mercoledì 9 aprile 2014

il manifesto 8.4.14
L’argomento di Callicle
Contro i professori. Il fascino cupo del carisma ritorna, come extrema ratio, e contrappone l’Azione al Pensiero, il Demiurgo al Riflessivo, il Fare al Pensare. Dall’intellettuale dei miei stivali di craxiana memoria al renzismo di oggi. Un po’ Craxi, un Po’ Berlusconi, con la velocità del prestigiatore
di Marco Revelli


«Certo, Socrate, la filo­so­fia è un’amabile cosa, pur­ché uno vi si dedi­chi, con misura, in gio­vane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende ammi­ni­strare la città.
Così dice Cal­li­cle nel Gor­gia, il dia­logo pla­to­nico dedi­cato alla Reto­rica, e aggiunge che «chi si attar­dasse più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pre­ten­desse di dir la pro­pria sulle cose della Polis, fini­rebbe per infa­sti­dire e intral­ciare, per­ché ine­sperto delle “cose del mondo”: degli “affari” pri­vati e pub­blici, «dei costumi degli uomini nor­mali», tanto da «ren­dersi ridi­colo allo stesso modo in cui si ren­dono ridi­coli i poli­tici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei vostri astrusi ragio­na­menti». E’, il suo, il primo esem­pio – un arche­tipo – di quel disprezzo per la cono­scenza e per i“sapienti” (per gli intel­let­tuali, appunto) che ritor­nerà infi­nite volte nelle zone gri­gie della storia.
Su chi fosse Cal­li­cle si hanno poche infor­ma­zioni. Com­pare come una meteora in quest’unico dia­logo, e poi scom­pare. Di lui si sa solo che era un gio­vane (più gio­vane di Socrate e anche di Pla­tone) molto ambi­zioso. Che mili­tava nel par­tito oli­gar­chico. E che era un sofi­sta nel senso prag­ma­tico del ter­mine, cioè un fau­tore di quell’intreccio tra sapere e affari che si pra­ti­cava nella scuola di Gor­gia (sorta di Cepu dell’età clas­sica), e di quell’idea della Reto­rica come arte della per­sua­sione altrui che teo­riz­zava il pri­mato del Discorso sulla Giu­sti­zia, sfor­nando schiere di pri­mi­ge­nii Ghe­dini ate­niesi. Volendo fare il gioco della tra­spo­si­zione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disa­strata Città, potremmo dire che Cal­li­cle incar­nava in sé un po’ di Renzi e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche dell’altro) per le regole e le leggi, con­si­de­rate impacci. Peg­gio, inven­zioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per fre­nare i forti, i «ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi — e impe­dir loro di fare «e di pre­va­ri­care» (testual­mente nell’originale) come richie­de­rebbe invece il «diritto di natura», il quale risponde alla regola del fatto com­piuto, del diritto del più forte e del più capace a «scrol­larsi di dosso» e «fare a pezzi… i nostri scritti, incan­te­simi, sor­ti­legi e leggi, che sono tutti con­tro natura». Del secondo (e solo di que­sto) con­di­vi­deva il culto per la sen­sua­lità e l’intemperanza, per la dila­ta­zione del desi­de­rio e del pia­cere come cul­mine della feli­cità, nella con­vin­zione che «colui che intende vivere con ret­ti­tu­dine [«secondo natura»] deve lasciare che i pro­pri desi­deri s’ingigantiscano il più pos­si­bile e non deve met­tervi freno» per «saperli ser­vire, con corag­gio e accu­ra­tezza» una volta che essi abbiano rag­giunto il cul­mine. Pul­sioni, umori, diversi, ma in qual­che misura uni­fi­cati dalla comune osti­lità – dall’odio rive­stito di disprezzo — per la rifles­si­vità, il lavoro, ine­vi­ta­bil­mente più lento e meno ferino, del pen­siero. I suoi moniti e le sue dub­bio­sità. In una parola per il ruolo sto­rico dei cosid­detti “intellettuali”.
Sem­bra impos­si­bile, ma è così. Ogni volta che il nostro Paese risco­pre il fascino cupo del cari­sma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velo­cità della luce: a quell’archetipo tos­sico che con­trap­pone l’Azione al Pen­siero. Il Demiurgo al Rifles­sivo. Il Fare al Pen­sare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il peda­groso posa­piano che ral­lenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille pro­mette e manterrà.
E’ suc­cesso una tren­tina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repub­blica entrava nella sua fase coma­tosa (ricor­date l’invettiva con­tro gli «intel­let­tuali dei miei sti­vali»?). E si è ripe­tuto una ven­tina di anni or sono, con Ber­lu­sconi, quando nac­que (male, malis­simo) la cosid­detta Seconda Repub­blica, nell’odore di fango e nella mar­cia trion­fale dei media. Era suc­cesso, con aspetti ben più tra­gici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello stato libe­rale e l’avvento del mus­so­li­ni­smo. Suc­cede oggi – si parva licet – con Mat­teo Renzi, al suo esor­dio come impro­ba­bile sal­va­tore della patria. Ogni volta si è assi­stito all’esibizione dello stesso les­sico, con poche varia­zioni. E chi richia­mava all’opportunità di sof­fer­marsi sulla pro­ble­ma­ti­cità dell’accadere, sulla sua com­ples­sità non ridu­ci­bile con le parole magi­che, è stato liqui­dato con una catena di ter­mini che vanno dal post­bel­lico ““disfat­ti­sta” e “imbelle”, al deni­gra­to­rio “insulso” («insulso intel­let­tuale» fu la for­mula con cui Mus­so­lini invitò il Pre­fetto di Torino a per­se­gui­tare Gobetti) ai più didat­tici «pro­fes­so­roni» o «pro­fes­so­rini» (in qual­che caso «pro­fes­so­ru­coli»), all’enfatico «Soloni» o «sapien­toni», oltre i quali la crea­ti­vità dei cri­tici della cri­tica non sa andare. Né la cosa stu­pi­sce. Fa parte dell’ordine delle cose il fasti­dio per la fatica del pen­siero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono solu­zioni possibili.
Quello che può incu­rio­sire, piut­to­sto, è l’estensione della ragna­tela oggi, che giunge a lam­bire figure che si cre­de­vano esenti da que­ste fol­go­ra­zioni sulla via del Naza­reno: non più i soliti Fel­tri e Bel­pie­tro, se pos­si­bile i meno aggres­sivi per esau­ri­mento delle bat­te­rie, ma i Gra­mel­lini, i Meni­chini, le mini­stre­bo­schi, gli edi­to­ria­li­sti dell’Unità e di Europa, gli spin doc­tors di com­ple­mento del Tg3, su lun­ghezze d’onda non dis­si­mili dai vari Gasparri (memo­ra­bile per vol­ga­rità la sua mimica sulla lun­ghezza delle par­ruc­che di Zagre­bel­sky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vice­di­ret­tore della Stampa sulle «vec­chie cin­ture di castità» …), tutti ad acca­nirsi con­tro l’intellettuale fre­na­tore, il disin­can­tato disin­can­ta­tore, lo scet­tico blu che spe­gne i sogni, il fasti­dioso acri­bioso che cerca sem­pre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto pro­ba­bile che alcuni di que­sti “per­suasi” pro­ve­ranno un giorno ver­go­gna del pro­prio invol­ga­ri­mento, una volta sva­nito l’effetto della fasci­na­zione. Ma resta l’interrogativo sull’origine miste­riosa di quel fascino improv­viso. Che cari­sma è que­sto, che bypassa ogni lezione della sto­ria, e fa cadere ogni bar­riera all’accesso alle menti, tanto da can­cel­lare decenni di cul­tura cri­tica, razio­na­li­sta e demo­cra­tica per­ché col­pi­sce, ora, anche quei set­tori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos”?
Non è il cari­sma guer­riero del Benito Mus­so­lini delle ori­gini, uscito dalle tem­pe­ste d’acciaio e dalle trin­cee di fango. E nem­meno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fon­dato sul ricorso a una spre­giu­di­ca­tezza ine­dita nella sto­ria della sini­stra ita­liana nell’assalto alle ban­che e alle dili­genze. O il cari­sma pro­prie­ta­rio e geni­tale del Ber­lu­sconi re del video e delle veline final­mente spo­gliate. Il suo sem­bra più il cari­sma vir­tuale – e impal­pa­bile — della ver­ti­gine. Il trauma della velo­cità come meta­fora (e sur­ro­gato) dell’energia e come tec­nica di con­vin­ci­mento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei pro­blemi, così da appa­rirne il solu­tore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guar­dare, la tec­nica dell’illusionista. Il segreto del pre­stige, inteso come gioco di pre­sti­gio, in cui la rapi­dità del movi­mento e l’uso del diver­sivo – del gesto che disto­glie l’attenzione – sono la chiave del suc­cesso, e per­met­tono a chi sta sul palco di con­qui­stare la dedi­zione del pub­blico pagante. Renzi in que­sto è mae­stro: fa com­pa­rire, e subito dopo scom­pa­rire, la legge elet­to­rale, una volta veri­fi­cato che di lì non si passa, subito sosti­tuita, coni­glio dal cilin­dro, dal Jobs act e dalle sli­des, esi­bendo gli 80 euro in busta paga men­tre scom­pa­iono in un fou­lard viola pezzi di sistema sani­ta­rio e di ser­vizi sociali o interi bloc­chi di patri­mo­nio pub­blico avviati alla pri­va­tiz­za­zione. Dice di aver abo­lito le pro­vince, come pro­messo, e quelle se ne stanno sem­pre lì, intatte sotto il tap­peto por­pora del tavolo, non più elet­tive ma pur sem­pre inte­gre. Pre­para la Gre­cia, ma sem­bra la Ger­ma­nia. Finge un bat­ter di pugni men­tre in realtà batte i tac­chi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pub­blico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel ver­ti­gi­noso movi­mento, scruta sotto il man­tello per cogliere il trucco.
L’odiato intel­let­tuale è odiato per que­sto. Per­ché minac­cia di sve­lare il pre­stige. Di disin­can­tare l’illusione. Nemico con­di­viso di tutti gli spet­ta­tori che, inca­paci di par­te­ci­pare alla solu­zione del pro­blema, pre­fe­ri­scono vedersi rap­pre­sen­tata la mate­ria­liz­za­zione della spe­ranza. La sua filo­so­fia è peri­co­losa, come lo fu l’occhio inge­nuo del bam­bino che rive­lava la nudità del re. Pas­serà pro­ba­bil­mente, come tutte le infa­tua­zioni. Ma intanto sarà dura. Unica con­so­la­zione: la con­sta­ta­zione che oggi, dell’“uomo di mondo” Cal­li­cle – che con­tra­ria­mente all’“insulso” e “inge­nuo” Socrate non inse­guiva le nuvole e le idee -, nes­suno ricorda nep­pure più il nome.

il manifesto 4.4.14
Stefano Rodotà: «Non mi farò schiacciare»
intervista di Roberto Ciccarelli


Riforme. «Il governo non risponde alle critiche sulla riforma elettorale e su quella del Senato e attacca le persone. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano». «In confronto all’Italicum, la legge truffa del 1953 è un modello di garanzie. La riforma del Senato provocherà pasticci infiniti». «Letta mi invitò a Palazzo Chigi dopo la manifestazione della "Via maestra" da cui nacque la proposta del referendum confermativo sull’articolo 138»
«Sono uno di quei “pro­fes­sori” che blocca da trent’anni le riforme costi­tu­zio­nali? — sor­ride Ste­fano Rodotà dopo avere appreso il giu­di­zio del mini­stro per le riforme costi­tu­zio­nali Maria Elena Boschi – Credo che la mini­stra mi attri­bui­sca una sen­sa­zione di onni­po­tenza che non cor­ri­sponde alla realtà dei fatti. Mi sem­bra inve­ro­si­mile il fatto che i «pro­fes­sori», da soli, siano riu­sciti a bloc­care le riforme di Craxi, Cos­siga, Ber­lu­sconi o D’Alema. Chiun­que abbia una minima nozione di sto­ria sa che le riforme della bica­me­rale furono fatte cadere da Ber­lu­sconi. E quando quest’ultimo fece la sua riforma, fu respinto da 16 milioni di ita­liani con un refe­ren­dum. Mi pia­ce­rebbe molto avere avuto la pos­si­bi­lità di eser­ci­tare un potere così radi­cale, ma que­sto non cor­ri­sponde allo stato dei fatti e dimo­stra che una poli­tica inca­pace di effet­tuare riforme oggi cerca di rifu­giarsi in que­sti argomenti».
Anche la mini­stra Boschi sostiene che lei nel 1985 ha pro­po­sto una riforma del Senato. Ha cam­biato idea?
A parte il fatto che non c’è nulla di male nel cam­biare idea, ma que­sto rife­ri­mento è del tutto inap­pro­priato per­ché Renzi e Boschi dovreb­bero sapere – e pur­troppo non lo sanno – che la pro­po­sta pre­sen­tata 29 anni fa dalla Sini­stra Indi­pen­dente, con me Gianni Fer­rara e Franco Bas­sa­nini, andava in senso oppo­sto alla loro. Allora ci oppo­ne­vamo al ten­ta­tivo di Craxi di con­cen­trare i poteri del governo, esat­ta­mente come vuole fare oggi Renzi.
In cosa con­si­steva quella riforma?
Inten­deva raf­for­zare il par­la­mento e i diritti e aveva uno spi­rito che si ritrova nella sen­tenza della Corte Costi­tu­zio­nale sul «Por­cel­lum» che non garan­ti­sce la rap­pre­sen­tanza. Avan­zammo quella pro­po­sta quando c’era una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale, i depu­tati veni­vano scelti con il voto di pre­fe­renza, i rego­la­menti rico­no­sce­vano un potere alle mino­ranze par­la­men­tari, non c’erano ghi­gliot­tine né limiti agli emen­da­menti. L’ostruzionismo della sini­stra indi­pen­dente fece cadere il decreto Craxi sulla scala mobile, da quell’esperienza nac­que anche la com­mis­sione d’inchiesta sulla P2. In quel clima si voleva con­cen­trare il mas­simo potere in una sola camera, raf­for­zan­dolo però con la sua mas­sima rap­pre­sen­tanza. Pro­po­ne­vamo di ridurre a 500 i par­la­men­tari, ma per avere un con­tral­tare al governo. Cosa che invece Renzi non vuole con l’Italicum. Renzi e Boschi non sanno di cosa par­lano. Deno­tano igno­ranza isti­tu­zio­nale. È un fatto grave, oltre che moral­mente una cat­tiva azione.
Il governo, e non solo, sostiene che la sua pro­po­sta sul Senato per­met­terà di rispar­miare 1 miliardo di euro ai cit­ta­dini. Sem­bra una pro­po­sta allettante.
La trovo una con­ces­sione all’antipolitica. Si tratta di un argo­mento che può por­tare in qual­siasi dire­zione. Più che alla logica, risponde alla peg­giore ricerca del con­senso. Baste­rebbe la ridu­zione dei par­la­men­tari e delle retri­bu­zioni per otte­nere que­sto rispar­mio senza rovi­nare gli equi­li­bri costituzionali.
Ritiene che i ren­ziani stiano rea­gendo all’appello che lei ha fir­mato insieme a Gustavo Zagre­bel­sky e altri giu­ri­sti con­tro la «svolta auto­ri­ta­ria» del governo?
Abbiamo rite­nuto di intro­durre con deter­mi­na­zione que­ste argo­men­ta­zioni nel dibat­tito pub­blico. Ma non ci viene data rispo­sta e si attac­cano le per­sone. Ancora in tempi recenti ci sono state un’infinità di pro­po­ste da parte dei «pro­fes­sori» a dimo­stra­zione che sono del tutto alieni dal difen­dere o dal con­ser­vare. Su Il Mani­fe­sto c’è stata la pro­po­sta di Vil­lone o di Azza­riti, ad esem­pio. Vor­rei anche ricor­dare che ave­vamo indi­cato una solu­zione con la mani­fe­sta­zione della «Via Mae­stra» nell’ottobre 2013. Sull’articolo 138 e la modi­fica voluta dal governo Letta, abbiamo pro­po­sto di modi­fi­care il numero dei par­la­men­tari e rifor­mare il Senato, ma in un modo assai lon­tano dalla pro­po­sta attuale. Chie­de­vamo al governo Letta di ini­ziare subito. Se fosse stato seguito que­sto con­si­glio avremmo già una ridu­zione dei par­la­men­tari e un Senato come camera delle garan­zie che è asso­lu­ta­mente necessaria.
Cosa le rispose Letta?
Mi invitò a Palazzo Chigi, ne par­lammo. Il risul­tato di quella con­ver­sa­zione fu il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo sulle pro­po­ste di riforma. Per quanto cri­ti­ca­bile fosse Letta, non aveva la posi­zione di chi pro­cede come un rullo com­pres­sore. Io non mi voglio fare schiac­ciare e per que­sto alzo la voce.
Da quello che dice ci tro­viamo in una situa­zione peg­giore della «legge truffa» pro­po­sta da Scelba nel 1953…
Rispetto all’Italicum, non la si dovrebbe più chia­mare in que­sto modo. Anzi, quella era un modello di garan­zia. Pensi che per con­tra­starla si usava l’argomento che non si poteva met­tere nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente il destino delle isti­tu­zioni. Aggiungo, a bene­fi­cio di chi ci insulta, che quella legge non passò per­chè alcuni pro­fes­sori come Cala­man­drei, Jemolo, Codi­gnola, Parri, si riu­ni­rono nel gruppo «Unità popo­lare» e insieme ad altri la bloc­ca­rono. Oggi, invece, si con­se­gna il destino della demo­cra­zia nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente. Quanto alla riforma del Senato non ha nulla a che vedere con le camere rap­pre­sen­ta­tive delle auto­no­mie locali come in Ger­ma­nia. È più che altro un’esercitazione da stu­denti che crea pasticci infiniti.
Che peso ha il patto del Naza­reno tra Renzi e Berlusconi?
Que­sto patto è stato una scelta infau­sta. Viola il pro­gramma elet­to­rale sul quale il Pd ha rice­vuto milioni di voti.
Ma rispetta le inten­zioni di Renzi…
C’è una bella dif­fe­renza tra un pro­gramma elet­to­rale e le pri­ma­rie di un par­tito, che sono con­sul­ta­zioni impor­tanti ma sono del tutto pri­vate. Quello di Renzi è un altro modo per dele­git­ti­mare il voto e la volontà dei cit­ta­dini. Per legit­ti­mare un’impresa così grave è stata fatta un’alleanza con Ber­lu­sconi, esclusa dal pro­gramma del Pd.
La vostra bat­ta­glia è dun­que con­tro le geo­me­trie varia­bili delle lar­ghe intese?
Non pen­savo di essere eletto a pre­si­dente della Repub­blica, ma quella can­di­da­tura era per cer­care una mag­gio­ranza diversa dalle lar­ghe intese che sareb­bero state disa­strose. Il fal­li­mento di quelle intese hanno pro­vo­cato gli esiti attuali e hanno can­cel­lato l’impegno di Renzi sul red­dito ai lavo­ra­tori o sulle unioni civili.
Dopo gli appelli orga­niz­ze­rete una mobilitazione?
Vediamo. Non cor­riamo troppo. L’appello era un passo neces­sa­rio e non saranno gli insulti a fer­marci. Le rea­zioni comin­ciano ad emer­gere: ci sono i 22 sena­tori del Pd che hanno pre­sen­tato un’eccellente pro­po­sta. Non voglio pren­dermi meriti, ma credo che espri­mano un minimo di ragionevolezza.

Corriere 9.4.14
Dalle barricate al dialogo, la svolta dei Professori
L’apertura dei promotori dell’appello convinti anche dalle critiche interne
di M.A.C.


ROMA — I «Professoroni» ieri hanno detto che «la chiudono qui». «Punto e capo»: vuol dire, almeno sembra, che non ci saranno più «attacchi» pubblici alla riforma renziana del Senato, nè successive messe a punto, nè, subito dopo, «ritorni» circolari con altri toni sullo stesso tema.
Gustavo Zagrebelsky in un’intervista a La Stampa ha ammesso che l’appello firmato dall’associazione Libertà e Giustizia (LeG) «forse è stato tranchant (l’appello era contro “la svolta autoritaria del governo”, ndr)», anche se, aveva aggiunto, forse anche per tenere il punto, che «Renzi con noi è presuntuoso». Al tempo stesso il professore ha anche lanciato una proposta al premier: «L’idea di un Senato di 40 eletti e con funzioni di controllo vere». Poi, Zagrebelsky si è autoimposto il «time out», lo stop ai botta e risposta.
Il presidente del Consiglio ha «raccolto» il messaggio distensivo dell’ex presidente della Corte costituzionale e, durante la conferenza stampa per la presentazione del Def, ha dichiarato: «Sono contento che anche quei professori che erano contrari ora stanno cambiando idea».
Quindi, l’ultima iniziativa di Zagrebelsky , ieri sera, è apparsa per quella che forse era fin dall’inizio. Non una marcia indietro, non un vero e proprio mea culpa , ma una strategia più dolce per farsi sentire dal capo del governo prima che il ddl costituzionale venga approvato da entrambe le Camere. Un modo per chiedere a Renzi — che ha voluto ricordare che, in qualità di presidente del Consiglio, ha «giurato sulla Costituzione, non sui professoroni» — di aprire un tavolo sulle riforme.
Alla svolta «dolce» del leader di Libertà e Giustizia sembra aver contribuito fortemente anche il dibattito interno ai circoli della stessa LeG. Un dibattito critico. Anzi, più correttamente si dovrebbe scrivere, fortemente critico, nei confronti dell’iniziativa dell’«appello» contro le riforme di Matteo Renzi, firmato anche da Stefano Rodotà, Sandra Bonsanti , Salvatore Settis, Nadia Urbinati, Barbara Spinelli, Dario Fo, cui poi si sono aggiunte le firme di Beppe Grillo e Roberto Casaleggio. Ebbene, più di un coordinatore dei circoli di «Libertà e Giustizia» ha avuto molto da dire contro l’appello. Anzi, una serie di email circolate all’interno (e rivelate ieri dal Foglio ) hanno addirittura «controaccusato» i vertici di LeG della stessa colpa che questi ultimi avevano lanciato contro Renzi, parlando esplicitamente di «svolta autoritaria» dei capi del movimento. Da Pisa a Roma, alla Bassa Val di Cecina, è stato tutto un fiorire di «distinguo» e di «dissento». Carteggi in cui emerge che molti associati, dopo aver letto l’appello contro le riforme di Renzi, non solo si sono rifiutati di firmarlo, ma si sono dimessi da LeG. Gli sfoghi di chi è rimasto sono anche peggio. Perché lamentano di non essere stati consultati, protestano per la scarza democrazia interna, parlano esplicitamente di «svolta autoritaria» dei vertici dell’associazione. Una situazione incandescente che si è venuta a creare nella prima settimana di aprile. Brucia a tutti la mancata consultazione preventiva, ma anche l’assenza di proposte concrete, in alternativa a quella messa in campo dal governo .
Ecco quindi perché, in risposta alla stessa critica avanzata anche da Gian Enrico Rusconi, di non essere propositivo, Zagrebelsky ha «lanciato» la sua ricetta di riforma dell’assetto istituzionale (dimezzamento dei deputati, due senatori per regione, durata fissa e lunga, senza possibilità di essere rieletti) e ha teso la mano a Renzi, anche se ancora non si può parlare di «disgelo».

l’Unità 9.4.14
Senato, tensione nel Pd: «Intesa con M5S»
Grillini pronti al sostegno del testo Chiti. Sì da senatori della minoranza
Bersani: «Correzioni necessarie»
Senatori vicini a Civati rifiutano di ritirare il testo Chiti
Il premier: cercano solo visibilità
di Andrea Carugati


L’asse tra i “ribelli” Pd guidati da Vannino Chiti e i senatori del M5s è ancora tutto da costruire. E non è affatto detto che, al momento della discussione e del voto, si realizzerà una saldatura su un impianto diverso da quello voluto dal premier Renzi, e cioè un Senato eletto direttamente dai cittadini.
E tuttavia è un fatto che ieri alla riunione del gruppo Pd, i cosiddetti dissidenti abbiano tenuto il punto. Di fronte alla linea del capogruppo Luigi Zanda, che chiedeva compattezza suggerendo di lavorare di cesello con gli emendamenti sul testo del governo, il gruppo civatiano con Corradino Mineo, Walter Tocci e Felice Casson ha ribadito l’intenzione di non ritirare il loro testo (Chiti era assente per un impegno a Strasburgo). Quando poi due renziani come Andrea Marcucci e Nicola Latorre hanno chiesto esplicitamente il ritiro del testo, la risposta è stata ancora più netta. «Non lo ritiriamo». Subito dopo è arrivata l’apertura al dialogo degli ortodossi del M5S, con il capogruppo Maurizio Santangelo a dire che quella di Chiti «è praticamente la nostra proposta fotocopiata. Presenta parecchie similitudini e dunque si può certamente ragionare se votarla».
In realtà, ancora una proposta ufficiale del M5s sulla riforma del Senato non è stata depositata. «Ci muoveremo come per la legge elettorale, con una consultazione sul web», spiega Santangelo. Nel frattempo però sono state rese note alcune linee guida, che riguardano il taglio di deputati e senatori, e l’elettività del Senato, insieme a una sforbiciata alle indennità di tutti i parlamentari. In una lettera al Corriere, Luigi di Maio ha in realtà fatto un elogio del bicameralismo paritario, definito un «meccanismo virtuoso». Mentre la proposta Chiti, pur lasciando l’elezione diretta dei senatori, prevede un drastico ridimensionamento del Senato nel processo legislativo ordinario, fatte salve alcune materie.
Mineo rilancia l’apertura dei 5 stelle: «Abbiamo votato con M5S la decadenza di Berlusconi, perché non dovremmo provare a votare insieme le riforme istituzionali?». Chiti, con l’Unità, parla della possibilità «di raggiungere una maggioranza molto ampia sulle riforme, compreso anche il M5S». Ma non solo. Anche Sel vuole l’elezione diretta. E Lega e Forza Italia potrebbero essere d’accordo. Chiti ribadisce: «Nessun ritiro del ddl, lo illustreremo in commissione poi, quando il relatore adotterà un testo base, valuteremo gli emendamenti. Ritirarlo vorrebbe dire che il governo mette una fiducia implicita su questa riforma. Ma non conviene a nessuno: queste riforme non si fanno a testuggine, noi vogliamo un confronto ampio e comunque l’elezione diretta è presente in altre proposte e dunque non scompare». Conclude Chiti: «Non ci faremo strumentalizzare da e saremo leali e responsabili». E Civati avverte: «A palazzo Madama c'è una maggioranza alternativa, con parte di Fi, Ncd e credo che stavolta i 5 Stelle ci staranno». Perciò «Renzi rifletta, non si può continuare ad andare avanti per diktat».
Il premier però non fa passi indietro: «Per noi è inderogabile che i senatori non vengano eletti. E a chi, anche nel Pd, lancia proposte che non hanno possibilità di essere realizzate, ricordo che non si può ripartire da capo dopo trent’anni di dibattiti. Al di là di qualche senatore con voglia di visibilità, il Pd ha discusso queste cose per anni, ha votato due volte in direzione».
Pierluigi Bersani, ricevuto ieri al Quirinale, manda un segnale di attenzione al gruppo di Chiti: «No a pasticci sul Senato, va bene fare prima delle europee per piantare la bandierina, ma bisogna mettere dei contrappesi. Io sono leale e per la ditta, ma il Parlamento deve poter apportare delle modifiche». Spiega l’ex leader Pd: «Nel combinato Senato-legge elettorale qualcosa deve cambiare. Stiamo mettendo nell’ordinamento un elemento corruttivo, ovvero la possibilità di fare 10 liste dell'1 per cento che ti fanno prendere il premio di maggioranza. Come pensate che vengano “ripagati” quelli lì? Ci rendiamo conto che chi vince poi ha tutto in mano, dal governo alla nomina del presidente della Repubblica?».
Il gruppo dei 25 senatori Pd guidati da Francesco Russo ha invece accolto la linea Zanda: «Si parte dal progetto del governo, ma con la possibilità di emendare in maniera significativa il testo: a partire dalle funzioni del nuovo Senato e dalla riforma del Titolo V». Le «modifiche non devono essere percepite come tabù o come il tentativo di sabotare », spiegano. Per i 25 nessuna insistenza sull’elezione diretta dei senatori: «Quella eventualmente arriverà dopo che avremo definito le funzioni di garanzia del nuovo Senato», spiega Russo. I 25 colgono come positive le aperture al dialogo del ministro Boschi e spiegano che «non intendiamo andare in cerca di avventure con il M5S». Anche tra i 22 di Chiti spuntano alcuni dubbi sull’operazione dei grillini. Una decina di loro, raccontano fonti Pd del Senato, sarebbero pronti a ritirare la firma del ddl nel caso in cui questo venisse usato dal M5S come una clava contro il governo.
Ieri il Quirinale ha dato via libera al ddl del governo con la firma del Capo dello Stato. Visti i tempi, qualcuno aveva ipotizzato che il Colle intendesse apportare dei ritocchi al testo. «È destituita di fondamento la notizia secondo cui sarebbero state apportate correzioni dalla Presidenza della Repubblica al testo trasmesso dal governo», spiegano fonti del Quirinale. Oggi inizia l’esame da parte dell’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato guidata da Anna Finocchiaro. Martedì prossimo nuova assemblea del gruppo Pd.

La Stampa 9.4.14
Il Pd si spacca sul Senato elettivo. E i grillini aprono
Civati: sul ddl Chiti ci sarebbe un’altra maggioranza
di Francesca Schianchi


Sul Senato elettivo «a Palazzo Madama c’è una maggioranza alternativa. C’è parte di Forza Italia, c’è Ncd, ci sono i grillini dissidenti e credo che stavolta, veramente, i Cinque Stelle ci staranno». A rinnovare l’allarme su quello che può succedere sul progetto di riforma del Senato, è, in serata, Pippo Civati. Un allarme scattato fin dal mattino, da quando i sottoscrittori della proposta alternativa presentata la scorsa settimana (primo firmatario Vannino Chiti) rifiutano di ritirare il proprio testo, e dal M5S arriva un’apertura grande come un palazzo, «ricalca la nostra proposta», fa sapere il capogruppo Vincenzo Santangelo, per cui lui e gli altri 39 pentastellati potrebbero votarlo, «credo proprio di sì». Non solo: pure il capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, ammette che molti senatori forzisti «sono convinti che un’elezione diretta sarebbe meglio», e quindi se l’accordo col Pd dovesse saltare, non è esclusa una convergenza sulla proposta Chiti.
«So che su questo tema ogni giorno ce n’è una, capisco l’ansia di visibilità nel mio e in altri partiti. Ma al di là del bisogno di dimostrare che si esiste lanciando ipotesi non realizzabili, confermo tutti gli impegni che ci siamo presi», taglia corto però in serata sul tema il premier. Si va avanti, insiste, mostrando di non essere granché preoccupato di un’ipotetica maggioranza alternativa o del venire meno di qualche voto, pur preziosissimo in Senato. Dei 22 firmatari Pd della proposta Chiti, i renziani sono convinti che almeno la metà voteranno il testo del governo, e buon segno sembra pure la nota dei 25 che firmarono un documento di critica una settimana fa, disponibili oggi a partire dal testo governativo. 
Si va avanti allora con il testo firmato dal ministro Boschi – Senato non elettivo composto da 148 membri senza indennità - che però solo ieri, a otto giorni dalla presentazione in conferenza stampa, il capo dello Stato ha potuto firmare, visto che ancora non gli era stata trasmessa la relazione illustrativa. Entro oggi, «e comunque nei prossimi giorni», garantisce Boschi, il testo arriverà in Commissione, per poi approvarlo in prima lettura entro il 25 maggio, data ribadita da Renzi. «Va bene anche piantare la bandierina entro le Europee perché vincere è importante, ma non bisogna fare pasticci. Con il Senato delle autonomie bisogna mettere dei contrappesi», predica l’ex segretario Bersani.
Per tentare di rendere più fluido il percorso, ieri nel corso di un’assemblea dei senatori Pd, il renziano Latorre ha chiesto ai 22 firmatari della proposta Chiti (106 membri elettivi, e la Camera dimezzata) di ritirare il testo: «Il nostro ddl resta sul tavolo», la risposta di Corradino Mineo. Anzi, valuta Felice Casson, andasse al voto sia il loro testo che quello del governo, «credo proprio prenderebbe più voti il nostro». A conferma, ammette il forzista Lucio Malan, «tra i due testi voterei il ddl Chiti. Quello del governo non lo voto nemmeno se me lo chiede Berlusconi in persona». Sul progetto Chiti c’è la disponibilità dei Cinque Stelle («il M5S potrebbe convergere», dice Morra), e i civatiani sono convinti ci sia tra i fuoriusciti del Movimento: il loro dialogo con ex pentastellati va avanti da tempo, anche ieri hanno avuto un incontro. Anche se qualcuno, come Battista, ha aperto anche all’ipotesi di confronto sul testo del governo. 
Dalle parti di Renzi si ribadiscono tempi e paletti. Lanciando anche qualche stoccata: «Mi sorprende il M5S», attacca il premier, «avevo capito che erano nati per altro e non per difendere le province o l’indennità dei senatori».

Corriere 9.4.14
Riforma in Senato, tensione nel Pd
E i 5 Stelle aprono alla minoranza
di Dino Martirano


Napolitano firma il disegno di legge del governo, via all’iter parlamentare I 22 del progetto Chiti insistono. Renzi: si discute ma indietro non si torna ROMA — Il capo dello Stato ha autorizzato il governo a trasmettere a Palazzo Madama, «senza modifiche», il disegno di legge che riforma il Senato, ridimensionandolo ad assemblea dei territori, e riscrive il Titolo V della Costituzione, togliendo molto alla potestà legislativa delle Regioni a favore di quella dello Stato.
L’atto è quasi dovuto da parte del Quirinale. Ma la firma apposta in ritardo di oltre una settimana ha creato un giallo sui contenuti che poi è stato chiarito da una nota dell’ufficio stampa del Quirinale: «Il disegno di legge costituzionale è stato firmato stamane (ieri,ndr ) dal capo dello Stato non appena pervenuta la relazione illustrativa. La trasmissione al Parlamento avviene a cura della presidenza del Consiglio. È pertanto destituita di fondamento la notizia secondo cui sarebbero state apportate correzioni dalla presidenza della Repubblica al testo trasmesso dal governo dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri». Dunque il Quirinale non ha perso tempo e non ha utilizzato la matita blu, mentre a Palazzo Chigi ci sono voluti otto giorni per completare una relazione illustrativa (inviata al Colle solo lunedì sera) che comunque appare lunga e complessa. Sta di fatto che l’ufficio di presidenza della I commissione del Senato convocato da Anna Finocchiaro potrà riunirsi solo oggi alle 14.30 per calendarizzare il ddl costituzionale del governo e un’altra decina di testi di iniziativa parlamentare.
È qui che nascono i problemi, molti interni al Pd, per la proposta del governo Renzi. Per questo due renziani di prima fila, Nicola Latorre e Andrea Marcucci, hanno chiesto un passo indietro a Vannino Chiti e agli altri 21 senatori democratici che hanno firmato un testo alternativo sulla riforma del Senato: «Li invitiamo ufficialmente a fare emendamenti al testo del governo», ha detto Marcucci. Ma la richiesta non è stata accolta (per ora) dai 22 senatori «fuori linea» che contano anche sulla sponda dei grillini, ora disponibili, seppure ci vorrà il responso della Rete, ad aperture sul ddl Chiti: «Il nostro testo resta sul tavolo», taglia corto Corradino Mineo (Pd). Mentre Felice Casson (Pd) ricorda: «Tutti i ddl di iniziativa parlamentare viaggiano in parallelo con quello del governo e poi si decide come emendare il testo base. Perché dunque ritirare un testo che raccoglie consensi anche tra i grillini, dentro FI e nel Ncd?». Chiti (assente all’assemblea del gruppo) è meno spigoloso: «La mia intenzione non è quella di creare ostacoli né quella di farci strumentalizzare per battaglie contro il governo».
Tutto questo, però, cozza contro il calendario di Renzi che aspira a chiudere la prima lettura al Senato entro le Europee del 25 maggio. Il premier dunque si prepara a sparare le sue cartucce: «Sono convinto che si va avanti. Quanto al mio partito, al di là di qualche senatore alla ricerca di visibilità, ricordo che si è discusso per anni e votato con le primarie le varie proposte, confido nella maggioranza dei senatori. Il testo si può migliorare ma deve rimanere l’idea di uno Stato più leggero».
Il punto è la composizione del Senato. Renzi lo vuole di 148 membri non eletti a suffragio universale mentre Chiti ne prevede 106 scelti dal popolo. La differenza è quella che intercorre tra un organo non politico e uno politico: «Discuto ma indietro non si torna, le riforme sono la precondizione per la ripresa economica», avverte il premier. Ma quando è sera, esponenti del governo si fanno vedere a Palazzo Madama per sondare quanto c’è di vero nella possibile saldatura sul Senato elettivo tra i 22 «fuori linea», il M5S e un’aliquota di FI e Ncd. Così Renzi attacca i grillini che strizzano l’occhio alla minoranza del Pd: «Mi sorprendono, avevo capito che erano nati per altro, non per difendere i senatori». Mentre a Paolo Romani (FI) che minaccia «di votare con Chiti e il M5S» replica che il «patto con Berlusconi è un altro».

Corriere 9.4.14
Bersani: il testo va cambiato
Servono contrappesi o chi vince si prende tutto
di Monica Guerzoni


ROMA — «Io sono leale, responsabile e voglio bene alla ditta. Ma prima di tutto, viene l’Italia. Le riforme facciamole, però senza pasticci. Perché qui c’è in gioco la democrazia». Pier Luigi Bersani è appena sceso dal Colle, dove è stato ricevuto dal capo dello Stato. Approda nel Transatlantico di Montecitorio, incassa complimenti per la cravatta rosso-quirinalizio e si vede subito che ha voglia di parlare: «Ho salvato il cervello e non intendo consegnarlo». L’ex segretario del Pd, pienamente ristabilito dopo l’intervento, ce l’ha con la riforma costituzionale e le sue parole puntano dritto a Palazzo Chigi: «Il combinato disposto tra Italicum e Senato delle autonomie è inaccettabile. Se c’è il monocameralismo bisogna prevedere dei contrappesi. Non è possibile che chi vince prende tutto, governo, presidente della Repubblica, nomine...».
Con i senatori democratici divisi in due blocchi, renziani da una parte e neo riformisti dall’altra, Bersani sposta il suo peso sul secondo piatto della bilancia: quello del disegno di legge di Vannino Chiti, sottoscritto da una robusta fronda di 22 senatori. «Va bene andare avanti, ma prendiamoci una serata per discutere e pensare a un progetto per il futuro dei figli, che sia democratico e che regga negli anni. Non facciamo l’errore del Titolo V, per poi ritrovarci tra cinque anni con un bel pasticcio. Parliamone e sono sicuro che una soluzione la troviamo». Linea dura. Ma il punto non sono i tempi, è il merito. Renzi vuole arrivare al 25 maggio con la riforma approvata in prima lettura: «Va bene anche piantare la bandierina entro le Europee, perché vincere è importante, ma non possiamo sbagliare. Adesso va di moda risparmiare e quindi facciamo pure il Senato non elettivo, però con i necessari contrappesi». E la Camera? Ha un senso che restino 630 deputati mentre i senatori scendono da 315 a 148? «No, con 630 deputati non può funzionare e potremmo averne di meno anche qui. Un Senato di nominati è inaccettabile». Ha ragione chi insiste nel voler eleggere i senatori? «Aspettiamo il testo base e poi presenteremo i nostri emendamenti. Qualche correzione sarà indispensabile».
E qui Bersani si lancia in un ragionamento che non aveva mai fatto prima. Ricorda che lui, dopo le Politiche del 2013, si affrettò a dichiarare di non aver vinto: «Invece il ventennio berlusconiano è finito e il Pd si è preso tutto. Adesso tocca a noi. Ma c’è un aspetto che non possiamo sottovalutare, il Pd si chiama democratico perché abbiamo a cuore la democrazia». Lo preoccupa la legge elettorale, con quella soglia «inaccettabile» per i partiti coalizzati: «Stiamo attenti a non inserire nel sistema un elemento corruttivo, perché liste e listine di pensionati, vedove o via elencando, che senza ottenere un solo parlamentare concorrono a far vincere il premio, provocano un rischio di corruzione altissimo. Se con il 25% il tuo partito prende tutto, Parlamento, governo, Quirinale e Corte costituzionale, qualcosa in cambio gli devi dare, giusto? Soldi, nomine, ricompense...». La sirena di Montecitorio richiama i deputati e Bersani saluta per infilarsi in Aula: «Vado a votare». Un’ultima domanda, onorevole. Le è tornata la voglia di riprendersi la ditta? «Ma no, abbiamo già dato — allarga le braccia Bersani — guidare il Pd è faticoso!».

Repubblica 9.4.14
Minoranza Pd in trincea Bersani: “Quella roba va bene in Sud America”
di Alberto Custodero


ROMA. Il ddl di Vannino Chiti per un Senato elettivo, sostenuto da 22 senatori democratici, e le «modifiche» richieste dall’ex segretario Bersani, dividono il Pd. Dal premier, però, arriva il richiamo alla minoranza interna: «Al di là di qualche senatore in cerca di visibilità che nei fatti prova a oscurare il lavoro di tantissimi uomini e donne del Pd, il partito ha discusso queste cose per anni. E le proposte sono state votate più volte». Il segretario-premier apre a «modifiche» ed è «pronto a migliorare». Ma poi fissa i paletti irrinunciabili della sua «idea di Stato» che ispira la riforma costituzionale. «Lo Stato dovrà essere più leggero». «Chi fa politica non la fa per sempre. Non la fa per prendere super stipendi. Ma la fa per servizio». Renzi si dice «ottimista di portare a casa il risultato». Se l’intenzione di Renzi è di blindare la riforma - unico modo per incassare l’ok del Senato prima delle elezioni europee - Bersani insiste nel chiedere «modifiche». Secondo l’ex segretario, quello che va aggiustato nel pacchetto riforma del Senato-legge elettorale sono i «contrappesi» necessari e che, al momento, mancano. Bersani, inoltre, è critico sui tempi. «Va benissimo essere rapidi e chiudere entro il 25 maggio - ammonisce l’ex segretario - ma non sbrigativi. Altrimenti si fanno solo pasticci. Prima occorre fare degli aggiustamenti». La falla nello schieramento del partito di maggioranza relativa si apre proprio all’indomani dell’aut aut di Renzi a Berlusconi: o ci stai a fare le riforme con noi, o io vado avanti lo stesso. Ma non è solo il Pd a preoccupare Renzi: il forzista Paolo Romani rilancia l’elezione diretta dei senatori mentre Giovanni Toti, consigliere politico di Fi, chiude alle intese con i M5S: «Non credo che faremo maggioranze parallele sulle riforme con pezzi del Pd e dei grillini. C’è un patto, andiamo avanti con serietà». È lo stesso Renzi a chiudere all’accordo coi grillini. «I Cinque Stelle mi sorprendono - ha detto il premier - avevo capito che erano nati per altro non per difendere i senatori». L’iter, intanto, va avanti. Il progetto di riforma passa dal Quirinale, viene girato al Senato («senza correzioni», sottolinea attento alle polemiche il Quirinale), quindi prontamente passa alla Prima commissione, la Affari Costituzionali.

Repubblica 9.4.14
Vannino Chiti
“La disciplina di partito non vale in questo caso e io ho i voti di M5S e Fi”
di Lavinia Rivara


ROMA. «Non cerco visibilità e non ho fondato correnti. Anzi, sono l’unico chitiano d’italia. Ma il Pd non può essere un partito plebiscitario». Vannino Chiti al telefono è un fiume in piena; è a Strasburgo per l’assemblea del Consiglio d’Europa mentre al Senato sulla sua riforma del bicameralismo si coagula un fronte anti-Renzi che va dai 5Stelle a Forza Italia, passando per un fetta della minoranza pd. «Io non sono anti-renziano - ci tiene a precisare - Nel 2009, quando Matteo era presidente della Provincia, mi propose di candidarmi sindaco di Firenze con il suo sostegno. Rifiutai perché ritenevo giusto un ricambio generazionale. E si candidò lui».
Però lui ora l’attacca. Parla di senatori del Pd in cerca di visibilità e di proposte che non hanno nessuna possibilità di essere approvate.
«Non cerco nessuna visibilità, voglio solo una buona legge. Renzi dice che il mio testo non passerebbe? Stando alle dichiarazioni senza il ddl e il diktat del governo la nostra proposta potrebbe avere il sì non solo della maggioranza, ma anche di Forza Italia e M5S. Non mi sembrerebbe un esito politico disprezzabile».
Il Pd però ha dato via libera al testo del governo. Se lei ne mantiene uno alternativo che fine fa la disciplina di partito?
«Qui si modifica la Costituzione. C’è un dovere di responsabilità, autonomia e coerenza con la propria coscienza oppure no? Altrimenti non saremmo il partito democratico, né un partito personale: saremmo un partito plebiscitario e autoritario. Altro che sinistra europea. Ma non è neppure pensabile che sia così».
Ma perché insistere sull’elezione dei senatori quando neanche tutta la minoranza del suo partito è d’accordo?
«Se la Camera da sola dà la fiducia al governo e ha l’ultima parola sulle leggi, il Senato deve essere una istituzione di garanzia, mantenere un ruolo paritario su Costituzione, ordinamenti Ue e leggi elettorali. Quindi non può essere un’assemblea casuale, senza pluralismo politico (col testo Boschi oggi Fi sarebbe irrilevante, M5S e Sel di fatto assenti) e senza presenza femminile. La cosiddetta minoranza (ma votano sempre tutti a favore tranne Fassina) vorrei mi spiegasse come sta insieme una legge iper maggioritaria alla Camera, senza neanche le preferenze, e un Senato di nominati. La Costituzione non si può stiracchiare. Altrimenti si producono scempi».
Non teme di essere usato da 5Stelle e Fi per dividere i democratici? E come voterà se non saranno accolte le sue tesi?
«Non mi faccio strumentalizzare dai grillini, come Renzi non si fa strumentalizzare né strumentalizza Verdini. Guardo ai contenuti, non invento trappole per il governo né ostacoli per le riforme. Come voterò? È prematuro dirlo. Illustreremo in commissione il nostro ddl, poi il relatore presenterà un testo base e su quello proporremo eventuali emendamenti. Auspico solo che tutti, governo, gruppi, singoli, si ricordino quale fu l’atteggiamento di chi ci ha consegnato la Carta costituzionale. Il governo di unità nazionale venne meno ma la Costituzione fu approvata quasi all’unanimità ».

Repubblica 9.4.14
Pd
Fronda sul Titolo V “Il testo di Matteo non ci convince”
di Giovanna Casadio



ROMA. Ma c’è anche un altro fronte aperto nel Pd: è quello del federalismo. La protesta per la verità parte dalle Regioni che sono sul piede di guerra sul Titolo V - quella parte della Costituzione che definisce chi fa cosa tra Stato e Regioni e che fu cambiata nel 2001 dal centrosinistra a maggioranza con solo quattro voti di scarto. Fonte di contenziosi senza fine davanti alla Consulta per via delle competenze concorrenti. La riunione dei “riformisti” dem, la minoranza del partito che è maggioranza nei gruppi parlamentari, stasera al suo secondo appuntamento nella sala Berlinguer di Montecitorio, comincerà proprio da qui. E la “fronda federalista” s’ingrossa.
«È una contraddizione: mentre si sta trasformando il Senato in Camera delle autonomie, si toglie alle Regioni autonomia», denuncia Davide Zoggia. Esempi concreti? Zoggia è veneto, ex presidente della Provincia di Venezia, ricorda i carri armati finti dei secessionisti in piazza: «Non ci dev’essere bisogno di quelli per ascoltare certe istanze, ovvero la richiesta di una diversa pressione fiscale e la possibilità di sburocratizzare». Il Titolo V nella versione di Renzi restituisce allo Stato competenze, sopprime buona parte dell’articolo 116, riscrive il 117. Quindi reti energetiche, turismo, trasporti, protezione civile, infrastrutture tornano nelle mani dello Stato. Bene? Ad alcune condizioni, secondo Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni. Ipotizza, Errani, una bicamerale che chiarisca senza equivoci le competenze delle Regioni. L’esempio più delicato è quello della Sanità su cui l’attenzione dei governi non può che essere massima visti i buchi in bilancio. Se la Sanità è nazionale - spiega Errani - resta evidente che la gestione e l’organizzazione spetta alle Regioni. Zoggia pensa a geometrie variabili, ovvero le Regioni virtuose si tengono la competenza e le altre no. Al Senato quindi l’assemblea del Pd di martedì non si sfiderà solo sul “controtesto” di Chiti e i 22 dissidenti sulla composizione del nuovo Senato. Laura Puppato, senatrice dem, avverte che sul Titolo V va fatto «un grosso lavoro, non può essere diversamente, dal momento che le cose si intersecano, ovvero il ruolo delle Regioni e il Senato delle autonomie».
Bersani, l’ex segretario democratico, ammette che sul Titolo V nel 2001 il centrosinistra fu sbrigativo e che se una volta già la fretta ha fatto gattini ciechi, «non è il caso ora di correre troppo». Il testo è in fase di correzioni e si studiano emendamenti sia da parte del ministro Maria Carmela Lanzetta che del sottosegretario Graziano Delrio. Inoltre c’è la proposta-appello di tre parlamentari dem per macroregioni nella riforma del Titolo V. La firmano Dario Ginefra, Enzo Amendola e il renziano Ernesto Carbone. L’idea è piaciuta e pare raccogliere consensi trasversali su un «macro regionalismo in chiave glocal». Più soft gli accorpamenti a cui pensano altri democratici, però sempre in chiave semplificazione e riordino. «Se abbiamo soppresso le Province, perché non pensare ad accorpare alcune Regioni?», ragiona Zoggia. Le più piccole come l’Umbria e poi la Basilicata e anche il Molise. Altra questione aperta: hanno ancora un senso le Regioni a statuto speciale? La vice segretaria del Pd, Debora Serracchiani, ha garantito che alle Regioni speciali non si applicherà la modifica del Titolo V e comunque il testo sarà rivisto.

Il Sole 9.4.14
Luigi Zanda. Capogruppo Pd al Senato
«Il prossimo.  passo sarà il premierato»
«Va previsto il referendum confermativo del Ddl sul Senato anche nel caso di approvazione con i 2/3»
intervista di Emilia Patta


ROMA «Chiuso con bicameralismo e Titolo V, dovremmo affrontare il tema del cancelleriato, ossia il rafforzamento, in termini di efficacia, dei poteri del governo e del premier»: il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda lancia la palla più in alto. Proprio mentre la fronda dei 22 senatori democratici sul Ddl di riforme presentato dal governo stenta a rientrare, e anzi rischia di saldarsi con il niet dei grillini, propone quel premierato soft alla tedesca, senza elezione diretta, che potrebbe essere la saldatura che ancora manca con il mondo forzista in subbuglio. Il Cancelliere – ricordiamo – non è eletto direttamente ma ha quattro poteri fondamentali previsti dalla Costituzione tedesca (articolo 63, 64, 67 e 68): la fiducia della Camera (Bundestag) è data al Cancelliere e non all'intero governo; il Cancelliere propone la nomina e anche la revoca dei ministri; il Cancelliere può chiedere lo scioglimento anticipato se battuto sulla fiducia; è previsto il meccanismo della sfiducia costruttiva.
«Una volta razionalizzato e reso più efficiente l'iter legislativo con la fine del bicameralismo perfetto, riforma di cui si discute da 25-30 anni e che ora non è più rinviabile, credo che i tempi siano maturi per affrontare il tema del premierato – è il ragionamento di Zanda –. Si tratta nell'insieme di riforme necessarie anche per modernizzare un percorso decisionale che così com'è non rappresenta una democrazia compiuta ed è un ostacolo allo sviluppo economico del Paese. L'Italia fatica molto più dei partner europei a scrollarsi di dosso la crisi economica proprio per il deficit di efficienza istituzionale e la debolezza della sua macchina pubblica».
«Fine del bicameralismo perfetto con la trasformazione del Senato in Senato delle autonomie, riforma del Titolo V, abolizione del Cnel, riforma costituzionale delle Province, legge elettorale»: il pacchetto già in campo, al quale Zanda aggiunge la riforma dei regolamenti parlamentari, si tiene tutto insieme e a questo punto qualsiasi ritardo sarebbe non solo esiziale per il Paese, sottolinea Zanda parlando alla fronda democratica, ma anche a Fi, ma addirittura «autolesionistico»: «La fame e la sete di riforme che ora ha l'Italia dipendono da questi decenni di errori ed omissioni della politica e della classe dirigente».
Sulla fine del bicameralismo perfetto, tuttavia, sulla carta sono tutti d'accordo, anche i critici. Quello che chiedono i senatori democratici che hanno sottoscritto il Ddl Chiti, così come i senatori di Fi e quelli del Ncd, è di mantenere l'eleggibilità del nuovo Senato delle autonomie. Ma proprio questo – la non eleggibilità e la conseguente mancanza di indennità – è uno dei punti ritenuti imprescindibili dal premier Matteo Renzi. Può esserci composizione su questo nella discussione in atto in Senato? «Non si può dire che i nuovi senatori previsti dal Ddl del governo – dice Zanda – non siano eletti perché saranno tutti eletti dai cittadini nei consigli comunali e regionali, e per di più saranno tutti eletti con sistemi elettorali che prevedono le preferenze, e dunque saranno tutto fuorché nominati. Ma ad un Senato eletto direttamente con suffragio universale, come si chiede, non potrebbe essere negato il voto di fiducia e allora verrebbe meno il cuore della riforma che è appunto la fine del bicameralismo perfetto. Ricordo poi, per quanto riguarda il Pd, che la linea politica pluridecennale del centrosinistra su questo tema è quella di Senato delle autonomie non eletto direttamente».
Già, il Pd. Non vale in questo caso la disciplina di gruppo? «Mi limito a dire che in questa legislatura non abbiamo mai fatto ricorso alla disciplina di partito...», è la notazione-avvertimento di Zanda, fiducioso che il dissenso interno si ricomporrà e che alla fine anche Fi parteciperà al processo riformatore. Ma in ogni caso, propone, «va previsto il referendum confermativo, anche con i due terzi dei voti favorevoli»: «La questione di fondo è che stiamo modificando l'assetto del potere legislativo, fondamento di tutte le democrazie, quindi prevedere il referendum confermativo è necessario».

La Stampa 9.4.14
Ora è a rischio la maggioranza di due terzi
di Marcello Sorgi


La presentazione del Def da parte del governo è servita a Renzi a chiudere almeno una parte delle polemiche che hanno accompagnato le prime decisioni del governo: adesso infatti sono chiare le coperture degli impegni presi nelle scorse settimane, a cominciare dagli ottanta euro che dovrebbero arrivare a maggio nelle buste paga dei meno abbienti, e dal taglio degli stipendi dei dirigenti pubblici. Una redistribuzione di reddito pagata in parte anche con l’aumento della tassazione delle banche che avevano usufruito della rivalutazione delle proprie quote di Bankitalia e in modo da dare un’indiretta risposta a Grillo, che aveva accusato il governo Letta di aver fatto un favore ai banchieri.
Ma per un fronte che, se non proprio chiuso, almeno è sotto controllo, un altro ne rimane aperto. Nella partita delle riforme aperta al Senato, Renzi infatti ha incassato l’approvazione del testo da parte del Quirinale (Napolitano ha voluto accompagnarla con una nota in cui smentiva di essere intervenuto chiedendo, o addirittura imponendo, modifiche), ma in un quadro politico che rende complicato l’iter parlamentare delle proposte.
Mentre infatti Berlusconi, dopo il colloquio telefonico di lunedì sera con il presidente del consiglio, continua a chiedergli un nuovo incontro, per sottolineare il contributo che il centrodestra conferma di voler dare al processo riformatore, ed evitare che Renzi possa attribuirsene interamente il merito alla vigilia del voto per Strasburgo, la sinistra Pd capeggiata da Chiti a Palazzo Madama non rinuncia al proprio progetto di riforma, alternativo a quello di Palazzo Chigi.
Il gioco di sponda tra i senatori Democrat - che insistono per mantenere il Senato elettivo (un punto giudicato inaccettabile da Renzi) - e il Movimento 5 stelle è ormai venuto allo scoperto, ed anche se la proposta Chiti non ha molte possibilità di passare, l’asse trasversale tra la minoranza Pd e i grillini potrebbe pesare, e in qualche caso prevalere, sugli emendamenti, e impedire che fin dalla prima delle quattro votazioni previste per la revisione della Costituzione possa manifestarsi una maggioranza di due terzi, rendendo così necessario il referendum popolare sulla riforma.
Renzi rischia così di ottenere una prima approvazione della riforma entro il 25 maggio, data del voto europeo, ma a patto di un nuovo negoziato faccia a faccia con Berlusconi e di una rottura con una parte del gruppo parlamentare Pd al Senato. Un prezzo troppo alto da pagare per il premier che al successo delle riforme ha legato la propria sorte politica. Anche per questo, tra una spiegazione e l’altra sul Def, ieri sera a Palazzo Chigi ha lasciato intendere che di questa materia tornerà ad occuparsi in prima persona.

Corriere 9.4.14
Quegli impegni da rispettare
Il Def, Documento di economia e finanza, approvato ieri dal governo Renzi, è fondato sulla stessa scommessa dei precedenti, tutti purtroppo smentiti dai fatti
di Enrico Marro


Il Def, Documento di economia e finanza, approvato ieri dal governo Renzi, è fondato sulla stessa scommessa dei precedenti, tutti purtroppo smentiti dai fatti: la ripartenza del Prodotto interno lordo, dallo 0,8% quest’anno all’1,9% nel 2018. Ma c’è da dire che questa volta lo sforzo dal lato delle misure per sostenere la domanda è più forte che in passato e si somma a quello già fatto dal governo Letta, sia sul fronte delle detrazioni fiscali in busta paga sia sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione verso le aziende.
La spinta ai consumi che dovrebbe arrivare dagli 80-100 euro in più al mese (considerando anche i 18 euro di Letta) per i redditi bassi, unita alla liberalizzazione delle assunzioni a termine già decisa col decreto Poletti, pone le basi per invertire il ciclo, anche se per riportare la disoccupazione sotto il 12% lo stesso governo prevede che bisognerà aspettare fino al 2017. I segnali positivi che arrivano su un ritorno del clima di fiducia tra cittadini e imprese e le previsioni di ripresa dell’economia mondiale autorizzano comunque un certo ottimismo. A patto che le tante riforme indicate nel Def siano realizzate presto e bene.
Non bisogna infatti dimenticare che il Documento è solo un piano pluriennale che richiede specifici provvedimenti di legge di attuazione, a cominciare dal decreto sugli sgravi fiscali per i lavoratori dipendenti e per le imprese (Irap). I 4,5 miliardi di tagli strutturali della spesa previsti per finanziare il bonus in busta paga dovranno superare indenni le prevedibili imboscate parlamentari (e forse è bene che il governo metta già in conto di dover ricorrere al voto di fiducia). Poi toccherà alla riforma della pubblica amministrazione, banco di prova decisivo per verificare se il governo sia in grado di vincere le resistenze corporative della potente macchina burocratica. Quindi sarà la volta del fisco, dove non basterà la pur importante novità di mandare la dichiarazione dei redditi precompilata a casa dei dipendenti pubblici e dei pensionati. Il nuovo fisco dovrà essere via via più leggero, di pari passo con la riduzione della spesa pubblica improduttiva e il recupero dell’evasione. Tutte queste riforme dovranno essere portare a casa entro giugno, insieme con l’approvazione del disegno di legge delega sul lavoro, altrimenti la spinta innovativa del Def resterà sulla carta.
Il percorso di aumento del Pil è «aderente alla realtà» e «prudenziale», hanno detto Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma comunque tale da assicurare la riduzione del debito prevista dalle regole europee del Fiscal compact senza bisogno di manovre aggiuntive. Si tratta di un percorso alla portata e che del resto non ha alternative. Il Paese non può permettersi di perdere anche questa volta la scommessa della crescita.

il Fatto 9.4.14
I miracoli e la realtà
di Stefano Feltri


In un romanzo di Gianni Rodari, il centenario barone Lamberto pagava la servitù per ripetere il suo nome tutto il giorno, perché da questo traeva vigore, ringiovaniva, addirittura resuscitava. Il premier Matteo Renzi ci costringe a commentare quotidianamente gli “80 euro in busta paga”, come se bastasse questo per farli apparire nel cedolino mensile, per spazzare via il clima cupo da crisi e magari far prendere qualche voto in più al Pd alle Europee. Ieri il governo ha presentato il Documento di economia e finanza che fissa i conti pubblici su cui lavorare. E Renzi, a beneficio dei tg della sera, ha scandito: “Gli italiani avranno la quattordicesima grazie a noi”. A forza di sentirlo, qualcuno potrebbe pensare che il governo abbia già approvato tutti i provvedimenti necessari, che si debba solo attendere maggio per ricevere i soldi. Non è così. Le coperture sulla carta ci sono. Ma trovare 4,5 miliardi tagliando sprechi non è facile, specie se chi vive di quegli sprechi protesta e vota. Privatizzare per 12 miliardi in otto mesi è arduo, se si vuole vendere e non svendere. Oltre 2 miliardi derivano da un’altra misura incerta, il pagamento dei debiti arretrati della Pubblica amministrazione. Certo, si può sempre spendere un po’ in deficit, visto che nei numeri di ieri l’Italia resta ampiamente sotto il tetto del 3 per cento. Ma Renzi si espone a due rischi: il primo è che il mantra degli “80 euro” gli si ritorca contro a settembre, quando nella legge di stabilità emergeranno i buchi nelle coperture che l’entusiasmo di oggi consente di ignorare. E che gli elettori rivivano la farsa dell’Imu, rinata come Tasi. Secondo rischio: che anche con 80 euro in più in tasca i milioni di italiani a basso reddito si accorgano che continuiamo a crescere come la Grecia, che i tagli simbolici alla casta non spingono il Pil, che il bonus elettorale non basta. A promettere miracoli si rischia che qualcuno ci creda davvero.

il Fatto 9.4.14
Uccidendo sanità e statali, così Matteo paga la 14esima
“Non saranno lineari”. Ma i tagli su ospedali e medicine si faranno
di Marco Palombi


Secondo Matteo Renzi chiamarla “manovra elettorale” è impreciso, forse addirittura malevolente, eppure non c’è modo di chiamarla altrimenti. Gli obiettivi scelti, le parole usate, i numeri sottostanti il Documento di economia e finanza (Def) approvato ieri altro non sono che un piccolo manuale di comunicazione politica: i pensionati non si possono colpire, mentre le banche (giustamente), la Sanità (che fa rima con sprechi) e il pubblico impiego sì (e non solo i manager, come vedremo); si dice che la riduzione dell’Irpef per chi guadagna meno di 25mila euro è “strutturale” come le coperture che la finanziano e non è vero; si fanno previsioni per il futuro che solo con un eufemismo possono essere definite rosee (e infatti il Fmi le ha già bocciate) e questo proprio mentre si dà il via ad una operazione recessiva che taglia stipendi e domanda pubblica diretta per dare la 14esima elettorale entro maggio agli elettori (già cittadini). Un breve riassunto per punti.
GLI 80 EURO. I soldi ci sono, il decreto arriverà venerdì prossimo (il 18 aprile), in tempo per le buste paga di maggio. Costa per gli otto mesi del 2014 circa 6,6 miliardi, 10 l’anno a regime. Le coperture, però, al momento sono indicabili solo da qui a dicembre: per 4,5 miliardi saranno strutturali e arriveranno dai tagli della spending review, un altro miliardo dall’aumento dell’aliquota sulle plusvalenze delle banche dovute alla rivalutazione delle aliquote di Bankitalia, il resto dai maggiori introiti Iva generati dal pagamento di circa 40 miliardi di debiti commerciali della Pubblica amministrazione. È la quattordicesima che il governo di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan paga agli italiani in vista delle elezioni europee per tutto il 2014. Come abbiamo già scritto, per rendere il provvedimento valido strutturalmente servirà la legge di Stabilità con la formalizzazione dei tagli del commissario Cottarelli.
IL MASSACRO DEI TAGLI. Ottenere 4,5 miliardi di risparmi in otto mesi è un’operazione difficile e dolorosa. Il menu, checché ne dica il premier, non è deciso, ma si sa che a dare la maggior parte delle risorse saranno Sanità e pubblico impiego: il Servizio sanitario nazionale dovrà sopportare tagli tra uno e due miliardi; gli stipendi degli statali - e non solo quelli dei manager, ma dalle simulazioni in corso anche quelli da 60-70mila euro l’ anno - verranno colpiti per almeno un altro miliardo (è il caso di ricordare che i contratti non vengono rinnovati dal 2010 e che i numero dei dipendenti è sceso, dice il Def, del 5,7% in pochi anni); 800 milioni, forse più, sono riduzioni lineari di acquisti di beni e servizi trasversali a tutte le amministrazioni; 600 milioni dovrebbero arrivare dalla Difesa (più sui nuovi arruolamenti che dai tagli ai sistemi d’arma); il resto sforbiciando qua e là in ministeri e enti locali. Le reazioni degli interessati già oggi non sono di felicità: la guerra nei prossimi dieci giorni s’annuncia durissima. In ogni caso, e nonostante le parole del premier e del suo ministro dell’Economia, se si fissa un obiettivo di risparmio preventivo per macrosettore il taglio è lineare.
IL FANTASMA IRAP. Renzi conferma: riduzione del 10% subito finanziata, par di capire, dall’aumento dal 20 al 26% dell’aliquota sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato). Il governo cifra il taglio di tasse a 2,4 miliardi e il gettito della copertura a 2,6 miliardi: peccato che per la Ragioneria generale il gettito sarà al massimo di 1,4 miliardi. Tradotto: i soldi, ad oggi, non ci sono.
L’ETERNO PRIVATIZZARE. Anche Renzi e Padoan puntano sulla vendita delle partecipazioni del Tesoro tipo quella in Enav e Poste già passata in Parlamento grazie ad un provvedimento di Enrico Letta (del patrimonio immobiliare, ormai, non si parla neanche più). L’esecutivo scrive nel Def che frutteranno 12 miliardi di euro l’anno dal 2014 al 2018. A parte che è impossibile, l’operazione in alcuni casi è persino in perdita: vendere Eni comporta un incasso subito, vero, ma una perdita per sempre di parecchi milioni di euro l’anno in dividendi.
IL FUTURO IN ROSA. A leggere il Def, vivere in Italia nei prossimi anni sarà un vero colpo di fortuna: Pil che torna a crescere dello 0,8 % quest’anno e di quasi il 2 nel triennio; un balzo delle importazioni che in due anni passano dal -2,8% del 2013 al +4,4% dell’anno prossimo; persino i poveri consumi delle famiglie dopo anni di flessioni tornano a crescere già quest’anno e prendono il volo dal 2016, l’anno fatidico - sia detto en passant - in cui raggiungeremo il pareggio di bilancio strutturale. E che dire degli investimenti? Nel 2013 sono crollati del 4,7 con la decisiva collaborazione del settore pubblico, quest’anno già schizzeranno su del due per cento per poi mettersi a correre a ritmi superiori al 3% l’anno dal 2015 in poi. E le esportazioni? A parità di cambio col dollaro (previsto fisso a 1,362) l’anno scorso sono aumentate dello 0,1%, nel 2014 cresceranno invece del 4% mantenendo questo ritmo almeno fino al 2018. Come sempre a leggere i Def, non si può non pensare quanto sarà bello vivere in Italia in futuro. MANOVRA RECESSIVA. Sostiene il governo che le sue manovre garantiranno un aumento del Pil dello 0,3% già quest’anno per poi spingere il Prodotto a ritmi sempre più sostenuti fino al +2,1% aggiuntivo del 2018. È curioso perché tra le operazioni annunciate da Renzi ci sono manovre espansive come il pagamento dei debiti della P.A. o i cantieri per l’edilizia scolastica e il dissesto idrogeologico, però pure una manovra pesantemente recessiva come quella degli 80 euro: durante le crisi infatti, come testimoniano i moltiplicatori utilizzati dal Fmi, solo la domanda pubblica (stipendi e, meglio, acquisti e appalti) garantisce di non sprofondare, mentre i tagli di tasse mai si traducono del tutto in consumi. Utilizzando quei moltiplicatori, la manovra elettorale di Renzi è recessiva per una cifra che si aggira - a regime - attorno ai dieci miliardi di euro (lo 0,7% del Pil). Poco male: se ne parlerà dopo le elezioni.

Repubblica 9.4.14
Gli spazi bianchi tra righe e numeri
Coperture a rischio un terzo una tantum e 3 miliardi di tagli sono già impegnati
di Federico Fubini



IL DIFFICILE inizia adesso. Il governo ieri ha presentato uno scheletro di grandezze di bilancio astratte e poche sorprese, di cui quella di un debito che sale sempre di più verso quota 135% del Pil. Ora però gli spazi bianchi fra le righe dei numeri, quello scheletro di intenzioni, vanno riempiti con una materia di cui si parla attentamente molto poco.
L’ANALISI. TAGLI di spesa che rischiano di scontentare fasce sempre più ampie di elettori e non più solo ristrette élite di mandarini di Stato ben pagati.
Il merito del Documento di economia e finanza (Def) passato in consiglio dei ministri in tempo per i tiggì della sera è nel suo sforzo di realismo. Non capita spesso che il ministro dell’Economia formuli una previsione di debito per l’anno in corso peggiore di quella sfornata poche ore prima dal Fondo monetario internazionale. Quanto alla crescita, almeno per quest’anno quella prevista dal Tesoro non è follemente più euforica di quanto ritengano gli osservatori esteri. Lo è solo un po’. L’Fmi per esempio pensa che il Pil salirà quest’anno dello 0,6% e per l’Ocse la stessa previsione è stata formulata di recente fa sotto il controllo di un capoeconomista di nome Pier Carlo Padoan. Ora Padoan, indossato il cappello di ministro dell’Economia di Matteo Renzi, vede una ripresa un po’ più forte allo 0,8%. Negli anni prossimi l’ottimismo cresce in progressione geometrica, ma per l’immediato c’è senz’altro un tentativo di fondare la finanza pubblica su un po’ più di realismo.
Il problema è che le scelte ponderate finiscono qui. Il nucleo del Def approvato ieri, un taglio alle tasse da dieci miliardi sui redditi bassi, solleva domande in chiunque lo affronti con il pallottoliere dei conti anziché con le ali della politica. In primo luogo lo fa sulla natura delle coperture all’ammanco di cassa. Esse dovrebbero da garantire, almeno nelle promesse, che il deficit pubblico non aumenterà e a prima vista queste contromisure svolgono tutto il loro lavoro. Lo sgravio fiscale quest’anno peserà 6,6 miliardi di euro (poiché varrà solo da maggio, non da gennaio) e sarà garantito da tre voci diverse: 4,5 miliardi di tagli di spesa; circa un miliardo di prelievo supplementare dalle banche sul guadagno di 7 miliardi registrato rivalutando per decreto di governo le loro azioni in Bankitalia; e ancora circa un miliardo dal gettito Iva prodotto dal pagamento degli arretrati dello Stato alle imprese.
Messo alla prova però l’intero edificio vacilla paurosamente. Le entrate dell’Iva legate alla liquidazione dei debiti dello Stato non rappresentano nuove risorse, ma solo l’anticipo di ciò che sarebbe successo in futuro quando quelle fatture sarebbero state comunque pagate. In altri termini, si sta spostando una posta di bilancio da un anno all’altro e si creerà dunque un ammanco equivalente negli prossimi esercizi. Resta solo una misura «una tantum» per finanziare un taglio di tasse che invece è permanente.
Ancora più controversa la scelta di tassare le banche sulle loro azioni di Bankitalia perché è sensato che gli istituti versino imposte in più, ma nel migliore dei casi anche in questo caso si tratta di «una tantum » irripetibili: un altro buco da colmare l’anno prossimo. Ma soprattutto, sull’intera operazione delle quote Bankitalia gravano obiezioni di Bruxelles perché la drastica rivalutazione delle quote per decreto sembra essere un aiuto di Stato illegale. Se poi le banche realizzassero la loro plusvalenza rivendendo le proprie azioni alla stessa Bankitalia, quindi girando parte del ricavato al Tesoro, in base alle regole europee questo potrebbe essere finanziamento monetario del deficit: un ritorno agli anni ’70, la violazione più radicale delle regole a fondamento dell’euro.
Resta poi tutto da capire il contenuto di tagli di spesa per 4,5 miliardi da eseguire ormai sette mesi. Di certo però dovranno toccare sussidi all’autotrasporto e interventi invasivi sull’acquisto di beni e servizi, che freneranno la ripresa. Con un problema di fondo in più: secondo le prime stime della Ragioneria, almeno tre di quei 4,5 miliardi di tagli sono già impegnati da misure incluse nell’ultima manovra del governo di Enrico Letta. Insomma, se questi calcoli della Ragioneria fossero esatti, i dieci miliardi di tagli permanenti all’Irpef già decisi sono coperti in modo altrettanto permanente solo per 1,5 miliardi. Il resto sono solo «una tantum» e misure incerte, con l’obbligo quantomeno di triplicare i tagli dal 2015.
Il ministro Padoan per la verità aveva detto che le coperture non sarebbero state così effimere. Il premier Renzi poi nelle sue prime slide aveva promesso interventi rapidi anche per l’edilizia delle scuole, le bollette delle imprese e la difesa dell’ambiente. Oggi è tutto ciò è già sparito per evidente assenza di fondi. E certo i politici si giudicano per ciò che fanno, ma neanche questo può azzerare il ricordo di ciò che dicono.

l’Unità 9.4.14
Fassina
«Così avremo più debito e meno occupazione»
«Dal governo un Def rituale e continuista mentre siamo di fronte a emergenze gravi
che richiederebbero un cambiamento di rotta»
intervista di Gigi Marcucci


Previsioni di crescita al ribasso ma un miliardo in più dalle banche, la riduzione del cuneo fiscale garantita per una fetta dei redditi più bassi. Che idea si è fatto di questo Def?
«Mi sembra rituale e continuista. Il governo rinuncia a promuovere una manovra anticiclica mentre siamo di fronte a emergenze economiche e sociali sempre più gravi che richiederebbero un cambiamento di rotta. Invece si continua con l’austerità e col decreto lavoro. Così avremo lo stesso risultato che abbiamo avuto coi governi precedenti: meno Pil, meno occupazione, più debito pubblico».
Stefano Fassina boccia senza appello il Def presentato ieri sera dal governo. Da dove si sarebbe dovuto cominciare secondo lei?
«Si sarebbe dovuto almeno utilizzare tutto lo spazio al di sotto del 3%del rapporto deficit/Pil per finanziare gli investimenti produttivi, aumentando la domanda per le imprese e ottenendo anche un miglioramento del debito pubblico. Dopo la conferenza stampa di metà marzo, avevamo sperato in una inversione di rotta. Invece continua questa ossessione per la precarietà del lavoro come soluzione per l’occupazione».
Eppure il governo sembra pensare che le riforme, e tra queste il jobs act, dovrebbero portare crescita e occupazione. «Dovrebbe ormai essere chiaro anche ai più ostinati che le imprese non assumono perché non c’è domanda. Continuare a precarizzare sempre di più il mercato del lavoro non aiuta l’occupazione, anzi. Rende i lavoratori più spaventati e questo produce effetti negativi sulla domanda. Ormai questa non è più un’opinione, abbiamo fiumi di dati che la confermano».
Eppure durante la conferenza stampa, il taglio del cuneo fiscale è stato presentato come una spinta decisiva alla ripresa e alla crescita, uno shock benefico per l’economia.
«Non ci sarà uno shock positivo perché quegli 80 euro in più in busta paga verranno coperti da tagli di spesa, quindi da altre tasse. Da una parte si immette più denaro nell’economia, dall’altra lo si sottrare ad altri lavoratori e ad altre imprese. Nel migliore dei casi ci sarà un effetto neutro».
Lei ha dichiarato che il jobs act, così com’è, non può passare. A questo punto, cosa succederà in Parlamento?
«In Parlamento presenteremo emendamenti per modificare i punti più rilevanti. Abbiamo parlato col ministro Poletti la settimana scorsa, su alcuni punti ha dato disponibilità per le modifiche. Su altri, come la durata del contratto a tempo determinato senza causale, molti di noi ritengono che tre anni di contratto a tempo determinato siano eccessivi e daranno come unico risultato non più occupazione ma occupazione più precaria. E intanto verrà accantonato il contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti per il quale il governo precedente si era impegnato ».
Facciamo un passo indietro. Per quanto riguarda le coperture, si è parlato di 4,5 miliardi di spending review di cui 2,2 dovute ad aumento del gettito Iva e dall’aumento della tassazione sulla rivalutazione di Bankitalia. Questo non sembra preludere a sacrifici per fasce diverse da quelle favorite dal taglio del cuneo.
«Altra parte della copertura viene da tagli di spesa. Sarebbe particolarmente grave se venisse da tagli alla Sanità. La Sanità non va tagliata. I risparmi e le riduzioni di spesa vanno utilizzati per eliminare i ticket e accorciare le liste d’attesa».
Qualcuno sostiene che mentre occorrono subito i soldi per la copertura, gli effetti della spending review sono fisiologicamente più lenti.
«Vedremo cosa è scritto nel decreto che il presidente del Consiglio ha annunciato per il 18 aprile. Dal suo racconto emerge che ci sono misure una tantum (il gettito Iva e quello derivante dalla tassazione sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia ndr). Mi preoccupano invece gli altri quattro miliardi e mezzo. Ora si parla di otto mesi, ma a regime si tratterà di dieci miliardi e mezzo, e questo significa che si inciderà su capitoli molto importanti di spesa sociale».
A proposito di riforme, Renzi ha detto che qualcuno dentro il Pd cerca visibilità e per questo dà vita a discussioni, per così dire, strumentali.
«È stato un passaggio davvero infelice. Il presidente del Consiglio dovrebbe avere più rispetto per gli interlocutori e, in particolare, per quelli del proprio partito. I senatori che hanno fatto proposte diverse le hanno fatte perché sono sinceramente preoccupati della qualità della nostra democrazia».


Corriere 9.4.14
Europee
Dubbi e scontri sulle liste pd. Ci sarà Kyenge


ROMA — Uno scranno a Strasburgo per la ex ministra dell’Integrazione, Cécile Kyenge. Il nome della deputata democratica nata in Congo è nella lista che la direzione regionale del Pd ha consegnato a Renzi in vista del «parlamentino» nazionale di oggi, convocato per dare il via libera alle candidature europee. I due vicesegretari, Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, hanno lavorato fino a notte con il premier per risolvere il rebus, ma il leader non è ancora convinto di aver pronto uno squadrone da record e cerca qualche fuoriclasse da schierare capolista.
Suspence sull’ingresso in politica di Marco Tardelli, l’eroe nazionale dei Mondiali di calcio 1982 che il coach Renzi ha convocato per le Europee 2014. Dubbi sugli imprenditori di cui si era vociferato, dal fondatore della Diesel jeans Renzo Rosso all’ad di Morellato, Massimo Carraro. Mugugni sulle deroghe al limite dei tre mandati, di cui dovrebbe beneficiare in primis il super veterano Gianni Pittella, vicepresidente vicario dell’Europarlamento: «In Europa si va per starci a lungo, altrimenti non conti nulla... Io presidente del Parlamento? Dipenderà dai voti, ma sono quarant’anni che non tocca all’Italia». Ed è polemica sul nome dell’eurodeputato campano Andrea Cozzolino. Contro il vice capodelegazione del Pd si schiera Roberto Saviano: «Il Pd lo candida nonostante i brogli del 2011 o quelle primarie annullate erano legittime?». Il giornalista e scrittore ricorda le denunce, le risse, la presunta infiltrazione dei clan e poi le primarie annullate, il ritiro del vincitore e il commissariamento del partito a Napoli. «A distanza di tre anni — attacca Saviano — il Pd spera che la memoria si sia offuscata, per non fare chiarezza su una pagina vergognosa». Il segretario della Campania, Assunta Tartaglione, difende il candidato come «una risorsa importante». E Cozzolino giura di essersi sempre comportato con correttezza: «Sono d’accordo con Saviano, il Pd può dire parole chiare sulle primarie 2011». Brutto clima nel Pd campano, già provato dall’asse tra il sindaco di Bari Michele Emiliano e il «collega» di Napoli, Luigi de Magistris. La lista regionale è tutt’altro che chiusa e oggi lo scontro si trasferirà in direzione. C’è un problema di donne, mentre restano in corsa il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino e il consigliere regionale Nicola Caputo.
Tra Sicilia e Sardegna è scontro sul capolista: i sardi spingono per l’ex presidente Renato Soru, mentre i siciliani insistono su due donne forti, il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini e il giudice Caterina Chinnici. In discesa le quotazioni di Sonia Alfano, che i renziani hanno provato a imporre per la sua capacità di intercettare consensi nell’elettorato grillino, scontrandosi però con il «niet» del segretario Fausto Raciti. Renzi sta valutando le richieste delle Regioni, ma si riserva qualche «sorpresa» alla Tardelli. Non ci sarà però Lucia Annibali, l’avvocatessa pesarese sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato. Tra le conferme Patrizia Toia, Silvia Costa, Roberto Gualtieri, David Sassoli. New entry, la lettiana Alessia Mosca e il renziano Nicola Danti .
M.Gu.

Europa 9.4.14
Oggi il Pd approva le liste per le Europee. Ogni componente ha i propri nomi per contarsi
Giovani turchi e bersaniani soddisfatti per la loro presenza. Pochi nomi forti di renziani doc, ma il premier punta soprattutto al risultato complessivo
di Salvatore Contino

qui

FirenzePost 5.4.14
L’annuncio del segretario regionale Dario Parrini
Elezioni europee, Pd: Bramerini, danti, Domenici e Bonaccorsi i candidati toscani
di Ermanno Giusti


FIRENZE – Anna Rita Bramerini, assessore regionale all’ambiente, Nicola Danti, renziano, consigliere regionale, Leonardo Domenici, europarlamentare uscente,  e Ilaria Bonaccorsi, storica del Medioevo e editrice,  sono i quattro candidati toscani del Pd  per le elezioni europee del 25 maggio. Lo ha deciso la segreteria regionale del partito durante l’assemblea di stamani, 5 aprile, riunita all’Sms di Rifredi. I nomi, annunciati dal segretario, Dario Parrini, sono evidentemente il frutto di un accordo interno fra i renziani, ossia la corrente ora dominante, e le altre anime.
Secondo le previsioni, solo uno avrebbe possibilità di passare perché la Toscana è inserita nel maxicollgio dell’Italia centrale con Umbria, Marche e Lazio. Maxicollegio che, per effetto dei numeri, vede favoriti i candidati romani. Le maggiori probabilità di sbarcare di nuovo a Buxelles e Strasburgo ce le avrebbe l’uscente Domenici, ma questa è una sfida aperta, con le preferenze, per cui è possibile anche una sorpresa.
E’ possibile che i renziani puntino decisamente su Danti, ma va osservato che la Bramerini è sempre stata brava nel catalizzare le preferenze. Nel 2005 riuscì a fare un autentico exploit, in provincia di Grosseto, vincendo le primarie  contro la nomenclatura del partito che aveva fatto altre scelte. Nella scheda per le elezioni europee, si potranno esprimere tre preferenze, ma di genere diverso: due donne e un uomo. O viceversa.

Corriere 9.4.14
Blitz degli antagonisti
A Roma devastati alcuni uffici del partito


Scritte sui muri, piante e cestini ribaltati, minacce. Decine di antagonisti appartenenti ai movimenti per la casa hanno fatto irruzione negli uffici del gruppo pd del Comune di Roma. Un blitz di mezz’ora nella centralissima via delle Vergini, tra insulti e vandalismi, a caccia degli uffici del capogruppo Francesco D’Ausilio, che ieri si era schierato contro l’escalation di occupazioni in città. Danneggiati anche i locali del gruppo di Sel. Durante l’irruzione una dipendente del Comune ha avuto un malore. Cinquanta le persone identificate a fine giornata, quasi tutti già noti alle forze dell’ordine. «Siamo in presenza di atti di squadrismo» ha detto il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini «non ci faremo intimidire». In visita agli uffici del Pd capitolino anche il sindaco di Roma Ignazio Marino: «Atto inaudito hanno davvero devastato tutto». Allerta per il corteo nazionale degli antagonisti contro il governo Renzi previsto per sabato.

l’Unità 9.4.14
Renzi alla scuola di Scalfari. C’è già stato
di Bruno Gravagnuolo


SCALFARI BASTONA RENZI, MA È ANCHE FIGLIO SUO. SAPRÀ «RIEDUCARLO»? Cominciamo dalla serata all’Argentina di Roma, per i dei 90 anni del fondatore di Repubblica. Commozione, immagini, rievocazioni a tema, sul filo della biografia scalfariana. Eppure solo sul finire si è prodotto qualcosa di imprevisto. Tre cose. Dopo che Antonio Gnoli abilmente è riuscito a staccare Scalfari dalle sue prose poetiche, per trascinarlo a parlare dell’oggi. Eccole.
La telefonata dell’amico Napolitano. Indotto da Scalfari a non andare all’Argentina, per assistere al lungo tributo. La notizia che Papa Francesco gli ha chiesto di tenere riservati i loro incontri, che proseguono: con al centro la riforma «anti-temporalista» e «anti-costantiniana», che questo Papa rivendica a sé. Infine gli auguri di Renzi «bastonato forte» - parole di Scalfari - proprio quella domenica dal festeggiato su Repubblica. E bastonato come «populista». Questo il dialogo. Renzi: «Non volevo chiamarla, poi ho deciso di farlo, malgrado tutto. Lei vuole che mi si voti, e però parla di successione a me». Scalfari: «Sì, ma non vedo la contraddizione». Renzi: «Io intendo essere l’alternativa a me stesso, voglio succedermi...». E Scalfari annota: «Giovanotto sveglio! Perciò gli dico: lei dovrebbe diventare un altro in questo caso, mutar natura, chessò diventare un Cavour...». La telefonata si conclude con l’invito di Scalfari a Palazzo Chigi (accettato).
Bene che si diranno i due? Va ricordato infatti che proprio la predicazione «azionista» scalfariana, ha propiziato nel post-Pci un partito d’opinione trasversale e a vocazione personale. Non più di classe, o dei ceti subalterni. Bensì, liberal, di cittadinanza, e alfine populista light. Non ci si può poi dolere del frutto selvatico. Che alza la voce e stila con B. patto e legge elettorale sbrigative, etc. Riuscirà Scalfari a «formare» il giovanotto? A farne un Cavour e fargli mutare «natura»? Un altro fiorentino scrisse: la natura dei Principi non cambia, e vincono le nature in accordo coi tempi. Che cangiano però d’improvviso...

il Fatto 9.4.14
Il compleanno
Scalfari, i dilemmi della morale sopra gli scivoloni della politica
di Angelo Cannatà


Eugenio Scalfari è un personaggio particolare, unico nel panorama della cultura italiana. Filosofo. Scrittore. Imprenditore. Giornalista. Politico: se Repubblica è – come crediamo – un ‘giornale-partito’. Difficile dire di lui senza valutare la globalità di questi interessi. Su l’Espresso e Repubblica, in fondo, non si limita a scrivere: ha avuto l’idea e la capacità di fondarli”.
È l’incipit di Eugenio Scalfari e il suo tempo (Mimesis) e di molte valutazioni positive sul Nostro. Valgono ancora? Crediamo di sì, se a esse si affiancano le critiche – tutt’altro che marginali – sulle scelte e le prese di posizione più recenti.
Per esempio, nell’ultimo decennio, Scalfari ha intensificato il dialogo con grandi personalità di Santa Romana Chiesa: dal cardinale Martini a Papa Francesco (Conversazioni con Carlo Maria Martini; Dialogo tra credenti e non credenti). L’attenzione agli eterni dilemmi della morale e della metafisica– perché esiste il male? – l’ha distolto, è il caso di dirlo, da una vigile coerenza sui temi della politica, della magistratura, del giornalismo. È il punto dolente. È utile ricordare uno scambio epistolare con Enzo Biagi: “Caro Eugenio, non ho mai creduto che i giornalisti siano i depositari della verità; (...) qualche volta, di fronte ad alcune campagne di stampa, mi sento sgomento. Mi chiedo: e se fosse un delirio collettivo, una ondata di follia? Ricorderai il caso Montesi... Dubbi”.
SCALFARI risponde: “Caro Enzo, mi par di capire dalla tua ultima lettera, che stai facendo un inventario degli errori che abbiamo compiuto in questi ultimi anni. (...) Che dobbiamo concluderne? Che siamo stati tutti troppo azzardati? (…) Mi domando a che cosa servirebbe una stampa che smettesse di scagliar pietre. Certo, le pietre dovrebbe scagliarle la magistratura, che ne ha il compito istituzionale. Ma il procuratore generale Carmelo Spagnuolo è stato sospeso dai ranghi proprio perché faceva di mestiere l’insabbiatore; (…) In queste condizioni – caro Enzo – la stampa ha svolto un ruolo di supplenza. Con tutti i rischi e la patologia che ogni supplenza porta con sé”. È una citazione lunga, ma necessaria. Dice della centralità di una magistratura che indaga e non insabbia, dell’importanza della stampa che denuncia. Queste idee sono, negli editoriali più recenti di Scalfari – è questo il punto – alquanto attenuate. Da qui una serie di valutazioni errate e le ragioni di molte obiezioni critiche e prese di distanza : da Barbara Spinelli a Paolo Flores d’Arcais, da Antonio Padellaro a Marco Travaglio, da Stefano Rodotà a Gustavo Zagrebelsky. Insomma: perché la difesa assoluta – “senza se e senza ma” – del governo Monti e della politica del rigore? Perché Napolitano, un tempo pieno di limiti, oggi non sbaglia mai? Perché la trattativa Stato-mafia diventa, in tutti gli editoriali, la “cosiddetta” trattativa? Perché le intercettazioni Napolitano-Mancino andavano distrutte? Chi-insabbia-cosa, oggi? Perché i magistrati negli anni 90 andavano difesi e oggi – attaccati da Riina – nemmeno citati? Perché sulle pagine di Repubblica (più volte critica coi Capi di Stato) l’accusa di vilipendio al Fatto?
PERCHÉ il giornale di Scalfari s’accorge con tanti – troppi – mesi di ritardo che a Palermo Di Matteo rischia la vita? Come dire: più ombre che luci nelle analisi settimanali dell’ultimo Scalfari. L’intellettuale che si apre alla filosofia è, a nostro avviso, interessante (cfr. La passione dell’etica, Mondadori). È il suo recente approccio alla politica che lascia perplessi. Resta un grande del giornalismo. Con Montanelli c’era scontro e rispetto: “Scalfari ed io abbiamo questo in comune: che non sappiamo mai bene se siamo più amici quando facciamo gli amici o quando facciamo i nemici.” Indro gli contesterebbe oggi la sudditanza a Re Giorgio: contraddice il tuo spirito libero. Ma a parte questo gli farebbe sinceramente gli auguri, come noi, per i suoi splendidi 90 anni. Auguri Eugenio.

Corriere 9.4.14
Detenuto suicida. Condannati il ministero e la psicologa
di  Luigi Ferrarella


Suicida in cella dopo vari tentativi «Paghino psicologa e ministero» La sentenza: otto mesi per omicidio colposo e mezzo milione ai genitori

MILANO — Il suo posto «giusto» dentro il carcere di San Vittore, e cioè il posto idoneo per un detenuto che dal penitenziario di Pavia arrivava con «un ben evidente quadro psicotico persecutorio» e con una cartella clinica martoriata da 9 atti di autolesionismo o tentativi di suicidio in 4 mesi, sarebbe dovuto essere nel reparto di massima sorveglianza. Ma nell’estate 2009 non c’era posto: il sovraffollamento di tutto il carcere (1.400 detenuti stipati in una capienza teorica da 800 posti) era sovraffollamento anche di quello specifico delicato reparto. Così Luca Campanale, 28 anni, una condanna per rapina seguita all’incidente d’auto dopo il quale gli era stato diagnosticato un «disturbo organico della personalità derivato da pregresso grave trauma cranico», fu sistemato in altri reparti: prima in uno «ad alto rischio» con sorveglianza a vista, e poi (dopo una visita psichiatrica il 4 agosto) in un reparto «a medio rischio», con un piantone per le varie celle ma senza sorveglianza a vista. Qui il 12 agosto 2009 si impiccò. Ieri il Tribunale di Milano, nell’assolvere la psichiatra Maria Marasco e condannare a 8 mesi (pena sospesa) la psicologa Roberta De Simone per cooperazione in omicidio colposo, ha ritenuto che civilmente la responsabilità della morte per suicidio di Campanale debba essere fatta risalire sino in capo al ministero della Giustizia con il quale la psicologa aveva un rapporto libero-professionale, e ha perciò condannato il ministero (in solido con la psicologa) a risarcire ai genitori del detenuto suicida un anticipo di quasi 530 mila euro sul futuro risarcimento da stabilirsi in separata sede.
Partito dall’iniziale contestazione in Corte d’Assise di «abbandono di persona incapace» a provvedere a se stessa a causa dei gravi disturbi psichici da cui era affetta, e approdato poi alla riformulazione in «cooperazione in omicidio colposo» di competenza del Tribunale monocratico, il complicato processo si è sviluppato tra diari clinici, consulenze medico-legali, testimonianze e circolari ministeriali sulla «tutela dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti», avendo paradossalmente per teatro uno dei pochi istituti penitenziari dove già all’epoca la direzione e il personale prestassero attenzione a questo problema, e per imputate proprio due professioniste appassionate nel loro essere ogni giorno alle prese tanto con detenuti davvero sofferenti quanto con altri invece simulatori. E tuttavia, almeno in primo grado, il giudice Fabio Roia ha infine ritenuto ieri che, se contraddittoria o insufficiente è la prova sulla psichiatra difesa dagli avvocati Luigi Isolabella e Italia Caminiti, esistano invece elementi per reggere la condanna (richiesta dal pm Silvia Perrucci) della psicologa rinviata a giudizio dal gip Fabrizio D’Arcangelo.
In Appello la difesa, con l’avvocato Gianluca Sala, insisterà sul fatto che si sia trattato di un caso imprevedibile, rispetto al quale era stato fatto tutto il possibile. E si riesamineranno i due nodi della causa. Uno logistico, la «mancanza di posti letto» che determinò la dimissione del detenuto-paziente dalla massima sorveglianza. L’altro tipicamente medico, vertente sul merito della diagnosi e della scelta di collocare il detenuto in un reparto «a medio rischio», senza sorveglianza a vista, «sul presupposto che il paziente non avesse mai posto in essere gesti autolesionistici e apparisse pretenzioso e immaturo». Presupposto contrastato, nella lettura proposta invece dall’avvocato Andrea Del Corno, parte civile per la famiglia del suicida, dal fatto che già il 3 maggio 2009 il detenuto fosse stato segnalato per «aggressione a agente penitenziario e affermazioni autolesionistiche»; il 25 maggio per un «tentativo di impiccagione»; il 30 maggio per un «taglio della pelle del collo»; l’8 e 9 giugno per «ferite da taglio al collo autoinferte»; il 15 giugno per «ferite lacero avambraccio destro e sinistro sul collo»; il 27 giugno per «ingestione volontaria di una lametta»; il 4 agosto per «ferite leggere e profonde da taglio a braccio e avambraccio destro»; e il 9 agosto per «ferite superficiali all’avambraccio destro autoprocurate».

Repubblica 9.4.14
Utero in affitto in India, coppia assolta
Il tribunale di Milano : “Definizione di maternità ormai controversa, la tecnologia mette il diritto con le spalle al muro”


Il rischio era che il piccolo venisse dato in adozione. La moglie sterile dopo una terapia contro il cancro

MILANO. Il diritto è impotente di fronte ai progressi della scienza, addirittura «messo con le spalle al muro» di fronte «all’avanzamento della tecnologia» che rende la stessa «definizione» di maternità ormai «controversa». Con queste motivazioni, ieri, il Tribunale di Milano ha assolto un uomo e donna di 48 e 54 anni - definiti nella sentenza «genitori tecnologici» - dall’accusa di «alterazione di stato», contestata dopo che la coppia aveva avuto un bimbo in India, con una maternità surrogata. Il piccolo, concepito col seme paterno, grazie a due anonime donne indiane - una proprietaria dell’ovulo, l’altra dell’utero - era arrivato in Italia nel gennaio 2012. La coppia milanese - lui 48enne, lei ex paziente oncologica 54enne, sterile per le cure a cui si era sottoposta - aveva deciso nel dicembre del 2011, di andare a Mumbay per avere il figlio tanto desiderato, che secondo le leggi vigenti in Italia non avrebbero mai potuto avere. Con la trasmissione dell’atto di nascita all’anagrafe, era scattata la denuncia alla Procura. Il gup Gennaro Mastrangelo ha deciso l’assoluzione e ha fatto sospendere la richiesta di adozione per il piccolo. Con «l’avanzamento della tecnologia» - si legge nelle motivazioni - il diritto «è stato investito dalla dissociazione tra il dato naturale della procreazione e la contrattualizzazione delle forme di procreazione, fenomeno variamente normato dai sistemi giuridici nazionali». Di fronte a questa estrema incertezza del diritto, il giudice tutela il benessere del nascituro, «terzo inconsapevole di un contratto al quale è rimasto estraneo». ( z. d.)

La Stampa 9.4.14
Il giudice: “La tecnologia cambia il concetto di madre”
di Rapael Zanotti

qui

Corriere 9.4.14
Fecondazione eterologa.
Oggi il verdetto della Consulta
di Margherita De Bac


ROMA — È attesa oggi la decisione della Consulta sulla illegittimità del divieto di fecondazione eterologa, termine che indica le tecniche di procreazione medicalmente assistita dove si fa uso di gameti (ovocita o spermatozoo) donati alla coppia. I giudici si riuniscono di nuovo in camera di consiglio dopo la seduta di ieri. Se il dubbio di costituzionalità formulato da tre tribunali in seguito ad altrettanti ricorsi di coppie venisse accolto, la legge 40 che regola il settore subirebbe la spallata definitiva. Cadrebbero tutti i presupposti sulla cui base è stato costruito il testo del 2004. Una delle tre coppie è stata assistita da Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni, e Gianni Baldini: «L’abrogazione dell’eterologa non comporterebbe vuoti normativi — dicono —. Il quesito era già stato inserito nel referendum. Ci auguriamo venga cancellato per dare speranza a tenti genitori italiani». All’articolo 3 della legge sono già previste la tutela del figlio nato dall’eterologa e il divieto di disconoscere la paternità.

il manifesto 8.4.14
Fecondare con un dono il divieto incostituzionale
di Bruno de Filippis

giu­ri­sta

Consulta. Oggi l’Alta corte potrebbe smantellare una delle ultime proibizioni della legge 40. Vietare la procreazione assistita con gameti estranei alla coppia viola il diritto alla genitorialità e alla salute psichica e fisica delle persone

La legge 40, come molti ricor­dano, fu appro­vata in tutta fretta, omet­tendo di valu­tare oltre 300 emen­da­menti all’epoca pre­sen­tati e fu “blin­data” dalla mag­gio­ranza di allora, che mostrò com­pat­tezza, nel respin­gere ogni pro­po­sta di cor­re­zione o miglio­ra­mento, e volontà di per­ve­nire, senza modi­fi­che, all’approvazione del testo pre­di­spo­sto. Vero­si­mil­mente, se all’epoca fosse stata mostrata mag­giore dispo­ni­bi­lità al dia­logo, la legge non avrebbe suc­ces­si­va­mente con­se­guito il non invi­dia­bile pri­mato di essere tra quelle più spesso e per mag­gior numero di aspetti sot­to­po­sta al giu­di­zio della Corte Costi­tu­zio­nale, con ecce­zioni di con­tra­sto con i prin­cipi fon­da­men­tali della nostra Costituzione.
Subito dopo l’approvazione, la legge fu defi­ni­tiva «la più puni­tiva d’Europa», in quanto si occu­pava delle norme rela­tive alla pro­crea­zioni assi­stita con un’ottica pena­li­stica, invece che pro­mo­zio­nale e civile, non­ché creava una nutrita serie di nuove fat­ti­spe­cie penali, vale a dire faceva con­tem­po­ra­nea­mente nascere ipo­tesi di reato che prima non esi­ste­vano, desti­nate a punire i cit­ta­dini, i medici, i ricer­ca­tori ed i respon­sa­bili dei cen­tri che non si fos­sero atte­nuti alle sue dispo­si­zioni. Da quel momento molte cop­pie, pri­vate della pos­si­bi­lità di valersi dell’ausilio della scienza per rea­liz­zare il sogno di poter avere un figlio, si rivol­sero ai tri­bu­nali e, sia in sede giu­di­zia­ria, che ammi­ni­stra­tiva (deci­sioni dei Tar) furono sol­le­vate ecce­zioni di inco­sti­tu­zio­na­lità, che deter­mi­na­rono rimes­sione dei pro­ce­di­menti alla Corte Costituzionale.
L’apice di tale atti­vità di impu­gna­zione si ebbe il primo aprile del 2009, allor­ché la Con­sulta dichiarò l’illegittimità costi­tu­zio­nale dell’art. 14, comma 2, demo­lendo alcuni dei prin­cipi fon­da­men­tali della legge 40. Da quel momento, il numero di embrioni da impian­tare non fu più aprio­ri­sti­ca­mente deciso dalle norma, ma sta­bi­lito dal medico, sulla base della situa­zione cli­nica di cia­scuna paziente e, quindi, tenendo conto della sua salute, non­ché fu abo­lito l’obbligo di impianto, sem­pre e comun­que, degli embrioni for­mati, a pre­scin­dere dalle con­di­zioni fisi­che e psi­co­lo­gi­che della donna che doveva rice­verlo. Dive­nuto così pos­si­bile che alcuni embrioni fos­sero for­mati e non uti­liz­zati, si ammise la pos­si­bi­lità di una loro crioconservazione.
Nono­stante que­sto impor­tante risul­tato, che stra­vol­geva l’impianto ini­ziale della legge 40, la stessa con­ti­nuò ad essere diversa dalle ana­lo­ghe nor­ma­tive esi­stenti in molti altri Paesi euro­pei. Le con­te­sta­zioni, i ricorsi al giu­dice e le rimes­sioni alla Con­sulta pro­se­gui­rono, poi­ché molti cit­ta­dini con­ti­nua­vano a per­ce­pire un fon­da­men­tale distacco tra le pre­vi­sioni di legge e ciò che esse deter­mi­na­vano, da un alto, ed i diritti fon­da­men­tali della per­sona dell’altro. Poter avere dei figli, avere figli sani, essere in con­di­zione di eser­ci­tare come tutti gli altri i pro­pri diritti in una sfera per­so­na­lis­sima e deci­siva per la vita e la rea­liz­za­zione per­so­nale non è cosa cui si possa facil­mente rinunciare.
Dopo la bat­ta­glia giu­ri­dica per la dia­gnosi pre-impianto, neces­sa­ria per poter far nascere bam­bini sani, por­tata avanti dalle cop­pie por­ta­trici di malat­tie gene­ti­ca­mente tra­smis­si­bili e dalle asso­cia­zioni che le sosten­gono, bat­ta­glia che ha con­dotto all’importante risul­tato di ren­dere pos­si­bile que­sta inda­gine, prima vie­tata, la fecon­da­zione ete­ro­loga è dive­nuta la que­stione più rile­vante e mag­gior­mente al cen­tro del dibat­tito giu­ri­dico e sociale sulla legge 40 o si potrebbe dire, su quanto ancora di essa resta in piedi. Il Legi­sla­tore avrebbe infatti potuto inter­ve­nire ed anti­ci­pare ulte­riori pro­nunce di inco­sti­tu­zio­na­lità, ma non lo ha fatto, pre­fe­rendo lasciare alla Corte fun­zioni che avrebbe potuto riven­di­care per sé. Il divieto di fecon­da­zione ete­ro­loga è, tra i nume­rosi divieti posti dalla legge 40, uno dei più incom­pren­si­bili. Prima della legge, molti rite­ne­vano che paci­fi­ca­mente la coscienza sociale rite­nesse legit­timo il ricorso ad essa. La fecon­da­zione ete­ro­loga, infatti, si attua allor­ché una cop­pia, per poter pro­creare, ha biso­gno dell’intervento esterno di un dona­tore. Come nell’adozione i due geni­tori, con un atto d’amore, scel­gono di con­si­de­rare pro­prio figlio un bam­bino bio­lo­gi­ca­mente gene­rato da altri, così nell’eterologa uno solo dei due com­pie que­sta scelta ed il bam­bino che nascerà sarà figlio bio­lo­gico solo dell’altro, ma figlio for­te­mente voluto ed accet­tato da entrambi.
Si è detto che la fecon­da­zione ete­ro­loga deve essere vie­tata per­ché la gene­ra­zione può avve­nire solo all’interno del matri­mo­nio, ma que­sta tesi dif­fi­cil­mente può essere soste­nuta e non sem­bra che deb­bano essere spesi argo­menti per la sua con­fu­ta­zione, poi­ché gene­rare o meno un figlio all’interno di un rap­porto matri­mo­niale o meno non può che essere una scelta per­so­nale, non coer­ci­bile. Si è detto, altresì, che, vie­tando l’eterologa, lo Stato avrebbe “pro­tetto” i cit­ta­dini dalle riper­cus­sioni psi­co­lo­gi­che interne alla cop­pia, deri­vanti dal fatto che bio­lo­gi­ca­mente il figlio appar­tiene ad uno solo dei suoi com­po­nenti, ma que­sta tesi attri­bui­sce allo Stato un ruolo di “Grande Fra­tello” che for­tu­na­ta­mente non appar­tiene alla nostra cul­tura. Nep­pure può dirsi che la pro­crea­zione ete­ro­loga crei pro­blemi giu­ri­dici per l’attribuzione della pater­nità o mater­nità, poi­ché gli stessi sono stati altrove age­vol­mente risolti. Il divieto resta quindi immotivato.
Secondo il Tri­bu­nale di Milano, che ha sol­le­vato la que­stione di ille­git­ti­mità davanti alla Con­sulta, il divieto vio­le­rebbe più di un arti­colo della Costi­tu­zione, in ordine all’eguaglianza dei cit­ta­dini ed alla tutela del loro diritto alla geni­to­ria­lità ed alla salute fisica e psichica.
La Corte deci­derà que­sta mat­tina nel merito. Si auspica che que­sto divieto cada e che l’Italia si avvi­cini un po’ di più all’Europa della civiltà e dei diritti. A quando il pros­simo passo avanti per il defi­ni­tivo sman­tel­la­mento della legge 40?

Il Sole 9.4.14
Divorzio breve: basterà un anno
Alla Camera. Primo sì della commissione Giustizia sul testo
Possibile approdo in aula entro maggio
L'iter si accorcia a nove mesi se non ci sono figli minori e c'è accordo
di Valentina Maglione


MILANO Il divorzio breve riparte. Ieri la commissione Giustizia della Camera ha infatti approvato all'unanimità il testo base del disegno di legge che modifica l'articolo 3 della legge sul divorzio (la 898/70) e abbatte il tempo che i coniugi devono attendere dopo la separazione (giudiziale, consensuale o di fatto) per poter domandare lo scioglimento del matrimonio.
Nel dettaglio, il testo unificato del Ddl riduce gli attuali tre anni a uno il tempo di separazione necessario, che scende ancora a nove mesi nelle separazioni consensuali, se non ci sono figli minori. Inoltre, secondo lo schema di Ddl, i nuovi termini decorrono dal deposito della domanda di separazione e non, come accade ora, dalla comparizione dei coniugi di fronte al presidente del tribunale nella procedura di separazione. È una modifica introdotta, come spiega Alessandra Moretti (Pd), relatrice del Ddl insieme con Luca D'Alessandro (Forza Italia), per mettere tutti i coniugi nella stessa situazione, senza farli dipendere dai tempi differenti di fissazione delle udienze nei vari tribunali.
Inoltre, lo schema di Ddl interviene sull'articolo 191 del Codice civile precisando che la comunione dei beni si scioglie già nel momento in cui, in sede di udienza presidenziale, il giudice autorizza i coniugi a vivere separati.
Il testo è il risultato della fusione di cinque disegni di legge presentati da parti politiche diverse: Pd, Forza Italia, Sel, Movimento 5 Stelle e Psi. Moretti è «soddisfatta per questo primo, importante passo nell'iter del divorzio breve» e annuncia che «i termini per la presentazione degli emendamenti scadono a fine mese e il 24 aprile ci saranno le audizioni». L'obiettivo è far approdare il testo nell'aula della Camera entro fine maggio, per farlo poi passare al Senato in tempo brevi. «Ci auguriamo – prosegue Moretti – che il percorso di questa legge, per troppe volte rimandata nelle scorse legislature, possa essere rapido, anche grazie all'accordo preso dai presidenti di Camera e Senato che hanno previsto tempi stretti per la calendarizzazione del provvedimento».
Del resto, gli anni di attesa richiesti ai coniugi separati per arrivare al divorzio – portati da cinque a tre nel 1987 – sono da tempo al centro di proposte di legge di riforma: l'ultimo tentativo risale alla scorsa legislatura. La legge italiana attuale è distante da quelle di altri Paesi europei. In Francia, infatti, se la decisione di porre fine all'unione è consensuale, non è necessario alcun periodo di separazione, mentre se non lo è il divorzio può essere concesso dopo soli due anni. La procedura tedesca prevede un anno di separazione se vi è consenso e tre se non c'è. In Gran Bretagna sono previsti due o cinque anni di separazione, ma se si dichiara che vi è stato da parte dell'altro coniuge un «comportamento che rende insostenibile la prosecuzione del rapporto» il giudice può dichiarare immediatamente il divorzio.

l’Unità 9.4.14
I rifugiati aumentano ma l’accoglienza è insufficiente
Il rapporto del Centro Astalli 2013: in crescita (+60%) le richieste di asilo politico
«Ci vuole un’assistenza progettuale, è una questione di giustizia»
di Salvatore Maria Righi


Ci sono i numeri, che fanno spavento. E c’è l’«indifferenza globalizzata», come l’ha chiamata papa Francesco, se possibile anche peggio. Perché i migranti aumentano e tra loro crescono anche gli esuli e i rifugiati, ma questo Paese non vuole cambiare e continua a non vederli, o a far finta: «Ci commuoviamo quando li vediamo nelle immagini televisive, nei loro paesi, ma diventano trasparenti appena arrivano nelle nostre strade».
Erano tutti d’accordo alla presentazione del rapporto annuale del Centro Astalli, presenti i vertici dell’associazione gesuita con padre Giovanni La Manna, presidente, e Berardino Guarino, direttore dei progetti. Tra gli ospiti, oltre al sindaco di Roma Ignazio Marino, anche padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede. Il punto di partenza e la bussola per ogni ragionamento è che l’asticella continua a salire, sempre di più. Tragicamente sempre più alta. Proiettata, anche se ancora lontana, verso lo scenario evocato dal ministro dell’Interno Alfano. «Non possiamo e non dobbiamo spaventarci per 600mila arrivi», dice padre La Manna, una marea umana che sarebbe pronta ad arrampicarsi su per l’Europa, alla ricerca di una vita e di un futuro, con l’Italia che continua ad essere una porta stretta, molto stretta. Tanto che rispetto alla Ue sembra uno specchio rovesciato. Nel 2013, a cui si riferiscono i dati del rapporto che si conclude con le foto della visita alla Fondazione Astalli di papa Francesco lo scorso 10 settembre, in Europa le domande di asilo sono aumentate del 32%. Per la guerra in corso, sanguinosa e sempre più lontana dalle telecamere, la maggior parte dei richiedenti proviene dalla Siria, che in massima parte scelgono di puntare a nord verso Svezia (16.317) e Germania (11.851).
AFRICA E ASIA
In Italia, invece, i siriani non vogliono starci: 695 le richieste di asilo nel nostro paese, a fronte di 27.830 domande complessive. Più che aumentate(60%)rispetto all’anno precedente. I rifugiati che chiedono asilo nello Stivale provengono in gran parte da Mali, Costa d’Avorio, Afghanistan, Senegal, Pakistan, Eritrea, Nigeria e Guinea. Quello che padre La Manna ha sottolineato più volte, e con lui gli altri relatori, è che da noi continua a prevalere la logica dell’emergenza e del tirare a campare. «Il punto fondamentale, invece, è che finita l’epoca emergenziale. Queste persone, vittime di situazioni ingiuste, vanno accolte con dignità e rispetto per i loro diritti non solo per motivi umanitari, ma per ragioni di giustizia, perché ci sono convenzioni internazionali da applicare». Se è per quello, ci sono anche sentenze di tribunali europei che certificano l’inaffidabilità dell’Italia ad affrontare questi problemi, figuriamoci a risolverli. Manca del tutto, ribadiscono più volte, l’«accoglienza progettuale» che trasforma l’emergenza in una visione strutturata, con delle prospettive e non solo con l’acqua alla gola dei giorni che passano: «Che progetto c’è dietro alle 30 euro al giorno pagate per ciascuno, nelle strutture che li accolgono, per tre mesi? Siamo  stanchi dell’assenza di un sistema unitario di accoglienza».
LACUNE DELLO STATO
L’impegno del Centro Astalli, in questa situazione in cui si mettono le dita nei buchi della diga, come il bambino della famosa parabola olandese, si traduce in numeri con molti zeri. 102.675 pasti somministrati, circa gli stessi del 2012, con una media giornaliera tra 350 e 400, vuol dire che il sistema-Italia non ha migliorato di una virgola la sua già cronica insufficienza. Salita leggermente l’età degli utenti, pur restando bassa: il 64% ha meno di 30 anni, mentre la percentuale delle persone tra30e40anni è cresciuta del 4 per cento. Fa anche molto riflettere il fatto che circa la metà delle persone vittime di tortura seguite dal Centro siano costrette a vivere per strada, in edifici occupati o presso le abitazioni di amici, «per lo scaricabarile tra gli enti che sene dovrebbero occupare» e «per i tagli alla sanità» che in qualche modo hanno inciso anche sull’ecatombe di migranti che sono rimasti uccisi nel loro viaggio della speranza. Negli ultimi 20 anni, in fondo al Mediterraneo, sono stati stimati almeno 20mila morti: una Spoon River da non vederne la fine e che il 3 ottobre scorso a Lampedusa, col naufragio di un barcone libico e la morte di 366 profughi (più 20 dispersi), ha toccato forse il suo apice doloroso.
«Se tutti facessimo accoglienza non ci sarebbe più l’alibi dei numeri e si darebbe una lezione alla politica sul rispetto per la dignità e i diritti delle persone, invece di vedere molto tristemente che per motivi di consenso non parla di asilo politico e rifugiati» ribadisce padre La Manna nel ricordare, come il sindaco Marino, le parole di papa Francesco nella sua visita al Centro Astalli: i conventi vuoti non devono servire a fare soldi, come alberghi, ma sono destinati alla «carne di Cristo », cioè il popolo di migranti, rifugiati ed esuli che si sposta sempre di più e sempre più velocemente verso il mondo occidentale, scappando dall’orrore, dalla morte e dalla paura.

Corriere 9.4.14
Una parola neutra o discriminatoria?
Marino cancella i «nomadi». Sulla carta
di Luca Mastrantonio


Una questione di termini. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, cancella i «nomadi», almeno sulla carta. Ha chiesto infatti che nelle espressioni della comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti amministrativi al posto del termine «nomadi» sia «più correttamente utilizzato quello di “Rom, Sinti e Camminanti”». Secondo Marino, questa proprietà di termini sarà «uno dei fattori centrali per superare le discriminazioni».
L’integrazione di gruppi etnici nomadi a Roma è un problema linguistico? Secondo Ignazio Marino sì: è soprattutto una questione di termini. Il primo cittadino della capitale, in una recente circolare comunale, ha chiesto che nelle espressioni della comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti amministrativi al posto del termine “nomadi” sia «più correttamente utilizzato quello di “Rom, Sinti e Camminanti”». Secondo Marino, questa «proprietà terminologica» non è solo «un atto simbolico per il superamento di ogni forma di discriminazione», ma sarà addirittura «uno dei fattori centrali per superare le discriminazioni», permettendo di sostituire «l’approccio metodologico di tipo emergenziale».
Un approccio così ottimisticamente linguistico, però, qualche dubbio lo lascia. Non solo perché a leggere ad esempio la Treccani, «nomade» è definito un «gruppo etnico che non ha fissa dimora e muta frequentemente residenza», con nessuna connotazione negativa. E nessuno si sognerebbe di considerare come discriminante il nome del gruppo musicale dei Nomadi, quelli della canzone Io vagabondo (che non sono altro). Ma perché l’idea del sindaco di Roma va contro quelle associazioni che operano sul campo a favore dell’integrazione delle popolazioni Rom, Sinti o Camminanti. Come l’Opera Nomadi, che nasce a Bolzano nel 1963, è attiva su tutto il territorio (compresa Roma), ed è stata riconosciuta come Ente Morale con decreto del Presidente della Repubblica nel 1970. È un ente linguisticamente immorale perché dedicato ai nomadi?
No. È un’associazione che si occupa di problemi concreti, relativi all’integrazione sul territorio: dalle scuole ai mezzi pubblici. Marino, invece, confida molto nel rapporto tra iperonimi, le parole che come «nomadi» indicano l’insieme più ampio di cui fanno parte altre parole, e gli iponimi, che invece hanno un significato più specifico, come Rom, Sinti e Camminanti. Marino, da medico, sa che una corretta diagnosi è fondamentale per intervenire; ma sa anche che la complicazione terminologica, la confusione, la comprensione poco immediata del problema non aiuta la sua risoluzione. Servono, forse, interventi politici concreti più che astratte circolari da Accademia della Crusca.

Il Sole 9.4.14
Il premier Valls. Discorso programmatico in Parlamento
Francia, 25 miliardi di sgravi per le imprese e le famiglie
di Marco Moussanet


PARIGI. Tagli fiscali e contributivi per circa 25 miliardi (oltre un punto di Pil) a favore soprattutto delle imprese, dimezzamento del numero delle regioni e abolizione delle province, una politica nettamente a sostegno della crescita e dell'occupazione con un rallentamento del processo di riduzione del deficit. Chi si aspettava un premier all'offensiva sul terreno economico e istituzionale non è certo stato deluso dal discorso programmatico sul quale Manuel Valls ha chiesto, e ottenuto, la fiducia del Parlamento.
«Lo dico - ha dichiarato il nuovo capo del Governo francese - senza giri di parole: abbiamo bisogno delle nostre imprese. E faremo di tutto per incoraggiarle». A partire dalla diminuzione del costo del lavoro. Valls ha quindi confermato che ai 20 miliardi di credito d'imposta del Cice (12 quest'anno, il meccanismo sarà a regime il prossimo) si aggiungeranno 10 miliardi di sgravi contributivi. A partire dal 2015 saranno azzerati i contributi sulle retribuzioni minime (lo Smic è in Francia di 1.445 euro lordi mensili per 35 ore settimanali), e saranno ricalcolati in proporzione quelli sulle buste paga fino a 1,6 volte lo Smic, per un costo di circa 4,5 miliardi. Altri 4,5 miliardi costerà la riduzione degli oneri a carico dei datori di lavoro e destinati al finanziamento della politica familiare sugli stipendi fino a 3,5 volte lo Smic, cioè il 90% dei lavoratori dipendenti. Sarà infine di un miliardo l'alleggerimento contributivo per professionisti e artigiani.
Quanto al versante fiscale verrà progressivamente cancellato (in tre anni) il "contributo di solidarietà" calcolato sul fatturato a carico delle 300mila aziende più grandi: costerà 6 miliardi, uno dal 2015. E scomparirà a partire dal 2016 la sovrattassa del 5% creata da Sarkozy per le imprese con oltre 250 milioni di fatturato (che Hollande ha portato al 10,7%): altri 2,3 miliardi. L'aliquota "normale" del prelievo sulle società, attualmente del 33%, verrà infine ridotta al 28% entro il 2020, con un primo taglio di due punti nel 2017.
Si tratta complessivamente di circa 20 miliardi lordi, che dovrebbero diventare 17 netti con l'aumento di entrate per 3 miliardi frutto proprio dei tagli. A questi - per rilanciare potere d'acquisto e consumi - si sommano 5 miliardi di riduzione dei prelievi contributivi a carico dei dipendenti con retribuzione a livello Smic in modo da garantire loro 500 euro netti all'anno in più (e con ricalcolo proporzionale fino a 1,3 volte lo Smic). Il problema è che per oltre 10 di questi 25 miliardi di minori entrate bisognerà trovare le coperture, perché i 50 miliardi di riduzione della spesa (ribaditi ieri da Valls, con la precisazione che 10 arriveranno dagli enti locali) non sono sufficienti neppure a finanziare le misure già previste.
Il premier - oltre a lamentare la forza dell'euro e a invitare la Bce a scelte più coraggiose, sull'esempio delle banche centrali americana, inglese e giapponese - ha ovviamente rilanciato il dossier del deficit. Mettendo sul piatto del negoziato con Bruxelles (e Berlino) la promessa di una prima, importante riforma strutturale, quella del cosiddetto "millefoglie territoriale". Una riforma in quattro punti: dimezzamento, a partire dal 2017, del numero di regioni (oggi sono 22, oltremare a parte); abolizione (ma dal 2021) delle province; riorganizzazione e accorpamento dei comuni (oggi sono oltre 36mila) dal 2018; revisione delle competenze degli enti locali per evitare inutili e costose sovrapposizioni. Certo il premier spera anche nella ripresa, che finalmente dovrebbe cominciare a dare dei risultati. Secondo il Fondo monetario, l'economia francese dovrebbe crescere l'anno prossimo dell'1,5%, in linea con il ritmo dell'eurozona e a un passo dalla Germania (1,6%).

Corriere 9.4.14
L’impegno di Obama per le donne
«Parità di salario con gli uomini»
Ma anche alla Casa Bianca guadagnano il 12 per cento in meno
di Massimo Gaggi


NEW YORK — «Stesso stipendio per chi fa lo stesso lavoro, sia uomo o donna: non dovrebbe essere così complicato»: Barack Obama parla della parità retributiva tra i sessi con toni enfatici in una cerimonia alla Casa Bianca durante la quale firma un ordine esecutivo che vieta ogni forma di discriminazione salariale, ma si applica solo ai contractor, i fornitori del governo. E poi cerca di lanciare la volata al Paycheck Fairness Act, la legge sulla parità retributiva presentata dai democratici e che da domani sarà all’esame del Senato.
In realtà qualche complicazione c’è, visto che in America gli uomini guadagnano, in media, quasi il 25 per cento in più delle donne. E che, attaccano i repubblicani, le sperequazioni ci sono pure alla Casa Bianca, sia pure in misura ridotta rispetto al resto del Paese (12 per cento circa di differenza). Ma per il portavoce del presidente, Jay Carney, queste differenze rispecchiano semplicemente il fatto che le donne hanno incarichi di rango inferiore che solo per questo sono meno retribuiti. E Obama, nel discorso che ha pronunciato ieri circondato da donne di ogni età, razza e professione non si è certo fatto costringere sulla difensiva. Anzi, ha attaccato i repubblicani accusandoli non solo di penalizzare le donne, ma di opporsi ad ogni sforzo per far sì che le famiglie americane che devono guadagnarsi da vivere lo facciano su campo di gioco pianeggiante, senza essere costrette a correre in salita: «Capite? Una differenza di un quarto. È come se una donna dovesse lavorare fino a marzo 2014 per guadagnare quello che un uomo ha incassato nel solo 2013. E come se, correndo una maratona, dovessero fare sei miglia in più».
Battute efficaci, ma la realtà è che la legge non passerà mai dato che i repubblicani la bloccheranno al Senato con l’ostruzionismo mentre alla Camera hanno una maggioranza schiacciante, che è decisa ad affondare il provvedimento. Quello del presidente, più che un discorso per annunciare cose che si verificheranno davvero, è stato un comizio per galvanizzare la base elettorale democratica in vista delle elezioni di mid term del prossimo novembre che si presentano molto difficili per il partito del presidente. E qui le donne hanno un ruolo decisivo: nel 2008, quando i democratici vinsero tanto alla Camera quanto al Senato, votò il 55 per cento dell’elettorato femminile. Nel 2012 solo il 48 per cento e i democratici persero il controllo della Camera e vari seggi al Senato.
Del resto Obama ha approfittato della questione retributiva femminile per fare un discorso a più ampio raggio sul ruolo delle donne e la distribuzione della ricchezza che negli Stati Uniti sta diventando sempre più diseguale: «Dobbiamo avere più donne al Congresso, oggi sono solo il 20 per cento del totale. Voglio un futuro più giusto come presidente ma anche come padre di due ragazze. E non posso accettare discriminazioni» non solo per convinzioni politiche, ma anche perché ricordo bene il lavoro durissimo di mia madre e le fatiche di mia nonna, una grande lavoratrice con incredibili capacità imprenditoriali.
La controffensiva dei repubblicani è immediata: il loro leader al Senato, Mitch McConnell, replica sostenendo che nei cinque anni della presidenza di Obama le donne sono diventate più povere. Ma l’attacco vero è quello portato alle politiche retributive della Casa Bianca. Anche qui, nota un giornale progressista come il New York Times , non tutto fila liscio, visto che la retribuzione media del personale femminile è pari all’88 per cento di quello maschile. Il team di Obama, come detto, non contesta i numeri ma spiega che non si tratta di discriminazione ma di diversità degli incarichi ricoperti. Pur sottolineando che, con Obama, sono molte le donne salite al vertice: dal consigliere Valerie Jarrett al capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale Susan Rice, all’ambasciatore all’Onu Samantha Power, alla Sec e alla Federal Reserve dove si è da poco insediata Janet Yellen.
Ma anche qui i critici non mollano: 35 per cento di donne nelle posizioni di vertice alla Casa Bianca. Non poche, ma nell’era di Bill Clinton si arrivò al 42 per cento.

l’Unità 9.4.14
Fmi avverte: la Grecia corre più forte dell’Italia
Lo studio del Fondo prevede per Atene un Pil quasi triplo rispetto al nostro nel 2015
di Marco Ventimiglia


E se fino a qualche anno fa il paragone riguardava spesso la qualità dell’offerta turistica, adesso il confronto è assai più pesante, relativo com’è alle prospettive di crescita nell’immediato futuro. E così, se già quest’anno la performance dell’economia italiana sarà equivalente a quella di Atene, nel 2015 subiremo il sorpasso da parte di quella che è stata a lungo la nazione più colpita dalla crisi economica globale.
I dati in questione, che riguardano in realtà tutte le economie del Vecchio Continente, sono stati forniti ieri dal Fondo monetario internazionale. Per quanto riguarda l’anno in corso, il World Economic Outlook (Weo) dell’Fmi vede, appunto, l’Italia appaiata alla Grecia nel gruppo dei Paesi con la crescita più modesta del Prodotto interno lordo, pari allo 0,6%. A comportarsi in modo peggiore soltanto la Finlandia e la Slovenia (+0,3% in entrambi i casi), mentre il fanalino di coda è di gran lunga Cipro, in piena recessione con il suo -4,8%. Ma c’è di più perché, come detto, nel 2015 il Fondo mette in preventivo un autentico riscatto di Atene, che tornerà ad una crescita piena con un balzo del Pil pari a un +2,9%. Assai diversa, invece, dovrebbe essere la performance dell’Italia, sempre nei pressi della stagnazione con un +1,1% nel 2015, un dato analogo a quello stimato per la Finlandia e superiore solo al +0,9% di Slovenia e Cipro.
EMERGENZA SENZA LAVORO
Il rapporto sulle prospettive dell’economia globale, presentato in occasione degli Spring Meetings del Fondo in corso a Washington, prende in considerazione anche il mercato del lavoro. E qui la situazione della Grecia continua ad essere drammatica, ben peggiore di quella comunque preoccupante del nostro Paese. In particolare, il tasso di disoccupazione ellenico viene previsto sì in calo, ma con una discesa dal 27,3% del 2013 al 26,3% del 2014, mentre l’anno prossimo dovrebbe attestarsi sul 24,4%. Per quanto attiene l’Italia, il 2014 sarà ancora un anno difficile per il mercato del lavoro con il tasso di disoccupazione che salirà al 12,4% dal 12,2% dell’anno precedente. La discesa del numero dei senza lavoro inizierà soltanto nel 2015quando i disoccupati saranno all’11,9%. Si tratta, va ricordato, di valori purtroppo superiori al tasso di disoccupazione medio delle economie avanzate previsto per il 2014 al 10,6% e al 10,2% l’anno prossimo. Un altra nazione messa molto peggio della nostra è poi la Spagna, dove il tasso di disoccupazione resterà decisamente alto seppur in miglioramento: dal 26,4% del 2013 al 25,5% del 2014 e al 24,9% del 2015.
Tornando al Pil, la Germania resta la locomotiva d’Europa con una crescita che l’Fmi stima all’1,7% per quest’anno rispetto al modesto +0,5% del 2013, mentre per il 2015 si parla di un +1,6%. Il tasso di disoccupazione a Berlino è sostanzialmente destinato a restare invariato, passando dal 5,3% del 2013 al 5,2% nei due anni successivi. In Francia, invece, l’economia è vista crescere nel 2014 dell’1% e nel 2015 dell’1,5%, in miglioramento dal +0,3% dello scorso anno. Il tasso di disoccupazione salirà a Parigi, secondo il Fondo, all’11% nell’anno in corso dal 10,8% del 2013 e tornerà a scendere nel 2015 al 10,7%. Infine, per fare un confronto al di fuori dei Paesi che usano l’euro, il Regno Unito correrà con un passo più spedito: dopo un incremento del Pil dell’1,8% nel 2013, secondo il Weo ci sarà un +2,9% nel 2014 e un +2,5% nel 2015. Ed a Londra il tasso di disoccupazione punterà al ribasso: dal 7,6% del 2013 al 6,9% del 2014.

il manifesto 9.4.14
Gerusalemme, Israele toglie l’acqua ai palestinesi che vivono oltre il Muro
Da oltre un mese le decine di migliaia di palestinesi che vivono nel campo profughi di Shuffat e in altri sobborghi arabi sono senza acqua
Un problema che non affligge la vicina colonia israeliana di Pisgat Zeev
di Michele Giorgio


I piatti e le pen­tole da lavare si accu­mu­lano nella cucina di Umm Kha­lil. “Mi scuso per il disor­dine ma non c’è acqua, fino alla scorsa set­ti­mana dal rubi­netto ne usciva un filo, almeno si riu­sciva a bere e a lavare poco alla volta bic­chieri e piatti, ma da due giorni è tutto secco”, si lamenta la donna. “E que­sto è nulla, per­chè non pos­siamo più lavarci, met­tere in fun­zione la lava­trice e soprat­tutto usare lo sciac­quone. E’ ter­ri­bile!”, aggiunge Umm Kha­lil spie­gando che per farsi la doc­cia è costretta ad andare a casa della sorella che, “Gra­zie a Dio”, rie­sce ad accu­mu­lare acqua durante la notte nei ser­ba­toi esterni, i “cilin­dri” neri visi­bili sui tetti di ogni casa pale­sti­nese. I ser­ba­toi dell’abitazione di Umm Kha­lil sono vuoti come lo sono quelli di quasi tutte le fami­glie di Shuf­fat, unico campo pro­fu­ghi di Geru­sa­lemme Est e una delle loca­lità pale­sti­nesi alla peri­fe­ria della Città Santa che da oltre un mese hanno pochis­sima acqua. Una con­di­zione che si è fatta insop­por­ta­bile con l’arrivo della pri­ma­vera e l’aumento delle tem­pe­ra­ture. “Gli israe­liani ci lasciano in que­sto stato, sino ad oggi non hanno fatto nulla di con­creto per aiu­tarci. Siamo costretti a com­prare l’acqua in bot­ti­glia per bere”, pro­te­sta Jamal al Malki, pro­prie­ta­rio di un nego­zietto di ali­men­tari tra le povere case del campo per rifu­giati, ricor­dando che la stessa Corte Suprema israe­liana ha dato 60 giorni di tempo alle auto­rità per risol­vere il pro­blema. Sino ad oggi però è cam­biato ben poco.
I respon­sa­bili israe­liani si difen­dono, affer­mano che la man­canza di acqua cor­rente è il risul­tato di una infra­strut­tura “decre­pita” che non rie­sce più a sod­di­sfare i biso­gni cre­scenti di una popo­la­zione in rapido aumento. Una giu­sti­fi­ca­zione che, allo stesso tempo, genera un inter­ro­ga­tivo: per­ché negli anni pas­sati non sono stati fatti i lavori per lo svi­luppo della rete di distri­bu­zione nella zona di Shuf­fat rima­sta a secco? E non si può fare a meno di notare che la “crisi idrica” non si regi­stra nella parte ovest, ebraica, di Geru­sa­lemme. Nella città più con­tesa della sto­ria dell’umanità, sulla quale Israele ha impo­sto uni­la­te­ral­mente la sua sovra­nità (con­tro il diritto e le riso­lu­zioni inter­na­zio­nali) la rispo­sta a que­sto inter­ro­ga­tivo non può essere solo tec­nica, ma ha anche un impor­tante con­te­nuto poli­tico. I pale­sti­nesi del campo pro­fu­ghi di Shuf­fat uffi­cial­mente sono parte del comune di Geru­sa­lemme ma vivono sul ver­sante cisgior­dano del Muro costruito da Israele intorno alla città. Il fatto che il campo sia stato sepa­rato da Geru­sa­lemme indica, in modo ine­qui­vo­ca­bile, che, nei pro­getti a lungo ter­mine di Israele, quei pale­sti­nesi non saranno più resi­denti della “capi­tale”. Già ora gli abi­tanti del campo devono supe­rare un posto di blocco per uscire e acce­dere al resto della città. A Shuf­fat i ser­vizi comu­nali sono quasi ine­si­stenti e a garan­tire un minimo di vivi­bi­lità è l’intervento dell’Unrwa (Onu) e delle asso­cia­zioni cari­ta­te­voli. Que­sta situa­zione si riscon­tra anche in altri sob­bor­ghi pale­sti­nesi che Israele cede­rebbe subito e molto volen­tieri all’Autorità nazio­nale di Abu Mazen, se esi­stes­sero le con­di­zioni poli­ti­che per farlo. Il quo­ti­diano Haa­retz un paio d’anni fa rivelò che le strut­ture pub­bli­che israe­liane offrono sem­pre meno, quasi nulla, a quei pale­sti­nesi (circa 50 mila) con resi­denza uffi­ciale a Geru­sa­lemme ma che vivono fuori dai con­fini muni­ci­pali. Per­sone che in futuro non saranno parte della popo­la­zione della città e per que­sto tra­scu­rate (a dir poco) dagli occu­panti israe­liani e che, allo stesso tempo, non pos­sono essere assi­stite dall’Anp per­chè ancora parte di Gerusalemme.
“Stiamo par­lando di una zona che è stata tagliata fuori dal resto della città — spiega Ronit Sela, por­ta­voce dell’Associazione per i Diritti Civili in Israele, che ha avviato la bat­ta­glia legale per conto dei resi­denti Shuf­fat — una zona che è stata tra­scu­rata, anche prima della costru­zione del Muro, lasciata senza infra­strut­ture men­tre il numero di per­sone con­ti­nuava a cre­scere. Ora l’ intero sistema idrico crolla e nes­suno si assume la respon­sa­bi­lità”. Eli Cohen, vice diret­tore dell’azienda idrica israe­liana HaGi­hon, si affanna a spie­gare che la rete di distri­bu­zione in ori­gine doveva ser­vire circa 15.000 per­sone e non le 60.000–80.000 di oggi. E accusa gli abi­tanti di Shuf­fat di non pagare l’acqua che con­su­mano. La Water Autho­rity israe­liana nega ogni respon­sa­bi­lità e punta l’indice con­tro la HaGi­hon. Ma la “replica” a tutte que­ste giu­sti­fi­ca­zioni è solo a poche cen­ti­naia di metri dal campo pro­fu­ghi. La vicina colo­nia ebraica di Pisgat Zeev non ha pro­blemi con l’acqua, di alcun tipo. così come tutti gli altri inse­dia­menti colonici.

Repubblica 9.4.14
Rwanda
“Parigi complice del genocidio”
di Anais Ginori


PARIGI. Non uno ma tanti segreti. Un mistero lungo vent’anni che continua a perseguitare l’immagine della Francia, proprio in un momento in cui Parigi cerca di tornare protagonista in Africa. «In questi Paesi un genocidio non è troppo importante». Non si sa se François Mitterrand abbia davvero pronunciato questa frase, riportata dal giornalista e scrittore americano Philip Gourevitch, quando iniziò nell’aprile 1994 il genocidio dei Tutsi in Ruanda. Di sicuro, però, gli archivi di Stato custodiscono molte delle risposte alle troppe domande che ancora ci sono sul ruolo dell’esercito francese e sull’amicizia dell’Eliseo con l’allora regime hutu.
Il presidente del Ruanda, Paul Kagame, si è di nuovo scagliato, senza nominarla, contro la Francia. «Nessun Paese è così potente da poter cambiare i fatti» ha detto nel giorno del ventennale dell’eccidio, per poi aggiungere in francese: «Dopo tutto, i fatti sono cocciuti». L’ambasciatore a Kigali, Michel Flesch, è stato definito “persona non grata” alle celebrazioni, provocando un nuovo incidente diplomatico. «Accuse indegne e ingiuste» ha commentato ieri il nuovo premier Manuel Valls, parlando all’Assemblée Nationale.
Una dichiarazione che liquida i tanti punti ancora da chiarire sull’ultimo genocidio del Novecento: 800mila vittime in poco più di cento giorni. Quando è stato avvertito il governo di Parigi dei massacri che si stavano preparando? Quando ha finalmente interrotto il rifornimento di armi al regime Hutu? Ci sono state complicità o solo omissioni da parte del comando francese della missione Onu “Turquoise”? E infine: quale è stato il ruolo dei servizi segreti e chi ha organizzato l’abbattimento del Falcon su cui viaggiava il presidente Juvénal Habyarimana il 6 aprile 1994, episodio che ha poi dato inizio alla guerra civile?
Su quest’ultima domanda ci sarà forse una risposta della magistratura francese che, dopo un lungo lavoro di ricostruzione, dovrebbe emettere una sentenza prima dell’estate. Un primo passo verso la verità. Non certo sufficiente. «È tempo di aprire gli archivi di Stato per fare entrare il genocidio del Ruanda nella Storia »scrive Le Mondein primapagina. Molti ricordano che Parigi appoggiò già dai primi anni Novanta il regime di Habyarimana, foraggiando e addestrando il suo esercito contro il Fronte patriottico. Arrivato al potere, Kagame ha sempre parlato di connivenza e complicità, accusando in particolare la Francia, che nel ‘94 sotto l’egida dell’Onu aveva 2.500 soldati, e il Belgio, ex potenza coloniale che aveva mal digerito l’indipendenza ottenuta dal piccolo Paese africano nel 1961.
Alcuni cablogrammi dimostrano che il ministero degli Esteri e l’Eliseo sapevano della pulizia etnica in corso. Dopo l’inizio dei massacri, Mitterrand è stato l’unico leader occidentale a ricevere il governo provvisorio Hutu che stava conducendo i massacri. Ci sono prove della vendita di armi da parte di alcuni mercanti collegati a Parigi. E quando comincia l’operazione “Turquoise”, a partire dal giugno ‘94, molte testimonianze ricordano che i militari francesi non hanno impedito lo sterminio dei Tutsi, in nome di una presunta “neutralità”. Anzi, secondo quanto rivela Guillaume Ancel, la missione «non era umanitaria ma militare». «Dovevamo aiutare il regime Hutu a riconquistare il paese» racconta Ancel che aveva 28 anni quando arrivò in Ruanda per partecipare all’operazione Turquoise e ora pubblica un libro su questa oscura pagina di storia.
Il presidente ruandese rilancia le accuse mentre è a sua volta sospettato di aver ordinato l’uccisione di oppositori politici in esilio e di fomentare la pulizia etnica in Congo. Kagame cita un rapporto del 2008, presentato dal ministero della Giustizia ruandese, che documenta il ruolo, tra gli altri, di Mitterrand, dell’ex premier Edouard Balladur, del ministro degli Esteri Alain Juppé e del direttore del suo gabinetto Dominique de Villepin. Ancora una volta, la classe politica francese fa muro contro le gravi insinuazioni. Nel 1998 una commissione parlamentare aveva riconosciuto solo «errori di valutazione ». Con il tempo, il silenzio ufficiale diventa insostenibile. E nonostante le strumentalizzazioni politiche di Kagame, le domande che attendono risposta sono sempre più pressanti.

Corriere 9.4.14
Pakistan, foto giganti di bambini
per fermare gli attacchi dei droni
Le immagini dei ragazzi stese nei campi. Iniziativa messa a punto da una organizzazione internazionale per fermare le bombe: «Oltre cento vittime»
di Francesco Tortora

qui

il Fatto 9.4.14
Nassirya, così noi italiani torturavamo gli iracheni
Due militari rivelano a “Le Iena” i metodi usati nel 2003 per gli interrogatori
di Marco Lillo


Un servizio delle Iene è destinato a riaprire la questione delle torture dei militari in Iraq. Non quelle degli americani, scoperti grazie alle foto con i detenuti al guinzaglio nel 2002 e condannati nel 2003. Bensì le presunte torture che sarebbero state praticate secondo due testimonianze raccolte dalle Iene, da parte delle forze armate italiane in Iraq durante la missione “Operazione antica Babilonia”. L’inviato delle Iene Luigi Pelazza ha intervistato un militare, del quale non viene svelato il nome , allora in servizio nella Brigata Sassari in Iraq. Nell’intervista, che sembra rubata, il militare racconta le presunte torture e fa anche il nome, solo in codice, del capo della squadretta preposta agli interrogatori: il sergente Mirkj. Durante il servizio delle Iene sarà mostrato un video nel quale si intravede in lontananza un militare con uno scudetto, probabilmente lo stemma italiano, mentre in primo piano due arabi con la testa bassa sono costretti a restare legati con le fascette ai polsi e bendati. Già la scorsa settimana Pelazza aveva intervistato, stavolta a volto scoperto, un ex militare che ha prestato servizio per venti anni in missioni all’estero, e che oggi svolge una professione legale in Sardegna. Si chiama Leonardo Bitti e il suo racconto, trasmesso il 2 aprile merita di essere riproposto per inquadrare le nuove rivelazioni anonime. Bitti ha raccontato a Pelazza di avere ricevuto l’ordine da un suo superiore, quando si trovava nel 2003 nella base White Horse vicino a Nassirya, di portare l’acqua con un’autocisterna in una zona periferica del campo. C’era una casa bianca di circa cento metri quadrati suddivisi in tre stanze alla quale potevano accedere pochi militari autorizzati nella quale a suo dire si praticavano gli interrogatori. Al suo interno, “C’erano militari con passamontagna. Alcuni con il manganello in mano erano del Battaglione San Marco e gli altri erano paracadutisti e del ConSubim, cioè i reparti speciali della Marina. La ‘white house’, era completamente buia. La cosa impressionante - ha proseguito l’ex militare - era l’odore che si sentiva di escrementi e urina e le tracce di sangue sparse dappertutto”. Bitti, il cui racconto ovviamente dovrà essere verificato dalle autorità , ha raccontato di avere visto cinque o sei prigionieri davanti a tre tende pronti a essere interrogati “stavano con i piedi incrociati in modo che non potessero sollevarsi e con le mani chiuse dai laccetti da elettricista. Qualcuno era nudo e uno aveva il segno di un manganello sulla schiena”. Il militare intervistato da Pelazza nel servizio di stasera conferma il racconto di Bitti. Prestava servizio anche lui nel 2003 a White Horse. La Iena mostra anche un filmato ricevuto da un militare il quale sostiene sia stato girato all'interno di una tenda militare italiana a Nassiriya.
SECONDO l’anticipazione diffusa ieri da Mediaset: “nel video si vedono chiaramente le mani dei detenuti legate con delle fascette da elettricista, una grossa benda verde sugli occhi, la testa abbassata”. Nell’intervista anonima che sarà trasmessa stasera il militare aggiunge che i prigionieri “li prendeva il Sismi”, cioè il nostro servizio segreto militare ancora una volta al centro di accuse, tutte da provare, che riguardano l’epoca in cui era diretto da Niccolò Pollari. Secondo l’intervistato delle Iene: “Il Sismi era dentro la base. A seconda della retata della notte potevano rientrare anche con dieci persone”. Il militare conferma che i prigionieri erano incappucciati e picchiati duramente. “Lo faceva chi di dovere, perché li dovevi fare parlare. Non c’era un numero di giorni prestabilito. Alcuni parlavano immediatamente ad altri piaceva prendere i colpi”, cioè si ostinavano a tacere di fronte alle violenze (tutte da dimostrare) dei nostri militari. Il capo delle squadrette, l’esperto nelle tecniche di tortura con le scosse procurate dagli elettrodi sui genitali, era, sempre secondo l’intervistato “il sergente Mirkj”. “Se tu arrivi a lui - ha detto il militare a Pelazza - anche i morti sottoterra trovi. Hai presente quando accusano la Polizia di avere interrogato qualcuno con maniere un po’ forti? Bene, quello è l’antipasto rispetto a quello che poteva succedere lì”. Anche Raffaele Bitti conferma: “Il sergente Mirkj esiste e penso che oggi sia sergente maggiore, all’estero”. Secondo Bitti il militare dell’intervista anonima di stasera invece “lavorava con il comandante della base, il generale Bruno Stano e per questo sa molte cose. Anche sul nome del colonnello che partecipava come uditore agli interrogatori”.
DOPO L’INTERVISTA della scorsa settimana non ci sono state reazioni da parte del ministro della difesa del Pd, Roberta Pinotti. “Mi ha contattato solo il sottosegretario alla Difesa, il generale Domenico Rossi”, spiega Bitti, “ci conosciamo da molto tempo. Lui era presidente e io membro del comitato di presidenza del Cocer”, l’organo di rappresentanza dei militari. Stavolta c’è un video e l’intervista di un militare che accusa un altro militare. Sarà difficile far finta di niente. Anche perché nel servizio si parla anche del movente della strage di Nassirya, nella quale i terroristi uccisero 17 militari italiani, due civili e nove iracheni. Una ferita ancora aperta.

il Fatto 9.4.14
Il tour dei pedofili ladri di bambini dal Brasile al Vietnam
Età media 40 anni. Il turismo sessuale ha un giro d’affari di 100 miliardi l’anno
Le loro vittime hanno circa 13 anni
Italiani tra i clienti più numerosi
di Emiliano Liuzzi


Sono 3 milioni i turisti sessuali in movimento ogni anno, un sesto a caccia di minori. E 80mila sono italiani, ai primi posti insieme a tedeschi, austriaci e francesi nelle classifiche stilate dal rapporto dell’Unicef. Primi addirittura in Kenya. Le destinazioni predilette sono Thailandia, Filippine, Cambogia, Vietnam, Laos, Nepal, Pakistan, ma anche Russia e Cina. E poi Brasile, Colombia, Venezuela. I tour a sfondo sessuale sono facilitati dalla distanza relativamente breve e dai voli a basso costo.
Non sono bastati anni di impegno di associazioni come Save the Children o, sul tema più specifico, Ecpat, solo per citarne alcune. E non sono bastati i controlli di polizia agli imbarchi e all'arrivo, il monitoraggio dei siti internet che si occupano di questa piaga, le agenzie di viaggio. Le compagnie aeree, addirittura. Perché le aziende, dove possono fare business, si buttano senza guardare in faccia al reato. Uno tra i peggiori , e questo possiamo scriverlo e sottolinearlo.
Come non basta la norma, introdotta nel nostro Paese da pochi giorni in attuazione di una direttiva comunitaria, che obbliga qualunque datore di lavoro a chiedere il certificato penale qualora il suo dipendente svolga regolari attività professionali con minori.
IL PERCHÉ lo spiega Marco Scarpati, presidente dell’Ecpat, organizzazione che si occupa di difendere i bambini e gli adolescenti dallo sfruttamento sessuale, in Italia e nel mondo, fin dagli anni Novanta. “La direttiva europea era molto più ampia e complessa, e non si può risolvere in un mero problema burocratico. Chiedeva maggiore attenzione per tutti coloro che avvicinano i bambini, che non è solo questione di certificato penale. Il punto è un altro. Serve formazione nelle parrocchie, nelle scuole, nelle palestre. E attività di prevenzione costante, perché non si può intervenire sempre dopo, a fatto accaduto. Lo diciamo da sempre”.
L’Ecpat di cui è a capo Scarpati si occupa di mettere in piedi corsi di formazione e sensibilizzazione per quei diplomatici impegnati nei paesi appartenenti alla black list dello sfruttamento minorile. Professionisti come Daniele Bosio, l’ambasciatore italiano di 46 anni, arrestato a Manila, nelle Filippine, per violazione della legge sui minori. “Pur continuando a sperare nella sua innocenza, mi chiedo come sia possibile che un ambasciatore abbia commesso degli errori, che è poco definire grossolani. Non si possono portare in giro dei bambini e dei minori senza aver avvisato i genitori. Questo almeno lo doveva sapere. È un fatto che ci lascia perplessi. Più in generale mi domando dove stiamo fallendo. Ho cominciato a lavorare nel settore 30 anni fa, lo faccio giorno e notte. Ma sembra quasi che stiamo parlando ai muri: il fenomeno anziché diminuire, aumenta”.
È anche l’assenza totale di programmi di sensibilizzazione a creare un terreno fertile. “Se negli anni 2000 l’Italia ha finanziato ottimi progetti contro lo sfruttamento dei minori, oggi i programmi sono ridotti a zero e i risultati purtroppo si vedono”. E poi c'è la crisi. “Nei momenti di difficoltà economica il corpo di bambini è un'ottima fonte di guadagno. A volte è il ragazzino che vende se stesso. Ma se gli adulti si comportassero da adulti e non comprassero, il problema non esisterebbe”. E se non bastasse questo, ci sono i dati a raccontare un business fondato sulla pelle dei bambini. Un affare, stima l'Ecpat, che va da 80 a 100 miliardi di dollari all'anno. Senza considerare che si parla di un argomento in cui il sommerso è incalcolabile. Secondo gli studi che l'Unicef aggiorna ogni mese, il 65% sono turisti occasionali, il 30% turisti abituali, mentre il 5% sono pedofili. Il 37% dei fruitori ha una fascia d’età dai 31 ai 40 anni e sono per la quasi totalità occidentali. Le vittime del turismo sessuale sono per il 60% comprese in una fascia d’età tra i 13 e i 17 anni, per il 30 % dai 7 ai 12 anni, per il 10% da 0 a 6 anni. Il 75% dei minori coinvolti sono femmine.

Corriere 9.4.14
Cina, suicida l’ultimo poliziotto fedele a Bo Xilai
di Guido Santevecchi


PECHINO — Lo hanno trovato impiccato (suicidio dicono) in una stanza d’albergo a Chongqing. Si chiamava Zhou Yu ed era stato il capo della Squadra anti-crimini economici ai tempi di Bo Xilai, il potente capo del partito nella megalopoli, caduto in disgrazia e condannato all’ergastolo l’anno scorso. Zhou era un poliziotto decorato, definito Eroe quando per ordine di Bo guidava la campagna «cantate rosso, colpite il nero» tra il 2009 e il 2011. Il nero era il crimine organizzato, la corruzione connessa con il mondo degli affari di Chongqing. Zhou arrestava i corrotti, usando le maniere forti per farli confessare.
Lo hanno trovato morto venerdì notte e lunedì il corpo è stato cremato. Poi è stata data la notizia, sul sito web del comando di polizia cittadino. Secondo l’inchiesta è stato un suicidio: l’ufficiale combatteva con il diabete da anni e ultimamente aveva avuto complicazioni al fegato e al cuore; i colleghi riferiscono che era molto abbattuto.
Anche la rovina di Bo Xilai era cominciata con una morte in una stanza d’albergo a Chongqing, quella del businessman inglese Neil Heywood, catalogata in un primo tempo come suicidio. Era il novembre del 2011: il corpo del britannico fu cremato senza autopsia, alla famiglia fu detto che si era ucciso con l’eccesso di alcolici. Quando amici e parenti risposero che Heywood era astemio la versione fu cambiata: infarto. Tutto fu messo a tacere, fino a una notte di febbraio del 2012, quando il vicesindaco di Chongqing, Wang Lijun, si presentò al consolato americano di Chengdu, chiedendo protezione. Aveva una storia enorme da raccontare Wang: era stato il braccio destro di Bo, il capo della polizia nell’operazione «colpite il nero». Fu consegnato ai cinesi. Emerse che Heywood era stato socio di Gu Kailai, la moglie di Bo (e anche suo amante). Ed era stato assassinato da lei.
La faccenda, il più grosso scandalo politico-criminale nella storia della Cina post-maoista, finì con due processi. Gu Kailai confessò di aver eliminato Heywood con il veleno: si scoprì che il capo della polizia Wang aveva preservato una porzione di fegato del morto prima della cremazione. La signora è stata condannata a morte con pena sospesa.
Il marito Bo, espulso dal partito proprio mentre si preparava a diventare membro del Politburo, davanti ai giudici si è difeso sostenendo di essere all’oscuro delle trame della moglie (favori a industriali, tangenti, acquisto di ville all’estero, il delitto). Bo ha detto che Gu lo aveva tradito non solo con l’inglese, ma anche con il capo della polizia Wang. È stato condannato all’ergastolo nel settembre del 2013 per corruzione e abuso di potere. Il regime poliziesco con cui aveva governato Chongqing era stato efficace, ma anche spietato e controverso: con la scusa di ripulire la città dalle mafie locali la sua polizia aveva arrestato almeno cinquemila persone, molti imprenditori privati, e usato anche la tortura per ottenere le confessioni.
Bo Xilai, bruciato da una lotta di potere al vertice del partito comunista, sconta la pena in un carcere di massima sicurezza alle porte di Pechino. In cella anche Wang. Ora il suicidio dell’eroico comandante della Squadra anti-crimini economici. Il comunicato della polizia di Chongqing parla di depressione dovuta alla malattia e non c’è nessun indizio per non crederlo. Ma certo anche Zhou Yu aveva molti nemici e se sapeva altre cose sull’ascesa e la caduta del neo-maoista Bo Xilai se le è portate nella tomba.

il Fatto 9.4.14
Patrimonio all’italiana
Quel che resta di Gramsci
di Tomaso Montanari


QUI ANTONIO Gramsci abitò negli anni 1919-21 nelle lotte operaie contro l’incombente reazione forgiando il partito comunista, guida decisiva per la libertà e il socialismo”. La lapide posta nel 1957 sul muro del palazzo torinese che ospitò le riunioni di redazione dell’Ordine Nuovo sarà presto oscurata da un’insegna ben altrimenti visibile, in cui si leggerà: Hotel Gramsci.
In un paese in cui i teatri greci vedono rombare le macchine di lusso, le librerie si convertono in supermercati di lusso, i ponti vengono affittati a club di super-ricchi, le biblioteche ospitano partite di golf e i musei si riducono a location per sfilate di moda, non stupisce che quell’edificio di Torino vada incontro a una sorte simile . Quel che pare allucinante è che la catena NH Hotels e i suoi partner italiani (tra cui Intesa San Paolo) abbiano deciso di usare il nome di Antonio Gramsci per battezzare un albergo a cinque stelle, con area fitness e piscina sul tetto. Associando così ad un potente simbolo di lusso e diseguaglianza il nome di chi ha scritto che “non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica”. Chi chiamerebbe “Gesù spa” una banca d’affari con sede a Betlemme, chi intitolerebbe a Gandhi un poligono di tiro a Nuova Delhi?
Eppure, il direttore dell'Istituto Piemontese Antonio Gramsci, Sergio Scamuzzi, ha dichiarato: “Non ci vedo niente di male, nessun elemento fuorviante o che va a collidere con la storia di Gramsci. Credo anzi che lui sarebbe molto contento di sapere che un albergo con il suo nome produrrà occupazione”. È stupefacente come sia saltata ogni idea di decoro, che vuol dire saper mettere le cose al loro posto. Qui non si tratta di decidere se Gramsci avrebbe approvato l’esistenza di un albergo di lusso, si tratta di usare il suo nome per vendere quel prodotto: contribuendo alla marmellata generale che ci opprime, e che trova l’unico valore di riferimento nel denaro. Come ha detto Nicola Tranfaglia, “il carcere duro e la terribile morte che sono toccati in sorte a Gramsci hanno poco a che fare con l’immagine di un hotel di lusso”. Punto.

Corriere 9.4.14
Perché non siamo figli del nulla
Il timore della morte ci accompagna. Ma ogni cosa viene da qualcosa
Anche se non vogliamo riconoscerlo, noi, in fondo, siamo sempre scontenti di tutto ciç che siamo e abbiamo
di Emanuele Severino


In ambito scientifico cresce l’insofferenza per la filosofia. Vi sono buone ragioni. Quanto vi è oggi di decisivo nel pensiero filosofico, infatti, tende a rimanere sullo sfondo. Accade anche, però, che insieme all’insofferenza cresca anche, nella scienza, l’interesse per i problemi che sono sempre stati propri del pensiero filosofico. Relativamente ai quali essa crede di poter andare molto più a fondo.
Ad esempio, la scienza si propone di giungere finalmente a una «teoria del Tutto». Connesso alla quale è il problema del nulla. Il Tutto è infatti la regione al di là della quale resta, appunto, nulla. È recente l’accesa discussione, suscitata in ambito scientifico e filosofico all’estero ma anche in Italia, dal libro del fisico statunitense Lawrence Krauss Un universo dal nulla . Perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla? Krauss sostiene che il concetto di nulla è scientifico e non filosofico. Ma questo importa poco: il problema resta, qualunque nome gli si voglia dare. Tutt’al più si potrà dire che Krauss non conosce la filosofia e la sua storia (ma lo si può dire anche di certi filosofi, non pochi, del nostro tempo).
Il problema è presente in ogni ambito della scienza e della cultura. E innanzitutto nella vita dell’uomo. Egli è desiderio della vita e timore della morte. In che rapporto sta la morte col nulla? La morte è l’annullamento di ogni nostra esperienza? Per vivere occorre cibo e riparo. Per ottenerli si sono sperimentate diverse tecniche e forme economiche. Il capitalismo è divenuto quella dominante. L’economista Joseph Schumpeter ha definito il capitalismo «distruzione creatrice». (Crea nuovi mezzi di produzione, quindi nuovi rapporti sociali, e distrugge i vecchi. Ma poi ogni tecnica è distruzione creatrice). E in che rapporto stanno la «distruzione» e la «creazione» col nulla? Hanno senso queste parole se non si pensa il nulla?
Ancora. Per le religioni monoteistiche, le «religioni del libro», il mondo è creato «dal nulla» — ex nihilo , dice la teologia cristiana. Il cristianesimo perderebbe gran parte della propria anima e del proprio significato se volesse prescindere dal nulla che tutte le cose sono prima della loro creazione. Da gran tempo la matematica ha introdotto lo zero tra i numeri. Lo zero è una forma di assenza . I Greci lo chiamavano «nulla» (oudén ) . Come è una forma di assenza l’«insieme vuoto». Zero e insieme vuoto sono i modi più visibili in cui le matematiche pensano il nulla. E l’arte! Dove l’aspetto minaccioso e insieme ineliminabile del nulla e del «silenzio nudo» si mostra nel modo più vivido. Non solo nella poesia e nella narrativa, ma anche nelle arti figurative la precarietà dell’esistenza e delle sue forme positive, desiderabili, sta al centro. E l’intreccio del suono e del silenzio — della vita e della morte — è il fondamento stesso della musica.
Assenza, privazione, mancanza, vuoto, perdita, estinzione, silenzio: non sono forse essi gli stati in cui il mondo si trova quando i suoi contenuti e le sue forme diventano nulla? Diciamo continuamente che «qualcosa non esiste ancora» e «non esiste più». Lo si dice ovunque, in ogni campo. Ovvio che queste espressioni siano presenti nella biologia, nella paleontologia, nella storia — la stessa biologia molecolare parla di «storicità» dei fenomeni —, nella fisica e così via. Ma quelle due espressioni non significano forse, rispettivamente, che «qualcosa è ancora nulla» ed «è ormai nulla»?
Della filosofia non c’è bisogno di parlare: è essa a portare alla luce il significato radicale del nulla: — il nulla come nulla assoluto, l’assolutamente altro dalla totalità degli enti — e a continuare a rivolgersi ai problemi suscitati da tale significato. Il rivolgersi ad esso è l’inizio della storia dell’Occidente, ossia di ciò la cui essenza domina il Pianeta.
Il fisico Luke Barnes, delle tesi del collega Lawrence Krauss, ha criticato soprattutto quella per la quale, essendo pensabile che l’universo provenga da uno stato privo di materia, di particelle, di spazio, di tempo, di leggi, è possibile pensare che esso e le cose in esso contenute provengano dal nulla. Barnes obbietta che se si può concedere che le particelle provengano da stati senza particelle, esse però non provengono dal nulla. Lo stesso si dica per lo spazio e il tempo. Aristotele l’aveva detto più di duemila anni fa: all’inizio del generarsi delle cose non c’è il nulla, ma qualcosa; «le cose si generano da qualcosa a qualcosa».
Ma chiediamoci (una domanda che faccio da gran tempo): ammesso che una casa sia costruita col materiale di costruzione, col progetto dell’architetto e il lavoro degli operai, — tutte cose che esistono già prima della casa —, questo vuol forse dire che tutto ciò che la casa ora è preesisteva alla sua costruzione? No! altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di costruirla.
C’è dunque un residuo che prima della costruzione della casa non esisteva ancora. E che significa questo suo non essere ancora? Diciamolo: questo residuo era nulla. Non in qualche senso nulla e in qualche altro no, ma era assolutamente nulla. Se le particelle provengono da stati senza particelle — ossia da qualcosa —, ciò non significa che tutto ciò che le costituisce esisteva già, prima della loro esistenza; quindi c’è un residuo che prima che esse incominciassero ad esistere era nulla, assolutamente nulla. Che le cose vengano da qualcosa e che, insieme, vengano dal loro nulla non sono dunque affermazioni incompatibili, ma l’una implica l’altra. Appunto perché all’inizio del divenire c’è il loro esser nulla, non la nullità di tutte le cose.
Ma una volta detto che l’uomo continua a pensare al nulla e a parlarne, il problema del nulla si presenta in tutta la sua potenza. Il nulla è la fonte dell’angoscia più profonda dell’uomo. (Agostino è arrivato a dire che gli uomini preferirebbero la dannazione eterna al loro definitivo annullamento). Tuttavia, sin dall’inizio del pensiero filosofico si sa che, proprio perché pensiamo il nulla e ne parliamo, proprio per questo il nulla ci sta dinanzi e ci dà da fare, così potente da esser la fonte della nostra angoscia. Accade cioè che il nulla sia qualcosa. Ciò che non è un «qualcosa» è «qualcosa». E poiché ovunque noi abbiamo a che fare col nulla, ovunque noi ci troviamo nell’oscurità più profonda — giacché la più profonda radice di ogni oscurità è credere, appunto, che il nulla, l’assolutamente nulla, sia qualcosa, e vivere conformemente a questa convinzione. L’intero universo è sbilanciato, spaesato, sfigurato e noi viviamo in esso, sbilanciati, spaesati, sfigurati, per quanto grandi e belle e potenti siano le cose da noi fatte e pensate. Nell’oscurità, che senso possono avere la salvezza, la felicità, il piacere? Infatti, anche se non vogliamo riconoscerlo, noi, in fondo — un fondo che spesso si lascia vedere —, siamo sempre scontenti di ciò che siamo ed abbiamo.
Ma non è questa l’ultima parola.
L’assurdo non ha partita vinta. Bisogna, però saperla giocare. La si gioca male quando, ad esempio, si crede di vincerla decidendo che la parola «nulla» è assolutamente priva di senso.. Qui si gioca male, perché l’espressione «ciò che è assolutamente privo di senso»«è un sinonimo della parola «nulla». Gettato dalla finestra, il nulla rientra dalla porta. La maggior parte dei saggi dell’ultimo numero della rivista «Il pensiero», diretta da Vincenzo Vitiello , si riferisce appunto al modo in cui nei miei scritti si mostra perché l’ultimo orizzonte — come chiamarlo altrimenti, in questa sede? — ci rende liberi dalla minaccia e dall’assurdo del nulla. (e ringraziando tutti i collaboratori mi congratulo per le loro riflessioni). A questo tema si è riferito anche lo storico della psicologia Gabriele Pulli, nel suo libro Freud e Severino , (Moretti e Vitali Editori). In queste pagine interessanti il discorso sul nulla si allarga e si unisce alla tesi, sostenuta da Pulli, del carattere complementare degli scritti di Freud e dei miei. Anche in questo caso c’è da discutere.
Comunque, è inevitabile che, qui, il mio discorso sul nulla rimanga in sospeso, e forse fin troppo pericolosamente in sospeso. Si tratta di scorgere il senso autentico dell’ ambiguità del nulla.. Giacché soprattutto di esso è necessario dire: Nec tecum , nec sine te .

L’altra tesi
Il fisico Lawrence Krauss, 60 anni, americano è l’autore del saggio L’universo dal nulla, edito in Italia dalle Macro Edizioni (pp 187, euro 14,50) con la prefazione di Richard Dawkins

l’Unità 9.4.14
La mappa di Utopia
Viaggio alla scoperta dell’isola della felicità, il luogo che non esiste
di Luciano Canfora


QUANDO NEL 1516 THOMAS MORE DIFFUSE – a Lovanio presso l’editore Martens - il suo celebre scritto Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova Insula Utopia diede, con quel doppio titolo, vita ad un gioco verbale che deriva dalla pronuncia di due diverse parole greche, o meglio modellate sul greco, che però si pronuncerebbero, in inglese, allo stesso modo: ou-topos (= luogo che non esiste) ed eu-topos (= luogo felice). Il gioco era intenzionale perché lasciava aperte due possibilità. Suggeriva che la felicità - cioè lo Stato perfetto - coincide con un luogo inesistente, ma lasciava anche adito alla interpretazione più ottimistica: che cioè «un luogo di felicità» potrebbe comunque esistere, o forse è già esistito o addirittura esiste da qualche parte. (...)
Il modello era antico: quello delle «isole dei beati», dove approda fortunosamente Odisseo nell’Odissea o anche Giambulo nel secondo libro di Diodoro Siculo (I sec. a.C.). L’idea, antichissima, era che dunque da qualche parte ci fosse, nel pianeta, la sede della felicità. Gli antichi Greci avevano però concepito in proposito anche un’altra idea, molto meno ottimistica, che cioè la felicità («l’età dell’oro») appartenesse ad un tempo remotissimo e ormai smarrito per sempre. È l’altro grande autore della grecità arcaica, Esiodo, che la pensa in tal modo e affida questa concezione della «storia come caduta» al suo poema, Le opere e i giorni, dove, al principio, sviluppa la parabola mitico-storica delle cinque età dell’uomo, tutte in discesa.
L’utopia antica è dunque o un viaggio nello spazio o un viaggio nel tempo. In entrambi i casi molto problematico. Inutile dire che il motivo del viaggio nel tempo poteva comportare anche un’idea propositiva: auspicare che quel tempo felice ritornasse, immaginare cioè che «l’età dell’oro» fosse - come ebbe a scrivere Saint-Simon - davanti a noi, nel nostro futuro, non alle nostre spalle. Un tale idoleggiamento per lo più statico, quasi mai accompagnato da impegni di lotta mirante ad attuare la «felicità», veniva deriso dai comici ateniesi del V e IV secolo a.C. per i quali tale visione era una delle tante stravaganze, o follie, dei filosofi. La storia della critica dell’utopia è non meno interessante della storia dell’utopia. Entrambe sono istruttive per noi, che siamo oggi destinatari di una predicazione ingannevole a proposito dell’«Europa unita» come luogo «felice» finalmente raggiunto da popoli a lungo infelicissimi come gli europei. L’inganno è palese e perciò non se ne parla quasi mai: l’unione giova ai potenti e schiaccia e ricatta tutti gli altri. Non è notissimo, ma merita un cenno, il fatto che la voce Utopia dell’Enciclopedia Italiana sia dovuta a Delio Cantimori, all’epoca libero docente di storia del cristianesimo all’Università di Roma, e che si concluda indicando la «riorganizzazione pacifica dell’Europa», propugnata da Coudenhove-Kalergi, come una delle tipiche utopie moderne. Dopo la sconfitta del socialismo può sembrare che non resti nulla, se non utopie. Ma l’utopia è una cosa di enorme importanza, che in realtà è ancora davanti a noi.
La sua storia è assai lunga e ha inizio nella Grecia antica. Qui sono riconoscibili tre tipi diversi di utopia: quella di origine urbana, quella che potremmo definire aristocratica e quella ellenistica. Quest’ultima si sviluppa nell’epoca in cui la Repubblica romana domina il Mediterraneo intero, seppur in conflitto con altre forze, spirituali e sociali: un’utopia nettamente cosmopolita. L’utopia urbana è rappresentata dalla commedia di Aristofane, un grande personaggio, vissuto nel V secolo prima dell’età nostra, che parlava di utopia anche quando sembrava trattare d’altro. Basta scorrere i titoli delle undici commedie che ci ha lasciato per vedere come l’utopia circoli dappertutto. L’utopia della pace, ad esempio - negli Acarnesi e nella Pace - concepita in una fase in cui tutto il potere ad Atene è bellicista. O l’utopia della ricerca della felicità attraverso la fuga dalla città, come negli Uccelli, la celebre commedia in cui si immagina una città celeste, rifugio di chi abbandona l’Atene terrestre durante la «caccia alle streghe» dell’anno 415 a.C. O ancora Lisistrata, in cui si affronta il tema dell’uguaglianza dei sessi di fronte alla guerra. Alla fine della sua carriera Aristofane scrive il Pluto sul tema della ricchezza e Le donne al parlamento, la più anti-utopistica delle sue commedie.(...) Qual è lo scopo che si prefigge Aristofane con questa storia? Secondo alcuni quello di fare una malevola caricatura delle utopie diffuse negli strati sociali più poveri di Atene. Altri scorgono una critica del pensiero platonico. Platone nel testo fondamentale del comunismo antico - la Repubblica, vero e proprio manifesto dell’utopia aristocratica - si rifà ad istanze egualitarie circolanti già molto prima di lui, ma introduce come sua peculiare innovazione la «comunanza delle donne » che scatena la reazione di Aristofane. Tra gli antecedenti remoti spicca Caronda, di Catania, il quale aveva scritto un codice di leggi. Secondo tale codice chi avesse voluto modificare la legge avrebbe dovuto presentarsi all’assemblea con una corda intorno al collo, in modo che, se per caso la sua proposta fosse stata respinta, sarebbe stato impiccato seduta stante. La novità dell’impostazione di Caronda - secondo quanto riferisce lo storico Diodoro Siculo - consisteva soprattutto nell’onnipresenza dello Stato nella vita privata dei cittadini. Con una attenzione tutta particolare alla questione dell’alfabetizzazione. Il legislatore catanese infatti era convinto che il benessere discende dalla cultura. Gli illetterati, non essendo in grado di esercitare i loro diritti, sono uomini il cui spirito è paralizzato.
(...) Il terzo genere di utopia è quella ellenistica, che si divide in due grandi scuole di pensiero: la stoica e l’epicurea, il cui maggiore rappresentante nella letteratura romana fu Tito Lucrezio Caro. Lucrezio visse al tempo della guerra civile tra Cesare e Pompeo e fu contemporaneo di Cicerone. Nel suo grande libro De rerum natura Lucrezio ci presenta il suo ideale di felicità epicurea: osservare dall’alto di un bastione «fortificato di saggezza» lo spettacolo dei contrasti tra gli uomini, quali il desiderio di ricchezza, la follia delle guerre civili, la battaglia per il potere. L’unica salvezza è quella del saggio che - come Eraclito e Democrito - ride o piange per la stessa ragione e cioè a causa della follia degli uomini. Per parte sua Lucrezio propugna il ritorno alla cosiddetta vita prior, cioè lo stadio dell’evoluzione umana caratterizzato da una egualitaria vita non fastosa, ma ridotta ai bisogni essenziali.
Sul versante stoico emerge la figura del fondatore, Zenone. Lo stoicismo risente di molte e diverse influenze, tra cui quella della religione solare che considera gli uomini parte del grande corpo della natura, che tutti ci lega e ci fa parenti. È anche questa una visione che produce utopia. Diodoro Siculo (I a.C.), influenzato dallo stoico Posidonio, fornisce un racconto romanzesco che racchiude un progetto utopico. Protagonista è Giambulo, il quale viene condotto su un’isola felice, l’isola degli adoratori del sole. Essi conoscono tutte le lingue e non hanno bisogno di lavorare, perché la natura produce frutti a sufficienza per tutti e il sole è sempre allo zenit. Tutti dunque possono dedicarsi alla conoscenza, ignorando ogni chiusura familiare e amando tutti i propri bambini senza distinzione, onorando e festeggiando periodicamente il sole.
Al termine dell’età romana si viene affermando una realtà inquietante, che demolisce l’impero dall’interno: la Chiesa cristiana. Il cristianesimo dilaga a partire da un libro elementare, che è - per così dire - il romanzo biografico dell’eroe eponimo di quella religione: il Nuovo Testamento. In rapporto al livello della cultura pagana precedente, l’alfabetizzazione elementare delle masse cristiane, fondata su un unico libro, porta con sé un elemento di barbarie. I contadini, i coloni, i barbari che hanno conosciuto il libro e l’alfabeto grazie alla diffusione del Nuovo Testamento ci appaiono come una realtà inquietante, molto al di sotto del livello intellettuale degli abitanti delle isole del sole. Ma si sa che la storia non ha alcun obbligo di adattarsi alle previsioni dei filosofi.

Corriere 9.4.14
L’ascesa della Curia dopo l’anno Mille
di Giuseppe Gallasso


Pensano in molti che, fra le tante «novità» apportate da papa Francesco, fin dall’inizio del suo ministero, meritino il primo posto i suoi disegni di riforma della Curia romana nei suoi quadri dirigenti e nel suo ruolo nella vita della Chiesa. Si crede che il Papa voglia sostituire largamente i vertici della Curia, per tradizione in gran parte italiani; internazionalizzare del tutto o quasi questi vertici con la nomina di prelati di altre parti; ridurre, in qualche misura, il ruolo della Curia, finora centrale e determinante, rispetto alla totalità dell’organismo ecclesiastico.
Era naturale che da ciò derivasse una sequela di considerazioni sulla Curia come articolazione nefasta e deviante, non rispondente agli interessi veri della Chiesa. Sostituire poi gli italiani in quel fortilizio della potenza ecclesiastica risponde pure a convinzioni di antica data e sedimentazione nella Chiesa, di non italiani quanto di italiani.
Certo, la materia che nel tempo lungo della Chiesa si è accumulata per provocare la diffusa impopolarità della Curia romana, che popolare non è mai stata, è tale e tanta da spiegare l’avversione attuale (le recenti vicende dello Ior hanno messo la ciliegina sulla torta). Dal punto di vista storico, le cose non sono, tuttavia, così facili da giudicare come appare nei discorsi correnti.
La Curia non è stata un’escrescenza casuale nella storia della Chiesa. Al contrario, ne ha fatto intimamente parte. Almeno dai tempi della cosiddetta «riforma gregoriana», ossia da dopo il Mille, la storia dell’organismo ecclesiastico ha trovato nella Curia il suo principale, stabile e più costante puntello.
È difficile, ad esempio, pensare a quel che avrebbe potuto essere il destino della Chiesa nel momento della grande rottura protestante dell’unità cattolica, se l’azione pontificia e la Controriforma non avessero potuto contare sulla Curia come base strategica e operativa. Anche ad essa fu dovuto se la Chiesa e, per essa, i Papi poterono lavorare in quei frangenti drammaticissimi così intensamente e, per molti versi, con grande successo, come fecero. E si consideri che la Curia della Controriforma veniva fuori da quella rinascimentale, proverbialmente corrottissima, ma evidentemente non distruttrice delle riserve di energie e di slanci presenti nell’organismo ecclesiastico.
Né, prima e dopo di allora, quello fu il solo momento della verità per il rapporto tra Curia e fortune della Chiesa, oltre che tra Curia e Papato. La Curia è, comunque, un’istituzione storica, e, come tutte le altre, di certo non ha per sé l’eterno. Nel corso del tempo essa si è, poi, via via, tanto trasformata da rendere incomparabile la sua struttura di oggi con quella di cinque o dieci secoli fa. L’essenziale è, però, che l’ufficio da essa svolto nel corso del tempo è stato sempre centrale e strategico, e dal secolo XVI in poi ha accompagnato la Chiesa, fra l’altro, nel suo trasformarsi da istituto europeo in un centro religioso dal raggio di azione planetario.
È presto per dire che papa Francesco va davvero nel senso di una trasformazione e ridimensionamento radicale della Curia. Non è troppo presto, invece, per dubitare che, alla domanda se possa esservi una Chiesa senza Curia romana, si possa, a cuor leggero, rispondere di sì; e per ritenere che, finché vi sarà, come a tutt’oggi, una centralità e sovranità pontificia, la Chiesa e il Papato non potranno fare a meno di un braccio curiale, comunque articolato.
È, in fondo, lo stesso discorso che si può fare per altre strutture e prassi della vita della Chiesa. Si pensi solo al Conclave. Si possono ora vedere gli ottimi volumi su Morte e elezione del Papa (ed. Viella), di Agostino Paravicini Bagliani (Medioevo , pp. 338, e 25) e di Maria Antonietta Visceglia (Età modern a, pp. 590, e 49). Anche il Conclave ha avuto una plasticità storica, che l’ha portato alla sua forma attuale; e anche per esso è errato credere che si tratti di un istituto oligarchico, isolato nel suo potere e lontano dalla realtà del mondo cattolico. In particolare l’illuminante ricerca della Visceglia mette bene in luce i nessi molteplici per cui l’esperienza del Conclave si lega con mille fili continui e forti alla vita del mondo cattolico. Se si deciderà di riformare anch’esso, bisognerà una volta di più affrontare il problema di una decentralizzazione della Chiesa alla luce di considerazioni più complesse della semplice antitesi fra Roma accentratrice soffocatrice e la periferia oppressa e senza voce.

Corriere 9.4.14
Lucrezia, la santa dei Borgia
Dario Fo: «Non ha tramato e non ha ucciso. È stata una vittima»
di Giuseppina Manin


Ma quale avvelenatrice. Quale mangia uomini assatanata di sesso e di potere. «Lucrezia con i veleni non ha mai avuto a che fare. Lei non ha tramato, non ha ucciso nessuno. È stata soprattutto una vittima, bella e intelligente, nata per sua sventura con il marchio sciagurato dei Borgia». A sorpresa, cinque secoli dopo la sua morte, Lucrezia Borgia trova il suo difensore più strenuo e inatteso in Dario Fo, giullare della storia, premio Nobel per averla sempre raccontata oltre i cliché. A 88 anni Dario le dedica un libro e un ritratto, preso da Bartolomeo Veneto. Che ce la mostra giovane, bionda, lo sguardo deciso, un seno malizioso sgusciato dalla veste, sulla copertina di La figlia del papa , 190 pagine inframmezzate da bei disegni di Fo (Chiarelettere, e 13.90, in libreria da domani).
L’idea di ridare a Lucrezia quel che è di Lucrezia e ristabilire la verità dei fatti gli è venuta guardando in tv il famoso sceneggiato sui Borgia. «Fatto benissimo per carità. Grandi attori, grande pathos narrativo… Ma tutto falso. Un feuilleton che riprende altri feuilleton del passato. Dal seicentesco Peccato sia una puttana , dove John Ford s’ispira alla leggenda di una Lucrezia dark lady , al dramma a fosche tinte di Victor Hugo poi diventato opera lirica con Donizetti, al romanzo di Dumas padre».
Ricostruzioni scandalistiche, intrise di eros e morte, tanto più suggestive in quanto la protagonista era una donna, giovane, affascinante, al centro di mille crimini e misfatti. Ma la storia, quella autentica, assicura Fo, non è andata così. «Il Cinquecento italiano lo conosco bene, ho scritto dieci libri ambientati in quell’epoca. Per i Borgia mi sono documentato su vari testi, compreso quello di Maria Bellonci, ho cercato documenti nelle biblioteche di Cesena e Forlì. Alla fine, tutte le fonti più autorevoli concordano che quell’immagine di Messalina lussuriosa e sanguinaria non corrisponde affatto alla vera Lucrezia».
Che forse non è il caso di proclamare santa subito, ma almeno le si deve qualche scusa per tanta fama sinistra e tanti gossip malevoli che hanno fatto di lei una delle creature femminili più perverse della storia. In realtà, racconta Fo, a giustificare quell’aura nerissima erano i maschi di famiglia. A cominciare da Rodrigo Borgia, cardinale che teneva famiglia, padre clandestino di quattro figli illegittimi avuti con la fiorente Vannozza Cattanei, cui subito viene trovato un marito di convenienza. Anzi due, visto che il primo, Giorgio de Croce, professione scrittore apostolico, muore in fretta. E il secondo, Carlo Canale, un letterato, si adegua subito alle regole della casa: sempre presente di giorno, pronto a scomparire alla sera per lasciar posto a «zio» Rodrigo. Che puntuale arriva, così affettuoso con quei bimbetti, specie con Lucrezia. «Ma quando viene eletto al soglio pontificio con il nome di Alessandro VI, ecco che da vero Papa-padrone butta all’aria ogni riguardo, decide di non curarsi più delle apparenze, convoca la figliolanza e annuncia: da oggi non sono più il vostro zio ma il vostro padre».
Ma il Papa-papà non si ferma lì. I figli vanno bene, già ha in mente di usare ciascuno di loro per le sue manovre politiche e finanziarie. Vannozza però non è più quella di un tempo. Papa libertino, Rodrigo-Alessandro s’invaghisce di Giulia Farnese. Lui ha 58 anni, lei 14. Lucrezia, che ne ha appena qualcuno di meno, scopre così che lo zio-padre è ora l’amante di una sua amica, pure lei prontamente accasata con il solito nobile compiacente, Orso Orsini, orbo di un occhio e affetto da una furuncolosi deturpante che faceva di lui un marito al di sotto di ogni sospetto.
«Quello di inventarsi matrimoni ad hoc — ricorda Fo — era un vero talento in casa Borgia. Spalleggiato dal figlio Cesare (il futuro Principe di Machiavelli) papa Alessandro usa la bellezza e la cultura di Lucrezia come merce di scambio a seconda delle alleanze in vista. Per ingraziarsi gli Sforza contro l’imminente invasione francese, le fa sposare Giovanni, duca di Pesaro. Quando non gli serve più, dichiara il genero impotente e nullo il matrimonio. Dopotutto il Papa è lui».
Cortesie che gli Sforza ricambiano mettendo in giro la voce che tra padre e figlia ci fosse un legame più stretto del lecito. E così pure tra lei e il fratello. Ma Fo smentisce. «I Borgia le loro orge se le vivevano altrove, Lucrezia era da immolare in altri letti. Prima in quello di Alfonso d’Aragona, poi di Alfonso d’Este…».
Tre mariti, il secondo assassinato, qualche amante, molti figli, molti aborti, troppe faide familiari… Tutto sulla sua pelle. Lucrezia non ne può più. «Con grande dignità e coraggio si sfila da quel groviglio di vipere. Appassionata studiosa di San Bernardino e Santa Caterina, nel 1512 dà vita a un convento rivoluzionario, basato più sulle opere che sulla preghiera e a Ferrara fonda un Monte di Pietà per aiutare i più poveri. Si occupa persino delle carceri… Pierre Terrail de Bayard, il “cavaliere senza macchia e senza paura” disse di lei: “Ella era bella e gentile e dolce con tutti”». Tratti che, riferiti da Fo, non possono non far pensare a Franca Rame. «Mentre scrivevo certi passaggi del libro — confessa — dovevo fermarmi per l’emozione».
Del resto, durante la stesura, la realtà non l’ha mai abbandonato. «Il mondo dei Borgia, i loro intrighi, le loro dissolutezze, il loro opportunismo politico non sono molto diversi da quelli che ben conosciamo. È tutto quello che Berlusconi avrebbe voluto fare e gli è riuscito solo in parte. Colpa, s’intende, delle solite leggi comuniste e persecutorie».

Corriere 9.4.14
Rai3 vuole innovare ma sceglie Augias
di Aldo Grasso


Il direttore di Rai3, Andrea Vianello, continua nelle sue coraggiose sperimentazioni: idee nuove, conduttori giovani. Ha infatti affidato a un esordiente, Corrado Augias, il difficile compito di condurre un programma culturale, croce e delizia della tv. Lo ha incoraggiato, gli ha detto: raccontiamo la storia di quelle persone che con le loro idee hanno cambiato il mondo. Detto, fatto: «Visionari» (lunedì, ore 23.05).
Il giovane Augias ha scelto persone con cui ha molta affinità (uno di loro) e non si è tirato indietro di fronte ai pericoli che la cultura in tv comporta. Posso sbagliarmi, ma Augias deve aver studiato le famose «Serate» di Beniamino Placido: gli argomenti venivano affrontati con competenza e divertimento, i problemi complessi governati con leggerezza e grande mobilità dei punti di vista.
Augias parlava di Charles Darwin, mescolando generi (l’intervista possibile, l’intervista reale, le citazioni filmiche, i tuffi nel presente…) e affrontando spavaldamente il problema dei problemi: siamo figli di un processo di selezione naturale o di un disegno intelligente?
A differenza di Placido, Augias manca di ironia (si prende terribilmente sul serio) e non conosce le finezze della sprezzatura (in tv, quelli che vogliono far saper allo spettatore che sono colti hanno un modo tutto particolare di storcere la bocca, quasi a voler intimorire l’altro). Per fortuna in studio c’erano gli ottimi Telmo Piovani (è più anziano di Augias, altrimenti sarebbe bello fargli condurre un programma) e Ilvo Diamanti. C’era anche il teologo piacione, Vito Mancuso, il conciliante Mancuso, ponte perfetto fra laici e credenti.
Peccato che il palinsesto televisivo non sia mai frutto di una selezione naturale. Però Vianello fa bene a puntare sulle novità, anche se la tv si rifiuta di educare chi la guarda allo scopo di educarsi.

Corriere 9.4.14
Gli incontri di Lugano
Arte, fisica e sociologia Come cambia il concetto di identità
di Severino Colombo


Il singolare che diventa plurale, l’uno che si moltiplica in centomila.
È un caleidoscopio quello di «Visioni in Dialogo», giornata di incontri che si tiene sabato 12 aprile a Lugano: artisti, filosofi, scienziati e storici a confrontarsi sul tema della folla. Argomento trasversale si presta a letture sociali, antropologiche, demografiche; riguarda tanto la rappresentanza politica quanto l’orientamento del pensiero e dei consumi; i concetti di appartenenza e collettività, di popolare ed elitario. «L’arte è stata identificata più con i singoli e con i pochi che con le folle, ma le folle ne hanno quasi sempre riconosciuto il potere simbolico» dice Cristina Bettelini, presidente dell’associazione «Fare arte nel nostro tempo» che promuove il ciclo con il Museo cantonale d’arte di Lugano (partner: Pro Museo associazione degli Amici del Museo Cantonale d’Arte, Società Ticinese di Belle Arti, L’Ideatorio Università della Svizzera Italiana, Chiassoletteraria). In una prospettiva multidisciplinare la relazione introduttiva è affidata a Marco Franciolli, direttore del museo luganese; poi l’intervento di Jacques Lévy, professore di geografia e urbanesimo a Losanna. La riflessione del fisico Michele Parrinello, professore di scienze computazionali a Zurigo, allarga il concetto di «affollamento» dalle persone alle molecole: già Dirac Medal, membro della British Royal Society e dell’Accademia dei Lincei, Parrinello è noto per le innovazioni nei calcoli delle strutture elettroniche e delle simulazioni atomistiche. Arte e identità, arte e cultura, arte e metodo: sono poi i temi affrontati da Hou Hanru, critico d’arte e curatore, nuovo direttore artistico del Museo Maxxi di Roma; da Elena Volpato, storica dell’arte e curatrice  (Galleria d’arte moderna e contemporanea, Fondazione Torino Musei); da Du Zhenjun, artista conosciuto per le sue «opere dinamiche», video interattivi che grazie a sensori accolgono interventi degli spettatori; e da Marco Müller, direttore artistico di festival cinematografici (prima Locarno e Venezia, ora Roma). «Visioni in Dialogo» ha cadenza semestrale: il primo focus ha riguardato  la Solitudine; dopo la Folla,  in autunno tocca a un’indagine sulla dinamica  «Osservatore/ Osservato» e, nella primavera del 2015, al concetto di Tempo.

Corriere 9.4.14
Dentro la pazza folla
Dalle tele di Camille Pissarro ai racconti di Edgar Allan Poe
Il fascino sottile e inquietante della moltitudine moderna
di Roberta Scorranese


Quanto spaventava la Ringstrasse viennese negli anni a cavallo tra Otto e Novecento! Carrozze velate che tagliavano la via formicante di aristocratici, borghesi e pezzenti, uno sciame variegato unito dalla scoperta di un qualcosa che, lentamente, assumeva una vita a sé: la città. Si guardi l’acquerello del viennese Theo Tasche, Passaggio sulla Ringstrasse, del 1908: la metropoli con i suoi negozi, il respiro polveroso, i borbottii. Le dame-bene ai balconi dei palazzi che avevano ispirato Maupassant (nella novella Le signe , 1886) e che ispireranno a Freud L’architettura dell’isteria (1897) con la medesima immagine gravida di simboli: l’affacciarsi alla finestra. Quell’ansia sottile e misconosciuta di uscire di casa e farsi massa, tutt’uno con quel microcosmo dinamico, mosso da un ritmo invisibile e convulso. Nasceva la folla.
Folla. Il tema centrale di questa edizione di «Visioni» a Lugano è antico e moderno. Se la massa nasce con un gruppo di persone agglutinate da un desiderio, una protesta, una ribellione, la folla — all’alba delle moderne metropoli — somiglia più a uno stato di necessità, a un movimento frenetico e casuale come quello degli atomi. Inquietante. Un qualcosa del quale ci si ritrova improvvisamente a fare parte.
L’arte, come sempre, aveva intuito questa nuova cattedrale sociale: c’era Camille Pissarro, il quale, con tele come La Place du Théâtre Français (1898) guardava distante, dall’alto, la strada brulicante. Persone, carrozze e cose diventavano tanti punti neri indistinti. L’acuto Caillebotte, nel dipinto Boulevard des Italiens, del 1880, adotta la stessa prospettiva, però qui la folla si infittisce, si sgretola in mille macchioline scure, addossate le une alle altre.
Opere letterarie come Il ventre di Parigi o Germinal di Émile Zola, avevano raccontato forti vicende umane con voce plurima, corale. E negli stessi anni, a Parigi, c’era Guy de Maupassant che addirittura incarnava fisicamente questa curiosa religione: era agorafobico. Ma torniamo a Vienna, sulla Ringstrasse: non è un caso che proprio lì l’architetto Camillo Sitte descrisse la paura degli spazi aperti puntando il dito contro i grandi centri affollati, in una difesa (di retroguardia?) delle piazze tradizionali nei paesi più piccoli. Però, per capire la massa moderna bisogna fare un passo indietro: andiamo nella Londra del 1840. È di quell’anno infatti la prima edizione originale di un’opera-chiave: L’uomo della folla , di Edgar Allan Poe.
Nel cuore scuro e maleodorante della capitale britannica, un uomo siede al caffé e comincia a osservare le persone che gli girano intorno come mosche. Lentamente si perde in esse, si immedesima nei loro paltò, guarda con i loro occhi. È questa la folla moderna: una solitudine condivisa, monadi antistanti che dialogano senza parlare, l’uno nei molti . Non è la «massa» novecentesca descritta da opere mirabili come La ribellione delle masse di Ortega y Gasset (1939). E nemmeno quell’attrazione segreta che provò il giovane Elias Canetti nel 1922, quando, a Francoforte, si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau: quella folla indistinta, quel corpo unico e plurimo gli sembrò simile a una forza centripeta e da questa sensazione nacque (nel 1927) un’opera straordinaria, Massa e potere .
No, no, la folla di Poe rispecchia piuttosto quella consapevolezza che, più o meno due secoli prima, aveva fatto dire all’aforista francese Jean de La Bruyère «Ah, ce grand malheur de ne pouvoir être seul!». La consapevolezza che non possiamo, non riusciamo più a stare più da soli. Chissà se è la stessa che, in quegli stessi anni o poco prima, folgorò Henry David Thoreau quando si ritirò in una capanna del Massachussets e scrisse Walden, ovvero Vita nei boschi . Un «via dalla pazza folla» che voleva essere anche un riappropriarsi del mondo.
Ma torniamo a Poe e al suo osservatore seduto al caffè di Londra. Questa immagine colpì un poeta inquieto, che cercava segrete corrispondenze tra le cose. Si chiamava Charles Baudelaire e venne catturato da Poe a tal punto che (Bufalino ha parlato di «vampirismo intellettuale») non solo si mise a tradurne e commentarne le opere, ma addirittura andò da un grande fotografo dell’epoca, Felix Tournachon, detto Nadar, e si fece ritrarre nella stessa posa dello scrittore americano. L’attenzione quasi entomologica con cui il protagonista del racconto di Poe osservava la folla, si insinuò in Baudelaire e fu in quella nicchia che lentamente prese forma la figura del f lâneur , colui che vaga senza meta nella metropoli, guarda, si lascia assorbire dalla città e diventa un «botanico da marciapiede». Nasceva dunque la flânerie , ripresa da Walter Benjamin nei suoi celebri Passages . Un vagabondare tra la gente, dunque, in seguito tema di un raffinatissimo racconto di Robert Walser, La passeggiata (1919).
Poi, la folla cambierà. Diventerà massa politica e sociale, fonte di rivendicazioni o — più di recente — di una spersonalizzazione tanto più affascinante quanto più «liquida», omologata. Ma il cinema ha fatto in tempo a regalarci due capolavori sullo sciame di persone che si condensa in una massa e accusa il singolo: Il corvo, di Henri-Georges Clouzot (1943), dove la provincia piano piano si schiera accusando un uomo e Furia, di Fritz Lang (1936), dove da un chiacchiericcio monta un’aggressione da tutti contro uno. È quella Ringstrasse, insomma, che tutti ci portiamo dentro. E di cui facciamo parte.

Corriere 9.4.14
Nelle masse, amate o odiate, gli artisti allo specchio
L’orrore di Bosch, l’affetto di Guttuso. E lo sguardo duro sugli «automi» in guerra
di Francesca Bonazzoli


Non esiste, nella storia dell’arte, una specifica iconografia della folla: nessun manuale antico, come l’Iconologia di Cesare Ripa che ha fatto da riferimento a generazioni di artisti dalla fine del Cinquecento all’Ottocento; nessuna raccomandazione da parte delle sacre autorità come quelle introdotte dal Concilio di Trento; nemmeno convenzioni stilistiche che, per il successo della formula, siano diventate cliché condivisi. Al contrario, ogni artista ha proiettato sull’immagine della folla i propri sentimenti più viscerali: fobie, disprezzo, amore, aspirazioni sociali e fedi politiche.
Colui il quale ha avuto più orrore della massa ignorante, cieca e dagli istinti bestiali, è stato sicuramente il fiammingo Hieronymus Bosch (1450 - 1516) che in due sconvolgenti rappresentazioni della Salita al calvario ha dipinto volti di una tale cattiveria e ottusità da sfigurare i tratti somatici in ibridi mostruosi fra bestie e umani.
Per trovare altrettanta visionarietà negativa bisogna arrivare all’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, tela del pittore belga James Ensor, dove un Cristo quasi invisibile arriva dietro un corteo agghiacciante di soldatini, clown, teschi e maschere borghesi. Che questa fosse l’autentica percezione di Ensor della folla (e non un mero divertissement artistico) è dimostrato anche dall’autoritratto dipinto nel 1936 dove il pittore circonda il proprio volto di maschere ghignanti che tutt’intorno gli tolgono spazio e aria.
Non che le rappresentazioni della folla berlinese di George Grosz fossero meno spietate, ma nel suo caso si trattava di un giudizio su una precisa società di un dato momento storico, quello della repubblica di Weimar, e non tanto di un omnicomprensivo orrore dell’umanità come quello manifestato da Bosch o Ensor.
Agli antipodi di tali malesseri, c’è la folla «sana» e portatrice di nuovi valori per l’umanità glorificata da Pellizza da Volpedo nel suo Quarto Stato: un inno epico del proletariato che si risveglia e marcia compatto per i propri diritti, incuneandosi come una freccia dentro il vecchio mondo, così come frecce rosse verso il cielo si alzano le bandiere comuniste durante i funerali di massa di Togliatti dipinti da Renato Guttuso.
In mezzo fra queste due sensibilità, si colloca tutta la pittura impressionista dove la folla dei teatri, dei giardini pubblici, delle strade si Parigi, sembra non avere altro da fare che esibirsi e spensieratamente ammirarsi. È una folla svagata, senza pensieri, perfetta per fare da comparsa nella pittura borghese da salotto.
Un posto a parte occupano poi le scene di battaglia, dove la folla è rappresentata dalla massa compatta degli eserciti. Una delle immagini più spettacolari l’ha dipinta Albrecht Altdorfer nella Battaglia di Alessandro e Dario a Isso dove gli uomini, piccoli come automi mossi da un destino più grande, sono parte integrante di un immenso paesaggio misterioso e apocalittico. E folle coreografiche sono anche gli eserciti che si affrontano nelle battaglia di Paolo Uccello o di Jacques-Louis David: balletti di pesi e contrappesi, pieni e vuoti, volumi e superfici. Insomma, una questione di testa, non di pancia. Che dire, dunque, per concludere? Che la folla è una specie di barometro della psiche dell’artista: dimmi come la dipingi e ti dirò chi sei.

Corriere 9.4.14
«Un melting pot degli spazi contro la solitudine urbana»
Lévy: necessario l’equilibrio tra luoghi pubblici e privati
di Maria Serena Natale


Città sottili, continue, nascoste, sistemi complessi di segni e desideri. La geografia immaginifica e parallela delle Città invisibili di Calvino si sviluppa su coordinate ideali che con la grazia del paradosso si adattano al corpo simbolico delle metropoli, spazi da reinventare, arricchire e svuotare di senso in quel doppio movimento di espansione e contrazione che annulla le distanze, ma esaspera le differenze.
Addentrarsi nei territori urbani del XXI secolo è anche perdersi nell’instabilità di linguaggi e regole da rinegoziare tra individui in relazione, chiamati a scegliere tra l’anonimato della folla e la forza politica della comunità impegnata in un’opera di costruzione. La co-produzione dello spazio pubblico inteso come bene comune, questo sforzo condiviso d’invenzione che definisce l’identità urbana, è al centro delle ricerche di Jacques Lévy, geografo esperto di teoria dello spazio delle città, professore ordinario all’École polytechnique fédérale di Losanna. Sabato a Lugano Lévy introdurrà il suo film «Urbanité/s», suggestioni calviniane, psicologia sociale e proposte teoriche della sociologia contemporanea fuse in un esperimento visivo che è insieme diario di viaggio e strumento d’indagine sui nuovi codici metropolitani dalla Cina all’America.
Professor Lévy, in che modo la folla come soggetto storico-politico s’inserisce nell’orizzonte dell’Urbanité?
«Gli ultimi due secoli hanno visto il progressivo ribaltamento di un assetto millenario che opponeva la debolezza dell’individuo alla forza del gruppo, l’anomia come crisi degli equilibri comunitari tradizionali descritta da Hannah Arendt. Finché, nell’era delle masse e dei totalitarismi ovvero nel momento di massima potenza delle folle, il soggetto ha acquisito coscienza di sé come intenzionalità. Oggi dobbiamo pensare la folla non come astrazione ma come sistema di corpi nello spazio pubblico, secondo l’intuizione di Norbert Elias di una società degli individui animata dalla tensione dialogica individuo/collettività».
Tensione che nella trama relazionale di metropoli mai pacificate sfocia in conflitto…
«Gli abitanti delle città contemporanee si percepiscono come attori in rapporto tra loro e con una dimensione presente in ogni interazione, la società come un tutto: in questo schema io-tu-società occorre cercare insieme le soluzioni dei micro-conflitti. Ecco perché una delle sfide per i governi oggi è trasferire più potere ai cittadini. Il risultato può essere una creatività condivisa a partire dalle capacità di raggruppamento individuate dal sociologo francese Isaac Joseph, oppure una conflittualità permanente. Lo scenario più pericoloso per la coesione sociale è la fuga urbana , l’autoreclusione in distretti omogenei che escludono l’alterità mentre lo spazio comune è considerato fonte di rischio. Ricchi con ricchi e poveri con poveri».
Distanza fisica che approfondisce l’isolamento emotivo?
«Senz’altro. Il sociologo tedesco Ferdinand Tönnies diceva che, senza gruppo, l’individuo è per sempre solo. La separazione tra spazio pubblico e privato è funzionale a un sistema di protezione dell’individualità che con l’anonimato della dimensione pubblica bilancia la forza di legami e diritti propri di quella privata».
Solitudine condizione costitutiva della metropoli. Come restituire allo spazio urbano l’originaria funzione di luogo d’incontro e condivisione?
«Con politiche coerenti che mescolino segmenti sociali, per esempio portando scuole d’eccellenza e istituzioni culturali nei sobborghi poveri in modo da renderli attraenti per le classi abbienti. Accade in alcune città degli Stati Uniti o nella colombiana Medellín, il modello comincia ad essere assorbito in Europa. Si parte dall’educazione, bene comune per eccellenza».

Repubblica 9.4.14
“Ci salverà una nuova rivoluzione culturale”
La Cina, la Russia e gli errori del capitalismo
L’arte e la censura, il rinascimento che verrà: incontro con il Nobel per la letteratura in esilio Gao Xingjian
di Winston Manrique Sabogal



«Siamo in una crisi non solo economica e finanziaria, ma anche sociale e di pensiero, perché siamo rimasti impantanati nelle ideologie del secolo XX. Gli intellettuali di tutto il mondo devono affrontare la realtà e mettere in moto un nuovo pensiero, un nuovo rinascimento». Il tono di voce con il quale Gao Xingjian lancia questo appello è diverso da quello che aveva quindici minuti fa. È più alto, rispetto al suo modo di parlare solitamente soave. È un passo della sua analisi della realtà, che lui osserva con discrezione.
Uomo del Rinascimento e primo Nobel per la Letteratura cinese (2000), in esilio a Parigi dal 1987 e ormai naturalizzato francese, ha iniziato questa conversazione parlando della sovraesposizione di alcuni autori. Il suo concetto dell’artista è un altro.
«Ciò che deve parlare al lettore, al pubblico, sono le mie opere. Non io, con le mie opinioni. Non sono una star, né un attore. Per questo evito di essere sempre presente sui mezzi di comunicazione. Mi dedico a fare quello che so fare…».
Pittura, scrittura, drammaturgia, traduzione, critica e, adesso, regia cinematografica con Le deuil de la beauté. Sono i piaceri di quest’uomo che al VII Gutun Zuria, Festival internazionale delle lettere, ricompone il mosaico della sua vita in uno dei merli dell’Alhóndiga di Bilbao. Seduti a un tavolino rotondo, il viso, cortesemente neutrale, comincia presto ad accompagnare parole ed emozioni.
«La libertà di pensare e di riflettere lontano dal rumore esterno sono essenziali per l’artista. Solo così puoi veramente giungere a un’espressione più profonda ed estetica».
Cerca più che mai la concentrazione. Il Nobel ha infranto il suo rifugio.
«Siamo in una crisi non solo economica, ma anche sociale e di pensiero perché ci siamo impantanati».
Nato a Ganzhou, in Cina, 74 anni fa, l’autore de La montagna dell’animae de Il libro di un uomo solo ritiene che l’impegno dell’artista debba concentrarsi sull’arte. Non crede nell’opera creativa che dà lezioni morali o esprime giudizi politici.
«Abbiamo una grande ricchezza di pensiero umanista, ma di fronte a tutto ciò, che può fare un povero individuo fragile di fronte alla società, alla politica, alla società dei consumi; di fronte al degrado della natura e alla situazione che ci circonda? La grande domanda è qual è l’autentico valore dell’individuo e che cosa può fare».
Il suo sguardo nobile si rifà severo, né triste né nostalgico, lui che ha subito la censura e la persecuzione della cultura in Cina. Tiene le mani sul tavolo. È solo con le sue parole.
«Parlo della necessità di un pensiero che superi questa fragilità del mondo. Bisogna smetterla con ideologie come il marxismo che ha portato il comunismo e due rivoluzioni: quella russa, che scatenò le idee di Lenin, e quella cinese di Mao Tse Tung, che portò guerre e una dittatura mai vista. Nel Ventesimo secolo nacque anche l’ideologia del nazionalismo che causò grandi problemi che sfociarono nel fascismo e causarono le due guerre».
Alza un poco il tono della voce. Pensa che accanto al peso della crisi economica ci sia quello della crisi creativa.
«Il liberalismo ci ha portato alla situazione attuale, dove la legge di mercato invade tutto, compresa la letteratura, che come l’arte è diventata un prodotto di consumo, e così assistiamo alla proliferazione di bestseller. Non è più una letteratura di pensiero, è un prodotto di consumo agli ordini della moda».
Gao Xingjian apre le braccia all’altezza del petto e spalanca le mani. Vestito di nero, i capelli per metà bianchi, non contiene la sua emozione.
«Il postmodernismo è stato una catastrofe, è un’ideologia che ha influito moltissimo sul modo di creare e di pensare. Ma che cos’è il postmodernismo? È vuoto di senso, come modello, come linguaggio, in senso grammaticale. È una strada senza uscita».
Le parole dell’artista diventano più forti.
«Bisogna che gli intellettuali, gli artisti e i mezzi di comunicazione affrontino in un grande dibattito come fare questa creazione, che fare di fronte a questa situazione. Dobbiamo liberarci dalle idee rigide del Ventesimo secolo. Così come ci fu un Rinascimento dopo il Medio Evo che produsse un nuovo pensiero, bisogna lanciare un appello agli intellettuali perché affrontino questa realtà e non lasciare la soluzione ai politici e agli economisti».
L’aria pessimista muta in un sorriso e in un gesto che cerca approvazione.
«Questo nuovo rinascimento deve essere il punto di partenza: in Italia ce ne è già stato uno e in Francia un altro con l’Illuminismo, e poi si diffusero nel mondo. Il rinascimento attuale non deve nascere in un paese. Si tratta di problemi universali e quindi deve essere globale. Gli intellettuali di tutto il mondo devono confrontarsi con la realtà. Ho molta fiducia negli europei».
L’artista spiega la necessità di questa rivoluzione che crede si stia già preparando e che deve comprendere la Russia e la Cina.
«Anche se non credo che da questi paesi uscirà questo nuovo pensiero. La loro situazione è un altro grande tema di dibattito. Hanno scoperto da poco il capitalismo che in Occidente ha dimostrato i suoi difetti. La Russia e la Cina girano su questa stessa cosa ed è assurdo. Sono arrivati in un momento in cui qui...».
Si porta la mano sinistra al petto. C’è il presente, il futuro e il passato nella sua testa. Il mondo gira nella sua vita. E in questo girare, la Cina è ormai indietro. Ha voltato pagina. I suoi pensieri e le sue creazioni orbitano intorno alla Francia, all’Europa e all’umanità. E gli artisti suoi compatrioti come Mo Yan, premio Nobel per la letteratura 2012, e Ai Weiwei?
«Non conosco le loro opere. Mi considero molto lontano da loro perché la Cina è ormai molto lontana nella mia vita attuale».
Dopo aver espresso con il suo volto la neutralità, la preoccupazione, la protesta, l’appello e l’ottimismo, Gao Xingjian finisce con l’espressione dell’entusiasmo. Per gli scrittori da leggere in questi tempi ingarbugliati: «Cervantes!, Dante!, Shakespeare! E la Bibbia come testo letterario». Ride. È lo scrittore che ha scritto una specie di autobiografia intitolata Il libro di un uomo solo, e un suo brano può essere utile a tutti in questi tempi: «Penetri di nuovo nelle tenebre che la sua voce ti ha portato, come un sonnambulo che passeggia senza meta, vacillando, sotto gli occhi di tutti, e che si confonde con quella massa di gente. I ricordi recenti si mescolano con quelli antichi».

Repubblica 9.4.14
Eva Braun gli ebrei e gli inganni del Dna
di Adriano Sofri


LA NOTIZIA ha fatto il giro del mondo: Eva Braun era ebrea. Lo prova il suo Dna, rintracciato grazie a una spazzola da capelli. La notizia voleva colpire: Che scherzi fa la storia! Però dava per assodato che l’antica questione di che cosa voglia dire essere ebrei si risolvesse (di nuovo) in un dato biologico: a definire l’essere ebrei è un’analisi del Dna. Ormai, oltretutto, alla portata di (quasi) tutte le tasche, in rete. Il razzismo biologico, dall’Ottocento in qua, aveva proclamato di fornire un fondamento scientifico alle sue due pretese essenziali: 1 che il genere umano si divida in razze diverse, e 2 che le razze non siano solo diverse, ma superiori e inferiori. Inferiori fino al punto di meritare d’essere sterminate. Se il primo assunto, l’esistenza di razze diverse, fosse stato vero, la conseguenza - superiori e inferiori, fino alla “subumanità” - non sarebbe stata meno arbitraria, infame e criminale. Quella pretesa “scienza”, cui l’accademia italiana del ventennio si prostituì largamente, non era la premessa dell’odio razzista, ma la sua serva.
LA genetica ha dimostrato la fallacia della nozione di razza (leggere Luigi Luca Cavalli Sforza): le diversità che impariamo ad apprezzare crescono su una formidabile omogeneità e somiglianza. Impareremo anche, prima o poi, a sentire più la somiglianza che la distanza dagli altri animali. Tuttavia questo, che è davvero un progresso, è contraddetto dall’invadenza con cui le meraviglie della genetica diventano luogo comune: “È nel mio Dna”. Una volta era il sangue, che “non mentiva”... Ma nel nostro Dna non è scritto niente di quello che pensiamo diciamo o facciamo, del gioco difensivo o di attacco della nostra squadra, della onestà del nostro partito, dell’avarizia di nostra zia. Ci siamo così abituati a giurare sul nostro Dna, da non batter ciglio alla notizia che Eva Braun era ebrea. Il che non è escluso, naturalmente. Poco tempo fa Csanad Szegedi, il numero due di Jobbik, il partito neonazista ungherese, sfegatato persecutore di ebrei, ha scoperto di avere un’ascendenza ebraica, si è dimesso e ha invocato il perdono del rabbino capo di Budapest. Del resto, in Ungheria non c’è beninformato che non vi confidi che la madre di Orbàn era una signora rom. La genetica aiuta a fare bellissime scoperte sulla storia delle popolazioni, dei loro spostamenti, dei loro incroci. Questo riguarda anche popolazioni ebraiche, in particolare la più vasta, e più enigmatica quanto alla provenienza originaria, l’ashkenazita. Le ricerche, via via più sofisticate, sul Dna ricostruiscono percorsi e incontri possibili: possibili, perché nemmeno qui c’è la certezza, e risultati diversi si confrontano, e non di rado premesse diverse li influenzano. C’è una forte probabilità che gli ashkenazim siano arrivati in Europa orientale a partire dal Vicino Oriente. I biologi statistici che la misurano, così come i loro colleghi archeologi che scavano la terra invece che le molecole, devono guardarsi dal mirare a identificare, a parti rovesciate, una irriducibile identità ebraica, e a fare del legame antico con un territorio una ragione del diritto attuale a quel territorio. Oltretutto, per la biologia come per l’archeologia e la gastronomia e tutto il resto dev’esserci una prescrizione. Grazie al Dna si ricostruisce un’ascendenza paterna, dal cromosoma Y, o materna, mitocondriale. Nel caso della materna, molte ricerche sembrano arrivare a donne, specialmente italiane o europee, sposate da immigrati ebrei e convertite all’ebraismo: circostanza che mostra come ci si muova dentro una storia culturale e non una predestinazione biologica. Queste ricerche, così delicate per il bilico tra determinismo genetico e vicenda storico-geografica, sono piene di fascino: ho scoperto dopo aver deciso di scrivere questo articolo un recupero postumo dello studio di Arthur Koestler sulla “Tredicesima tribù” (1976). L’autore di “Buio a mezzogiorno” raccontava l’impero guerriero dei Cázari, tra il V secolo d. C. fino alla caduta di Bisanzio, nel nord del Caucaso, che nell’VIII secolo, di fronte alla pressione musulmana, si era improvvisamente convertito alla religione, alla lingua e al costume ebraici. Spinti verso occidente dall’avvento dei nordici rus e di Gengis Khan, i cázari sarebbero diventati - qui era la spettacolosa tesi del libro - gli ebrei ashkenaziti di Polonia, Ucraina, Ungheria, Lituania: dunque le più numerose vittime dell’antisemitismo nazista non sarebbero state semite, bensì turchiche, legate al Caucaso rivendicato dagli “ariani” e non alla Palestina. Gran libro, che consiglio, e gran rumore e scandalo, anche. Il libro era, e probabilmente resta, molto più suggestivo che convincente. Oggi alcuni biologi hanno creduto di provarne attraverso l’indagine genetica la fondatezza: altrettanto suggestivamente, ancor meno convincentemente.
Gli studi più accreditati assegnano all’80 per cento dei maschi ebrei e al 50 per cento delle femmine una provenienza ancestrale dal Vicino oriente. La quota mancante spetterebbe a conversioni e matrimoni misti. Nella disputa fra sostenitori scientifici dell’omogeneità genetica degli ebrei e di un’origine largamente prevalente in Palestina, e i loro avversari, riaffiora costantemente la dannata tentazione di ricavare dalla biologia conseguenze culturali e perfino politiche. Vedo che Harry Ostrer, pur fautore dell’omogeneità “razziale” e della partenza mediorientale, resiste tuttavia a quel “riduzionismo”, e sottolinea che alcuni marcatori genetici sono comuni a ebrei e palestinesi. (Anche se così non fosse, la questione politica - il mutuo “diritto al Ritorno” - non ne sarebbe toccata). Lo storico Shlomo Sand, discusso epigono dell’“ipotesi cázara” e antisionista, aveva comunque ragione a sottolineare che «una volta dire che gli ebrei sono una razza era antisemita, ora dire che non sono una razza è antisemita: la storia si diverte a farci impazzire».
Il Dna ci rende individualmente diversi, e differenzia anche i gruppi. La loro influenza fisica è sensibile. L’isolamento in cui gli ebrei hanno vissuto o sono stati forzati e la quota di endogamia fa sì che la ricerca mirata alla cura delle patologie vi trovi un campo privilegiato. È il futuro della genetica, cui si affidano progetti (e affari) spinti fino all’immortalità. Dalla mappatura del genoma dei 320 mila islandesi (che non sono una razza) si promette una terapia dell’Alzheimer. Sul resto, l’intelligenza, i modi di vivere, la cultura, i geni non hanno la prima parola, né l’ultima. Forse Eva Braun ebbe parenti ebrei. Nel 2010 un’indagine belga condotta sul Dna salivare «di 39 discendenti di Hitler» dichiarò di aver rintracciato «il cromosoma Aplogruppo Eib 1b1, comune fra ebrei ashkenazim e sefardim, e fra popoli nordafricani ». Mah. La mia è una modesta proposta: piantiamola di dire “ce l’ho nel mio Dna”. Se ce l’ho, ce l’ho altrove.

Repubblica 9.4.14
Basta con pregiudizi e tabù “Perché il porno è una scienza”
Tre sociologhe inglesi fondano un giornale accademico
“Il sesso è l’argomento più cliccato sul web. Ci sarà un motivo”
di Enrico Franceschini



LONDRA. SI COMINCIA con un saggio sui “problemi” (tra virgolette - nel senso che non sono necessariamente un problema) delle fantasie sessuali. Poi un’inchiesta su “sesso bizzarro, trans e adolescenti”.
Quindi un’intervista sulla “pornografia come educazione sessuale”. È l’indice del numero d’esordio di Porn Studies, prima rivista scientifica al mondo interamente dedicata allo studio del porno. L’hanno fondata in Inghilterra due giovani sociologhe, Feona Attwood, docente della School of Media and Performing Arts della Middlesex University, e Clarissa Smith, ricercatrice della Faculty of Arts, Design and Media della Sunderland University.
«In genere, nessuno fa caso all’annuncio della pubblicazione di un nuovo giornale accademico », scrivono nell’introduzione, «ma nel nostro caso siamo state subissate di attenzioni, richieste di interviste e articoli ancora prima che la rivista uscisse».
Ora che è uscita, le reazioni sono «largamente positive».
Professoressa Attwood, perché c’era bisogno di una rivista accademica sul porno?
«Innanzi tutto perché non ne ce n’era una: sulla pornografia sono stati fatti libri e articoli scientifici in ordine sparso, senza una “casa” che li accogliesse tutti insieme. Come ogni altra attività umana, invece, noi riteniamo che il porno meritasse un’analisi approfondita dal punto di vista storico, estetico e del suo ruolo e significato sociale nella cultura contemporanea. Ma la seconda ragione è ancora più importante: Internet ha cambiato il porno, lo ha fatto uscire dai porno- shop e dai cinema a luci rosse portandolo a tutti su un computer in completo anonimato. Le statistiche indicano che è l’argomento più cliccato sul web. Non era possibile che l’accademia continuasse a ignorare un tale fenomeno di massa».
Tuttavia il dibattito sulla questione è antico e Internet lo ha solo reso più acceso: il porno, specie sul web dove può essere facilmente raggiunto da chiunque, inclusi minorenni e bambini, fa male? È discriminante e umiliante nei confronti delle donne? Incoraggia la violenza sessuale? Che linea ha la vostra rivista?
«Non abbiamo una linea. Non vogliamo essere né antagonistici né celebrativi nei confronti della pornografia. Ci limitiamo a notare che non esiste “un porno”, ce ne sono tanti: quello professionale girato a Hollywood, quello amatoriale prodotto da dilettanti in camera da letto, il porno femminista, il porno gay, il porno etnico, il porno artistico e così via. Proprio per questo diciamo che è un fenomeno complesso e va studiato senza preconcetti ».
Ma come studiose cosa rispondereste a genitori preoccupati che i figli troppo giovani siano esposti alla pornografia online e confondano quella visione del sesso con la realtà dei rapporti sessuali?
«Non nego una preoccupazione di questo tipo. Ma il porno non è l’unica forma di comunicazione o intrattenimento di massa che fornisce una visione esagerata, fuorviante della realtà o comunque diversa dalla vita di tutti i giorni. Se uno guarda le telenovelas in tivù e pensa che siano lo specchio dei rapporti reali nel mondo fa ugualmente un errore. Lo stesso si potrebbe dire per i telequiz, i reality show e perfino per le commedie romantiche al cinema. O per le fiabe a lieto fine. Eppure nessuno si sogna di vietare ai minori, tantomeno agli adulti, fiabe e telenovele. Il punto è educare e capire la differenza fra finzione e realtà. Non credo che censurare un fenomeno, bollarlo a priori come nocivo, permetta di esorcizzarlo».
Un’altra accusa spesso rivolta alla pornografia è che ha contagiato la videomusica e la pubblicità, legittimando per così dire l’immagine della donna- oggetto e del machismo.
«È sbagliato definire “porno” un video musicale sessista. Sono o almeno possono essere due cose diverse. Nel linguaggio comune ormai l’etichetta “porno” sostituisce qualsiasi connotazione negativa, ma non è il modo giusto per esaminare quanto sta succedendo al marketing, alla musica e alla comunicazione di massa. Un film porno può alimentare una fantasia sessuale che non è per forza sessista. Mentre uno spot pubblicitario o una videoclip musicale possono essere sessisti senza essere pornografici ».
E Cinquanta sfumature di grigio che cos’è? Porno, erotismo o sadomasochismo soft per casalinghe, come l’ha definito qualcuno?
«A me sembra che sia soprattutto un libro nella tradizione del romanzo romantico, anche se indubbiamente ha contribuito al dibattito sulla legittimità delle fantasie sessuali. Ma la nostra rivista serve appunto a meglio delineare i confini tra queste frontiere, tra porno ed erotismo, tra fantasia sessuale e sessismo reale».

Repubblica 9.4.14
Il poema dantesco che manda all’inferno tutta la filosofia
Parla lo studioso Achille Varzi, autore con Claudio Calosi di un’opera in versi sui “castighi eterni” dei grandi pensatori
di Antonio Gnoli



In quale girone sarà finito Gianni Vattimo e in quale palude ritroveremo il ciarliero Slavoj Zizek? A scrutare nomi, e soprattutto scuole di pensiero, si fa presto a dire “inferno”. Eppure, è lì in quel luogo di bolge e cerchi immaginari che ritroviamo l’ultima seduzione dantesca messa all’opera da due seri burloni della filosofia: Achille Varzi, docente di Logica e di Metafisica alla Columbia University e Claudio Calosi, filosofo della scienza all’università di Urbino. Insieme hanno scritto il loro Inferno: ventotto canti, in terzine spesso dotte, a volte divertenti, sul viaggio del Poeta nel buio profondo dell’intelletto.
«Abbiamo immaginato», dice Varzi, «di essere venuti in possesso di un originale autografo, anonimo e senza indicazioni e di averlo trascritto, limitandoci a integrarlo con delle annotazioni che spiegassero il contenuto di quegli endecasillabi. Il risultato è un libro insolito: Le tribolazioni del filosofare (edito da Laterza), dove si discute molto di errori e di pene conseguenti.
Una commedia filosofica sotto il segno di Dante?
«Ci siamo immaginati un poema strutturato lungo le stesse coordinate simboliche e didascaliche, benché improntato su temi filosofici. Abbiamo sostituito Virgilio con Socrate; dove c’erano i peccati abbiamo messo gli errori e al posto dei golosi, degli iracondi, degli eretici, abbiamo collocato i dualisti, i realisti ingenui, gli scettici e gli avversi al possibile».
Ma Socrate come guida non è un po’ troppo scontata e filosoficamente perbenista?
«Al contrario. Socrate rappresenta l’espressione più alta della convergenza tra amore per la sapienza e condotta di vita, il simbolo di chi non si sottrae alla morte per difendere la propria integrità intellettuale».
E questo vi ha portati a giudicare 2.500 anni di pensiero?
«Si dice che la matematica non sia un’opinione. Non lo è nemmeno la filosofia. In filosofia chi sbaglia paga, con buona pace di chi pensa che vada bene qualunque sciocchezza».
Non crede che tutta la filosofia sia una storia di sbagli e che l’errore possa essere una risorsa?
«È vero, come del resto insegna lo stesso Socrate. Ed è il motivo per cui il nostro Inferno ha una porta di uscita, contrariamente a quello dantesco. Abbiamo scritto una storia della filosofia attraverso gli errori. Ma con un lieto fine».
Sarà. Ma intanto punite chi sbaglia.
«È un principio di equità. Gli scettici sprofondano nel melmoso stagno del dubbio, i dualisti si trasformano in zombie inebetiti e così via».
A me colpivano i pusillanimi. Chi sono?
«Come già diceva Aristotele, i pusillanimi sono quei filosofi che non prendono mai posizione chiara, come gli ignavi di Dante. La punizione è per contrappasso: E poi che ‘ n vita furono in disparte / A non dicider nulla veramente, / quel che non può dicider nessun’arte / si prova-no qui a provar etternamente ».
Noto anche la presenza degli sprovveduti. «Sono coloro che si lasciano attrarre dalle soluzioni facili: che si fidano della testimonianza dei sensi, che si appoggiano all’analisi del linguaggio nella convinzione che da lì si possa risalire alla realtà, coloro che cedono alla seduzione dei miti consolatori».
Ci metterebbe un filosofo come Derrida o magari un pensatore come Zizek?
«Certamente Derrida è tra coloro che hanno fatto confusione con il linguaggio. Ma ha commesso tanti errori e probabilmente avrebbe il lusso di trovarsi punito in più di un cerchio. Zizek invece non saprei: ho paura che il nostro Poeta lo punirebbe nel pozzo dei nani».
Che non è il pozzo dei desideri di Biancaneve?
«No, è un luogo nelle cui profondità penzola una moltitudine di omuncoli appesi per i polsi: i superbi e i falsi sapienti, che in vita si credettero grandi e che qui sarebbero ridotti a mezzi uomini per la legge del contrappasso».
Si nota anche una presenza massiccia di irresponsabili.
«Dalla negazione del libero arbitrio derivano l’impossibilità di attribuire ogni responsabilità alla nostra condotta. Errore gravissimo».
È un po’ come andare a scuola di nichilisti ed esistenzialisti.
«I nichilisti sono l’esito estremo dell’irrealismo: la ripa discoscesa lungo la quale essi franano inesorabilmente rappresenta la brutta china argomentativa che conduce dal diniego locale e motivato al rifiuto globale e indiscriminato di qualunque ontologia. E come l’antirealismo può condurre al nichilismo, così questo può condurre all’annullamento del soggetto, trasformando il rifiuto dell’essere in paura di essere».
Sulla graticola anche Nietzsche?
«Il Poeta concorderebbe con molte sue disquisizioni. Ma nella misura in cui il filosofo tedesco pensava davvero che non ci sono fatti ma solo interpretazioni un posto tra gli irrealisti non glielo leva nessuno».
Un suo lontano interprete, Gianni Vattimo, fece di quella tesi il suo vessillo filosofico.
«Il Poeta condivide l’antirealismo del buon Vattimo, ma non il suo irrealismo: gli darebbe un cantuccio nel cerchio dedicato a quell’errore».
E la coppia Heidegger e Sartre, maestri del linguaggio oscuro e dell’impegno, dove verrebbe collocata dal Poeta?
«Tra gli sprovveduti fedeli al linguaggio il Poeta sente una voce fioca vaneggiare S’annulla ‘ l nulla e niente il nient’ alline. Si tratta del diacono carolingio Fridugiso di Tours, convinto che la parola “nulla” debba corrispondere a qualcosa. Ma per noi contemporanei potrebbe anche trattarsi di Heidegger che farnetica sul nulla che nulleggia. Quanto a Sartre, il canto dedicato al girone degli esistenzialisti è ricco di versi che riecheggiano ne La nausea ».
Mi chiedo dove il Poeta avrebbe messo il nostro massimo filosofo vivente: Emanuele Severino.
«Immagino che il suo posto sia tra i timorosi del cambiamento, con i marinai della nave di Teseo sul rivo di Eraclito: quel fiume che etternamente scorre / e cangia l’acqua e cangia sempre schiume ».
Vedo infine che vi siete divertiti con i fraudolenti nella quale si racchiudono gli adulatori, i plagiatori e i cialtroni.
«Categoria sempre più rappresentata. Ma lasciamo che siano i lettori a compilarla a loro piacimento».