlamento abbia qualcosa da votare. Il risultato è che diventa sempre più legittimo chiedersi: ma cosa ha fatto davvero finora Matteo Renzi? Ha mantenuto le sue promesse? Il Sole 24 Ore di ieri attirava l’attenzione critica sul piano per le scuole: il premier aveva annunciato 3,5 miliardi, ma il decreto Irpef permette agli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità soltanto 240 milioni di euro. L’intervento, più a beneficio delle imprese di ristrutturazione che degli studenti, avrà quindi una dimensione minima.
NEI “SEMAFORI” della pagina accanto facciamo il punto sulla distanza che separa gli annunci dai risultati. A una prima analisi si può vedere come Renzi sia risultato più efficace sui dossier che gli garantiscono il maggiore ritorno di consenso, e questo è comprensibile visto che manca un mese alle elezioni europee. La promessa di far trovare in busta paga ad alcuni milioni di italiani 80 euro in più a maggio è stata rispettata, anche se con tanti compromessi al ribasso che rendono l’intervento molto diverso da come lo sognava il premier. La pecca maggiore è che la copertura non è strutturale, quindi è ancora molto incerto che il bonus fiscale sia garantito dal 2015 in poi. I tagli alla casta, simbolici (o demagogici) ma molto richiesti, ci sono: dalla vendita delle auto blu su eBay al tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici a 240 mila euro fino a minuzie, ma significative, come la cancellazione delle tariffe postali agevolate per il materiale di propaganda dei partiti.
Anche le nomine nelle società partecipate dal Tesoro sono state gestite in coerenza con le promesse: via tutti i dinosauri, incluso il potentissimo Paolo Scaroni. Anche se non tutti i nomi prescelti per la successione sono all’altezza dei proclami di rottamazione di Renzi, basti guardare Emma Marcegaglia alla presidenza Eni.
I problemi arrivano dove il premier non può decidere da solo ma ha bisogno del consenso o dei voti di altri bizzosi soggetti, da Silvio Berlusconi con Forza Italia all’ala sinistra del Pd in Parlamento. Quando Renzi non può fare tutto da solo, il risultato è quasi zero: la legge elettorale si è impantanata al Senato, il suo destino è legato al superamento del bicameralismo, ma anche la trasformazione del Senato in camera delle autonomie locali è bloccata da un’opposizione sempre più larga.
A PARTE I VARI INTERESSI POLITICI contrapposti, una delle spiegazioni di merito è che nessuno ha ben chiaro cosa dovrà fare il nuovo Senato, visto che prima (o poi) bisognerebbe redistribuire le competenze tra Stato ed enti locali riformando la Costituzione nel titolo quinto.
Anche l’altra riforma ambiziosa del renzismo, quella del mercato del lavoro, per il momento ha prodotto pochino: un decreto legge che aiutava le imprese a ridurre il rischio di cause legali permettendo loro una maggiore flessibilità nel ricorrere al lavoro precario (i disoccupati sono felici alla prospettiva di diventare precari, ma i precari sono piuttosto seccati dalla prospettiva di rimanere in quella condizione più a lungo di prima).
In Parlamento il Pd ha iniziato a svuotarla, reintroducendo parte dei vincoli eliminati dal ministro Giuliano Poletti. Risultato: impalpabile. Quanto alla riforma più complessiva, la legge delega che dovrebbe essere il vero Jobs Act, è un tema da affrontare nei prossimi mesi. Anche della delega fiscale non si è più saputo niente, eppure dovrebbe essere la leva per una vera riforma delle tasse. Morale: se lo statista è quello che guarda alle prossime generazioni e il politico chi pensa alle prossime elezioni, Renzi è un politico efficace. Ma le grandi riforme sono molto più complesse.
Repubblica 27.4.14
Dai ministeri alle Ferrovie 600 poltrone da rinnovare
Pronta un’altra infornata di nomine pubbliche
di Valentina Conte e Roberto Mania
RIPARTE il gran valzer delle nomine. Archiviata la pratica per la delicata scelta dei numeri uno delle aziende quotate in Borsa (Eni, Enel, Finmeccanica) ora si apre il nuovo capitolo che riguarda le 5-600 poltrone di tutte le alte società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro, in tutto poco meno di 50 consigli di amministrazione da rinnovare con i relativi consigli di vigilanza. Il 25 maggio poi scatta la tagliola dello spoils system.
SALTERANNO i capi dipartimento dei ministeri non confermati. Sono le 28 poltrone dell’alto potere burocratico. Sulla carta potrebbero cambiare pure il Ragioniere Generale dello Stato, Daniele Franco e il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via. A maggio se ne andrà per raggiunti limiti di età il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera. E poi c’è il gigante delle Ferrovie dello Stato lasciate da Mauro Moretti per approdare a Finmeccanica, e anche l’Istat che continua ad avere un presidente facente funzioni (Antonio Golini). Ma entro la fine di settembre va nominato anche il nuovo presidente dell’Inps al posto del commissario, Vittorio Conti, arrivato dopo lo “scandalo Mastrapasqua”.
Si riaprono i giochi, dunque, del risiko del potere. Perché dietro le nomine si muovono le nuove e le vecchie cordate, lobby trasversali, intrecci, alleanze, clientele. Questo è il secondo tempo delle nomine nella stagione di Renzi. Il primo è stato segnato da una evidente continuità con timide iniezioni di rinnovamento: il poker delle donne alle presidenze. Adesso si cambia nelle aziende perlopiù non quotate e si entra nei gangli del potere burocratico dei potenti mega-dirigenti ministeriali.
Si parte con Terna, la società, quotata a Piazza Affari, che gestisce la trasmissione dell’energia elettrica. Il premier Renzi ha indicato il presidente (Catia Bastioli) anche se formalmente la scelta spetta all’azionista, in questo caso la Cassa Depositi e prestiti (Cdp) che controlla il 29,8% di Terna. Per martedì è stato convocato il consiglio di amministrazione della Cdp e dovrebbe uscire il nome del successore di Flavio Cattaneo, alla guida di Terna dal 2005. Due i candidati più accreditati: Matteo Del Fante e Gianni Armani. Del Fante, fiorentino, quarantenne apprezzato direttore generale della Cdp, già nel board di Terna. Del Fante è molto sostenuto sia da Franco Bassanini, presidente della Cdp, sia da Luca Lotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, componente del “cerchio magico” renziano. Armani, anch’egli quarantenne con un passato nella McKinsey, è ad di Terna Rete Italia. Sembrano invece perdere quota le chance di Aldo Chiarini, ad di Gdf Suez Italia.
Se Del Fante non dovesse andare a Terna appare il candidato più forte alla Direzione del Tesoro, nel caso il ministro Padoan decidesse di cambiare La Via. Le partite, dunque, si intrecciano. Come sempre nel risiko nel potere.
E come nel caso di Cattaneo in uscita da Terna, il cui nome viene inserito nella rosa dei possibili successori a Moretti alle Ferrovie. Le porte girevoli del potere. L’eventuale scelta interna per le Fs si chiama Mario Elia, ad di Rfi, cioè della rete ferroviaria. Ma gira ancora il nome di Domenico Arcuri, attuale ad di Invitalia, sostenuto dall’area dalemiana. La quale, nella prima ondata di nomine, ha “piazzato” Marta Dassù nel cda di Finmeccanica. Nomina che ha provocato un’interrogazione parlamentare di Sel per chiederne la revoca in quanto in conflitto di interessi, dato che Dassù è stata viceministro degli Esteri nel governo Letta e dovrebbe aspettare un anno prima di assumere un incarico in un ente pubblico o economico. Una situazione simile potrebbe riguardare l’ex ministro Giovannini che si è candidato per un nuovo mandato alla presidenza dell’Istat. Il posto è vacante proprio da quando (il 28 aprile del 2013) Giovannini è stato chiamato al governo da Mario Monti. In 40 professori hanno manifestato l’interesse per assumere la presidenza dell’istituto di statistica, rispondendo alla novità della “call” introdotta da Renzi. Oltre a Giovannini ci sono, tra gli altri: Fiorella Kostoris, Antonio Schizzerotto, Luigi Paganetto, Sandro Trento, Maurizio Vichi.
Complessa pura la scelta del prossimo presidente dell’Inps. L’attuale commissario Conti scade a fine settembre. La riforma della governance dopo il caso Mastrapasqua è sparita dai radar della politica. Resta un nome gettonatissimo per la presidenza: Tiziano Treu, più volte ministro, oggi ascoltato consigliere dei renziani sulle questioni del lavoro.
C’è ben poca rottamazione nello spoils system targato Renzi, quello che riguarda i ministeri. Basta guardare a Palazzo Chigi, dove il valzer delle poltrone in teoria sarebbe già finito. La legge concede 45 giorni di tempo ai nuovi governi in carica per cambiare gli “apicali” del Palazzo. Eppure i decreti di nomina, attesi entro l’11 aprile, ancora non ci sono, almeno non tutti. Ma le caselle, quelle sì, sono state assegnate. E secondo due linee guida. Un tranquillo rimpasto interno per i capi dipartimento e i capi uffici, la prima. Personalità esterne di assoluta fiducia, la seconda, destinate alle poltrone che alla fine contano davvero: il segretario generale e il capo del Dagl, il Dipartimento affari giuridici e legislativi, vera fucina dei provvedimenti, tra decreti, ddl, dpcm.
Posti delicatissimi, spartiti secondo la logica di ferro che consente alla diarchia Renzi-Delrio di governare e controllare. Delrio ha ottenuto la casella del segretario, assicurandosi il fedelissimo Mauro Bonaretti, già con lui al comune di Reggio Emilia e al ministero degli Affari regionali (governo Letta). Mentre Renzi l’ha (quasi) spuntata con la Corte dei Conti su Antonella Manzione, sorella del magistrato “renziano” Domenico, sottosegretario agli Interni con Letta, ora riconfermato. La Corte aveva preteso chiarimenti sui titoli della Manzione per ricoprire la carica. Voleva cioè sapere se l’ex capo dei vigili urbani di Firenze fosse equiparabile a dirigente generale dello Stato, requisito indispensabile secondo la legge, non essendo la signora né alto magistrato né avvocato dello Stato né docente in materie giuridiche. Quel requisito esiste, visto il suo ulteriore ruolo di ex direttore generale del comune fiorentino. Lo stesso ricoperto da Bonaretti a Reggio Emilia. Eppure la Corte dei Conti non ha ancora registrato il decreto.
Ma c’è un’altra casellina di Palazzo Chigi che attira le attenzioni di Renzi. Meno nota ai più, eppure prossimo snodo di un fiume di miliardi di fondi europei, cofinanziati dall’Italia. Si tratta dell’Agenzia per la coesione, istituita nell’agosto 2013, ma ancora ferma. Ebbene Renzi e Delrio vorrebbero dotarla di super poteri, togliendo ai ministeri i programmi di spesa nazionali, e accentrandoli a Palazzo Chigi. In gioco ci sono 20 miliardi. Una super Agenzia che potrebbe avere un super presidente.
Interessante anche l’altra partita dello spoils system, quella che riguarda i ministeri. Qui la longa manus di Renzi dovrà tenere conto degli equilibri di coalizione. Le caselle che, secondo la legge 165 del 2001, devono essere riconfermate o cambiate dal governo entro 90 giorni dal voto di fiducia (dunque entro il 25 maggio), e che ora ballano, sono 28. Si tratta dei segretari generali e dei capi dipartimento dei tredici dicasteri. Difficile una rottamazione generale, ma il dossier è sul tavolo. Come l’altro, assai delicato, sulle Agenzia fiscali. Attilio Befera, già in pensione, ha fatto sapere di non voler essere riconfermato alle Entrate. In pole position c’è il delfino Marco Di Capua, stimato e competente, ex Guardia di Finanza. Come contendente, Giuseppe Peleggi - ora numero uno dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, ma in uscita - appare però senza chance. Stefano Scalera invece dovrebbe essere riconfermato come direttore del Demanio.
Un’altra triade di poltrone che scotta (a decidere alla fine saranno i presidenti di Camera e Senato) è quella dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il super controllore indipendente dei conti pubblici previsto dal Fiscal compact. Ebbene, ricevuti 90 curriculum, le commissioni Bilancio di Montecitorio e Palazzo Madama sono riuscite sin qui a selezionare solo otto dei dieci candidati (servono due terzi dei voti). Tra i due rimasti in ballo è uscito vincitore solo Gianfranco Polillo, ex sottosegretario all’Economia. Mentre Veronica De Romanis, economista e moglie di Lorenzo Bini Smaghi, non convince tutti. L’Ufficio doveva essere operativo a inizio anno e bollinare il Def. E invece ancora fumate nere, tra beghe e veti politici, ambizioni degli economisti candidati, vacanze e ponti degli onorevoli. Anche questo è il risiko delle poltrone.
La Stampa 27.4.14
Otto famiglie italiane su dieci sono in difficoltà economica
Il rapporto Confcommercio-Censis: c’è un leggero miglioramento del clima
di fiducia. Il 66% ritiene che il Governo sia in grado di far superare al paese
la lunga fase di crisi economica
qui
e dopo le elezioni: cavoli nostri!
Repubblica 27.4.14
Al costo dello sconto fiscale si aggiungono 15 miliardi
Monito Bankitalia: i risparmi indicati non bastano
Bonus Irpef, Cig e tagli alla spesa la manovra 2015 vale già 25 miliardi
Manovra d’autunno caccia a 25 miliardi
di Federico Fubini
LA LEGGENDA vuole che il conquistatore Hernan Cortes, sbarcato in Messico, abbia fatto bruciare le navi. Solo così era sicuro che i suoi non avrebbero disertato per tornare indietro. Una versione aggiornata della scelta di Cortes è la manovra di Matteo Renzi in ottobre.
PERCHÉ la correzione dei conti può arrivare fino a 25 miliardi.
L’equivalente delle navi al rogo, l’addio alla via di fuga, sono gli impegni che il premier ha già preso, oltre a quelli che eredita dal governo precedente. Renzi ha promesso di rendere permanenti sgravi fiscali per dieci miliardi l’anno (lo 0,7% del Pil) per i redditi medio-bassi. Poiché il governo propone alla Commissione Ue di rallentare il passo del risanamento del bilancio quest’anno per poi accelerare nel 2015, Renzi resta senza alternative. Si è bruciato le navi alle spalle. Può solo avanzare come Cortes, cioè procedere a tagli di spesa sei volte più ampi di quelli da circa tre miliardi annunciati sul 2014. E’ una cura radicale, se il premier ne avrà la forza politica. L’alternativa sarebbe una deriva dei conti o il tornare indietro sulla promessa dei 10 miliardi che ormai è diventata la sua cifra.
Recita infatti il Documento di economia e finanza (Def) pubblicato questo mese: “Nel 2015 e 2016 il raggiungimento del pareggio di bilancio in termini strutturali richiederà misure aggiuntive per colmare il gap residuo, che il governo ipotizza perverranno unicamente dalla spesa”. Questo significa trovare quasi cinque miliardi per ridurre il deficit, oltre ai dieci per coprire gli sgravi Irpef. Siamo già a 15.
La lista della manovra che aspetta Renzi in autunno però non finisce qua. L’agenzia Reuters ha fatto una stima, andando a vedere gli impegni lasciati dalla precedente Legge di stabilità. E ne emergono interventi per almeno altri dieci miliardi, anche perché l’ultima manovra del governo di Enrico Letta utilizza già i proventi di una parte dei tagli di spesa previsti. È così che il conto della legge di stabilità d’autunno rischia di salire a 25 miliardi.
La legge di stabilità di Letta, ovviamente in vigore, prevede una scansione precisa di eventi. Per esempio, dice che «entro il 31 luglio del 2014» devono essere definiti tagli alla spesa per 500 milioni nel 2014, 1,4 miliardi nel 2015 e 1,9 nel 2016. Non solo. In base alla legge di stabilità in vigore il governo deve definire con un decreto del presidente del Consiglio «da adottare entro il 15 gennaio 2015» (come ricorda Reuters) un’ulteriore correzione dei conti da tre miliardi nel 2015, che sale a sette miliardi nel 2016 e dieci miliardi nel 2017. Così il conto della manovra per l’anno prossimo sale già a 19 miliardi.
Ci sono poi spese difficilmente evitabili, per le emergenze sociali e per gli impegni internazionali dell’Italia. La cassa integrazione in deroga e le missioni all’estero vanno rifinanziate. In più ci sono altri ammortizzatori sociali, i sussidi all’autotrasporto, la manutenzione di strade e ferrovie. Solo per la Cig in deroga, quella per i dipendenti sospesi dalle piccole imprese, serve un altro miliardo nel 2014. E per l’insieme di queste spese incomprimibili il Def stima che, a politiche invariate, si debbano trovare sei miliardi nel 2015 (ai quali ne vanno aggiunti tre nel 2016).
Sale così a 25 miliardi il conto potenziale della correzione dei conti che Renzi deve varare con legge di stabilità prevista per metà ottobre. È circa l’1,7% del Pil. Non sarà facile in un Paese già esausto per aver affrontato manovre da 67 miliardi fra il 2011 e il 2013, con interessi sul debito pubblico che gravano ogni anno per 80 miliardi sui contribuenti. Dev’essere per questo che la Banca d’Italia ha già detto che «nel 2015 i risparmi di spesa indicati non sarebbero sufficienti, da soli, a conseguire gli obiettivi programmatici ». Ma Renzi si è bruciato le navi alle spalle, perché ha fatto la sua promessa sugli sgravi Irpef. Dovrà andare avanti a tagliare o incrociare le dita e sperare di rinegoziare gli impegni con l’Europa, oltre quanto ha già chiesto per il 2014. L’alternativa sarebbe una via di fuga laterale: elezioni in autunno. Ma questa, naturalmente, è tutta un’altra storia.
dopo Bondi, Galan, Bonaiuti, arriva tra le braccia di Renzi-pigliatutto pure la Camorra?
il Fatto 27.4.14
Nick e i suoi: “Se Silvio continua così, noi diventiamo renziani”
L’ex sottosegretario, ora in carcere, per ottenere un incontro con il cavaliere aveva chiamato Verdini
di Vincenzo Iurillo e Valeria Pacelli
Quando Nicola Cosentino aveva deciso di costituire il neo partito Forza Campania, Silvio Berlusconi non ne ha voluto sapere, negandosi per mesi al telefono. L’ex sottosegretario adesso si trova nel carcere di Secondigliano, arrestato lo scorso 3 aprile nell’ambito di un’inchiesta per estorsione aggravata dal metodo mafioso, con l’accusa di aver costretto un imprenditore a chiudere un distributore di benzina a Casal di Principe, concorrente alle aziende di famiglia. Prima dell’arresto però aveva provato a fare pressione sugli ex colleghi, da Daniela Santanchè al senatore Vincenzo D’Anna, passando per Denis Verdini, affinché gli facessero incontrare l’ex premier. A rivelarlo è l’ultima informativa depositata al Riesame nell’ambito del processo in corso a Santa Maria Capua Vetere, dove Cosentino è imputato per corruzione e reimpiego illecito di capitali aggravati dalle finalità mafiose. La Cassazione, ritenendo che Cosentino non fosse un politico ininfluente, aveva annullato la revoca delle misure cautelari decisa dal Riesame e disposto un loro nuovo pronunciamento sulla detenzione in carcere. Nel frattempo, però, sono scattate le manette per le accuse nell’ambito dell’indagine sui carburanti dei Cosentinos’. Agli atti della procura di Santa Maria ci sono diverse telefonate fatte da Cosentino nelle settimane precedenti all’arresto. È il 6 febbraio scorso quando contatta il senatore Vincenzo D’Anna, vice presidente del gruppo parlamentare Gal (Gruppo Autonomie e Libertà). D’Anna, dopo aver salutato il collega, gli passa un tale Gino, ancora da identificare.
Gino: Ma tu per le Europee fai qualcosa, spero... immagino?!
Nicola: Penso di si, vediamo un po’ che dice il ‘Capo in Testa’ lì eh... non mi pare negli ultimi tempi mi voglia troppo bene! O almeno non tanto lui ma... l’entourage! Il problema è che io qua ho Dudù.. hai capito? E quindi (ride) che probabilmente non mi vuole troppo bene.
E Dudù potrebbe essere una metafora per indicare Francesca Pascale, che a detta dell’ex segretario, lo tiene lontano dall’ex premier. Poi il telefono ritorna nelle mani di D’Anna.
D’Anna: dice che De Siano è andato da Berlusconi, che ha detto che per il momento non si tocca niente. E che non si fanno nomine né del vicecoordinatore né dei coordinatori provinciali... perché la situazione non è delle migliori... perchè lui dice che si farà il governo Renzi ed entreremo anche noi... e dura fino al 2018!
Qualche giorno dopo, il 13 febbraio, la procura intercetta una nuova conversazione con il senatore D’Anna.
Nicola: Io ti ho chiamato perchè.. questi insomma.. Il fatto che chiamano la Ruggiero, il fatto che ce ne vogliono scippare uno ad uno (...) significa che non hanno alcuna intenzione di recuperare, se non quella di dire: “Prendetevi Caserta e non ci rompete il ca...”. Bisogna chiedere a Berlusconi un incontro. E a Berlusconi 4, 5 senatori di voi dovete chiamarlo e dirgli: “Noi ti dobbiamo parlare, adesso” (...) Devi dire: “Senti bello! Ma tu a questi. A uno gli hai dato il governo della Regione e noi non contiamo un cazzo! A quest’altro gli hai dato il partito a livello regionale. (...) Ma almeno ci vuoi dare i coordinatori provinciali o no? O ce ne dobbiamo andare da questo partito?” Insomma Cosentino annuncia una battaglia che come dice a Vincenzo D’Anna, si deve fare con l’appoggio dei senatori, “dal momento in cui oggi i senatori valgono 10 volte tanto, rispetto ad un parlamentare”. Il 18 febbraio viene intercettata ancora un’altra conversazione tra i due, e l’ex senatore racconta un episodio. D’Anna: mi ha chiamato il professor Mennini, che sta dentro il collegio di difesa di Berlusconi e mi ha detto “ma che ca... hai ? Il cavaliere ti ha nominato 20 volte. Dice “Ma questo D’Anna com’è che vuole diventare renziano? Io ho detto: digli al Cavaliere che noi non siamo diventati renziani, però se lui ce ne caccia, andiamo dove cazzo vogliamo noi”.
MA AL DI LA’ del ricatto, Cosentino vuole assolutamente incontrare l’ex premier . Così il 28 gennaio scorso contatta Daniela Santanchè. Dopo aver ribadito che “non c’è nessuna scissione” con Forza Italia, l’ex parlamentare si lamenta di essere boicottato e avverte: “Se vanno a dire che Cosentino non c’ha manco più il voto della moglie, che è finito, la gente qua si ribella! Anzi, invece di ringraziarmi, mi si attacca pure con operazioni di piccolo sabotaggio... Questa gente è nata insieme a me, non mi lascerà mai”. La Santanchè gli consiglia di parlare direttamente con Berlusconi: “Bisogna parlare con lui, farlo ragionare, dirgli le cose!”. E Cosentino spiega: “Non me lo passano!”. Così Cosentino si sfoga: “Non vorrei che la Bosnia che si verifica in Campania poi possa essere il preludio a una Bosnia allargata ad altri territori”. Se la Santanchè non riesce, o forse non vuole metterlo in contatto con il Cavaliere, Cosentino ci prova tramite Denis Verdini. Il Fatto ha pubblicato il 18 febbraio scorso le foto di un incontro tra i due a Caffè Ciampini. Ma i colleghi si erano già sentiti al telefono. Agli atti, c’è un messaggio di Cosentino del 30 gennaio: “Caro Denis, sarebbe un bel segnale di disgelo inserire quando e se si farà, l’ufficio di presidenza, il sen. Sarro”. Il 28 marzo, la procura intercetta una telefonata. Verdini rassicura: “Vieni a Roma domani, che alle 3 andiamo dal presidente io e te”. Passano solo sei giorni e Cosentino viene arrestato.
il Fatto 27.4.14
Ma come parli?
Neologismi alla Renzi: “Sforbiciare” fa meno male
di Furio Colombo
Il nostro giovane governante, alle prese con i tagli a qualunque stipendio o bilancio gli capiti a tiro, come il geniale ragazzino Hugo Cabret con i complicati meccanismi di mostruosi orologi nel film di Scorsese, ha avuto una trovata in più. È una parola che rende rapide e gentili le privazioni più gravi a carico dei cittadini, una parola che potrebbe essere il titolo di una poesia di Totò (ricordate La livella?) di una commedia di De Filippo, tipo Ha da passà a nuttata, o di un film di Dino Risi, come Il sorpasso. Renzi è l’autore de “La sforbiciata”, un evento per metà contabile e per metà avventuroso, con un aspetto tranquillizzante (che sarà mai?) e uno ansiogeno (sì, ma quanto mi tolgono?). La parola “sforbiciata” fa in modo che invece di un colpo di maglio improvviso, ti arrivi un annuncio che ti consente di prepararti. E un poco anche di sperare. Non sempre le sforbiciate sono letali, e hai tutto il tempo di presentare le tue ragioni. A nessuno, naturalmente, perché tutto avviene altrove e senza appello, e non puoi certo scrivere al tuo deputato, come fanno i cittadini americani quando si sentono coinvolti in una ingiustizia. Là il deputato, una volta eletto, può dissentire liberamente dal suo partito, il senatore resta senatore (termine del mandato: sei anni) e tutti e due sono liberi di dire no persino al presidente. Qui il giovane Renzi e il suo amministratore Padoan decidono da soli per il nostro bene, danno istruzioni alla Camera e, per accorciare i tempi e semplificare, aboliscono il Senato.
PER TUTTO QUESTO la “password” è “sforbiciata”. Ai media, e soprattutto ai lanci dei telegiornali, la parola è piaciuta moltissimo, viene ripetuta continuamente, perché le sforbiciate piovono e si ripetono.
Però pensate quante cose contiene quella sola parola, sforbiciata: la giovinezza di Renzi, il privilegio di non essere una “manovra”, una certa implicita garanzia di non calcare la mano, un tocco di leggerezza e di rapidità indolore. O forse non proprio indolore, ma certamente egualitaria, senza margini per favorire o lasciare fuori qualcuno in ognuno dei gruppi raggiunti dal vento pieno e giovane delle cose che cambiano. E qui vi chiedono di aggiungere, oltre alla rinuncia provocata dalla sforbiciata, l’esclamazione “finalmente!”.
La parola, ormai, è troppo importante e occorre tentare di darne una definizione, o almeno una descrizione un po’ più precisa. Ecco alcune proposte.
Primo. La sforbiciata implica un di più di cui si può fare a meno. Ma la parola è allo stesso tempo ferma e gentile, una cosa che facciamo tra noi, senza imposizioni, perché è necessaria, ed è un bene per tutti.
Secondo. La sforbiciata è l’audacia di fare qualcosa che interrompe ogni routine e ogni precedente abitudine. Ha dunque in sé un che di nuovo, porta un messaggio di innovazione, che arriva forte e chiaro a chi non è toccato da quella sforbiciata, e fa sentire gli sforbiciati come un gruppo isolato che fa bene a non farsi notare con la protesta.
Terzo. È un modo di ottenere un risultato utile, a volte importante, senza alterare la cosa che subisce la sforbiciata. Dunque non cambia nulla, salvo un sacrificio che ciascun sforbiciato farà bene a subire con dignità e consapevolezza del vantaggio comune. Quarto.
La sforbiciata, specialmente con l’incalzare di un continuo susseguirsi di nuove sforbiciate, è la conferma che niente e nessuno è sacro, e che non ci sono esentati. È molto importante, a questo proposito, che i settori sforbiciati (sconsigliato dire “colpiti”) mostrino accettazione piuttosto che offesa per non aggiungere al sacrificio una cattiva immagine. Nessuno lo dice, ma la sforbiciata è pensata in modo che chi la subisce debba unirsi alla celebrazione e non al cordoglio, perché è l’unico modo di dimostrare che si può contare su di te in caso di bisogno.
Quinto. La sforbiciata è una rassicurazione a chi teme il peggio. Infatti ognuna di queste decisioni “è solo una sforbiciata”. O questo finisce per essere il senso.
LA SFORBICIATA è dunque una notevole trovata di governo, disinvolta, sfacciata, un po’ prepotente con una certa incoscienza da gente giovane. La parola rende relativamente leggera e non troppo allarmante la decisione, mantenendo comunque un che di improvvisato e di temporaneo al taglio che si deve fare, e dunque al sacrificio che ne consegue. La persona di governo che decide non cerca assenso, ma apprezza un consenso a cose fatte, che di solito ottiene con la riserva di definire “difesa del privilegio” qualunque dissenso. Sforbiciata è una parola bonaria che scansa la discussione, evita il confronto (tipo “si poteva fare in un altro modo?”) e consente di governare senza chiacchiere, alla svelta. Dunque “sforbiciata” è la parola che rappresenta di più (e racchiude e descrive meglio) il momento politico che stiamo vivendo.
Repubblica 27.4.14
Guardiamo la fregata sul mare che sfavilla
di Eugenio Scalfari
I VERSI del titolo che avete appena letto fanno parte della poesia “L’incontro de li Sovrani” che è tra i più divertenti componimenti di Trilussa e bene si attaglia ai temi che l’attualità politica ci presenta.
Il decreto che taglia di dieci miliardi il cuneo fiscale e li destina a dieci milioni di italiani lavoratori dipendenti sotto forma di bonus in busta paga nella misura di 80 euro al mese è già stato approvato dal Parlamento e pubblicato dalla “Gazzetta Ufficiale”. Dunque è ormai legge dello Stato. Avrà esecuzione a partire dal primo maggio e gli 80 euro saranno pagati nelle buste paga del 27 di quel mese e così fino al 31 dicembre di quest’anno. Otto mesi, 640 euro in totale, destinati a chi è al lavoro almeno dal primo gennaio del presente anno.
Il beneficio è riservato ai percettori di un reddito superiore a 8mila euro annui fino ad un tetto di 24mila. Poi, da 24 a 26mila gli 80 euro diminuiscono nettamente e dopo quel tetto cessano del tutto.
Se tuttavia l’occupazione del lavoratore ha avuto inizio dopo il primo gennaio del 2014 gli 80 euro per ogni mese di mancato lavoro diminuiscono. La media reale della somma percepita dai lavoratori interessati a quel beneficio non è dunque di 80 ma soltanto di 53, come ha calcolato Gianluigi Pellegrino sulla scorta dei dati esistenti. Il beneficio cioè viene corrisposto per otto mesi purché ne siano stati lavorati dodici. Non si tratta di una truffa ma di una esplicita condizione nascosta da un numero inesatto: non 80 ma 53. La differenza non è poca. Poi ci sono altre provvidenze che riguardano una diminuzione dell’Irap e alcuni interventi per l’occupazione dei giovani.
SEGUONO : il restauro di scuole malandate e il pagamento di cinque miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, grazie al quale, quando sarà il momento, il Tesoro incasserà l’Iva.
Le coperture sono alquanto raffazzonate e alcune di incerta realizzazione nel corso dell’anno. Ne abbiamo già dato conto nei giorni scorsi concludendo che l’intervento è piuttosto uno “spot” che un vero e strutturato programma. Quest’ultimo è allo studio del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dovrebbe esser pronto e varato entro il gennaio del 2015, valido fino a tutto il 2016. Questa è la manovra, questa è la speranza di crescita del Pil derivata da un tangibile aumento dei
consumi. Andrà così?
Noi tutti lo speriamo e ne avremo un primo segnale nel prossimo autunno. Ma se quel segnale non ci fosse e i consumi restassero al palo dove già sono da anni, la manovra di rilancio sarebbe fallita, senza dire che quand’anche i consumi recuperassero quella dinamica che da tempo hanno perduto, nessun nuovo posto di lavoro ne deriverebbe poiché le imprese hanno ampi margini di produzione inutilizzati e disponibili a soddisfare nuova domanda senza bisogno di accrescere l’attuale base occupazionale. La nuova occupazione tarderà dunque a venire, salvo che siano messi in moto nuovi investimenti di carattere pubblico, soprattutto nell’edilizia e soprattutto in cantieri locali e nazionalmente diffusi; ma qui subentra un benestare europeo che è quasi certo ci sia riconosciuto a condizione che siano state avviate nuove riforme destinate ad accrescere la competitività, a semplificare l’amministrazione e a modificare l’architettura costituzionale in senso conforme alla nuova politica economica.
Riforme che riguardano i contratti di lavoro, l’innovazione imprenditoriale, il superamento del bicameralismo perfetto. E quindi la riforma del Senato, che è un punto chiave di tutto il sistema.
Questo è il quadro della nostra politica nei prossimi due anni, già previsto e avviato dal governo di Enrico Letta e dal suo cronoprogramma che aveva come termine la fine del semestre europeo a presidenza italiana alla fine dell’anno in corso. Poi, secondo Letta, elezioni politiche nella primavera 2015.
Il cronoprogramma di Renzi punta invece alla fine naturale della legislatura, nella primavera del 2018, sempre che le imminenti elezioni europee del prossimo 25 maggio non diano risultati tali da modificare gli attuali equilibri politici.
In che modo e con quali prospettive?
* * *
Berlusconi non starà fermo e l’ha già cominciato a dimostrare nella recente uscita alla trasmissione di “Porta a Porta” di tre giorni fa. Poi comincerà (è già in corso) una sua vera e propria occupazione televisiva da campagna elettorale, ad Agorà, a Mediaset, da Santoro, da Mentana, forse anche dalla Gruber e forse a Ballarò, più comizi nei teatri e messaggi ai vari club a lui intestati. Ma qui, prima di esaminare le sue posizioni politiche, una premessa è necessaria.
Non voglio manifestare odio persecutorio nei confronti d’un personaggio che sfiora ormai gli 80 anni e che da vent’anni è il leader d’un partito che ha governato per dodici anni ma ha dominato il panorama italiano anche quando era all’opposizione. Voglio però manifestare un sentimento che spero non sia soltanto mio ed è una grande vergogna che provo per il mio Paese e per me stesso che ne faccio parte. Berlusconi ha alimentato i comportamenti e i sentimenti peggiori di quella parte del popolo italiano disponibile a farsi sedurre dalla demagogia o raccolto in clientele lobbistiche o addirittura para-mafiose. Il suo conflitto d’interessi sarebbe stato condannato in qualsiasi Paese democratico e invece perdura tuttora. I suoi comportamenti privati hanno leso l’obbligo costituzionale di onorare con la propria presenza adeguata le cariche pubbliche di cui si è titolari.
Infine sono stati accertati o sono in corso di accertamento reati gravi, alcuni dei quali sono stati da lui resi leciti con apposite leggi “ad personam”, altri prescritti per la lunghezza imposta ai relativi processi. Alcuni però sono in corso e hanno già dato i primi risultati con pesanti condanne in primo grado ed anche in appello. Altri hanno da poco registrato il rinvio a giudizio. Uno infine ha condotto ad una sentenza definitiva per frode fiscale ai danni dello Stato, con quattro anni di condanna, dei quali tre coperti da indulto, e interdizione di due anni dai pubblici uffici.
Tale sentenza è stata promulgata un anno fa, è stata materializzata in affidamento a servizi sociali ed è stata qualificata da una lunga e dettagliata ordinanza del giudice di sorveglianza della Corte d’Appello di Milano. Nel seguente modo: andrà per quattro ore alla settimana in un ospizio di vecchi e disabili, sarà libero di muoversi in tutti i giorni seguenti entro un tassativo orario dalle 23 della sera alle 6 del mattino nel quale orario dovrà risiedere nella casa dove ha scelto di domiciliare. Potrà andare in televisione, alla radio o in qualunque altro luogo per occuparsi di politica con piena libertà di parola e di contatti con i suoi collaboratori. Gli è stato sequestrato il passaporto affinché non sia tentato di abbandonare il Paese. Questo è il modo con il quale sarà eseguita una sentenza che prevede quattro anni di prigione domiciliare.
Ebbene, io provo vergogno per il mio Paese, per me che ne faccio parte ed anche per una magistratura che consente quanto sopra esposto. Mi piace dire che ne ho parlato qualche sera fa con la signora Severino, avvocato, docente universitaria ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, autrice della legge sulla corruzione. La Severino manifestava i miei stessi sentimenti, cosa che mi ha dato molto conforto pur avendo, la Severino, idee politiche alquanto diverse dalle mie. Le persone perbene la pensano egualmente sui problemi dell’etica pubblica. Purtroppo non sono molte numerose.
* * *
Ed ora veniamo all’attuale posizione di Berlusconi già in piena campagna elettorale. I sondaggi danno il suo partito in sostanziale declino, ma ancora attorno al 20 per cento di chi è disponibile a votare (non più del 60 per cento degli elettori).
Il leader, indiscusso perché privo di successori, di Forza Italia ha una tattica ed una strategia elettorali. La tattica è quella che abbiamo già visto da Vespa: rinnega la riforma del Senato preparata da Renzi, critica le modalità del taglio del cuneo fiscale, si dice perplesso sulle altre riforme e ostenta una posizione euroscettica di fronte all’Europa. Ma subito dopo conferma la sua alleanza con Renzi, critica le toghe rosse e la sinistra e fa i complimenti al leader del Pd che non ha niente a che vedere con la sinistra e insulta Napolitano (tanto per cambiare). Non mancano gli apprezzamenti verso Travaglio e Santoro e qualche strizzata d’occhio agli alfaniani e ai centristi.
Una tattica di galleggiamento che ha l’obiettivo di recuperare gli astenuti che vengono dal suo Pdl, attrarre gli incerti, prendere qualche distacco non tanto da Renzi quanto dal Pd. E riguadagnare voti senza parlare di prossime elezioni politiche.
Ma la strategia è alquanto diversa. Lui sa che se passa la cosiddetta legge elettorale Italicum con tutta probabilità sarà Grillo ad affrontare Renzi al ballottaggio. In realtà la legge elettorale che più gli conviene non è quella che punta esclusivamente sulla governabilità riducendo a carta straccia la rappresentanza e eliminando di fatto il Senato. Questo assetto sembrerebbe preparato apposta per lui se fosse ancora il primo come per vent’anni è stato nella classifica elettorale; ma se sarà come è probabile il terzo la legge che preferisce è la proporzionale e il criterio della rappresentanza come elemento principale. In questo modo il Parlamento sarebbe parcellizzato e non ci sarebbe altra soluzione che di perpetuare le “larghe intese”.
Questa è la strategia, alla quale la legge residuale lasciata dall’abolizione del “Porcellum” offre piena soddisfazione. Perciò si voti presto, non oltre il 2015. E intanto tiene Grillo sotto osservazione. Con Grillo non sarà mai alleato ma oggettivamente i loro populismi convergono, è un caso tipico del marciare separati per colpire uniti. Anche nei confronti dell’Europa. Dell’Europa sia Grillo che Berlusconi se ne fregano.
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Di fronte a questo scenario il centrosinistra, il riformismo radicale del Pd forgiato dall’Ulivo di Prodi e messo a punto da Veltroni col programma del Lingotto, sarebbe la sola risposta seria. Purtroppo non è quella di Renzi. L’attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l’altro è stato Dell’Utri.
Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell’ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell’abbraccio d’un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una “pomata fina” di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d’orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.
Mare Nostrum va avanti
La Stampa 27.4.14
Kyenge: “Così è un progetto a metà
E Renzi ha dimenticato lo ius soli”
L’ex ministro: non basta il soccorso, va snellito l’iter burocratico
intervista di Ma. Bre.
«La questione immigrazione è gestita in modo sbagliato. E non vorrei che Renzi, anziché fare un passo avanti, ora ne facesse uno indietro». La bocciatura all’azione dell’esecutivo sul tema immigrazione arriva da dentro il Pd, dall’ex ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, deputato e ora in cerca di un posto a Strasburgo.
Dice così perché non è stata riconfermata nell’esecutivo?
«Dico così perché a oggi i progetti avviati con il governo Letta sono fermi. Certo, non posso nascondere il dispiacere per la mancata riconferma e soprattutto per la decisione di non istituire un ministero all’Integrazione come invece avevano fatto i due governi precedenti, ma questo è un altro discorso. L’importante è che non si abbassi la guardia su questo problema. Io non l’ho fatto».
Il governo Renzi l’ha abbassata?
«L’operazione Mare Nostrum ha avuto i suoi vantaggi, oggi però mostra molte debolezze».
In che senso?
«È un progetto fermo perché non lo si sviluppa, non lo si fa andare avanti».
Però ogni giorno gli interventi della Marina salvano migliaia di vite.
«Sì, ma a oggi è il nostro intervento è limitato a questo aspetto. Si salva una persona, benissimo. E poi? Che prospettive siamo in grado di offrirle? Nessuna. Non era questo l’obiettivo del nostro progetto».
Cosa si dovrebbe fare?
«Snellire le pratiche burocratiche, accorciare i tempi per il riconoscimento dello status di rifugiati. Dovremmo lavorare con l’Europa perché non bisogna dimenticare che non tutti i migranti vogliono restare qui in Italia, molti vogliono raggiungere gli altri Paesi. Ecco io vorrei andare a Strasburgo anche per lavorare su questi temi, per favorire i flussi. E invece noi lasciamo migliaia di persone parcheggiate qui».
La Lega denuncia lo spreco di soldi e chiede di interrompere Mare Nostrum, il premier ha annunciato che domani il programma sarà rivisto. Se ci fosse uno stop «elettorale»?
«Sarebbe un gravissimo errore. Perché è vero che oggi siamo impantanati, ma ci serve un passo in avanti, non un passo indietro. Altrimenti sprecheremmo tutti i soldi spesi fino ad oggi. Mare Nostrum non va interrotto, ma rafforzato e completato, non lasciato a metà, così come gli altri percorsi che abbiamo iniziato. A partire dalla legge sullo ius soli».
A gennaio Renzi, quando era ancora soltanto segretario del Pd, disse che era una priorità.
«E invece anche questa legge è ferma in Parlamento, bloccata. Altro che priorità».
Perché?
«È quello che vorrei sapere anche io. Anzi, vorrei cogliere questa occasione per fare un appello affinché questa legge venga subito calendarizzata alla Camera. Ho posto il problema in Parlamento da ormai 20 giorni, ma ancora aspetto una risposta. È inaccettabile. Nel frattempo porteremo avanti la nostra protesta in Aula».
Cosa farete?
«Siamo un gruppo bipartisan e all’inizio di ogni seduta leggeremo una lettera di un bambino senza cittadinanza. Ne abbiamo un milione e non ci fermeremo finché questa legge non tornerà a essere una priorità».
il Fatto 27.4.14
Robert Mugabe in poltrona d’onore
Il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, sarà oggi sul sagrato di San Pietro assieme agli altri capi di Stato. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da anni i reati di cui si sarebbe macchiato Mugabe: la persecuzione e la tortura degli avversari politici e delle minoranze. Ansa
il Fatto 27.4.14
Duello tivù
Fo&Buttafuoco: “Sono incantato” “No, regna il vuoto”
Il premio Nobel stima il pontefice in carica Il giornalista lo critica: “è una popstar”
di Manuel Zeno
Ospiti quanto mai in disaccordo ieri sera ad “Otto e mezzo”, il programma condotto da Lilli Gruber che ha visto protagonisti Dario Fo e il giornalista del Foglio e scrittore Pietrangelo Buttafuoco. L’ultimo libro di Fo, “La figlia del Papa”, che racconta vicende legate alla famiglia Borgia, diventa lo spunto per parlare dell’attuale pontefice.
E su questo argomento la stima totale di Fo nei confronti di Papa Francesco si scontra con l’opinione di Buttafuoco. Il drammaturgo confessa di essere “incantato da questo Papa” che ha preso il nome di un santo troppo spesso bistrattato dalla stessa Chiesa: “Si resta incantati davanti alla sua semplicità , ed è proprio questa che lo fa assomigliare a San Francesco”. Buttafuoco ribatte accusando Bergoglio di essere l’emblema della piattezza regnante nella nostra società: “Rappresenta lo spirito del tempo, non crea discussione. Verso di lui c’è un eccesso d’amore simile a quello scaturito dalle popstar”. I due ospiti dicono di stimarsi, si rispettano, ma col sorriso sulle labbra imbastiscono un duello senza esclusione di colpi: per Fo, che si dice non credente ma ammiratore del valore popolare della fede, quella di “Sputafuoco” (lo chiama così una volta, forse per errore) nei confronti di Francesco è una calunnia. Ma il giornalista rincara la dose: “I suoi esiti sono politici, di comunicazione e marketing. È un furbacchione, un personaggio pop, grattandolo non trovo il sacro”.
LA CONDUTTRICE sposta poi il tema del dibattito sulla politica chiedendo a Dario Fo cosa pensi del premier Matteo Renzi: “Porta bene le promesse alla gente, ma è un doppione e sappiamo benissimo di chi”. Dopo il presidente del Consiglio tocca a Beppe Grillo, ma le parole di Fo su di lui sono carezze: “Ha promesso e ha fatto. Aver rifiutato di tenere per sè i denari è un gesto impressionante. Lo voterò, il Movimento cresce a vista d’occhio”. Alla fine i due ospiti, le cui idee sono contrarie su tutto, sembrano trovare un punto in comune suggerito da Buttafuoco: la commedia.
Pannella: «io non sono mai stato contro il Vaticano come espressione religiosa. Operando non come potere (...) Francesco dovrebbe ottenere una onorificenza radicale nel nome di valori privi di ricchezze materiali. Il Papa realizza l’intuizione e l’aspirazione del cardinale Ratzinger»
il Fatto 27.4.14
Il leader dei Radicali Marco Pannella
Il Papa parlerà delle carceri: me l’ha promesso
di Carlo Tecce
E venne la liberazione di Marco Pannella, che ha lasciato l’ospedale Gemelli di Roma e non dovrà fingere imbarazzo – non l’ha mai fatto tanto, in verità – per una boccata di sigaro dove non è permesso. Il radicale di 84 anni (il prossimo maggio), che non ha smesso la protesta non violenta, non beve da giorni (e i medici sono preoccupati) per ottenere un intervento di clemenza contro le carceri disumane e traboccanti, aspetta il messaggio di Papa Francesco. Come promesso. Dopo un colloquio di quasi mezz’ora: “La nostra battaglia è una battaglia comune”.
Pannella, come sta?
Benissimo. E tu?
Ha dieci minuti?
No, cinque. (Ne impiegherà 25).
Adesso i Radicali hanno un alleato in più.
Francesco non lo farà soltanto per aiutare i Radicali, questo è vero, me l’ha detto e gli sono riconoscente. Ma il Papa intende mobilitare con la parola, la predica e la pratica la riforma della giustizia e per sconfiggere la conseguente violenza sociale: la detenzione. (Si attende un’invocazione per l’amnistia, ndr). I precedenti di questa situazione possono essere soltanto ritrovati nei decenni di massimo potere nazista, comunista o fascista che siano. E Francesco non ignora, ne sono certo, un libro di una valenza attuale: Il tradimento dei chierici di Julien Benda, che aveva previsto la barbarie totalitaria.
Il Pannella di aborto, divorzio, fine vita, matrimoni omosessuali riceve una chiamata di un pontefice. Strano?
Sì, però io non sono mai stato contro il Vaticano come espressione religiosa. Operando non come potere, affidando anche il governo della Chiesa a otto cardinali e non più a un Segretario di Stato, questo Papa dimostra il valore della parola e della pratica democratica, cose che per noi Radicali costituiscono una parte del nostro Statuto di un partito transazionale e non violento.
Allora merita la vostra tessera onoraria.
Sì, Francesco dovrebbe ottenere una onorificenza radicale nel nome di
valori privi di ricchezze materiali. Il Papa realizza l’intuizione e l’aspirazione del cardinale Ratzinger che aveva scritto, e aveva riscosso la mia immediata approvazione: la Chiesa e la fede erano stati nella storia, al massimo della loro forza, nel momento in cui i propri averi erano assolutamente inesistenti.
Cosa ha raccontato a Bergoglio?
In termini tecnici, lo Stato italiano, da almeno un trentennio, reitera con costanza criminale il mancato rispetto ai massimi articoli del diritto contemporaneo.
È contro i diritti umani e contro gli Stati di diritto sottomessi a ragioni di partito. Il Consiglio d’Europa ha denunciato questa condizione italiana, che ha creato una gravissima ferita allo Stato di diritto e alla popolazione italiana. Il nostro obiettivo, solitario durante i decenni, oggi è diventato quello del presidente della Repubblica e del pontefice del Vaticano.
Vi incontrerete in Vaticano?
Oggi o domani non credo. Ma ti voglio presentare un mio amico. (“Sono don Vincenzo (Paglia), un amico e sostenitore di Marco”, ex arcivescovo di Terni, ndr). I politici mi dicono ‘che fai, sei pazzo’. Non come il Papa che mi ha esortato: ‘Coraggio, vai avanti’.
La Stampa 27.4.14
Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, interpellato dai giornalisti a margine di una conferenza stampa in vista della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II non ha smentito la telefonata, sottolineando che Pannella “ha manifestato più volte grande stima per Papa Francesco”
dall’articolo di Iacopo Scaramuzzi
La Stampa 27.4.14
Il rabbino: “I loro gesti hanno riavvicinato la Chiesa agli ebrei”
di Maurizio Molinari
«Con i loro gesti questi due Papi hanno cambiato il rapporto fra la Chiesa e gli ebrei». A parlare di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II è il rabbino Vittorio Della Rocca, 80 anni, memoria della Comunità capitolina, per oltre mezzo secolo a fianco del rabbino-capo Elio Toaff. Oggi vive fra Roma e Gerusalemme.
A quali gesti si riferisce?
«Penso anzitutto a quanto fece Giovanni XXIII il 17 marzo 1962, sorprendendoci. Avevamo appena finito la funzione del sabato e stavamo uscendo dalla Sinagoga quando la polizia ci chiese di rimanere immobili. Dopo pochi minuti vedemmo arrivare il corteo di auto di Giovanni XXIII. Passando davanti alla Sinagoga le vetture rallentarono, l’auto papale sollevò il tettuccio e Giovanni XXIII si alzò. Ci guardò e ci benedisse. Ero a fianco di Toaff, che osservò come avevamo assistito alla prima benedizione di un Papa nei confronti del popolo ebraico».
Che impressione vi fece Giovanni XXIII?
«Ricordo quel volto, in maniera nitida. Nella sua espressione c’era un misto di bontà e di sorpresa. Eravamo sorpresi noi a vedere lui e forse lo era anche lui a vedere noi, tutti in piedi, immobili ad osservarlo. Fu un incontro breve, casuale, ma molto intenso. Un piccolo grande gesto che si accompagnò all’epoca alla scelta di togliere l’espressione “perfidi giudei” dalla preghiera del venerdì di Pasqua e alla memoria di quanto aveva fatto Roncalli durante la Seconda Guerra Mondiale, prima a Istanbul e poi a Parigi, a favore degli ebrei perseguitati dai nazifascisti».
Che impatto ebbe quel gesto di Roncalli sugli ebrei romani?
«Quando, anni più tardi, Giovanni XXIII era in fin di vita assieme a Toaff andammo sul selciato di San Pietro guidando una delegazione della Comunità a pregare per lui. Fu una scelta che rifletteva i sentimenti di una comunità intera. Era diffusa la sensazione che Giovanni XXIII aveva cambiato il rapporto con gli ebrei dopo millenni di persecuzioni».
E nel caso di Giovanni Paolo II quali furono i gesti che più colpirono?
«La visita alla Sinagoga di Roma, nel 1986, fu un evento spartiacque. Giovanni XXIII aveva sostato per caso, Giovanni Paolo II venne nel nostro Tempio. Appena varcata la soglia, sorprese il cerimoniale fermandosi un attimo. Guardò verso l’angolo dove sostavano i sopravvissuti ai campi di sterminio e li salutò per sottolineare l’importanza della Shoà. La conferma avvenne dopo la cerimonia. Quando Toaff mi presentò aggiungendo che mio padre era morto nella Shoà, Wojtyla mi chiese di raccontargli la sua storia. Volle sapere ogni dettaglio, a conferma che teneva molto alla memoria della Shoà».
Corriere 27.4.14
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
«Due gesti gemelli cambiarono il rapporto con l’ebraismo»
di Gian Guido Vecchi
«È interessante tracciare un parallelo che risale a molto prima del Concilio, al 1946. Roncalli e Wojtyla che già allora mostrano uno spirito nuovo, due storie rivoluzionarie...». Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma — la comunità ebraica più antica della diaspora, anche perché esisteva già prima — nei giorni della Pasqua ha ricambiato gli auguri di Francesco con un messaggio nel quale tra l’altro scriveva: «Tra pochi giorni onorerete solennemente la memoria di due grandi Papi che hanno cambiato positivamente la storia delle relazioni della Chiesa con l’ebraismo, e questo è per tutti un segno di speranza». Una delegazione ebraica internazionale sarà presente in piazza San Pietro. Il rabbino Di Segni sorride: «È chiaro che le canonizzazioni sono un fenomeno interno alla Chiesa cattolica, noi siamo spettatori. Però, considerate dall’esterno, significa che il comportamento di persone speciali viene indicato come esempio ai fedeli, un modello che identifica il gruppo».
Perché parlava del ‘46?
«Penso alla vicenda dei bimbi ebrei nascosti nei conventi negli anni della Shoah e che dopo la guerra non avevano più famiglia. Alcuni erano stati battezzati, varie organizzazioni ebraiche chiedevano fossero restituiti alle loro comunità ma da parte delle autorità ecclesiastiche c’era, diciamo così, un’enorme riluttanza. Il Sant’Uffizio dà disposizioni per bloccare la restituzione. È un momento nel quale, rispetto agli ebrei, esce tutto il cristianesimo preconciliare. Ecco, in quel momento Roncalli e Wojtyla si comportano altrimenti».
Che cosa fanno?
«Roncalli, nunzio in Francia, fece come non avesse ricevuto alcuna disposizione e lavorò con il rabbino Herzog perché i bambini ritornassero alle loro comunità. È la tesi, suffragata da documenti, formulata dello storico Alberto Melloni. Del resto non si può dimenticare ciò che Roncalli aveva fatto durante la guerra, quand’era nunzio in Turchia e aiutò moltissimi ebrei a fuggire».
E Wojtyla?
«In quello stesso anno, in Polonia, una famiglia cattolica alla quale i genitori ebrei avevano affidato un bambino per sottrarlo alle persecuzioni naziste, porta il piccolo a un giovane sacerdote per farlo battezzare. Quel sacerdote era Karol Wojtyla che ascolta la storia del bambino e dice alla coppia: restituitelo al suo ambiente di origine».
L’uno e l’altro compirono poi gesti rivoluzionari da pontefici...
«Il Concilio convocato da Roncalli e la dichiarazione Nostra Aetate del ‘65 rappresentano una svolta epocale. Certo la Nostra Aetate va inquadrata nel suo tempo, a rileggerla oggi si sente un po’ il peso dell’età. Anche il famoso gesto di Giovanni XXIII che nel ‘59 fa fermare l’auto davanti alla sinagoga e dà la benedizione suona ora un po’ paternalistico. Ma certo la dichiarazione conciliare è la breccia che fa crollare la diga. Oggi i rapporti tra ebrei e cristiani sono concepiti in modo differente, ma senza quella svolta nulla sarebbe stato possibile».
Il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II visita il Tempio Maggiore di Roma, primo Papa a entrare in una sinagoga, dopo Pietro...
«Nel caso di Wojtyla è fondamentale la sua biografia. Fin da bambino cresce a Wadowice circondato da amici ebrei, conosce il mondo ebraico alla radice. Poi se lo vede scomparire negli orrori della guerra, nella Shoah, un’esperienza che lo segna per tutta la vita. Giovanni Paolo II capisce che ci vogliono gesti per cambiare l’atmosfera. La sua visita alla sinagoga è storica perché abbatte psicologicamente le barriere di ostilità, mostra che quella è una casa di preghiera nella quale un pontefice entra con dignità e rispetto. Per i cristiani è una sorta di riscoperta delle proprie radici. Come poi accadde in Israele nel 2000, la visita allo Yad Vashem, la preghiera al Muro occidentale... Uno dei temi fondamentali del dialogo ebraico-cristiano è l’abolizione del rapporto di disprezzo. E quel gesto è un capovolgimento di prospettiva, un segnale che tocca l’inconscio».
Corriere 27.4.14
L’economo dei Salesiani sotto accusa per la truffa da 100 milioni
di Fiorenza Sarzanini
ROMA - La truffa ai Salesiani non fu ordita soltanto da personaggi esterni all’ordine religioso. Nell’elenco degli imputati per la frode da 100 milioni di euro che riguarda l’assegnazione dell’eredità del marchese Alessandro Gerini c’è anche l’economo don Giovanni Battista Mazzali. La procura di Roma chiude l’inchiesta che ha portato al sequestro dei beni dell’ente ecclesiastico e si appresta a sollecitare il suo rinvio a giudizio in concorso con l’avvocato Renato Zanfagna e il faccendiere Carlo Moisè Silvera. Due mesi dopo la presentazione di una denuncia da parte della Santa Sede, il capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone e il sostituto Paola Filippi ribaltano l’impostazione iniziale e individuano in queste tre persone coloro che avrebbero cercato di «ripulire» le casse dell’ordine fondato da don Giovanni Bosco mediando illecitamente nella disputa sul lascito che opponeva i religiosi ai nipoti del nobiluomo.
È il capo di imputazione a svelare il ruolo avuto dai protagonisti della vicenda. Nella contestazione viene infatti specificato come i tre «con artifici e e raggiri» avrebbero fatto credere che la Fondazione Gerini fosse stata autorizzata dalla segreteria di Stato ad effettuare la transazione e soprattutto che la «Direzione Opere Don Bosco» dovesse «garantire le obbligazioni nascenti da questo atto transattivo» con un solo obiettivo: «Ottenere il versamento dei 100 milioni di euro, dei quali 16 sono già stati versati al momento in cui è stato sottoscritto l’accordo».
Per i Salesiani c’è il rischio altissimo di fallimento. Non a caso l’avvocato Michele Gentiloni Silveri che cura gli interessi della Fondazione presenterà un’istanza per ottenere il dissequestro dei 120 milioni che erano stati bloccati dal giudice di Milano su richiesta dello stesso Silvera e soprattutto per impedire la vendita all’asta dei beni, compresa la sede generale della Congregazione. Nella guerra giudiziaria sull’eredità durata 17 anni il faccendiere aveva avuto un ruolo chiave quando, era l’8 giugno 2007, aveva convinto le parti a firmare un accordo che obbligava la Fondazione a versare 16 milioni di euro: cinque milioni ai nipoti, 11 milioni e mezzo a lui. Non solo. Secondo la transazione, la percentuale di Silvera doveva essere ricalcolata al momento di avere la stima complessiva dell’intero patrimonio. Ad occuparsi di questo «inventario» fu una commissione presieduta dall’avvocato Zanfagna che fissò l’ammontare dei beni in 658 milioni di euro, portando così la provvigione a 99 milioni di euro. Soldi che i Salesiani decisero di non pagare sostenendo di essere stati truffati. Da qui la decisione di Silvera di ricorrere al giudice per ottenere — cosa che avviene — il blocco dei beni.
È la Fondazione, nel 2012, a presentare la prima denuncia, ma l’inchiesta dei magistrati romani si chiude con una richiesta di archiviazione. Il caso viene però riaperto qualche mese fa quando l’avvocato Gentiloni Silveri deposita l’esito di un’indagine interna svolta dalla Gendarmeria vaticana che dimostra la falsificazione delle autorizzazioni per chiudere la trattativa del 2007. In particolare nella relazione si evidenzia come la lettera firmata il 19 maggio 2007 dal segretario generale dei Salesiani Marian Stempel per concedere il nulla osta all’accordo, è stata modificata in più punti, addirittura aggiungendo il paragrafo che obbliga la «Direzione generale Opere Don Bosco» al versamento dell’indennizzo. La contraffazione, questo dice l’accusa, sarebbe stata compiuta proprio dall’economo don Mazzali.
L’istanza consegnata ai pubblici ministeri contiene anche la copia del decreto di nullità dei «visti» emesso un mese fa dalla Santa Sede con l’obiettivo di impedire la liquidazione della somma. Tra i testimoni chiave di questa vicenda c’è il cardinale Tarcisio Bertone. Nell’ultimo interrogatorio avvenuto in Vaticano circa due mesi fa l’ex sottosegretario di Stato ha ribadito di «essere stato ingannato» ma non ha potuto negare di essere stato lui a sollecitare i Salesiani a firmare la mediazione con gli eredi Gerini.
Corriere 27.4.14
Un caso in Curia per i soldi prestati
Un noto avvocato e uomo politico, in difficoltà economiche, ha chiesto aiuto al vescovo di Potenza che ha autorizzato l’economo della Diocesi a prestargli 45 mila euro, mai restituiti. L’avvocato ha denunciato una persona come estorsore. Il pm ha però scagionato quest’ultimo dal reato di estorsione, indagandolo insieme allo stesso legale per voto di scambio. Nel frattempo nuove nubi si addensano sulla Curia potentina, da almeno quattro anni nella bufera dopo il ritrovamento nel sottotetto di una chiesa della città del cadavere della studentessa Elisa Claps. Le indagini del pm di Potenza sono cominciate alcuni mesi fa dopo la denuncia dell’avvocato Sergio Lapenna — in passato anche consigliere regionale con Forza Italia e nelle ultime elezioni non eletto nelle liste di Centro democratico — contro un suo ex amico. Vescovo ed economo hanno fatto mettere a verbale che i 45 mila euro provenivano da un fondo privato e non da uno pubblico della Cei. La conclusione della vicenda pare ancora lontana. Contro Lapenna c’è anche l’accusa di millantato credito.
Corriere 27.4.14
Mentre la comunità dei fedeli offre una prova di forza
Miracoli senza virgolette, il medioevo dei laici
di Pierluigi Battista
Avvezzo da migliaia di anni alla volubilità dei suoi avversari, il mondo della Chiesa cattolica non aveva certo bisogno di attendere la duplice canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II per accorgersi di quanto sia oscillante e incoerente la nostra cultura «laica», secolarizzata, figlia dei Lumi. Un giorno il Vaticano viene messo sulla graticola perché si intestardisce a parlare di etica mentre si discute di una legge: «intromissione», «ingerenza», «confessionalismo». Poi la Chiesa sembra cambiare volto e diventare affabile se non, osando uno scivolamento nel profano, addirittura «progressista», con le virgolette. E allora l’universo laico si fa accomodante e comprensivo. Si mette addirittura a parlare dei miracoli dei nuovi santi. Miracoli: stavolta senza virgolette. Come se fossero dati oggettivi, auto-evidenti. Altro che volubilità.
La Chiesa che appresta una grande cerimonia di folla attorno ai due Papi che diventano santi offre la dimostrazione della sua forza e del suo radicamento nella coscienza popolare. La comunità dei credenti esulta e si commuove, ed è un’esultanza commossa che racconta la potenza di una fede, il vigore di una religione. I pellegrini che invadono Roma danno fastidio solo agli snob sussiegosi che non capiscono quella fiumana di popolo con gli occhi lucidi dell’amore per Roncalli e Wojtyla. Per questa gente per questa Chiesa il rispetto è d’obbligo. Per loro la parola «santo» è gravida di significati, il «miracolo» è il collegamento visibile e tangibile con un soprannaturale che protegge e dirige l’umanità, che dà un senso al dolore, alla sofferenza, alla gioia, allo stare insieme, alla vita, alla morte.
Ma invece, questa voglia laica di partecipare all’evento come se si fosse credenti, che cos’è, a cosa allude? A un bisogno di mimetizzazione del laico che un tempo non aveva timore di apparire puntiglioso e persino brontolone e che oggi sta in silenzio, non pronuncia nemmeno una parola? Al fatto che questo Papa, a differenza di quello che lo ha preceduto e che pure concelebrerà lo straordinario evento di oggi, piace così tanto, fa sentire in modo così potente la sua seduzione verso il mondo, al punto da capitolare nelle forme patetiche che stiamo conoscendo in questi giorni? Ecco i laici discettare sulla scelta di papa Francesco di fare lo «sconto» di un secondo miracolo a Giovanni XXIII. Dando per ovvio e risaputo che il primo sì, c’è stato, e infatti lo ha detto persino la commissione che ha dovuto esaminare i requisiti della santità di Papa Roncalli. In tempi più burbanzosi e laicamente polemici qualcuno avrebbe gridato persino al ritorno del Medioevo. Senza la burbanza e il manierismo anticlericale nessuno evoca, per fortuna, il nuovo Medioevo, o la spettacolarizzazione controriformistica e barocca della fede per ammaliare il popolo. Però una prudenziale virgoletta, un minimo accento, non di presa di distanze, ma di razionale ponderazione, questo non sarebbe apparso certamente irriverente per una Chiesa che si apre ai dubbi del mondo.
Ma i laici sono fatti così: non credendo nell’eternità, i loro discorsi durano il tempo effimero di una polemica contingente e spesso strumentale. È un miracolo quando non è così. Miracolo senza virgolette.
Corriere 27.4.14
Souvenir, rosari, abusivi Sacro e profano a Roma
Ma in pochi giorni chiudono cantieri aperti da mesi
di Paolo Conti
«Esta es la juventud del Papa!», questa è la gioventù del Papa. Ore 15 di ieri. Un gruppone di giovani sacerdoti sbuca dal braccio sinistro del colonnato di San Pietro. I ragazzi in clergyman ridono, applaudono, ritmano lo slogan issando una bandiera argentina e una messicana. Accanto a loro cinque suore più attempate li seguono in estasi. Roma, abituata a un clero locale sempre più anziano e stanco, li accoglie con un sole primaverile che nel pomeriggio lascerà posto alla pioggia.
Vigilia della doppia canonizzazione di oggi, domenica 27 aprile. Tra via della Conciliazione e il loggiato della Basilica è tutto pronto per la proclamazione dei nuovi santi della chiesa cattolica Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII: già sorridono, illuminati dalle loro aureole azzurrine, da due arazzi issati sulla facciata di San Pietro, Wojtyla a sinistra e Roncalli a destra. La piazza ha assunto i colori e i suoni dei grandi appuntamenti cattolici. Lingue, colori di pelle, abiti nazionali, bandiere, odori di cibi portati da casa si mischiano in un frullatore cosmopolita e multietnico unico al mondo. Sventolano accanto i vessilli della Repubblica Popolare Cinese e degli Stati Uniti, innumerevoli stendardi polacchi, gonfaloni dell’area veneta. E poi il gruppo di cattoliche del Camerun e della Nigeria con i vestiti stampati con i volti dei due Papi neo-santi. I francesi che issano il tricolore col cuore della Vandea, simbolo cattolicissimo del Paese di Hollande. I giovani della Baviera, terra di Benedetto XVI. La pattuglia degli austriaci, in maglietta e pantaloni corti. Suore brasiliane canterine, che sventolano la loro bandiera. Gli spagnoli, come sempre numerosissimi. Laggiù gli irlandesi, i portoghesi, i filippini. In piazza Pio XII, territorio italiano davanti alla piazza che appartiene al Vaticano, il traliccio per le postazioni televisive dei network mondiali. Nonostante il megasequestro di 700 mila souvenir contraffatti, resistono (sotto gli occhi di decine di agenti di varie forze) i banchetti che vendono in via Paolo VI a 5 euro la «Misericordina», la scatola col rosario lanciata da papa Francesco, distribuita dietro libera offerta destinata ai fondi di beneficenza. Qui gli euro finiscono nelle tasche del racket dei clandestini.
Roma accoglie la massa di pellegrini-turisti (un milione? lo sapremo stasera a conti fatti) truccandosi da metropoli internazionale. Priva com’è della doverosa cultura della manutenzione quotidiana, tipica delle autentiche Capitali, rimette insieme i propri disastrati pezzi sotto la spinta dell’evento eccezionale. Il centralissimo corso Vittorio Emanuele II, da mesi sventrato da interminabili lavori simili a bombardamenti, e strangolato da ingorghi da incubo, è tornato in poche ore una strada da Nazione occidentale. Il semaforo di piazza del Gesù, spento esattamente dal giugno 2012 quando venne ripristinata la fermata dell’Atac in via del Plebiscito davanti alla residenza di Berlusconi a palazzo Grazioli, è stato magicamente riattivato per la felicità dei passanti che finalmente non rischiano più la vita attraversando la strada di corsa, terrorizzati. Il monumento ad Alcide De Gasperi a due passi da san Pietro, cadente dal 2010 (con amarezza e proteste della famiglia dello statista tridentino) è improvvisamente tornato allo splendore dell’inaugurazione del 2005. Per non parlare della segnaletica ridipinta (strisce pedonali) in mezzo centro, della bonifica dei motorini abbandonati da anni. Roma è così: sorda alle proteste dei romani, perciò sempre più stanchi, reagisce solo sotto l’onda d’urto di anni santi, conclavi, canonizzazioni, comunque eventi eccezionali.
Salvo poi restare la stessa per troppi aspetti. In via dei Fori Imperiali, chiusi al traffico per l’occasione, sono stati piazzati due megaschermi per decentrare l’evento. Intorno, solo nel primo tratto fino a via Cavour, ben sette camion-bar, indecente piaga di questa città, vendono a 2 euro le bottigliette d’acqua distribuite gratis dalla Protezione civile, chiedono 6 euro per un chilo di mele (vendute nei supermercati a 1,50 in media), 5 euro per un chilo di banane (mai più di 1,30-1,50), addirittura 10 euro per le nespole. Intorno, decine di banchetti di ambulanti vari (cappelli, braccialetti, rosari, colossei, prestigiatori). Il tutto nell’assoluta assenza (ai piedi del Campidoglio) di vigili urbani capaci di reprimere il commercio abusivo. Chissà che affari, oggi, davanti ai megaschermi.
La Stampa 27.4.14
“Credere”: Paolo VI beato nel 2014
Secondo il settimanale dei Paolini la proclamazione avverrà il 19 ottobre, a conclusione del sinodo dei vescovi
qui
il Fatto 27.4.14
Ilva, i pm: “Vendola non può essere parte lesa”
Regione, i pm di Taranto chiedono la nomina di un commissario: “Il presidente è imputato. Non può agire come vittima”
Se il ip dovesse rinviare a giudizio il segretario di Sel questi dovrebbe chiedere i danni a sè stesso
Perciò si parla di conflitto di interesse
di Francesco Casula e Antonio Massari
La vicenda è profondamente politica. Eppure – a meno di colpi di scena - toccherà alla magistratura prendere una decisione. E dal punto di vista politico non si tratta di una decisione da poco. Nichi Vendola può rappresentare la Puglia, nell’eventuale processo, chiedendo ai Riva i danni per l’avvelenamento prodotto dal loro siderurgico?
E SE NON POTRÀ farlo, per il leader di Sel, non si tratta di una “condanna” politica – una sorta d’indegnità a curare gli interessi della Puglia - di cui deve prendere atto? Veniamo al punto. Su un lato della medaglia troviamo Vendola, presidente di Regione, imputato per concussione nell’inchiesta Ilva. Sull’altro lato c’è Vendola, presidente di Regione, che rappresenta la Puglia intera come parte civile. E così, se il 19 giugno il giudice per l’udienza preliminare dovesse rinviare a giudizio Vendola, il segretario di Sel dovrebbe chiedere i danni a se stesso. L’unico politico a rilevare questo pesante conflitto d’interessi è stato Angelo Bonelli, portavoce della Federazione dei Verdi e consigliere comunale di Taranto, che ha chiesto al Governo di sostituire Vendola con un commissario ad acta. Il Governo sembra orientato a sostituire Vendola, sì, ma senza commissariarlo, nominando un “curatore speciale” che possa rappresentare la Puglia nel processo. Alla stessa conclusione è giunta la procura di Taranto che, nei giorni scorsi, ha chiesto al gup Vilma Gilli di nominare un “procuratore speciale” che possa curare gli interessi della Regione nella vicenda. La questione ora è al vaglio del giudice. In ambito politico, Bonelli ha posto la questione. In attesa che il gup da un lato, e il Governo dall’altro, prendano una decisione, resta un rischio concreto: che le istituzioni restino fuori dal processo. L’evidente “conflitto d’interessi”, infatti, potrebbe essere sollevato anche dai Riva e, se non venisse sanato in tempo, potrebbe far tramontare la presenza di Regione e Comune come parti civili.
Senza la nomina di un procuratore speciale – o di un commissario, come chiede Bonelli – resta in piedi la sola possibilità prevista dalla legge: gli unici a poter formulare la richiesta di costituirsi parte civile, per Comune e Regione, sono Sindaco e Presidente.
IL 18 APRILE, la Giunta pugliese, ha stabilito che si costituirà parte civile: la proposta arriva dalla vicepresidente, Angela Barbanente, ma Bonelli contesta la scelta perché “i poteri del presidente di Regione si trasferiscono alla vicepresidente solo in caso di assenza, o impedimento temporaneo, mentre il 18 aprile scorso Vendola non era né assente, né aveva alcun impedimento temporaneo”. La polemica politica, in vista del 19 giugno, si fa sempre più dura e come spesso accade, quando si parla di Ilva e politica, sembra tutto delegato alla magistratura: sarà il gup, su richiesta della procura, a stabilire se sarà necessario un “procuratore speciale” che sostituisca Vendola, per rappresentare la Puglia nell’eventuale processo.
Repubblica 27.4.14
L’amaca
di Michele Serra
LE SCEMENZE di Berlusconi su svariati aspetti della storia umana e della politica planetaria compongono, dopo lunghi anni di carriera, una specie di grande affresco naif. Dico naif perché non c'è malizia né dolo, solo una schietta superficialità, e quella faciloneria contagiosa che tanto piacque, e un poco ancora piace, a molti italiani di destra, che in ogni complicazione intellettuale sentono puzza di fregatura e vedono lo zampino dei comunisti. La sortita sui tedeschi e i lager è tipica della sua serena incapacità di contemplare, tra le attività che si richiedono all'essere umano, anche quel minimo di analisi così bene riassunta nel cartello (visibile in ogni retrobottega accanto al calendario con le miss) che recita “prima di aprire la bocca accertarsi che il cervello sia acceso”. Il cervello acceso è un instancabile fonte di disturbo, genera dubbi, costringe a sospettare che non tutto sia semplice come appare, perfino in Germania. Con il cervello disinnescato ci si diverte molto di più: è questa, a ben vedere, la grande lezione non solo politica, ma anche di vita, che quest'uomo lascia al suo Paese.
l’Unità 27.4.14
Un’ora di educazione sentimentale a scuola
di Celeste Costantino
Deputata Sel
QUASI 25 MILA FIRME IN POCHISSIMI GIORNI SU CHANGE.ORG, migliaia di messaggi e idee, decine di proposte di iniziative pubbliche e la rivendicazione dei tantissimi percorsi che i docenti più interessati stanno sperimentando nelle scuole d’Italia. È questo il primo bilancio della campagna #1oradamore a sostegno della proposta di legge che ho presentato per l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole. Segno che nel Paese esiste un’esigenza forte che ha bisogno di trovare sbocco: costruire relazioni giuste tra i sessi.
Qualcuno mi ha chiesto: come si può educare ai sentimenti? Perché parlare di educazione sentimentale e non sessuale o di genere? Echi la dovrebbe insegnare? Perché bisogna gravare sulla scuola quando ci sono le famiglie?
Andiamo con ordine. In questi anni tutti sono stati concordi nel dire che in Italia esiste un problema di ordine culturale e che bisogna sensibilizzare soprattutto le nuove generazioni. La proposta di legge, di cui sono prima firmataria, nasce proprio dalla necessità di provare ad affrontare le questioni legate alla violenza di genere per una volta non come emergenza, ma per quelle che sono e cioè fenomeni strutturali. Per questa ragione ho ripreso l’art. 14 della Convenzione di Istanbul, votata all’unanimità in Parlamento, e ho mutuato da lì l’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole. L’educazione sentimentale è, infatti, qualcosa di più rispetto a quella sessuale - presente in Francia, Germania, Olanda, Svezia e in altri Paesi – perché non si limita alla corporeità dei rapporti, ma approfondisce la formazione delle relazioni, il contesto storico sociale degli stereotipi e gli strumenti che li determinano.
Le ragazze e i ragazzi costretti a confrontarsi - in maniera diretta o indiretta - con casi di violenza e di bullismo o, peggio, di femminicidio, manifestano sempre di più il bisogno di capire. Non è difficile incrociarli su forum e social network, alla ricerca di risposte a domande che, per paura o pudore, non riescono o forse purtroppo non possono fare ai propri genitori. Nessuno naturalmente pensa di strappare alle famiglie l’educazione dei figli, ma un Paese maturo non può commettere l’errore di pensare che tutti gli adolescenti vivano le stesse situazioni familiari. L’esperienza ci racconta come la violenza spesso si annidi proprio tra le mura domestiche e come a un padre violento segua un figlio violento. Al di fuori della casa, la scuola è lo spazio in cui i ragazzi trascorrono la maggior parte del loro tempo: offrire lì dentro strumenti di lettura dei processi storici, culturali e sociali può creare una futura cittadinanza consapevole, solidale e aperta alle differenze.
Non si parte da zero: diversi insegnanti attenti e sensibili già dedicano parte delle loro lezioni a questi temi e molti dirigenti scolastici capaci, con l’autonomia, hanno aperto gli istituti ad associazioni e personalità autorevoli che hanno condotto studi su questi fenomeni o hanno lavorato direttamente su chi li ha subiti (come le operatrici dei centri antiviolenza). Ci sono esempi virtuosi - da Nord a Sud Italia - che confermano ancora una volta come il Paese sia più avanti della politica e come in questi anni siano cresciute professionalmente tante persone pronte a loro volta a formare nuovi insegnanti. Nessuna delega alla buona volontà di singoli docenti: serve sistematizzare le migliori esperienze e creare un percorso istituzionale chiaro. Peraltro in tante università italiane, è attivo il corso di gender studies (o studi di genere) che non è un campo di sapere a sé stante, ma il risultato di un incrocio di metodologie che abbracciano diversi aspetti della vita umana. Per questo motivo una lettura attenta agli aspetti di genere è applicabile a qualunque branca delle scienze umane, sociali, psicologiche e letterarie.
Da questa elaborazione, peraltro frutto di un percorso partecipato, è nata la proposta di legge per l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole che è naturalmente aperta a miglioramenti e contributi. Da qui è partita la campagna #1oradamore che chiede la discussione in Parlamento e sfida la politica, per una volta, a stare al passo con il Paese e a occuparsi del futuro delle sue cittadine e dei suoi cittadini.
Corriere 27.4.14
Franzoni «socialmente pericolosa»
Per il perito può commettere reati
La mamma di Cogne rischia il no al beneficio dei domiciliari
di Francesco Alberti
BOLOGNA – L’impatto della formula «socialmente pericolosa» è di per sé forte e potrebbe rappresentare per Annamaria Franzoni, 42 anni, dal 2008 rinchiusa nel carcere bolognese della Dozza dove sta scontando una condanna a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele a Cogne nel 2002, una pietra tombale sulla battaglia che la donna sta conducendo da anni per ottenere la possibilità di scontare il resto della pena ai domiciliari così da poter stare vicino agli altri due figli, Davide, 18 anni, Gioele, 10. Bisognerà però attendere l’udienza del Tribunale di Sorveglianza, fissata per martedì, per comprendere la ratio e le motivazioni che stanno alla base di quel «socialmente pericolosa» contenuto nella perizia effettuata dal professor Augusto Balloni, incaricato dal Tribunale di dare un giudizio sulle condizioni fisico-psichiche di Annamaria e di formulare una previsione sui suoi futuri comportamenti.
Le anticipazioni rivelate due sere fa dalla trasmissione «Quarto Grado» su Rete 4 coprono solo una piccolissima parte delle 80 pagine di cui è composta la perizia, frutto di una decina di incontri negli ultimi due mesi tra la detenuta, il perito Balloni e il consulente di parte, Pietro Pietrini. Da quel poco trapelato, la donna soffrirebbe di «un disturbo di adattamento per preoccupazioni, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario» perché continua a proclamarsi innocente. Un quadro in parte confermato negli ambienti giudiziari, ma che certo non può essere l’unico elemento a sostegno della «pericolosità sociale» di Annamaria e della necessità di una psicoterapia di supporto.
Decisivo di fronte al Tribunale di Sorveglianza potrebbe rivelarsi l’aspetto della recidiva: il rischio, cioè, che Annamaria, una volta fuori dal carcere, possa reiterare il reato, uccidere ancora. Su questo, stando a fonti autorevoli, la perizia non si è pronunciata e quindi la definizione di «socialmente pericolosa» non va interpretata in relazione al rischio di una ripetizione del reato di omicidio, ma in un senso più ampio: di persona potenzialmente in grado di commettere reati di vario genere, assumendo comportamenti antigiuridici. In quest’ottica, come ha subito tenuto a puntualizzare l’avvocato difensore, Paola Savio, che martedì darà battaglia in aula, sarebbe più corretto parlare di «una pericolosità sociale residuale», causata dalle condizioni detentive, risolvibile con una psicoterapia e quindi compatibile con la richiesta di scontare il resto della pena a domicilio. «I contenuti della perizia — ha aggiunto la legale — sono più complessi e variegati di quanto emerso: ne discuteremo in udienza alla luce anche delle conclusioni alle quali è giunto il consulente di parte». Una partita dall’esito imprevedibile. Pare che l’orientamento della Procura generale sia di chiedere per la donna il mantenimento del carcere. Tra i criteri alla base della decisione dei giudici c’è anche la valutazione di quanto un’eventuale misura alternativa possa giovare alla detenuta e «quanto è rimasto in lei di quella dolorosa e terribile esperienza».
È l’obiettivo della vita, per Annamaria, tornare dai suoi figli. Una prima richiesta di assegnazione ai domiciliari venne avanzata (e respinta) nel settembre del 2012. La donna è tornata alla carica nel dicembre scorso e i giudici, dopo aver constatato che le relazioni stilate su di lei in carcere «non appaiono assolutamente illuminanti sulla personalità della condannata» e che le precedenti perizie psichiatriche risalgono «a un’epoca ormai remota, essendo trascorsi 7 anni dalla stesura di quella di secondo grado», hanno disposto una nuova consulenza. Tra le carte in mano alla difesa, anche l’esperienza lavorativa che Annamaria sta effettuando da ottobre nel laboratorio sartoria di una coop sociale e i permessi che le hanno consentito nei mesi scorsi di trascorrere alcuni giorni a casa con marito e figli.
Repubblica 27.4.14
L’email del pm: “Magherini picchiato”
“Almeno uno dei militari lo prese a calci mentre era immobilizzato a terra”. Ma poi la Procura negò le violenze
di Maria Elena Vincenzi
ERA il 17 marzo quando il pm titolare del fascicolo sulla morte di Riccardo Magherini scriveva all’avvocato della famiglia che c’era motivo di ritenere che uno dei militari intervenuti quella notte lo avesse picchiato. Il magistrato, Luigi Bocciolini, sembrava non avere dubbi, tanto da scriverlo in una mail, pur chiarendo che non vi era prova che quella fosse stata la causa della morte. Comunque, spiegava, c’erano gli estremi per contestare a quel militare le percosse.
Non una cosa da poco. Per di più comunicata in forma scritta all’avvocato della parte offesa.
Erano passate due settimane esatte dalla notte in cui Magherini, ex calciatore nelle giovanili della Fiorentina ormai quarantenne e padre di un bimbo di 2 anni, era morto durante un arresto.
Ma il magistrato, nonostante ancora mancassero i risultati di parecchi accertamenti, sembrava certo: «Sotto il profilo del segreto investigativo, Le rappresento la situazione: vi è in fondato (qui un errore di battitura, tutto fa pensare che il pm volesse dire «il » o «un ») motivo di ritenere che almeno uno dei militari intervenuti abbia colpito il ragazzo con dei calci al fianco mentre era a terra ammanettato». Il pm aveva già visionato il video girato da una finestra che affaccia su Borgo San Frediano mostrato durante una conferenza stampa indetta dal presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi giovedì in Senato e sembrava avere le idee piuttosto chiare. Tanto che, continua: «Non appare essere,
allo stato, una condotta influente sotto il profilo eziologico con l’evento “morte”, ma le indagini proseguono per individuare il militare (quanto meno sussiste l’art. 581 c.p., percosse)». Insomma, in barba al citato «segreto investigativo », il magistrato non lascia dubbi su quale sia il suo orientamento sulla vicenda. Che le percosse ci siano state pare essere indubbio, tanto da ipotizzare il reato, anche se non è detto che abbiano causato la morte.
Eppure, due giorni fa, la procura di Firenze, in risposta alla conferenza stampa del senatore Manconi, ha diffuso un comuni- cato di tutt’altra natura in cui precisa che «non si evidenziano violenze di alcun genere contro Magherini. Si odono distintamente invocazioni di aiuto da parte dello stesso, di contenuto analogo a quello che, secondo le univoche dichiarazioni dei testimoni, faceva anche prima dell’intervento dei carabinieri e che denunciavano una condizione di agitazione psicomotoria e uno stato di allucinazione che avevano indotto i militari a richiedere l’intervento del 118».
La Procura anticipa anche i risultati dell’autopsia effettuata sul corpo del 40enne (risultati che, peraltro, ancora non sono ufficialmente arrivati agli inquirenti) e precisa che: «Non sono state riscontrate lesioni riconducibili a percosse». Una nota che ha messo in allarme i familiari della vittima che ieri su Repubblica hanno chiesto per quale motivo la procura, nel giro di un mese e senza alcun esito ufficiale, abbia cambiato idea. E che, in ogni caso, non spiegano le tante ecchimosi sul corpo dell’ex calciatore e molte delle dichiarazioni di alcuni dei testimoni che, dalla finestra, hanno assistito all’arresto.
Corriere 27.4.14
Bergamo
Panchine con il bracciolo al centro per scacciare i senzatetto
di Anna Gandolfi
BERGAMO — Viale Papa Giovanni XXIII è un pezzo del cuore di Bergamo: si snoda dalla stazione ferroviaria al centro, fende i palazzi senza soluzione di continuità offrendo prospettive da cartolina su Città Alta. È il principale collegamento con le Mura e da metà anni 60 è dedicato ad Angelo Roncalli, il pontefice che oggi sarà proclamato santo ed è tra i più importanti figli della terra orobica.
La canonizzazione è sentitissima, salutata da mesi con eventi ai quattro angoli della provincia. Sotto il Monte, terra natale di papa Roncalli, ospita frotte di pellegrini e il capoluogo non ha voluto essere da meno nell’omaggio. L’amministrazione comunale ha commissionato un monumento, l’idea era installarlo proprio lì, sul viale. Poi le dimensioni del gruppo scultoreo (alto tre metri, largo quattro) hanno suscitato un polverone e al momento l’opera se ne sta in attesa negli studi trevigiani di Carlo Balljana, l’autore.
Passo falso da nulla, rispetto a quanto succede alla vigilia della festa con le panchine anti-clochard.
Decisa a valorizzare la prospettiva da cartolina di cui sopra, oltre a dare lustro alla via che del nuovo santo porta il nome, la giunta di centrodestra ha varato una certosina opera di recupero estetico. Non ci si è fermati al belletto, perché, insomma, oltre alla santificazione c’è la campagna elettorale. Così sul viale del Papa, centrale ma collegato alla stazione meta di senzatetto, tra aiuole rinfoltite e nuova pavimentazione sono comparse le panchine modificate. Struttura in legno, bracciolo in ferro nel mezzo, funzionalità chiara: qui ci si siede, non ci si sdraia. Debuttano, in ossequio al bon-ton, le panche anti-clochard: la tempistica fa l’effetto del gesso sulla lavagna, stride la tolleranza zero sulla strada dedicata a un pontefice passato alla storia come il «Buono».
«Semplicemente il decoro va tutelato, ce lo chiedono i cittadini. Qualcuno aveva anche domandato di togliere del tutto le sedute, non ci è sembrato il caso: l’area è molto turistica. E le panche sono fatte per sedersi», chiosa l’assessore alla Sicurezza, Massimo Bandera. Che è leghista, come chi s’inventò l’accorgimento. Era il 2007, il sindaco veronese Flavio Tosi installò le panche: tuonarono le parrocchie parlando di «vessazione», attaccò l’opposizione, il comico Crozza fece recapitare in municipio una poltrona con cactus per cuscino. Eppure le panche scaligere sono ancora lì e la politica del bracciolo scomodo fa proseliti. Anche molti anni dopo.
Il sindaco Franco Tentorio taglia corto: «È un modo per evitare bivacchi». I competitor al voto criticano: «Sfoggio muscolare». Ma è don Fausto Resmini, che a un passo dal viale gestisce una mensa per i poveri, a dire tutto con un’immagine: «Ho visto i paletti, ho pensato alle punte per tenere lontani i piccioni che sporcano. Qui però parliamo di esseri umani. Si cacciano i poveri, ma non è così che si risolve il problema».
Roncalli, il santo, sarebbe stato d’accordo.
La Stampa 27.4.14
Abu Mazen: “L’Olocausto il più odioso crimine contro l’umanità”
E’ la prima volta che un leader palestinese lancia un messaggio simile, rompendo un tabù nel mondo arabo: “Combattere il razzismo”
di Maurizio Molinari
qui
il Fatto 27.4.14
Aleppo, dove si mastica cartone per la fame
Quella che era la seconda città del paese è ormai un cumulo di macerie; il tempo è contrassegnato dai bombardamenti, gli elicotteri spianano i palazzi con barili pieni di benzina e tritolo. Gli aiuti umanitari non arrivano o sono controllati dal regime
di Francesca Borri
Aleppo (Siria). Da quando si combatte, agosto 2012, da quando è iniziato l’assalto dei ribelli dell’Esercito Libero, una sola cosa non è cambiata, qui. L’unica contraerea è il maltempo. L’unico rifugio la fortuna.
Abbiamo raccontato di una città in macerie in questi mesi. Di grandinate di mortai, strade tempestate di cecchini, missili e cannonate, abbiamo raccontato di una città sfigurata dal tifo, dalla leishmaniosi, dalla fame, di bambini che sembrano l’Etiopia, la Somalia, la pelle sulle ossa come cera, per cena erba e acqua piovana. Fiumi che vomitano cadaveri, foschie di insetti su resti di intestino, fegato, polmone, granate, razzi, aerei, attivisti decapitati, 15enni giustiziati: negli ospedali sotto bombardamento, per bisturi un coltello da cucina, per anestetico la carezza di un’infermiera, abbiamo visto corpi mozzati, teste, mani, dita. 150 mila morti accertati, 220 mila stimati. Abbiamo raccontato l’orrore, in questi mesi, sgomenti, la brutalità, la ferocia. Il dolore. Abbiamo usato ogni parola possibile. Esaurito ogni aggettivo. Scusate. Ancora non sapevamo cosa è una guerra.
Le vecchie mitragliatrici contro gli aerei sembrano cerbottane
Perché il fronte vero, ad Aleppo, oggi è uno solo: è il cielo. Si muore così, qui: senza preavviso. Un’esplosione, dal nulla, il lampo, uno schiaffo di vento, e l’aria che si fa rovente di fiamme, sangue schegge, e nella polvere, tra le urla, solo questi stracci di carne, questi bambini di carbone. Non esiste riparo: le case non hanno scantinati. Seminterrati. Niente. E i ribelli, malamente armati da Arabia Saudita e Qatar, non hanno che queste vecchie mitragliatrici sovietiche, le doshka, questi pezzi di ruggine. Contro un aereo, sono potenti quanto una cerbottana. Ad Aleppo, all’improvviso, semplicemente, muori. Si scava con le mani, non ci sono pale, ruspe e comunque non c’è benzina, non c’è più neppure elettricità, si scava alla luce dei telefonini, degli accendini, i cadaveri che ti fissano incastonati tra mozziconi di pilastri. La controffensiva di Assad è iniziata a dicembre. Entri in città attraverso 15 chilometri di linea del fronte, adesso, a partire dalla zona industriale di Sheik Najjar, un tempo così saldamente controllata dai ribelli da ospitare la sede del Consiglio Rivoluzionario, l’amministrazione provvisoria di Aleppo che era lì ottimista a ripristinare tubature, riaprire scuole, persino ripiantare gli alberi, e invece entri così, adesso, tra mortai, Rpg, kalashnikov, un aereo in testa, il gas a manetta, per rifugiarti il più veloce possibile nei quartieri residenziali: e cioè sotto i barili esplosivi farciti di benzina e tritolo, giù dagli elicotteri a due, tre, quattro alla volta. Piovono a decine, ogni giorno, ogni notte, ogni ora, ovunque, letteralmente ovunque, una media di 50: e non si ha alcuna distinzione tra civili e combattenti, l’unica differenza è che il fronte è bombardato con gli aerei, più precisi; ribelli e lealisti, al solito, sono così vicini che si insultano mentre si sparano: i barili colpirebbero anche i lealisti. Ma è l’unica differenza. Perché per il resto, il criterio di distinzione, ad Aleppo, di selezione degli obiettivi, è uno solo: senso orario o antiorario. Continuiamo a chiamarla così. Aleppo. Ma è Dresda, ormai. Aleppo non esiste più. E però non è deserta come sembra. Come dicono. Perché diventare rifugiati, come osserva il mio interprete, “è un lusso che non tutti possono permettersi”. Non ha i 150 dollari per pagarsi un’auto fino in Turchia, più i 100 dollari a testa, moglie e tre figli, per corrompere un poliziotto e attraversare clandestino la frontiera: in pochi hanno ancora un passaporto, e comunque in Turchia ormai i rifugiati sono 700 mila: i campi delle Nazioni Unite sono al tracollo. Sembra deserta, Aleppo: e invece a centinaia, a migliaia, esausti, sono ancora qui. 80 mila, secondo le stime. Masticando cartone per spegnere la fame, lo sguardo macero, stravolto, fermi laceri a bordo strada, il naso per aria perché un tempo l'aereo arrivava e bombardava: due, tre volte la settimana, bombardava e spariva, ora l'elicottero volteggia, e all'improvviso, bombarda, due, tre volte l’ora. All’improvviso muori. Non c'è altro, ad Aleppo.
Aspetti e muori, in questo nido di vespe, questo nido di tuoni, nient’altro, solo il ronzio che si fa più forte, a tratti, e solo questo urlo, all’improvviso, tayara! tayara!, aereo!, e tutti che si tuffano sotto una sedia, dietro un armadio, un vaso un secchio, qualsiasi cosa, perché sembra deserta, Aleppo, e invece a centinaia, a migliaia, terrorizzati, ti sbucano addosso dalle macerie. Vivono così, in mezzo ai corpi mai recuperati: pensando che magari una casa già colpita è meno probabile sia colpita di nuovo; tra le pietre, tra le lastre di cemento galleggiano vestiti, libri, una scarpa con ancora dentro il piede di un bambino. “Per voi non siamo che un numero”, protesta un ragazzo a Sayf al-Dawla, mentre insiste per dettarmi l’elenco delle vittime dell’ultimo bombardamento. Nome a nome. Ma da gennaio l’Onu ha fermato il conto dei morti: troppo difficile aggiornarlo, le fonti, ha spiegato, sono inaffidabili e quindi, invece di fermare la guerra, ha fermato il conto dei morti. Protesta, il ragazzo, insiste per raccontarmi la loro storia, uno a uno: non sa che per noi i morti, in Siria, non sono più neppure un numero. Ma parlare, ad Aleppo, domandare, capire, è difficile. E non solo perché i giornalisti sono ancora nel mirino di al Qaeda, costretti a girare clandestini: di oltre 20 di noi, al momento, non si hanno tracce. Parlare è difficile perché i siriani provano a risponderti, uomini, donne giovani, anziani, chiunque: iniziano, una frase, una frase e mezza ma poi ti franano sulla spalla, disperati: e piangono. Piangono, e sono loro, a domandartelo: perché? perché? ti chiedono, e non riescono a dirti altro. Ti abbracciano e piangono. Piangono fino alla nuova esplosione. Fino a quando una doshka non tossisce questi quattro, cinque colpi: non per difenderti, non per abbatterlo, solo per avvertirti che un elicottero pochi secondi e arriva, pochi secondi e forse muori, mentre subito, di nuovo, senti anche tu il rumore, sempre più forte, in questi pochi secondi infiniti, e tutti di nuovo che urlano, che corrono e di nuovo, violenta, l’esplosione. L’apnea. Al-Ansari, ore 16:40.
La prima a riaffiorare è la sagoma di una donna. Fora la nebbia di polvere e cordite, ti barcolla incontro. Poi un uomo, un altro, un altro ancora, uno che sviene, tra le braccia, sfilacciati, questi corpi indecifrabili, questi corpi strappati, che colano a terra. Il bambino che hai incrociato poco prima che ora è lì, grigio, ancora stretto al suo orso di pezza. Un tappeto, sparsi, un ventilatore, un torso. Un triciclo.
E per giorni, all’alba, in controluce, come cercatori di conchiglie, vedrai le donne chine su questa battigia di resti umani.
Gli imam autorizzano a cucinare i gatti randagi
Tra le dita uno scampolo di stoffa, uno scampolo di figlio. Muori, ad Aleppo. Nient'altro. Aspetti e muori. Sono soli, i siriani, completamente soli, di qua dalla linea rossa, qui dove non si muore di gas, ma di tutto il resto: e quindi non importa a nessuno. Gli sfollati sono 9 milioni: quasi metà della popolazione. E 3,5 milioni sono in aree che l’Onu definisce “difficili da raggiungere”. Gli imam, a novembre, hanno autorizzato a cucinare i gatti randagi. Nonostante la risoluzione 2139 del Consiglio di Sicurezza, adottata il 22 febbraio, ordini di non ostacolare l’accesso agli aiuti umanitari, l’Onu, che per statuto opera mediante l’unico governo riconosciuto, e cioè il governo di Assad, per ora ha scelto di non forzare. E di adeguarsi. Assad vieta ai convogli di aiuti di entrare dalla frontiera con la Turchia, gestita dai ribelli, obbligandoli a entrare molto più a sud, con tempi e costi, e rischi, fino a dieci volte maggiori, denuncia Human Rights Watch. E soprattutto, con così tante restrizioni di movimento che quasi tutto, il 90 percento, finisce nelle aree sotto il controllo del regime; il regime sostiene che è per garantire la sicurezza degli operatori umanitari: anche se il racconto dei ragazzi della Croce Rossa, con tanto di cartellina con nomi e foto, è un po’ diverso: il regime ha arrestato e torturato molti di quelli che hanno provato a raggiungere le aree sotto il controllo dei ribelli. Quelli che le hanno raggiunte, d’altra parte, sono stati sequestrati da al Qaeda. Alcuni convogli, in teoria, sono entrati proprio in questi giorni: ma nessuno ad Aleppo sembra avere ricevuto qualcosa. Riso, zucchero. Non ti imbatti mai in niente, qui, che abbia un logo straniero. Una bottiglia di latte: niente. L’unica certezza è che quando sei embedded con i ribelli, quale che sia il gruppo, degli oltre mille in cui sono ormai sgretolati, il cibo non manca mai. E in effetti: gli islamisti, e in particolare i ragazzi che sbarcano qui dalle periferie europee in barba e iPad, su Facebook esaltano la Siria come “un jihad a cinque stelle”, promettendo alle potenziali reclute che non troveranno un nuovo Mali, tutto fame e sabbia. Anche perché questa è la sola altra certezza, qui. Un solo luogo, ad Aleppo, non è mai stato bombardato: il quartier generale di al Qaeda. E così nel resto della Siria. Per la sua collocazione, è l’unico obiettivo militare legittimo in senso stretto, l’unico che potrebbe essere colpito senza danni collaterali sproporzionati al vantaggio militare conseguito. Ma è ancora lì. E così nel resto della Siria. Tranne al Qaeda, è tutto sotto attacco. “Ormai non è più questione di aiuti umanitari”, mi dice Moayed Zarnaji, volontario della Croce Rossa. “Un chilo di riso non ti fa alcuna differenza. Muori comunque”. E spesso, muori comunque anche se sopravvivi al bombardamento: nessuno ti verrà a tirare fuori dalle macerie. Hanno istituito la Civil Defense, adesso, ragazzi con torcia, guanti, caschetto di plastica, un trattore, una specie di Vigili del Fuoco. Sono una trentina: ma il numero varia di giorno in giorno, di ora in ora, perché i cadaveri, ad Aleppo, sono sempre a coppia: il secondo è di chi è corso di istinto in soccorso, ed è stato centrato dal secondo barile.
E se anche ti tirano fuori dalle macerie, nessuno, qui, ha più niente per curarti. Sono rimasti due ospedali. Anzi, uno: l’altro è stato centrato mentre scrivevo. “E se anche ti curano, torni sotto gli elicotteri”, mi dice una bambina. Il suo braccio sinistro è tutto schegge e cicatrici. Non fa in tempo a mostrarmi quello destro che esplode un mortaio, in fondo alla strada, e corre via. Perché aspetti e muori, ad Aleppo. E niente è più feroce del primo bombardamento. Quando qualcuno, lì sotto, è ancora vivo, e senti le voci, le urla, tra la polvere, mentre ancora non distingui nulla, saa'idni! saaa'idni!, implorano, aiuto!, aiuto!, e come questa donna, adesso, siamo a Soukkari, davanti alle urla dei suoi due nipoti, 17 e 18 anni, e i parenti che la trattengono, lei che cerca di svincolarsi, e cade, si rialza, urla, saa'idini! saa'idni!, ed è il momento più atroce, i fratelli, i padri, gli amici, tutti che li trattengono, e loro che si precipitano sulle macerie, così, a mani nude, e subito, un altro elicottero che arriva, puntuale, volteggia, sadico, mentre tutti corrono, ancora, e non si capisce più dove, ora, tutti che si svincolano, che cadono, e si rialzano, tra le urla, il frastuono delle pale, la polvere, il sangue, l’esplosione. Perché muori, ad Aleppo. Nient’altro.
Le strade sono in preda alle bande criminali
La città è divisa in due: metà sotto il controllo dei ribelli, metà sotto il controllo del regime. E a settembre nella metà est, nella metà dei ribelli, un nuovo regime, quello di al Qaeda, ha sostituito il vecchio. Ma oggi neppure ha più senso parlare di un regime, qui, si tratti dei ribelli o di Assad: perché Aleppo, semplicemente, è terra di nessuno. Preda di bande criminali. I check-point sono sostanzialmente scomparsi: i ribelli sono tutti al fronte. Dopo essersi dedicati più a saccheggi e estorsioni che al governo della città, e soprattutto, dopo essersi trucidati in scontri interni, spianando così la strada alla controffensiva di Assad, sono ora impegnati a tagliare le vie di rifornimento con Damasco, oltre che in un’operazione diversiva a sud-ovest, in provincia di Latakia. I nostri analisti seguono gli sviluppi militari passo passo, mappa alla mano, chi avanza, chi arretra: ma chiunque avanzi, chiunque arretri, in realtà nessuno governa più niente, qui è vita allo stato brado. Nessuno controlla più nessuno. Non si conquistano che macerie. L’unico segno visibile di autorità è all'ingresso del Karaj al-Hajez, più comunemente noto come “il viale della morte” perché è il punto di passaggio tra le due metà di Aleppo: ed è sotto il tiro costante dei cecchini di Assad. Per chi vive a est, è fondamentale. Per tanti, tantissimi, la sola fonte di reddito è il salario di dipendenti statali. Da ritirare a ovest. O il commercio di frutta, carne, verdura, perché a ovest i prezzi sono più alti: e vendi un chilo lì per ricomprarne due qui. Ma soprattutto, a ovest non sei sotto bombardamento. E hai gli aiuti umanitari. Gli sfollati sono tutti là. E quindi è qui, al Karaj al-Hajez, l’unico segno visibile di autorità. Gli islamisti di al Qaeda prima hanno vietato il trasporto di cibo. Ora hanno costruito un muro. Non discutono più di politica, i siriani. La guerra, ormai combattuta essenzialmente da stranieri, jihadisti da una parte, Hezbollah e iraniani e mercenari sparsi dall’altra, sembra non interessarli più. Non ti parlano più di “aree liberate”. Ora è solo: Aleppo Est e Aleppo Ovest. “L’Esercito Libero avanza, avanza, sembra stia per vincere, e all'improvviso, non arrivano più armi. E il regime passa al contrattacco, allora. Avanza, avanza: sembra stia per vincere e all’improvviso, all’Esercito Libero arrivano nuove armi. Ed è così da mesi”, riassume Alaa Alloush, uno degli ultimi attivisti ancora qui. Ancora vivi. “Siete tutti lì a discutere dell’opportunità di un intervento esterno. Ma l’intervento esterno, qui, è già in corso. Abbiamo piuttosto bisogno di un intervento interno: che la Siria sia restituita a noi siriani”. Perché l’unica priorità, qui, è sopravvivere. Elicotteri, aerei, aerei, elicotteri: non c’è tregua. E a sera, non ti rimane che rannicchiarti in un angolo: terrorizzato. Su Aleppo Today, la televisione locale, il bollettino dei morti scorre come i titoli di coda, in basso, costante, mentre alla finestra, nel buio, ogni dieci, venti, trenta minuti, lo spettro di Aleppo ricompare nel lampo di un’esplosione. Continuo a guardare nervosa l’ora. Ad aspettare l’alba: ma sono l’unica, è un’abitudine di un’altra vita. Perché la sola differenza tra la notte e il giorno, qui, è che di notte neppure puoi correre via. La notte la guerra, ad Aleppo, si fa assassinio. Non si combatte: si muore e basta. A caso. Perché bombardano, qui, bombardano, bombardano. Nient’altro.
il Fatto 27.4.14
Usa case a NY. I cinesi superano i russi
I cinesi alla conquista di Manhattan: per la prima volta si affermano come i maggiori acquirenti immobiliari superando i russi. A caccia di paradisi sicuri, i ricchi cinesi investono nell’immobiliare a New York; sono primi sia per il volume sia per il valore delle case acquistate.
La Stampa 27.4.14
Pechino
Al Salone del primo mercato mondiale brilla il lusso e la sportività dei marchi europei
di Corrado Canali
Da New York a Pechino. Due Saloni in contemporanea o quasi, l’uno dall’altro capo del mondo rispetto all’altro. Era già successo l’anno scorso con le rassegne di Tokyo e Los Angeles: non è, dunque, una novità assoluta. Di sicuro un impegno che si raddoppia per le Case, tanto che sono molte le novità esposte in entrambi gli show. Quello di Pechino resta, però, un evento cruciale non solo perché la Cina è il primo mercato al mondo per veicoli venduti, ma soprattutto perché viene considerato il mercato del futuro, oltre che la mecca delle sportive e delle auto di lusso. Non a caso i brand fiori all’occhiello del made in Italy, Ferrari e Maserati, sono presenti in forza.
Un logo speciale per celebrare «l’anno del Cavallo» e la nuova Ferrari California T al debutto asiatico rappresentano il doppio evento proposto da Maranello. Il logo è una edizione speciale del Cavallino Rampante in forma di sigillo imperiale nel quale spicca la scritta «Che l’anno del Cavallo porti successo» e combina la millenaria tradizione cinese della scrittura, della calligrafia e dell’incisione dei sigilli con il logo e il colore che rappresenta l’eccellenza italiana nel mondo, il Rosso Ferrari.
Eccellenza che si ripropone nell’ultimo gioiello, la Ferrari California T affiancata nello stand di Pechino da un’altra magica Rossa, la 458 Speciale, mostrata per la prima volta al pubblico cinese. Maserati espone l’intrigante concept Alfieri, che diventerà presto un modello di serie: un sogno che si avvera. Intanto il Tridente continua la crescita in Cina: 2200 le unità vendute nel primo trimestre di quest’anno, poco meno delle 2600 immatricolate negli Usa che resta il primo mercato al mondo. Ma un altro marchio del Gruppo FCA conta di espandere qui la propria presenza. È Jeep che ha annunciato la realizzazione di una nuova fabbrica ( operativa nel 2015) e produrrà tre modelli nel Paese del Dragone. Jeep nel 2013 ha consegnato 731.000 auto nel mondo, e 60.000 in Cina.
Numerose come sempre le novità dei costruttori europei, ma anche giapponesi e coreani non sono da meno. Fra quelle pronte per il debutto, l’attenzione è puntata sul primo crossover compatto di Lexus, l’NX in vendita da noi in autunno nella sola versione ibrida. Svelato a Pechino anche il restyling della crossover Touareg, mentre sempre Volkswagen festeggia i 40 anni della Golf con una Concept estrema da 400 Cv sotto al cofano. Una delle stelle della rassegna cinese, almeno fra le concept-car, è l’intrigante Coupè Suv di Mercedes: una rivale annunciata dalle Bmw X6, in arrivo sul mercato già l’anno prossimo. Protagonisti a Pechino anche i due marchi del Gruppo francese PSA (Peugeot e Citroën). La Casa del Leone presenta una lussuosa berlina, la Exalt, destinata per ora solo al mercato cinese. Proprio a Pechino Peugeot ha ufficializzato il programma della sua partecipazione alla Dakar 2015, un ritorno dopo 25 anni dalle vittorie della mitica 205 T-16. Citroën, invece, fa debuttare al Salone un Suv compatto, il DS 6WR, il primo col marchio dei modelli più esclusivi ddel Double Chevron. C’è DS (che qui è un brand a parte) sul cofano al posto del tradizionale Citroën: progettato per la vendita in Cina, non è escluso che arrivi anche da noi.
Tra gli altri marchi premium europei, Audi espone l’intrigante prototipo TT Offroad che sarà la base di un futuro modello destinato ad ampliare la gamma, mentre Bmw ha la Vision Future Luxury che anticipa la futura Serie 7. Porsche, infine, propone le nuove Cayman e Boxster nell’allestimento più completo, GTS, in vendita da maggio al prezzo rispettivamente di 72.836 e 76.740 euro.
Repubblica 27.4.14
Quella lobby europea delle grandi imprese che fa il tifo per Putin
di Federico Rampini
NEW YORK. LA Russia ha una “quinta colonna” in Europa occidentale e la sta usando con forza. La lobby delle grandi aziende europee che hanno interessi economici a Mosca, è mobilitata in favore di Vladimir Putin e contro le sanzioni del G7. La denuncia è del New York Times, in un’inchiesta di prima pagina. La firmano i corrispondenti del quotidiano Usa da Berlino, perché il centro dell’offensiva filorussa è in Germania. Il retroscena ricostruisce nei dettagli una manovra coordinata, che ha la sua cabina di regìa a Mosca, e muove come pedine le imprese dell’Europa occidentale, le quali a loro volta fanno pressioni sui rispettivi governi. L’obiettivo: minimizzare i danni per l’economia russa, dalle sanzioni e dal declassamento del rating, in una fase in cui Mosca è colpita da crescenti fughe di capitali (50 miliardi di dollari in tre mesi).
L’Europa è più facilmente ricattabile dell’America, i numeri parlano chiaro: l’interscambio tra Ue e Russia sfiora i 400 miliardi di dollari annui, mentre tra Russia e Stati Uniti è molto meno di un decimo (per la precisione 26 miliardi di dollari nel 2012, ultimo anno per il quale ci sono statistiche ufficiali). Putin fa leva su questi interessi economici, per una campagna che svuoti preventivamente la minaccia delle sanzioni: garantendo che quelle ritorsioni saranno minime perfino nell’eventualità di una sua nuova aggressione armata dentro i confini dell’Ucraina. Le imprese più attive in Europa occidentale in quest’azione di lobbismo filorusso si trovano nel settore dell’energia e dei suoi derivati. Il New York Times cita tra i più eloquenti Rainer Seele, presidente del gruppo chimico Wintershall, controllato dal colosso tedesco Basf. «Non dobbiamo voltare le spalle alla Russia, né dal punto di vista degli affari energetici, e neanche politicamente », dichiara il top manager tedesco. Un altro chief executive che si espone apertamente è Gerhard Roiss, numero uno dell’azienda energetica austriaca Omv (petrolio e gas), secondo il quale «non bisogna parlare di sanzioni se non si conoscono le conseguenze delle sanzioni». Secondo Roiss «non dobbiamo usare il gas come un’arma, perché l’Europa da 50 anni ha sviluppato una divisione del lavoro, in base alla quale l’energia viene esportata dalla Russia all’Europa mentre altri prodotti come le automobili e i macchinari vengono esportati dall’Europa alla Russia». Un linguaggio analogo viene usato dalla multinazionale petrolifera Bp, inglese, il cui portavoce Tony Odone dichiara: «I nostri interessi in Russia non sono coinvolti dalle misure fin qui imposte».
Dietro queste dichiarazioni esplicite, ufficiali e virgolettate, c’è stato un lavoro “preparatorio” nell’ombra: una tournée in Europa occidentale dei vertici della Gazprom, l’ente energetico di Stato che gestisce gran parte dell’export di gas dalla Russia. Gazprom ha mandato i suoi top manager in giro per le capitali europee, per trasmettere un messaggio: attivatevi in nostra difesa, perché una crisi nei rapporti economici tra Europa e Russia danneggerebbe tutti. Una controffensiva di relazioni pubbliche ad alto livello, che ha visto il numero due di Gazprom Alexander Medvedev contattare anche i governi e il commissario Ue all’energia, Guenter Oettinger. Mentre Obama tenta di stringere i tempi per un nuovo giro di sanzioni, Putin scatena la lobby pro-russa per svuotarle in anticipo. Un’avvisaglia si era avuta un mese fa quando aveva ricevuto al Cremlino il chief executive della Siemens, Joe Kaeser, per ammonirlo sui danni che l’Europa occidentale infliggerebbe a se stessa adottando le sanzioni. È ancora Seele della Wintershall-Basf a ribadire lo stesso concetto: «Le sanzioni non farebbero male solo alla Russia, ma all’Europa tutta intera». Un messaggio che la lobby filo-russa può estendere dall’energia a tutti gli altri settori dove l’intreccio d’interessi si è rafforzato negli ultimi anni. Dalla finanza alle squadre di calcio, la nuova ricchezza degli oligarchi russi ha messo radici profonde in tutti quei paesi dai quali l’Ucraina sta aspettando un gesto di solidarietà.
Barack Obama ha continuato a seguire la crisi ucraina nel mezzo della sua tournée asiatica, passando notti in bianco a Seul, per convocare gli alleati europei in teleconferenza. Ma il presidente americano tocca con mano le resistenze degli europei. Secondo la Casa Bianca gli europei continuano a premere perché le sanzioni siano minimaliste, cioè mirate a colpire solo una ristretta lista di individui e non aziende né tantomeno interi settori dell’economia russa.
Repubblica 27.4.14
Amos Gitai
il regista israeliano di “Kadosh”, che per le sue posizioni pacifiste è stato anche in esilio dieci anni
Ha un obiettivo (“La convivenza tra culture”) e un’ossessione: la giusta distanza
«Se sei troppo dentro le cose non le vedi più, se sei troppo lontano non le capisci»
intervista di Cloe Piccoli
TEL AVIV. È UN AFFABULATORE Amos Gitai, ogni cosa è un racconto, ogni storia un’immagine, mentre seduto sulla terrazza poco sopra il livello della strada del Cantina, uno dei suoi ristoranti favoriti di Tel Aviv, racconta la sua vita. L’aria della sera è tiepida, sono le sette, in un chiosco di fronte al ristorante sulla Rothschild, una delle più grandi e trafficate arterie della città, servono aperitivi e succo di melograno. Alle nove alla Cinématèque ci sarà una proiezione speciale di Ana Arabia il suo ultimo film che ha vinto il premio Bresson in concorso a Venezia, proiettato qui per alcuni amici che non l’hanno ancora visto.
«Ana Arabia è una donna ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, che ha sposato un uomo arabo da cui ha avuto cinque figli e venticinque nipoti» racconta Gitai, occhi castani intensi, una voce soave ma decisa. «È una storia vera, quella di una comunità unita e divisa in cui convivono arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani. Nel film frammenti di memorie ricostruiscono un’unica realtà in equilibrio fra differenze e conflitti. Volevo mostrare la compattezza paradossale di questo contesto impossibile. Per questo l’intero film è girato in un unico piano sequenza, senza tagli né interruzioni». Di
fare il regista lo decise in una situazione drammatica. «Era il 1973 quando sono stato richiamato dall’esercito di Israele e catapultato da Berkeley, dove studiavo architettura, direttamente sul fronte della guerra del Kippur. Facevo parte delle unità di soccorso in elicottero. Ci stavamo dirigendo verso la Siria, quando un missile ci ha colpiti. Il co-pilota che mi stava a fianco, un ragazzo di vent’anni come me, è stato letteralmente decapitato. Noi siamo precipitati. Lì ho capito che volevo dedicarmi alla storia: capirla, raccontarla, condividerla. Ho iniziato a girare documentari in Super 8, e poi film, e a fare fotografie».
Le prime, quelle del 1973, sono scatti della guerra del Kippur: uniformi di soldati, fra cui la sua e quelle dei suoi compagni, appese a grucce, come vite in bilico. Sono immagini toccanti in mostra da Thaddaeus Ropac a Parigi, dove La Cinémathèque française ha inaugurato a febbraio una sua nuova retrospettiva (fino al 6 luglio), accompagnata da un libro, Amos Gitai Archi tecte de la mémoire (Gallimard), in cui il regista dialoga con il curatore Hans-Ulrich Obrist.
«Uno dei temi del libro, che poi è un aspetto fondamentale del mio lavoro, è trovare la giusta distanza per raccontare le situazioni. Se sei troppo dentro non le vedi più, così come se sei troppo lontano non le capisci. In genere i media diffondono immagini di Israele che sono stereotipi dei buoni e i cattivi. Ma non esistono solo angeli e bastardi in Israele. Ognuno è sia un angelo che un bastardo. Siamo pieni di contraddizioni. Il cinema mi permette di osservarle, e di raccontare una complessità storica non facile da capire». È un uomo diretto Gitai, come i suoi film.
L’ambizione a una convivenza pacifica fra culture, popoli e religioni è al centro del suo lavoro. Lo è nei film di guerra come Kippur, in quelli dedicati alla religione come Kadosh ambientato in una Gerusalemme chiusa nell’ortodossia religiosa, e nei più di ottanta fra film e documentari, a volte autobiografici, che l’hanno reso una star internazionale, ma anche una voce scomoda all’interno di Israele, per le sue posizioni pacifiste e laiche sviluppate a Berkeley, nella California della controcultura. Il dissenso verso Israele si manifesta in varie occasioni tanto che nel 1983, dopo il suo film Journal de Campagne, deve lasciare il paese per un esilio in Francia che dura fino al 1993. Ora la sua vita è fra Tel Aviv, Parigi e i festival cinematografici di tutto il mondo.
Ordina calamari e melanzane, e prima di riprendere a raccontare sistema il registratore su un bicchiere, in modo da avvicinare il microfono. «Vede? È sempre una questione d’equilibrio, sia in architettura che in politica» sorride mentre ripensa all’architettura, all’utopia di sua madre e suo padre e di un’intera generazione, quella di Ben Gurion, che sognavano di costruire un paese nuovo e diverso. È cresciuto con quest’idea istillata da genitori speciali: Efratia Gitai, ebrea russa nata in Israele, insegnante e intellettuale esperta di testi biblici con una cultura mitteleuropea, che ha lasciato le sue memorie in un libro uscito in Italia nel 2012 per Bompiani ( Storia di una famiglia ebrea) e Munio Weinraub, ebreo tedesco che ha cambiato il suo nome in Gitai, architetto del Bauhaus arrivato ad Haifa in seguito all’avvento del nazismo in Germania. «Era il 1905 quando mio nonno materno è partito in nave da Odessa per Alessandria d’Egitto, e da qui ha continuato il viaggio con i cammelli fino ad Haifa, con l’idea di fondare un nuovo Stato. Mia madre è nata qui, ha fatto la vita del kibbutz, ma a un certo punto sentendosi un po’ provinciale», scherza Gitai, «ha deciso di fare un viaggio in Europa. Era il 1929, è andata a Vienna, ha conosciuto Freud, visto i musei e gli studi degli artisti» racconta. «Dall’Austria è arrivata in Germania, e nel 1932, a Berlino ha sentito parlare Hitler a un comizio. Il che le ha fatto decidere di tornare immediatamente ad Haifa. Decisamente non era aria» ride amaro.
«Mio padre invece era un architetto. Quando è arrivato al Bauhaus, ovvero l’avanguardia della progettazione in Europa, Gropius gli ha detto che per progettare avrebbe dovuto imparare prima a fare il falegname, per capire come si costruisce un oggetto. L’anno dopo ha iniziato a lavorare con Mies van der Rohe. Ma quando le leggi razziali sono diventate più dure si è trasferito in Svizzera. E poi quando anche la Svizzera ha iniziato a rimandare gli ebrei tedeschi in Germania è partito per Haifa. È lì che si sono incontrati i miei. In un cinema. Avevano tutti e due quarantatré anni e un sogno, una visione: costruire un paese».
Pochi anni dopo, nel 1950, nasce Gitai che fa parte della prima generazione dello Stato d’Israele. Munio Weinraub Gitai, a cui il MoMa di New York ha appena dedicato una mostra di disegni sull’architettura comunitaria del kibbutz, è stato fra i principali promotori di quella che è conosciuta come la città bianca di Tel Aviv, (oggi patrimonio dell’Unesco), ovvero quella vasta parte di città realizzata in stile Modernista come simbolo di una rinascita anche in senso etico e politico. «Mio padre mi diceva sempre che il Modernismo non è uno stile ma un concetto, che la forma distilla un’idea. È così sia per l’architettura che per il cinema, almeno lo è per miei film: c’è una relazione stretta fra forma e narrativa». La forma distilla la narrazione. Gli ambienti di Kadosh, per esempio, chiusi negli spazi angusti di Gerusalemme raccontano l’ortodossia radicale delle religioni. «Gerusalemme è una città simbolo, drammatica nella sua architettura, quasi astratta, di grande impatto emotivo. Il muro occidentale è forse uno dei monumenti più estremi della storia delle religioni, è solo una superficie».
Se in Kadosh la forma evoca chiusura, il road movie Free Zone racconta invece il desiderio di libertà, la ricerca della terra promessa in senso fisico e metaforico. «Nel film tre attrici di cultura e origini diverse attraversano insieme su un’auto zone e confini. Insieme è la parola chiave, la dimensione fondamentale, la condizione imprescindibile per la conquista della libertà in questo film come nella storia» precisa Gitai, che scandisce quest’idea di libertà in paesaggi e orizzonti, deserti e montagne, strade e città che scorrono per tutto il film, attraversando e ridisegnando confini e territori. E conclude: «La fine di questa storia sarà disegnata dalle prossime generazioni».
l’Unità 27.4.14
Gramsci, l’evoluzione del pensiero
Il potere delle idee e della cultura Ecco la politica che cambia la società
L’anticipazione In questa pagina un brano della ricerca trentennale del filosofo,
in libreria a fine mese L’intero lascito gramsciano riletto nella sua integrità
di Alberto Burgio
L’EGEMONIA È L’ALTRO DELLA COERCIZIONE. Per usare una coppia classica in filosofia politica, potremmo dire che l’una riposa sull’autorità (prestigio, autorevolezza del dirigente), l’altra sul potere del dominante. O, se si preferisce, che si deve pensare al dominio come a un semplice potere di fatto, a quello egemonico come a un potere riconosciuto e, in questa misura (non necessaria mente connessa alla sfera giuridica), legittimo.
Ma dove risiede, in ultima analisi, la differenza tra le due modalità? Evidentemente in ciò, che nell’egemonia è sempre contenuto un elemento di consenso assente nella coercizione pura. In effetti si può convenire su un fatto. Resta, tra consenso e forza, una differenza di fondo: dove c’è consenso vi è sempre responsabilità anche di chi acconsente; dove il consenso è del tutto assente, è responsabile soltanto chi comanda. In questa misura il potere politico (che almeno nella modernità implica sempre, secondo Gramsci, egemonia) differisce essenzialmente dalla nuda violenza (la più autoritaria delle società non è comunque un campo di concentramento e nemmenouna prigione).
Se tuttavia passiamo dal terreno astratto delle determinazioni concettuali al piano concreto della fenomenologia storica, ci si presenta uno scenario altrimenti complesso. O, per meglio dire, ambiguo. (…)
Ciò che dall’esperienza storica emerge è, in una parola, la configurazione problematica del consenso politico. Che la storiografia pone in rilievo, coniando la figura del «consenso implicito » nella quale riecheggia la nozione teologica (e weberiana) di fides implicita (l’adesione in base a motivazioni oscure e tra loro contraddittorie). E che la teoria politica tematizza descrivendo, a fronte della figura ideale dell’«accordo normativo » su ciò che si ritiene corrispondente ai propri principi, un ampio spettro di situazioni ibride (allineamento, adattamento, acquiescenza pragmatica, apatia) nelle quali il consenso sfuma nella subordinazione di fatto.
La radice di tale oggettiva ambiguità sembra consistere in ciò, che il consenso si costituisce sempre nel quadro di relazioni sociali o politiche asimmetriche, sulle quali influisce, pure in gradi molto diversi tra loro, l’azione di poteri coercitivi. Anche il rapporto pedagogico più espansivo, volto a generare consapevolezza critica e autonomia, implica un pur minimo grado di coercizione, quindi, almeno in partenza, il condizionamento del consenso che si viene «educando». Per questa ragione Gramsci respinge le critiche indiscriminate che non considerano l’inerenza di aspetti coercitivi più o meno espliciti a qualsiasi forma di intervento pedagogico, compreso quello esercitato dal «razionalismo» proprio dell’ambiente in cui si vive.
Ma se, nel migliore dei casi, lo sviluppo delle capacità riflessive permette di sottoporre a critica i criteri di giudizio precedentemente assunti e di ridurre al minimo (mai, forse, di azzerare) i condizionamenti esterni (…), di norma il consenso politico si costituisce sulla base di una massiccia opera di persuasione e di convincimento (si rifletta sull’etimo di questo termine), quando non di indottrinamento e di vera e propria manipolazione (nel qual caso si potrà dire che nell’«acconsentire » si risponde in realtà a uno stimolo, e si adempie a qualcosa di molto somigliante a un compito assegnato). A sua volta, il fatto che tra consenso libero e consenso indotto sia difficile istituire distinzioni nette aiuta a comprendere perché, ben distinti tra loro e persino opposti sul piano logico (in astratto), «direzione» e «dominio » si presentino in realtà (in concreto) sempre mescolati tra loro, come ingredienti essenziali, entrambi, dell’esercizio del potere politico. (…)Ciò che, a nostro parere, la teoria gramsciana dell’egemonia (soprattutto l’affermazione della sua ubiquità e della funzione egemonica del diritto e dell’economia) mette in evidenza col focalizzare il continuum che collega consenso e forza, è precisamente l’oggettiva ambiguità del consenso politico. È vero che tutto il discorso gramsciano (sull’egemonia e, a monte, sullo Stato «integrale ») nasce dal riconoscimento della centralità del discorso pubblico ai fini dell’azione politica, quindi dalla presa d’atto della necessaria base consensuale del potere politico moderno. Ma questo Gramsci considera in tutta la sua problematicità, senza ingenui o strumentali entusiasmi.
Ineludibile componente consensuale del potere significa, ai suoi occhi, necessità di «crea(RE) preventivamente» ciò che «si chiama “opinione pubblica”» (...).
Se a questo punto consideriamo nel suo complesso il discorso gramsciano sull’egemonia, esso ci appare attraversato da una tensione feconda, nella misura in cui, per un verso, prende le mosse da una netta distinzione tra i concetti di «direzione » e di «dominio» che, per l’altro, mette in crisi. Si tratta di una contraddizione? Certamente sì. Che però ci pare rifletta una realtà ambivalente, che la teoria correttamente riconosce e problematizza.
Ci sembra, in altre parole, che l’analisi gramsciana dell’egemonia si collochi precisamente nella distanza - non di rado minima e sempre sfuggente - che separa il consenso libero (informato e autonomo) da quello ottenuto mediante un’opera di efficace convincimento. E che, nei Quaderni, lo studio delle relazioni egemoniche sia il luogo privilegiato dell’analisi del carattere ambivalente della relazione politica nel «mondo moderno». Che soltanto uno sguardo dialettico è in grado di cogliere in tutte le sue manifestazioni.
Ma la prospettiva dialettica si esplica in primo luogo nel riconoscimento delle contraddizioni immanenti nei processi e nei quadri storici, e delle loro potenzialità evolutive. (…)
L’egemonia è centrale nella modernità, per le ragioni che si sono dette in precedenza. È un’espressione della dinamica espansiva del dominante. Ed è caratteristica di una società nella quale la comunicazione ha un ruolo strategico nella relazione sociale, che tende per l’appunto a configurarsi come agire comunicativo. Tutto ciò significa che, pur andando di pari passo con la pressione coercitiva, la dinamica egemonica apre spazi alla soggettività, rivelando un altro versante (in questo caso progressivo) della sua ambivalenza. (…)Si può dire che ogni forma di comunicazione tra gli esseri umani instauri una relazione cognitiva e sia per se stessa una potenziale fonte di consapevolezza, benché in capo a un processo aleatorio e tortuoso. Ogni scambio comunicativo (la trasmissione di informazioni e di idee) comporta e sviluppa elaborazione, quindi innesca esperienze riflessive potenzialmente critiche. In questo senso la relazione egemonica è irriducibilmente altra dal soggiogamento immediato prodotto dalla coercizione. Il soggetto subalterno non è soggiogato, e la stessa iniziativa egemonica «rischia» di nutrirne la creatività sovversiva, attivando strategie di resistenza.
È qui in gioco una contraddizione insanabile, che inerisce al carattere oggettivamente progressivo dello sviluppo capitalistico. Se per un verso l’ubiquità dell’apparato egemonico offre al dominante infinite opportunità di penetrazione ideologica del corpo sociale, per l’altro lo sovraespone su un territorio (lo spazio ideologico) permeabile alla «prassi rovesciante» perché luogo della formazione dell’autocoscienza e dello sviluppo della riflessività. Su questo terreno la soggettività elabora coscienza: quindi, potenzialmente, criticità e propensioni anti-sistemiche.
A leggere bene il § 35 del quaderno 7 a proposito del valore «metafisico» della teoria-prassi leniniana dell’egemonia, sorge il sospetto che proprio questo Gramsci intenda sostenere: che la dinamica egemonica, portando con sé la trasformazione del pensiero, della cultura, delle forme ideologiche, apra la via verso una metamorfosi della soggettività. Naturalmente che cosa poi ne segua in concreto non è decidibile in partenza. Sappiamo che, per Gramsci, è cruciale il momento organizzativo, e che luogo-chiave dell’organizzazione del soggetto rivoluzionario è il partito comunista, al quale elettivamente le prime pagine del fondamentale quaderno 13 fanno riferimento allorché attribuiscono al «moderno Principe» il compito di farsi «banditore» e «organizzatore di una riforma intellettuale e morale», e motore di «un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna».
Il partito deve, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia della classe operaia, la quale - non dimentichiamolo - deve «essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo». Quindi concepire sin d’ora germi della «nuova società». Costruire linguaggi, codici, forme di relazione e di vita, esperienze materiali e immateriali sottratti al dominio e liberati dallo sfruttamento.
l’Unità 27.4.14
Massimo Osanna: «Pompei bene mondiale»
Il soprintendente appena insediato vuole un comitato internazionale
di Luca Del Fra
POMPEI: EPPUR SI MUOVE? NOMINATO SOPRINTENDENTE A GENNAIO, INSEDIATOSI SOLO A MARZO A SEGUITO DI VARIE POLEMICHE, MASSIMO OSANNA NON È UN DIRIGENTE DEL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI MA UN PROFESSORE ASSOCIATO DI ARCHEOLOGIA DELL’UNIVERSITÀ DELLA BASILICATA. Alla sua competenza e alla sua energia è affidata la più rognosa grana della storia del patrimonio culturale, lo straordinario sito archeologico vesuviano, da anni al centro di un malefico intreccio: incuria, interessi economici più o meno trasparenti, incompetenze e ritardi della politica, lentezze burocratiche.
Lanciato tre anni fa, il Grande progetto Pompei doveva affiancare la soprintendenza per utilizzare 105 milioni di euro di fondi europei, finora ha stentato a partire; nel frattempo gli interessi si sono fatti più aggressivi: anche a causa della crisi economica Pompei con i suoi finanziamenti fa gola. Perché sulle falde del Vesuvio si gioca una partita pesante, da cui dipende la credibilità del sistema pubblico della tutela.
Professore Osanna, vi siete resi conto che siamo ai tempi supplementari?
«Ne sento personalmente la responsabilità, Pompei è divenuta lo specchio della cultura italiana, il simbolo negativo. Ci sono tanti altri siti, altrettanto splendidi, con gli stessi problemi a cominciare dai crolli: eppure nessuno ne parla».
Come risponderete?
«Sul campo: le soprintendenze hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale, ma devono aprirsi, evolversi, allargare le loro competenze all’archeologia globale».
Faccia un esempio.
«Pensiamo al rapporto tra archeologia e paesaggio. A Torre di Satriano ho diretto lo scavo di una reggia fatta costruire da un principe locale nel VI secolo avanti Cristo. Grazie all’apporto di specialisti di vari settori abbiamo ricostruito il paesaggio che la circondava. Intorno alla reggia non c’era una città come ci si aspetterebbe, ma pascoli di pecore, quindi pecunia, il potere economico che veniva dal controllo delle vie della transumanza e delle greggi. Intorno ai pascoli, i campi di grano e poco più oltre i boschi. Abbiamo dunque restituito non solo i resti di un edificio, ma un modello di società e di antropologia».
Ma a Pompei gli scavi già ci sono, ed è difficile gestire quanto è alla luce?
«Bisogna ristudiare da capo quello che è stato scavato evitando nuovi scavi. Anche perché le tecniche conoscitive dell’archeologia in questi anni sono molto cambiate. Da una parte conoscere meglio il sito aiuta a mantenerlo in vita, dall’altra una seria e attraente divulgazione scientifica porterà il pubblico ad amarlo ancora di più. Pompei è un caso eccezionale per molti motivi: dalla sua fondazione nel VI secolo si sono sovrapposte civiltà e culture molto diverse. Quella etrusca, che aveva una comunità a Pontecagnano, quella greca, presente a Cumae naturalmente quella romana. L’interesse per l’incrocio e il meticciato di culture è un portato del nostro tempo».
Servono però competenze e specialisti di ogni tipo: come pensate di trovarli?
«Sì, paleobotanici, archeozoologi, studiosi, storici, geologi, esperti del patrimonio culturale. Appena arrivato ho detto subito che apriremo le porte alle università a agli istituti di ricerca, che lavoreranno sul sito coordinati dalla soprintendenza». Ea livello internazionale? «Per questo sto organizzando anche un primo incontro di specialisti di vari settori dal titolo Pompei oggi e domani, l’idea è invece allargare le competenze anche a livello internazionale, creando un comitato che segua e periodicamente controlli i restauri, l’andamento del sito, valutando i progetti, dando suggerimenti. Anche perché Pompei non può essere un affare solo italiano: è un patrimonio mondiale, tutelato dall’Unesco».
Allora veniamo ai problemi. L’articolo de «l’Unità» suirecentiedeludentirestauridelladomusdelCriptoporticochevolevaaprireunadiscussionehainvecescatenatounapolemica: quali le vostre reazioni?
«Quando è uscito l’articolo mi ero appena insediato: quello che ho fatto è stato prendere tutti i progetti per capire se ci fossero dei problemi. Il primo è che non ci possono essere progetti a pioggia, fatti ognuno da uno specialista, magari bravissimo, ma per conto suo. Alla fine a Pompei ci saranno cento tipi di coperture diverse: occorrono delle linee guida e un coordinamento generale e anche a questo dovrebbe servire il comitato di lavoro, perché ogni restauro ha delle sue specificità, ma va inserito in un contesto».
Come procede il Grande Progetto Pompei (GpP)?
«Fino a maggio noi, cioè la soprintendenza, siamo la stazione appaltante, poi le consegne passano al GpP e al generale Nistri che lo dirige. A noi resterà la manutenzione ordinaria del sito. I nuovi progetti li cureranno la soprintendenza e i tecnici, architetti, archeologi e restauratori del GpP, o ditte esterne. Comunque dovranno essere validati da noi».
E Invitalia che ruolo avrà?
«Invitalia affianca il GpP da un punto di vista amministrativo e potrà fare progetti sulla fruizione, ma non sui restauri».
I fondi dell’Unione Europea, malgrado i ritardi riuscirete a impiegarli nei tempi prescritti?
«A marzo, quando sono arrivato alla Soprintendenza, ho espresso qualche perplessità al riguardo. Con Nistri però abbiamo stilato un cronoprogramma serratissimo per riuscire a utilizzare, e bene, quei fondi». Cela farete? «Cercheremo di farcela».
Sta partendo un Piano della conoscenza dal costo di 8milioni di euro :non è un po’ tardi, visto che i tempi dei finanziamenti europei scadranno tra pochi mesi?
«I ritardi sono evidenti, ma questa banca dati diagnostica sarà utilissima soprattutto dopo il GpP, per la futura manutenzione di Pompei». E i lavori per affrontare il dissesto idrogeologico, che secondo molti è la causa dei continui crolli? «Partiti anche quelli, ma non è opera mia: sono iniziati al momento del mio insediamento».
Il GpP, a meno che l’Unione Europea non lo rifinanzi in futuro, dovrebbe concludersi in un paio di anni: sarà un intervento spot o qualcosa di stabile resterà?
«Con il ministro Dario Franceschini stiamo lavorando a questo: dotare la soprintendenza di una serie di figure tecniche, strutturisti, archeologi, geologi, magari presi tra quanti avranno lavorato nel GpP. Ho trovato molta disponibilità».
Professore, a sentire lei a Pompei andrebbe tutto bene…
«Per carità, i ritardi e i problemi sono tantissimi, spesso banali e di facile soluzione: in 60 giorni abbiamo riaperto tre domus bellissime, abbiamo rimesso a posto le cancellate di ferro, cercato di rimuovere quanto più possibile quel nastro di plastica bianco e rosso da cantiere e installare dei dissuasori con le corde. E non le nascondo che negli ultimi giorni mi sto occupando anche di fogne e di liquami».
Corriere 27.4.14
Diciotto custodi, due biglietti pagati
Come risollevare i musei siciliani Il caso emblematico di Ragusa
Gli esperti: un errore frammentare
di Marco Demarco
Due. Nel senso letterale di uno e due. Tanti sono stati, l’anno scorso, i visitatori paganti del museo archeologico ibleo di Ragusa. L’antico forno per la cottura dell’argilla, i frammenti della necropoli di Kamarina e il pezzo forte della raccolta, l’imponente bassorilievo del Guerriero di Castiglione, realizzato in un’unica lastra di calcare locale, hanno prodotto un incasso tondo di otto euro. In realtà, l’incasso avrebbe potuto essere il doppio, se i primi visitatori non fossero stati i genitori di due fratelli troppo piccoli per pagare, o addirittura meno, se per ironia della sorte ad accompagnare i piccoli non fossero stati mamma e papà, ma i nonni ultrasessantenni. Solo due paganti, dunque. Possibile? Certo. Ed ecco come lo ha spiegato Silvio Casarino, il responsabile del sito, a Mario Barresi de La Sicilia . L’anno precedente, il museo aveva staccato 449 biglietti, per un totale di 1.553 euro. Troppo poco, visto che nella struttura lavorano 18 custodi. A questo punto, meglio aprire i cancelli a tutti, gratuitamente. Il fax della Regione che comunica la novità arriva però il 2 gennaio, ed è troppo tardi per la famigliola che ha deciso di dedicare il Capodanno allo studio delle origini.
Al museo archeologico di Marianopoli, sette custodi, va un po’ meglio. L’incasso del 2013 è stato di 21 euro, ma solo perché qui la comunicazione regionale è arrivata più tardi, a febbraio. A Palazzo Varisano, a Enna, dove l’ordine di spalancare i cancelli è pervenuto solo a marzo, i visitatori paganti sono stati 12, per un totale di 16 euro, pari a un euro e 77 centesimi a custode, che sono 9. Può reggere un sistema simile?
Unica, anche tra quelle a statuto speciale, la Regione Sicilia gestisce direttamente tutti i beni culturali dell’isola. A conti fatti, nel 2013, l’intero patrimonio di musei, gallerie, teatri, castelli e parchi archeologici ha fatto registrare una crescita del 2% delle presenze, in tutto 16 milioni di persone, e del 19,23% delle entrate, che sono aumentate in assoluto di 2,6 milioni. C’è dunque chi canta vittoria. Ma a fronte dei 3,7 milioni di visitatori del teatro antico di Taormina, dei 3,2 milioni di turisti paganti della Valle dei Templi, o dei circa tre milioni di biglietti staccati nell’area archeologica della Neapolis di Siracusa, ci sono tutte le diseconomie degli altri siti. E il conto economico generale non sta in piedi. Il Castello a mare di Palermo ha avuto solo 176 visitatori, il museo civico di Polizzi Generosa 214 e l’area archeologica di Palikè, nonostante l’Antiquarium, la sala didattica e i supporti audiovisivi, neanche uno, così risulta dai dati ufficiali.
E allora? «Allora non va» commenta Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte alla Federico II di Napoli, in vacanza in Sicilia. «Guardo il Satiro danzante esposto a Mazara, in una struttura realizzata ad hoc dove non si può comprare nulla, neanche una cartolina, e mi chiedo: ma era proprio necessario costruire un museo a parte?». La Sicilia, spiega preoccupato il «benecomunista» Montanari, potrebbe essere il modello gestionale di chi, abolite le sovrintendenze, vorrebbe consegnare il patrimonio culturale alla discrezionalità della politica e già immagina musei in ogni comune, eserciti di custodi assunti per via clientelare, tagli di nastri elettorali. «Ci si illude— continua Montanari— che con i musei sia possibile arricchirsi, ma complessivamente i biglietti staccati in Italia, compresi anche quelli per vedere il Colosseo o il David, coprono appena il 15% del fabbisogno. La soluzione? Biglietti più alti, se si vuole, lì dove si consumano veri e propri riti di massa in ossequio alla cultura spettacolo e al conformismo, ma poi si consideri che la cultura vera deve essere invece accessibile a tutti».
Guai a «sfruttare» economicamente quadri e reperti archeologici, dunque? Massimo Lo Cicero, di orientamento neoliberale, ha insegnato per anni economia della conoscenza a Roma. «La verità — risponde — è che è difficile farlo. In Italia ci sono troppi musei, e troppi musei costano. Lo Stato non ce la fa ad amministrarli, e non solo non ci guadagna, ma ci rimette. Più che puntare a gestirli dovrebbe limitarsi a controllare». Cosa e chi? «Ecco il punto. Servono soluzioni originali, studiate caso per caso. Ronald Coase dedicò un suo famoso paper (articolo accademico, ndr ) ai fari nella teoria economica. Si accorse che quasi ovunque la loro gestione era garantita da fondi alimentati dalle vedove dei marinai. Vuol dire che per ogni museo bisogna capire chi ha interesse a promuoverlo e sostenerlo. Bisogna però guardare non all’opera d’arte, ma al sistema generale che le ruota intorno». Un esempio? Lo Cicero lo indica nella Cripta del Peccato originale, vicino a Matera, da molti indicata come la Cappella Sistina della pittura parietale rupestre. «Al restauro degli affreschi — spiega — ha provveduto la Fondazione Cariplo, milanese, ma alla gestione del sito provvedono cooperative di giovani locali che gestiscono i vigneti e i campi di grano circostanti». E funziona, basta telefonare per prenotare la visita.
Il Sole 27.4.14
Il discorso di Elena Cattaneo per il 25 aprile
Teniamo accese speranza e verità
di Elena Cattaneo
La scienza insegna la tolleranza verso idee diverse e il rifiuto dell'autoritarismo
Per la prima volta una personalità scientifica ha parlato a Milano per le celebrazioni del 25 aprile. Elena Cattaneo, scienziata e senatrice a vita, è stata invitata da Carlo Smuraglia, presidente dell'Anpi, che ha organizzato l'evento, a tenere il discorso di cui pubblichiamo una sintesi (disponibile su www.anpi.it).
Si dovrebbero cercare nella storia delle persone esempi, cioè scelte a cui guardare e da cui imparare. Io cerco di farlo, senza nemmeno lontanamente pensare di potere rivivere la forza morale di coloro che hanno fatto la Resistenza, che è cosa alta e d'altri tempi. Però sono curiosa per i ragionamenti di chi va oltre la contingenza personale, e in essi cerco la coerenza. Cerco di capire quale coraggio abbia spinto, sollecitato, sorretto quelle persone. Come hanno potuto e saputo organizzarsi proprio nella nostra città, Milano, nell'aprile del 1945, quelle persone per insorgere e liberarla. Mi interessa capire come hanno potuto e saputo credere di potere cambiare la storia di questo Paese in meglio. Ciascuno di loro era uno solo. Ma erano uniti da un senso di appartenenza a questo Paese che non potevano vedere trattato in quel modo.
Quegli esempi animano in modo analogo il mio lavoro, perché vorrei anch'io, come tanti altri colleghi, tenere accesa, idealmente, la stessa fiaccola che i docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e i cittadini che lo sconfissero non hanno lasciato spegnere più di 70 anni fa.
Mi occupo di scienza e del suo insegnamento. Ho il compito, con i miei colleghi, di costruire la conoscenza, quella che non è ancora scritta nei libri di oggi e che sarà rifinita su quelli di domani. Ho il compito di promuovere i saperi, di contribuire a dare speranze. Anche di fare da sentinella rispetto a tutte le situazioni che mirano a manipolare e piegare i fatti a interessi di parte, e che così facendo mettono a rischio la libertà, prima di tutto il resto.
Amo il mio lavoro. E penso che possa insegnare un comportamento di vita salutare. Perché insegna che l'onestà nella vita di una persona è tutto, che ogni lavoro fatto onestamente è fondamentale; che impegnarsi è un dovere. Questo lavoro mi ha insegnato ogni mattina a partire come se stessi andando sulla luna, tante volte senza nemmeno sapere dove sia la luna. Mi ha fatto capire che le mie idee, quelle che ho più fortemente amato, possono essere sbagliate.
E quindi mi ha insegnato un metodo per verificare se sono giuste o sbagliate. Il metodo consiste nel mettere alla prova le idee facendo degli esperimenti. Cioè nel portare quelle idee al bancone del laboratorio, dove devo mettere in fila tutti gli esperimenti che riesco a immaginarmi, per capire quali tra le mie aspettative sono sbagliate. E quali rimangono temporaneamente in piedi.
Il mio lavoro mi ha insegnato cosa significhi fallire. Ma anche a esplorare luoghi dove nessuno era mai stato prima. E dove hai due possibilità. Scappare o resistere. Nei nostri laboratori noi impariamo a resistere sperando in un traguardo per poi magari vederlo svanire e infine raggiungerlo proprio per non avere mai rinunciato a cercarlo.
Parlo di un lavoro che insegna a costruire con altre persone e con loro a coltivare il battito della speranza che non dà tregua, ma anche l'orgoglio di una professione che ogni giorno sembra capace di risvegliare una delle parti più pure e passionali degli uomini.
Dobbiamo parlare di più di scienza, di speranza, di cultura nel nostro Paese. Dobbiamo riuscire a mettere politica, scienza, cultura nelle stesse aule. Penso sia importante per il Paese. Perché la scienza insegna il rispetto per l'oggettività dei fatti, la tolleranza verso punti di vista diversi, il rifiuto dell'autoritarismo. La scienza può insegnare a diventare cittadini migliori perché insegna a rispettare le prove, ad amare ciò che uno conquista e tutti poi possono usare, a rifiutare le menzogne, a resistere ai compromessi che riducono la libertà, a combattere gli abusi.
Un tempo pensavo che fare lo scienziato significasse "solo" stare in laboratorio e invece ho capito che la parte più importante della scienza è la sua dimensione pubblica, e questa piazza lo dimostra. Lo scopo è uno: conoscere per dare ad altri.
Si deve discutere di tutto. Non puoi rinunciare a percorrere nuove strade quando ti trovi alla frontiera. Quindi impari a dissentire ogni volta che qualcuno vuole impedirti di studiare o di andare in una direzione ignota, sentendone quasi fisicamente la necessità, quando serve e tutte le volte che i fatti vengono manipolati.
Ecco la fiaccola che tutti noi dobbiamo tenere accesa. È la fiaccola dei fatti accertati e accertabili. C'è la realtà, e poi basta. Non è solo un fatto di scienza ma anche di civiltà.
Cosa significa dunque festeggiare la Liberazione per una porzione importante della società che è il suo sviluppo scientifico e tecnologico, una porzione di società che ne assicura il cammino verso il progresso?
Significa in primo luogo ricordarsi che Diritti, Progresso e Libertà non arrivano da soli ma bisogna costruirli: cioè progettarli e poi convincere la politica che si possono realizzare. In secondo luogo che Diritti, Progresso e Libertà una volta acquisiti vanno anche difesi.
In questi otto mesi in cui ho fatto anche la Senatrice a vita, senza trascurare il laboratorio, mi sono chiesta molte volte come potevo promuovere la ricerca dei fatti, la verifica e l'attendibilità delle proposte scientifico-tecnologiche disponibili sul campo, e quali erano quelle utili al Paese.
La risposta che mi sono data è che queste cose diventavano raggiungibili solo "liberando ogni possibilità di indagine" e facendo si che i diritti non siano calpestati. Ci sono tante battaglie da fare. Una è già stata quasi vinta, contro la legge 40. Una legge basata su limitazioni ideologiche e cieche, che tanto male ha fatto a tante coppie. Ma le battaglie non sono finite. Sentiamo da più parti insensati attacchi contro la vaccinazione. Alcune regioni vorrebbero uscire dal programma nazionale delle vaccinazioni infantili. Non c'è un solo dato che provi la nocività dei vaccini. Tutto dice il contrario, e se oggi l'umanità è libera dalle pandemie che l'hanno falcidiata come il vaiolo, la difterite e la poliomielite, lo dobbiamo ai vaccini. In questo Paese non si può quasi parlare, discutere e cercare le prove scientifiche su un altro tema importante, quello degli ogm. I divieti stanno creando gravi problemi al settore agroalimentare, in drammatico deficit da decenni. Rinunciare pregiudizialmente all'ogm è un atteggiamento miope.
Il progresso passa soprattutto attraverso il lavoro. Senza diritti, scienza e lavoro il progresso del nostro Paese è a rischio. Tra le libertà c'è anche quella di avere un lavoro, e fare ricerca è un lavoro. Questo è qualcosa che come scienziata sento molto: le nuove generazioni non devono essere obbligate a espatriare per fare della buona ricerca. L'estero deve essere una grande possibilità formativa, non un destino per la sopravvivenza.
In laboratorio e in Senato lavorerò per un Paese più libero da oscurantismi antiscientifici, per un Paese che abbia più libertà e lavoro, per un Paese che torni ad avere la speranza per il futuro che il suo passato merita. E con me, in quel Parlamento e fuori so, perché vi vedo ora, che ci sono tante altre sentinelle pronte a scongiurare il rischio di tornare a quel passato buio da cui i nostri nonni e genitori ci hanno liberato.
Corriere 27.4.14
«Pikettymania»?
Non nella sua Francia: lì lo chiamano Marx
L’economista snobbato in patria (e all’Eliseo)
di Stefano Montefiori
PARIGI — «Che cosa hanno in comune Barack Obama, il Papa, Marine Le Pen e Christine Lagarde (direttrice del Fondo monetario internazionale, ndr )? Hanno tutti letto il libro di Thomas Piketty», dice Daniel Cohn-Bendit, l’eurodeputato franco-tedesco a sua volta entusiasta del «Capitale nel XXI secolo».
In questi giorni Piketty trionfa negli Stati Uniti. Il suo ponderoso volume (quasi 1.000 pagine nell’edizione francese, oltre 700 in quella americana) è una storia delle diseguaglianze attraverso i secoli e un atto d’accusa al capitalismo contemporaneo, basato a suo dire sui patrimoni accumulati senza fatica e non sui redditi frutto di merito e talento. Una struttura economica ridiventata ottocentesca, sostiene Piketty, dopo due guerre mondiali che avevano avuto come effetto collaterale la distruzione di grandi fortune e la creazione di enormi opportunità. Oggi, secondo Piketty, siamo tornati a un’era in cui non vale la pena lavorare: per arricchirsi, l’unica è ereditare.
Le tesi del 42enne economista francese stanno avendo un enorme successo nel mondo anglosassone. Dopo i britannici Financial Times e Economist , di solito pronti a lodare, della Francia, più i croissant che le teorie economiche, Piketty domina il dibattito e le copertine di New Yorker , Nation , New Republic , New York Review of Books , viene criticato dal Wall Street Journal ma incensato dai premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Sul New York Times , giovedì, è stato il «Piketty day» come lo ha definito lo stesso Krugman, con il suo editoriale intitolato «The Piketty Panic» e il commento dell’altra grande firma, David Brooks, che in «The Piketty Phenomenon» arriva a evocare (con ironia) la Beatlemania.
L’impazzimento americano per Thomas Piketty rende orgogliosi i francesi, che mettono in prima pagina l’ex consigliere economico di Ségolène Royal a sei mesi dall’uscita del libro in Francia. Per Piketty è una consacrazione insperata, cinque anni dopo l’interrogatorio in commissariato per le percosse all’allora compagna Aurélie Filippetti, oggi ministro della Cultura (lei dopo le scuse ritirò la denuncia).
«Piketty è primo in classifica su Amazon», si ripete. Eppure, in Francia al primo posto in classifica non ci era arrivato. «Il premio Nobel Krugman scrive che cambierà il modo in cui pensiamo la società e ci occupiamo di economia», riportano i giornali. Ma quando «Le Capital au XXIe siècle» è stato pubblicato a Parigi, l’accoglienza è stata meno calorosa. E non solo perché il collega economista Nicolas Bavarez, di area conservatrice, ha dato a Piketty del «Karl Marx da sotto-prefettura». La sinistra francese ha apprezzato sicuramente il libro ma senza i toni americani, e soprattutto con una eccezione di peso: quella di François Hollande. Se Piketty è stato ricevuto alla Casa Bianca dai consiglieri economici di Obama, nessun tappeto rosso per lui all’Eliseo.
Il presidente della Repubblica in campagna elettorale aveva promesso una «rivoluzione fiscale» largamente basata sugli studi di Piketty sulle diseguaglianze, ma una volta eletto ha abbandonato il progetto. Le ricette ormai diventate Pikettynomics prevedevano la trattenuta alla fonte (in Francia si paga dopo) e una tassazione progressiva dei redditi e dei capitali insieme. Di quell’idea è rimasta solo la famosa tassa-simbolo del 75%, che Hollande ha brandito prima del voto suscitando grande scalpore: ma avrebbe riguardato al massimo 5.000 persone, e in ogni caso è stata bocciata dalla Corte costituzionale. L’economista fenomeno, adorato in America, in patria era già stato scaricato. Tutti leggono «Il Capitale nel XXI secolo», tranne Hollande. I due non si parlano più, e il giudizio di Piketty sul suo presidente è senza appello: assez nulle , «vale poco».
Corriere 27.4.14
Cefalonia, l’ultima verità
I documenti tedeschi esaminati dallo storico Meyer evidenziano le atrocità della Wehrmacht nel 1943
di Corrado Stajano
Più di settant’anni dopo pare di sentire ancora l’odore del sangue nel leggere il libro di Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia (Gaspari). Si rimane sopraffatti da una nera cappa di violenza e di morte tra le pagine dolorose e angoscianti di questo saggio minuziosamente documentato che raccontando nudi fatti è un terribile grido contro la guerra e la sua follia.
Nella bella isola del mar Ionio, tra gli ulivi e i mandorli, le odorose ginestre, i fichidindia, i campi coi muretti a secco, le piazzette dei paesi che rammentano il nostro Sud, i vecchi seduti sulle panchine della villa, il giardino pubblico, si è consumata nel settembre 1943 una strage che ha disonorato per sempre l’esercito di Hitler: «Uno tra i più terribili crimini commessi dalla Wehrmacht nel corso del secondo conflitto mondiale», scrive Meyer.
A Cefalonia si avverte la contraddizione tra la natura innocente e morbida, ma che inganna i suoi figli, e la furia dell’uomo, l’odio, la vendetta. L’isola è antica di bellezza, di storia, di cultura, di poesia, non lontana dal luogo natale di Ugo Foscolo — Zacinto mia, «O materna mia terra» — , a un braccio di mare da Itaca, il paradiso perduto del divino Ulisse dove l’eroe omerico, quando finalmente arrivò in patria dopo le sue infinite peripezie, «baciò le zolle dono di biade».
Supera ogni macabra immaginazione quel che accadde a Cefalonia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nella violazione di ogni legge del diritto internazionale e dell’onor militare, tralasciando l’umana pietà. Furono assassinati dai nazisti migliaia di soldati e di ufficiali italiani della divisione «Acqui», nelle cave di pietra, a ridosso dei costoni rocciosi, nei valloni trasformati in piazze d’armi, lungo gli argini che i plotoni d’esecuzione fecero diventare tirassegni. Lasciati marcire, bruciati — montagne di cadaveri, ossa nauseabonde —, sepolti dai greci per i quali gli italiani, negli anni passati, non erano stati «la brava gente» della leggenda bugiarda e assolutoria.
Nei decenni la bibliografia su Cefalonia è stata nutrita. Quel massacro della Wehrmacht, bavaresi, austriaci, altoatesini comandati da ufficiali di educazione prussiana divenuti nazisti efferati (molti di loro dopo la guerra tornarono a far parte della Bundeswehr), colpì gli storici, i narratori, i giornalisti. Anche perché autori di quell’eccidio furibondo non erano state le SS, le falangi del nazismo.
Il massacro di Cefalonia — la puntigliosa prefazione di Giorgio Rochat mette in rilievo l’ampiezza della documentazione del saggio e la grande onestà di Meyer — è l’opera totale, definitiva su quell’eccidio, per la visione d’insieme della guerra nei Balcani e per la cura ossessiva del particolare.
Imprenditore di successo, l’autore del saggio divenne uno storico di prim’ordine per motivi affettivi. Suo padre, ufficiale pagatore in un reparto tedesco, nel marzo 1943 fu rapito e ucciso dai partigiani. Il figlio, dopo la guerra, andò in Grecia per sapere del padre, ne riportò in patria i resti e raccontò in un libro la sua odissea. In quell’occasione raccolse molte notizie e documenti e seppe di un reparto d’élite della Wehrmacht, la 1ª divisione da montagna, che si era macchiata di orribili delitti. Nella ricerca arrivò così a Cefalonia.
Meyer, in questo saggio che esce postumo in Italia, ha analizzato libri e documenti, è entrato nella burocrazia della guerra e dei processi del dopoguerra, ha letto e ascoltato i radiomessaggi, i rapporti, gli ordini, le dichiarazioni giurate, i diari dei combattenti.
Che cosa accadde a Cefalonia. La sera dell’armistizio, per ordine del capo di stato maggiore della Wehrmacht, il generale Alfred Jodl, entra in vigore il piano «Achse» che prevede l’occupazione della Grecia presidiata dalle truppe italiane e il disarmo del regio esercito: non ha importanza che in Grecia le divisioni italiane siano sette e quelle tedesche quattro, con gli organici ancora incompleti.
Antonio Gandin, che dal giugno del 1943 comanda la divisione «Acqui» — 525 ufficiali, 11.500 sottufficiali e soldati —, non è un generale qualunque: dal 1940 è stato capo del reparto operativo del Comando supremo, un incarico di grande responsabilità. Il comandante dell’XI armata italiana, il generale Carlo Vecchiarelli, suo superiore, tratta subito la resa coi tedeschi, cerca di ottenere, senza riuscirci, condizioni onorevoli. Gandin rifiuta di obbedire al suo ordine di arrendersi.
Mentre i tedeschi, a Cefalonia, dove sono numericamente assai inferiori — un reggimento, 2.000 uomini —, danno a Gandin un ultimatum per il disarmo della divisione, il Comando supremo da Brindisi invia un radiogramma che ordina alla divisione «Acqui» di resistere «con le armi at intimidazione tedesca di disarmo at Cefalonia et Corfù et altre isole».
Gandin temporeggia. Poi i tedeschi attaccano dalla parte di Argostoli, il capoluogo dell’isola. Gli italiani resistono nonostante 72 Stukas sgancino 32 tonnellate di bombe. I tedeschi si ritirano, Gandin non sa sfruttare il momento favorevole, non incalza i tedeschi sconfitti e sbandati: arrivano i rinforzi, ma una motozattera viene affondata dall’artiglieria italiana nella baia di Vatsa, con morti e feriti.
È un momento di euforia. Tra il 13 e il 14 settembre il generale Edoardo Gherzi, con il consenso di Gandin, invia un messaggio radio ai comandanti di battaglione della divisione: i soldati vogliono combattere o vogliono cedere le armi? Unanimemente, ufficiali e truppa, manifestano la loro decisione di battersi.
Dopo la guerra susciterà scandalo e sarà strumentalizzato quello che viene chiamato referendum perché è fuori dalle regole di un esercito. Meyer non gli dà importanza, lo definisce «una sommaria consultazione di reparti». Giorgio Rochat, nel 2006, scriverà della difficoltà di capire come venga giudicata insubordinazione e rivolta quella richiesta di combattere anche se espressa in forma poco ortodossa.
(Tutto avviene in giorni di catastrofica emergenza, subito dopo l’armistizio, test del crollo dell’Italia fascista, mentre il re, il capo del governo Badoglio, i generali sono scappati da Roma imbarcandosi a spintoni sulla corvetta Baionetta che li porta a Brindisi. Cefalonia non è l’inizio della Resistenza, se non per un gruppo di giovani ufficiali, ma è di certo il doloroso rifiuto della prepotenza).
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in visita a Cefalonia il primo marzo 2001, rende onore ai caduti della divisione «Acqui», i soldati con le mostrine gialle: «Decisero di non cedere le armi, preferirono combattere e morire per la patria tenendo fede al giuramento».
***
A Cefalonia le cose precipitano. Esiste un ordine di Hitler fuori di sé per il tradimento: tutti gli italiani dell’isola devono essere fucilati. I tedeschi sono riusciti a far sbarcare i rinforzi, due compagnie di fanteria, due batterie di artiglieria, un battaglione alpino. Ma è l’aviazione tedesca a risolvere il conflitto martellando l’isola. La volontà di combattere degli italiani svanisce, in contraddizione con il famoso referendum. I tedeschi, soldati nati, sono inferociti contro gli ex alleati. La fedeltà, anche per i criminali, è un valore sommo per il mondo germanico. Gli italiani, in superiorità numerica, si arrendono ovunque, le tonnellate di bombe degli Stukas sono micidiali.
«Gli ammutinati», «i franchi tiratori», come erano definiti gli italiani, vengono fucilati subito dopo la cattura. Dal generale Gandin all’ultimo soldato. Quasi quattromila morti sull’isola, 1.346 in mare sulle navi affondate.
Il generale Hubert Lanz, il comandante della 1ª divisione da montagna, che a un certo punto avrebbe potuto dar l’ordine di smettere di uccidere, nel lezzo nauseante dei cadaveri in decomposizione, vide tutto e tutto sentì. Ma al processo di Norimberga disse di non aver visto e sentito nulla. Condannato nel 1948 a 12 anni, rapidamente amnistiato, nel 1951 era già un uomo libero.
Resta il nudo elenco dei luoghi della morte innocente: Kardakata, Dilinata, Pharsa, Argostoli, Razata, Frankata, Lakithra, Santa Barbara, Capo San Teodoro, Capo Munta, Cimitero di Drapanos, Capo Lardigò. E poi la Casetta Rossa, il posto martire di 350 ufficiali a Troianata, dove furono fucilati nella schiena seicento soldati in un vallone che ricorda Portella della Ginestra.
La Stampa 27.4.14
La spia venuta dall’Est che distrusse il sogno di Brandt
Quarant’anni fa il Cancelliere si dimetteva: il suo braccio destro era un agente della Stasi
di Tonia Mastrobuoni
L’ultima missione di Stato, Willy Brandt la compie a fine aprile del 1974 in Algeria e in Egitto, dove Sadat lo celebra come «l’uomo che con la sua capacità di visione è riuscito a portare la pace e la prosperità, dove una volta c’erano l’odio e il caos». Ma al ritorno, appena il Cancelliere scende dall’aereo militare, a Köln-Wahn, ad attenderlo c’è la notizia che lo costringerà da lì a poco alle dimissioni: Günter Guillaume, uno dei suoi più stretti collaboratori, è stato arrestato. E quando gli agenti gli hanno messo le manette, è stato lui a identificarsi: «Sono un ufficiale della Stasi: trattatemi con il riguardo che merito».
È il più grave caso di spionaggio della storia tedesca. Per Brandt, il geniale architetto della Ostpolitik che si è inginocchiato davanti al ghetto di Varsavia, non è solo un colpo personale durissimo - «mostruoso» lo definirà. È la fine di una straordinaria carriera politica. Dopo aver vinto il Nobel per la Pace nel 1971 e portato l’anno dopo i socialdemocratici al trionfo, al più grande successo elettorale di sempre, l’amatissimo cancelliere di Lubecca deve capitolare. Il 6 maggio di 40 anni fa, Willy Brandt lascia. Ma il «caso Guillaume» è soltanto la causa più apparente del suo passo indietro. Un atto dovuto, vista l’incredibile ingenuità dimostrata non soltanto dai servizi segreti tedeschi, ma anche dal Cancelliere, che sapeva che sul suo fido collaboratore gravava un sospetto sin dal 1973. Guillaume, però, è un pretesto. Da tempo, Brandt è in una crisi nera.
Da mesi, i suoi interlocutori hanno notato che le sue proverbiali pause sono diventate lunghissime. Che a volte il Cancelliere si alza nel bel mezzo di una conversazione, si sposta alla finestra e guarda fuori. Da mesi i suoi collaboratori notano che beve molto, che la sua tendenza alla depressione si è aggravata. Qualcuno parla di «attacchi di autismo». Persino Günter Grass, che aveva partecipato alla sua campagna elettorale, lo attacca pubblicamente: il governo «ha un passo da sonnambulo» e «autocompiacimenti paralizzanti». Lo «Spiegel» gli dedica un’amara copertina, per il 60° compleanno: «Il Cancelliere in crisi». I suoi due rivali più micidiali nel partito, Herbert Wehnert e il futuro cancelliere, Helmut Schmidt, lo attaccano ormai apertamente.
Tuttavia, quando il governo Brandt cade, è un enorme colpo anzitutto per i mandanti di Guillaume, per la Germania est, che perde uno dei suoi più preziosi alleati in occidente. La scoperta che quel collaboratore arrivato a metà negli anni 50 da Berlino Est e asceso alla velocità della luce fin negli uffici della cancelleria, è un traditore, e le conseguenze per Brandt, sono un boomerang micidiale anzitutto per Honecker. Tanto più che proprio la Stasi ha corrotto un anno prima alcuni deputati cristianodemocratici per sventare il tentativo di una «sfiducia costruttiva», di sostituire Brandt con Barzel.
Guillaume, oltretutto, non è neanche una spia indispensabile. Brandt, l’estate prima dello scandalo, pur sapendo delle ombre che gravano su di lui, se lo porta in vacanza in Norvegia. Forse lo sottovaluta. Lo ritiene un uomo noioso e poco intelligente. Guillaume è laborioso, gli sistema le piccole cose: i conti, gli appuntamenti, le scarpe per i ricevimenti. Ma sa ogni particolare della vita del cancelliere, lo accompagna ovunque. E ha anche la possibilità di vedere le scartoffie. Tra di esse, anche documenti segreti: una lettera di Nixon, i protocolli sui colloqui con Washington, le note dei servizi tedeschi. Dettagli disastrosi, anche se per un caso pazzesco i testi norvegesi non arriveranno mai a destinazione: il corriere, intercettato, li butterà in un fiume. L’agente Wolf, però, scriverà anni dopo nelle sue memorie che apprezzava «l’intelligenza politica» di Guillaume, la sua capacità di capire in anticipo le mosse di Brandt.
Nei giorni successivi all’arresto, quando i giornali cominciarono a mescolare dettagli su Guillaume con quelli sulla sua vita privata, raccontandone le scappatelle con alcune giornaliste, le cose precipitarono. Il giorno delle dimissioni, alcuni giovani militanti si riunirono davanti alla sua casa, per solidarietà. Alle due e mezza di notte, un amico di Brandt si affacciò. «Ragazzi, vi capisco assolutamente. Ma ora lasciatelo dormire». Fu la fine del cancelliere dei tre milioni di voti, il più popolare di sempre. Al suo posto, arrivò Schmidt. E cominciò un’altra storia.
La Stampa 27.4.14
E Gabo mi disse: volevo fare il taxista
García Márquez nel ricordo dello scrittore cileno: al centro della nostra amicizia era la politica, cospiravamo contro le dittature dell’America Latina
di Ariel Dorfman
Sin valor comercial (campione fuori commercio). Sono le parole stampate sulla copertina della prima edizione del 1967, in spagnolo, naturalmente, di Cent’anni di solitudine, che ho ancora nella nostra biblioteca a Santiago del Cile - parole ironiche per un romanzo destinato a diventare uno dei più venduti sul pianeta e uno dei più grandi di tutti i tempi.
Erano state messe lì per assicurarsi che non avrei rivenduto il libro, anche se non avevo alcuna intenzione di farlo. In qualità di critico letterario della prima rivista del Cile, Ercilla, l’unica cosa che volevo farne era leggerlo, da anni lo stavo aspettando per leggerlo tutto d’un fiato, da quando mi erano arrivate confidenze e voci che qualcosa di speciale, di più che speciale, era in arrivo dalla penna di un autore a cui avevo già dedicato recensioni entusiaste. Quando arrivai a casa annunciai ad Angélica, mia moglie, che non sarei stato disponibile per le prossime 24 ore, neanche per dare una mano ad accudire il nostro bambino di due mesi, Rodrigo. Si racconta che García Márquez avrebbe detto qualcosa di simile alla moglie Mercedes quando si chiuse nella sua stanza per due anni a scrivere questo romanzo e io modestamente intendevo, anche se per un periodo più breve, imitarlo.
Lessi il libro tutto in una volta, per ore e ore, nella notte e fino all’alba, senza sosta, alimentato sporadicamente dalla mia cara Angélica. Come l’ultimo della dinastia Buendía, non riuscivo a staccare gli occhi dal testo che mi stava inghiottendo; sperando contro ogni speranza che il mondo iniziato con il ghiaccio toccato da un bambino in Paradiso non si sarebbe fatto spazzare via da quell’altra costellazione di ghiaccio chiamata morte, disperato perché la morte stava insidiando ogni generazione, ogni atto di gioia ed esuberanza, non riuscii a smettere di leggere fino a quando non scoprii come tutto questo sarebbe finito, la vita della famiglia, l’epopea dell’America Latina, la mia vita ormai entrata nel vortice del romanzo. E disperato, anche, perché non riuscivo a capire come io, uno dei primi lettori sulla terra ad avere il privilegio di ricevere questo dono, sarei stato in grado, in tempo per la scadenza del giorno dopo, ad avere pronta una recensione.
Incredibilmente, fui salvato da tale obbligo da uno strano scherzo della vita. Mi precipitai alla rivista per implorare il redattore della cultura di lasciarmi due o trecento parole in più da dedicare a questo capolavoro e fui accolto dal suo volto cupo. Un’intervista che avevo fatto la settimana prima al poeta cubano nero Nicolás Guillén era stata censurata, per motivi razziali e politici, dall’editore della rivista. Mi licenziai in segno di protesta - e anche se persi il mio lavoro proprio quando ne avevamo più bisogno, con nostro figlio Rodrigo che aveva pochi mesi, almeno non ebbi da mettere assieme un migliaio di vane parole su quei cent’anni di solitudine.
Anni dopo, quando raccontai a Gabo (come lo chiamavano gli amici) di questo incidente, durante il nostro primo incontro a Barcellona - era il marzo del 1974, sei mesi dopo il colpo di Stato cileno che aveva rovesciato il nostro presidente democraticamente eletto Salvador Allende - rise di gioia e disse che era una fortuna per lui e per me che il destino mi avesse costretto, contro la mia volontà, a essere un lettore normale, perché era per questo genere di lettori che lui scriveva e non per i critici e gli accademici, che lo annoiavano e lo facevano dormire.
Fu alla fine di quell’abbondante pranzo a casa sua che mi suggerì di andare a trovare lo scrittore che allora era il suo migliore amico (questo prima dei loro incresciosi litigi, decenni più tardi), Mario Vargas Llosa, che poteva contribuire a restituire il Cile alla democrazia. Esitai, era troppo lontano e avevo altre cose da fare. «Ti ci porto io», disse Gabo, portandomi verso la sua auto. «Se non fossi stato uno scrittore, mi sarebbe piaciuto fare il taxista. Forse sarebbe stata una scelta migliore: avrei potuto trascorrere i miei giorni e le mie notti ascoltando le storie dei miei passeggeri e girando per le strade delle città invece di rompermi la schiena dietro una scrivania».
Quelle prime ore trascorse con Gabo cementarono un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita, ma fecero anche della politica il centro del nostro rapporto. Negli anni che seguirono fummo co-cospiratori nella lotta contro la dittatura in America Latina. Cos’altro potrebbe desiderare un giovane scrittore se non passare ore e ore a confabulare con il più grande autore vivente? Era possibile chiedere di più di centinaia di incontri con lui, Gabo che apre il suo indirizzario, Gabo che scrive a primi ministri e premi Nobel e finanzieri, Gabo che risponde alle mie telefonate nel cuore della notte, Gabo che intervista i leader clandestini appena arrivati a Parigi da Santiago, Gabo sempre pronto a intervenire per salvare una vita, aprire una porta, scrivere un articolo?
Sì, era possibile chiedere di più. E l’occasione arrivò quando ero membro della giuria - c’era anche Cortázar - di un premio letterario in Messico. Durante quella settimana finalmente riuscii a parlare a García Márquez delle ossessioni letterarie della sua e della mia vita, Dante e Faulkner, e Cechov e Cervantes.
Fu in quei giorni meravigliosi che Gabo mi fece una rivelazione che potrebbe forse spiegare la profondità della sua visione, lo spessore della sua creatività. Aveva appena completato il manoscritto di Cronaca di una morte annunciata, e una sera, dopo cena, nella brezza tropicale, mi mostrò quello che definì un vero e proprio tesoro. Era il referto dell’autopsia di Cayetano Gentile, un suo amico, il cui omicidio, nel 1951, era stato la base per il romanzo.
«La ferita da coltello che lo aveva ucciso», disse Gabo, «era alla schiena, all’altezza della terza vertebra lombare e trapassava il rene. E sai una cosa, Ariel? Era lì, esattamente lì dove io, senza conoscere questo dettaglio, immaginavo la lesione mortale del mio protagonista. Il mio romanzo imitava e ricordava e anticipava l’esattezza della realtà, la exactitud de lo real».
Gli occhi di Gabo brillavano come quelli di un bambino, pieni di meraviglia. E così con i miei perché avevo potuto intravedere il modo in cui García Márquez creava le sue opere. Per lui, come per tutta l’America Latina, ogni cosa era allo stesso tempo verità e fiaba, storia e invenzione, dolore e mito. E nel suo desiderio di comunicare vidi che non siamo così soli come aveva dato per scontato in Cent’anni di solitudine, che se siamo stati in grado di immaginare la piaga della nostra violenza con tale minuziosità, in modo tanto perfetto ed eccessivo, potremmo anche riuscire a sconfiggere la morte.
Ora la morte, che lui ha sfidato per tutta la sua esistenza, l’ha raggiunto e io resto qui con quello e tanti altri ricordi, ma forse, soprattutto, con questo. Un giorno ero a pranzo con lui e sua moglie Mercedes e alcuni altri ospiti nella sua casa di Città del Messico, stavamo ricordando i nostri giorni come cospiratori, quando Gabo si rivolse a uno dei suoi amici e disse: «Sai che Ariel di solito mi chiamava alle tre del mattino per dirmi il suo ultimo sistema per isolare e svergognare il generale Pinochet? E sai un’altra cosa? Faceva addebitare la chiamata a me».
Una volta andati via gli altri ospiti e, restato da solo con Gabo, gli dissi: «Ti ho chiamato alle tre del mattino e in molte altre ore poco civili, Gabo, ma mai a tue spese. Angelica e io eravamo davvero poveri, ma non ti ho mai chiamato facendoti addebitare il costo».
Garcia Márquez si fece serio e poi, di nuovo, i suoi occhi furono illuminati da un sorriso. «Ariel, devi perdonarmi, allora. Ma bisogna ammettere che la storia è più divertente e più memorabile e più credibile, con questo dettaglio».
E naturalmente lo perdonai e gli perdono tutto di nuovo. La radice del suo genio era prendere qualcosa di reale, qualcosa di apparentemente abituale e quasi giornalistico e esagerare follemente. Proprio come la Colombia, proprio come l’America Latina, proprio come la nostra straordinaria umanità che nessuno come lui - che ora, se gli dei sono giusti, possa essere alla guida di un taxi nel grande aldilà - ha conquistato, espresso e reso immortale.
Traduzione di Carla Reschia
Repubblica 27.4.14
La lista di Di Vittorio
Italiani in guerra
Ritrovati ora negli archivi della Cgil i documenti della missione del segretario con lettere e foto dai lager di Stalin
di Concetto Vecchio
GLI SCRIVONO con calligrafia tremante: «Segretario Di Vittorio, liberaci da questa tormentosa angoscia». Dalla lettera di Nunziata Ciuciotta: «Le ultime notizie di mio figlio Antonio risalgono al 20 febbraio 1943 e da allora ho vissuto in uno stato di ansia e di attesa incredibili». E imbuca questo suo appello - a fare qualcosa, a trovarlo - con l’animo di chi ormai si affida a un messaggio in bottiglia, la mattina dell’8 agosto 1945: sul frontespizio sette francobolli per un totale di 200 lire, la lettera indirizzata a «Spettabile Cgil Roma». Che ne è stato del sottotenente medico Antonio? O del bersagliere Antonio Nicodemo, della divisione Pasubio, «disperso dal dicembre 1942», come informa il padre, «il compagno Nicodemo Pipita» da Cirò (Catanzaro). «Sono tre anni che non ho notizie di mio marito Umberto Pizzichini»: così inizia la missiva spedita da Macerata dalla moglie Pasqualina. Giuseppe Di Vittorio, il grande leader della Cgil, i cui funerali nel 1957 saranno un enorme evento di popolo, «una cosa mai vista» scriverà Pasolini, nell’agosto 1945 parte per Mosca con questo fascio di dispacci disperati. La guerra è finita. Ma di quasi centomila soldati dell’Armir, l’armata italiana in Russia, prigionieri dall’inverno del 1942, non si hanno più notizie: mariti, figli, fratelli inghiottiti nel ventre bianco della lontana Russia. Dei 229mila che Mussolini ha mandato allo sbaraglio almeno 95mila mancavano alla conta del generale Italo Gariboldi dopo la ritirata. Il Pci si dibatte in imbarazzo. La sorte dei reclusi domina il dibattito pubblico, e si trascinerà fino alla decisiva contesa elettorale del 1948, fornendo una formidabile arma politica agli avversari. Rintracciarli, riportarli in Italia, non è solo un’esigenza morale. È anche una necessità politica per i comunisti. E per Di Vittorio, membro della direzione del Pci, proletario come proletari erano quei soldati, specialmente.
Dall’archivio storico della Cgil ora spuntano queste lettere, carte ingiallite dal tempo che ci parlano. Soprattutto affiora una lista di 1800 internati che Di Vittorio scova durante il suo viaggio di un mese. Tornerà in Italia con le firme di ciascun milite ritrovato, e l’appunto “fatto” vergato a mano accanto a ogni nominativo, con cui indica che è stata informata la famiglia. L’elenco dei 1800 è la somma di più elenchi: alcuni forniti appositamente dai russi durante le visite ai campi di prigionia; altri compilati da Di Vittorio; altri di provenienza incerta. Ma rappresentano una prima lista di destini in quel buco nero su cui Stalin mantiene volutamente l’ambiguità, e che fa dire sconsolato al nostro ambasciatore a Mosca Pietro Quaroni, in una lettera per De Gasperi nel maggio del 1945: «Il mistero che circonda i nostri prigionieri non è certo maggiore del mistero che circonda qui qualsiasi cosa. Con questa mentalità dura e spietata, aliena da ogni sentimentalità ritenuta inutile, la nostra ansietà di avere notizie non è capita». L’importanza di questa lista, nota la storica Maria Teresa Giusti, autrice de I prigionieri italiani in Russia (Il Mulino, 2003, 2009), è data anche dal fatto che soltanto dopo il crollo del comunismo, nel 1991, i russi fornirono elenchi ufficiali al ministero della Difesa, sancendo ufficialmente che nei campi di prigionia erano morti almeno 64mila italiani. I lager nei quali finirono i nostri erano almeno 428, e a Di Vittorio ne faranno vedere appena tre: il 58/4 e il 58/6 di Tjomnikov e il campo 40, obekt 4-0, di Krasnogorsk. Tra i meno peggio, e si capisce.
Esasperando i famigliari, il vice commissario degli affari esteri sovietico, Solomon Losowski, comunica al capo del sindacato italiano che il numero dei prigionieri ammonta 20.600, come rivela una lettera che Di Vittorio invierà al sottosegretario agli Interni Spataro. E degli altri, migliaia e migliaia, che ne è stato? Tra i 1800 molti consegneranno lunghe lettere a Di Vittorio, destinate ai parenti, per dire semplicemente «sono vivo». Le condizioni di prigionia furono oscene, disumane, tra carenze di cibo, cannibalismo, eppure negli scritti dei nostri soldati, nella costrizione della censura, diventano «l’organizzazione perfetta, buon vitto, igiene massima» come scrive il soldato Mario Gonnelli da Montepulciano (Siena); «il cuore generoso del popolo sovietico, le sue cure premurose», racconta il geniere Fiorenzo Lancelotti; «il trattamento è buono, riceviamo giornalmente 600 grammi di pane, tre pasti al giorno con zuppa e cascia, e quando poi sul lavoro superiamo la norma, veniamo ricompensati con supplementi di una zuppa e da 100 a 300 grammi di pane», dice il sergente Andrea Lusardi. Penose bugie. E viene da mettere a contrasto, queste lettere amarissime, con lo scambio di vedute tra il rappresentante italiano al Comintern Vincenzo Bianco e Palmiro Togliatti. Nel febbraio 1943 Bianco avverte Togliatti che bisogna evitare che i nostri prigionieri «muoiano in massa». La risposta del Migliore è quella di un leader corroso dal cinismo: «Se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire». Di Vittorio annuncerà il rimpatrio dei nostri il 26 agosto 1945. Missione compiuta. Torneranno in appena 10.032, alcuni saranno trattenuti fino agli anni Cinquanta, come il soldato Filippo Neri, che nel Natale del 1952 aveva scritto una cartolina ai genitori di Linguaglossa (Catania) «vi saluto di cuore », e gli diranno, sulla banchina della stazione Termini, il 16 gennaio 1954 - nove anni è durata la sua prigionia - che mamma e papà sono invece morti da anni: lei nel 1949, lui nel 1951. C’è chi come Fidia Gambetti, partito per la guerra camicia nera, rientrerà di salda fede comunista. I più vorranno soltanto dimenticare. Di Vittorio nel frattempo avrà scritto molti telegrammi, come questo a Alberto Jacchia, via del Tritone 132, Roma: «Piacere comunicarvi che ebreo deportato Germania Davide Limentani liberato Armata Rossa salvo buona salute procinto rimpatrio stop. Invece sua madre due fratelli due sorelle un cognato un nipote uccisi dai tedeschi mesi prima liberazione ».
Repubblica 27.4.14
Bastonate zen per ottenere l’illuminazione
di Piergiorgio Odifreddi
Una delle due scuole più diffuse del buddhismo zen, chiamata Rinzai, basa il proprio insegnamento su due tecniche complementari. Lo studio dei paradossi, nella forma dei famosi ed enigmatici koan , e, proprio per stimolare la ricerca della loro inesistente soluzione, un’integrazione della teoria con metodi pratici: insulti, urla, schiaffoni, pugni e bastonate, che sembra abbiano a volte il salutare effetto di produrre un’illuminazione improvvisa. Il precursore di questa tecnica fu Te Shan (780–865), che era solito avvertire i suoi allievi: «Se dici sì, trenta bastonate. Se dici no, anche. Se taci, invece, trenta bastonate». Naturalmente, la moderna psicologia occidentale ritiene invece che agli studenti debba essere risparmiato qualunque trauma, anche minimo: dalle interrogazioni a sorpresa, ai temi senza svolgimento preconfezionato, ai problemi senza soluzione guidata. Forse i maestri zen non avevano tutti i torti, visto ciò che è capitato negli Stati Uniti a Jason Padgett. Dopo una serata di karaoke in un pub, in una rissa si prese un pugno in testa, che gli procurò un trauma cranico. Ma anche un’illuminazione matematica, che lo fece passare dall’usuale “non capirci niente” a un’abilità straordinaria. Qualcuno lo dica al ministro dell’Istruzione, che forse esistono soluzioni spicce e salutari per rimediare al deficit matematico dei nostri studenti…
Repubblica 27.4.14
Perché la libertà non è senza vincoli
Mauro Magatti e Chiara Giaccardi analizzano il modo per sottrarsi all’iperedonismo che domina il nostro tempo
di Massimo Recalcati
Con Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi (Feltrinelli), Mauro Magatti e Chiara Giaccardi danno una forma significativa al lavoro di critica alla cultura iperedonista della libertà che sembra dominare il nostro tempo. Giustamente fortunato fu il saggio di Mauro Magatti Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno nichilista del 2009: al centro di quell’analisi il tema di una versione solo immaginaria, ovvero puberale, della libertà che vorrebbe sciogliersi da ogni vincolo e imporsi come pura volontà di godimento, ma che non può che rivelarsi ormai “esangue”.
Questo è il paradosso: nell’epoca della “libertà di massa”, la libertà ha bisogno di essere ripensata. Ma la scommessa più promettente di questo libro è nella pars costruens. Mentre la contestazione del ‘68 ha vissuto l’illusione della liberazione del desiderio da ogni vincolo ritenendo il legame con l’Altro solo come un limite alle sue possibilità di espansione, nel nostro tempo è proprio la libertà che deve essere liberata dal suo stesso fantasma di autosufficienza. Si tratta di oltrepassare l’idea narcisistica della libertà, per assumerla nel suo rapporto con la responsabilità dell’accoglienza e della cura per l’Altro. Di qui - ecco la vera posta in gioco del libro - l’idea della generatività come forma autentica, non narcisistica, produttiva, della libertà.
Cosa intendono gli autori con questa idea? Innanzitutto una libertà depotenziata, libera dall’assillo dell’autoaffermazione, capace di scardinare il circolo tossico di potenza-volontà e potenza, di assumere i propri limiti, di accogliere la differenza, di retrocedere dall’identificazione all’Io, di assumere la forza vitale del desiderio che sa mantenere aperta la dimensione della trascendenza, della memoria, della filiazione e del futuro. La libertà diventa generativa quando si libera dal fantasma di se stessa che il trionfo cinico del discorso del capitalista ha imposto come unico comandamento sociale.
Lo psicoanalista avanza due obiezioni in un impianto discorsivo che non può che condividere. La prima è relativa alla nozione di desiderio - come parola chiave della libertà generativa - che, per non confonderlo con una generica spinta vitale, la psicoanalisi iscrive nell’inconscio del soggetto. Iscrizione che ogni sociologia e ogni antropologia dovrebbero ospitare per evitare la ricaduta nel mito razionalistico dell’Io o del puro volontarismo. La seconda è relativa al rischio di fare della generatività una categoria ontologica che distingue vite (o istituzioni) autenticamente generative da vite (o istituzioni) inautenticamente nongenerative. Mentre Freud ci ha insegnato che la generatività non può mai escludere, come fosse un batterio, la tendenza dell’umano alla propria distruzione.
Repubblica 27.4.14
Giulio Questi
“Tra la Resistenza e i film western la mia vita è un’eterna incompiuta”
Dai racconti di una guerra partigiana senza miti agli incontri con Vittorini e Fenoglio, Visconti e Rosi Le tante avventure di uno scrittore, attore e regista
intervista di Antonio Gnoli
Un’intera giovinezza si lasciò spazzare via nei due anni terribili della Resistenza. È così che immagino l’esperienza del partigiano Giulio Questi: «La mia memoria mi inquieta perché non è dolce né arrendevole. Mi stordisce come un pugno violento. E non posso farci niente», dice di sé e dei suoi ricordi. Questi ha scritto tra i più bei racconti che abbia letto sulla Resistenza. Poi, nella vita, ha fatto altro: documentari, film. Forse a un certo punto, negli anni in cui visse a Cartagena, ha perfino sognato di essere Gabo: «C’era Macondo. Tutti inseguivano Macondo meno Gabo. L’America Latina è grande e io ero piccolo e indaffarato. Mi chiamavano il vagabondo dei Caraibi ».
È ancora bello. La barba bianca, l’occhio salivoso ma vispo lo restituiscono come un Ulisse, la cui lunga astuzia lo ha portato a superare in marzo la soglia dei novant’anni. «Ora scricchiola il mio tempo», dice. «Anche perché non ci sono più inesorabili profondità da raggiungere. Saggezze da esibire. Sono stato audace e sconsiderato. Mi guardo intorno, qui nella mia camera tra le cose che ho raccolto, e sento che tutta la vita che ho percorso la rifarei interamente. Cazzate comprese. Posso offrirle un whisky?». Mentre parla accarezza un grande bicchiere: «C’è dentro un terzo di irlandese, il resto è ghiaccio e acqua. Un beverone che mi tira via la tristezza. E non ubriaca. Imparai a berlo da Orson Welles».
Lo ha conosciuto?
«Lo vidi in due occasioni. Una a Taormina. La prima volta a Madrid. In un bar. Era seduto al bancone e sorseggiava il suo beverone. Lo riconobbi. Imponente. Solitario. Non gli chiesi niente. E lui non disse nulla. Gli sedetti accanto. Studiai le sue mosse. Ascoltavo il gorgoglio del whisky scendere nell’enorme cavità della sua gola. Uno spettacolo di primitiva grandezza».
E lei che ci faceva a Madrid?
«Aspettavo l’arrivo del produttore per il mio film. Un western. Non c’erano soldi. Solo promesse e cambiali. Erano gli anni Sessanta. Ma potevano benissimo essere i Quaranta, i Trenta e giù giù fino alla mia data di nascita. Sempre lo stesso assillo di denaro».
Famiglia povera?
«Normale. Venivo da una grande famiglia contadina che dai campi del bergamasco si evolse verso la città. Mia nonna aveva generato 19 figli. Gliene restarono 10. Negli ultimi tempi era sempre a letto. La pelle era del colore blu: i capelli, il volto, le mani. Una gonfia nuvola di carne blu deposta sul letto. Il cuore, sfiancato dalle gravidanze, le aveva provocato quella tinta di morte».
Che effetto le faceva?
«Ero incuriosito. Dal suo corpo e dalla sua vita. Quando nacqui i nonni rilevarono un forno. La mia culla fu una cesta di pane. Dormivamo al piano superiore: una scala dal forno portava a un lungo corridoio. Ricordo i topi, i gatti e i sacchi di farina. Crebbi bene. Mio padre tecnico della Westinghouse mi fece fare un buon liceo classico a Bergamo. La città era stantia. Divorata dal perbenismo e dalla Chiesa.
Ero insofferente alla divisa fascista e alle preghiere del parroco. Poi giunse il 25 luglio».
La caduta del fascismo.
«Sì e in seguito ci fu il ricostituirsi dell’esercito repubblichino.
Dovevo scegliere da che parte stare ».
E scelse?
«A 19 anni non avevo le idee chiare. Decisi per le montagne vicino a casa. Nella Valtellina. La fame fu il primo problema. Un gruppo armato di noi scese in paese e svaligiò una banca. Comprammo cibo. Ci sentivamo euforici. Poi rapinammo un industriale milanese. Lo minacciammo di dirci dov’era la cassaforte. Ma non c’era. Alla fine arraffammo quello che vedevamo».
Non dovevate combattere i tedeschi e i fascisti?
«Certo. Ma avevamo bisogno di vettovaglie, di armi. Poi, durante una spedizione, la mia brigata si trovò circondata in un bosco. Solo io e altri due riuscimmo a rompere l’accerchiamento. I fascisti uccisero o catturarono i compagni. A quel punto restai solo. Decisi di entrare nella banda di Angelo Del Bello. Anche lì finì male».
Che accadde?
«Nel frattempo la Resistenza si era organizzata con strutture politiche e militari. Partì l’ordine che non si sarebbero tollerati atti di indisciplina o di violenza gratuita. Del Bello rifiutò di obbedire. Il comando decise l’eliminazione della banda. Lo sorpresero in una piccola frazione con tre uomini. Vennero fucilati sul posto».
E lei dov’era?
«Con il resto della banda in un paese non lontano. Ci trovarono. Qualcuno non si arrese e cadde nel conflitto a fuoco. Gli altri, me compreso, furono fermati. Decisi di entrare nella nuova brigata. Peccato che il comandante era un cattolico fanatico. In quanto antifascista e ufficiale dell’esercito, il comando gli aveva assegnato la guida di una brigata. Ma era inadatto. Mandò molti di noi al macello. Dopo una missione decisi di non rientrare».
E andò dove?
«Mi nascosi. Il comandante mi condannò alla fucilazione per diserzione. Cominciò la caccia. Passai due mesi orribili. Braccato nei boschi. Non riuscirono a prendermi. Alla fine incontrai il mitico comandante Mino. Gli raccontai la mia storia e mi accolse nelle sue file. Venni a sapere che era la Brigata Camozzi legata a Giustizia e Libertà. Mino aveva messo su una squadra autonoma: i Cacciatori delle Alpi. Fu un momento esaltante ».
Lei da della Resistenza una versione molto dura, fuori dal mito.
«La Resistenza non è stata solo Bella ciao e gli uomini non furono solo degli eroi. Accaddero cose straordinarie. Di sacrificio estremo. Ma io ho voluto raccontare il mondo che sta sotto più che quello che sta sopra».
Poi arrivò la Liberazione. Cosa fece?
«Furono giorni memorabili. Ma subito dopo ci sentimmo spersi. Eravamo stati la legge. E poi più niente. Ci tolsero le armi. La grande allegria di libertà si spense a poco a poco. Lo Stato si riorganizzò nel nome della continuità. Tornarono i vecchi prefetti. Per cosa avevamo combattuto?» Si sentiva uno sconfitto?
«Mi sentivo come uno che doveva ricominciare da capo. Vissi per qualche mese di espedienti. Terminai gli esami all’università. Diedi la tesi di laurea su Dino Campana. Ebbi come correlatore il filosofo Antonio Banfi. Tornai a Bergamo e insieme ad altri fondammo una rivista: La cittadella. I miei articoli furono notati da Elio Vittorini. Mi offrì di scrivere per il Politecnico. E mi propose un libro di racconti da pubblicare nella sua nuova collana: I Gettoni » .
La fortuna stava girando?
«Avevo realizzato alcuni documentari tra cui uno che andò al Festival di Venezia. Pensai che il cinema potesse essere la mia strada. Tanto è vero che mollai il libro e informai Vittorini».
Come reagì?
«Malissimo. Si sentì tradito. Disse che il cinema era fatto di stronzate e che mi sarei pentito. Fu una predica insieme patetica e violenta».
Ma nel cinema come pensava di affermarsi?
«Avevo una lettera di presentazione per Luchino Visconti. Mi accolse con molto garbo. Disse che avrebbe girato un nuovo film. Aveva visto un mio documentario su Acitrezza e gli era piaciuto. Promise che mi avrebbe chiamato».
E invece?
«Il film – La carrozza d’oro alla fine fu realizzato da Jean Renoir. Mi ritrovai a Roma senza una seria prospettiva professionale. Fu grazie a Ettore Giannini che divenni aiuto regista in Carosello napoletano, era il 1953. In seguito ho lavorato, sempre come aiuto, con Valerio Zurlini e Francesco Rosi. Con quest’ultimo feci La sfida e gli preparai le ambientazioni in Germania per I magliari . Tornai da Amburgo con una broncopolmonite. E divenni attore per caso».
Per caso?
«Sì, durante le riprese della Dolce vita Antonioni mi presentò a Fellini. Si appassionò alla mia storia e volle darmi una parte nel suo film. Lo stesso, in seguito, accadde con Pietro Germi e il suo Signori e signore. Non amavo recitare. Non sopportavo la noia. Intere giornate ad attendere per un ciack. Meglio stare dietro la macchina da presa».
Lei ha fatto in tutto tre film.
«Il primo fu un western oggi considerato un cult: Se sei vivo spara , vi rifusi in una specie di delirio barocco la mia esperienza di partigiano durante la Resistenza».
Perché non ha mai girato un film vero sulla Resistenza?
«Il produttore Franco Cristaldi me lo propose. Mi chiese se avevo letto Fenoglio. Conoscevo Primavera di bellezza, da cui qualche anno dopo sarebbe scaturito Il partigiano Johnny . Mi disse: so che stai scrivendo sulla Resistenza. Perché non vai a capire se possiamo ricavarci un film?».
E lei andò?
«Arrivai ad Alba. Ci incontrammo in trattoria. Avevamo storie molto simili alle spalle. Simpatizzammo. Disse che stava lavorando a un racconto: Una questione privata . Sulla tovaglia di carta buttammo giù una scaletta. Poi si fece tardi. Mi disse che doveva rientrare. Ci ripromettemmo di restare in contatto».
Che anno era?
«Era il 1960. Ci scambiammo alcune lettere. Poi non ebbi risposta. Passò qualche mese. Provai a cercarlo. Qualcuno della famiglia mi disse che si era ammalato. Morì di cancro nel febbraio del 1963. La notizia mi fece male. Quella notte compresi che se ero scrittore in parte almeno lo dovevo a lui».
Perché?
«Per la sua grandezza, per la forza che esprimeva e perché quello che poteva essere solo un fantasma – la sua esperienza partigiana – divenne una cosa viva, palpitante e anticonformista».
Mentre la sua di grandezza? È come se la sua vita sia un insieme di bellissimi capitoli incompiuti «Forse la mia grandezza è nel non essere mai stato grande».
Per questo a un certo punto mollò tutto e si rifugiò in Sud America?
«Quella stagione durò un decennio. E tutto nacque in modo curioso. Volli raggiungere la compagna che amavo: un’insabbiata».
Una cosa?
«Un’insabbiata. Aveva lavorato come costumista per Queimada . Pontecorvo girò quasi tutto il film a Cartagena e, finite le riprese, lei decise di restare laggiù. La raggiunsi per amore. Ma la verità è che Carlo Ponti mi aveva cacciato. Ruppe il contratto che mi legava a lui, mi diede dei soldi con i quali, insieme a un socio, aprii uno studio a New York. Volevamo realizzare film a basso costo. Combinai ben poco. Facevo su e giù con i Caraibi. Vennero i giorni logori. Fu allora che decisi di passare un periodo tra gli indiani della Sierra Nevada, nel Nord della Colombia, sulla punta estrema delle Ande».
E che esperienza fu?
«Oserei definirla mistica. Gli indiani di quella popolazione sono convinti di essere i regolatori dell’universo. Quelli che donano al mondo l’armonia».
E Cartagena? Glielo chiedo perché il suo ultimo racconto ha come protagonista Gabo.
«Lo vidi diverse volte. Passammo alcuni giorni assieme alle isole del Rosario. Era un uomo fantastico: una testa piena di ciocche di capelli e un naso ribelle. Occhi meravigliosi. Due supervisori. Ci aveva condannati al carcere di Macondo. Tutti allora pensammo che Macondo fosse la libertà. Il luogo dove avremmo smaltito le nostre angosce. Ma non era vero. Esisteva solo nella sua fantasia. Fu il suo colpo di genio. Ma a noi restò solo il caos».
Repubblica 27.4.14
Mondo ebook
Il diritto di leggere in digitale
di Stefania Parmeggiani
Leggere (in digitale) è un diritto: legalizziamolo.
C’è un vento nuovo che attraversa l’Europa e accomuna sotto una stessa bandiera i bibliotecari di tutti i Paesi. “The right to e-read” è la campagna promossa dall’Associazione europea delle biblioteche e dei centri di documentazione (Eblida) per ottenere una riforma del diritto d’autore che permetta di fornire alle biblioteche e a tutti i loro utenti «l’accesso alle ricchezze della conoscenza e dell’immaginazione umana, indipendentemente dal formato e dal mezzo di comunicazione». Tradotto: la possibilità di leggere gratuitamente in digitale, visto che in molti paesi gli editori sembrano fare di tutto per impedire il prestito di ebook. L’Italia è tra questi come sottolinea l’Abi che questa settimana ha rilanciato la campagna. I nostri bibliotecari vorrebbero comprare ebook a prezzi accettabili (gli editori non fanno sconti e a volte non glieli vendono affatto), li vorrebbero aggiornati (ma sembra che il 50% degli interessati rifiutino di fornire alle biblioteche le licenze d’uso necessarie a tale scopo). Per farla breve vorrebbero la pari dignità tra digitale e cartaceo.
Corriere La Lettura 27.4.14
Pandora, le orse, Maria Goretti
L’ossessione della purezza come unica onestà femminile
Le diverse dimensioni della moralità
di Umberto Curi
A Venezia, nel sestiere di San Polo, nel muro sopra al numero civico 2.935, si trova un altorilievo raffigurante un volto femminile, chiamato Donna Onesta , termine traslato al vicino ponticello in ghisa che congiunge i sestieri di Dorso Duro e San Polo. Sull’origine di questa denominazione — una fra le più curiose nella pur variegata toponomastica veneziana — ricorrono interpretazioni diverse. Secondo una prima versione, due amici stavano discutendo vicino al ponte riguardo all’onestà della donna. Uno dei due, per manifestare la sua disistima del genere femminile, indicò all’amico l’immagine in marmo del volto della donna visibile sul muro lì vicino, sostenendo che quella era la sola donna sulla cui onestà si potesse scommettere. Più truce, ma non necessariamente più verosimile, la seconda ipotesi. Presso il ponte che si chiamerà della Donna Onesta lavorava uno spadaio, coniugato con una giovane di rara bellezza. Invaghitosi della donna, un patrizio aveva commissionato allo spadaio un coltello. Entrato nella bottega in assenza del marito, il patrizio aveva stuprato la giovane, suscitando in lei un profondo senso di vergogna che la indusse a togliersi la vita, servendosi del pugnale fabbricato dal suo consorte. Più maliziosa, e meno tragica, la terza spiegazione. Il nome deriverebbe dal fatto che nei paraggi del ponte esercitava il più antico mestiere del mondo una meretrice, nota per praticare tariffe ragionevoli, e dunque per un trattamento «onesto» dei propri clienti.
Indipendentemente dalla loro intrinseca plausibilità, e dalle loro differenze, gli esempi ora riferiti convergono nell’indicare un aspetto di particolare rilevanza, e cioè la polisemia del termine «onestà», l’impossibilità di ridurne ad uno il significato. Come è confermato, d’altra parte, dagli usi linguistici nei due ambiti della lingua anglosassone e delle lingue neolatine. Mentre, infatti, nel primo caso honest descrive principalmente l’attitudine a dire la verità, a non ingannare, e coincide perciò con quella che potremmo chiamare onestà intellettuale, nelle lingue romanze il termine è connesso all’aspetto commerciale o economico, e dunque designa un comportamento immune dalla frode o dalla corruzione.
Muovendo da questo riconoscimento, in un saggio ammirevole per la ricchezza dei temi affrontati e per l’originalità del taglio analitico prescelto (Onestà , Raffaello Cortina, pp. 166, € 12), Francesca Rigotti esplora i «molti sensi» di un concetto più complesso e perfino misterioso, di quanto abitualmente si pensi. E lo fa attraversando periodi storici, contesti culturali, universi concettuali diversi, dal protocristianesimo agli enciclopedisti francesi, da Cicerone a Hume, dal nesso onestà-verità fino alla descrizione dei requisiti che fanno di un personaggio un eroe (o un’eroina) dell’onestà. Riprendendo e ulteriormente sviluppando l’approccio di un suo libro risalente al 1998 (L’onore degli onesti , Feltrinelli), l’autrice ricostruisce il percorso che ha condotto ad una graduale contrazione nel significato del termine onestà, giunto ormai a identificarsi con la sola dimensione economica. In omaggio all’estrema limpidezza con la quale è costruito (calzante esempio di onestà intellettuale), il libro si articola in tre parti fondamentali, dedicate rispettivamente all’inquadramento del fenomeno dell’onestà nel linguaggio quotidiano, all’analisi della genealogia storica del concetto, e infine ad una tematizzazione calibrata sull’analisi di alcune coppie concettuali.
Fra i numerosissimi spunti offerti dal testo, due filoni di riflessione appaiono particolarmente pregnanti. Il primo, adombrato nell’aneddoto ricordato in apertura, riguarda la questione dell’onore delle donne, a cui Rigotti dedica tre intensi paragrafi. La scelta di impostare questo tema richiamandosi a Così fan tutte di Mozart-Da Ponte, di per sé appropriata, rinvia tuttavia ad un interrogativo ancor più radicale, relativo alla genesi della communis opinio posta alla base del melodramma. Quale — presunto — fondamento si può invocare (ed è stato effettivamente invocato) per mettere in discussione «la fede delle femmine»? Perché l’onesta condotta delle donne viene fatta consistere sempre e solo nella loro purezza? A domande di questo genere, la risposta più immediata, e per certi aspetti anche più appropriata, è quella che rinvia alla persistenza di un tenace pregiudizio antifemminile, secondo il quale la donna è sesso «debole», non solo e non tanto perché disponga di una minor forza fisica, rispetto al maschio, ma per la sua arrendevolezza alle insidie del sesso.
Questo stesso pregiudizio — ben lungi dal potersi dire del tutto superato al giorno d’oggi — esige d’altra parte di essere in qualche modo spiegato, o almeno ricondotto alla sua più appropriata matrice culturale, che risale ben oltre il melodramma mozartiano. Per questa via, si potrebbe scoprire che in buona parte del mondo greco classico (e prima ancora, in quello arcaico) l’imputazione principale attribuita alle donne si compendia nel termine machlosyne . Le donne — o, meglio, le femmine, visto che questa accusa è rivolta indistintamente ad ogni espressione animale del genere femminile — sono lascive. Storici e logografi, medici, drammaturghi e poeti, concordano nel ritenere che il primo e più importante principio di individuazione del sesso femminile sia l’incapacità di resistere al richiamo erotico. Come risulta, ad esempio, dalla denuncia di Oppiano, il quale descrive indignato le pratiche libidinose di orse e coniglie, disposte ad affrettare il parto, pur di soddisfare il loro sfrenato appetito sessuale. O come è confermato dall’immagine di Pandora, la prima donna, quale emerge dai versi di Esiodo: di aspetto soave e seducente, ma provvista di un’«anima di cagna». O, infine, come è pur indirettamente ribadito dal mito di Pigmalione, il quale rifugge l’amore delle donne, perché scandalizzato dalla loro lascivia, e cerca conforto nella pura bellezza di una statua muliebre da lui stesso costruita. Dove è evidente il tentativo di legittimare (ovviamente, senza riuscirvi) con una presunta motivazione «biologica» la misoginia largamente diffusa nelle società antiche.
D’altra parte, assumendo la prospettiva ora delineata, si comprende per quali motivi le tre figure di «eroine dell’onestà», richiamate nel libro, in realtà corrispondano a personaggi femminili in modi diversi vittime della brutale inclinazione allo stupro da parte di altrettanti uomini senza scrupoli né moralità. Eroine sono dunque (al di là delle differenze) Lucrezia, «onesta moglie di Collatino», di cui scrive Tito Livio, la giovane Pamela, del romanzo omonimo di Samuel Richardson, e Maria Goretti, assurta alla gloria degli altari, per il fatto che, in modi diversi, hanno saputo resistere alle tentazioni del sesso, fino all’estremo sacrificio. Quando è declinata al femminile, l’onestà coincide insomma con la purezza, nel caso di una vergine, o con la fedeltà, nel caso di una donna coniugata. Senza alcun riferimento all’accezione «economica» del termine.
Di tutt’altro segno il secondo ordine di problemi, pertinenti alla sfera politica. Nell’estrema concisione dei riferimenti a questa peculiare accezione dell’onestà, si può cogliere un sia pur velato fastidio dell’autrice per quel vero e proprio pervertimento di valori, che ha di fatto espulso l’onestà dall’ambito della politica. Fino ad accreditare l’insana idea che, per poter essere conforme alle regole della politica, una condotta non possa che essere disonesta. Approdo — questo — malinconico e deprimente. Al quale, con un condivisibile scatto di trattenuta indignazione (e forse — pare di intuire — di personale immedesimazione), Rigotti contrappone la figura di William Stoner, un «eroe normale», il professore protagonista del romanzo di John Williams (Stoner , Fazi), incrollabile nel rifiutarsi di barattare la sua onestà per un avanzamento di carriera accademica.
Corriere La Lettura 27.4.14
Cola di Rienzo era un messia. E finì male
di Antonio Carioti
Carl Schmitt non aveva dubbi. Il geniale giurista e politologo tedesco, noto quanto giustamente biasimato per la sua adesione al Terzo Reich, era convinto di aver individuato in un passo della Seconda lettera di san Paolo ai Tessalonicesi l’unica «immagine della storia» rispondente alla «fede cristiana originaria», nonché il fondamento decisivo dell’autorità imperiale nel Medioevo. Il brano, per la verità piuttosto enigmatico, riguarda la venuta dell’Anticristo, che sarebbe ritardata nel tempo, secondo quanto si legge nel testo di san Paolo, «da colui che finora lo trattiene» (in greco il katéchon ). Una volta «tolto di mezzo» costui, il Figlio della perdizione si sarebbe rivelato e presto sarebbe seguita la fine del mondo, con il secondo avvento di Gesù Cristo sulla Terra. Schmitt riteneva che il katéchon andasse identificato con l’impero, potenza investita della missione di opporsi al dilagare del male in questo mondo, ed era convinto che la dottrina paolina avesse dunque garantito e legittimato per secoli il potere della corona imperiale. Ma lo storico del cristianesimo Gian Luca Potestà, nel saggio L’ultimo messia (Il Mulino), dimostra che si tratta di una visione unilaterale, che semplifica in modo arbitrario l’estrema complessità del profetismo medievale. La sua ricostruzione parte dal Vaticinio di Costante , un’opera propagandistica orientale del VII secolo in cui si annunciava la sottomissione del mondo intero a un grande monarca bizantino, che poi si sarebbe recato a Gerusalemme per abdicare e consegnare il suo regno direttamente a Dio: in tal modo, facendo venire meno il katéchon (cioè l’impero), avrebbe permesso la comparsa dell’Anticristo e aperto la strada all’Apocalisse. Potestà, docente della Cattolica di Milano, descrive il passaggio di questa retorica messianica a Occidente, dove a metà del X secolo, all’epoca della dinastia carolingia, diventò «funzionale all’annuncio della potenza dei sovrani franchi». Poi l’autore segue le successive trasformazioni del millenarismo, nel quadro dei conflitti geopolitici e spirituali del tempo. Di volta in volta le diverse profezie avrebbero celebrato l’autorità degli imperatori germanici (in particolare di Federico I Barbarossa), la funzione salvifica del papato e del suo potere temporale, il ruolo sacralizzato della monarchia francese. Fino a quando, verso la metà del XIV secolo, mentre i Pontefici erano relegati ad Avignone, a Roma non sarebbe sorto «un primo embrione di messianismo popolare» intorno alla figura del «tribuno» Cola di Rienzo. E qui, avverte Potestà, la novità è quanto mai rilevante. Non solo perché l’asserito detentore della sovranità cessa di essere un singolo monarca e diventa un soggetto collettivo come il popolo romano, ma perché la profezia si secolarizza, esce dalla prospettiva apocalittica. Ora riguarda «il tempo di una svolta politica, non il tempo ultimo di una storia della salvezza». Cola di Rienzo finì male, linciato dai suoi concittadini nel 1354. Ma aveva gettato un seme destinato a fruttificare.
Corriere La Lettura 27.4.14
L’occhio è filosofo
Ghirri allievo a sorpresa di Merleau-Ponty
di Arturo Carlo Quintavalle
Leggiamo di Maurice Merleau-Ponty il saggio su Paul Cézanne. Chiede Émile Bernard: «La natura e l’arte non sono forse differenti?», e il pittore di Aix risponde: «L’arte è un’appercezione personale. Io pongo tale appercezione nella sensazione, domando all’intelligenza di organizzarla in opera». Luigi Ghirri invece usa spesso una frase di Giordano Bruno: «Le immagini sono enigmi che si risolvono nel cuore». C’è un nesso dunque fra il filosofo francese e il fotografo italiano?
Nella grande mostra che Reggio Emilia gli dedica possiamo forse scoprire le matrici di una nuova ricerca che oggi si sta sviluppando. Lo sguardo di Ghirri dunque non fa violenza allo spazio attorno, ma vi penetra, vi si adatta. È uno sguardo libero da gerarchie, quelle della tradizione; è uno sguardo — basso — volto a oggetti ai margini, magari a resti, a frammenti. Ghirri è attento all’ambiguità delle forme, alla loro apparente, estraniata fissità. Nulla è certo nello sguardo fenomenologico di Ghirri: il vuoto e il pieno, il piccolo e il grande, il riprodotto e il reale.
Lo sappiamo bene, da Ghirri e da pochissimi altri (Mimmo Jodice, Giovanni Chiaramonte, Gabriele Basilico) muove un nuovo modo di rappresentare il paesaggio ma lui, rispetto a molti compagni di strada, dialoga con gli artisti del Concettuale e mostra bene, nei suoi scritti, il rapporto con il Merleau-Ponty di Fenomenologia della percezione , pubblicata in Francia nel 1945, da noi nel 1965 e subito al centro di un ampio dibattito. Anche il filosofo francese parla della funzione attiva dello «sguardo», dell’«impegno del nostro corpo nelle strutture tipiche del mondo», di «organizzazione del campo visivo», degli «oggetti che formano un sistema», dell’esperienza come «dialettica del nostro e degli altri corpi», infine del «mutamento (che) presuppone un certo posto in cui io mi pongo e da cui vedo sfilare le cose; non ci sono eventi senza qualcuno a cui essi accadano».
Ebbene, nella ricerca di Ghirri questa riflessione diventa consapevolezza e lo provano sia i suoi testi sia le sue immagini. Le fotografie di ricerca in Italia, ma ancora negli Usa e in Europa, punto di riferimento per i molti cui si deve da almeno tre decenni una nuova figura del paesaggio, sono molto diverse da quelle di Ghirri, che ha consapevolezza di scelte e un tessuto di riferimenti storici diverso. Così è evidente il dialogo con Giorgio de Chirico ma, più ancora, con René Magritte del quale troviamo gli spazi sospesi, il vuoto di accadimenti, la contrapposizione al limite dell’assurdo di frammenti, forme, figure, spazi. Ebbene, proprio questa parte della ricerca di Ghirri diventa oggi matrice di un’indagine che segna forse una rivoluzione. Al posto dei territori contemplati, dei vuoti senza eventi, della fotografia come diario privato, emerge adesso un nuovo montaggio del racconto.
A Reggio Emilia ne troviamo tracce molteplici: la prima certo è la mostra Fantasie fotografiche del primo Novecento in Europa , trecento cartoline del Finnish Museum of Photography che non sono certo la manifestazione di un Surrealismo ante litteram , semmai immagini della cultura Jugend di fine secolo, dove vediamo figure di attrici, cantanti, soubrette, associate a fiori o a vegetali, oppure ironiche rappresentazioni di sogni di desiderio, il tutto suggerito attraverso sottili, allusivi montaggi di fotografia e disegno che dopo, e soltanto dopo, proprio i surrealisti recupereranno. Altra mostra stimolante è quella di Sarah Moon, Alchimies , che propone piccole, concentrate immagini in bianco e nero, ombre che emergono da spazi ristretti, figure ambigue di una memoria attenta al mistero delle cose. Echi di questo ritorno a una figurazione sottilmente simbolica li ritroviamo altrove, ad esempio nella Pianosa di Marinella Paderni e nelle foto di due giovani, Paolo Simonazzi e Andrea Ferrari.
Il segno di un cambiamento, di una trasformazione dei modelli, è del resto chiaro in una bella mostra di Dora Maar a Palazzo Fortuny a Venezia (Dora Maar. Nonostante Picasso , 8 marzo-14 luglio) che propone raffinate immagini legate al movimento surrealista precedute però da altre, intense, sulle vissute strade dei poveri a Londra. Suggeriva Merleau-Ponty che il tempo è sempre «il mio rapporto con le cose».
Corriere La Lettura 27.4.14
Letture filosofiche
Oltrepassare la Follia L’uomo nel labirinto
La nuova esplorazione di Cacciari finisce in Gloria
di Emanuele Severino
Ancora oggi, come sempre, le religioni stanno al centro della storia. Sia pure in modi tra loro conflittuali, aiutano i popoli a risolvere le forme più profonde delle loro inquietudini. Parlano un linguaggio che si fa capire. Dicono quel che l’uomo vuol sentirsi dire. Inevitabile quindi che venga il tempo in cui egli voglia sapere anche perché le cose debbano stare come egli vuole che stiano. Il tempo della filosofia. Vi si rimane anche quando si dice che la filosofia è morta e che le cose stanno come è stabilito dalla scienza moderna. Le cose ! Conosciamo il significato della parola «cosa»? È proprio così ovvio? O non dovrebbe essere il primo a venir messo in luce? Iniziando il proprio cammino, proprio questo si domanda la filosofia. Essa chiama «essente» (ón , «ente») la cosa . L’intero sviluppo storico della filosofia riguarda il modo in cui essa pensa l’essente . Ma ovunque si guardi — in terra o in cielo, nella veglia o nei sogni, nella vita quotidiana e in ogni attività pratica, nella scienza, nell’arte, nella normalità psichica o nella pazzia — ci si imbatte in cose , essenti, in «qualcosa che è». Il modo in cui la filosofia ha inteso la «cosa» e l’«essente» è il terreno in cui cresce la storia dell’Occidente. L’Europa non è più il centro del mondo, ma il mondo è ormai dominato dal modo in cui l’Europa — cioè la filosofia — ha pensato l’essente.
Credo che questo discorso possa venir condiviso anche da Massimo Cacciari, che pubblica ora un altro splendido libro: sul modo, appunto, in cui lungo la propria storia la filosofia ha inteso l’essente. Si intitola Labirinto filosofico (Adelphi). Pagine che hanno alle proprie spalle l’intera opera di Cacciari. Impossibile, qui, indicare sia pur da lontano la loro altezza e ricchezza. Mi limiterò a ciò che in esse riguarda più da vicino i miei scritti — chiedendo scusa al lettore se, data l’intensità della scrittura di Cacciari, dovrò un po’ addentrarmi nella specificità del discorso filosofico. Un peccato fare altrimenti.
Pensare l’essente, esse dicono, è trovarsi in un «labirinto». Ma in maniera del tutto singolare. Non ha nulla a che vedere con il luogo in cui ci si perde senza poter trovare l’uscita. Nel labirinto filosofico, «lungi dal chiudersi in sé, ogni passo è mosso dall’istanza di venire “superato”, proprio perché è cosciente di essere congettura, in dialogo non solo con quelle precedenti e prossime, ma con quelle stesse avvenire». Questo «superamento», mi sembra, non vuol essere la negazione di tutto ciò che nei «passi» del labirinto si pensa. Comunque, Cacciari non intende certo affermare che l’esistenza del labirinto sia una «congettura». Egli si basa cioè sulla non-congettura. Siamo di fronte al tema di tutti i temi: il tema decisivo della non-congettura, cioè della verità incontrovertibile.
Dopo aver esposto il senso complessivo di un’ampia arcata dei miei scritti, Cacciari dice di essi: «Questa linea — da Oltre il linguaggio (1992) a Oltrepassare (2007) non mi pare in contrasto col cammino che qui si svolge» (p. 48), cioè col suo cammino. Infatti, aggiunge, in essi si afferma che «il Cielo della verità degli essenti non si manifesta mai nella finitezza dell’apparire: vi si ri-vela soltanto» (p.47). Il «velare» è cioè indissolubilmente unito al «rivelare». Una sequenza, questa del ri-velare, che è presente nei miei scritti da quasi cinquant’anni. Ma in essi la «finitezza dell’apparire» è la struttura originaria della verità , l’incontrovertibile, la non-congettura originaria. Nemmeno ora Cacciari la mette in questione. Scrive anzi che «qui il discorso severiniano perviene alla sua massima energia» (p. 50). Ora, soltanto la struttura originaria della verità può fondare quella sequenza del ri-velare. E può fondarla (qui debbo rinviare alle mie pagine) perché tale struttura implica con necessità che ogni essente (ogni cosa) è eterno . Ogni essente, non soltanto un Dio. Nessun essente oscilla tra il nulla da dove verrebbe e il nulla in cui andrebbe. (Queste affermazioni non vanno contro le abitudini concettuali incommensurabilmente di più di quanto vi andasse nel XVI secolo l’affermazione che è la Terra a girare attorno al Sole? Sì. Ma se stiamo alla semplice tesi dell’eternità di ogni essente — e alla semplice tesi se ne sta chi se ne scandalizza — allora la teoria della relatività non è poi così lontana da questa tesi — lontanissima peraltro, tale teoria, per quanto riguarda il modo in cui la tesi è fondata ).
Dunque (ritornando a quella che prima abbiamo chiamato «sequenza del ri-velare»): poiché è necessario che ogni essente sia eterno, il significato dell’eternità di ogni essente, e quindi il significato di ogni essente, si ri-vela lungo un cammino che non ha mai compimento. Di qui il nostro esser destinati a «vedere sempre di più», e sempre più nella Gioia, dopo la morte. Il significato di ogni essente è inesauribile. Nel Cielo della verità resta cioè uno spazio infinito, che non potrà mai essere detto, veduto, sperimentato da parte del finito (ma che è il fondamento della nostra destinazione alla Gioia). Questa, la sequenza del ri-velare con cui Cacciari non si trova in contrasto.
Ma c’è anche quest’altra conseguenza: che tutto ciò che va mostrandosi lungo il cammino mai compiuto e tutto ciò che resta per sempre nascosto in quello spazio infinito è un essente eterno — appunto perché la struttura originaria della verità mostra la necessità che ogni essente sia eterno; e tale struttura (si mostra nei miei scritti) è il fondamento in base al quale si può affermare l’esistenza di quel cammino mai compiuto e di quello spazio infinito. Se si voltano le spalle a questo quadro (e soprattutto a quella fondazione che qui resta semplicemente enunciata), l’esistenza di tale cammino e di tale spazio rimane una «congettura» smentibile (cioè dogma, postulato, aspirazione, fede), un presupposto arbitrario. È ad esempio il presupposto di Husserl, per il quale non c’è bisogno di fondare l’affermazione che le cose «evidenti» posseggono un significato implicito che va mostrandosi lungo un processo senza termine. È il presupposto di Heidegger, che facendo leva sul concetto greco di verità come alétheia — che alla lettera significa «non (a ) nascondimento (léthe )» — ritiene a sua volta di poter affermare una dimensione nascosta che infinitamente si allontana nel processo stesso in cui ad essa ci si avvicina.
E per Cacciari? Per lui il cammino mai compiuto è la produzione degli enti, ma l’indicibile spazio infinito verso cui il cammino si dirige è il «Possibile», inteso come «potenza» che «fa essere ciò che è», ossia cose ed enti, loro «fondamento», che però non è cosa o ente (pp. 303, 301-304). La derivazione dal neoplatonismo e da Schelling sembra chiara, anche se Cacciari preferisce elaborare e condividere una derivazione kantiana. Non sembra tuttavia che per lui il «Possibile», che è «fondamento» e «potenza», sia un nulla assolutamente nullo. Ma allora — chiedo — perché negare che sia essente? Perché ridurre il significato di «essente» a ciò che si mostra, per poi poter dire che al di là dell’essente c’è la Possibilità che lo fa essere? Anni fa, parlando con Gadamer, gli facevo la stessa domanda, questa volta a proposito della decisione di Heidegger di restringere (arbitrariamente) la dimensione dell’ente per poter poi affermare che al di là di essa si apre quella dell’«Essere» (che certo non è per Heidegger un nulla assolutamente nullo).
D’altra parte Cacciari aveva scritto che gli enti che appaiono nel manifestarsi del «Possibile» «non vengono affatto lasciati “oscillare” tra nulla e nulla», non sono «mera contingenza» (Della cosa ultima , Adelphi, 2004, p. 86). Ciò significa che, per lui, il «Possibile», di cui gli enti sono la manifestazione, è la condizione della loro eternità, l’«Inizio» che la custodisce — e Cacciari intende salvaguardarla. Ma come può il «Possibile» custodire l’eternità di ciò che è (degli enti), se esso è la «potenza» che «fa essere ciò che è»? L’eterno è eterno proprio perché non è fatto essere. Tuttavia, dicevamo, l’eternità di ogni essente è necessariamente implicata da ciò che non può essere negato, la struttura originaria; ed è impossibile che sul fondamento di essa si pervenga alla negazione di ciò che essa implica e quindi alla negazione di essa. È cioè impossibile che si pervenga a qualcosa — il «Possibile» — che non è un nulla e che tuttavia ha la pretesa di non essere un ente e di stare al di sopra della totalità degli enti. E, si è visto, Cacciari non sembra negare né la struttura originaria, né l’eternità di ogni ente. (Tale struttura non è cioè un insieme di postulati dai quali sia possibile dedurre, come nei sistemi ipotetico-deduttivi, un teorema che li contraddica — come Gödel ha appunto mostrato per la matematica).
Ancora. Tutto è eterno. Quindi anche gli erranti e l’errore, inteso come il loro errare. Ciò che la Follia pensa — cioè che gli essenti vengono dal loro nulla e vi ritornano — è nulla, ma la Follia non è un nulla, è un essente; e quanto ampio è il suo regno! Da quando appare sulla terra, l’uomo è dominato e abbagliato dalla Follia. Più profonda di ogni «peccato originale», è la radice di ogni dolore e di ogni angoscia. Nella sua essenza più profonda l’uomo è il contrasto tra l’eterno in cui consiste la verità e l’eterno in cui consiste la Follia. Ma, e ancora sul fondamento della struttura originaria della verità, è necessario affermare che la Follia è destinata al tramonto. Cacciari scrive: «Se l’errore stesso è un eterno, come dice appunto Severino, che valore è possibile dare a espressioni che ne indicano il tramonto e il compimento?» (Labirinto filosofico , p. 49). Accenno alla risposta.
L’infinito cammino del ri-velarsi degli essenti passa attraverso il tramonto e il compimento della Follia. Questo non significa che la Follia vada nel nulla, ma che tutti gli eterni che la compongono si sono ormai manifestati, e quindi essa è compiuta, è un perfectum . Dopo la morte la sua ampiezza abbagliante rimane un punto rispetto all’infinità mai compiuta del cammino in cui la manifestazione del finito si fa sempre più concreta. Per questo a tale cammino si addice esser chiamato Gloria . In qualche modo, nella nebbia, il cristianesimo lo intuisce . Cristo siede, nella «Gloria», alla destra del Padre. Ma non può aver dimenticato la propria sofferenza, dovuta ai peccati, cioè alla follia, dell’uomo. La ricorda forse da lontano, così come noi ricordiamo il passato? Nemmeno: sarebbe un modo di averla dimenticata. Allora l’ha completamente vicina a sé: nella somma felicità della «Gloria» continua a sperimentarla; ed è proprio quella sofferenza, in tutti i suoi aspetti. Non una briciola di essa va perduta, diventando un nulla. È eterna. Ma essa è una briciola in confronto all’infinita felicità della «Gloria». Al di là del racconto cristiano, si tratta di pensare tutto questo.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Cosa vuol dire scrivere in italiano
La monumentale opera, curata da tre nostri giovani collaboratori, ci permette di conoscere meglio i meccanismi grazie ai quali la lingua italiana si è evoluta nei testi dei generi più diversi
di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese, Lorenzo Tomasin
L'italiano in cui sono scritte queste righe e le pagine di questo giornale è una lingua parlata e scritta, oggi, da milioni di persone. Una lingua varia nelle sue articolazioni interne – geografiche, sociali, culturali, stilistiche –, ma anche unitaria e ben riconoscibile nella sua fisionomia complessiva. Come molte lingue contemporanee, l'italiano quotidianamente prodotto, ascoltato e letto da tutti (o quasi) gli italiani è una lingua ormai desacralizzata nella sua dimensione scritta, proprio perché ormai (e finalmente) buona per tutti gli usi. Non più o non solo lingua del bel cantare o del dolce poetare, ma codice di comunicazione quotidiana, urlata, digitata, funzionale.
Ciò ne fa, naturalmente, una lingua viva e (ne siamo convinti) complessivamente in salute. Ma ne fa anche qualcosa di diverso da ciò che è stata gran parte della sua storia, visto che almeno fino alla metà del secolo scorso tra lingua del parlato e lingua dello scritto c'è stata una separazione molto netta. Banale osservare che la dimensione parlata della lingua è di fatto irrecuperabile – per ragioni legate all'impossibilità di registrazione della voce – fino a un periodo tutto sommato recente. Banale, anzi falso; visto che molto del parlato "antico" ci è ancora oggi restituito, se pure in modo indiretto o distorto, proprio dai testi dell'italiano scritto. È nel "parlato trascritto" delle deposizioni dei testimoni negli atti giudiziari, a partire da quelle, formulari, con cui - prima dell'anno Mille - comincia la nostra storia linguistica: «Sao ko kelle terre …». Ma anche nelle scritture dei semianalfabeti (emigranti, mezzadri, monache, streghe: quanta sgrammaticata naturalezza parlata nei testi che oggi chiamiamo semicolti) o nelle estemporanee scritte disseminate sui muri del nostro Paese (nel 1977, in piena contestazione, in un'università si leggeva: «distuggiamo la grammatica», con chiosa autoironica nella stessa vernice spray: «come vedete da sopra, avevo spontaneamente cominciato»).
Ma una storia dell'italiano scritto, come quella che abbiamo tentato di proporre coordinando il lavoro di una trentina di autori, è prima di tutto la storia di una grande e non del tutto trapassata lingua letteraria. Proprio grazie al prestigio dei modelli letterari trecenteschi (Dante, Petrarca, Boccaccio), il fiorentino antico riuscì progressivamente ad affermarsi sulle altre parlate locali, imponendosi come lingua condivisa in un'Italia politicamente divisa (e trasformando, dalla metà del Cinquecento, il ruolo dei diversi volgari divenuti ormai dialetti). La costruzione di questa identità dell'italiano è un altro dei prodigi del Rinascimento: le Prose della volgar lingua (1525) dell'umanista Pietro Bembo, a cui si deve la codificazione della nostra lingua sul modello dei classici, sono figlie degli stessi ambienti in cui Raffaello reinventava l'antico. Questo senso del passato nel moderno costituirà uno dei punti di forza dell'italiano: è attraverso la sua storia letteraria che l'italiano – lingua di poeti e di scrittori (spesso tutt'altro che santi) – è diventata una lingua di cultura universalmente riconosciuta come tale.
Oggi, dopo che abbiamo assistito – sia in prosa sia in poesia – alla sua radicale trasformazione, la lingua letteraria continua a essere vissuta con ammirazione mista a disagio. Ma soprattutto con scarsa attenzione per il suo valore storico, che non è semplicemente quello di uno strumento neutro per veicolare contenuti letterari o idee. Sempre più numerosi sono i tentativi di riscrittura dei nostri classici in italiano moderno. Ma Boccaccio, Machiavelli, Castiglione non sono anche, precisamente, la lingua del Decameron, del Principe o del Cortegiano?
Al di là delle esigenze di leggibilità, negli esperimenti di chi mette tra parentesi la lingua in cui si sono espressi i nostri scrittori si coglie una difficoltà nel percepire la lingua letteraria – quella "difficile" e a prima vista "lontana" dei grandi autori del Medioevo, del Rinascimento o anche di età più vicine – come qualcosa che ha valore in sé. Un valore che non può essere rimosso, ma va semmai spiegato con paziente attenzione proprio perché possa essere apprezzato da un pubblico più ampio dei soli addetti ai lavori. Anche questo si propone di fare un'opera di sintesi non puramente manualistica come la nostra, altrimenti difficile da giustificare qui e oggi.
Alla base c'è l'idea che la storicità dei fatti linguistici sia qualcosa con cui bisogna misurarsi dal punto di vista culturale, prima ancora che estetico. Un punto di vista che accomuna tutti e tre i volumi di questa Storia dell'italiano scritto, dedicati rispettivamente alla Poesia, alla Prosa e all'Italiano dell'uso. Due terzi dell'opera come si vede (cioè circa un migliaio di pagine) sono dedicati ai generi della scrittura letteraria, ma lasciando spazio – accanto ai grandi istituti canonici (il romanzo, la poesia lirica) – anche a generi che forse siamo meno abituati a pensare come importanti nella storia della nostra lingua.
L'epistolografia degli eleganti prosatori cinquecenteschi («le lettere s'hanno a scrivere con un certo nè troppo, nè poco di famigliarità», scriveva Stefano Guazzo), la poesia comico-realistica di tradizione municipale (come il Cecco Angiolieri di S'i' fosse fuoco arderei 'l mondo) o la prosa teatrale costantemente contaminata dai dialetti (come in tante opere di Goldoni e nei memorabili tic linguistici dei suoi personaggi: «Vegnimo a dire el merito»). E se oggi la storiografia e la trattatistica si sono semplicemente dissolte nell'àmbito non-letterario delle scritture scientifiche ("saggistica", negli scaffali delle librerie), per secoli sono state luogo di travaso di una sapiente retorica nel vivo dell'attualità, della natura, del cosmo: dalla grande prosa di Galileo – scienza e letteratura insieme – alla divulgazione piacevole declinata dagli scritti razionalisti e illuministi (basti pensare al Newtonianismo per le dame di Francesco Algarotti, 1737). Senza trascurare l'importanza di certe letture trasversalmente diffuse nella società, come i romanzi d'appendice o più di recente i fumetti: quella che gli specialisti chiamano "paraletteratura".
Tra letteratura, non-letteratura e para-letteratura, la Storia dell'italiano scritto ripercorre il retroterra di ciò che oggi identifichiamo con la lingua nazionale, sforzandosi di dargli una sistemazione complessiva. Nella convinzione che riordinare significhi – in un caso come questo – interpretare.
libro & presentazione
«Storia dell'italiano scritto», a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin (Roma, Carocci, I. Poesia, pagg. 584, 49,00; II. Prosa letteraria pagg. 560, 48,00; III. Italiano dell'uso pagg. 500, 45,00) è un'opera articolata in tre volumi (acquistabili anche singolarmente) che riunisce i contributi di trenta autori, i quali ricostruiscono la nostra storia linguistica attraverso generi e tradizioni testuali. L'opera sarà presentata venerdì 9 maggio alle ore 14.30 al Salone del Libro di Torino, da Enrico Testa, Tiziano Scarpa e Stefano Bartezzaghi.
il
Sole24ore domenica 27.04.14
Fede & malattia
Il significato del guarire
Il gesuita belga Guy Vanhoomissen spiega
come la dottrina cattolica abbia dato varie interpretazioni al risanamento
di Gianfranco
Ravasi
Dieci anni fa moriva a New York la scrittrice Susan Sontag, di matrice ebraica ma dotata di una curiositas culturale onnivora e cosmopolita. Ebbene, a metà degli anni '70, quand'era ancora quarantenne, fu colpita da una forma tumorale dalla quale, però, riuscì a guarire. Su quell'esperienza traumatica compose nel 1978 un'analisi forte e appassionata, emblematicamente intitolata Malattia come metafora (tradotta l'anno successivo da Einaudi). L'interpretazione simbolica della malattia che essa offriva infrangeva il mito dell'approccio solo tecnico, affidato alla terapia medica in modo esclusivo. La malattia nella persona umana è, infatti, un impasto inestricabile di fisicità e spiritualità, di biologia e psicologia, di dolore materiale e di desolazione interiore.
È appunto una "metafora" esistenziale o, meglio, un "simbolo" che unisce in sé corpo e anima, per cui i sintomi non sono solo quelli registrabili dalle macchine e dai loro diagrammi ma anche dalla soggettività umana. In questa luce si comprende perché la moderna medicina si affanni a proporre un'"alleanza" tra medico e paziente, ossia una sorta di sintonia che valichi l'evidente disparità tra la "verticalità" vitale e magisteriale del medico e l'"orizzontalità" inferiore e mortale della posizione del paziente. È un po' anche per questo che in tutte le culture medicina e religione sono state a lungo sorelle, anzi, si sono confuse tra loro. Alla base di questa unione c'era un principio importante di antropologia: l'unitarietà psicofisica della persona, spesso accantonata da un certo supponente scientismo esclusivistico moderno (e naturalmente dai santoni e maghi guaritori, per il verso opposto).
Detto questo, però, non si deve rifiutare la conquista – altrettanto moderna – della distinzione degli approcci: se il sofferente è uno solo pur nella complessità della sua struttura, distinti (anche se non separati) sono i protocolli degli interventi. Detto in maniera brutale, il cappellano non deve diventare un curatore che propone filtri terapeutici e il medico non deve disprezzare chi offre spiritualità e sostegno morale. Per usare una famosa locuzione di Stephen Gould, scienziato statunitense, si tratta di non overlapping magisteria, di magisteri indipendenti e non sovrapponibili tra loro che, però, s'incontrano e operano sullo stesso soggetto.
Ecco perché è legittimo considerare la malattia non solo nel suo "fenomeno", nella sua "scena" esteriore, sperimentale, ma anche nel suo fondamento ultimo che rimanda alle dinamiche radicali sul senso del limite creaturale e del male. In questo senso, allora, le risposte "metafisiche" – sia pure incomplete e imperfette – sono talora altrettanto necessarie per il sofferente come quelle che l'altro "magistero" gli consegna, e possono esercitare un loro effetto benefico. Ora, pur tenendo conto delle incertezze che la storicità della Bibbia rivela (non di rado, infatti, i due protocolli sono confusi e peccato e malattia vengono mescolati tra loro), è interessante scoprire quale sia il vero significato dell'opera di Gesù guaritore.
Che il fatto sia indiscutibile è attestato da un dato oggettivo: quasi il 45% del racconto dell'attività pubblica di Cristo secondo il Vangelo di Marco è occupato da guarigioni, tant'è vero che un teologo, René Latourelle, ha potuto scrivere che «eliminare i miracoli di Gesù dai Vangeli sarebbe come immaginare l'Amleto di Shakespeare senza il principe». Gli interventi di Gesù sono, però, rubricati dagli evangelisti in una categoria non medica. Giovanni adotta il termine greco seméia, sono "segni" di un diverso livello, esigono cioè un'ermeneutica trascendente. Gesù non esita a rigettare ogni confusione tra malattia e colpa così da avallare un primato esclusivo della teologia sulla medicina: del cieco nato dice esplicitamente che «né lui né i suoi genitori hanno peccato perché costui nascesse cieco» (Giovanni 9,3), diversamente dall'opinione allora dominante.
La richiesta che egli fa al sofferente non è quella di applicare alcune terapie da lui escogitate ma semplicemente di avere fede perché egli – che si presenta come il Figlio di Dio – vuole proporre una rivelazione sulla meta ultima a cui è destinata la creatura limitata, fragile e caduca. Essa è quella della nuova creazione escatologica nella quale – come accade nei malati che sono da lui liberati dal loro limite come segno di quel futuro – si avrà la redenzione piena dal male. Cristo, perciò, presenta un segno in azione, una prefigurazione dinamica del futuro Regno di Dio che sarà liberato da «morte, lutto, lamento e affanno», come si legge nell'Apocalisse (21,4). È, dunque, il suo un seme deposto nel terreno della storia per delineare non un progetto "transumano" scientifico, bensì un esito trascendente. E la già evocata unitarietà psicofisica della persona esige nel "segno" un coinvolgimento di tutto l'essere, spirito e corporeità.
Di questo tema e dei diversi approcci che la Bibbia e la religione in genere hanno adottato per interpretare una realtà così "simbolica", cioè unitaria e complessa, che è la malattia discute il gesuita belga Guy Vanhoomissen nel suo saggio sulla malattia e la guarigione. Forse in alcuni nodi di questo discorso, che è pur sempre rovente, egli si rivela un po' sbrigativo, ma è importante – contro le frequenti ingerenze del miracolismo avallate da alcuni contesti devozionali soprattutto mariani – definire l'autentica finalità dell'azione di Cristo. Egli, poi, non solo si confronta col male fisico, ma lo assume in sé attraverso il percorso oscuro e tragico della sua Passione. Vivendolo nella sua persona, egli vi depone la sua energia salvifica di Figlio di Dio, un principio non "farmacologico" ma trascendente che però si semina nell'unità della persona umana così da «trasfigurare il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso», come scriverà Paolo ai cristiani di Filippi (3,21).
Guy Vanhoomissen, Malattia e guarigione, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 114, € 12,00
il Sole24ore domenica 27.04.14
Dove è la miglior prosa?
di Massimo Onofri
È difficile dare torto a Alfonso Berardinelli quando qui, il 16 marzo scorso, recensendo L'invenzione del vero (Gaffi) di Raffaello Palumbo Mosca, individuava una contraddizione: l'aver definito «officianti il funerale della forma-romanzo» tutti coloro che esprimono «qualunque dubbio sulla consistenza della sovrapproduzione narrativa attuale» e l'essere nel contempo andato in direzione opposta, col risultato di celebrare, alla fine del viaggio, molti libri che romanzi non sarebbero, a finire dal bellissimo Riviera di Giorgio Ficara, su cui entrambi concordano. Difficile dargli torto, considerando che Berardinelli è uno degli eroi intellettuali del libro di Palumbo Mosca: quel Berardinelli che, come mostra il suo notevole Non incoraggiate il romanzo (2011), non nutre quasi più, sul genere letterario che nacque borghese, nessuna illusione. Ora, però, bisognerebbe confrontarci con la pars costruens de L'invenzione del vero, di gran lunga la più importante, impegnata nel tentativo d'uscire finalmente dall'impasse d'una crisi, quella del romanzo appunto, che non finisce mai di finire. Tentativo tanto più apprezzabile perché compiuto da un trentenne, cioè dal rappresentante d'una generazione che, sinora, è stata ostaggio del mito post-tondelliano della narratività a ogni costo, anche a scapito delle idee.
È vero: Palumbo-Mosca punta le sue carte su quel tipo di narrazioni ibridate, che hanno deciso di contaminarsi con altre forme di prosa: il saggio, l'articolo giornalistico, il pamphlet, il diario e l'autobiografia. È di sicuro più felice quando scommette su libri che, se non sono romanzi in un senso classicamente novecentesco (antiromanzo e metaromanzo compresi), non sono nemmeno saggi in un senso tradizionale, né studi con finalità di tipo scientifico o accademico (aggettivo che pronuncio in un senso nobile, non polemico), ma implicano sempre una forte vocazione sperimentale, non solo – e virtuosisticamente – di scrittura, ma soprattutto concettuale. Risulta meno felice invece, quando la sua scelta cade proprio su forme non romanzesche che però esibiscono più evidenti vincoli di genere, come nel caso di alcuni critici letterari citati. Che orizzonte è quello aperto da Palumbo Mosca?
Se parla d'un romanziere anche puro – uno che per me rappresenta oggi la categoria ai più alti livelli –, e cioè Sandro Veronesi (lo stesso discorso vale per Cerami), è evidente la sua preferenza per libri come Cronache italiane e Occhio per occhio. La pena di morte in quattro storie. Per restare alla generazione di mezzo (sono del tutto d'accordo con lui), campeggiano qui scrittori spuri come Edoardo Albinati, Eraldo Affinati e Antonio Franchini.
Dei grandi vecchi, è evidente la sua simpatia per Raffaele La Capria, quello più scopertamente autobiografico e concettuale.
Celebra poi Arbasino: soprattutto perché non si preclude nessuna strada e tende a inglobare i materiali più eterogenei. Tra i saggisti incamminati sulla strada dell'ibridismo, oltre a Ficara, possiamo incontrare Silvano Nigro, Raffaele Manica, cui devo aggiungere, per certi libri, di modo che al lettore non sia celato nulla, anche me stesso. Ecco: dove sta la novità di questo tentativo, insieme teorico e di storicizzazione? D'aver cercato una soluzione alla crisi del romanzo, e delle narrazioni in quanto tali, al di là degli steccati ormai fatiscenti di genere, su un terreno che non è né retorico, né stilistico, tanto meno ideologico, ma espressamente epistemologico, disegnando genealogie davvero sorprendenti, su cui dovremmo meditare.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Shakespeare e Galileo in libertà
di Armando Massarenti
Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello hanno scritto un libro intitolato Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto incontra Cleopatra (Longanesi, pagg. 186 € 14,90). A pag 31 una didascalia descrive «l'universo copernicano e infinito di Thomas Digges» e commenta: «le stelle fisse non occupano più la loro sfera (come avviene in Copernico), ma invadono... tutto il foglio!». L'immagine è tratta da un volume che Digges pubblicò nel 1576. Forse è da lì che Shakespeare ha tratto le idee copernicane e anche bruniane degli infiniti mondi. Giorello collega l'immagine all'arditezza trasgressiva di Antonio e Cleopatra: «può desiderare un universo senza confini solo chi sa violare qualunque confine, compreso quello di genere, confine che è inestricabile mescolanza di natura e cultura». Cleopatra, la protagonista femminile del libro, rappresenta l'insofferenza per ogni «misura» che agita anche Amleto. Il principe di Danimarca e la regina d'Egitto mettono in scena il bruniano «eroico furore» che «si manifesta in una passione senza confine» che altro non è sinonimo che dell'idea di libertà. Avere l'«animo libero» porta a un destino tragico chi questa libertà deve opporla agli obblighi del proprio ruolo sociale, di principe o di regina, e dunque agli intrighi di corte, alla corruzione, ai giochi di potere. Questo intreccio, apparentemente strano, di due spiriti liberi shakespeariani sembra rispondere, per pura coincidenza, alla proposta didattica legata al doppio festeggiamento dei 450 anni di Galileo e William lanciata in queste pagine, il 6 aprile scorso, da Massimo Bucciantini. Galwill non è solo l'unione delle scienze naturali frutto della rivoluzione galileiana da un lato e, dall'altro, delle scienze umane implicite nello straordinario modo shakespeariano di scandagliare le psicologie e gli intrecci morali e politici dei personaggi. Per realizzare l'unità della cultura di cui parla Bucciantini, Galwill opera anche nei diffusi riferimenti astronomici che Shakespeare butta lì con nonchalance. Come appunto quello degli infiniti mondi. Amleto si definisce «re dello spazio infinito», come sottolinea la rivista «New Scientist». Che cita anche Bernardo, la guardia che, poco prima dell'apparizione ad Amleto dello spettro del padre, dice a Orazio: «Proprio la scorsa notte quando / la stella che dal polo a occidente muove / aveva fatto il suo corso a illuminare / quella parte del cielo in cui ora brucia...» Ebbene, questa altro non sarebbe che un'allusione a quella che oggi chiameremmo una supernova: una stella apparsa nel 1572 osservata da Digges in Inghilterra e da Tycho Brahe in Danimarca. Un'apparizione talmente strana e sconvolgente da diventare decisiva per l'abbandono delle perfette sfere celesti della tradizione aristotelico-tolemaica. E Galileo? Forse qualche traccia in Shakespeare la si può trovare anche delle sue scoperte. Ciamberlano andò in scena nel 1611, e vi troviamo un'allusione a Giove (inteso come dio romano) circondato da quattro fantasmi in cerchio. William era dunque al corrente della recente scoperta galileiana delle lune di Giove? Difficile dire. Ma domande come queste non dovrebbero dispiacere al nostro caro Galwill.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Un autunno davvero rigoglioso
Torna, in edizione ampliata, il saggio di Carlo Ossola su arte e letteratura alla fine dell'età rinascimentale. Il ruolo di Tasso e l'intreccio fra le discipline
di Lina Bolzoni
Negli anni Ottanta Paola Barocchi aveva donato alla Scuola Normale casse di microfilm di testi antichi, fatti arrivare dalle biblioteche di tutto il mondo. Le erano serviti, anche in seguito alla alluvione di Firenze e alla inagibilità della Biblioteca Nazionale, per realizzare le sue grandi opere sui trattati e gli scritti d'arte del Cinquecento. I bibliotecari della Normale erano un po' travolti dalla quantità del materiale, per cui Lucia Tongiorgi e io ci offrimmo di aiutarli preparando un primo spoglio dei testi. E ricordo ancora il piacere della scoperta: via via che tiravamo fuori dalle casse i microfilm, un mondo intero si apriva davanti a noi: lettere di artisti, dialoghi fra artisti e letterati, testi sul "paragone" fra le diverse arti stavano accanto alle raccolte di emblemi e di imprese, di monete e medaglie, alle opere più peregrine che descrivevano apparati effimeri, feste e cortei, oppure proponevano le invenzioni di programmi iconografici, e ancora altre opere che allargavano gli orizzonti, davano l'idea di una inedita libertà di ricerca, di una splendida curiosità intellettuale.
Mi sono ritornati alla mente quei momenti quando ho ricevuto la nuova edizione ampliata dell'Autunno del Rinascimento di Carlo Ossola (collaboratore di queste pagine). Pubblicato una prima volta nel 1971, opera di un giovane italianista allievo di Getto, destinato a diventare poi professore al Collège de France, quel libro coglieva con prontezza la sfida nuova che le ricerche di Paola Barocchi comportavano anche per gli studi letterari. Al di là delle barriere tradizionali delle discipline, si trattava di analizzare un momento in cui il dialogo tra i modelli della letteratura e la riflessione sulle arti era stato straordinariamente fertile e innovativo, tale da offrire un privilegiato terreno di osservazione per cogliere nel profondo le mutazioni di un'epoca. Tra gli anni 1547-50, quando Varchi avvia la sua inchiesta fra pittori e scultori, mentre Vasari pubblica la prima edizione delle Vite, fino al 1590-91, quando escono il Figino di Comanini e l'Idea del tempio della pittura di Lomazzo, Ossola individua una trasformazione che non aveva ancora un nome condiviso, e che altri stavano studiando come Manierismo, o arte della Controriforma o Controrinascimento, o ancora come Antirinascimento. Ossola sceglie la definizione, quanto mai suggestiva, di «autunno del Rinascimento», chiaramente modellata su quell'«autunno del Medioevo» cui Huizinga aveva intitolato la sua raffinata analisi della società borgognona del Quattrocento. È un materiale ricco e vario, spesso inconsueto, quello che l'autore analizza: accanto ai trattati d'arte, troviamo le poetiche, i poeti filosofi come Bruno e Campanella, i trattati sugli emblemi e sulle imprese, e soprattutto Tasso, colui che meglio esprime le tensioni e i contrasti dell'età. È un materiale vastissimo, all'insegna della "mutazione" e dell'artificio («il bello sarà trasmutabile – scrive Tasso – e a guisa di camaleonte prenderà diversi colori, diverse forme e diverse immagini e apparenze»). Arcimboldo è in un certo senso l'eroe di questo "autunno" della civiltà rinascimentale in cui alla mimesi della natura si sostituisce l'idea, quel "disegno interno" che corrode la norma e che ricerca ancora, a suo modo, un ordine, una reductio ad unum. Mario Praz, che dedicò al libro una pronta e generosa attenzione, ne coglie subito, con esattezza, il senso: «Se una figura mitologica è atta a rappresentare emblematicamente quella fase della cultura che sta tra l'ultimo Rinascimento e il barocco, questa è Vertunno. Di Proteo egli ha la mutabilità, ma Proteo è già mutabilità assoluta, pieno gioco di forme, essenza del barocco; Vertunno è meno sfrenato, esperimenta mutazioni in vista d'un fine, cambia più volte la sua figura per entrar nelle grazie della bella ninfa Pomona».
Con quel materiale vasto e spesso peregrino, all'insegna di Vertunno, ma spesso tentato dalle mutazioni senza fine di Proteo («Quasi Proteo novello / in varie forme si trasmuta il bello», cantava Tasso nelle Rime), il giovane studioso si confrontava in modo puntiglioso: «vogliamo qui raccogliere la storia del "favoloso" e del "mostruoso" del Gilio, l'"inverosimile del Paleotti, le "invenzioni e capricci" del Lomazzo e dei loro antesignani (gli "artifici", "arabeschi","capricci" di Pino, Dolce, Vasari)", leggiamo ad esempio in un capitolo che indaga da vicino l'affermarsi di certi termini caratterizzanti, l'evolversi del loro significato e delle loro funzioni, la loro capacità di penetrare dal mondo delle arti a quello della letteratura, e viceversa. Affascinante in questo senso è la vicenda delle grottesche: riscoperte nella Domus aurea, diventano ben presto qualcosa di ben diverso da una curiosità archeologica, da un ornamento marginale; danno voce e forma emblematica al nuovo gusto per il bizzarro, per il capriccio, per la fantasticheria e alimentano la creazione di forme composte di esseri diversi, di fantasmi, di chimere, di mostri. È significativo che Orazio, che nell'Ars poetica aveva condannato la mescolanza di forme di specie diverse, l'aveva paragonata ai sogni di una malato. Le grottesche, letterarie e figurative, prendono in un certo senso alla lettera l'avvertimento oraziano per capovolgerlo, per riprodurre la logica dei sogni, per assecondare la creatività di quella immaginazione che alla ragione può apparire malata. Le grottesche vengono così ad interagire con un'altra importante esperienza: esse si incontrano, scriveva Ossola, con «l'ardua oscurità simbolica di imprese ed emblemi, dove la novità e la fantasia nell'accoppiare figura e motto va unita all'assoluta esclusione di ogni rappresentazione antropomorfa». E Mario Praz, recensendo il libro, dialoga proprio con questa proposta critica, mettendo in discussione quella che era stata una sua interpretazione: «Quando parlando delle grottesche ho detto che gl'italiani ridussero a simmetria, cristallizzarono in composizioni ritmate le decorazioni fantastiche della Domus aurea, non dicevo che una parte della verità. È vero che ridussero a metodo la follia delle grottesche, ma qualcosa di quella follia s'insinuò pure nel loro metodo, suggerendo un'idea di più libere strutture, aprendo la strada al "capriccio". L'immagine della copertina – come ben ci mostra Stefano Salis nella sua rubrica su queste pagine – è un importante strumento di presentazione del libro. Ossola ha scelto una figura di donna che regge una tela di ragno. L'ha dipinta Paolo Veronese per la Sala del Collegio a Palazzo Ducale a Venezia. Potrebbe rappresentare la Dialettica, o piuttosto l'industria di Archimede. Quel che interessa a Ossola è che la donna guarda non «sul geometrico nodo centrale» ma «sull'oltre, sullo spazio infinito che s'apre al di sopra». Possiamo a nostra volta usare questa immagine per dire che Ossola riesce a fare l'uno e l'altro, nel senso che riconduce il suo materiale variegato e tendenzialmente caotico a un «geometrico nodo centrale», o almeno a una griglia rigorosa, che aiuta il lettore a muoversi entro un mondo che aveva fatto crollare i propri confini.
Carlo Ossola, Autunno del Rinascimento. «Idea del Tempio» dell'arte nell'ultimo Cinquecento, II edizione ampliata, pref. di Mario Praz, Firenze, Olschki, pagg. 426,
€ 44,00
il Sole24ore domenica 27.04.14
I fabbri della mente
Pensare è difficile, ma ci sono molti utensili forgiati dai filosofi che ci possono aiutare. Dennett ha stilato l'elenco dei migliori
di Daniel Dennett
Pensare è difficile. Pensare a certi problemi è così difficile che il solo pensiero di pensare a quei problemi può far venire mal di testa. Il mio collega neuropsicologo Marcel Kinsbourne suggerisce che quando pensare ci sembra difficile è sempre perché il percorso accidentato per arrivare alla verità è in competizione con altre vie più facili e allettanti, che poi risultano essere vicoli ciechi. È questione di resistere alle tentazioni e la fatica del pensare è dovuta per lo più a questo. Subiamo continui agguati e dobbiamo armarci di coraggio per realizzare il compito. Puah!
C'è un famoso aneddoto su John von Neumann, il matematico e fisico che trasformò l'idea di Alan Turing (ciò che oggi chiamiamo macchina di Turing) in un vero e proprio computer elettronico (ciò che oggi chiamiamo macchina di von Neumann, come per esempio un portatile o uno smartphone). John von Neumann era un virtuoso del pensiero, leggendario per la sua capacità di eseguire a mente calcoli incredibili con velocità fulminea. Secondo l'aneddoto, che come tutte le storie famose ha diverse versioni, un collega un giorno gli propose un problema che si poteva risolvere sia con una serie di calcoli complicati e impegnativi sia grazie a una soluzione elegante e istantanea, di quelle che vengono in mente in un lampo.
Certe persone, come von Neumann, sono naturalmente tanto geniali da poter superare facilmente le situazioni più complicate, e altre procedono lentamente e faticosamente, ma hanno la fortuna di possedere una «forza di volontà» straordinaria che le aiuta a tenere duro nella loro ostinata ricerca della verità. In mezzo ci siamo tutti noi che non siamo calcolatori prodigio e siamo un po' pigri, ma comunque aspiriamo a comprendere tutto ciò che incontriamo. Che cosa possiamo fare? Possiamo usare strumenti per pensare, ne esistono decine e decine. Questi comodi apparati protesici per potenziare l'immaginazione e mantenere l'attenzione ci permettono di riflettere in maniera corretta e anche elegante su problemi veramente difficili. Questo libro è una collezione dei miei strumenti preferiti. È mia intenzione non solo descriverli, ma anche usarli per farvi viaggiare mentalmente senza scossoni attraverso un territorio disagevole fino a raggiungere una visione davvero radicale del significato, della mente e del libero arbitrio. Inizieremo con alcuni strumenti semplici e generali, che si possono applicare ad argomenti di ogni genere. Certi sono ben noti, ma altri non hanno mai destato molta attenzione e non sono stati discussi più di tanto. Poi vi presenterò alcuni strumenti che hanno proprio una funzione particolare, essendo stati ideati per demolire una specifica idea seducente, permettendo di abbandonare un'abitudine inveterata che ancora intrappola e confonde gli esperti. Incontreremo e demoliremo anche una gran varietà di cattivi strumenti, strampalati dispositivi di persuasione che possono essere fuorvianti se non si presta attenzione. Indipendentemente dal fatto che arriviate comodamente alla destinazione che propongo – e che decidiate di restarvi insieme a me – il viaggio vi farà acquisire nuovi modi di pensare agli argomenti e di pensare al pensare.
Come tutti gli artigiani, un fabbro ha bisogno di attrezzi, ma – secondo una vecchia osservazione (per la verità ormai quasi del tutto dimenticata) – i fabbri sono gli unici che costruiscono i propri strumenti. Non sono i falegnami a fabbricare i martelli e le seghe, non sono i sarti a fabbricare le forbici e gli aghi, non sono gli idraulici a fabbricare le chiavi e le pinze, ma i fabbri sanno forgiare martelli, tenaglie, incudini e scalpelli dalla materia prima, il ferro. E gli strumenti per pensare? Chi li costruisce? E di che cosa sono fatti? I filosofi sono stati gli artefici di alcuni tra i migliori strumenti – fatti di null'altro che idee, strutture informative utili. Cartesio ci ha dato le coordinate cartesiane, gli assi x e y senza i quali il calcolo infinitesimale – uno strumento del pensiero par excellence inventato simultaneamente da Isaac Newton e dal filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz – sarebbe quasi impensabile. Blaise Pascal ci ha dato la teoria delle probabilità, che permette di calcolare facilmente i quozienti di scommessa. Il reverendo Thomas Bayes, anch'egli matematico di talento, ci ha lasciato il teorema di Bayes, il pilastro del pensiero statistico detto appunto bayesiano. Gli strumenti che compaiono in questo libro, tuttavia, per la maggior parte sono più semplici, non sono le macchine precise e sistematiche della matematica e della scienza, ma gli utensili a mano della mente.
Un curioso effetto collaterale della mia politica di cercare di scrivere argomenti e spiegazioni che possano essere facilmente compresi da persone estranee ai dipartimenti di filosofia è che alcuni filosofi non prendono sul serio i miei argomenti per una questione di «principio»! Durante una delle John Locke Lectures che tenni a Oxford di fronte a un pubblico in piedi, molti anni or sono, un eminente filosofo fu sentito borbottare, uscendo dalla sala: «Che mi venga un colpo se imparo qualcosa da qualcuno capace di attirare non filosofi alle John Locke Lectures!». Fedele alla parola data, non ha mai imparato nulla da me, per quanto ne so. Da parte mia, non ho mai modificato il mio stile e non mi sono mai pentito di pagarne il prezzo. Nella filosofia vi sono momenti e sedi che richiedono argomenti rigorosi, con tutte le premesse numerate e le regole di inferenza indicate, ma è raro che sia necessario sfoggiarle in pubblico. Ai nostri dottorandi chiediamo di dimostrare di esserne capaci nelle dissertazioni e alcuni mantengono questa abitudine tutta la vita, purtroppo.
A essere onesti va detto che neanche il peccato opposto della roboante retorica europea, infarcita di abbellimenti letterari e dichiarazioni di profondità, favorisce la filosofia. Se dovessi scegliere, preferirei in ogni occasione il cavillatore analitico e spietato all'erudito dalla prosa fiorita: quanto meno, di solito, si riesce a capire di che cosa parla e che cosa giudicherebbe sbagliato. È nel terreno di mezzo, grosso modo a metà strada tra la poesia e la matematica, che i filosofi, secondo me, possono offrire il contributo migliore.
Estratto dell'introduzione del libro di Daniel Dennett, Strumenti per pensare (traduzione di Simonetta Frediani, Raffello Cortina, Milano, pagg. 538, € 29,50) in libreria a maggio.
il Sole24ore domenica 27.04.14
L'arte lunga di Ippocrate
di Adelfio Elio Cardinale
La medicina, per definizione, non può che essere umana, ma l'odierno panorama è diverso. Oggi la medicina è caratterizzata da uno sbilanciamento della componente tecnologica ed economico-finanziaria rispetto alla componente antropologica dell'arte lunga, definizione della medicina data da Ippocrate. Gli antichi clinici propugnavano il concetto «pensare da medico», cioè individualizzare ogni singolo caso: non esiste la malattia ma il malato, di cui bisogna conoscere, oltre ai sintomi, la storia, l'ambiente di vita e di lavoro. Il medico consigliava il malato e forse lo guariva, ma sempre lo consolava. Cosa avviene nella mente e nel cuore di un malato quando prova sofferenza e dolore? L'essere umano non è solo un insieme di molecole, né il medico può essere un frigido automa che tratta ogni paziente come semplice applicazione di protocolli con un lavoro burocratico. Nel tempo attuale riscontriamo una sanità frazionata in professioni, specializzazioni, perfezionamenti. Occorre ricomporre i saperi e ricondurre il malato da numero a individuo, con una maggiore percezione dei bisogni dei pazienti, con rispetto, ascolto, solidarietà. Qual è l'essenza della medicina? Una pratica basata su scienze ed esercitata in un mondo di valori. La medicina resta una scienza «debole», che non possiede algoritmi certi, come quelli necessari per risolvere un'equazione. Il medico molte volte decide in condizioni probabilistiche.
Il rapporto medico-paziente, da tempo immemorabile, è saldato da un legame che non presenta solo fondamenta scientifiche, ma è basato sulla religio medici, cioè la religione medica del dovere. Tale rapporto – con funzioni pedagogiche e di tutela – si sintetizza nella pietas, vale a dire attenzione alle sofferenze del paziente. L'uomo è titolare di diritti, che sono dovuti per il fatto stesso che è uomo. Quest'alleanza plurimillenaria si è rotta per quattro motivazioni scrivibili: al medico, al malato, all'irrompere crescente e tumultuoso della tecnologia e al moloch della produttività. Una medicina arida e distante, rinchiusa in una superba torre dottrinale, sorda ai valori umani. Oggi non c'è più tempo e patrimonio mentale per un'arte medica ove esperienza, colloquio e rapporto diretto siano fondamentali per una riappropriazione da protagonista della professione medica.
Il malato trattato come un numero o una cosa – a causa dell'eccesso di specializzazione, spersonalizzazione, burocrazia – diviene sempre più ostile e cova un rancore vendicativo verso quella che considera una lobby ingorda. A ciò si aggiunge che il cittadino e i suoi familiari richiedono non solo l'obbligazione di mezzi ma l'obbligazione di risultato, vale a dire la guarigione sempre e comunque. Da qui l'emergere di una maggiore responsabilità da parte dei medici, che devono acquisire nuove abilità di comunicatori e scrupolosi mediatori tra i linguaggi scientifici e i diversi registri della comunicazione sociale, che il filosofo e sociologo Habermas definiva «agire comunicativo».
Da più parti si auspica una medicina come «arte» fondata su un forte rapporto etico-socio-antropologico con il malato, attraverso varie espressioni: medicina umana, narrativa, condivisa, dell'ascolto, con una sempre migliore comunicazione medico-paziente. La scienza medica deve contaminarsi con bioetica, storia, antropologia, psicologia, biopolitica, biodiritti, filosofia, con attenzione sempre ai problemi sociali. Dalla crescente distanza medico-malato promana la «Medicina Difensiva», con danni al malato e alti costi per la comunità, valutati pari a circa il 10 per cento dell'intero stanziamento per la sanità italiana. Una somma enorme: circa 13 miliardi di euro, secondo una recente analisi dell'Istat.
Per evitare il naufragio nelle lande desolate della tecnocrazia, le scienze umane devono essere abbinate a una prassi più consentanea alla dignità e alle esigenze del malato. Le scienze umane sono il «respiro della mente»: permettono una formazione slegata dall'impiego delle macchine. Nel quadro della sostenibilità finanziaria (con rigoroso contrasto alle truffe e tagli a sprechi e inefficienza) bisogna chiaramente indicare che al centro del sistema sanitario non c'è il pareggio di bilancio, ma la produzione di salute per l'uomo. Il funzionamento delle aziende è il mezzo, la tutela della salute il fine.
Un vero e proprio manifesto per la vera medicina, che si ritrova nelle parole del cardinale Gianfranco Ravasi: «Sta crescendo la consapevolezza che la malattia e il dolore sono un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico. L'accompagnamento umano, psicologico, affettivo e spirituale è tutt'altro che secondario. C'è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina». Principi che valgono anche per i medici di morale laica. Occorre un reagente morale, un lavoro pedagogico tenace. Il mestiere del medico – faticoso, difficile, angosciante – deve tornare ad essere arte della cura, sempre condotta tra scienza e valori spirituali. È necessario il ritorno a una sanità amica, a una stretta interrelazione medico-malato. Una costruzione nella quale si incardina il diritto all'eguaglianza sociale, all'omogeneità territoriale, al paritario accesso ai servizi. Una piena applicazione della Carta costituzionale, la nostra «Bibbia civile». Vladimiro Zagrebelsky afferma che il diritto alla salute – intesa come il più elevato livello dello stato di salute raggiungibile dalla persona – è l'unico diritto che la Costituzione qualifica come fondamentale.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Un bilancio realistico
di Mario De Caro e Riccardo Pozzo
«Quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la mente: basta non ne voglio saper altro». Come racconta Edward Miur nel suo godibilissimo Guerre culturali. Libertinismo e religione alla fine del Rinascimento (Laterza, 2008), fu così che il filosofo Cesare Cremonini replicò a chi gli chiedeva perché si rifiutasse di guardare i cieli attraverso il cannocchiale messo a punto dal suo amico ed ex collega a Padova Galileo Galilei. Risultato: oggi, complice anche La vita di Galileo di Bertolt Brecht, Cremonini viene ricordato come il prototipo del filosofo retrogrado.
Eppure, se proviamo a metterci nei suoi panni, forse Cremonini riusciamo a capirlo. Filosofo aristotelico di gran fama ma non più giovanissimo, già aveva i suoi bei guai per le posizioni teologiche in odor di eresia. Ma chi glielo faceva fare a stare dietro a quella testa calda di Galileo, che con le sue diavolerie ottiche pretendeva di rifondare l'astronomia, l'epistemologia e la metafisica? E ciò proprio contro «l'opinione della scuola peripatetica e principalmente del filosofo Cremonino» (come testimonia il fedele biografo galileiano Vincenzo Viviani)? Insomma, anche se la decisione di non farsi imbalordire la mente dal cannocchiale fu jellatissima, il povero Cremonini in fondo fa simpatia.
Questa vicenda, più buffa che tragica, torna oggi in mente quando si guarda a come alcuni pensatori nostrani, pur di non vedere l'imponente ritorno del realismo filosofico, tetragoni rifiutano di gettar l'occhio al di fuori dei loro orticelli autarchici. Anche a questi moderni emuli di Cremonini l'idea che i tempi possano essere cambiati imbalordisce le menti: ma anche loro, in fondo, proprio per questo fanno simpatia. Ovviamente, non è che oggi tutti i filosofi siano realisti in tutti gli ambiti (anche se è vero che parecchi lo sono in molti ambiti). Piuttosto, è il tema del realismo in quanto tale a essere tornato al centro delle discussioni filosofiche internazionali; e ciò dopo che per qualche decennio questo tema era stato obliato in virtù del semplice e brutale fiat antirealista dei postmoderni, secondo cui la realtà è inseparabile dalle interpretazioni che ne diamo. Insomma: in ogni ambito filosofico - dalla metafisica all'epistemologia, dalla filosofia pratica alla semantica, dall'estetica alla filosofia della scienza - oggi si è tornati a discutere di se e come si debba essere realisti.
Ovviamente, poiché concerne l'intero scibile filosofico, la discussione internazionale sul realismo è imponente. Ora però si offre l'opportunità di tirare un bilancio sulle conseguenze del poderoso ritorno del realismo. Dal 4 al 6 maggio, infatti, si ritroveranno a Roma alcuni dei maggiori protagonisti di questa rinascita. Il convegno sarà aperto da una relazione di Maurizio Ferraris, protagonista del dibattito nazionale e internazionale sul Nuovo realismo, ma anche i nomi degli altri partecipanti sono altisonanti. E non saranno presenti solo filosofi: la prima giornata (che avrà luogo al Maxxi, lo splendido museo di arte contemporanea progettato da Zaha Hadid) vedrà infatti la partecipazione di critici d'arte, giuristi, filologi classici, teorici della letteratura e del cinema, architetti, esperti di scienza, artisti e pedagogisti. La discussione del realismo, infatti, assume forme specifiche nei vari campi del sapere, sollevando un gran numero di questioni, quesiti e risposte. Per fare qualche esempio: qual è il fondamento oggettivo delle norme giuridiche e morali? Esistono enti sovraindividuali come le multinazionali? In cosa consiste l'essenza di un'opera d'arte? Qual è lo statuto ontologico delle entità fisiche non osservabili, come gli elettroni? Qual è il correlato oggettivo dei concetti (che è poi la classica questione degli universali, anch'ssa tornata di moda)?
Nella seconda giornata si confronteranno invece filosofi analitici e filosofi continentali. Proprio il ritorno al realismo accomuna infatti le due principali scuole di pensiero che si sono contrapposte negli ultimi decenni. Restano, naturalmente, differenze di metodo e prospettiva: ma sembra aprirsi ormai la possibilità di dialoghi fecondi. Infine nella terza giornata la parola passerà agli storici della filosofia. La discussione sul realismo ha infatti attraversato l'intera storia del pensiero. Quale fosse la forma corretta di realismo fu la questione fondamentale che separò Aristotele da Platone (e in proposito va ricordato che il celebre idealismo platonico in realtà era una forma di realismo). Poi vennero le discussioni scolastiche sulla realtà degli universali e quelle della filosofia moderna sul rapporto tra materia e pensiero, condotte alla luce di ciò che la scienza andava rivelando sul mondo naturale. E anche Kant, in fondo, voleva difendere una forma di realismo empirico. E così via. Durante il convegno romano su questi grandi temi si pronunceranno alcuni dei massimi storici della filosofia, alla ricerca di fili rossi che possano aiutare anche per illuminare le discussioni contemporanee. Insomma, un convegno che si preannuncia veramente importante. Chissà, magari avrebbe potuto interessare persino Cesare Cremonini.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Riappropriamoci dei saperi
I nemici delle discipline umanistiche non sono la fisica o la matematica ma gli pseudosaperi della «comunicazione». Torniamo ai contenuti
di Gabriele Pedullà
Se la crisi delle humanities è un prisma dalle molte facce, un ruolo speciale nel dibattito spetta naturalmente a chi nella scuola e nell'università insegna: se non altro perché il contatto costante con i ventenni assicura una qualche capacità di previsione sul mondo che verrà. Ma parlare da professore impone oggi soprattutto una doverosa autocritica. I nemici delle humanities vincono perché coloro che dovrebbero difenderle sembrano avere smarrito le proprie ragioni. E, invece di interrogarsi sul perché oggi esse rimangono così indispensabili (e spiegarlo agli altri), preferiscono profondersi in un elogio del tempo che fu o in una infruttuosa polemica contro il predominio delle scienze esatte.
Appelli e gridi di dolore come quello lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli Della Loggia colpiscono il bersaglio sbagliato. È l'effetto di una ostilità all'educazione scientifica radicato nella tradizione italiana, da Croce e Gentile in giù. Ma il nemico mortale delle discipline umanistiche non sono la fisica o la matematica, e nemmeno la biologia o l'ingegneria, quanto gli pseudosaperi della "comunicazione", che hanno progressivamente spostato l'accento dai contenuti al packaging (o, se si preferisce, dal messaggio al medium). Diecimila laureati in fisica in più non possono che fare bene a questo paese: ma ogni studente della vecchia facoltà di Lettere che lascia il posto a un aspirante comunicatore (comunicatore di un sapere che non possiede e che nessuno si preoccupa di trasmettergli) rappresenta un ulteriore passo avanti verso il baratro.
Da qualche decennio, purtroppo, con la complicità della politica la cattiva moneta scaccia la buona. Per questo, difendere le humanities oggi vuol dire anzitutto aiutarle a ritrovare la loro vocazione. Si tratta, oltretutto, di una vocazione molto italiana. È nel nostro paese infatti che è sorto l'Umanesimo propriamente detto, al quale poi si sono richiamati tutti gli umanesimi successivi. Qualcuno lo fa risalire a un gruppo di letterati padovani della fine del XIII secolo; qualcun altro a colui che più di tutti ha contribuito alla sua diffusione europea: Francesco Petrarca. Quello che conta, però, sono i caratteri distintivi di quel rivoluzionario progetto intellettuale. Umanesimo ha voluto dire per secoli (e vuol dire ancora oggi) essenzialmente due cose: percezione della distanza temporale (per gli umanisti: scoperta della differenza tra il proprio latino medievale e il latino della classicità) e sensibilità linguistica (per gli umanisti: autoconsapevolezza che la scrittura implica sempre una scelta: tra registri, opzioni, modelli da imitare). Esattamente ciò che l'attuale riformulazione dei saperi umanistici in chiave "comunicativa" osteggia. Mentre, in mancanza di una speciale attenzione per la dimensione storica dell'esperienza umana e per le potenzialità della parola (due aspetti che per gli umanisti si sorreggevano necessariamente a vicenda), diventa semplicemente inutile continuare a parlare di humanities.
La vulgata post-sessantottina sostiene che il vecchio umanesimo fosse solo un orpello di cui sbarazzarsi al più presto: nient'altro che un odioso strumento di distinzione sociale (Bourdieu dixit). Ma come ha recentemente mostrato Adolfo Scotto Di Luzio in uno dei libri più importanti della stagione, La scuola che vorrei, il successo della così detta educazione liberale presso le élite occidentali, dal XV al XX secolo, ha motivazioni completamente diverse. A prescindere dalla sensibilità per le differenze storiche, il contatto con il passato implicito nella formazione umanistica ha l'effetto di modificare profondamente la nostra esperienza del tempo. Chi dialoga con uomini e donne morti da secoli, impara a concepirsi come l'anello di una catena di generazioni. Nella vita quotidiana tale temporalità lunga vuol dire molte cose: senso di stabilità, allenamento a cogliere ciò che non cambia sotto la superficie esteriore degli eventi, progettualità, in definitiva accresciuta sicurezza psicologica. Ed è questa capacità di potenziamento del soggetto che ha reso il modello umanistico tanto allettante per le classi dirigenti europee.
Storicità, sensibilità linguistica, "tempo lungo": la ricetta è ancora questa. Chi oggi intende difendere le ragioni delle scienze umane e, al livello inferiore, dell'educazione liberale deve insistere anzitutto sulla loro importanza non soltanto per i futuri professori, giornalisti, editori, ma anche per i futuri scienziati. E, su un piano ancora più generale, per i politici e i cittadini di domani. Perché è di questo che parliamo: di capacità cognitive, non di pura e semplice difesa della tradizione o dell'identità nazionale come si legge nelle abituali geremiadi sul tema.
Tutto questo discorso possiede però anche una sua precisa specificità italiana. Quando infatti parliamo di crisi delle humanities, il termine inglese non è – come troppo spesso accade – un semplice vezzo esterofilo. Esso indica piuttosto l'epicentro geografico del tracollo: il mondo anglosassone, Stati Uniti compresi. Chiunque ha avuto qualche esperienza di insegnamento nelle università Ivy League osannate nelle altamente inaffidabili classifiche internazionali sa per esserci passato che molti dei nostri studenti di laurea triennale sono non soltanto più preparati ma cognitivamente meglio attrezzati degli studenti di PhD statunitensi: i quali nonostante abbiano cinque o sei anni in più, sembrano, per capacità logiche e linguistiche, i loro fratelli minori. Questa banale verità, riconosciuta anche dai colleghi americani, non entra nel discorso pubblico italiano sulla formazione superiore mentre dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi ragionamento realistico sullo stato delle nostre scuole e università.
Paradossalmente l'Italia di oggi si fa forte del suo ritardo. Grazie alla resistenza del liceo classico (quando e dove ancora resiste), il nostro paese è probabilmente l'unico in tutto il mondo occidentale nel quale rimane in piedi un sistema di formazione umanistica non troppo distante dagli standard alto-novecenteschi. I nemici delle humanities vorrebbero smantellarlo: esso invece rappresenta oggi per l'Italia una straordinaria risorsa culturale e potenzialmente – cosa non secondaria – economica. Nel momento in cui il governo Renzi annuncia di puntare tanto sulla scuola si tratta di un dossier da non trascurare.
Poiché di humanities ci sarà ancora bisogno a lungo, gli italiani possono facilmente diventare esportatori di eccellenza intellettuale in questo campo. In parte, nel disinteresse della politica, succede già (allo stato attuale, tutte le discipline considerate, si parla di circa ventimila professori o ricercatori italiani variamente disseminati per il mondo). Sarebbe però ora che i legislatori si rendessero conto che la progressiva colonizzazione delle maggiori istituzioni culturali del globo da parte di una generazione di umanisti italiani è un successo della educazione made in Italy. Su questo serve un deciso cambio di rotta. Non si tratta di lavorare al "rientro dei cervelli", o non solo. Piuttosto, occorre prendere consapevolezza che, nella prossima generazione, se la politica non continuerà a promuovere ciecamente lo smantellamento dell'educazione liberale dai nostri licei (si veda il recente attacco alla filosofia), gli italiani potranno ambire a un ruolo di assoluto primato nel campo delle scienze umane.
Affinché questo avvenga sono necessari però due interventi: nella formazione e nella mentalità. La formazione umanistica va riformata in modo da mettere i laureati in Lettere in condizione di fare lezione in inglese senza difficoltà al momento del conseguimento della laurea, un obiettivo ambizioso ma del tutto essenziale se li si vuole indirizzare verso un network globale. Allo stesso tempo, è importante che chi si iscrive a Lettere sappia sin dall'inizio che molto difficilmente lo aspetta un posto di professore nell'ateneo sotto casa, ma che invece potrebbe attenderlo una brillantissima carriera tra Bangkok, Johannesburg e Princeton. Gli scienziati lo considerano del tutto normale, e così gli economisti e i manager; perché solo gli umanisti rifiutano di vedere nelle collocazioni all'estero un'opportunità?
Pensiamoci bene prima di sprecare una simile occasione. La Cina può lanciare con successo un programma per sfornare un milione di nuovi ingegneri in cinque anni, ma non possiede gli strumenti per dotarsi nello stesso lasso di tempo di diecimila docenti di discipline umanistiche e, sul tempo medio, non li possiederà in futuro. L'Italia, che questi strumenti li ha, non li sfrutta e medita persino di disfarsene. Si tratterebbe, invece, di fare di questa fortunata contingenza un mezzo di egemonia culturale: molto più efficace di cento sedi dell'associazione Dante Alighieri o di dieci istituti di cultura, anche come base di una nuova identità italiana per il mondo globalizzato. Meglio che il solito pizza-gondola-ferrari-juventus, o no?
La domanda è rivolta (anche) al presidente Renzi.
il Sole24ore domenica 27.04.14
I drammi del drammaturgo
La straordinaria biografia dell'autore di «Madre coraggio» scritta da Stephen Parker con competenza e comprensione dei fatti e delle circostanze
di Donald Sassoon
Un bel guaio essere artisti o scrittori, non hai mai il controllo della tua creazione. Ma chi sta peggio di tutti è il drammaturgo: scrive un testo con qualche nota al massimo su scenografia e attori (uscite, entrate) e il suo prodotto gli viene tolto di mano da attori, scenografi e soprattutto registi. Diventa la loro opera. E lui se ne sta seduto in un angolo col broncio, o più sovente, si rigira nella tomba. Povero Bertolt Brecht che si considerava, a buon diritto, il grande drammaturgo della sua epoca, condannato ad avere così poco controllo delle sue opere e della sua vita. Di salute era cagionevole. I suoi vecchi compagni comunisti non avevano la sua stessa idea di teatro politico. Fu costretto all'esilio: Danimarca, Finlandia, Svezia e Stati Uniti, tutti Paesi dov'era difficile mettere in scena le sue opere. Diventò come scrisse lui stesso «quello che nessuno ascolta», «parla troppo forte / si ripete / dice cose sbagliate / non viene corretto».
C'era soltanto un aspetto della sua vita che riusciva a gestire: le donne con le quali si comportava malissimo, le tradiva tutte ma si infuriava al solo sospetto che loro tradissero lui. E non sopportava di rompere con nessuno, con le donne, con gli amici o con il comunismo e l'Unione Sovietica.
Eppure, in qualche modo, nonostante tutto, Brecht rivoluzionò il teatro e ci lasciò alcuni dei più grandi capolavori drammatici del Ventesimo secolo: Vita di Galileo, Madre Courage e i suoi figli, L'anima buona del Sezuan, Il cerchio di gesso del Caucaso e molte altre. La tentazione di ricorrere al cliché è forte: un genio imperfetto. O meglio un genio con delle imperfezioni. O ancora meglio, un uomo che è riuscito a mettere i suoi difetti al servizio del proprio genio.
Questo e molto altro emerge dalla biografia di Stephen Parker su Brecht, la prima in vent'anni, uno stupefacente tour de force fondato su una competenza straordinaria.
Se avessimo conosciuto Brecht nel 1920, lo avremmo trovato un giovanotto borioso, uno che sfrutta la propria eloquenza come strumento di conquista sessuale, così come tanti uomini fanno colpo sulle donne mostrando i muscoli o il portafoglio.
Il momento in cui si avvicinò di più alla rivoluzione fu durante i disordini politici dopo la sconfitta della Germania nel 1918, ma mentre i rivoluzionari venivano portati via e assassinati, lui era in giro per nightclub a caccia di donne. Della teoria gli importava poco a meno che non riguardasse il teatro. Il suo marxismo era sempre un po' all'acqua di rose. Come scriveva «con una teoria sola si è perduti… ha bisogno di più teorie, quattro, se non di più! Dovrebbe mettersele in tasca come fossero giornali freschi di stampa…».
Il suo impegno socialista veniva dal desiderio di rompere con le convenzioni borghesi. Sfortunatamente per lui, i comunisti nell'Urss o dopo nella Ddr, erano molto legati a una concezione borghese dell'arte. Volevano che il loro teatro fosse comprensibile, edificante, con buoni e cattivi chiaramente delineati. A proposito del teatro "comunista" dei tempi di Weimar, Brecht ironizzava scrivendo: «Per 3.000 marchi al mese / è pronto / a impersonare la sofferenza delle masse. / Per 100 marchi al giorno / ti fa vedere l'ingiustizia del mondo».
Parker ci guida attraverso le diverse fasi dell'evoluzione del metodo brechtiano (il Verfremdungseffekt, l'effetto di alienazione o straniamento), ma la premessa di base era costante. Se Stanislavskij (e il suo epigono americano Lee Strasberg) insistevano che gli attori dovessero "essere" il personaggio che stavano impersonando e che il pubblico dovesse identificarsi con quello che stava succedendo sul palcoscenico, Brecht voleva mantenere intatto lo «splendido isolamento» dello spettatore, senza che si fondesse con l'eroe. Naturalmente Brecht non era il solo a promuovere queste idee. Anche Piscator aveva sperimentato l'uso di proiezioni e scritte come parte di quell'effetto di "alienazione". Lo stesso Brecht attribuiva le origini di quella distanza a un teatro passato, alle opere medievali e soprattutto al teatro cinese (l'interpretazione di Mei Lanfang dell'Opera di Pechino che vide a Mosca, nel 1935, fu decisiva). «Sono stufo del nuovo. Sto cominciando a lavorare con materiale molto vecchio che è stato saggiato mille volte. Io sono un materialista e uno zoticone e un proletario e un anarchico conservatore», spiegava Brecht.
Dovette lottare per avere successo. La prima a New York di quella che sarebbe diventata la sua opera più famosa, L'opera da tre soldi, fu un vero e proprio fiasco. La prima berlinese di Ascesa e caduta della città di Mahagonny (sempre con le musiche di Kurt Weill) venne interrotta dai nazisti. Santa Giovanna dei Macelli (probabilmente la sua opera più "marxista") fu messa in scena una sola volta quando Brecht era in vita, nel 1932. A parte L'opera da tre soldi, nessuna delle sue opere fu rappresentata in Unione Sovietica quando il suo autore era vivo.
I tipici "eroi" brechtiani sono sfasati rispetto al periodo in cui vivono, che si tratti di Jim Mahoney in Mahagonny, che cerca il piacere sotto il capitalismo, sistema in cui il piacere è mercificato, o Schweyk e Madre Courage che cercano di sopravvivere durante la guerra, mai del tutto consapevoli del prezzo che devono pagare, o Galileo che cerca di salvare la propria scienza in un'epoca che la scienza la condannava. I fortunati che hanno avuto modo di vedere Tino Buazelli che interpretava Galileo negli anni Sessanta, con la regia di Strehler, non se lo dimenticheranno mai.
Brecht tacque durante le purghe di Stalin, anche se intercedette per i suoi amici. Lui voleva credere nell'Urss nonostante tutto, persuaso che qualsiasi parola sbandierata contro Stalin avrebbe fatto gioco a Hitler, per quanto si fosse reso conto che in Russia «una dittatura governava il proletariato». Scriveva: «Anche nei tempi bui / si canterà? / Anche si canterà. / Dei tempi bui.» (ndt, da Canto tedesco, Bertolt Brecht Poesie 1933-1956, traduzione di F. Fortini, Einaudi). E nel suo famoso A coloro che verranno chiedeva ai posteri: «pensate a noi con indulgenza» (ndt, da Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi).
Negli Stati Uniti, dove fuggì nel 1941, Brecht era infelice. Cercò lavoro come sceneggiatore a cottimo: «Ogni mattino, per guadagnarmi il pane / vo al mercato dove si comprano menzogne. / Pieno di speranza / mi metto in fila fra i venditori,» (Ndt, da Hollywood, Bertolt Brecht, Poesie 1918-1933, traduzione di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi). E non era felice nel claustrofobico mondo emigrato degli esuli tedeschi a Hollywood e a New York. «Nemmeno nei boschi della Finlandia mi sono sentito così fuori dal mondo come mi sento qui», scriveva.
Alla fine della guerra non sa dove andare. Gli svizzeri non lo vogliono. È bandito dalla zona americana della Germania. Nemmeno i tedeschi dell'Est ci tengono molto ad averlo, però non si possono permettere di mandare via un drammaturgo antinazista ormai famoso. Alla fine ebbe il suo teatro e la sua compagnia, il Berliner Ensemble. Si era preparato al compromesso, sostenuto da una genuina popolarità che spaventava la gerarchia comunista. E a ragione: alla prima del Cerchio di gesso del Caucaso ci furono 57 chiamate e seguirono 175 repliche, per quanto l'opera venne attaccata o ignorata dalla stampa di partito. Cautamente Brecht non pubblicò la famosa poesia che aveva scritto in risposta alla rivolta operaia del 17 giugno 1953 nella quale dichiarava con ironia che avendo perso la fiducia del governo, il popolo «doveva essere sciolto» per eleggerne uno nuovo.
(Traduzione di Francesca Novajra)
Stephen Parker, Bertolt Brecht: A Literary Life, Bloomsbury, London, pagg. 704, £ 30,00
il Sole24ore domenica 27.04.14
L'amore delle tre melarance
Una primizia alla Carroll
La rappresentazione integrale dell'opera di Prokof'ev, che debuttò a Chicago con Campanini, è un privilegio raro
di Quirino Principe
Ci avviciniamo per gradi. Non diremo «nacque», che si dice dei morti; diremo «è nato», che si dice dei vivi. Il Maggio Fiorentino è nato da solide radici, e la città, con autentica intelligenza nel riconoscerlo, lo ha espresso. Lo esprime ancora? Questa sarà forse l'annata della verità: una persona che da sempre combatte valorosamente nel Maggio e per il Maggio mi diceva oggi: «Resistere, resistere...». La sua memoria citava parole di qualche anno fa, che però troviamo assai meno autentiche, forse oneste, allora, ma non propriamente eroiche, poiché un grande potere terreno e l'eroismo sono due concetti incompatibili.
Nel Maggio Fiorentino di quest'anno, che quasi è escluso dalla sfera dell'Avere e tutto assediato nella sfera dell'Essere, la programmazione è ridotta in quantità, ma la qualità è molto attraente. Lo è nell'offerta di concerti sinfonici e da camera, e basterebbe segnalare, in un concerto tutto straussiano (il 3 maggio, Zubin Mehta), il magnifico Wandrers Sturmlied, oppure il 20 giugno (dir. Juraj Valcvuha), la prima esecuzione assoluta di Manuale d'esorcismo di Michele Dall'Ongaro. Rarità e novità. Di Tristan und Isolde (30 aprile), opera suprema che rappresenta l'Occidente e anzi è «l'amour et l'Occident» scenografia, ci incuriosisce maledettamente la regia, scenografia, costumistica e illuminotecnica di Stefano Poda.
Ci siamo avvicinati, abbiamo circoscritto il tema e i suoi dintorni. Ma ecco il passo decisivo. Vogliamo segnalare a chi legge un nostro antichissimo amore: un'opera che va in scena al Teatro Comunale (al vecchio; il nuovo, quasi ultimato, sarà tuttavia attivo parzialmente) in quattro rappresentazioni, la "prima" domenica 1° giugno 2014, alle 20.30, e tre repliche il 3, 5 e 7 giugno, con l'Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretti da Juraj Valcvuha, nuovo allestimento con regia di Alessandro Talevi, e, fra gli interpreti, Julia Gerceva e Roberto Abbondanza. «Niun mi tema»: dico subito di che si tratta. L'autore è Sergej Sergeevicv Prokof'ev, nato a Soncovka (pron. Sonzovka, con la "z" sorda di "zio", "zucchero" e "giustizia") nel governatorato di Ekaterinoslav ossia nell'allora Russia dello zar Alessandro III (oggi Ukraina... ahimé, per quanto ancora?) alle ore 17.00 dell'11 aprile 1891. È una data fantasma, che segue il calendario giuliano usato in Russia fino al 1° gennaio 1918 ma abbandonato del tutto in Urss il 1° marzo 1923. La data per noi reale è giovedì 23 aprile, secondo il calendario gregoriano usato in Occidente da lunedì 15 ottobre 1582. La morte di Prokof'ev non è minore oggetto di curiosità.
Egli morì a Mosca giovedì 5 marzo 1953, e fin qui va bene. Anzi, va malissimo per noi amanti della musica: Prokof'ev aveva soltanto 62 anni quando morì, e chissà quante e quali meraviglie avrebbe potuto lasciarci in eredità. A lui andò ancora peggio "post mortem". Egli morì alle 21.00 precise del giorno 5. Quaranta minuti dopo, alle 21.40, nella stessa città, morì Stalin. Mosca fu posta in stato d'assedio, radio e telefoni furono bloccati, e la notizia della morte del musicista non poté circolare per giorni e giorni. L'Occidente, non solo l'Urss, seppe della morte di Prokof'ev con grave ritardo, e del resto anche in Occidente la scomparsa di quel genio sublime fu oscurata dalle molte seriose discussioni sulla scomparsa del tanghero osseta maniaco omicida. L'opera che segnaliamo è Ljubov K triom apelsinam, che ha un altro titolo ufficiale in francese come spesso nel catalogo di Prokof'ev: L'amour des trois oranges. Il libretto, dello stesso compositore, fu tratto da una delle "fiabe teatrali" di Carlo Gozzi (Venezia, 13 dicembre 1720? Venezia, 4 aprile 1806), L'amore delle tre melarance (1761), ed ebbe la prima esecuzione all'Opera House di Chicago il 30 dicembre 1921. Era stata una coraggiosa iniziativa del direttore artistico dell'Opera House, l'italiano Cleofonte Campanini, il quale aveva puntato su un lavoro nuovo di un "semibarbaro", allora definito «lo Chopin cosacco della generazione del futuro». Fu un vero peccato che Campanini fosse morto già nel 1919, senza poter apprezzare la propria scelta.
Musica lievissima come petali di fiori, piume, polline, bolle di sapone, per una trama ironica e complicatissima, tutta modellata sulle carte da gioco (infatti, non manca un soffio di Lewis Carroll), sulla Commedia dell'Arte, sullo "stile da circo", come allora si scrisse sui giornali a commento delle "première". Oggi, è un'opera poco rappresentata, ma almeno la celebre Marcia è una fra le musiche del Novecento che anche i bambini, ignorando tutto di Prokof'ev, sanno riconoscere.
Sergej Prokof'ev, L'amore delle tre melarance, Firenze, Teatro Comunale, 1° giugno 2014, dir. Juraj Valcvuha
il Sole24ore domenica 27.04.14
Giochi di coppia
di Carla Moreni
Giochi di coppia, tra Tristano e Orfeo, gli amanti che sfidano la notte e il buio dei sentimenti, mentre reinventano con Wagner e Gluck un nuovo teatro, nutrito dalla antica linfa di mito classico e poemi medioevali. Giochi di coppia anche tra i due palcoscenici, di qui opere di là concerti, tra la sala storica del Teatro Comunale e quella della nuova Opera, poco distante, opulenta, inutile, incompiuta. E giochi di coppia ancora più interessanti tra i due direttori che aprono e chiudono la nuova edizione del Maggio Musicale Fiorentino: Zubin Mehta, direttore musicale dal 1985, e Daniele Gatti. Forse a presagire un passaggio di testimone.
Fitto di date, dal 30 aprile al 4 luglio, il Festival, secondo in Europa per anzianità, dopo Salisburgo, è arrivato alla edizione numero 77. Dovrebbe camminare bene, agile e determinato – stando al simbolismo dei numeri – come le gambe delle donne. Affidato dal febbraio 2013 al commissario straordinario Francesco Bianchi, il Teatro apre il sipario con il Wagner di Tristan und Isolde. Sul podio, come sempre per il titolo inaugurale, Zubin Mehta, che giusto il giorno prima avrà festeggiato 78 anni. Portati a meraviglia, da vero patto col diavolo. Nel 2015 il maestro avrà guidato come direttore principale una istituzione musicale italiana per trent'anni consecutivi. Un record dell'altro mondo. Impossibile, nel nostro litigioso Paese, timoroso della continuità.
I 36 giorni del Maggio porteranno quattro opere, tre balletti, vari recital, tra cui quello attesissimo del pianista Krystian Zimerman, concerti e ospitalità a orchestre straniere, coi Berliner Philharmoniker diretti da Gustavo Dudamel e la Filarmonica di Pietroburgo con la sua guida stabile Yuri Temirkanov. Tra le incursioni nel repertorio contemporaneo troverà spazio una monografia dedicata all'elettronica e un'altra a Peter Maxwell Davies. Per chi preferisca invece la semplice complessità delle voci, da non perdere è l'unico appuntamento con il Coro del Maggio, in Cattedrale, impegnato tra pagine preziose di Francesco Feroci, Jommelli e Pizzetti. Molte le occasioni di approfondimenti, con lezioni e incontri; molti i concerti con giovani interpreti, in collaborazione col Conservatorio. Unico in Italia, il Maggio si è ricordato di Carlo Maria Giulini, che proprio il 9 maggio prossimo avrebbe compiuto cent'anni. Gli dedica una mostra e un convegno.
La linea della sperimentazione visiva è sempre stata una caratteristica spiccata nella storia del Festival. Ma la sorpresa, quest'anno, è che la scelta dei registi per le tre nuove produzioni d'opera ha virato netta sul mondo di nicchia della ricerca, tagliando i ponti con l'appariscente (e certo più costoso) giro delle star. Così, fatta eccezione per Denis Krief, che firmerà l'Orfeo ed Euridice di Gluck, e che i teatri italiani ben conoscono, premiato tra l'altro anni fa con un Abbiati, gli altri due rappresentano una scommessa. Nel caso del giovane Alessandro Talevi, con L'amour des trois oranges di Prokofiev, si tratterà anche di un quasi debutto in Italia (dopo l'apparizione la scorsa estate al Festival di Martina Franca). Un azzardo consegnare al ribelle e trasgressivo Stefano Poda il Tristan und Isolde inaugurale? Mehta si fida, come sempre orientato sul nuovo. Fidiamoci anche noi.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Picasso il ceramista
di Anna Orlando
È bizzarro che Picasso, nelle sue ceramiche, si sia aggrappato il più possibile alla figura. Trasformando una brocca in un uomo panciuto, una bottiglia in una donna filiforme, o disegnando animali e volti sul fondo dei piatti. Proprio lui, visionario pioniere dell'astrattismo già nelle Démoiselles d'Avignon del 1907, e poi in maniera più decisa con il cubismo. Come per dire, a un certo punto, che il suo genio è tale da poter avere successo con tutto e il suo contrario. Ha 65 anni quando quel materiale e quella tecnica gli ispirano nuovi scenari creativi.
Sotheby's batterà a Londra il 7 maggio l'asta dal titolo «Picasso Ceramics»: 171 lotti, con un ampio range di stime dalle 400 sterline per una piccola placca alle 80mila per il top lot, un grande vaso del 1953 con scene di corrida, esemplare numero 7 su 25. I prezzi dipendono sensibilmente dal numero di esemplari per la serie. Le sue ceramiche sono multipli: da un minimo di 25 a un massimo di 500. Le intendeva infatti come qualcosa di più popolare, che potessero avere in tanti: «Avrei voluto prendere tutte queste ceramiche, caricarle su un asino e portarle al mercato, per venderle a cento franchi ciascuno».
L'interesse per Picasso verso quest'arte è una scintilla in una delle sue tante estati del Midì. Nell'agosto '46 è a Golfe Juan, vicino ad Antibes, e l'amico incisore Louis Fort lo porta a vedere la mostra di ceramiche a Vallauris, storico centro di produzione fin dai tempi delle anfore romane. Picasso rimane impressionato dallo stand della manifattura Madoura, tanto che vuole a tutti i costi essere presentato ai proprietari, Suzanne e Georges Ramié. Che, onorati e sorpresi, approfittano immediatamente per invitarlo nel loro laboratorio.
Il divertimento inizia subito: non perde tempo e inizia a plasmare tre pezzi, lasciandoli lì perché vengano cotti. Li vedrà solo l'estate dopo: perfetti! Perché non continuare? Armato di schizzi e di idee, può sistemarsi in un angolo del laboratorio tutto per lui. Ed è così che per ventiquattro anni verranno sfornati oltre seicento pezzi: piatti, albarelli , vasi di ogni foggia e colore, come vere e proprie sculture.
Basta scorrere il catalogo di Sotheby's per vedere sfilare, una dopo l'altra, queste nuove creature, plasmate dalle sue mani e da quelle di altri, e decorate sulla base dei suoi schizzi e delle sue precise indicazioni. Un colore dominante è il nero, che consente contrasti forti con il giallo acceso, il verde smeraldo e il rosso fuoco. Le figure che appaiono, più o meno stilizzate, sono quelle di una capra, una civetta, un pesce, un uccellino, una gallina o un gallo. E poi, ovvio, ripetutamente anche il toro. I volti talvolta sono solo semplici sorrisi. Altre volte profili ben riconoscibili delle donne amate. Innanzi tutto Françoise Gilot, la giovane studentessa d'arte che gli ha dato due figli, Claude e Paloma, ma che poi lo lascia, stanca e logorata da un amore che avrebbe desiderato più totale. Ormai anziano, proprio mentre lavora alle sue ceramiche nella fabbrica di Vallauris, Picasso conosce Jacqueline Roque. Sarà lei l'ultima musa del maestro, sua sposa nel 1961, volto di centinaia di ritratti, fedele compagna fino alla morte dell'artista a Mugins nel 1973. È meraviglioso, su un piatto del '56, il suo profilo candido, bianco su bianco.
il Sole24ore domenica 27.04.14
Un Mozart ritrovato
Si ferma, il sedicenne Mozart. Lascia incompiuto uno straordinario Kyrie, in do maggiore, di rara bellezza, scritto a Salisburgo, tra il secondo e il terzo viaggio in Italia, testimonianza del lascito di emozioni e di scuola che il nostro Paese contagiava nel Settecento. Della composizione, catalogata tra gli aggiunti del catalogo Köchel (Anh 18) restano tracce fino agli anni Trenta del Novecento. Poi sparisce e viene data per perduta.
Ora il manoscritto autografo di Mozart, per coro a quattro voci e orchestra, è stato ritrovato e racconta una storia rocambolesca: dalla collezione di Aloys Fuchs a metà Ottocento passa ai benedettini di Göttwig. Venduto nel 1930, è nella biblioteca di un orchestrale di Monaco, Rudolf Götz, ebreo, costretto a emigrare in Sudamerica nel 1939. La nave affonda. Ma non su quella era stato caricato il piccolo Kyrie. Stimato 300-500 mila sterline, il 20 maggio sarà battuto a Londra, punta di diamante della prossima asta di Sotheby's musica. La carta, su cui Mozart scrive, è italiana.
il Sole24ore domenica 27.04.14
a colloquio con Zita Gurmai
«Mobilitiamo le donne per l'Europa»
Europarlamentare e alla guida del movimento femminile del Partito socialista europeo dal 2004, la tempra dell'Ungheria in cui è nata, non ha dubbi: loro possono fare la differenza
di Eliana Di Caro
«Io l'ho detto a Martin Schulz. Sta facendo un'ottima campagna, ma la prossima volta alla guida del Parlamento europeo ci deve essere una donna». Zita Gurmai, 49 anni, una personalità prorompente e una grinta che arriva da lontano, da un'adolescenza vissuta nell'Ungheria pre '89, lo ribadisce con forza: «Le donne, già in queste elezioni, possono fare la differenza: se vanno a votare sarà un'altra Europa».
È una realtà che conosce bene, ne fa parte dal 2004, da quando il Pse la designò alla testa del movimento femminile del partito. «Ne abbiamo fatte di cose», comincia con foga. Ma prima, la interrompo, parliamo di lei, di chi è, di come è approdata al ruolo importante che riveste e che la porta a girare e a diffondere i temi della parità, compresa la tappa a Roma, alla Fondazione Nilde Iotti per il convegno "Uno sguardo di genere sull'Europa".
«Avevo 14 anni quando mia madre, un'insegnante di 38, rimase vedova, con me e le mie due sorelle da crescere. Ricordo come se fosse ieri il direttore della mia scuola che mi disse "devi rimboccarti le maniche e dare una mano". E così cominciai a dare delle lezioni private. Fu un periodo molto duro. Poi arrivò il momento dell'università, mi iscrissi alla facoltà di Economia alla Karl Marx University, e al secondo anno diventai presidente dell'organizzazione per il welfare. I temi della disparità sociale e della disuguaglianza economica entrarono dunque nella mia vita da giovanissima, in una Budapest in cui ero il collegamento con i giovani comunisti».
Il salto alla politica vera, attiva e subito a livello internazionale giunse più tardi, nel 1993, quando entrò nel partito socialista ungherese e da quel momento la sensibilità per le tematiche di genere, dell'equità, delle politiche del lavoro prese il largo, suggellata poi dalla carica di vicepresidente delle donne nell'Internazionale socialista. Intanto un signore, Viktor Orban, ai tempi un liberale, si affermava sulla scena politica: nel 1998 divenne primo ministro ma la cosa non fece rumore, i media non se ne occupavano e i problemi non emergevano. «Tuttavia rispetto alle donne - precisa Gurmai - aveva già allora un approccio estremamente conservatore. E così nel 2001 diedi inizio al movimento "donne per il cambiamento": andammo in piazza con le sciarpe gialle, il colore del sole, ogni venerdì per sei mesi, a Budapest e in altre 50 città, silenziose ma pressanti. Il nostro obiettivo? Volevamo avere voce in capitolo nel cambiamento del Paese. L'anno dopo vinsero i socialisti ed entrai in Parlamento». A quel punto la strada di Zita è tracciata nel solco di un percorso europeo che non si ferma più e va di pari passo con l'europeizzazione dell'Ungheria: nel 2003 è membro osservatore del Parlamento europeo, e dal 2004 (l'anno dell'allargamento a Est della Ue) è eletta a Bruxelles.
Il passo alla designazione di leader delle donne del Pse è breve: il precedente all'Internazionale socialista le aveva dato molto, in termini di esperienza e carica umana, e il carisma certo non le manca. Basta vedere come si anima quando parla, aiutata da uno sguardo espressivo e da una risata contagiosa. Come leader delle donne Pse voleva dare più vitalità all'organizzazione e aprirla oltre i confini di Bruxelles: «Quando la presidenza del semestre era in Portogallo doveva avere visibilità in Portogallo, e così a cascata nei vari Paesi dell'Unione», spiega. Ogni anno ha organizzato una conferenza con un tema specifico che caratterizzava una campagna di sensibilizzazione: «Nel 2006, per esempio, riguardava il traffico di donne al traino dei Mondiali di calcio. L'anno dopo, la riduzione del divario salariale uomo-donna. Molto successo ha avuto nel 2011 il tema delle pensioni con un video efficace sui contributi pensionistici: il libro bianco delle pensioni porta il segno di questa nostra azione. In generale, i diritti sessuali e riproduttivi, la violenza contro le donne, le disparità retributive sono i cavalli di battaglia del Pse».
Un passo avanti importante e tangibile lo si è fatto in tema di rappresentanza femminile nella politica, e qui il sorriso di Zita Gurmai si allarga: «Sono molto contenta perché le liste oggi sono più paritarie. Se si guarda la parabola delle elezioni europee dal 2004 al 2009 fino al 2014, è evidente la progressione del numero di candidate, per esempio in Spagna, in Romania, nelle Fiandre». Un tema, questo, su cui in Italia si tocca un nervo scoperto, dopo il naufragio della legge sulle quote rosa, e verso il quale il primo ministro Matteo Renzi ha comunque mostrato attenzione indicando come capolista del Pd al voto del 25 maggio cinque donne (dopo aver scelto otto ministre per il suo Governo: tante quanto gli uomini). Del resto è una litania inutile quella di sciorinare numeri e statistiche sul gender gap e sull'arretratezza della condizione della donna se non si agisce sulla questione determinante: il coinvolgimento femminile nei luoghi dei processi politici che orientano le decisioni e promuovono i cambiamenti. Dove, insomma, si gioca davvero la partita di una società, di un Paese, di un continente. Da questo punto di vista in Italia si è fatto un micro passo avanti, perché nel nostro Parlamento con le elezioni del febbraio 2013 la media complessiva della presenza femminile è salita al 30,1% (era al 19,5% nella precedente legislatura), contro una media Ue del 27%: vuol dire 198 donne alla Camera, 92 al Senato (resta il fatto che che nessuna donna è stata mai capo dello Stato, né primo ministro né presidente del Senato). Nella Ue, le donne guidano il Governo in 5 Stati - Germania, Danimarca, Slovenia, Lettonia e Norvegia - e la media delle donne ministro è del 28% con risultati molto diversi nei vari Paesi (in Svezia, per esempio sono il 54%, in Francia e Finlandia si registra la quasi parità con il 47 per cento).
Un velo adombra il volto di Zita Gurmai, parlando dell'Ungheria: «Il destino del mio Paese mi preoccupa. Orban ha vinto perché si è confezionato una legislazione ad hoc. Gli estremisti dello Jobbik sono arrivati al 20% grazie alla loro organizzazione e alla loro capacità di mobilitazione: basti pensare che io, dico io ho ricevuto il giorno del voto ben tre sms da Jobbik in cui mi si avvisava che, se non fossi andata a votare, l'Ungheria sarebbe stata in balia della sinistra che si stava muovendo e stava portando gli zingari alle urne. Sono tra i più estremisti d'Europa, d'altro canto nei momenti di crisi emergono sempre questi soggetti. Orban accusa Bruxelles di colonizzazione e in vista delle europee cavalcherà questi sentimenti. La coalizione di sinistra non è riuscita a superare il 26 per cento. Ma soprattutto, il 39% degli elettori non è andato alle urne e questo è un dato drammatico». Una pausa, prima di ritrovare una punta di ottimismo: «Per questo spero e confido nella mobilitazione delle donne».
il Sole24ore domenica 27.04.14
La storia non è mai scontata
di Francesco Perfetti
Non è affatto vero, diciamolo subito - come suggerisce il titolo dell'ultimo e gustoso libro di Arrigo Petacco -, che La storia ci ha mentito. Sono i giornalisti alla ricerca dello scoop, i testimoni o i protagonisti interessati ma anche, in qualche caso, gli storici attenti alle ragioni della politica e non a quelle della ricerca, coloro che accreditano "grandi menzogne" destinate a diventare icone o vulgate storiografiche o anche vere e proprie leggende. È sempre stato così e, con molta probabilità, le cose non cambieranno. Soprattutto in periodo bellico perché, come diceva Winston Churchill, «durante una guerra la verità è così importante che occorre nasconderla dietro una cortina di bugie». E, a guerra finita, certe cose diventano scomode. I conflitti, insomma, sono generatori di "menzogne" che vengono trasformate in "verità" e consegnate alle pagine dei libri di storia o all'immaginario collettivo.
Il saggio di Arrigo Petacco è un piacevole excursus tra le "menzogne" più accreditate e i "misteri" più chiacchierati della seconda guerra mondiale. Più che un libro di storia nel senso proprio del termine o un testo revisionista della "vulgata" storiografica imposta dai vincitori, è un tentativo onesto di rivisitare gli avvenimenti mostrandone i lati nascosti o controversi. Così, per esempio, parlando della guerra di Spagna ci rivela che Arthur Koestler, il futuro autore di Buio a mezzogiorno, allora fedele stalinista, scriveva reportage per la Tass sotto il controllo di un funzionario comunista alterando i fatti. Oppure, a proposito dell'alleanza fra Italia e Germania, sottolinea come essa non fosse una inevitabile conseguenza della affinità tra fascismo e nazismo, ma piuttosto il risultato di una politica che egli definisce "miope" delle democrazie. O, ancora, ci ricorda come, all'inizio del conflitto mondiale, dopo l'aggressione tedesca alla Polonia e l'intervento di Francia e Gran Bretagna in difesa del paese aggredito, per alcuni mesi, si ebbe una drôle de guerre, una guerra stramba cioè, senza scontri, con eserciti contrapposti che si scrutavano senza che partisse un solo colpo di fucile, mentre la vita continuava con il solito ritmo nelle grandi capitali.
Petacco suggerisce una rilettura di alcuni "misteri" insoluti: le motivazioni del volo di Rudolf Hess in Germania o il contenuto della valigia che il Duce aveva con sé a Dongo al momento della cattura o, ancora, il fantomatico carteggio Churchill-Mussolini sulla cui esistenza ancora si dibatte. Inoltre propone interpretazioni controcorrente. Un esempio solo: egli afferma che il 25 luglio 1943 Mussolini non fu tradito dai gerarchi dissidenti: «se tradimento vi fu, fu lo stesso tradito a farsi tradire». Potrebbe sembrare una boutade, ma ricerche recenti hanno concluso che il Duce aveva visto nell'o.d.g. presentato da Dino Grandi il "male minore", recuperabile attraverso il rapporto con Re, rispetto all'o.d.g. di Roberto Farinacci che puntava a dare tutto in mano ai tedeschi. Che le cose siano andate diversamente e che Vittorio Emanuele III, ormai deciso a liquidarlo, lo abbia fatto arrestare è altro discorso. L'episodio dimostra come il libro di Petacco, al di là della sua godibilità, sia un invito a non dare per scontate le certezze consolidate perché la storia è una dea dai mille volti.
Arrigo Petacco, La storia ci ha mentito, Mondadori, Milano, pagg. 210, € 19,00
il Sole24ore domenica 27.04.14
Insegnamenti dal muschio
di Gian Carlo Calza
Elogio dei muschi: titolo indovinatissimo. Fa subito venire alla mente quello del suggestivo Elogio della penombra di Junichiro Tanizaki – purtroppo reso in italiano con Libro d'ombra – ma tant'è. Come nel capolavoro del grande scrittore giapponese anche in questo si parla di realtà minime e profondissime. Tenute in nessun conto, se non addirittura spregiate, in Occidente, ma più che apprezzate in Asia e addirittura esaltate in Giappone. Vi si descrivono percorsi capaci di portare là dove la sapienza si ferma e di far riscoprire al cuore e ai sensi luoghi negletti della conoscenza.
In modo evidentemente ispirato a quel libro l'autrice, Véronique Brindeau, si muove col suo volume uscito per i tipi di CasadeiLibri studiosa e docente di musica giapponese a Parigi, sembra voler trasmettere nel libro una sensibilità, una ricerca di ritmo e ascoltazione necessarie per penetrare nel mondo stesso della musica. Con fare delicato e attento si addentra nell'universo dei muschi giapponesi e della loro cultura cogliendone la meraviglia, la ricchezza e la complessità. Sciorina davanti al lettore un universo di decine, centinaia di muschi laddove in Francia, suo paese natale, tre sole specie entrano nel lessico comune.
Attraverso pagine costellate di poesie e miti antichissimi, in cui il muschio è apprezzato e svolge un ruolo spesso centrale, nonché di illustrazioni avvincenti di parchi, giardini, boschi, templi e capanne preziose, questo elegante libretto apre la via a un tipo di conoscenza che è anche antidoto alla fretta, alla grossolanità e all'indifferenza verso le cose piccole, ma fondamentali e rigenerative dell'esistenza.
L'autrice accompagna la sua apologia dei muschi ad altri veicoli culturali che con essi s'intrecciano: bonsai, giardini, cerimonie del tè, templi quasi segreti.
Il Saihonji è un tempio di Kyoto che richiede una procedura particolare per l'ammissione. Oltre la prenotazione con vari giorni d'anticipo è necessario percorrere una strada a piedi per raggiungerlo e solo in gruppo una volta al giorno. È poi richiesto di trascrivere anche se non si conosca il giapponese quindi come si può un certo numero di caratteri di un sutra o discorso del Buddha. Quindi una serie di difficoltà per accedere a quello che è la principale attrazione del luogo sacro, vale a dire il suo celebrato giardino dei muschi.
Oggi nell'era della globalizzazione siamo costantemente sommersi da tsunami di saperi senza fine, e fine a se stessi, su tecniche, modi di pensare, forme estetiche di culture e società innumerevoli alcune anche che incombono più o meno minacciose sulle nostre realtà. E proprio questa massa di informazioni rischia di non creare nessun ponte di vera comunicazione perché il cuore non ha lo spazio, il tempo, di trafilarla con la decantazione, con l'esperienza.
E allora si capisce come queste difficoltà appositamente create abbiano lo scopo di creare tale spazio di attesa, silenzio e ascoltazione per meglio assorbire vivere, senza dover capire l'esperienza dell'incontro.
Ma funziona? Qualcuno si chiederà.
«Marco cominciò il suo lavoro come uno scolaro all'aperto e finì i duecento ideogrammi invaso o per meglio dire invasato di felicità. Felicità della vita, della perfezione di tutto, dal profumo che saliva dal tatami alla morbidezza del pennellino con cui egli tracciava felicemente gli ideogrammi di cui non capiva nulla. (...) anche qui la felicità di Marco era al suo massimo, senza alcuna punta di malinconia, ed egli si identificava sia con gli alberelli di acero percorsi da un venticello quieto e fresco, sia coi vari tappeti muschiosi e perfino con l'ombra e la luce che giocavano attraverso la polvere d'oro e gli aceri sul piccolo stagno dalle flottanti carpe. Qual genere di felicità era? Marco non lo sapeva, ma forse era proprio quella suggerita dalla filosofia Zen».
Ma quel Marco così poco giapponese e così profondamente italiano capace però di immergersi nel diverso da sé grazie alla lentezza del muschio e non solo, è Goffredo Parise che evoca questa e altre simili esperienze d'incontro, e anche scontro, col Giappone nel bellissimo L'eleganza è frigida.
Véronique Brindeau, Elogio dei muschi, trad. di Lorenzo Casadei, CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 110, ill. € 18.oo
il Sole24ore domenica 27.04.14
Gli errori dello Scià
di Farian Sabahi
Trentacinque anni dopo la Rivoluzione che ha scalzato la monarchia, migliaia di pagine d'archivio sono state rese disponibili e per questo lo storico Abbas Milani ha scritto una nuova biografia. In inglese e on-line anche in persiano, The Shah è un volume di quasi cinquecento pagine. Scorrevoli, raccontano la Storia senza tralasciare questi aneddoti curiosi. Milani analizza gli errori di Muhammad Reza Pahlavi: l'avere ignorato il clero moderato ed essersi inimicato intellettuali come Jalal Al-Ahmad, autore del bestseller Gharbzadeghi (Intossicato dall'Occidente); l'aver promosso i cambiamenti economici che portarono alla creazione di una nuova classe media, benestante e colta, per poi negarle i diritti politici. Questo vale per gli abitanti delle città ma anche dei villaggi, spiega Mary Hegland che nel 1978-79 faceva ricerca ad Aliabad, non lontano da Shiraz. A scatenare la rivoluzione – scrive l'antropologa – non furono questioni religiose ma le crescenti diseguaglianze, la disoccupazione, la corruzione. Come nei paesi arabi attraversati dalle primavere. Lo scià spinse la borghesia e i religiosi moderati tra le braccia dell'Ayatollah Khomeini, spiega Milani. Lo sciismo sembrava il solo modo per incanalare la protesta e quindi divenne uno strumento politico. Lo scià era consapevole che «nelle società moderne la religione è necessaria per la stabilità». Ma non amava gli akhund (termine dispregiativo per indicare i membri del clero) e ripeteva che «avere a che fare con loro era come andare a letto con un pazzo». Non a caso i servizi segreti dello Stato ebraico lo chiamavano con il nome in codice di Saul. Come il primo re del Regno di Israele, unto dal Signore.
Abbas Milani, The Shah, Palgrave, New York, pp. 488, $22
Mary Hegland, Days of Revolution. Political Unrest in an Iranian Village, Stanford University Press, pp. 316, $28
il Sole24ore domenica 27.04.14
Fiori nei cannoni di Lisbona
Alcuni giovani capitani 40 anni fa fecero un golpe singolare: sovvertirono in modo incruento il regime e i loro generali al suono di una canzone e di garofani rossi
di Franco Lorenzoni
Il 25 aprile di quaranta anni fa, poco prima dell'alba, un giovane capitano di 37 anni diede il via, nelle strade di Lisbona, al più singolare colpo di Stato sia mai stato concepito.
A liberare il Portogallo dal regime fascista più longevo d'Europa non fu una rivoluzione di popolo, ma la rivolta morale di un gruppo di giovani capitani. Negli oltre dieci anni di guerra combattuti contro i movimenti di liberazione nelle vastissime colonie portoghesi di oltremare, all'interno dell'esercito fascista portoghese si era infatti sviluppata una opposizione che si condensò attorno a un piccolo gruppo di giovani capitani, che avevano compreso che ad aver ragione non erano i loro generali, ma i guerriglieri che combattevano per la liberazione dell'Angola, della Guinea e del Mozambico.
L'efficace scuola della sconfitta aprì loro gli occhi tanto che, clandestinamente, si misero a studiare i testi di Samora Machel e Amilcar Cabral, leader dei movimenti di liberazione che combattevano da anni l'esercito di Salazar e di Caetano. Alcuni di loro avevano studiato in Francia e certo risentivano del clima politico che si respirava in Europa e nel mondo alla fine degli anni Sessanta. Ma questo particolare Sessantotto clandestino portoghese portò a progettare una rivolta di rara efficacia, che rovesciò in modo incruento un regime violento e oppressivo che durava da 48 anni.
Nell'ideazione di quel golpe ci fu qualcosa di geniale. Per fare un colpo di Stato si deve comunicare con dei codici segreti, dichiarare lo stato d'assedio e intimorire la popolazione occupando le strade con i carri armati. Si deve poi impossessarsi di radio e televisione per comunicare a tutti l'avvenuto cambio di regime.
Il progetto di Otelo Saraiva de Carvalho e dei suoi compagni nasce ribaltando ogni regola. Il segnale d'inizio del golpe sarà la trasmissione, alla radio della chiesa, di Grandola villa morena, la più famosa canzone di opposizione cantata da José Afonso, il cantautore più noto e più inviso al regime. I carri armati non dovranno incutere timore, ma invitare la popolazione a scendere in piazza perché la folla accompagni l'azione militare. Saranno dunque aperti e i soldati dovranno parlare a tutti, incitando alla partecipazione e alla rivolta con dei megafoni. È primavera, e poiché è facile trovare a Lisbona garofani rossi, simbolo dell'opposizione antifascista, ogni fucile e bocca di cannone sarà riempita di fiori a indicare che chi porta quelle armi è stanco di fare la guerra.
Mettere fiori nelle canne dei fucili fu immagine cara a tutti i movimenti di opposizione alla guerra del Vietnam e divenne l'icona simbolo dei movimenti pacifisti e hippie, che in quegli anni segnarono l'occidente. Ma una cosa è se quel gesto è fatto da un "figlio dei fiori" con i capelli lunghi che ascolta Bob Dylan, ben altra se quell'azione è messa in atto da soldati di un esercito fascista e colonialista, seguendo l'ordine di un loro capitano.
Sembra una favola ma è accaduto davvero, e un regime che per mezzo secolo è stato capace di «preservare quest'angolo d'Europa dal progresso», come amava ripetere il dittatore Salazar, crollò nello spazio di un mattino. Prima di fuggire all'estero Marcelo Caetano, suo erede, fece l'ultimo tentativo di deviare la vittoria dei capitani del Movimento delle Forze Armate. Fuggendo dichiarò infatti: «Per non fare cadere il potere nella strada ho affidato la guida dello Stato ad Antonio Spinola», un generale che aveva propugnato un'uscita morbida dal colonialismo, che non mettesse in forse gli equilibri di potere costruiti dal regime. Ma la radicalità del rovesciamento promosso dai capitani non tollerò compromessi e cinque mesi dopo, quando Spinola tentò a sua volta un golpe contro il MFA, venne deposto dando il via alla fase più radicale e convulsa del processo rivoluzionario portoghese, che non portò alla rivoluzione socialista, come sognavano alcuni tra i capitani, ma restituì il Portogallo alla democrazia.
Il primo rovesciamento, che fu alla base di questa singolarissima rivolta, fu quello di fondare un Movimento all'interno della più rigida e gerarchica delle strutture: un Movimento nelle Forze Armate.
La situazione che si creò fu così paradossale. Per 19 mesi nelle caserme del sud del Paese non comandavano più i generali, ma giovani ufficiali intermedi, che sempre più numerosi andavano aderendo al Movimento. Avevo vent'anni e, guardando sui giornali le fotografie di quei carri armati pieni di fiori, non resistetti e partii per Lisbona. La commozione nel vedere profughi all'aeroporto che tornavano da decenni di esilio e l'entusiasmo di partecipare al primo 1° maggio libero, con un milione di persone in piazza e ogni finestra imbandita con lenzuola, tappeti o asciugamani per festeggiare la ritrovata libertà, mi contagiarono al punto che in Portogallo ci restai a vivere un anno e mezzo.
Persino Gabriel García Márquez, di passaggio a Lisbona, dichiarò che il Portogallo era l'unico Paese in cui si sentiva di parteggiare per i militari. Impresa ardua per un latinoamericano, dato che l'anno precedente il Cile era stato funestato da uno dei più sanguinari golpe e molti Stati di quel continente, come l'Argentina, erano governati da giunte in cui i generali si macchiavano dei peggiori delitti.
Il vuoto di potere creato dall'anomalo colpo di Stato portoghese diede luogo a occupazioni di terre e ad autogestioni generose, spesso gestite con ingenuità, rese possibili dal fatto che a mantenere l'ordine a Lisbona c'era il Copcon, l'unità militare creata da Otelo Saraiva de Carvalho, che aveva come unica linea lo slogan "il popolo ha sempre ragione". Linea osteggiata non solo da coloro che avevano costruito il loro potere durante la lunga notte del fascismo, ma anche dal Partito Comunista Portoghese guidato dallo stalinista Alvaro Cunhal, diffidente verso ogni movimento spontaneo di base.
Va detto tuttavia che questo periodo di incredibile anarchia, in cui l'antica polizia fascista rimase chiusa per 19 mesi nelle caserme, vide diminuire i delitti nella capitale e non diede adito ad alcuna violenza. Il 25 novembre del 1975, quando unità dell'esercito non contagiate da quell'incredibile ossimoro al potere che fu il "Movimento delle Forze Armate", circondarono le caserme della capitale portoghese, nessuno dei capitani pensò di resistere scatenando una guerra civile. All'origine del golpe antifascista c'era il rifiuto del colonialismo e della guerra e, seppur divisi al loro interno, a quella opzione che diede origine alla loro rivolta, i capitani di aprile rimasero fedeli.