l’Unità 25.4.14
«Lasciateli annegare»
Su Left il piano contro Mare Nostrum
di Giovanni Maria Bellu
Questa settimana la copertina di left ha un titolo apparentemente brutale «Lasciateli annegare» che, però, non è altro che la sintesi di un movimento in atto tra l’Italia e il resto dell’Unione europea per interrompere l’operazione Mare Nostrum.
Nei giorni scorsi la Lega e Forza Italia ci hanno «messo la faccia» annunciando una mozione parlamentare per la cessazione della operazione di salvataggio avviata dopo la strage di Lampedusa. Ma in verità un lavorio finalizzato a questo risultato è in atto da tempo.
Se ne sono accorti per primi, un mese fa, il Consiglio italiano dei rifugiati
e l’Unhcr che hanno lanciato l’allarme. Senza avere alcuna risposta chiara. Perché, Lega e Forza Italia a parte, nessuno dice che Mare Nostrum deve finire. Anche se, contemporaneamente, il governo non è in grado di assicurare che andrà avanti fino al momento in cui saranno aperti dei corridoi umanitari per consentire a quanti hanno diritto all’asilo di raggiungere l’Europa legalmente e in condizioni di sicurezza.
Il lavorio consiste nel creare le «condizioni oggettive» per interrompere Mare Nostrum senza che nessuno debba assumersi la responsabilità politica della decisione. Left svela i contorni di un disegno elementare quanto ipocrita: l’operazione di salvataggio costa troppo, nove milioni al mese, ed è quasi totalmente a carico dell’Italia; gli altri Paesi europei (con la sola eccezione della Slovenia) non intendono dare alcun contributo economico.
Dunque: impossibile andare avanti. Ma può l’Europa essere, come dice il Trattato di Lisbona, «uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia» e nello stesso tempo ostacolare quanti vittime di persecuzioni e di guerre vorrebbero avere ospitalità in questo suo spazio? È ammissibile una simile divaricazione tra i valori proclamati e i comportamenti?
Evidentemente no: è anche possibile agire in modo coerente. C’è chi lo fa. Per dimostrarlo, in questo numero left ha una “contro-copertina”: è dedicata ad Antonio Mumolo, consigliere regionale del Pd in Emilia Romagna e presidente dell’Associazione Avvocato di strada che, da anni, assiste gratuitamente i senzatetto che hanno bisogno di assistenza legale.
Sono migliaia e il loro numero è destinato a crescere. Soprattutto se il Piano Casa del governo sarà approvato senza che venga corretta la norma che vieta la concessione della residenza agli occupanti abusivi.
Essere privi di residenza, come spiega Antonio Mumolo, è perdere la possibilità di accedere a diritti fondamentali, a partire da quello alla salute. E, in definitiva, ritrovarsi – ma da cittadini italiani in una condizione molto simile a quella dei migranti soccorsi da Mare Nostrum. Finché andrà avanti.
Repubblica 25.4.14
Democrazia e rappresentanza
Quale altra parola adoperare se non autoritarismo quando il Parlamento è minacciato di continuo di essere “mandato a casa”?
di Stefano Rodotà
DA ANNI è aperta una riflessione critica sulla democrazia che giunge fino a certificarne la sostanziale scomparsa. Parole nuove e vecchie s’intrecciano: postdemocrazia e controdemocrazia, iperdemocrazia e ultrademocrazia. Si indagano le ragioni che hanno dato origine a quello che Jacques Rancière ha definito «l’odio per la democrazia » o che, meno radicalmente, Carlo Galli chiama «il disagio» della democrazia.
È il tempo del disincanto? Certo è che oggi ben pochi sarebbero disposti a dire che «i mali della democrazia si curano con più democrazia», che è stata la bussola indicata da T. B. Smith agli americani e che, comunque, rimane un ammonimento a non abbandonarsi alle semplificazioni, a non cedere alla tentazione di liberarsi dei problemi impoverendo la democrazia, riducendola ad un involucro sempre più misero nei contenuti. La democrazia vittima del suo successo, dell’eccesso di domande che essa stessa produce, della contraddizione tra i suoi tempi distesi e l’imperiosa richiesta di velocità da parte di chi contempla solo il bene della decisione? Scarnificata dei diritti, sottomessa alla logica economica e finanziaria, sfidata dalla tecnologia, la democrazia sembra non reggere alla forza delle cose e cerca all’esterno una ragion d’essere che non ritrova più in se stessa. I tempi difficili suggerirebbero che non possiamo più permetterci i lussi della democrazia. E quindi via gli equilibri tra poteri bilanciati, riduzione d’ogni forma di controllo parlamentare o giudiziario, soprattutto fine dell’illusione rappresentativa. Da molto tempo sentiamo ripetere che le elezioni non servono per dare rappresentanza ai cittadini, ma per investire un governo. La democrazia “d’investitura” viene presentata come l’unica accettabile.
Ma proprio a questo punto s’incontrano paradossi e contraddizioni. Di fronte a noi stanno la rinnovata presa dei populismi, nei quali si manifesta pure una reazione alle pesanti chiusure oligarchiche, e le promesse della Rete, con la tecnologia elettronica presentata come un soccorso alla democrazia morente. Entrambe queste spinte concorrono nel corrodere la democrazia rappresentativa. E il paradosso sta nel fatto che, dietro l’enfasi posta sul trasferimento al popolo d’ogni potere, si scorge troppo spesso una nuova maniera per concentrarlo. L’astuzia tecno-populista sembra così indicare pure la strada per «sciogliere il popolo», secondo l’ironica espressione di Bertolt Brecht. O, almeno, per approdare ad una “democrazia senza popolo”, liberata da quei conflitti che pure sarebbero nella sua natura e che, esclusi dalla sfera istituzionale, si riproducono nella sfera sociale in modo virulento, incentivando interventi autoritari, in una spirale che logora gli stessi residui democratici.
Questi problemi non sono eludibili, perché la democrazia va certamente ripensata, come altre volte è storicamente avvenuto, in un contesto in cui i tradizionali mediatori sociali, i partiti di massa in primo luogo, scompaiono o devono fare i conti con un sistema informativo che non solo incide sulla comunicazione, ma sulle forme dell’organizzazione e della partecipazione dei cittadini. In Italia, peraltro, la discussione sulla democrazia rappresentativa non può essere scansata con una mossa infastidita, come un perditempo teorico, perché è stata rimessa al centro dell’attenzione dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum , indicando nell’effettività della rappresentanza la condizione necessaria per la legittimità delle leggi elettorali.
Ma, affrontando il grande tema del rapporto tra democrazia e rappresentanza, la Corte ne ha giustamente allargato l’orizzonte. Nel luglio scorso, dunque ben prima della decisione sul Porcellum, in una sentenza originata da un ricorso della Fiom contro l’esclusione dei propri rappresentanti da parte della Fiat si è sottolineata l’essenzialità della garanzia della rappresentanza, non solo per i sindacati, ma per i singoli lavoratori. E, modificando un suo precedente orientamento, la Corte ha messo in evidenza un mutamento di contesto, determinato dalla fine dell’unità sindacale e dal moltiplicarsi dei sindacati, sottolineando così il nesso tra rappresentanza e pluralismo. Il principio di rappresentanza diviene così la misura della legittimità delle istituzioni e dell’agire sociale, e dovrebbe essere massimamente tenuto in considerazione quando si interviene su aspetti essenziali dell’ordine costituzionale. Ma la discussione in corso sta mostrando l’inadeguatezza culturale dei riformatori, che sembrano del tutto inconsapevoli degli effetti sul sistema delle loro proposte. E, come capita quando una cultura approssimativa si sente a disagio, e quindi non è in grado di discutere seriamente, si inventa un nemico esterno, il professore o il parlamentare indisciplinato, e si chiama conservatorismo quel che non si è in grado di comprendere.
Se si considera il punto d’avvio del progetto di riforma, il cosiddetto Italicum, diviene subito evidente la sua distanza dal quadro costituzionale, teso com’è a limitare la rappresentanza e a deprimere il pluralismo, oltre ogni giustificazione addotta in nome della governabilità. Tutto questo è frutto d’una logica politica che ha affidato la riforma elettorale all’inedito duo Renzi-Berlusconi, che hanno ritagliato un figurino sulle esigenze dei loro partiti. Scelta palesemente strumentale e fragile, tanto che quel patto già vacilla per il timore di un crollo elettorale di Forza Italia e di una ascesa al secondo posto del Movimento 5Stelle. Ma rimane una sostanza fatta di accentramento di poteri nel Governo, di riduzione del ruolo della Camera dei deputati che, già svuotata dalla sua mancanza di rappresentatività, viene configurata come luogo di ratifica delle decisioni governative. E tutto questo incide sul complesso delle garanzie riguardanti i diritti dei cittadini.
La conclusione è una curvatura autoritaria del sistema. La parola può sconcertare, ma oggi viviamo tempi in cui l’autoritarismo non passa per i metodi aggressivi conosciuti in passato. E quale altra parola adoperare quando il Parlamento, già espropriato dell’iniziativa in una materia che lo vorrebbe protagonista, è continuamente minacciato d’essere “mandato a casa” se non vota docilmente testi elaborati fuori d’ogni vera procedura democratica (e della grammatica costituzionale)?
Una riforma consapevole delle attuali difficoltà della democrazia dovrebbe contemplare l’orizzonte più largo in cui questa ormai si pone, e muovere da un doppio ripensamento della rappresentanza: nel suo rapporto con le procedure di decisione e con la partecipazione dei cittadini. Non sarebbe una impresa difficile. Ma richiede una cultura simile a quella che, nel Trattato di Lisbona, affianca democrazia rappresentativa e partecipativa; che sia consapevole della necessità di rispettare l’equilibrio tra i poteri; che guardi alle tecnologie come strumenti che, saggiamente adoperati per ampliare le iniziative dei cittadini, consentano di iniziare tragitti dove la democrazia torna ad incontrare il suo popolo.
l’Unità 25.4.14
Le radici dell’ottimismo
di Matteo Renzi
CI SONO ANCORA OCCHI CHE, OGGI, POSSONO TESTIMONIARE CIÒ CHE ACCADDE IERI. Alcuni sono stati rintracciati e fotografati settant’anni dopo: sono occhi, volti, rughe e ombre di chi scampò alla strage di Sant’Anna di Stazzema. Occhi che hanno visto razzie, morte, devastazioni.
Ma non si sono arresi alla violenza e hanno vissuto per costruire un futuro di libertà, non di vendetta.
L’Italia che oggi ha lo sguardo fiero è quella uscita settant’anni fa da tragedie, lutti e indicibili sacrifici. Ed è a quanto è costato a tutti il percorso per arrivare sin qui che penso quando penso al 25 aprile. E penso, ancora, al fatto che un Paese in grado di rialzarsi da quelle macerie e ricostruirsi così è un Paese in grado di affrontare e superare tutto. Tutto.
Il volto di oggi è stato pagato a caro prezzo ieri. E forse è arrivato anche il momento di capitalizzare quei sacrifici: l’Italia del 25 aprile non è quella di una parte ma quella di tutti («Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro», come diceva Arrigo Boldrini). Lì abbiamo scelto di scrivere per la prima volta, la nostra carta d’identità, che si chiama Costituzione. Lì abbiamo messo nero su bianco chi volevamo essere e dove volevamo andare.
Potrei, anzi forse dovrei parlare delle sfide che ci attendono, delle opportunità che ci stanno davanti, dell’economia, del lavoro, dell’avvenire dei nostri figli. Mi dicono che ne parlo pure troppo tutti i giorni, è il mio lavoro, è la responsabilità che porto. Ma non intendo farlo oggi, di 25 aprile, come fosse una epokhé, una sospensione del tempo ordinario. Una occasione per non mescolare i piani, per portare rispetto, per ricordare insieme e dare senso.
È grazie a quel passato che oggi possiamo immaginare il nostro futuro e immaginarlo con fiducia: l’ottimismo che deve accompagnarci non è dunque un auspicio, un io-speriamo-che-me-la-cavo ma è la certezza di poter contare su radici come queste. Da lì arriviamo. Dall’aver scelto di ripartire dalla libertà. Dall’aver scelto di ripartire insieme.
Il Sole 25.4.14
Il bonus 80 euro arriva come «credito» in busta paga
Perché il valore reale mensile può scendere a 53,33 euro
di Nelvio Bianchi
qui
Il Sole 25.4.14
Polemica sulla previsione della Relazione tecnica di maggiore prelievo fiscale sui depositi per 755 milioni
di Em. Pa.
L'aumento dell'aliquota sulle rendite finanziarie dal 20 al 26% comporterà un aumento della tassazione sui rendimenti dei conti correnti di 755 milioni nel 2015. È la valutazione contenuta nella relazione tecnica predisposta dal governo al decreto Renzi che il Sole 24 Ore ha anticipato ieri. Un dato inedito, calcolato dai tecnici dell'Economia, che ha avuto l'effetto di sollevare una polemica politica, legata alla preoccupazione dell'aumento del prelievo sulle famiglie.
(...)
Il Sole 25.4.14
Ok della Camera al decreto lavoro
Con 283 sì (compresi Ncd e Sc) e 161 no il testo passa al Senato dove la maggioranza si presenta divisa
di Claudio Tucci
ROMA L'acausalità dei contratti a termine sale da 12 a 36 mesi, comprensivi di un massimo di cinque proroghe (erano otto nel testo originario). Viene introdotto un tetto del 20% di utilizzo del lavoro a termine calcolato sui dipendenti a tempo indeterminato (non più sull'organico complessivo). La formazione pubblica per gli apprendisti torna obbligatoria (ma se la Regione non si attiva entro 45 giorni l'impresa è esonerata). Viene ripristinato il piano formativo individuale, seppur con modalità semplificate di redazione; e viene reintrodotta una quota legale di stabilizzazione di apprendisti (20% per le aziende con almeno 30 dipendenti) necessaria per consentire al datore di lavoro di poter sottoscrivere nuovi contratti di apprendistato.
L'aula della Camera ieri ha confermato la fiducia al governo accendendo semaforo verde al dl Poletti. I sì sono stati 283, compresi quelli di Ncd e Scelta civica (oltre ai deputati Pd), 161 i no, un astenuto. Ma non sono mancate le scintille durante le dichiarazioni di voto con i deputati del M5S che si sono incatenati in Aula per protestare contro i contenuti del provvedimento. Per il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Graziano Delrio, il testo votato dalla Camera va nella direzione di «maggiore flessibilità e meno burocrazia, come chiedono le imprese, ma al tempo stesso garantisce i precari» e punta a rilanciare l'apprendistato oggi «ancora troppo poco sfruttato» (gli ultimi dati Isfol, Inps e ministero del Lavoro hanno certificato nel 2012 appena 469.855 rapporti, con un calo in 5 anni, dal 2008 cioè, di oltre 175mila contratti).
Il dl 34 inizierà martedì 29 aprile il suo percorso in Senato, in commissione Lavoro (relatore Pietro Ichino di Scelta civica), con un iter piuttosto serrato visto che il provvedimento scade il 19 maggio (e se modificato nuovamente deve poi tornare alla Camera per la conversione definitiva).
Ma a Palazzo Madama la maggioranza si presenta piuttosto divisa, visto che il testo uscito da Montecitorio, seppur migliora la legislazione vigente, è diverso, e in alcuni punti anche sostanzialmente, rispetto al dl originario licenziato dal governo a metà marzo, che più incisivamente correggeva le rigidità introdotte dalla legge Fornero. A chiedere cambiamenti al testo è soprattutto Ncd. Ma pure Scelta civica. Il ministro Maurizio Lupi (Ncd) si dice infatti convinto che a Palazzo Madama, «d'accordo con il collega Giuliano Poletti, si migliorerà il provvedimento in particolare sull'apprendistato e sulla obbligatorietà delle assunzioni». E il vicepresidente vicario di Scelta civica alla Camera, Antimo Cesaro, incalza il governo a inserire nel dl anche un riferimento al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (già previsto nel ddl delega sul Jobs act) «per stringere la forbice tra i contratti temporanei e quelli stabili».
In vista della partita al Senato, un punto su cui si potrebbe raggiungere un compromesso tra la maggioranza e con il governo è sulla sanzione della conversione a tempo indeterminato dei rapporti a termine che superano la nuova soglia del 20% introdotta alla Camera. Un vincolo giudicato, un po' da tutti, eccessivamente oneroso per le imprese e che potrebbe essere "alleggerito" trasformandolo in un mero indennizzo economico (da corrispondere al lavoratore a termine non confermato). In discesa potrebbe essere anche l'intesa sulla formazione pubblica per gli apprendisti, lasciando libero il datore di lavoro di scegliere se avvalersi dell'offerta regionale o formare il ragazzo all'interno dell'azienda. L'acausalità a 36 mesi e il numero di 5 proroghe non dovrebbero più essere oggetto di modifiche. Mentre appare appesa la questione della stabilizzazione del 20% di apprendisti. Ncd preme per cancellare questo obbligo legale. Ma va trovato ancora un accordo con il Pd e con il ministro Poletti.
CGIL.it Ufficio Stampa 23.4.14
Lavoro: Cgil, ddl delega riduce protezioni e crea complicazioni
Roma, 23 aprile - “Sul ddl lavoro occorrerà discutere ogni singolo articolo perché così com'è rischia di ridurre le protezioni e creare ancora più complicazioni in una materia su cui si interviene da anni senza mai ricostruire un disegno organico”. E' quanto afferma il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino, in merito all'audizione presso la commissione Lavoro del Senato sul disegno di legge delega sul lavoro.
Un testo, prosegue, che “contiene cose su cui da sempre chiediamo di intervenire e che riteniamo prioritarie come la riforma delle politiche attive, quella universale degli ammortizzatori sociali, il rilancio dei servizi pubblici per il lavoro, la semplificazione delle norme e la revisione delle leggi sul mercato del lavoro che hanno solo aumentato la precarietà”. Da qui, per la dirigente sindacale, la necessità di un'attenta discussione sul ddl. “Appare per questo ancora più sconcertante l'operazione di accorpare ben 26 disegni di legge, più le norme approvate dalla Camera sulle dimissioni in bianco, all'ordine del giorno dell'audizione di oggi in commissione Lavoro del Senato”.
Secondo Sorrentino “già così la delega al governo appare ampia, in contraddizione con molte norme, e aggiungere così tanti campi e argomenti ad iniziativa della sola commissione di palazzo Madama appare più come il tentativo di spostare la discussione su altro che di lavorare affinché si smetta di fare uno spezzatino del mercato del lavoro e si provi a ricostruire un po' di tutele per i precari, per i lavoratori anziani espulsi dalle imprese, per i giovani che non entrano nel mondo del lavoro. Se si vuole semplificare e estendere le protezioni sociali - conclude - la strada è abbastanza semplice: ammortizzatori universali e pulizia di tutte le forme improprie di contratti. Posto che senza un necessario piano del lavoro che faccia ripartire gli investimenti non sarà possibile contrastare la disoccupazione agendo sulle sole regole”.
Il Sole 25.4.14
Sindacati e partiti
Da D'Alema a Renzi, costi e benefici della «cinghia» con la Cgil
Lina Palmerini
Non è un amarcord da reduci, quello di Nicola Rossi e Tiziano Treu, ma piuttosto il bilancio di più di vent'anni di storia di quella cinghia di trasmissione tra partiti e sindacati che ancora oggi rimette sul tavolo riflessi condizionati e antiche ruggini. Nicola Rossi era con Massimo D'Alema quando l'ex premier tentò il primo, vero braccio di ferro con la Cgil di Sergio Cofferati; Tiziano Treu fu il ministro del lavoro che per primo – in un governo di sinistra guidato da Romano Prodi – introdusse le norme sulla flessibilità del lavoro. Insomma, di diktat e altolà se ne intendono – avendoli patiti e avendo anche perso – e guardando quello che accade oggi in Parlamento non trattengono le parole, come fa Treu che non vede alcuna somiglianza con la sua esperienza. «Ma insomma, quelle verso Poletti mi sembrano schermaglie! I sindacati sono in declino, non hanno la forza di vent'anni fa e nemmeno di dieci. È vero in Parlamento c'è un gruppo "ostile" a Poletti ma basta aspettare le elezioni e se Renzi vorrà sarà nelle piene condizioni di governare al di là della Cgil». In sostanza, la cinghia di trasmissione resiste in una parte del Pd, peraltro sconfitta alle ultime primarie, e dunque non può diventare un alibi per Matteo Renzi. «In alcun modo», ribatte Rossi, che racconta quei giorni di battaglie Ds-Cgil. «Non c'è paragone con ciò che tentò di fare D'Alema: a quel tempo il rapporto tra Cgil e sinistra era forte, era il suo elettorato di riferimento, la sua base ideologica. D'Alema provò a sfidare un tabù e l'intimidazione nei suoi confronti fu brutale. Renzi ha di fronte un sindacato e una politica molto più deboli».
L'attuale premier è senz'alibi quindi. Anche se quel riflesso condizionato tra partito e sindacato resiste ma per vie assolutamente diverse: è vero che il gruppo parlamentare portato da Pierluigi Bersani è ricco di ex sindacalisti, è vero che un nucleo ideologico resiste ma è vero che il rapporto è diventato più strumentale. In che senso? Basta guardare le primarie Pd: una parte del partito ha necessità di quella rete capillare e di elettori che provengono dal sindacato – e in particolare dal sindacato dei pensionati – che può assicurare una "spina dorsale" organizzativa che nel partito si è indebolita. «I costi sociali ed economici dei no sindacali sono stati alti ma ha pagato un prezzo anche la sinistra rinunciando a guidare il cambiamento di questi vent'anni che infatti vengono ricordati per Berlusconi», ribatte Rossi che fa un elenco di quei costi. «Comincerei dai no sulle pensioni che hanno avuto un costo enorme per lo Stato e per le giovani generazioni, accadde nel '99 quando ero a Palazzo Chigi con D'Alema. Il sindacato giocò cinicamente sulla pelle dei giovani tutelando solo i suoi iscritti: questo è legittimo da un punto di vista della rappresentanza ma per la sinistra – che doveva dare una sua visione generale – è stata la sconfitta politica e culturale più cocente». Di pensioni si ricorda pure Treu. «La Cgil disse sì alla Dini ma a prezzo di una lunghissima transizione che ha avuto i costi finanziari che sappiamo. Per non parlare dell'abolizione dello "scalone" nel 2006: il costo fu di circa 10 miliardi ma poi c'è stata un'altra riforma».
La storia dei "no" è dunque una tela di Penelope, paletti messi e poi smontati a prezzo dei ritardi sul risanamento finanziario: infatti le riforme delle pensioni sono state almeno cinque. E a prezzo dell'inserimento dei giovani al lavoro perché prima della legge Treu c'era il tempo indeterminato o il lavoro nero. «Mi ricordo che la Cgil corresse norma dopo norma, fu un compromesso difficile ma meglio di niente. E infatti quei paletti della Cgil – dal lavoro temporaneo al tempo determinato – caddero negli anni successivi». Dunque vittorie in qualche caso brevi anche se una sconfitta brucia a Treu: «La bocciatura della riforma degli ammortizzatori universali fatta con Prodi e Onofri: a quel tempo la Cgil si coalizzò con Confindustria a tutela della Cig. E ora siamo ancora allo stesso punto. Quanto tempo perso». E, oggi, sul contratto a tempo determinato Treu parla di polemica strumentale. «In Germania il 60% delle assunzioni è a tempo determinato ma dopo un paio d'anni vengono stabilizzate perché l'economia funziona: è altrove che bisogna concentrarsi». E soprattutto c'è un "mestiere" che nessuno vuol fare. «Spiegare ai militanti la ragione del cambiamento senza dare deleghe in bianco al sindacato. È quello che non ha fatto la sinistra e dovrebbe iniziare a fare Renzi», suggerisce Rossi. Alla fine i costi sono caduti sugli outsider come le generazioni penalizzate dalla Dini mentre sul lavoro «qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai tanti giovani che non hanno trovato lavoro dopo le rigidità imposte alla legge Fornero», dice Rossi. I benefici? Agli insider e ai loro numi tutelari nei sindacati e nei partiti.
l’Unità 25.4.14
Mussa Abu Marzuk
Leader di Hamas e negoziatore dell’accordo di Gaza: «La trattativa ha coperto l’occupazione israeliana. Per loro pace è sinonimo di resa»
«Israele teme la nuova unità tra Hamas e Fatah»
«Stavolta né noi né Fatah possiamo permetterci un fallimento. Divisi ci consegnamo al nemico»
di Umberto De Giovannangeli
«Israele ha deciso di sospendere i colloqui di pace? E quando mai sarebbero iniziati? Per i governanti israeliani la «pace» è sinonimo di resa. Vogliono la nostra capitolazione. Ebbene, non l’avranno mai. E l’accordo raggiunto l’altro ieri a Gaza è l’inizio di una fase nuovo non solo nei rapporti tra le forze della resistenza ma anche di un confronto con l’occupante israeliano». A parlare è una delle figure più rappresentative della leadership di Hamas, l’uomo che assieme a Ismail Haniyeh ha trattato per il movimento islamico palestinese l’accordo con al-Fatah del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) e le altre fazioni dell’Olp: Mussa Abu Marzuk, numero due dell’ufficio politico di Hamas.
In risposta all’intesa Hamas-Fatah, il governo israeliano ha deciso di sospendere i colloqui di pace con l’Autorità nazionale palestinese.
«Israele teme l’unità della resistenza palestinese e ha sempre fatto di tutto per impedirlo, praticando il terrorismo di Stato contro dirigenti, militanti e civili palestinesi. Questa unità non nasce dall’alto ma scaturisce dalla volontà del popolo palestinese che ha chiesto a tutte le forze della resistenza di mettere da parte vecchie divisioni e rinunciare a qualcosa per un bene superiore: la liberazione della Palestina».
Quella che lei definisce «resistenza» per Israele è terrorismo che non distingue tra militari e civili.
«Quando parliamo di resistenza intendiamo qualcosa che viene sancita dal Diritto internazionale, un diritto del nostro popolo. Ai senza memoria, vorrei ricordare che nonostante le tante risoluzioni delle Nazioni Unite contro l’operato d’Israele, siamo rimasti l’unico Paese al mondo ancora sotto occupazione».
Stati Uniti ed Europa chiedono ai palestinesi, e anche a Hamas, di riconoscere l’esistenza d’Israele.
«Il problema non è l’esistenza d’Israele. Il problema è che quello che viene chiesto a Hamas è di riconoscere la legittimità dell’occupazione. E questo non l’accetteremo mai».
Già in passato Hamas e Fatah erano giunti ad accordi che poi sono rimasti sulla carta. Perché stavolta dovrebbe essere diverso?
«Perché siamo consapevoli che non possiamo più permetterci un fallimento. Perché perpetrare le divisioni finisce per fare il gioco del nemico sionista, e perché oggi tutti siamo chiamati a rafforzare e rilegittimare le istituzioni rappresentative palestinesi».
Il governo di unione nazionale dovrebbe portare entro sei mesi a nuove elezioni politiche e presidenziali. È una prospettiva realistica?
«Dobbiamo far sì che lo sia. Hamas è pronta, e non da oggi, a una verifica popolare. Non abbiamo paura del voto. Le prime e finora ultime elezioni democratiche nei Territori (gennaio 2006, ndr) hanno visto il successo di Hamas, a cui Israele con l’avallo dell’Occidente ha reagito inasprendo la guerra al popolo palestinese, stringendo l’assedio a Gaza, realizzando il muro dell’apartheid in Cisgiordania. Nonostante questo, Hamas ha rafforzato i suoi legami dentro la società palestinese, di cui è parte fondamentale...».
Come lo è al-Fatah.
«Nessuno lo mette in discussione, ma nessuno può ambire a rappresentare tutto il popolo palestinese. Perché questa presunzione ha portato a compiere errori molto gravi in passato».
C’è chi sostiene che questo accordo rafforza Abu Mazen.
«Non dobbiamo cadere nella trappola dei nostri avversari. Lo ripeto: questa intesa è una vittoria del popolo palestinese, di ogni fazione della resistenza, e certamente Abu Mazen ha avuto una parte importante in questa riconciliazione».
Una riconciliazione che, sostiene il presidente Abu Mazen, non mette in discussione la scelta del negoziato con Israele. «Di quale negoziato parliamo? È negoziare rubare ai palestinesi la loro terra? È negoziare la pulizia etnica portata avanti dagli israeliani ad Al Quds (Gerusalemme, ndr)? È negoziare dare ai coloni licenza di uccidere? Israele abusa della parola pace, ma l’unico linguaggio che parla e pratica è quello della forza».
Resta il fatto che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato, al termine di una lunga riunione del Gabinetto di sicurezza, che l’accordo dell’Anp con Hamas «uccide la pace».
«Il carnefice che si maschera da vittima! Assieme alla pace, Netanyahu è responsabile dell’uccisione di centinaia e centinaia di palestinesi. Da questo signore non accettiamo lezioni di democrazia».
Il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat, ha affermato che i palestinesi stanno valutando «tutte le opzioni» per rispondere alla decisione di Israele di sospendere i negoziati di pace e di sanzionare l’Anp
«Siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Come vede, la riconciliazione è in atto».
La Stampa 25.4.14
Gaza, banchi vuoti e cambi di casacca
“Abu Mazen ci salverà”
La Striscia si prepara ad accogliere il leader ritrovato Vessilli di Al Fatah al posto di Hamas: “Basta guerre”
di Maurizio Molinari
Kefiah a scacchi dell’Olp fra i banchi della verdura, immagini di Yasser Arafat dal macellaio e piccole tv sintonizzate sui canali di Ramallah: simboli e volti di Al Fatah riappaiono nel mercato Firas di Gaza, dove batte il cuore della Striscia che aspetta Abu Mazen come un salvatore all’indomani della sigla dell’accordo di riconciliazione con Hamas. «Ne abbiamo abbastanza di guerre e liti fra palestinesi, siamo alla fame» dice il verduraio Rafik Aljaruj, ammettendo di aver accolto l’intesa Hamas-Fatah «con la speranza di poter tornare a vivere dopo sette anni di impoverimento». Due banchi più in là Akram Jingiam, macellaio, indica sconsolato il corridoio centrale del mercato coperto dove, dal 1954, si vende e compra gran parte del cibo consumato a Gaza: «Guardate, è semivuoto, la Striscia è in ginocchio, non ci sono più soldi neanche per le uova, abbiamo bisogno di questa pace fra palestinesi, se Abu Mazen verrà qui lo abbracceremo». Il fruttivendolo Salman Atallah è più prudente: «Nessuno può dire come finirà questa intesa, c’è pessimismo in giro perché già in due occasioni le riconciliazioni sono fallite, dobbiamo solo sperare in Abu Mazen».
Se il popolo della Striscia aspetta il presidente palestinese come un salvatore è perché Hamas appare in ginocchio: la chiusura totale dei tunnel da parte dell’Egitto dei militari l’ha privata delle entrate «doganali», gli aiuti economici garantiti dai Fratelli musulmani di Mohamed Morsi sono svaniti, la Turchia e perfino il Qatar si sono allontanati. Il risultato è non poter pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici né quelli della polizia e ciò consente ai gruppi salafiti di guadagnare consenso popolare. «Se volete sapere perché Hamas dopo sette anni di rottura con Al Fatah ha scelto la riconciliazione - riassume Isra Almodalal, 23enne portavoce del governo palestinese nella Striscia - dovete guardare all’Egitto, ha avuto timore di implodere come i Fratelli Musulmani al Cairo e si è rivolta ad Abu Mazen».
Da qui l’intesa siglata giovedì su nuovo governo in 5 settimane e elezioni in 6 mesi così come l’annuncio sull’arrivo di Abu Mazen nella Striscia, per la prima volta dalla guerra civile del 2007, appena formato del nuovo esecutivo. Non si tratta tuttavia di un passaggio semplice. «Fatah e Hamas hanno concordato di affidare ad Abu Mazen la guida di un governo composto di esperti, tutti estranei ai partiti» spiega Talal Okal, commentatore di «Al Ayam» e possibile ministro. Si tratta dunque di scegliere i nomi «in maniera che siano accettabili a tutti, anche ad americani, egiziani e, sebbene nessuno lo ammetta, israeliani» aggiunge Okal, secondo cui «il governo sarà espressione dell’Autorità palestinese e dunque riconoscerà Israele come fatto da quelli precedenti». Hamas si limiterà a fare un passo indietro «lasciando ad Abu Mazen i negoziati» spiega il candidato-ministro, secondo cui «la prima cosa che dirà ad Israele è che l’uscita di scena di Hamas e l’arrivo delle forze palestinesi obbligano Israele a togliere il blocco a Gaza».
A Gerusalemme l’atmosfera è tutt’altra. Il governo di Benjamin Netanyahu sospende i colloqui con Abu Mazen «perché ha preferito Hamas alla pace», il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman assicura non «dialogheremo con i terroristi di Hamas» e Washington gli dà manforte con Jan Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato: «È assai difficile chiedere a Israele di negoziare con un’organizzazione come Hamas che ne invoca la distruzione». La replica arriva da Isra Almodalal: «Washington ha già fatto troppi danni ai palestinesi, deve smetterla di interferire, anziché continuare a difendere Israele dovrebbe porsi il problema di come porre fine alle sofferenze dei palestinesi». Il capo-negoziatore Saeb Erakat rincara la dose da Gerico: «Netanyahu ha usato la spaccatura fra Fatah e Hamas per evitare la pace, ora non avrà più scuse».
Il duello con l’amministrazione Obama è la prima prova da superare per il patto Fatah-Hamas anche se, a ben vedere, le maggiori urgenze sono sul fronte interno. «I tre argomenti che scottano - osserva uno dei negoziatori di Fatah impegnato nelle trattative all’hotel Moevenpick - sono chi pagherà gli stipendi dei dipendenti di Hamas, a chi risponderanno le Brigate Qassem di Hamas e come reagiranno i gruppi della resistenza armata, da Jihad a salafiti, che non vogliono deporre le armi». Nel tentativo di sciogliere il primo nodo Ismail Haniyeh, capo di Hamas a Gaza, ha telefonato alle sceicco del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani, ed al ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, per chiedere «fondi urgenti» a sostegno della riconciliazione. Ma non è tutto perché si riaprono anche le ferite della sanguinosa faida del 2007: i parenti delle vittime di Fatah uccise da Hamas contestano la scelta di Abu Mazen di «dimenticare i nostri morti» e inscenano sit in di protesta contro la riappacificazione «pagata col nostro sangue».
l’Unità 25.4.14
Un nuovo «vincolo» per unire la Nazione
di Michele Ciliberto
«LA NAZIONE È UN PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI», DICEVA ERNEST RENAN, VOLENDO AFFERMARE CHE LA NAZIONALITÀ È UN PROBLEMA CHE ATTIENE ALLA COSCIENZA, NON ALLA NATURA. Si è italiani oppure francesi o tedeschi perché ci si riconosce in una comune identità etico-politica e anche religiosa; non perché si nasce in un territorio o in una regione geografica piuttosto che in un’altra. La nazione è un fatto culturale, che si costituisce nel tempo attraverso lo sforzo secolare delle generazioni. Ed essendo un fatto culturale, come nasce può morire, oppure attraversare momenti di crisi, di declino, di decadenza.
Come disse Benedetto Croce, in un momento tragico della nostra storia, la civiltà, la cultura è infatti come un fiore che nasce sulla dura roccia e che un colpo di vento può stroncare e portare via. Scrisse queste parole dopo la tragica esperienza della guerra che l’aveva indotto a esprimere parole di profonda sofferenza ma non di ripulsa nei confronti degli aerei statunitensi che attraversavano il cielo per bombardare «Napoli nobilissima», la sua città. Croce però sapeva anche, e meglio di tutti, che la Nazione italiana è una realtà spirituale e che come era caduta così essa poteva rinascere, se fosse stata capace di riafferrare le sorgenti originarie della propria storia cioè della propria identità.
È quello che avviene in Italia con la lotta antifascista e la Resistenza, di cui oggi conosciamo anche il doloroso travaglio, i lato oscuri, i prezzi pagati come avviene con le guerre civili che non si fanno con i «paternostri» e che lasciano sul terreno vittime e carnefici. Fu però allora, in quella lotta crudele e anche spietata che la Nazione italiana tornò a nuova vita, e riuscì ad alzarsi in piedi dopo lo sfarinamento dello Stato, dell’esercito, di tutte le strutture istituzionali e amministrative.
Un paesaggio desolato: contemplandolo alcuni storici hanno parlato della morte della patria, sbagliando. L’hanno fatto perché non hanno inteso la profondità e la lunga durata della nazione italiana confondendo confuso nazione e Stato, due realtà che, per quanto storicamente contigue e a volte strettamente intrecciate, vanno distinte con precisione, se si vuole comprendere la storia italiana e anche la rinascita della Nazione italiana dopo la fine del fascismo e la guerra civile.
Per riprendere la battuta di Renan, la nascita della repubblica è stata il «plebiscito» con cui gli italiani sono tornati a essere cittadini di una patria comune, di uno stesso Stato. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossero stati capaci, insieme alle loro classi dirigenti, di mettere a base del loro vivere un nuovo patto: quello che li ha lungamente uniti, almeno fino alla fine del secolo scorso. È il «vincolo» rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nella quale sono confluite le correnti popolari e democratiche italiane dai cattolici ai socialisti dagli azionisti ai comunisti -, ma riuscendo a dar vita a un testo che, per la sua lungimiranza, è anche un programma politico imperniato sul concetto di eguaglianza, come appare da tutta la prima parte della Costituzione e, primo luogo, dall’articolo 3.
Negli anni scorsi, un leader che ha avuto un peso rilevante nella storia della Repubblica, e che ora è affidato ai servizi sociali, ha detto varie volte, pensando si stupire, che la Costituzione italiana è di tipo sovietico, un frutto del bolscevismo.
È invece il «punto dell’unione» della esperienza culturale, spirituale e politica di uomini come La Pira, Moro, Basso, Nenni, Togliatti, Laconi... I rappresentanti migliori dell’antifascismo nelle sue varie componenti, quelli che, dopo il fascismo, ridanno vita alla nazione italiana, dischiudendole un nuovo, e fecondo, ciclo della sua lunga storia.
È proprio questa cultura che entra progressivamente in crisi fin dagli ultimi decenni del secolo scorso e che oggi appare a molti solo una sorta di residuo del passato. Ma è un errore, anche questo. La Costituzione italiana non è consegnata ai libri di storia, sa parlare al nostro tempo, è vitalissima specie nella parte dei «principi generali», nei quali sono delineati obiettivi di eguaglianza e libertà che aspettano ancora di essere realizzati.
Ma per realizzarli, e mantenere viva la nostra Costituzione, è necessario capire che alla base della nostra Repubblica oggi va messo un nuovo patto, un nuovo «vincolo» civile che faccia i conti con tutte le trasformazioni della nostra società, a cominciare da quelle demografiche. La Nazione italiana non è più quella che avevano di fronte i Costituenti: è cambiata, in profondità, sia sul piano strutturale che sul piano degli orientamenti ideali, culturali e anche religiosi. E con queste trasformazioni occorre oggi confrontarsi. Certo è difficile, tanto più dopo un ventennio in cui le diseguaglianze si sono inasprite, le contrapposizioni fra nativi e immigrati sono state acuite fino al razzismo. La cultura della solidarietà è stata frantumata, fino all’imbarbarimento, alzando la bandiera della cultura «liberale». È questa la responsabilità più grave del berlusconismo nella storia della Repubblica, e qui stanno anche le responsabilità delle forze della vecchia sinistra che non hanno saputo contrastare questa deriva, in cui affonda le radici quello che, con termine sommario, si chiama populismo. Né è facile liberarsi di questo duro fardello: oggi noi continuiamo a essere nel pieno di una crisi organica, bisogna saperlo. Eppure sarebbe sbagliato esprimere un giudizio pessimista sulla Nazione italiana settanta anni dopo la Liberazione e la rinascita della Nazione. Da mille segni, appare evidente che l’Italia è un Paese ferito, risentito, deluso, ma non vinto. È pronto a rialzarsi in piedi, a rimettersi in cammino, a far sentire la sua voce. Ma perché questi segni possano svolgersi, e consolidarsi, c’è bisogno di un nuovo «vincolo», che consenta a tutti nativi e immigrati di sentirsi parte di una comunità di un comune vivere civile, cittadini dello stesso Stato capace di contribuire a distruggere le forme più intollerabili di diseguaglianze. E, come avviene nei momenti più gravi, per questo è indispensabile una sinergia feconda tra forze della cultura, della politica, della religione, come fu negli anni della rinascita della Nazione dopo il fascismo. È venuto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, uscendo dalla tenda in cui per troppo tempo si è rifugiato. Come avvenne settanta anni.
l’Unità 25.4.14
La Festa della Liberazione
Ore una: insurrezione
All’alba del 25 aprile 1945 dalle radio italiane risuona la parola d’ordine
«Aldo dice 26 X 1»:
di Bruno Gravagnuolo
«ALDO DICE 26 X 1». ALL’ALBA DEL 25 APRILE 1945 AL NORD RISUONA DALLE RADIO ITALIANE QUESTA STRANA FORMULA, METÀ SCIARADA, METÀ MISURA DI MOBILÌA. Invece è la parola d’ordine dell’insurrezione che allerta tutte le grandi città ancora occupate dai nazifascisti, e invita i partigiani di pianura e di montagna a sferrare l’attacco. Con i resistenti armati già operanti in territorio urbano. È Milano la prima ad insorgere e a liberarsi prima dell’arrivo degli alleati. Ma l’invito è rivolto a Genova, Torino, Venezia, Novara, Alessandria, Reggio Emilia, Parma, Modena, città queste ultime dove la Resistenza aveva già preso il controllo dei luoghi strategici importanti.
La formula dice «26», come data massima entro cui insorgere e «1» a indicare l’ora d’avvio. Milano è in anticipo. È il luogo simbolico più importante, sede del Clnai con lo stato maggiore operativo della lotta. E lì è il cuore del Nord. Dove il 16 dicembre del 1944 era tornato Mussolini, per annunciare al Lirico che il nemico sarebbe stato inchiodato nella Valle Padana. Invece Alleati e Partigiani sfondano in primavera la Linea Gotica, dopo aver pagato enormi prezzi da Massa Carrara fino a Nord di Pesaro e passando per l’Appennino insanguinato di rappresaglie. L’ora è arrivata perciò e anche l’Unità clandestina parla chiaro: «Insurrezione».
Vale la pena di leggerlo tutto quello strano comunicato, in realtà un telegramma inviato a tutti i comandi di zona partgiani:«Nemico in crisi finale. Stop. Applicate piano E 27. Stop. Capi nemici e dirigenti fascisti in fuga. Stop. Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette. Stop. Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et PiacenzaTorino. Stop. 24 aprile 1945». Non è questione di filologia o di enfasi celebrativa ricordare il dettaglio del dispaccio, da cui vien fuori la parola in codice. Perché nel dettaglio c’è una politica di massa che diventa linea generale, da applicare nei luoghi chiave indicati, entro il giorno 26. Eccola: fare prima, insorgere prima dell’arrivo alleato e imprimere alle cose una dinamica precisa. Un principio di autogoverno nazionale. Nello stesso momento in cui si procedeva insieme agli Alleati, ma senza subalternità.
Quindi precise norme di controllo del territorio, presa di possesso dei punti chiave, eliminiazione dei focolai di contro-resistenza e via libera agli angloamericani nell’inseguire i nazifascisti in fuga. Accorciando così i tempi della guerra che ormai volgeva al termine. Dopo lo sfondamento della Gustav e il fallimento dell’offensiva tedesca nelle Ardenne. In Maggio sarebbe tutto finito ma la Resistenza italiana con il suo apporto, militare e civico, imprimeva un suo sugello agli eventi, accorciando la tragedia e risollevando l’onore di una nazione trascinata nel baratro dal fascismo, e dalle colpe della Monarchia. Non senza le annesse istruzioni, a presidiare fabbriche, edifici, ponti, strade e materiale rotabile. Oltre all’onore, venivano messe in salvo le dotazioni del paese non ancora distrutte dalla furia bellica del biennio 1943-45. Cose che avrebbero consentito al paese pur sconfitto, di pagare un prezzo meno amaro alla disfatta e di piantare le basi per ordinamenti civili saldamente democratici e condivisi. Insomma grazie alla Resistenza vittoriosa politicamente più che militarmente non ci fu né scenario greco di guerra civile né restaurazione monarchica e conservatrice. E il tutto passando per una alleanza anche con le forze moderate e monarchiche. Contando la «tutela» di chi, come Churchill, avrebbe voluto la continuità con i Savoia e un ruolo puramente ausiliario di partigiani e Cln. Ma come ci si era arrivati a quel «miracolo», che poneva le basi della futura Costituzione e salvava il salvabile di un’Italia in ginocchio?
Almeno due date vanno ricordate al riguardo, ma appartengono all’anno precedente: il 1944. La prima è il 22 aprile 1944: governo di unità nazionale con Badoglio. Che rinvia la questione istituzionale, da risolvere con referendum a guerra finita. E poi, il 31 di gennaio dello stesso anno: il Cln di Roma guidato da Bonomi dà delega al Cln milanese di tramutarsi in Cln alta italia, con dentro comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali, monarchici. Presidente Alfredo Pizzoni, liberale. Che rimarrà fino al 27 aprile, per cedere il posto al socialista Morandi. Il Clnai, assumerà ufficialmente il 26 dicembre 1944, il ruolo di «terzo governo», o «governo ombra» nei territori occupati. E come si accennava non senza frizioni con gli Alleati, timorosi di dinamiche rivoluzionarie imprevedibili. Il miracolo sta in questo: la coesione tra forze opposte in quella situazione drammatica e senza collegamenti. Con il paese spossato e spezzato. Ma prima c’è un altro miracolo da ricordare, che fu una vera e propria «invenzione»: la Svolta di Salerno. Annunciata da Togliatti dopo il suo ritorno in Italia il 22 marzo 1944, e concretizzatasi nel primo governo di unità nazionale, con gli obiettivi già visti. La svolta era stata in verità lanciata già a fine settembre 1943 da Mario Correnti alias Togliatti tramite Radio Milano Libertà, che trasmetteva da Ufa, capitale della Baskiria sovietica. E diceva la voce: «Badoglio è il legittimo capo del popolo italiano». Una cosa enorme, rifiutata dall’antifascismo militante, incluso quello comunista. E che crea un’impasse, a partire dal Congresso di Bari 28-29 gennaio 1943 che vede il Cln diviso proprio sulla Monarchia e la linea unitaria da seguire. È Togliatti che sblocca tutto, proponendo anche la Luogotenenza di Umberto, insieme all’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Croce la definì «la bomba Ercoli», certo autorizzata dalla «geopolitica» di Stalin, e però tutta farina del sacco di Togliatti. Fu quello «sblocco» a consentire di unire azione armata sul territorio e quadro istituzionale legittimo. Popolo e continuità legale dello stato. Contro il nemico principale e per la Liberazione. Di lì, da quel sangue e da quell’intelligenza, viene il primo stato democratico italiano. Di lì veniamo tutti noi e lì dobbiamo sempre ritornare. A quei princìpi, direbbe Machiavelli. Anche quando immaginiamo futuro.
l’Unità 25.4.14
Qui sono appese tutte le storie del resistere
Partigiano, come poeta, è parola assoluta
Questa data è il simbolo della vita di chi ha saputo esistere in un tempo estremo e lo ha trasformato in un sorriso certo e duraturo
di Giacome Verri
Cos’è il 25 aprile? Cos’è il 25 aprile dell’anno 2014? Cosa fu il 25 aprile del 1945? Fu il punto fermo dopo 20 mesi, dopo 585 giorni di Resistenza, di fatiche, di pericoli, di strazi e di gioie altissimi. Le donne e gli uomini della Resistenza sapevano ridere e piangere, vivere per resistere e resistere per vivere. Vogliamo pensare a cosa ha significato? Resistere per vivere: sembrano due concetti che fan la lotta l’uno con l’altro. Il vivere mi fa venire alla mente un fluire continuo, a volte denso, a volte rarefatto, un procedere alla meta nel quale si coglie per via quello che la sorte riserva, il bello o il cattivo tempo, gli accidenti o le grazie del cammino. Ma il Resistere è un’altra cosa: vuol dire andare contro, vuol dire contrastare, combattere, ribellarsi, riuscire a farcela. La parola Resistere disegna nei miei occhi una bocca in salive, la chiostra di denti che stride come un gesso sulla lavagna, le labbra contratte, il muscolo del cuore fatto duro dallo spasimo. Eppure ce l’hanno fatta. Dico i partigiani, i resistenti: donne e uomini fatti di carne resistente, carne buona per faticare, per camminare, per saltare, per sparare, ma anche, certo, per piangere e per gioire. Dentro la Resistenza, dunque, dentro un tempo fatto di privazioni e di travagli, dentro un tempo scomodo, rigido e arduo, la gente della Resistenza ha saputo vivere.
Il 25 aprile è allora il simbolo della vita di chi ha saputo esistere in un tempo estremo. Il 25 aprile è la data dopo la quale quella bocca digrignata, tenuta stretta dai ferri della sofferenza, ha potuto aprirsi in un sorriso certo e duraturo, serbato per mesi, sognato e desiderato come si sognava e si desiderava una pagnotta fresca o un letto caldo.
Ma questa data è anche il punto sommo a cui sono appese tutte le storie del resistere, storie infinite impossibili da dire, ma che proprio tutte assieme fanno la vena potente del ricordo. Vanno ascoltate. I partigiani in vita sono sempre di meno, ma quelli che ci sono resistono ancora e dobbiamo prestare loro orecchio. Nel 2010, Anita Malavasi, nome di battaglia Laila, staffetta partigiana di Reggio Emilia, raccontava su un celebre rotocalco la sua resistente giovinezza, la sua vita straordinaria e tremenda di donna combattente: «quando, con le armi addosso, passavo al posto di blocco in bicicletta mi mettevo la gonna stretta e fingevo di abbassarmela, loro, fessacchiotti, fischiavano e io passavo». Ma raccontava anche di torture orrende. «Nella mia formazione avevo una ragazza, Francesca, che era incinta, ma era lo stesso così magra che scappò dalla prigione passando tra le sbarre della finestrina del bagno. Per raggiungerci camminò scalza nella neve per 10 km. Quando il bambino nacque lo allattò solo da un seno perché il capezzolo dell’altro le era stato strappato a morsi da un fascista». E che dire di quei bambini buttati in terra e calpestati dagli scarponi? o di quei neonati lanciati in cielo, quando il cielo è celeste e stupendo -, e usati come bersagli per raccapriccianti tiri al piattello?
Abbiamo capito? Solo ascoltando questi racconti si può comprendere la Resistenza; solo così il verbo resistere assume intera la monumentale potenza che gli compete. Ascoltare e imparare. Anita Malavasi concludeva dicendo: «sarebbe bello se, per legge, ognuno fosse obbligato ad ascoltarne uno». Si riferiva ai partigiani: ascoltarne uno, uno di loro, uno dei loro racconti. Racconti così incredibili che, parafrasando quanto lo scrittore Walter Siti dice a proposito del Realismo, «colgono impreparata la realtà, o ci colgono impreparati di fronte alla realtà».
Per seguitare a rendere un buon servizio alla memoria non basta dire che la memoria è importante, è doverosa, è imprescindibile. Prescrivere il ricordo come si fa di un medicinale non serve a niente se quel ricordo non è sostanziato dalla carne di parole dense e stupefacenti; esso infatti è tanto più potente quanto meglio sa ritrovare le parti più proibite della realtà. E per trovarle, a volte, occorre immaginare, occorre cercare ciò che abbiamo dimenticato, o non abbiamo mai saputo. Bisogna anche supplire con la fantasia ai guasti della memoria, certo una fantasia manzonianamente della verosimiglianza. E sono tanti gli episodi che si potrebbero mettere dentro agli occhi: tremende battaglie, rumori di mitragliatrici, tumultuosi fracassi apocalittici entro cui vennero inghiottite le speranze giovani di chi per parafrasare Fenoglio avrebbe voluto fare l’amore e invece gli toccò di fare la guerra e di resistere per vivere.
CON LE PAROLE DI FENOGLIO
E, ancora oggi, occorre resistere per ricorda0re. «Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire, che un tempo lontano, c’erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. La Storia» (Nello Quartieri, di Villafranca Lunigiana). La Storia fatta di tante storie relative ma così importanti da diventare somme; perché scrisse ancora Beppe Fenoglio «partigiano, come poeta, è parola assoluta», non ammette le gradazioni, non sente le scalfitture, non teme i distinguo, né quelli doverosi portati dalla ricerca storica, né quelli arbitrari e degenerati avanzati dai revisionismi.
Così, infine, mi piace ricordare queste parole di Alberto Asor Rosa: «dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono».
il Fatto 25.4.14
25 aprile, partigiani e zingari
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, Santino Spinelli ha dedicato una poesia, che le mando, ai partigiani Rom e Sinti che hanno dato la vita per la Repubblica italiana. Sarebbe bello ricordare anche loro il 25 aprile. Sastipè ta Baxt!
Daniela
IL SALUTO DELLA LETTERA che precede è in lingua Rom. Santino Spinelli, docente universitario, musicista e musicologo di fama internazionale, è coordinatore e organizzatore di molti importanti eventi Rom e Sinti nel nostro Paese, ed è rom lui stesso. La poesia, che è stata mandata al “Fatto Quotidiano” sia in lingua Rom che nella versione italiana di Spinelli, è bella e triste, e merita di essere pubblicata, anche se solo in parte, come ora sto facendo. “Giovani eroi impavidi / Con grandi ideali nel cuore / I vostri figli che cosa hanno trovato?/ Razzismo, discriminazione, segregazione/ Tutto ciò che avevate combattuto / Ai padroni si sono succeduti altri padroni/ Per i vostri figli/ Voi, splendidi eroi, siete morti invano / Voi, inghiottiti dall'oscuro oblìo / No, non vanificate il coraggio e il sacrificio / dei fratelli Rom e Sinti ! / Onorate la loro memoria/ E voi, difensori della democrazia / Dello Stato di diritto / Perché accettate i campi nomadi? / Non sono dei lager?”. Oggi, 25 aprile, i Rom e i Sinti che “sono morti invano” per un'Italia diversa, e che si sentono traditi e delusi da ciò che accade contro di loro e intorno a loro, e da ciò che aspettavano e non è accaduto, non sono soli. Sono in compagnia di una vasta caccia al partigiano che comincia con la negazione persino di sepoltura agli eroi di via Rasella e della Resistenza romana, alla insinuazione che, nella Roma della razzia di cittadini ebrei (bambini e malati inclusi) del 16 ottobre 1943 siano loro gli eroi di via Ra-sella, i colpevoli delle Fosse Ardeatine, e non Priebke, non i nazifascisti. E intanto si accumulano i grandi successi editoriali dei libri dedicati ai “crimini dei partigiani”, libri elogiati enfaticamente anche da presunti personaggi della “Sinistra”. Questi libri mettono radici, benché siano tradizione inventata, nel vuoto che sta fra le due parole, Destra e Sinistra, che adesso è di moda negare. L' argomento è che le due parole non significano più niente. La conseguenza è che coloro che sono “ex” di sinistra si imbarazzano se glielo dici. E la Destra torna, la più estrema, nell'indifferenza diffusa, come in tutta Europa. Accade da quando il negazionismo berlusconiano gridava in Parlamento (lo ha fatto per vent'anni): “Ci ha liberati la guerra, non i partigiani comunisti”, e ha così legittimato di nuovo i peggiori istinti che avevano alimentato il fascismo. Oggi, 25 aprile, è un motivo di orgoglio essere uniti nella celebrazione e nel ricordo, con Stinti e Rom, popoli senza terra ma carichi di storia, che hanno combattuto insieme per ideali che sono stati tranquillamente abbandonati. No, non sono morti invano. Ma se vivete in un campo rom, o siete lì in una notte di “sgombero”, dovete per forza pensarlo. È triste, in giorni come questi, in un'Italia e in una Europa come questa, non avere un Fausto Omodei che canti “Partigiani, Rom e Sinti, in questa Italia offesa voi siete ancora l'unica difesa”.
il Fatto 25.4.14
I 90 anni
Rossanda, ragazza di questo secolo
di Loris Campetti
Per fare un regalo gradito a Rossana per i suoi novant’anni, meglio sarebbe parlare della ragazza di questo secolo, e non del secolo scorso. Perché le sue domande, incalzanti, persino imbarazzanti per chi non si sente all’altezza o è troppo pigro o sfiduciato per rispondere, sono domande che riguardano il futuro non meno del passato. Chi siamo, da dove veniamo: parliamone, ma soprattutto parliamo di dove vogliamo andare. E quando Rossana ci interroga su come sia possibile cambiare lo stato di cose presente, non è pensabile cavarsela con Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Rossana Rossanda è una ragazza di questo secolo con un’esperienza lunga novant’anni. Il Novecento l’ha attraversato da protagonista e oggi si chiede, ancora, come si possa rovesciare un mondo edificato sulla diseguaglianza, sull’ingiustizia, in parole povere sul capitalismo.
Comunista eretica, Rossanda, perché come diceva Aldo Natoli al momento della radiazione dal Pci, “si può essere comunisti anche senza tessera”. Il paradosso è che gli eretici del manifesto, nell’arco di un paio di decenni, resteranno gli unici comunisti disposti a rivendicare la loro scelta mentre l’ortodossia comunista si è sciolta come neve al sole, sommersa dai mattoni di un muro che non aveva voluto scavalcare a tempo debito, quando almeno il fallimento del socialismo reale era evidente. Lo era a Rossanda e al gruppo storico del manifesto sostenuto dal lavoro politico e giornalistico di un uomo straordinario come K.S. Karol che ha appena lasciato Rossana e tutti noi; non lo era al Pci che solo più tardi, con le parole di Berlinguer, scoprirà la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Ma la fine di quella spinta, gli errori e persino gli orrori del socialismo reale, l’odierno approdo della lunga marcia di Mao, ci costringono a rileggere la grande Storia e la nostra piccola storia. Il senso e le ragioni delle rivoluzioni novecentesche non possono essere fatti coincidere con il loro esito. Scriveva Luigi Pintor, che con Rossana ha vissuto la rottura con il Pci e l’avventura del manifesto, su La signora Kirchgessner: “La diceria che di intenzioni è lastricato l’inferno è maligna. Deludenti ed effimeri sono gli esiti. I buoni proponimenti sono invece un polline che non fiorisce mai ma profuma l’aria”. Nella presentazione del libro La ragazza del secolo scorso, Rossana affronta di petto la questione: “Questo non è un libro di storia. È quel che mi rimanda la memoria quando colgo lo sguardo dubbioso di chi mi è attorno: perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto a un giornale che non è più tuo? (...)”.
Con Rossana, una decina d’anni fa ho avuto un nutrito e per me nutriente carteggio sull’opportunità di mantenere sotto la testata il manifesto la testatina quotidiano comunista. Lei la riteneva, se non direttamente un imbroglio, quanto meno un’ipocrisia e metteva a tacere i miei maldestri tentativi di coinvolgerla in una battaglia di difesa identitaria per frenare una deriva culturale in atto in un giornale diventato altro da sé. Cambiar nome, l’esperienza del Pci lo insegnava, spesso è solo il primo passo per il cambiamento della natura, ribattevo. Su un punto credo che ci capissimo e tutt’ora ci intendiamo: “L’orizzonte del comunismo deve restare aperto, non come speranza per il futuro ma come contraddizione del presente, contro la volontà di potenza del capitalismo, contro la violenza sui corpi e sulle vite dei poteri vecchi e nuovi, contro i manipolatori delle menti e i colonizzatori dell'immaginario”.
COSÌ SCRIVEVA un anno e mezzo fa un gruppo di noi spiegando la rottura, che Rossana aveva già effettuato, con una storia straordinaria durata quarant’anni. Rossana pone dunque le domande di sempre in un mondo non più bipolare, dominato dal pensiero unico che ha l’odore del dio mercato. Non sono le forme storicamente determinate del capitalismo – oggi liberismo – che chiede di mettere in discussione, ma il capitalismo stesso, la sua organizzazione del lavoro, delle coscienze, dei poteri, delle relazioni. In una stagione in cui ci raccontano che la lotta di classe è finita – per nascondere l’evidenza: gode di ottima salute, peccato che sia il capitale a farla contro il lavoro – Rossana continua a rivendicare la necessità di una lotta di classe dal basso verso l’alto, per evitare che il conflitto, da verticale, si trasformi in orizzontale, assumendo la forma della guerra tra poveri.
I novant’anni di Rossana raccontano le sue battaglie culturali dalla Resistenza al ’68-’69 nel Pci, poi nel manifesto, le caratteristiche di un giornalismo straordinario e di un impegno politico a tutto campo, permeabile ai sommovimenti sociali, agli studenti, al femminismo, ai movimenti che lei interroga e da cui si fa interrogare. I suoi novant’anni interrogano noi, e ci costringono a uscire dalla pigrizia e dalla rassegnazione. Tanti auguri Rossana.
Repubblica 25.4.14
Ex manicomi criminali, chiusi nel 2015
Il Senato approva la proroga. “Ma la reclusione non potrà superare la pena”
di O. L.
MILANO Ancora un anno. L’esistenza degli ospedali psichiatrici giudiziari — sono 6 in tutta Italia — è stata prorogata alla fine di marzo 2015. Il Senato ha approvato ieri il decreto legge che rimanda la loro chiusura e la sostituzione con le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems): per quanto fosse una decisione presa da tempo, nulla o quasi era stato fatto e quindi, se davvero gli Opg fossero stati chiusi il primo aprile, gli internati non avrebbero avuto un posto dove andare.
La proroga per molti è l’ennesima sconfitta dello Stato e lo stesso presidente Napolitano aveva firmato «con rammarico», dopo averle definite «strutture indegne di un Paese appena civile». Ora, con 171 voti a favore, 31 astenuti e un solo contrario al Senato, il provvedimento passa alla Camera. Arricchendosi, però, di un emendamento che introduce una novità sostanziale: la reclusione in un Opg non potrà avere durata superiore alla pena che il malato-detenuto avrebbe scontato in carcere se fosse stato ritenuto imputabile.
«Finora poteva accadere che l’internamento fosse prorogato per un numero indefinito di volte, fino a tradursi in una sorta di pena perpetua», spiegano i senatori del Pd Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice.
Deciso anche lo stop a nuovi ricoveri (oggi i reclusi sono circa mille) e, per gli autori di reati per cui sarebbe previsto l’ergastolo, la permanenza nell’Opg fino a quando il soggetto sarà ritenuto socialmente pericoloso.
( o. l.)
Repubblica 25.4.14
Mantova, tra gli ultimi “detenuti-malati” condannati all’ergastolo bianco
di Oriana Liso
CASTIGLIONE DELLE STIVIERE (MANTOVA) LI CHIAMANO ergastoli bianchi, anche quando non durano una vita. A Castiglione c’è un ospite — che è sempre il modo più pietoso di chiamare i reclusi — rinchiuso da un quarto di secolo. C’è Christian, che non dovrebbe stare qui: ha una disabilità mentale, ma i servizi sociali del suo comune non se ne vogliono fare carico. C’è Moses, giovane ghanese arrivato a Lampedusa sui barconi, per due anni in campo profughi a Torino e adesso qui, perché un ordinamento storto e barocco non sa dove mandarlo.
Castiglione delle Stiviere è un ospedale psichiatrico giudiziario unico nel suo genere, in Italia. Qui non ci sono agenti di polizia penitenziaria, alte mura, fortini di vedetta, ma medici, infermieri, assistenti sociali e cancelli, alti e solidi, che permettono di vedere il mondo fuori, quella campagna mantovana punteggiata di piccole aziende, di vita vera.
L’ultima rilevazione sulle presenze racconta di 291 ospiti per una capienza ufficiale di 190 posti: 199 uomini, per la maggior parte lombardi, 92 donne che arrivano da tutta Italia, perché tra le particolarità di Castiglione c’è anche quella di essere l’unica struttura con un reparto femminile. È impietosa l’analisi di chi ci lavora: «In una società in crisi, quando le risorse per il welfare sono sempre meno, luoghi come l’Opg o il carcere finiscono per essere l’ultima spiaggia. Molte persone sono qui perché il territorio ha fallito o perché sul territorio non si è investito», dice Gianfranco Rivellini, responsabile della sezione femminile. E Cesare Maria Cornaggia, psichiatra che qui segue molti casi: «Gli Opg verranno superati soltanto quando ci sarà la riforma del codice penale e del concetto di pericolosità sociale ». Lo dicono, i medici di Castiglione, con la forza dei numeri: 220 delle persone attualmente ospitate non hanno avuto dal giudice la proroga della misura di sicurezza, la durata media della permanenza è scesa dai 4,9 anni del 2001 ai 2,8 di oggi e, soprattutto, la reiterazione del reato, per chi esce, è bassissima. Merito del modello Castiglione, oltre che di una nuova e timida disponibilità da parte di alcune regioni e alcuni comuni di farsi carico delle situazioni in uscita. Qui non si fa la valutazione clinica del malato-detenuto limitata al momento in cui ha commesso il reato, quello in cui era secondo la legge incapace di intendere e volere. Si ricostruisce il suo percorso, si cerca di capire quando e se è pronto a tornare nel mondo, prima in una comunità e poi — nei casi migliori — con una casa e un lavoro in autonomia. Sempre che il mondo sia pronto, e qui si torna allo sforzo culturale. «Chi è fuori si chiede: se quella persona ha ucciso una volta, non potrebbe rifarlo? Perché devo rischiare io di avere a che fare con lui? Su questo bisogna lavorare»: Andrea Pinotti dirige da poche settimane Castiglione, ma era già qui anni fa, quando passavano ospiti come Pietro Carretta, l’infermiera killer Sonya Caleffi, le tante mamme che ammazzavano (e continuano ad ammazzare) i loro bambini. Quasi mai i neonati, dicono le statistiche: ma i bimbi appena più grandi, nel momento in cui iniziano ad avere una loro autonomia. È allora che, nella testa di quelle mamme, qualcosa — ma qualcosa che c’era già — si rompe. Per ognuna e ognuno di loro c’è un percorso di cura personalizzato, con qualche passaggio comune: trattamento farmacologico, misure contenitive nelle fasi di violenza, controllo costante quando c’è il rischio suicidio, «quando il malato prende coscienza di quello che ha fat- to», conferma Pinotti. Nei casi migliori c’è anche un altro passaggio chiave: la richiesta di andare a vedere la tomba della persona uccisa, o il luogo in cui è avvenuto l’omicidio. Lo fanno soprattutto le mamme, con i loro bimbi.
A camminare per i viali della struttura — tra edifici puliti, campetto da calcio, piscina, laboratori, palestra, bar, biblioteca — c’è da pensare che tra stare qui e stare in carcere la scelta verrebbe ovvia a chiunque. E invece Omar, arrestato per furto e portato qui perché ha dato in escandescenza, non ha dubbi: «Io voglio andare in carcere, non stare qui con i matti». Nessuno qui dentro — ed è forse una premessa scontata — si considera matto. C’è chi parla di errore, chi di un momento di crisi, chi dà la colpa alla droga e chi a una delusione, per il reato commesso, che si parli di omicidio (uno su quattro è qui perché l’ha commesso o l’ha tentato) o di stalking.
Anna — a Castiglione da sei mesi proprio per quest’ultimo motivo, ma candidata a tornare presto nel mondo — lo chiama «un momento di debolezza, che ha reso la vita difficile a me stessa, non solo agli altri». Un buco nero che l’ha portata a una convivenza forzata e non sempre piacevole, in cui anche le relazioni fisiche e affettive sono amplificate e dove ogni momento può scoppiare una lite. Per una sigaretta, per un caffè, o per chi spera e sogna di uscire prima.
Corriere 25.4.14
Napoleone, il mio padre assente
L’imperatore raccontato con gli occhi del figlio illegittimo Alexandre
di Paolo Di Stefano
«Ho il colore grigio intenso dei suoi occhi e il suo timbro di voce». Chi parla? È un figlio che parla di suo padre, un padre incontrato qua e là, per brevi momenti: di lui, il figlio ricorda qualche frase, lo sguardo dolce, i modi gentili, lo smarrimento e la malinconia. Tutto ciò che non appare nei grandi monumenti equestri. Sì, perché il padre di cui stiamo parlando è Napoleone Bonaparte. Niente di meno. Dunque, chi parla nel romanzo di Massimo Nava, Infinito amore ? Parla «il bastardo più fortunato della storia», come si definisce: il suo nome è lunghissimo e comprende anche un titolo nobiliare: conte Alexandre Florian Joseph Colonna Walewski. «Sono orgoglioso del mio nome, che mi ricorda la Polonia e mia madre, la terra in cui lei volle che nascessi. Anche se venni di sicuro concepito a Schönbrunn, nel castello delle fiabe di Vienna, l’edificio più elegante d’Europa, il luogo ideale per i momenti d’amore dei miei genitori».
C’è quasi tutto in questo passo, che leggiamo verso la chiusura del libro. Una dichiarazione d’identità a cose fatte, a rimbalzo, com’è del resto tutta la narrazione: la rivisitazione della propria vita (la seconda vita, dopo aver saputo della vera paternità) narrata dalla distanza della vecchiaia, con pacata malinconia. C’è quasi tutto, in quel passo: c’è un bambino concepito clandestinamente; c’è sua madre, la contessa polacca Maria Walewska, la più bella donna del suo Paese, sfolgorante e inquieta; e c’è il suo amore infinito per l’imperatore; c’è la Polonia e ci sono le favole, che si riveleranno importanti anche se il romanzo di Nava è necessariamente un romanzo storico, i cui personaggi e i cui fatti sono attestati da cronache e carte d’archivio.
Quel che non c’è, in quel passo, ma che si può intuire, sono altri infiniti amori che percorrono il libro: quello dolcissimo tra madre e figlio, per lo più vissuto in solitudine; quello di (quasi) tutti per la Patria con la maiuscola; quello del figlio naturale per il padre. Infinito e anche insensato, se si vuole. Visto che, a qualificarlo con i termini della psicologia d’oggi, Napoleone sarebbe il più tipico dei padri assenti e deleganti, modernissimo per i suoi difetti, evanescente, giocherellone, affettuoso quanto in fuga dalla propria responsabilità. Antichissimo per la capacità di imporre una visione del mondo con poche parole e pochissimi gesti. È anche lì che si gioca il romanzo, nel contrasto tra la figura politica passata alla storia e il dietro-le-quinte privatissimo che più privato non si può, considerato il punto di vista. Ovvio che in questa prospettiva vengono messi nel conto del grande uomo anche i risvolti ridicoli, le sue ipocrisie, le fragilità, le dissimulazioni, gli escamotage penosi per districarsi tra una donna e l’altra, mogli, ex mogli, amanti, Madame Mère. Siamo nel solco del motivo archetipico della ricerca del padre: e qui si tratta di un padre speciale, reso ancora più speciale dal filtro materno e dal ricordo infantile del narratore, per forza enfatizzante e idealizzante. Il vecchio Alexandre deciderà di tornare sui passi del padre, per ricostruire non solo la vicenda intima dei genitori, ma anche la propria identità.
«Dopo tanti anni, ho deciso di mettere un po’ d’ordine nelle memorie di famiglia». L’artificio di Nava è quello di utilizzare i documenti fin dove si può (soprattutto lettere, differenziate dal carattere corsivo), facendo poi leva, per la vera ossatura del libro, su una forte dose di immaginazione e di empatia emotiva: «Quando i ricordi non coincidevano con notizie raccolte nel corso del tempo, ho scelto la versione che mi suggeriva il cuore», ammette, in una sorta di programma narrativo, il protagonista. In realtà, a guardar bene, nel suo racconto Alexandre non fa che mettere in scena la vera protagonista della storia: sua madre Maria.
Ma veniamo ai fatti. Si parte non dalla fine ma dalla metà, dal 31 agosto 1814: il viaggio verso l’Elba, sul vascello Abeille, della contessa, amante segreta di Napoleone, con il figlio, il fratello Teodor e la sorella Emile. La donna deve raggiungere clandestinamente l’imperatore in esilio: «Il sole calante accarezzava la baia ed esaltava il profilo delle montagne che incombevano sul villaggio. La spiaggia era deserta». Durante la traversata, mamma Maria rivela al bambino (di quattro anni) la sua vera paternità: è lui il figlio dell’uomo molto importante che stanno per incontrare. Si srotola così indietro e poi in avanti il racconto di quell’infinito amore: il primo incontro in Polonia, nato quasi per un’esaltazione infantile della ragazza che accorre a salutare il Salvatore (straniero) della Patria; la folgorazione dell’imperatore per quella meraviglia di donna, già sposata con un nobile molto più anziano voluto dalla madre di lei per motivi economici; la pretesa di averla, la mobilitazione della diplomazia per accontentare il sovrano (non si sa bene se incapricciato o perdutamente innamorato), le inutili ritrosie di Maria, che cede per carità di patria, per poi innamorarsi follemente. Seguono le notti infiammate al castello di Schönbrunn, i baci rubati in incognito nei giardini di Parigi, si ritorna alle notti dell’Elba, in cui sembra riaffiorare l’estasi dei primi incontri, la fuga. Poi ancora, via via, lo spegnersi degli entusiasmi e i barlumi che si riaccendono qua e là, fino alla deriva che segue la sconfitta militare definitiva.
In realtà sin dall’inizio Infinito amore si presenta come un romanzo degli infiniti addii: ogni volta il lettore è portato a credere che si tratti dell’ultimo incontro, dell’ultimo bacio, dell’ultimo abbraccio, dell’ultima carezza, dell’ultimo sguardo, dell’ultimo viaggio, per scoprire che invece no, c’è sempre un dopo che salva. Sarà perché la passione di Maria è cieca, disinteressata, persino a tratti ostinata al di là di ogni ragionevolezza. Sarà perché la voce postuma di Alexandre riesce a riscattare, con la sua leggerezza e il suo disincanto, anche i fatti più penosi. Ma questo valzer degli addii ricomincia a essere danzato ogni volta, quando sembrava spegnersi nel silenzio. È la resistenza dell’amore il vero motore del mondo. Più che un motore, un soffio continuo, come quello che Alexandre avverte nel cimitero Père-Lachaise, sulla collina alla periferia di Parigi. In un attimo di impensabile letizia.
Repubblica 25.4.14
Il generale delle Ss Hans Kammler
Spuntano documenti Usa: “Così il generale Hans Kammler fu trasferito in America”
La fuga segreta del custode dell’atomica nazista
di Roberto Brunelli
L’UOMO DEI MISTERI Sulla morte del generale delle Ss Hans Kammler ci sono cinque diverse versioni. Contraddette ora dalle carte dei Counter Intelligence Corps (sopra a destra): “Il generale si presentò ai nostri ufficiali e rilasciò una dichiarazione dettagliata”
LINZ (AUSTRIA) NO, non fu una pallottola né fu il cianuro ad uccidere il generale delle Ss Hans Kammler. Visse e morì da americano, l’uomo che è passato alla storia come “il tecnocrate dell’annientamento”: sotto una falsa identità, in una località segreta degli Stati Uniti e con in dote una montagna di segreti inconfessabili. A poco più di un mese dal suo ultimo incontro con il Führer, l’ufficiale che aveva avuto la supervisione della costruzione di tutti i campi di concentramento — crematori e camere a gas comprese — il responsabile della realizzazione dei missili V-2 e di tutti i progetti segreti sotterranei del Terzo Reich, il gerarca che per un capriccio aveva ordinato l’esecuzione a sangue freddo di 208 lavoratori-schiavi a Warstein, trattò con i servizi segreti nemici la sua fuga in America. Nei giorni convulsi del tracollo della Germania nazista, il generale si presentò di persona agli ufficiali dei Counter Intelligence Corps (Cic) in Austria: «Hans Kammler apparve agli uomini del Cic a Gmunden e fece una dichiarazione dettagliata sulle operazioni e le attività della Baustelle Ebensee»: questo è quanto si legge in un documento segreto dei Cic targato “Nnd 785009” e declassificato dalle autorità statunitensi nel 1978. La dicitura “Baustelle Ebensee” sta a indicare l’immenso sistema di gallerie sotterranee che comprendeva i campi di Ebensee, Mauthausen e Gusen.
La presa di contatto tra il “generale del diavolo” e gli americani èun fatto ad oggi del tutto inedito. In questi sessantanove anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, gli ultimi giorni di Kammler sono sempre stati avvolti da una pesante coltre di mistero: ci sono molte e contraddittorie versioni sulla sua morte, che un tribunale ha stabilito essere avvenuta per suicidio il 9 maggio 1945 (avrebbe ingerito del cianuro ed in più un suo sottoposto gli avrebbe sparato un colpo di pistola su sua stessa richiesta), ma con un carico infinito di speculazioni e suggestioni che non sono mai venute meno. Oggi le carte dei servizi segreti americani nonché la testimonianza dei figli di un agente dell’Oss (Office of Strategic Services, antesignana della Cia) rivelano una nuova verità. «È stato mio padre, Donald Richardson, a interrogare Hans Kammler in Austria», afferma John Richardson. «Mio padre lavorava per i servizi segreti dell’esercito statunitense, ha lavorato per i presidenti Roosevelt, Truman e Eisenhower. Ha reso l’ Obergruppenführer Hans Kammler un buon tedesco, gli ha dato un nome americano, un indirizzo, un numero di telefono. Kammler è entrato a far parte del cuore del complesso militarindustriale americano». Richardson jr — che ha rilasciato un’intervista in questo senso al documentarista austriaco Andreas Sulzer, il quale da quattro anni lavora su un documentario sui “segreti nucleari” del campo di concentramento di Gusen — dice che solo a 50 anni dai fatti il padre decise di raccontare la storia di Kammler ai figli, con la promessa di non rivelarla a loro volta se non dopo la propria morte. L’altro figlio, Douglas, si esprime così: «Mio padre mi disse che dette protezione a Kammler dal 1945 al 1947. La prima volta che me ne parlò fu quando gli chiesi dell’ Operation Paperclip ». Dunque: “Paperclip” è il nome in codice di una missione strategica dell’Oss il cui obiettivo era di reclutare gli scienziati nazisti (uno fra tutti, Wernher von Braun). Donald Richardson era un ufficiale di primissimo piano dell’Oss. Il figlio John mostra orgoglioso le foto del padre insieme a Roosevelt e Truman. Ce n’è una in cui Donald sta impettito dietro a Roosevelt: di lato c’è Churchill, di fronte Stalin. Siamo a Yalta, 1943.
Le dichiarazioni dei due fratelli trovano un riscontro nelle carte dei National archives americani. Nella nota già citata dei Cic si fa riferimento ad una trascrizione del verbale in possesso di tal “Mr. Morrison”. Negli appunti firmati “Mr. Morrison” la località indicata è quella austriaca di Gmunden, i fogli sono datati 15, 16 e 17 luglio 1945, e il nome “Hans Kammler” è in bella evidenza. È più di due mesi dopo il 9 maggio, e siamo anche ben lontani da Praga, dove secondo un’altra tra le varie e contraddittorie testimonianze il generale si sarebbe rifugiato prima di togliersi la vita. Sulzer ha anche trovato copie autografe dei progetti di Kammler — di mestiere architetto e ingegnere — in America, tra le carte presenti nel lascito di Samuel Goudsmit, responsabile scientifico della “Missione Alsos”, messa in piedi per intercettare le risorse nucleari tedesche. Sulzer si entusiasma: «Come facevano gli americani ad avere le carte autografe di Kammler? Ovvio: avevano Kammler».
In altre parole: la merce di scambio del generale quasi certamente furono i suoi segreti nucleari. «Abbiamo le prove che il campo di Gusen fu l’ultimo quartier generale di Kammler», dice il documentarista. «Forniture regolari di materiali scientifici, la lista di carichi ferroviari indirizzati esplicitamente a lui». Come rivelato da Repubblica il 9 dicembre, nelle gallerie di Gusen sono stati rilevati nel 2012 elementi di radioattività «26 volte superiori alla norma»: è solo uno dei tanti indizi che fanno ritenere che in quelle gallerie, una specie di immensa “fabbrica di guerra” sotterranea sottoposta al controllo di Kammler, i nazisti avessero installato un vero e proprio laboratorio atomico. Lo storico Rudolf Haunschmied, che alle ricerche su questo lager ha dedicato tutta la sua vita, ne è convinto: «Dai documenti sappiamo che più si avvicina la fine della guerra, più Gusen diventa cruciale. Hitler esigeva di essere costantemente informato su Gusen. Tutta l’area del campo fu dichiarata “zona vietata”, il lager stesso venne completamente minato. Nessuno, in caso di sconfitta, doveva conoscere la verità». Poche settimane fa è stata fatta un’ulteriore scoperta vicino alle gallerie del campo, che in parte erano destinate all’assemblaggio dei caccia a reazione Messerschmitt, ma che secondo Sulzer facevano parte di una rete sotterranea molto più ampia di quella conosciuta. Gli scavi avviati in seguito alle rilevazioni di radioattività hanno portato alla luce un ottagono, una specie di gigantesco foro nel terreno: ogni lato è lungo 10 metri, per 26 metri di diagonale.
Secondo le analisi geologiche, nasconde un canale sotterraneo lungo 60-70 metri. Per gli esperti si tratta quasi certamente di una rampa di lancio missilistica. Dettaglio inquietante: è orientata verso ovest. «È identica ad un’altra rampa progettata proprio da Kammler in Francia», assicura Sulzer. Questa qui di Gusen fu frettolosamente ricoperta dai tedeschi subito prima la loro fuga. «Però dalle foto aeree realizzate dalla Us Air Force nell’autunno ‘44 l’ottagono si riconosce chiaramente. E si vede che sta all’interno di un’area di massima sicurezza».
Ancora una volta, non finisce qui. In questa cavità è stato rinvenuto un cilindro di ceramica largo 10 centimetri e lungo 6. Un pezzo di un acceleratore di particelle, dicono gli esperti. Uno strumento usato a quei tempi esclusivamente nella ricerca nucleare. Sulzer ha anche raccolto la testimonianza filmata di un ex deportato polacco, Stanislaw Zalewski, che racconta del suo trasferimento da Auschwitz a Gusen: con sua grande sorpresa, sul treno scopre che tutti i suoi compagni di viaggio e di martirio sono chimici, elettrotecnici, scienziati. Personale altamente specializzato, destinato alle medesime gallerie. A lavorare, probabilmente, al più segreto di tutti i progetti nazisti: quello nucleare.
«Il generale consegnò agli Stati Uniti il suo tesoro». Così dice il figlio dell’agente speciale Donald Richardson, questo fanno capire le carte riemerse dagli archivi Usa. Sì, fu l’ombra dell’atomica nazista il lasciapassare di Kammler per l’America.
Repubblica 25.4.14
Noi italiani cattolicissimi ma analfabeti in religione
Uno studio condotto dallo storico Alberto Melloni documenta quanto sia elevata l’ignoranza sui temi del cristianesimo e delle altre confessioni
Di ebraismo e Islam si conoscono quasi solo la Shoah e i conflitti con l’Occidente
di Giancarlo Bosetti
L’ITALIA , nel suo rapporto con la religione, è un paese «stonato », come e più di un pianoforte scordato. «Religiosamente non musicale», diceva di se stesso Max Weber (che però è stato un gigantesco studioso della religione). Ma applicata a noi italiani la «stonatura» è solo un eufemismo. Le cose stanno peggio e, considerando che siamo il paese che ospita gli eredi di Pietro da due millenni, ci meritiamo un giudizio crudo: siamo terribilmente ignoranti e, messi di fronte alla contraddizione, dovremmo esaminarla con coraggio e sincerità. Ce lo suggeriscono le 500 pagine del Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, curato per Il Mulino dallo storico Alberto Melloni, con la collaborazione di una trentina di studiosi del campo. L’analfabetismo di base,
quello del leggere e scrivere, è stato in gran parte sconfitto, tra gli italiani.
RESTA molto da recriminare, ma non siamo più degli analfabeti generici, lo siamo in maniera «speciale», soprattutto in tre aree: la religione, la musica e l’arte. Qui la nostra incompetenza è cronica, rocciosa. E la scuola non risolve, ma peggiora le cose, perché quelle sono le tre aree dove mostra grandi debolezze. Altro che i lamentati eccessi di studi umanistici: nel paese del Rinascimento, della lirica e della Chiesa romana, si fa pochissima storia dell’arte, niente musica, e un’ora di catechismo cattolico, la cui insufficienza e il cui anacronismo sono ormai evidenti. Tre eccezionalità italiane che sono perversamente connesse con tre buchi della nostra formazione standard.
Il Rapporto Melloni si occupa del primo buco. Per tutto quello che ha a che fare con Dio, la trascendenza, riti e culture associate, non passeremmo un test di ammissione neanche al livello più elementare. Eppure la Bibbia ce l’ha in casa il 70 per cento degli italiani, e ancora di più, l’86 per cento di coloro che si dichiarano cattolici praticanti. Ma quelli a cui è capitato di leggerne almeno qualche pagina sono meno del 30 per cento. I non cattolici la leggono un po’ di più dei cattolici, e tra i cattolici quelli che hanno fatto corsi di catechismo leggono ancora meno degli altri. Imbarazzanti le risposte, nei sondaggi, alla domanda «Chi l’ha scritta? »: più di un quarto risponde «Mosè», un altro 20 per cento «Gesù». Un 15 ritiene che la Bibbia degli Ebrei e quella dei Cristiani non abbiamo niente in comune, ma c’è anche un 27 convinto che Vangeli e Bibbia siano la stessa cosa. Il che vuol dire che conversazioni sul tema in questo paese sono davvero una rarità. Il 30 per cento degli italiani conosce il nome dei quattro evangelisti, solo una élite dell’1 per cento conosce i dieci comandamenti; la gran parte si ferma a «Non rubare », il più famoso, considerato generalmente il primo; trascurato «Non avrai altro Dio fuori di me». Lunga ancora la missione della associazione laica «Biblia», che si propone di colmare un vuoto: la conoscenza della Bibbia è, tra molte cose, anche una porta di ingresso al pluralismo religioso.
La scarsa conoscenza della propria religione si spalanca poi sugli abissi dell’ignoranza di quella degli altri, dove fioriscono le più superficiali confusioni. Una enorme quantità di italiani crede che il Priorato di Sion ( Codice Da Vinci, Dan Brown), sia una entità biblica. Solo una minoranza sa che Primo Levi era ebreo. Chi interroga i manuali di storia, come nel severo saggio di Maria Chiara Giorda, trova testi standardizzati, che, con poche eccezioni, riflettono consuetudini redazionali più che originalità e precisione della ricerca di autori. Le conseguenze sono che la conoscenza sia dell’ebraismo sia dell’Islam vengono schematizzate e ridotte, il primo, alla pagina sulla Shoah e il secondo alle tappe militari del conflitto con l’Occidente, dalla battaglia di Poitiers fino all’11 settembre 2001. Difficile trovare un approfondimento della storia e cultura ebraica, così come è difficile incontrare tracce della civiltà Moghul o di un «jihad» che non sia esclusivamente guerra santa. Sottigliezze.
Anche per i media vale una certa licenza di superficialità. Così un celebre editorialista italiano ha potuto scrivere che il politeismo induista si tradu- ce spontaneamente in un generoso pluralismo, cosa che forse neanche Narendra Modi, leader del partito maggioritario Bjp, hindu, oserebbe azzardare nella campagna elettorale in India.
Sfortunatamente prevale in questo campo, a causa della polarizzazione tra laicismo e clericalismo, una forma di partigianeria che bada essenzialmente a sottrarre territorio agli avversari. Esemplare, in negativo, è la storia degli studi religiosi nelle università italiane. Qui è accaduto che i laicisti anticlericali, per il desiderio di espungere una fonte di contaminazione con il regno dei cieli, e i clericali per il desiderio di tenerne il monopolio, hanno saldato un patto: niente facoltà di teologia nelle università pubbliche (come accade in Germania o in Svizzera). Ciò mentre la forza scientifica dei Dipartimenti di studi religiosi delle università americane, anche di quelle non confessio- nali, mostra la rilevanza di questi saperi per l’analisi sociale, per l’economia e le relazioni internazionali.
Gli studi religiosi danno segni di vitalità anche da noi, ma devono allargarsi la strada a gomitate dentro i corsi di storia, di antropologia, sociologia, lingue, nelle facoltà di Lettere e filosofia. Corsi di scienze religiose si sono affermati a Torino, a Roma, e a livello inter-ateneo e interdipartimento a Padova- Venezia e a Bologna. Ma la disciplina degli studi religiosi si porrà come centrale quando si metterà mano al superamento dell’impasse dell’ora di religione alternativa - per coloro che «non si avvalgono» dell’insegnamento concordatario, affidato ai vescovi - e alla formazione di insegnanti ad hoc.
L’esigenza appare sempre più impellente di fronte ai numeri del pluralismo religioso che stiamo scoprendo: abbiamo 355 parrocchie cristianoortodosse per un milione e 500 mila immigrati, per lo più recenti, affiliati ai patriarcati romeno, serbo, di Costantinopoli, macedone, russo, greco, copto; 655 luoghi di culto per un milione 650 immigrati musulmani; 658 chiese neo-pentecostali africane. E il sorprendente studio di Enzo Pace si sofferma sugli 80 mila sikh, in gran parte ormai italo-sikh con i loro 36 templi (Gurudwara). Ancora in questi giorni un grande giornale li presentava come «uomini col turbante abituati a pregare Shiva e Visnù», mentre i sikh, a differenza degli induisti, sono monoteisti.
La conoscenza delle religioni sta diventando parte di uno standard di base per una pacifica convivenza e per contrastare le tendenze fondamentaliste e violente. In tal senso si sta formando un orientamento negli organismi internazionali: Unesco, Ocse e Unione europea. La conoscenza della pluralità è l’arma decisiva che demolisce le idiozie etnocentriche e i purismi di impronta razzista.
Sono dunque datate le invettive contro la minaccia che i nostri bambini venissero privati, nelle mense scolastiche, della amata mortadella o dei tortellini col prosciutto, a causa della presenza di famiglie musulmane. In questi dieci anni la dieta differenziata è diventata routine nel 76 per cento dei casi: vegani e carnivori potranno convivere con diete halal e kosher. E la via che porta dall’invettiva alla routine pluralista passa dalla conoscenza.
l’Unità 25.4.14
Scelto per voi. Il film di oggi
Che Guevara
il rivoluzionario e l’uomo secondo Soderbergh
CHE L’ARGENTINO (2008) Otto anni di lavoro, ricerche, documentazioni. Per Steven Soderbergh è stata una sorta di magnifica ossessione, ma il risultato è straordinario. Che Guevara col volto di Benicio Del Toro è raccontato non solo nei panni del rivoluzionario ma anche e soprattutto in quelli dell’uomo... «senza perdere la tenerezza». Dall’incontro con Fidel al cuore della rivoluzione cubana.
21.10 LAEFFE