venerdì 28 marzo 2014

l’Unità 28.3.14
Il capitalismo, il Pd, Barca domani sul nuovo «left»
di Donatella Coccoli


Domani il settimanale left torna in edicola allegato a l’Unità. Con molti cambiamenti: un nuovo direttore responsabile, Giovanni Maria Bellu, e una veste grafica completamente rinnovata. I temi trattati in questo numero sono quelli attorno ai quali ruota il dibattito politico in un Paese che, attanagliato dalla crisi economica, attende scelte che la mettano al passo con l’innovazione. Il servizio di copertina s’intitola «L’uomo che vuole rottamare il capitalismo italiano» ed è dedicato a un finanziere che sfida Matteo Renzi sul futuro di Telecom. «Non c’è più tempo da perdere» - dichiara al settimanale il patron della Findm, Marco Fossati, proprietario del 5% dell’azienda telefonica appellandosi al premier a poche settimane dall’assemblea dell’azienda prevista per il 16 aprile. «L’Italia e Telecom - dice ancora Fossati - hanno accumulato troppi ritardi nella realizzazione delle reti di nuova generazione e nell’offerta di nuovi servizi. Occorre recuperare velocemente. Al premier Renzi chiedo una politica industriale per digitalizzare il Paese. Telecom Italia è l’attore principale di questa strategia».
Left è andato anche a vedere come si muove il Pd sul territorio. E ha scoperto che ci sono centinaia di circoli democratici pronti a rimboccarsi le maniche per lavorare su progetti concreti, dal riutilizzo dei beni comuni alla legalità, dal riciclo dei rifiuti al welfare. Contraddicendo l’immagine di un partito immobilizzato dalle lotte per il potere, tanti iscritti si stanno mobilitando su battaglie e valori di sinistra. A gettare il sasso è stato Fabrizio Barca con la sua iniziativa «Luoghi ideali». Hanno risposto centinaia di circoli. «Molti militanti, soprattutto giovani, non aspettano Roma - spiega l’ex ministro- Stanno addosso alle cose per migliorare la vita nel loro territorio». Tra gli altri servizi, la transizione in Algeria, Sandra Petrignani invita a riscoprire Marguerite Duras, la sfida tra Pontormo e Rosso Fiorentino che racconta di una pittura del ‘500 inquieta e sensibile. Dopo l’editoriale di Maurizio Torrealta che saluta i lettori, i commenti di Sergio Cofferati, Ernesto Longobardi, Andrea Ranieri e Luigi Corvo. In cultura, oltre alla rubrica dello psichiatra Massimo Fagioli, il cinema secondo Morando Morandini e la letteratura per Filippo La Porta.

il Fatto 28.3.14
La svolta autoritaria


Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali.
Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto.
Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato.
Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone.
Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaetano Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannucci, Simona Peverelli, Salvatore Settis, Costanza Firrao

il Fatto 28.3.14
“Riforma pericolosa” Il premier bocciato sulla Costituzione
Tante firme di giuristi per l’appello di Libertà e Giustizia:
“Un Parlamento delegittimato dalla Consulta non può stravolgere la Carta”
Oggi la bozza nella Direzione Pd
di Luca De Carolis


Dietro la riforma che è la bandiera del fu rottamatore “c’è il progetto di stravolgere la Costituzione”, da parte di “un Parlamento delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale”. Con l’obiettivo di dare al presidente del Consiglio “poteri padronali”, per una “svolta autoritaria” che è un vecchio sogno di Silvio Berlusconi. Libertà e Giustizia lancia un appello contro la “grande riforma” su cui Renzi punta quasi tutto, imperniata sull’abolizione del Senato e sulla revisione del Titolo V (Regioni, Province e Comuni). “Se non va a casa il Senato vado a casa io” rilancia il premier, come un pokerista. Ma nel suo progetto si annidano pesanti rischi per la Costituzione. Così avverte il testo diffuso da Libertà e Giustizia, sottoscritto subito da costituzionalisti e intellettuali. Molti si erano già mobilitati contro il ddl costituzionale 813 del governo Letta: quello che voleva stravolgere l’articolo 138, la valvola di sicurezza della Carta, così da spalancare le porte al semipresidenzialismo. Il testo si inabissò a un passo dall’approvazione , perché il Berlusconi appena decaduto fece mancare i numeri. “La maggioranza che voleva stravolgere il 138 è la stessa che punta al monocameralismo” ricorda Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale, e uno dei firmatari dell’appello.
SPIEGA : “Questo è un parlamento chiaramente delegittimato dalla sentenza della Consulta che ha cancellato il Porcellum. Doveva fare in fretta una nuova legge elettorale, per poi tornare al voto. Non può certo preparare una profonda revisione della Costituzione, che spazia dalla cancellazione del Senato fino alla forma di governo. E non può preparare una legge elettorale che è un Porcellum bis”. Pace si sofferma poi sui rischi: “Spazzare via il Senato è inutile e dannoso. Il bicameralismo legislativo ci ha salvato tante volte, perché una delle due Camere riparava ai danni dell’altra. Pensiamo forse che i futuri parlamentari saranno più bravi di quelli attuali?”. Obiezione: tagliare il Senato riduce i costi e velocizza i tempi. Pace ribatte: “Per risparmiare basta tagliare il numero dei parlamentari in entrambe le Camere. Quanto ai tempi, si possono cambiare i regolamenti, senza toccare la Costituzione”. La costituzionalista Lorenza Carlassare osserva: “È tutto l’impianto delle riforme che non va: questa legge elettorale vuole limitare la rappresentanza, togliendo voce a ogni opinione minoritaria. Quanto al Senato, si vuole ridurlo a un organo non elettivo, a cui resterebbe però una funzione essenziale come quella di partecipare alle riforme costituzionali. Un’altra gravissima limitazione della rappresentanza, e quindi della democrazia”. La riforma potrebbe allargarsi al premierato forte, dando al capo del governo il potere di porre la “ghigliottina” sui disegni di legge (imponendo tempi certi per la votazione), e, soprattutto, di revocare i ministri. Si parla di una proposta di Forza Italia sul punto, accolta da Renzi. “Il segretario vuole dare un segnale a Berlusconi, da sempre per il premierato forte, perché teme che l’accordo con Forza Italia in Senato traballi” ragiona un parlamentare della minoranza Pd. Convinto che “questa storia del premierato è più che altro una sciarada”. Gianni Cuperlo su Repubblica ha comunque dato il suo via libera: “Un presidente con maggiori poteri non mi preoccupa”.
MA LA PROPOSTA che piace al Caimano non ci sarà, nella bozza sulla riforma che verrà presentata oggi alla Direzione del Pd. “Nel testo il premierato forte non c’è” conferma Maria Elena Boschi. Per poi precisare: “In direzione non verrà approvato un articolato vero e proprio. Discuteremo di un testo del governo, sul quale c’è già stato un confronto nella maggioranza in Consiglio dei ministri”. Lo stesso testo che verrà presentato in Senato. In serata, nota di Forza Italia: “Berlusconi conferma il sostegno al percorso di riforme concordato con il premier”. Il ddl costituzionale dovrebbe essere presentato la prossima settimana. Renzi vuole il primo sì alla riforma entro il 25 maggio: prima delle Europee.

l’Unità 28.3.14
Decreto lavoro, scontro nel Pd
Renziani in minoranza in commissione
di Andrea Carugati


Se lo sguardo si fermasse solo ai numeri della commissione Lavoro della Camera, il percorso del decreto del ministro Poletti sui contratti a tempo determinato e l’apprendistato sembrerebbe decisamente in salita: la maggioranza della commissione, infatti, non condivide quel testo.
In particolare, ci sono numerosi deputati del Pd che ritengono quel provvedimento sbagliato, e che non lo voterebbero «così com’è». Tra questi anche il presidente della commissione, l’ex ministro Cesare Damiano, che ieri lo ha detto a chiare lettere durante una lunga riunione dei democratici. I numeri sono decisamente a sfavore di Poletti: su una ventina di deputati Pd della Commissione, i renziani sono solo 3. Tra questi il responsabile welfare della segreteria Davide Faraone. Tutti gli altri appartengono alle varie anime della minoranza, a partire dai Giovani turchi, che pur avendo un profilo dialogante con Renzi su questo decreto sono assai critici. Se i loro voti si dovessero sommare a quelli di M5S e Sel (contrarissimi), il decreto sarebbe affondato.
Per evitare questo scenario, nel Pd in molti sono al lavoro per trovare una mediazione. Il ministro Poletti ha già incontrato il capogruppo Pd Roberto Speranza: i due hanno deciso di convocare una riunione di gruppo alla presenza del ministro per mercoledì sera. Nel colloquio, Poletti si sarebbe mostrato disponibile a costruire un percorso comune con il gruppo, anche ipotizzando alcune modifiche ma senza stravolgere l’impianto del decreto. Una linea che ha fatto sua anche il relatore Pd Carlo Dell’Aringa, che ieri ha aperto i lavori della commissione con la sua relazione in cui si parla di «aggiustamenti per migliorare il testo, senza stravolgerne i principi».
Nel mirino della minoranza Pd ci sono i contratti senza causalità per 36 mesi, gli otto rinnovi consecutivi, la formazione che sparisce dall’apprendistato e l’esigenza di fissare almeno un numero minimo (20%) di apprendisti che le aziende sono tenute ad assumere alla fine del periodo. Su quest’ultimo punto Damiano è molto determinato. Così come sulla formazione: «Rischiamo di incorrere in una procedura di infrazione europea». «Non c’è niente di nuovo nel precarizzare la vita di milioni di persone », sintetizza il leader dei Giovani turchi Matteo Orfini. «All’Italia serve un Job Pact. Quella che lanciamo a Renzi è una sfida riformista: non c'è qui chi tenta di difendere uno status quo che ha dimostrato tutti i suoi limiti. L’obiettivo condiviso è quello di provare a sconfiggere disoccupazione e precarietà. Per farlo occorre allargare il campo di azione del decreto, aggiungendo il contratto d'inserimento a tutele progressive e correggendo il testo del governo in alcuni punti decisivi, come l'eccessiva reiterabilità dei contratti senza causale e la curiosa pretesa di un apprendistato senza apprendimento».
La preoccupazione diffusa nella minoranza è che il decreto «cannibalizzi» il successivo disegno di legge sul contratto unico di inserimento. «Se passano queste norme il contratto unico non lo utilizzerà nessun imprenditore», avverte Stefano Fassina. «Il decreto cozza con la logica del contratto unico a tempo indeterminato a tutele progressive», rincara la dose Gianni Cuperlo.
Per una volta la minoranza appare compatta. Poletti, dal canto suo, si dice rispettoso del lavoro del Parlamento, apre alla discussione ma avverte: «Ok a ritocchi ma niente stravolgimenti. Siamo convinti che il decreto porti più stabilità e lo difenderemo con forza. Ma non abbiamo un approccio ideologico. Stiamo sperimentando nuove soluzioni, tra alcuni mesi valuteremo i risultati e cambieremo quello che non funziona». In una parte della minoranza circola l’idea che si possa introdurre nel decreto il tema del contratto unico. O comunque invertire l’ordine tra i due provvedimenti, come ha proposto Guglielmo Epifani. Dell’Aringa non sposa questa tesi: «Concentriamoci sul decreto, non creiamo sovrapposizioni o collisioni tra i due provvedimenti». Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, cerca di sedare le tensioni. Secondo Taddei, i successivi interventi sul contratto unico e l’estensione degli ammortizzatori sociali ai precari «renderanno stabile il mondo del lavoro». «Il decreto Poletti è una misura emergenziale, studiata per dare una scossa al sistema, che ne ha bisogno», spiega. Stefano Lepri, renziano, vicepresidente dei senatori Pd, polemizza con la minoranza, e in particolare con Fassina: «Non più di due anni fa, quando era parlamentare del nostro partito Pietro Ichino, da molto tempo sostenitore del contratto unico, fu irriso perché la sua posizione rappresentava una sparuta minoranza. Qualcuno oggi dovrebbe chiedere scusa». Da Ncd Maurizio Sacconi invita Renzi a fermare il «fuoco amico» contro il decreto.

Repubblica 28.3.14
Il Pd si spacca sul Jobs Act di Renzi
La sinistra del partito contesta il provvedimento e allo stato attuale mancano i voti per farlo passare
Rischio bocciatura immediata in commissione. Vertice tra il capogruppo Speranza e il ministro Poletti
di Goffredo De Marchis



ROMA. Stavolta il Partito democratico può davvero implodere. Lo ha spiegato il capogruppo alla Camera Roberto Speranza al ministro Giuliano Poletti in un lungo incontro a quattr’occhi lunedì pomeriggio. «I numeri non ci sono e non funzionerà il metodo che abbiamo usato per l’Italicum o per altri provvedimenti. Viene Renzi all’assemblea 24 ore prima del voto decisivo e sistema le cose. Dobbiamo preparare il terreno », ha avvertito Speranza. Il titolare del Welfare ha preso atto, ha accettato la richiesta di un confronto con il gruppo parlamentare mercoledì prossimo. In largo anticipo rispetto al momento in cui Montecitorio comincerà l’esame del decreto lavoro previsto intorno alla metà di aprile. Così sarà più semplice affrontare la bufera. «Ma non metterò in discussione le scelte strategiche del testo», è la linea di Poletti, sposata da Renzi che lo considera, per ora, il miglior ministro del suo governo.
Già nella commissione Lavoro, il primo provvedimento dell’esecutivo rischia di andare incontro al naufragio. Gli esponenti della minoranza del Pd, uniti a Sel, M5s, alla forzista Renata Polverini rappresentano la forza maggiore in quella sede. Si cerca di correre ai ripari, ma le mosse a disposizione sono poche. In tutta fretta è stata spostata dalla commissione Trasporti a quella Lavoro Alessia Rotta, giornalista veronese, eletta grazie alle primarie, non renziana della prima ora ma elettrice del segretario. Per riequilibrare i pesi e lavorare a un’ipotesi di mediazione. Il presidente della commissione è Cesare Damiano, ex ministro, cuperliano, legatissimo alla Cgil. Il grande timore del premier è che sul decreto Lavoro si possa consumare lo scontro finale tra lui e Susanna Camusso. Non nelle sedi del confronto tra le parti sociali, ma in Parlamento grazie ai deputati che sono più legati al sindacato di Corso d’Italia. «La minoranza Pd non conta granché - spiega Paolo Gentiloni - ma la Cgil conta, eccome». Come dire che qualcuno al Camera potrebbe rappresentarne i (legittimi) interessi.
Nell’assemblea di ieri, Damiano è stato netto: «La posizione di Poletti è inaccettabile. Non può dire che il provvedimento non va stravolto». Duri anche gli interventi di Maria Luisa Gnecchi e Monica Gregori. Qualcuno ha evocato la manina di Confindustria nel testo licenziato da Poletti, ossia l’accusa più pesante per un ex comunista come Poletti: intelligenza con il “nemico”. Ma il problema esiste e non solo per i deputati della minoranza. Elisa Simoni, cuperliana e ex assessore di Renzi alla Provincia, si è proposta come pontiere chiedendo al gruppo di individuare solo interventi mirati: sull’apprendistato e sul rinnovo dei contratti, magari abbassando il periodo di “prova” a 24 mesi da 36. Anche di questo hanno discusso lunedì Poletti e Speranza. Con un’apertura del ministro, che in verità sembra programmata da tempo. Nel decreto è stato scritto 8 rinnovi per avere margini di trattativa e scendere a un numero inferiore, secondo alcune versioni. Alessia Rotta però mette in guardia: «Le modifiche sono possibili, ma non va cambiato l’impianto della riforma».
Su questo terreno minato si muove il Pd. E più di uno è pronto a scommettere che l’assemblea di mercoledì sarà l’occasione per una resa dei conti nel Pd. Con una parte da protagonista recitata, in maniera indiretta, dalla Cgil. È quello che vuole evitare Speranza: «Poletti difende l’idea strategica del decreto però considera assolutamente giusto un miglioramento delle Camere. Non per niente gli ho chiesto di venire e spiegare e lui ha subito accettato». Non è un provvedimento a scatola chiusa, ma Renzi s’impunterà contro slittamenti o rinvii. La minoranza del Pd infatti si chiede a che serve il decreto se nelle prossime settimane si cercherà di costruire una legge delega per il contratto unico. Ma questa sovrapposizione non viene presa in considerazione da Palazzo Chigi. «Nessuno stop, dobbiamo andare avanti. E dare una prima risposta al problema dell’occupazione», ha fatto sapere il premier. Sono due corsie separate e tali devono rimanere.

Repubblica 28.3.14
Fassina: “Strada sbagliata, lo cambieremo in Parlamento”
intervista di Luisa Grion


ROMA. Così com’è il decreto lavoro non può passare, perché spalanca le porte ad una maggiore precarietà: «Ne parleremo con il ministro Poletti, cercando di gestire le modifiche in via cooperativa, ma se il sistema non dovesse funzionare la decisione passerà al Parlamento». Ed è là che Stefano Fassina, ex viceministro Pd all’Economia, è convinto di trovare i numeri sufficienti per cambiare il testo varato dal governo.
Quali sono i punti da rivedere per evitare che il decreto muoia per mano amica, visto che non piace ad una buona fetta del Pd?
«La durata del contratto a termine e il numero di proroghe ammesse, ma va anche reintrodotto un tetto di stabilizzazione per le imprese che vogliono assumere nuovi apprendisti e va ripristinato l’obbligo di formazione. La competitività non si conquista impoverendo i lavoratori sotto il profilo dei redditi e della preparazione culturale».
Cosa chiederete con gli emendamenti?
«Per quanto mi riguarda i contratti a termine non potranno durare più di due anni, non tre come ora previsto. E le proroghe ammesse dovranno essere tre, non otto».
Basterà per creare occupazione?
«No, perché non è sulla flessibilità che dobbiamo incidere. Per creare lavoro servono investimenti, domanda, consumi, rilancio della produttività: insistere sui tagli al costo del lavoro – perché di questo si tratta – non porterà a niente, anzi sarà controproducente. La differenza fra destra e sinistra è questa: noi puntiamo alla domanda.»
In realtà pare che la flessibilità piaccia molto ad una parte della sinistra.
«E’ il frutto della cultura subalterna al neoliberismo che ha dominato dagli anni Novanta in poi. Ma abbiamo visto che non funziona. Pensiamo davvero che il contratto a tempo determinato favorirà nuove assunzioni? Non creerà nemmeno un posto se le aziende non avranno lavoro da offrire. L’unico effetto che potrà produrre, semai, sarà quello di ammazzare nella culla il contratto d’inserimento a tutele progressivo. Le imprese non avranno nessuna convenienza ad applicarlo e il tempo indeterminato sparirà.»
Come rendere il tempo indeterminato più appetibile?
«Non è questione di renderlo più appetibile: bisogna fare delle scelte per ridurre la precarietà e stabilizzare i redditi. Il contratto a tempo determinato deve reatare un’eccezione, non la regola.»

l’Unità 28.3.14
Camusso: il Parlamento cambi le norme sul precariato
La leader Cgil: «Noi saremo protagonisti chiederemo modifiche sui contratti a termine»
Ai delegati del congresso lombardo: «Il sindacato conta se determina un rinnovamento sociale»
di Giuseppe Vespo


«Non ci piacciono le norme sui contratti a termine così come non ci piace che venga sacrificata la parte formativa del contratto di apprendistato. Abbiamo visto che c’è un dibattito aperto anche in Parlamento e lavoreremo per proporre modifiche e cambiamenti che permettano miglioramenti».
Il decreto Lavoro arriva in Commissione alla Camera e Susanna Camusso ribadisce cosa andrebbe cambiato per il sindacato di Corso Italia. Partendo dalla precarietà. La sindacalista interviene da Assago, dove la Cgil Lombardia ha tenuto il suo congresso confermando segretario Nino Baseotto, e la coincidenza vuole che il giudizio sul Lavoro venga espresso quando in Commissione inizia la seduta, relatore Carlo Dell’Aringa.
Anche all’interno del Pd, come in Parlamento, le modifiche al decreto legge portano i deputati su posizioni differenti. Un bene per Camusso, perché «le opinioni diverse rappresentano un vantaggio» e il sindacato proverà a «tradurre queste voci in proposte di modifica». Il campo è ancora aperto, e la Cgil vuole intervenire. Pazienza se c’è qualche difficoltà di dialogo col premier («chiedetelo a lui»). Del resto quello dell’essere protagonisti, incidendo sulle trasformazioni, è uno dei temi che la segretaria tratta nel suo intervento sul palco di Assago. Quando parla di «concertazione» e di «contrattazione », la leader della Cgil domanda ai suoi: «Siamo o no soggetto di cambiamento sociale? Perché il sindacato conta se determina cambiamento sociale, non solo se determina una proposta di modello sociale. Abbiamo cambiato abbastanza? ».
Su questo piano è decisivo «tornare ad essere i protagonisti della piattaforme e delle trattative, altrimenti gli altri decideranno per noi». Per questo l’accordo sulla rappresentanza, criticato dalla Fiom, «è fondamentale. Non potevamo andare avanti con accordi separati perché in questi anni non siamo riusciti a ribaltarne neanche uno».A partire da quello Fiat, non sottoscritto dai metalmeccanici Cgil. Proprio il rapporto con le tute blu di Maurizio Landini sta mettendo alla prova un congresso che a livello nazionale si presenta unitario. Camusso, però, supera le critiche sul dialogo con la Fiom («c’è in corso la consultazione degli iscritti e quella determinerà per tutti le scelte») e si concentra sulle istanze che arrivano dalla società. Sono due: lavoro e pensioni.
IL NODO «FORNERO»
Del primo, «in questo Paese non ce n’è abbastanza: bisogna infrangere la credenza che la ripresa ci sarà solo quando le imprese torneranno ad investire, c’è la necessità di discutere un piano per il lavoro». Delle pensioni la sindacalista parla abbondantemente, lo fa affrontando il tema dei prepensionamenti nel pubblico impiego proposto dalla ministra Madia. «C’è un problema generale determinato dalla legge Fornero rispetto alla possibilità di far entrare i giovani nel mondo del lavoro sia nel pubblico sia nel privato». Per questo «bisogna trovare una norma generale di flessibilità che permetta di affrontare questo tema in tutti i settori del lavoro». La riforma delle pensioni è anche occasione di autocritica, è una delle «sconfitte» del sindacato negli ultimi anni. Ma resta una battaglia aperta: «Da dove ripartiamo? Proporremo che il congresso nazionale lanci a Cisl e Uil, e al Paese, una proposta di cambiamento che abbia una caratteristica: che possa permetterci di andare anche tra gli universitari e tra gli studenti a dire che questa lotta la stiamo facendo perché c’è anche la vostra di pensione, e non c’è solo il tema della conservazione per chi si è visto scippare i diritti un giorno prima. Noi difendiamo le pensioni, ma dobbiamo anche dire che una parte del mondo del lavoro ha retribuzioni tali che non avrà mai una pensione per sopravvivere. E questo sì sarebbe disastroso per il Paese».

il Fatto 28.3.14
Il piccolo Bonaparte
Renzi ripropone il “Camusso chi?”
Resta aperto il problema di un Paese irriducibile alla semplificazione del superbo “fo-tutto-io”
di Pierfranco Pellizzetti


“Ti piace vincere facile?”. Ricordate lo spot pubblicitario di quel tipo che gioca la partita di calcio schierando centinaia di giocatori contro gli undici regolamentari? Un po’ quello che ha fatto Matteo Renzi spedendo a quel paese i grandi capi delle corazzate attraccate nello stagno nazionale della rappresentanza: Confindustria e Cgil. D’altro canto prendersela con Susanna Camusso e Giorgio Squinzi è un po’ come la gag pubblicitaria: sfonda una porta aperta.
Visto che da decenni il sindacato confederale si è ritagliato un ruolo di caporalato del consenso, lasciando alla Fiom di Maurizio Landini i compiti di agente guastatore per un riequilibrio d’immagine (non sempre apprezzato quando impone atteggiamenti barricadieri difficilmente conciliabili con le consolidate pratiche “entriste”). Una politica improntata alla massima prudenza e al “rispetto delle compatibilità”, in linea con il dato che ormai l’organizzazione vede il proprio radicamento prevalente nei pensionati e nel pubblico impiego. Dunque, un facile bersaglio per chi dichiara aperta la caccia agli zombi.
Specularmente, l’associazione degli industriali da lunga pezza non è altro che un commensale al banchetto dell’establishment, dove esercita il lobbying come riflesso condizionato; e mentre viene retrocessa in posizioni di seconda e terza fila a seguito della graduale quanto inarrestabile perdita di peso del sistema d’i m p r e-sa che dovrebbe rappresentare.
ANCHE IN QUESTO caso un soggetto facilmente inquadrabile nel mirino di chi intende farsi bello con l’eliminazione dei convitati di pietra. Questo perché i processi di notabilizzazione della rappresentanza, in un Paese dove tutto è politica politicante e nulla è società, hanno prosciugato il pluralismo. Le cosiddette “parti sociali”. Ma vale davvero la pena di gioirne, come il giuslavorista Piero Ichino (che fece parte della banda dei liberisti di sinistra inneggianti alla liquidazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, allora simbolo della resistenza alla svendita dei diritti per la precarizzazione neoliberista)?
In effetti, l’attacco agli interlocutori che non si allineano al verbo del premier non rientra in un’opera di rinnovamento della rappresentanza, bensì nel desiderio di azzerarla. Difatti siamo sempre alla gag bullesca del “Fassina, chi?”.
NEL CASO, il “chi?” sbattuto in faccia a chi potrebbe timidamente impicciare le derive plebiscitarie perseguite dal giovanotto affetto da un chiaro stigma autoritario (non a caso orientato a teatralizzare i processi democratici con le tecnicalità propagandistiche rinominate “comunicazione”).
Comunque, stabilito che di Camusso e Squinzi possiamo francamente infischiarcene, resta aperto il problema di un Paese irriducibile alle semplificazioni bonapartiste del Superbone “fo-tutto-io”. In altre parole: è possibile e ragionevole rinunciare a una concertazione in materia di politica industriale con i soggetti collettivi? Relazione strategica di cui - ad esempio - né Obama e neppure Merkel sembrano fare a meno.
Sicché la scopa renziana, seppure mossa da ben altri intenti, ha spianato la strada per una possibile riflessione sull’associazionismo e sulle condizioni del ritorno a un’utile rappresentatività da parte delle sue organizzazioni.
Se ormai si è convinti che la stagione delle belle statuine con relativi minuetti collusivi è finita, per lasciare spazio a tentativi latamente newdealistici di avviare un nuovo corso, allora c’è bisogno di soggetti pronti a proporre e ad agire per l’uscita dalla crisi.
Una crisi che ha tante cause; ma di cui una riguarda direttamente le parti sociali: il rilancio dell’economia reale, bloccata da decenni su posizioni di rendita; che non si realizza, come pensano i pompieri della conservazione (Renzi compreso), con il semplice abbattimento del costo del lavoro, diritti compresi.
New deal significa riposizionare produttivamente il sistema Paese. Compito in cui le parti sociali potrebbero ritrovare la propria ragione d’essere.

il Fatto 28.3.14
Caro governo, le parole non cambiano verso
Multilocalizzazione, contratti a tutele crescenti: il governo ci vuole ri-alfabetizzare
Ma “chi parla male, pensa e vive male”
di Luisella Costamagna


Cari membri del governo Renzi, dobbiamo ringraziarvi. Per anni siamo rimasti arroccati su parole d’ordine che oggi finalmente, con voi, assumono un nuovo significato. Ebbene sì, ci avete davvero fatto “cambiare verso”, innanzitutto nel senso di emissione sonora. Prendi la “delocalizzazione”, con tutta la tristezza vetero degli stabilimenti all’estero, con lavoratori pagati e tutelati molto meno dei nostri. Vuoi mettere quanto è più figa a definirla “multilocalizzazione”, come ha fatto la ministra Guidi? E basta anche parlare di precarietà e dire che i neoassunti non avranno più l’articolo 18. Meglio spostare l’attenzione dal presente al futuro luminoso che li attende, inventandosi “i contratti a tutele crescenti”. Magari loro e i sindacati ci cascano. Tanto, nel favoloso mondo in cui ci avete fatto entrare, non ci sarà neanche più bisogno di “concertazione”: quella estenuante trattativa che “fa venire la nausea” al papà della Guidi, non piace neanche al ministro del Lavoro Poletti, per il quale “decide il governo” e “se sono insoddisfatti tutti (sia Cgil che Confindustria, ndr), allora ci abbiamo preso”. Lui, l’ex presidente della Lega delle Cooperative, che a Ballarò dichiarò: “Sono orgoglioso di questo conflitto d’interessi”, “di rappresentare un milione e mezzo di occupati”, “ho giurato sulla Costituzione”. Peraltro, Delrio docet, “su eventuali conflitti d’interesse vigilerà personalmente il premier”. E noi che ci scandalizzavamo quando a dire così era Berlusconi! Non capivamo niente. E sbagliavamo a credere che la legge sul conflitto d’interessi fosse una “priorità”, come diceva Renzi durante le primarie contro Bersani. Ma dai, che problema c’è?
Grazie di averci aperto gli occhi pure sulla questione morale: averci fatto capire che una casa pagata da un imprenditore in affari con il comune che amministriamo è solo “il legame privilegiato che intercorre tra gli amici di una vita”, e non ha nulla a che vedere con “Formigoni che fa le vacanze a sbafo sullo yacht di un finanziere in affari con la Regione Lombardia” (copyright Gramellini). E che sottosegretari, viceministro e ministro indagati devono restare al loro posto perché c’è “la presunzione d’innocenza”. Lontani i tempi in cui Renzi chiedeva le dimissioni di Penati o della Cancellieri, che manco era indagata. Il verso è cambiato. Giustizialisti, disfattisti, pessimisti lo capite o no che dal Medioevo siamo finalmente entrati nel Rinascimento? Se poi qualcuno si azzarda a criticare l’Europa basta bollarlo come “antipolitica” (anche se sono forze marcatamente politiche), o dire “abbiamo abolito le province” e il finanziamento pubblico ai partiti (tanto chi va a controllare). Come per i giornali, è il titolo a fare il pezzo, no?
Caro governo Renzi, come diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”. Grazie per averci ri-alfabetizzato, già viviamo meglio. Solo un consiglio per completare il lavoro: non parlate più di destra, sinistra, larghe intese: chiamatelo governo e basta. In fondo, sarete il nostro governo per i secoli a venire, giusto?

Corriere 28.3.14
Senato, 28 giorni per la riforma
E spunta il fronte del no
Disagio trasversale nella maggioranza. Schifani: sulla velocità sarei prudente
di Monica Guerzoni

qui

il Fatto 28.3.14
Il ministro Boschi
La Madonna del presepe renziano tra processioni, gaffe e Verdini
di Marco Palombi


Maria Elena Boschi, ministro 33enne da Laterina, Arezzo, ha un passato d’attrice: per qualche anno, infatti, ha fatto la Madonna nel presepe vivente organizzato dalla sua parrocchia. Ebbene, non sembri irriverente il paragone, ma anche oggi la giovane ministro ai Rapporti col Parlamento interpreta la parte della Madonna, stavolta nel presepe renziano. In aula, gli eletti d’ogni ordine, grado e colore passano, in interminabile processione, a renderle omaggio e a sussurrarle all’orecchio frasi preziose: forse è per la sua simpatia, forse perché tutti sanno che è una delle poche persone ammesse alla confidenza di Matteo Renzi. Qualcuno, sostengono i più maligni, passa solo per farsi una bella foto nell’occhio del ciclone del renzismo, visto che gli obiettivi dalle tribune puntano la ministro senza sosta.
“MAGARI NON È BRILLANTISSIMA nella conoscenza delle tecniche parlamentari, ma la sua vicinanza a Renzi, il suo peso politico, le garantisce che almeno l’aula la ascolti con attenzione”, racconta un deputato. Poco male per la tecnica e la gestione dei rapporti: alla Camera la copre la sottosegretario Sesa Amici, deputata di lungo corso e politica d’esperienza che si sobbarca anche l’arduo compito di auscultare gli umori dei gruppi in Transatlantico; al Senato quel compito è appannaggio di Luciano Pizzetti, funzionario di partito pure lui, alla terza legislatura. Le Camere, d’altronde, sono la vera casa del ministro Boschi: l’ufficio di Largo Chigi è per i funzionari, lei - a differenza dei suoi predecessori Giarda e Franceschini - è continuamente in Parlamento. Si tratta, insomma, di un politico assai volenteroso, ma il cui peso specifico è al momento pari a zero.
IL DEBUTTO, per dire, fu di quelli terrificanti: il 26 febbraio - quando Boschi era in carica solo da quattro giorni - si ritrovò in una riunione ristretta a spiegare che il decreto Salva-Roma sarebbe stato lasciato decadere perché non c’era abbastanza tempo per convertirlo. Il problema, poi risolto con una nuova norma, era che la capitale senza i soldi stanziati in quel testo non avrebbe pagato gli stipendi a lungo: quando le fecero presente la cosa, racconta una fonte, la ministro andò nel panico e fu Graziano Delrio da allora a gestire la pratica. Pure sui sottosegretari indagati, dopo i mesi del Renzi manettaro delle primarie, fu mandata in aula con poche righe scritte dagli uffici in risposta ad una interrogazione del M5S: “Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni sulla base di un avviso di garanzia, ma eventualmente per motivi di opportunità politica”, lesse con tono monocorde. Anche mercoledì in Senato, per dire, non è andata benissimo. Presa la parola in aula per porre la fiducia sulla legge sulle province, s’è ritrovata nel mirino di Roberto Calderoli, il quale - con malvagia noncuranza - le ha chiesto se il testo da votare era quello della Camera o quello modificato dal Senato. Alcuni secondi di vuoto, sguardo perplesso, silenzio: solo l’intervento di Piero Grasso le ha consentito di mettere insieme una risposta. Maurizio Gasparri, impietoso: “Tremo al pensiero di affrontare la legge elettorale con un ministro che ha dovuto prendere la parola per tre volte per spiegare che metteva la fiducia e su cosa. L’esperienza, la conoscenza dei fatti e la non improvvisazione sono requisiti essenziali per affrontare questioni complesse”.
L’ex ministro delle Comunicazioni, in realtà, può stare tranquillo: pur avendo la delega anche alle Riforme, la legge elettorale e la modifica della Costituzione non sono materia per Maria Elena Boschi. La trattativa sui contenuti si svolge fuori dalle Camere e dalla portata del ministro. Quando poi, come fu per l’Italicum, c’è qualcosa che non torna, appaiono improvvisamente nei paraggi Luca Lotti e Denis Verdini: i due si mettono d’accordo, verificano la tenuta dei gruppi e poi fanno una bella chiacchierata anche con l’avvocato Boschi, già consigliere giuridico del sindaco di Firenze. Nel presepe renziano ognuno ha la sua parte. E per lo più si recita a soggetto.

il Fatto 28.3.14
Il ddl sulle province rischia di essere sommerso dai ricorsi


Il Ddl sulle province rischia e non poco: una valanga di ricorsi potrebbe ucciderlo in culla. È il parere del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, non proprio un fine giurista, è vero, ma la sua analisi regge alla lettura del maxiemendamento su cui il governo ha ottenuto la fiducia a palazzo Madama. In sostanza, il comma 82 del testo modifica una disposizione dell’ultima legge di Stabilità in un senso un po’ antidemocratico, per così dire: si prevede, infatti, che al momento in cui la legge entra in vigore, i consigli provinciali in scadenza a maggio vengano sciolti all’istante, mentre il presidente rimane in carica per l’ordinaria amministrazione.
Calderoli prevede, insomma, ricorsi da parte degli “esodati della provincia”. Motivo: siccome il ddl deve essere approvato entro il 7 aprile, per evitare la convocazione dei comizi elettorali per le provinciali il 9, alcuni consigli verranno sciolti ope legis quel giorno invece che alla scadenza naturale (il 25 maggio). “Neanche Mussolini”, dice l’ex ministro leghista: “Spero che alla Camera qualcuno modifichi il pasticcio”. Il problema è che poi non è detto che ci sia il tempo per approvare il ddl prima di convocare le elezioni provinciali a maggio.

il Fatto 28.3.14
Il giornalista Pietrangelo Buttafuoco
Lo Statuto siciliano? Frutto della Trattativa
Palermo
di Giuseppe Lo Bianco


La Sicilia? “Dovete svegliarvi, la situazione è gravissima. La prima emergenza non è la mafia, ma lo Statuto speciale, che nasce dalla prima trattativa Stato-mafia: abolitelo e commissariate la Sicilia”. Dopo la bocciatura della Finanziaria regionale da parte del commissario dello Stato, si moltiplicano gli allarmi sul rischio di default per l’isola, e Pietrangelo Buttafuoco torna a invocare l’intervento del presidente del Consiglio per commissariare la Sicilia: “Se adesso Renzi vuole togliere il Senato, discutendo sul titolo V non può risolvere alla radice questo problema?”
Tranne qualche allarme isolato, i giornali non sembrano preoccupati.
I giornali del Nord non se ne occupano perché non gliene fotte niente a nessuno della Sicilia, gli interessa solo il brand ‘mafia’. Ma più grave del problema della mafia è questo cancro dell’autonomia. Il famoso uovo che viene prima della gallina è l’autonomia. Prima c’è l’uovo dell’autonomia e poi la gallina della mafia.
Buttafuoco, l’autonomia per la Sicilia è un tabù: in molti la raccontano, con orgoglio, come la pagina più gloriosa della nostra storia.
Ma quando mai. Noi siciliani dobbiamo fare autocritica, qui il primo ostacolo è lo Statuto speciale. Ci vuole un lavoro di ricognizione affettuoso ma crudele: l’Evis (l’esercito separatista, ndr) era inquinato da interessi mafiosi, dobbiamo ammettere che quella stagione conobbe momenti ambigui, tragici, sporchi dove c’erano interessi sovranazionali e si passò dal tragico al pittoresco, dall’offrire la corona di Sicilia a Umberto di Savoia o farne la 51° stella degli Usa. E il bandito Giuliano non era un eroe, non era Bobby Sands. Oggi Cosa Nostra è uno squalo che nuota nel mare dell’autonomia.
E quindi gettiamo l’acqua con tutto lo squalo. Stop temporaneo alle elezioni regionali e un commissario per rimettere a posto i conti. E poi?
Togli l’autonomia e si ricomincia. Se non crei un trauma profondo nella coscienza dei siciliani non ne esci più. È tutta una catena di affetti e di disperazione: dalla formazione al precariato, dai contratti agli appalti, dagli enti ai sotto-enti avvolti nelle nebbie di numeri e di algebre.
La terra frana anche sotto i piedi dei deputati all’assemblea regionale, che hanno iniziato a farsi dare gli anticipi sul Tfr: c’è aria di prendi i soldi e scappa.
Il ceto politico siciliano è il peggiore in assoluto: prima la Sicilia era un laboratorio politico, ora è la fogna del potere, il posto peggiore. Le occasioni elettorali sono concorsi per assegnazioni di posti di lavoro nella forma di consiglio comunale, di consiglio provinciale, di assemblea regionale o di posti di sottogoverno: una soluzione per aprire una pausa nella disoccupazione costante.
E Crocetta?
Un simpatico narciso che fa danno a se stesso e ai cittadini, si trova lì perché il centrodestra si spaccò, con il beneplacito elettorale di Berlusconi.
Non è che lei ce l’ha con Crocetta perchè tagliò i fondi del Teatro Stabile di
Catania, quando lei era il presidente?
Mi sono dimesso molto prima. Non arrivano i soldi, mi tolgo io, pensai, e aiutiamo il teatro.
Andò via in polemica con chi l’aveva nominata, Raffaele Lombardo, fondatore
del Movimento per l’Autonomia, lastessa che lei ora vuole abolire.
Contro di me aveva scatenato i suoi uomini e aveva tolto i fondi. Mi fecero sfumare l’allegria e la contentezza. Lo Stabile a Catania è il direttore artistico Giuseppe Di Pasquale, l’allievo prediletto di Andrea Camilleri. Facevano la guerra a lui sperando di trovare in me un sicario.
E dunque commissariamo la Sicilia.
E in fretta. I paesi sono sempre più deserti, abbandonati. Sospendiamo le stupidaggini che derivano dalle ebbrezze elettorali. Ho chiesto a Renzi di parlare con i prefetti, di non accontentarsi delle rassicurazioni dei ‘piritolli’ dell’antimafia glamour. Se persino la mafia sta diventando problema secondario, dovete svegliarvi.
Buttafuoco, lei appare “diversamente”
democratico.
Io sono borbonico, l’unica sovranità che riconosco è quella del buon re Ferdinando.

l’Unità 28.3.14
Lista Tsipras, raccolta firme verso il traguardo anche in Valle d’Aosta
Boldrini: «Cambiare la legge»


«Come lista Tsipras siamo fiduciosi di raggiungere le 150mila firme necessarie ma la legge è sbagliata, deve essere cambiata». Cecilia D’Elia, della direzione di Sel, ha partecipato ieri mattina a uno dei due incontri di parlamentari della Camera con la presidente Laura Boldrini sulle norme-capestro per la presentazione di liste alle elezioni europee: uno con rappresentanti della lista Tsipras, appunto, e l’altro con i Verdi. Sotto i riflettori è in particolare la norma della legge 18 del ‘79 che impone di raccogliere almeno 3mila firme in ogni regione, indipendentemente dal numero di abitanti - quindi anche in Valle d’Aosta dove gli elettori sono appena 100mila e gli abitanti men odi 130mila-, pena la cancellazione della lista nell'intera circoscrizione elettorale. La presidente Boldrini ha giudicato «ragionevole e condivisibile» la richiesta di modificare questa regola. La raccolta di firme per la presentazione della lista Tsipras in Valle d’Aosta, con un grande sforzo organizzativo - tavoli anche sotto la neve, invio di parlamentari e testimonial -, ha già ottenuto il risultato di quasi 2mila firme. E complessivamente all’incirca 100mila in tutta Italia. Nel collegio Isole, dove pure esistono difficoltà, soprattutto in Sardegna, il prossimo week-end sarà lo stesso Alexis Tsipras a venire a sostenere la raccolta di firme a Palermo. «Se siamo andati dalla presidente della Camera a sostenere la necessità di modificare la legge non è per noi - dice Cecilia D’Elia -ma perché è importante avere una legge che non deprima la rappresentanza. In Germania bastano 15mila firme». Un testo che modifica alcune norme per il voto europeo - incluso un abbassamento della soglia del4%- è già stato votato dal Senato ed è ora all'attenzione della Commissione Affari Costituzionali della Camera. La discussione in Aula è fissata dal 7 aprile.

l’Unità 28.3.14
La legge che avrebbe dovuto liberare i bimbi dal carcere
di Carla Forcolin


GLI EFFETTI DELLA LEGGE 62, CHE AVREBBE DOVUTO LIBERARE I BAMBINI DAL CARCERE. Kevin, 5 anni, giunge in visita alla mamma, reclusa nell’Icam di «xy» con la sorellina di due anni. Ci viene accompagnato dal nonno, ma non torna a casa con lui. Il bambino ha piantato un capriccio, vuole stare con la mamma, come la sorellina minore, è geloso. E la mamma decide di tenere anche lui con sé. Sa che in carcere nessuno si opporrà.
Con la legge 62, che istituisce gli Istituti a custodia attenuata per madri, i bambini possono stare con la mamma fino a sei anni e basta che lei voglia tenerlo con sé che lui le rimarrà accanto. Così il piccolo finisce per fare la vita del recluso. Era un monellino che girava tutto attorno al campo Rom con i suoi fratelli, cugini, amichetti. Lo accudiva la nonna, le decisioni su di lui le prendeva il nonno. Alla scuola materna non andava, come non ci andrà ora: la mamma o meglio il nonno non vuole. Forse perché la scuola materna «rammolisce » troppo questi bimbi, perché si sovrappone all’influenza della famiglia, del clan, quando i bambini sono piccoli.
Così ora Kevin vive tutto il giorno in poche stanze e si annoia a morte. La sorellina frequenta l’asilo nido. La mamma si stancava ad averla intorno tutto il giorno e lei era tanto felice di uscire… Inoltre a tutti all’Icam appariva bello che la piccina andasse all’asilo. Lui invece non ci va e quando la sorellina rientra ha come unica soddisfazione quella di giocare con lei e di farle un po’ di dispettucci fraterni. Ora è lì anche lui a «presidiare la mamma». Simile soddisfazione gli costa la libertà, ma la mamma è il suo più grande amore. E poi, quando avrebbe tanta voglia di uscire, di giocare con i suoi amichetti, nessuno è disposto a riaccompagnarlo al campo Rom. Le ondate di desiderio di essere libero passano e si alternano alla paura di lasciare la mamma e di lasciarla tutta a sua sorella.
Così Kevin vive recluso. Fa compagnia a mamma e trascorre così la sua prima preziosissima infanzia. Nessuno si pone il problema di questo bambino recluso, che non solo non può imparare le cose che si imparano a scuola, ma nemmeno quelle che si imparano per strada.
Kevin può stare in un bellissimo Icam (che però di fatto è una prigione) solo perché una nuova legge gliel’ha permesso. Una legge che è nata per non separare i bambini dalle mamme detenute. Chi ha scritto questa legge non ha pensato che queste cose avrebbero potuto succedere, ha solo sperato di «liberare» tutti i bambini. La legge dice che nessun bambino sotto i sei anni dovrebbe stare con la mamma in prigione, piuttosto le mamme con prole fino ai sei anni devono rimanere agli arresti domiciliari e se non hanno un domicilio in una casa-famiglia. A meno che (e qui cominciano i guai!) a meno che il giudice non ritenga che quella mamma sia pericolosa se non reclusa. Fino a pochi mesi fa le mamme in simili condizioni tenevano con sé solo i bambini piccoli, sotto i tre anni, ora possono tenere anche quelli più grandicelli. E così, per un malinteso pietismo, nel nostro Paese succede che, mentre un adulto va in prigione dopo un processo regolare, se condannato, un bambino di cinque anni va in prigione se lo desidera la mamma o la sua famiglia o se lui stesso esprime il desiderio di stare accanto a mamma, costi quel che costi!
Tutti sappiamo che la madre o un suo sostituto è necessaria nella prima infanzia, funge da base sicura per imparare ad affrontare il mondo ed è palestra primaria di relazione per il bambino. Tutti sappiamo che la madre o un suo sostituto sono necessari a crescere in un progressivo processo di distacco e di acquisizione di autonomia. Ma se questo distacco non può esserci, che succede? La crescita viene di fatto minata. Una cosa è impedire gli incontri tra mamme carcerate e figli, che dovrebbero potersi incontrare spesso, e un’altra quella di impedire la libertà di crescere autonomamente ai bambini, abituandoli al clima di un istituto di pena fin dalla prima infanzia. La riforma costituita dalla legge 62 fa rimpiangere lo stato delle cose precedenti e va ripresa velocemente in mano da parte del legislatore.

Repubblica 28.3.14
Obama da Bergoglio
Le grandi paure della Chiesa Usa
di Vittorio Zucconi



QUANDO le mani del primo Papa americano si sono strette a quelle del primo Presidente americano afroamericano in uno slancio di “meraviglia” reciproca, brividi di paura e di speranza hanno agitato il cuore di 80 milioni di cattolici Usa.
È QUESTA la fine di una Chiesa Cattolica ormai obamizzata e secolarizzata?», si sono chiesti con orrore i “Rad Trad”, i tradizionalisti radicali con simpatie di destra che vedono nella dottrina sociale di Francesco il segno di un Papato, Dio ci scampi, progressista. «È un altro segnale che il capo della Chiesa si sta muovendo finalmente nella direzione giusta e ammira il Presidente più deciso nella difesa della dignità delle persone? », hanno sperato i “Cattolici pro Scelta”, che hanno comperato pagine sui quotidiani per convincere la Corte suprema a permettere l’uso e la prescrizione di anticoncezionali anche negli ospedali cattolici, bloccati dai vescovi Usa.
Dopo i decenni di popolarità immensa, ma molto personale, di Giovanni Paolo II, che raccoglieva nelle sue missioni americane folle ed entusiasmi «da rock star», come disse un Bill Clinton invidioso che lo aveva accompagnato, dopo i tormenti e le vergogne della pedofilia che sconvolsero il pontificato di Benedetto XVI accusato di troppe esitazioni, l’avvento dell’argentino alla cattedra di Pietro ha riaperto tutte le contraddizioni e le falde sismiche sotto la crosta della più grande denominazione religiosa organizzata negli Usa. I quasi 80 milioni che si dicono cattolici romani.
Era inevitabile, e profondamente cristiano, che “Pope Francis” rappresentasse un segno di contraddizione. I cattolici, che siano “Rad Trad”, ferocemente tradizionalisti o “Caf Cat”, tiepidi e sentimentali fedeli da «caffetteria », non sono comunque una piccola setta idolatrante. Riflettono, per grande angoscia della gerarchia, gli stessi atteggiamenti verso i sacri valori: non esiste differenza sostanziale nell’uso di anticoncezionali, né nel ricorso all’aborto, fra le donne per appartenenza religiosa. E addirittura sono più favorevoli alle unione gay coloro che si dicono fedeli a Santa Romana Chiesa rispetto a protestanti, seguaci di altri culti o atei, secondo i sondaggi del rispettabilissimo istituto Pew.
Cattolici sono i figli degli irlandesi e degli italiani, i nuovi americani affluiti dal Grande Sud del continente oltre i confini con il Messico, persino nativi convertiti alla Chiesa di Roma come l’arcivescovo di Filadelfia, il Cappuccino Charles Chaput, un indiano delle Grandi Praterie, il cui nome Lakota significa “Grande Aquila”. Un prelato ormai visto come uno degli alfieri dei “Rad Trad”, dopo che commentò lo storico discorso di John Kennedy sulla separazione fra Stato e Chiesa, definendolo «bellissimo sincero, appassionato e... sbagliato ».
È un gregge specialmente inquieto, e straordinariamente prezioso per il Vaticano, anche per contributi finanziari, e indispensabile per le ambizioni politiche. Non si diventa presidenti degli Usa senza il suo voto. E Obama lo sa. Nel 2012, conquistò il 51% del voto cattolico, meno del 52% generale. Dunque l’ostilità verso papa Francesco è spesso soltanto lo specchio dell’ostilità verso Obama.
Le prime decisioni del Papa sono sembrate addirittura confermare le ansie dei “Rad Trad”. L’arcivescovo di Philadephia, il Francescano che non crede alla separazione fra Stato e Chiesa non è ancora stato fatto cardinale, titolo che abitualmente spetta al responsabile di una delle maggiori e più antiche diocesi degli Usa. Il cardinale di Los Angeles, Raymonde Burke, sarebbe stato «rimosso», ha scritto il New York Times, per la sua ostinazione supertradizionalista e di fatto sostituito con il cardinale di Washington Donald Wuerl alla guida della Commissione per la Dottrina nella Conferenza Episcopale, considerato molto più “liberal” e menzionato come possibile candidato alla successione di Ratzinger.
Non sono passati molti anni, da quando alcuni eminentissimi porporati, come appunto l’ex arcivescono di Los Angeles oggi sostituito da Francesco, invitarono a non votare per John Kerry, che, da divorziato, aveva osato avvicinarsi comunque all’eucarestia, un tabù che ora proprio Francesco ha demolito. Il «chi sono io per giudicare i gay» pronunciato dal Papa ha indignato commentatori cattolici come Adam Shaw che si è chiesto perché Bergoglio non giudichi gli omosessuali, ma poi condanni l’arricchimento finanziario. E dietro il coro dei vescovi continua a muoversi inquieta la Chiesa al femminile, quelle 60 mila suore americane che da tempo hanno lasciato clausura e conventi per battersi sulle strade della violenza, fisica e sociale, contro le donne.
La testimonianza dell’incontro fra il primo Papa americano e un Presidente americano non poteva dunque non essere sconvolgente per chi la teme e per chi la ammira, accomunati nello stesso segno, dove paura e speranze convergono.
Nella certezza che, anche dietro le porte di Pietro, la storia sta cambiando e né i Palazzi Apostolici, né la Casa Bianca saranno mai più gli stessi, dopo questi due uomini.

La Stampa 28.3.14
Così Barack ricuce con i cattolici Usa
di Paolo Mastrolilli


«Con la sua visita, il presidente Obama ha fatto capire agli elettori cattolici che la Chiesa non è una sezione del Partito repubblicano». Per quanto diretta, questa battuta del giornalista Michael Sean Winters sintetizza bene almeno uno dei punti centrali dell’udienza di ieri da papa Francesco. È vero che il capo della Casa Bianca aveva ragioni etiche e spirituali per volere un incontro col Pontefice, ed è parso sinceramente colpito quando lo ha definito persona capace di ispirare gli uomini e «puntare i loro occhi verso i problemi del mondo». Si è persino schernito, rispondendo così a chi gli chiedeva se pensava di aver costruito un’alleanza con Francesco: «Sospetto che il Papa non abbia alcuna urgenza di stringere alleanze con qualunque politico. Lui si occupa di cose un po’ di più alte, mentre noi stiamo per terra a cercare soluzioni pratiche».
Queste soluzioni, però, passano anche attraverso il consenso elettorale, un piano su cui Obama ha avuto diversi problemi con la gerarchia cattolica. Pochi giorni fa il cardinale Burke in un’intervista definiva «anticristiane» le sue politiche, mentre l’arcivescovo Chaput aveva accusato l’università di Notre Dame di essersi prostituita, perché aveva invitato Barack a visitarla. Durante le presidenziali del 2012 una larga parte dell’episcopato non ha fatto mistero di essere contraria alla rielezione di Obama, e questi stessi sentimenti potrebbero avere un impatto negativo per i democratici sulle elezioni midterm di novembre. I cattolici sono divisi, grosso modo 45% repubblicani, 45% democratici e il resto incerti, e le loro fluttuazioni possono influenzare i risultati in Stati sempre decisivi come Ohio o Pennsylvania.
Al centro delle incomprensioni tra presidente e gerarchia ci sono i temi sociali, cioé aborto, contraccezione, matrimoni gay. L’incontro con Francesco, che in passato ha invitato la Chiesa a non parlare in maniera ossessiva solo di questo, serviva anche a mostrare che è possibile non essere d’accordo su tali punti, ma dialogare e collaborare su quelli condivisi, tipo la lotta alla povertà. «Ora – domanda Winters – alcuni vescovi diranno che il Papa si è prostituito perché ha ricevuto il presidente?». Obama ha detto che durante il colloquio i temi sociali non sono quasi emersi, mentre poi li hanno ricordati il segretario di Stato Parolin e il comunicato della Santa Sede. Il Vaticano ha sottolineato le divergenze, ma anche i punti di contatto, come l’immigrazione. Questa disponibilità al dialogo è già un successo, che aiuterà Obama tra i cattolici.

Corriere 28.3.14
Obama e Francesco, ritorno al futuro
di Mauro Magatti


È un segno dei tempi che, nel mezzo di una crisi molto severa, la principale democrazia occidentale — gli Stati Uniti d’America — e la più importante agenzia della religione cristiana — la Chiesa Cattolica — siano riuscite a esprimere due grandi leader come Obama e Francesco.
Non che si tratti di personalità prive di difetti. Non che possano sperare, da soli, di tirarci fuori dai guai. Ma entrambi si sono rivelati capaci di uno scatto: la loro forza sta nell’avere il coraggio di scommettere su un futuro capace di far rivivere la nostra memoria più autentica.
Non un’ideologia, non un generico ideale, ma, come direbbe R. Panikkar, un «mito»: qualcosa, cioè, di non perfettamente razionale, ma nemmeno di irrazionale, che da un lato ci colloca dentro una storia secolare e, dall’altro, è capace di motivare l’agire concreto di milioni di uomini facendo appello al desiderio, all’immaginazione, al senso morale.
Il «mito» a cui Obama e Francesco si richiamano è quello della dignità di ogni persona umana e dei doveri di reciproca obbligazione che da qui ne derivano. La crescita economica e lo sviluppo politico si legittimano — e dunque si sostengono — solo a condizione di cogliere il senso profondo dell’esperienza umana. Che ha a che fare con il lungo ma inesorabile percorso di emersione della libertà umana come espressione del riconoscimento del valore di ogni vita. In un quadro di uguaglianza e reciproco riconoscimento.
Obama e Francesco si ritrovano oggi su questo punto. Non in modo retorico. Ma per una necessità. Un’urgenza storica.
Ciò è possibile prima di tutto perché le loro biografie danno testimonianza di questo mito Occidentale. Entrambi hanno percorso l’intero cursus honorum nelle grandi istituzioni a cui appartengono; ma entrambi vengono dalla periferia di questi mondi con cui non hanno mai interrotto i contatti e di cui, soprattutto, non hanno mai perso né il calore né lo sguardo. In questo senso, entrambi incarnano l’idea di un Occidente aperto, dove la qualità umana delle persone e la loro dignità contano fino al punto da permettere di arrivare ai livelli più alti. Confermando così la tavola dei valori che ha alimentato il nostro modello di convivenza.
Sul piano interno, la convergenza tra Obama e Francesco si determina attorno ai temi della povertà, delle disuguaglianze e della redistribuzione del reddito. Temi accantonati dalla fine degli anni Settanta, quando la conclusione del ciclo storico iniziato nel dopoguerra poneva all’ordine del giorno questioni diverse. Quarant’anni dopo, però, tornare a parlare di questi temi è indispensabile per creare le condizioni stesse di una nuova stagione di crescita. Il buco nella domanda di cui oggi soffrono le economie avanzate è in buona misura un effetto di una distribuzione del reddito eccessivamente squilibrata. Dopo la grande espansione (1989-2008), occorre tornare a integrare economia e società, profitti e salari. Semplicemente perché ogni impresa, ogni territorio, ogni Paese è chiamato a navigare nel mare della globalizzazione con le proprie forze, e non più sospinto dal vento della deregulation e della finanziarizzazione.
Sul piano internazionale, i due si ritrovano attorno all’idea secondo cui il ruolo fondamentale che l’Occidente svolge nel mondo va affermato con la diplomazia. La forza dell’Occidente non sta nell’uso offensivo delle armi. Ma nella sua capacità di essere al servizio di una storia il cui senso profondo è il rispetto reciproco, la democrazia, la libertà personale, la comune umanità. Tutti ci ricordiamo l’importanza del richiamo di papa Francesco, qualche mese fa, quando si fu sul punto di intervenire militarmente in Siria.
Obama e Francesco sanno benissimo che persino dentro le loro constituency — l’opinione pubblica americana e la Chiesa cattolica — controversie e differenze di sensibilità erano e restano fortissime. Da questo punto di vista, si tratta di due leader «sospesi» che, in una realtà attraversata da mille convulsioni, continuano a sperare nel futuro e nella vitalità della cultura e dello spirito occidentale. Per questo si cercano e si parlano.
Obama arriva fino a tirare le conseguenze politiche di tutto ciò: la sua proposta è che il Transatlantic Trade and Investment Partnership costituisca l’asse portante della futura alleanza tra Usa e Europa. E qui si arriva al punto. Tra il Papa e il Presidente americano l’Europa è l’anello mancante. Forse anche per questo Obama incontra il Papa e spinge Renzi, il premier italiano. Perché nella sua visione del mondo c’è ancora spazio per un’alleanza strategica tra Usa e Europa. A condizione che l’Europa sia disposta a sciogliere le proprie incertezze e a giocare fino in fondo la partita della storia.

il Fatto 28.3.14
Gli F-35 non si toccano: Obama e Napolitano mettono in riga Renzi
Meno gas russo e più F-35 le richieste dell’amico Usa
“Alcuni Paesi Nato spendono poco per la difesa, scaricando il peso su di noi”
di Stefano Feltri


Abbracci, foto e slogan, il presidente americano Barack Obama era a Roma per il Papa, ma ne ha approfittato per chiarire alcuni punti molto concreti con l’Italia. L’interlocutore di Obama è soprattutto il capo dello Stato Giorgio Napolitano, con lui ha discusso negli ultimi sei anni e lo celebra pubblicamente come “un uomo di Stato forte, che aiuta il Paese in momenti così difficili”.
NEL 2011, OBAMA e Napolitano hanno discusso più volte della crisi europea, della scarsa affidabilità di Silvio Berlusconi e di interessi americani molto più prosaici, come sottrarre alla giustizia italiana gli agenti segreti Usa coinvolti nel rapimento dell’ex imam Abu Omar nel 2003. Resta in sospeso il caso del capocentro Cia di Milano Bob Lady, condannato, che ha chiesto la grazia di Napolitano.
Nei mesi più difficili della crisi dell’euro, tra 2011 e 2012, Obama si è appoggiato molto a Napolitano e al premier di allora Mario Monti, per fare pressioni su Angela Merkel: il presidente temeva per la propria rielezione alla Casa Bianca, visto che il troppo rigore e la crisi dell’euro potevano rallentare la ripresa degli Stati Uniti. Oggi Obama conferma quella linea: “I Paesi con surplus forti hanno spazio per fare di più per sostenere la domanda aggregata in Europa”. Messaggio alla Germania: devi spendere di più. E ancora: “Il dibattito tra crescita e austerità è sterile, più cresci più saranno in ordine le tue finanze”. Un commento che è una mezza vittoria diplomatica per il premier italiano. Obama sembrava però poco interessato a quello che lui può fare per Renzi – tipo confermare la partecipazione americana a Expo 2015 – mentre ha chiarito bene che cosa può fare l’Italia per gli Stati Uniti.
L’obiettivo più importante per gli Usa è l’accordo di libero scambio con l’Unione europea Ttip che si negozia in questi mesi: porterà benefici su entrambi i lati dell’Atlantico ma, quando ne saranno chiari i dettagli, emergeranno i costi politici (abbattere le barriere tariffarie crea posti di lavoro in alcuni settori e li distrugge in altri). Obama si assicura l’appoggio di Renzi che auspica la firma dell’accordo nel il semestre di presidenza italiana dell’Unione (ma è quasi impossibile). Nell’immediato le priorità sono altre due, tra loro legate: la spesa militare e l’Ucraina. “Noi abbiamo il primo esercito del mondo, non ci aspettiamo che tutti facciano lo stesso, ma c’e la Nato”, ha detto Obama. Gli Stati Uniti spendono circa il 4 per cento del Pil per la difesa, l’Italia l’1,7, l’Europa l’1 per cento, “un gap eccessivo”, ha detto il presidente, “visto che gran parte della spesa militare americana è concentrata in Europa”. In Italia questo monito si traduce così: non tagliate la spesa per l’acquisto dei caccia F35, prodotti dall’americana Lockheed Martin: l’Italia si era impegnata a comprarne 131, poi Monti ha portato la commessa a 90, spesa prevista: 15 miliardi in 15 anni. Il governo Renzi – con il ministro della Difesa Roberta Pinotti – aveva promesso di valutare un’ulteriore riduzione che, dopo le parole di Obama, sembrerebbe però un affronto agli Usa e alla Nato –. “Nel rispetto della collaborazione con i nostri partner verificheremo i nostri budget per evitare gli sprechi”, si limita a dire Renzi.
LE GUERRE si combattono con i bombardieri, ma si vincono con la geopolitica. E oggi la nuova guerra fredda con la Russia di Vladimir Putin si combatte sull’Ucraina su due fronti, quello finanziario e quello energetico. Il Fondo monetario ha avviato ieri un programma di prestiti per Kiev, 18 miliardi in due anni, “per condizionare Russia il modo migliore è assicurarsi che il governo Ucraino sia stabile”, dice Obama. Renzi sembra avallare la linea dura (gli Usa studiano l’ipotesi di esplorare il loro gas in Europa per ridurre la dipendenza da Putin) e assicura che “l’Italia può affrontare una crisi energetica”. Il premier deve anche nominare il nuovo capo dell’Eni, scegliendo se confermare Paolo Scaroni, in ottimi rapporti con Putin, o magari sostituirlo con Leonardo Maugeri, ex dirigente dell’azienda oggi negli Usa e consulente di Obama. “Ma di questo non si è parlato”, dicono da palazzo Chigi. Dei due marò in India dice qualcosa Renzi - ho chiesto di poter contare su un ulteriore appoggio degli Usa”. Obama non commenta.

Repubblica 28.3.14
Web veloce, nuova bocciatura Ue
I soldi che l’Italia destina alla banda larga sono insufficienti e manca una strategia nazionale unitaria
È l’accusa che Bruxelles indirizza ai piani del nostro ex governo. Ora la palla a Renzi
di Alessandra Longo



ROMA. È debole il piano dell’Italia per dare a tutti Internet super veloce con i miliardi in arrivo dall’Ue. L’accusa è firmata dalla stessa Commissione europea in un parere formale inviato al governo (Dipartimento Sviluppo e Coesione economica) sulla bozza di programmazione dei nuovi fondi strutturali Ue (2014-2020). Qui il precedente governo stanziava 3,6 miliardi per l’Agenda digitale, di cui 1,260 (metà nazionali e metà comunitari) per lo sviluppo della banda larga. Troppo poco e per di più senza una vera strategia nazionale, secondo la Commissione. La lettera contiene 351 rilievi al piano italiano:
un pasticcio che ora toccherà a Matteo Renzi sbrogliare. Da più parti il premier viene pressato per occuparsi del dossier Agenda digitale. Un appello firmato dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, assieme ai sindacati di categoria delle tlc, gli chiede di intervenire sulla banda larga, «da cui dipenderà la ripresa del Paese». Nel contempo, Marco Fossati, azionista Telecom con il 5%, sollecita al premier «una politica industriale per digitalizzare il Paese ».
Tutti d’accordo su un punto: i fondi pubblici in arrivo per l’Agenda digitale e i piani di copertura per la banda ultra larga degli operatori telefonici sono insufficienti a reggere il passo con gli altri Paesi europei. La lettera dei sindacati cita il “Rapporto Caio” (commissionato dal precedente governo) secondo il quale l’Italia corre il forte rischio di non rispettare gli obiettivi della Commissione europea: copertura del 100% della popolazione con almeno 30 Megabit e del 50% con 100 Megabit entro il 2020. L’Italia è agli ultimi posti in classifica (superata da Spagna, Portogallo, Est Europa) per vicinanza a questi obiettivi. Il rapporto indicava come soluzione l’avvio di un Pon, cioè un Programma operativo nazionale, con i futuri fondi europei e nazionali stanziati da qui al 2020. La lettera della Commissione europea denuncia l’assenza di una strategia univoca nazionale; per di più indica che i fondi previsti per la banda larga, nella bozza di programmazione, sono insufficienti a colmare le lacune territoriali. Invece che un Pon, la bozza prevede che siano le Regioni a utilizzarei prossimi fondi per banda larga e digitale, tramite i rispettivi piani. Così è stato fatto finora con i precedenti fondi europei 2007-2013. Quasi tutte le Regioni hanno fatto accordi con il ministero dello Sviluppo economico, che ha quindi gestito l’utilizzo dei loro fondi per sviluppare reti a banda larga tramite bandi di gara. Il dialogo tra le parti ha ritardato però l’avvio dei bandii: tanto che l’Italia mancherà anche quest’anno di coprire tutta la popolazione con la banda larga. Il nuovo governo dovrà decidere se rivedere la programmazione, stanziando più fondi e, in accordo con le Regioni, optare per una gestione centralizzata.

Corriere 28.3.14
Il successo di Le Pen e le colpe di Mitterrand
di Claudio Magris


La vittoria di Marine Le Pen è dovuta a molti fattori. Certamente alla sua intelligenza e alla sua abilità, alla sua capacità di avvertire ed esprimere i sentimenti e le rabbie della crisi, al suo lavoro di maquillage che ha reso almeno apparentemente presentabile il suo partito, emarginandone gli elementi più teppisticamente beceri e rifiutando, almeno a parole, il negazionismo nazistoide. È dovuta alla crisi generale dell’Europa, economica e politica, al diffuso risveglio del richiamo della foresta delle piccole patrie; all’inettitudine dei due maggiori partiti francesi.
Ma del suo successo bisogna ringraziare pure l’ombra augusta e vacua di Mitterrand. È anche e soprattutto grazie a lui che il Fronte Nazionale si è trasformato da movimento politico spregevole ma trascurabile a partito che può puntare — unberufen , si direbbe in yiddish , come non detto ossia tocchiamoci il naso — alla guida del Paese. A suo tempo Mitterrand ha contribuito intenzionalmente a dar fiato al Fronte Nazionale, anche giocando con leggi elettorali che hanno permesso l’entrata in Parlamento del Fronte, dandogli così visibilità. In tal modo l’elettorato di Destra si è diviso e si è indebolita dunque la Destra moderata e liberale al potere dopo De Gaulle, i cui successori, pur non certo all’altezza del Generale, erano uomini di provata fede democratica e, chi più chi meno, capaci di governare ben meglio degli ultimi presidenti. Mitterrand non voleva certo creare un forte e pericoloso partito di estrema destra, ma soltanto usare quelli che considerava degli improvvidi sbracati per portare al potere il partito socialista e se stesso. Come molti apprendisti stregoni, si è rivelato incapace di dominare quel gioco pericoloso e ora dobbiamo pure a lui, a suoi calcoli ambiziosi e troppo complessi per lui, il dissesto politico attuale della Francia, uno dei grandi cuori dell’Europa.
Mitterrand ha commesso l’errore di sopravvalutare la propria intelligenza, di credersi un De Gaulle, alla cui grandeur la sua altezzosità era impari. Molti lo hanno sovrastimato; anche molti intellettuali italiani socialisteggianti, che poco dopo avrebbero aderito con entusiasmo a Forza Italia e a Berlusconi, hanno tifato appassionatamente per lui durante le elezioni che lo hanno portato alla presidenza della Francia.
Può darsi che la sopravvalutazione della propria intelligenza e della propria furbizia politica sia una caratteristica diffusa della Sinistra, una prova della sua ingenuità e della sua miopia. Non certo della classica cultura marxista — ispirata a quel Marx che Croce stimava quale Machiavelli della classe operaia — né della Sinistra liberale e democratica ora scomparsa — come quella del vecchio Partito repubblicano — ma della vaga sinistra loquace e ondeggiante che ne ha preso ingloriosamente il posto.
Troppi politici italiani si sono creduti più intelligenti di Berlusconi, magari solo perché avevano letto qualche libro di più e non dicevano come lui «Romolo e Remolo», mentre in realtà era Berlusconi a essere politicamente molto più intelligente e astuto di loro — purtroppo, a mio avviso, dato che lo considero un male per l’Italia. Sottovalutare un male, scherzare col fuoco presumendosi sicuri di spegnerlo quando si vuole, è un modo di aiutare il male, di trasformare un fuocherello in un incendio.

il Fatto 28.3.14
Cina, Russia e States: la sfida al casinò Italia
La Banca centrale di Pechino sale nel capitale di eni ed Enel
Mosca punta a Pirelli. I Fondi Usa più influenti nelle banche
di Camilla Conti


Forse, alla fine del 2014, sapremo se ne sarà valsa la pena, e magari i contribuenti onesti accetteranno l'occhio del fisco che scandaglia tutto, dai conti correnti alle spese. Una mole di dati che certificheranno i nostri comportamenti: come e quanto spendiamo, che cosa acquistiamo, dove andiamo in vacanza e quanto investiamo. Da due mesi, gli strumenti stanno entrando in azione: più informazioni su conti correnti e movimenti bancari da gennaio; il redditometro operativo in questi giorni; e le scadenze del nuovo spesometro ad aprile. Tutto per la lotta all'evasione: strumenti che i giornali di centrodestra imputano a Mario Monti, ma in realtà varati a suo tempo da Giulio Tremonti. La loro efficacia è tutta da dimostrare. Per l'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, “sono misure che non servono: si è scelto di seguire vie lunghe e dispendiose che non portano a nulla”. “Creano solo fastidio, è sono un aggravio per chi le tasse le paga già”, spiegano i commercialisti. Le banche dati dovranno comunicare tra loro, e non è detto che si riesca a farlo in tempi brevi. Chi paga in nero, poi, elude gli obblighi e continuerà a evadere. Ecco un piccolo bestiario dei controlli fiscali.
LE SPESE
Voluto da Tremonti nel 2010 e modificato dal governo Monti, lo speso-metro vale per tutte le operazioni rilevanti ai fini Iva. Esiste dal 2012, e la soglia è fissata a 3600 euro. Imprese, commercianti e operatori finanziari dovranno dichiarare all'Agenzia delle entrate le fatture che superano la soglia. Le scadenze, per quest'anno, sono alle porte. Le attività d'impresa, professionali e lavoro autonomo entro il 22 aprile (il 10 per chi scarica l'Iva ogni mese); gli operatori attraverso i quali transitano i pagamenti con bancomat e carte di credito, entro il 30. I controlli scatteranno su tutte le spese, dal dentista all’auto, dai mobili ai gioielli e alle vacanze, fino agli elettrodomestici. Al fisco non sfuggirà più nulla, e per chi non adempie le multe variano da 258 a 2.065 euro. E questo solo per gli acquisti dai privati. Tutte le altre operazioni fatturate, infatti, vanno già comunicate al fisco a prescindere dall'importo: è il vecchio “elenco fornitori-clienti” voluto da Visco. Poco dopo la caduta di Prodi Tremonti si affrettò a cancellarlo, salvo poi reintrodurlo in parte due anni dopo. Per tutti, vale poi la soglia dei mille euro contanti, oltre il quale scatta la tracciabilità dei pagamenti.
I REDDITI
Dopo due anni di proroghe e modifiche, nei prossimi giorni l’Agenzia delle entrate invierà circa 20mila lettere ad altrettanti contribuenti considerati a “rischio evasione fiscale”. Funziona così: se c’è uno scostamento superiore al 20 per cento tra reddito dichiarato e spese sostenute scatta l’allarme e si viene convocati a giustificare l’anomalia. In realtà l’Agenzia avrebbe dovuto già farlo, ma la paura di aver commesso erori nella lettura dei dati ha rallentato tutto. Il motivo è semplice: in caso di errore, una procedura già molto invasiva, rischia di trasformarsi in un gigantesco danno di immagine. Un boomerang che la struttura guidata da Attilio Befera vuole evitare a tutti i costi. In origine le lettere dovevano essere 35mila, ma l’invio era stato bloccato per un intervento del Garante della privacy: così com’era, il redditometro conteneva troppi elementi che avrebbero messo a rischio la sicurezza dei dati personali dei contribuenti. Gli uomini di Befera hanno accolto i rilievi e così molti casi “limite”, sono scomparsi.
I CONTI CORRENTI
Per essere controllati, non c’è comunque bisogno di fare nulla. Il fisco già scandaglia i conti correnti. Banche, intermediari e poste devono comunicare i movimenti dei clienti. C’è tutto: le posizioni aperte e quelle già esistenti, gli scostamenti rilevanti e i saldi a chiusura. Non ci sono solo i conti correnti, ma anche depositi, titoli e obbligazioni detenute. Verranno attenzionati anche il numero di accessi alle cassette di sicurezza, e l’utilizzo delle carte di credito.
Basterà tutto questo? “Sono strumenti molto limitati, se ci si accorda prima si evade lo stesso. Molti evasori non comunicano niente all’Agenzia”, spiega Stefano Balestrieri, dell’osservatorio fiscale di Eurispes. Oltre a sapere tutto di noi, il fisco dovrà sapere anche che farsene. La lotta all’evasione fiscale (stimata in 180 miliardi) rimane sulla carta, fuori dall’agenda politica. Sono passati solo due anni dalla promessa di destinarne i proventi al calo della pressione fiscale effettiva (che grazie al “nero” è molto più alta di quella ufficiale). Non se n’è fatto nulla. Il fondo, pensato nel 2011 per far digerire le pesanti misure fiscali di Tremonti, doveva partire nel 2013. Ma poi nel Def, si scoprì che i 4,5 miliardi disponibili (sui 12,5 recuperati nel 2012) in realtà non c’erano. Poi ci ha provato Letta con la legge di Stabilità 2014: il fondo partirà quest’anno. Ma intanto è stato cancellato quello destinato al taglio dell’Irap (250 milioni). Non proprio un segnale incoraggiante

Il Sole 28.3.14
La svolta strategica voluta da Pechino
Il governo ha mandato in campo la People's Bank of China invece del fondo sovrano
di Rita Fatiguso


PECHINO. Mai successo. In Cina strabuzzano gli occhi alla notizia, trapelata nottetempo, che appena una settimana fa Zhou Xiaochuan, governatore della People's Bank of China, ormai l'uomo più potente del Paese dopo il presidente Xi Jinping, ha aperto i cordoni della borsa comprando di tasca sua oltre il 2,102% e il 2,071% del capitale, rispettivamente, di Eni ed Enel.
La stentorea dichiarazione Consob sulle partecipazioni rilevanti apre uno squarcio sulla strategia di acquisizioni di asset stranieri da parte di Pechino. Impensabile che Zhou in persona potesse fare shopping di partecipazioni strategiche estere, peraltro da tempo in predicato di essere valutate e comprate da cinesi. Ma si pensava a China investment corporation (Cic), il Fondo sovrano nato nel 2005, presidente Lou Jiwei, attuale ministro delle Finanze (per le acquisizioni interne, invece, c'è Central Huijing). La Banca centrale, insomma, non è esattamente una struttura dedicata a comprare asset esteri di natura industriale.
Se Pechino ha messo in cima al Go global delle aziende cinesi energia e commodities, allora la doppietta su Eni ed Enel costituisce il classico buon esempio. Ma People's Bank non è Cic e nemmeno l'americana BlackRock.
In realtà la mossa sembra dettata da una congiuntura che solo in parte si spiega con gli investimenti cinesi in Europa, anzi in Italia, sempre sul punto di realizzarsi, ma mai, finora, andati in porto. Da mesi erano in ballo trattative tra Cic e Cassa depositi per la strategica acquisizione di una quota necessaria a portare avanti gli investimenti cinesi in Italia, come Cic ha fatto per l'acquedotto o l'aeroporto di Londra oppure State Grid per la rete elettrica in Portogallo oppure Cosco shipping per il Porto di Smirne in Grecia.
Niente di tutto ciò. People's Bank of China ha mosso le pedine per motivi conservativi, ha voluto investire le proprie riserve in asset strategici e soprattutto sicuri, proprio in un momento in cui i capricci dell'alleato russo Vladimir Putin rischiano di spiazzarla, affamata com'è di energia e di materie prime, proprio sullo scacchiere europeo.
Perfino gli addetti ai lavori in Cina sono rimasti colpiti da questo blitz emerso solo a causa degli obblighi di legge nei confronti di Consob. Una mossa che mai è stata realizzata in aziende del calibro di Eni ed Enel, ovvero il top degli asset italiani e non dimentichiamo le prospettive di Eni in Cina e in Asia centrale.
«Siete sicuri di aver letto bene?», ci chiede Eric Ding, corporate vice president e president for oversease headquarter di Dagong, seconda agenzia di rating cinese con esperienza consolidata nella valutazione di asset finalizzati a operazioni di M&A. Non mi risulta che People's Bank abbia fatto mai un simile passo». Cadono dalle nuvole anche a Icbc, ad alti livelli a Pechino è ancor sotto choc. «Sembra che un marziano sia sbarcato sulla luna», commenta un dirigente che chiede di rimanere anonimo.
Cic è stata surclassata completamente. Rimanendo a bocca asciutta. Ma anche in Italia Banca d'Italia ha il suo fondo interno, cento miliardi investiti in asset necessari a mantenere il valore del patrimonio. A difendersi dagli sbalzi del cambio e dalle turbolenze dell'economia globale. Quasi lusinga che il governatore investa direttamente negli asset di un altro Paese. Il nostro. Senza nemmeno stendere un tappeto rosso, l'Italia si ritrova a difendere la Cina, e la Cina a dribblare l'incetta di rischiosissimi bond del Tesoro Usa. Quest'anno, Zhou l'ha promesso, diminuiranno sensibilmente.

il Sole 28.3.14
La scelta del gigante
Meno dollari, più Europa
di Alessandro Plateroti


Gli acquisti cinesi di azioni e titoli di Stato europei - come è il caso di Eni ed Enel da parte della People's Bank of China, la banca centrale di Pechino - è una novità per Piazza Affari.
Finora sono stati soprattutto i fondi sovrani arabi, asiatici, russi e norvegesi a fare shopping di aziende e di quote nella Borsa milanese, ma mai prima d'ora un colosso finanziario di Pechino e soprattutto la Banca centrale della repubblica popolare. Forse anche per questo, la notizia degli investimenti di portafoglio effettuati nelle due più importanti aziende italiane di Stato nel settore dell'energia e del petrolio hanno dominato la scena della giornata finanziaria: dopo il boom degli investimenti su banche e aziende italiane effettuati in Borsa negli ultimi mesi dai colossi americani dell'asset management, il debutto della Pboc a Piazza Affari ha confermato non solo l'attrattività delle valutazioni (e speriamo delle prospettive) dei nostri campioni nazionali, ma anche la consistenza e gli effetti del riposizionamento finanziario globale deciso dal governo cinese in tema di asset stranieri e di riserve valutarie estere.
I timori crescenti sulla stabilità finanziaria cinese per gli squilbri creati dall'eccesso di investimenti esteri e soprattutto dall'esplosione delle riserve valutarie, ha spinto infatti la Banca centrale - cioè la Pboc - ad annunciare alla fine dell'anno scorso un taglio secco agli acquisti di Titoli di Stato americani, di cui la Cina è da sempre il primo acquirente. Ebbene, il congelamento dello stock di debito americano, il cui obiettivo di fondo l'apprezzamento dello yuan sul dollaro, ha avuto come effetto collaterale proprio l'aumento degli investimenti di portafoglio in altre zone del mondo e soprattutto in Europa: e quando si dispone di riserve valutarie per quasi 4.000 miliardi di dollari, anche un piccolo cambio di allocazione nel portafoglio può avere effetti non trascurabili su certi mercati. È il caso dell'Italia? L'acquisto di azioni Enel ed Eni è incoraggiante, segnala fiducia sul Paese e sul mercato, ma si tratta comunque di un piccolo passo in attesa di altre conferme: gli investimenti di portafoglio della Pboc in altri mercati europei - e soprattutto in Germania e Inghilterra, mercati finanziari di riferimento nella Ue per Pechino - hanno ben altra consistenza rispetto a quelli emersi ora a Piazza Affari. Anche se è difficile trovare cifre certe sugli investimenti di portafoglio della Cina per la frammentarietà delle rilevazioni, il Fondo monetario ritiene che Stati Uniti, Giappone, Corea, Canada e Australia siano i principali mercati borsistici mondiali di riferimento per Pechino, mentre in Europa sono Berlino, Londra e Zurigo a dominare la scena. Le rilevazioni del database Currency composition of official foreign exchange reserves dell'Fmi forniscono questa fotografia: gli asset stranieri in portafoglio cinese (azioni, bond e titoli di Stato) ammontavano l'anno scorso a 3.300 miliardi di dollari e di questi 2.100 investiti in Asia e in Usa. Circa 900 miliardi di dollari rappresentano invece la consistenza degli investimenti finanziari allocati in Europa, di cui oltre 100 miliardi in Germania e si stima 150 miliardi in Inghilterra. Il resto è frammentato tra un'altra ventina di Paesi, in larga misura tramite acquisti di titoli di Stato dell'Europa centrale e settentrionale. Le indagini finora effettuate dai centri di ricerca evidenziano che la maggioranza degli investimenti si è concentrata sui titoli di Stato con i rating più elevati - Germania, Francia e Paesi Scandinavi - e sulle azioni di società quotate nei settori più importanti per Pechino, banche, società energetiche, perolifere e infrastrutturali. La Banca centrale cinese è anche un grande acquirente di bond emessi dall'Esm, il fondo europeo di stabilizzazione finanziaria che ha emesso titoli per circa 10 miliardi, e dall'Efsf, pari a circa 300 miliardi).
Proprio gli acquisti di bond salva-stati emessi dalle nuove istituzioni europee a partire dal 2012 per arginare la crisi del debito in Portogallo, Grecia, Spagna e Italia sembrano aver rappresentato il punto di svolta delle relazioni finanziarie tra Europa e Cina: fornendo sostegno all'Eurozona in una fase di grande crisi, Pechino ha potuto accreditarsi da un lato come un partner affidabile e importante, ma dall'altro ha potuto accrescere gli investimenti sulle Borse europee senza destare allarme o preoccupazioni geopolitiche. Comunque sia, un dato è certo: l'aumento della presenza cinese nei mercati finanziari mondiali rappresenta un salto di qualità in una strategia di espansione che ha visto finora protagonisti prevalentemente i grandi gruppi industriali cinesi, in misura minore le banche. Banche che hanno comunque fatto da ponte - con prestiti generosi ai governi e alle aziende di Stato in America Latina e in Africa - all'avanzata del Dragone in settori chiave come il petrolio, l'energia, le infrastrutture ma anche nell'industria manifatturiera. Il denaro, anche quello cinese, va sempre dove trova le migliori condizioni: l'Italia, con le riforme, potrebbe certamente beneficiare di maggiore fiducia. In Borsa e sui Titoli
di Stato.

Repubblica 28.3.14
Putin e le leggi di gravità
di Thomas L. Friedman



IL mattino dopo un grande evento è quando gli stolti si affannano a dichiarare che la vittoria o la sconfitta di qualcuno in una singola battaglia «ha cambiato tutto per sempre». Il mattino dopo il mattino dopo, le leggi della gravità cominciano ad agire e le cose spesso non sembrano più così belle o così brutte come pensavamo. E questo mi porta all’annessione della Crimea da parte di Putin.
Il mattino dopo, Putin era l’eroe della Russia. Ma diamo un’occhiata a come starà Putin il mattino dopo il mattino dopo. Putin sta sfidando tre delle forze più potenti del pianeta tutte nello stesso momento: la natura umana, Madre Natura e la legge di Moore. Auguri.
La confisca della Crimea mette sicuramente in evidenza la perdurante importanza della geografia nella geopolitica. Il recente dramma ucraino non è cominciato con la geografia, con una potenza esterna che voleva violare i confini russi. È cominciato con gente che stava nell’orbita della Russia e voleva uscirne: un numero consistente di ucraini voleva legare il proprio futuro economico all’Unione Europea invece che alla potëmkiniana unione eurasiatica di Putin. Non è la storia di un'«invasione». È la storia di un «esodo».
Ma Putin fa affidamento anche sul fatto che il mondo non faccia niente per Madre Natura, e che Madre Natura accetti questo immobilismo di buon grado. Circa il 70 per cento delle esportazioni russe è costituito da petrolio e gas naturale, e questi due prodotti rappresentano metà di tutte le entrate dello Stato. In pratica Putin ha puntato tutto il presente e il futuro economico del suo Paese sugli idrocarburi, in un periodo in cui l’economista capo dell’Agenzia internazionale per l’energia ha dichiarato che «circa due terzi di tutte le riserve comprovate di petrolio, gas naturale e carbone dovranno rimanere dove sono se il mondo vuole raggiungere l’obbiettivo di limitare il riscaldamento globale a 2°C» rispetto all’epoca della Rivoluzione Industriale. Superare la soglia dei 2°C, secondo i climatologi, vorrebbe dire accrescere enormemente le probabilità di uno scioglimento dei ghiacci artici e di cambiamenti climatici ingestibili.
L’ex ministro del petrolio dell’Arabia Saudita, lo sceicco Ahmad Zaki Yamani, una volta lanciò ai suoi colleghi dell’Opec un ammonimento che Putin farebbe bene a tenere a mente: «L’Età della Pietra non è finita perché avevamo finito le pietre». È finita perché avevamo inventato gli utensili in bronzo, che erano più produttivi. L’età degli idrocarburi dovrà finire con un mucchio di petrolio, carbone e gas naturale ancora sottoterra, rimpiazzati da forme di generazione dell’energia più pulite: altrimenti a noi ci penserà Madre Natura. Putin scommette sullo scenario opposto.
Come si dice legge di Moore in russo? È il teorema formulato da Gordon Moore (uno dei fondatori della Intel) secondo cui il potere di calcolo dei microchip raddoppia più o meno ogni due anni. Chiunque segua da vicino l’evoluzione dell’industria dell’energia solare potrà dirvi che in questo periodo nel settore è all’opera qualcosa di simile alla legge di Moore. Anche l’energia eolica sta seguendo una traiettoria simile, e lo stesso dicasi per l’efficienza energetica. La Cina da sola punta ad arrivare entro il 2020 al 15 per cento della produzione elettrica: non può fare altrimenti, se vuole che i suoi cittadini non finiscano soffocati dallo smog.
Se l’America e l’Europa dovessero decidere di spingere anche solo un po’ di più l’acceleratore sulle rinnovabili, per ridurre gli introiti petroliferi di Putin, i dividendi potrebbero arrivare prima e più consistenti di quello che si crede.
La legittimità dei leader cinesi oggi dipende anche dalla loro capacità di rendere più verde il sistema energetico nazionale, per allentare la morsa dell’inquinamento. La legittimità di Putin dipende dalla capacità di conservare la dipendenza del pianeta da petrolio e gas. Voi su chi scommettereste?
Prima di rincoronare Putin Persona dell’Anno, quindi, aspettiamo di vedere come se la cava il mattino dopo il mattino dopo.

Repubblica 28.3.14
Moisés Naìm
“Il socialismo del petrolio è ormai alla bancarotta”
intervista di Omero Ciai


«TEMO che la situazione non farà altro che peggiorare. In Venezuela la carenza dei prodotti di base si aggraverà nei prossimi mesi. Una carestia da zona di guerra che non ha precedenti in America Latina ». Giornalista, scrittore, ex direttore di Foreign Policy, Moisés Naím è cresciuto in Venezuela e oggi da Washington, dove vive, segue con attenzione e passione gli avvenimenti.
Un contesto incredibile per un Paese grande esportatore di petrolio?
«In quindici anni di regime Chávez ha devastato la capacità produttiva del Paese, ha regalato a prezzi calmierati il greggio (a Cuba, al Centroamerica, alla Cina, persino all’ex sindaco di Londra) e ne ha utilizzato a piene mani i profitti per guadagnarsi il consenso popolare. Oggi tutti pagano le conseguenze di questa politica dissennata. La combinazione fra la disoccupazione provocata dalle aziende che si fermano per l’assenza di materie prime, l’inflazione — 56% nel 2013 — , e la carestia, rischiano di generare una situazione esplosiva, alla quale il presidente Maduro risponde solo con la repressione. Ma è il modello del cosiddetto “socialismo del XXI secolo” ad essere finito in bancarotta e l’attuale governo del Paese non ha risposte. La repressione e l’uso indiscriminato della violenza da parte della polizia e dell’esercito aumenterà».
Le proteste di queste settimane hanno comunque messo in evidenza ancora una volta un Paese spaccato in due metà che si contrappongono. Come nelle ultime presidenziali quando la differenza fra le due opzioni fu minima. Studenti e opposizione politica non riescono a coinvolgere quei poveri e poverissimi che sono stati dall’inizio il serbatoio elettorale del chavismo?
«Credo che anche questo stia cambiando. La crisi colpisce tutti e sicuramente
in maniera più forte i più poveri. Mancano la farina, il latte. Chiunque va nei supermercati, anche quelli sussidiati dallo Stato, a fare la spesa deve fare lunghe code, anche di ore, per non trovare alla fine quello di cui ha bisogno. Maduro sta perdendo appoggio, lo dicono i sondaggi dove la sua impopolarità cresce. Ma in ogni caso bisogna tenere conto del grande controllo sociale che ha esercitato il governo grazie ai fondi del petrolio. Per una famiglia povera perdere l’aiuto statale è un pericolo enorme, vuol dire semplicemente fame. Nei quartieri popolari ci sono i Cdr, i comitati di difesa della rivoluzione, come a Cuba: se ti segnalano come traditore sei finito. E lo stesso vale per gli impiegati governativi. Se non partecipi alle marce del chavismo con la camicetta rossa perdi il posto di lavoro. Difficile essere liberi di giudicare e votare in queste condizioni».
Qual è il ruolo di Cuba in questa vicenda?
«Hanno trasmesso al governo chavista una tecnologia del consenso molto sofisticata perché il Venezuela per i fratelli Castro è strategica, un interesse vitale per il petrolio. Se perde l’appoggio del Venezuela e i 100mila barili di greggio a basso costo che vanno a L’Avana ogni giorno, il regime cubano si troverebbe in gravi difficoltà proprio adesso che, per conservare il potere, sta lentamente avanzando nella riforma del suo modello economico».
E l’esercito, come si schierano le Forze armate in questo processo?
«Chávez era un militare, era cresciuto nell’esercito, e negli anni del suo potere da caudillo assoluto ha selezionato una casta di leader dentro le Forze armate fedeli alla rivoluzione. Una casta con grandi privilegi che appoggiano il potere politico per conservarli. Solo i fedelissimi comandano guarnigioni e truppe». ( o. c.)

l’Unità 28.3.14
Populismo Über Alles
Il filosofo Nicolao Merker ne fa la storia a partire dalla Germania
Tutto nasce in terra teutonica e lì ritorna
«Oggi i tedeschi lo praticano come i guardiani dell’Europa all’insegna del rigore monetario: da primi della classe», dice lo studioso
di Bruno Gravagnuolo


«SI, TECNO-POPULISMO È LA DEFINIZIONE GIUSTA. OGGI I TEDESCHI LO PRATICANO COME GUARDIANI DELL’EUROPA ALL’INSEGNA DEL RIGORE MONETARIO: DA PRIMI DELLA CLASSE». Dunque tutto nasce dalla Germania e lì ritorna, secondo Nicolao Merker, professore emerito di filosofia moderna a Roma, allievo di Galvano della Volpe. E autore di studi fondamentali, sull’Illuminismo tedesco, e sulle Origini della logica hegeliana. Merker nel 2009 ha scritto per Laterza Filosofie del populismo, e per Carocci nel 2013 Il nazionalsocialismo. Storia di un’ideologia. Oggi sta lavorando su nazionalismi e Grande guerra. Dunque è lo studioso giusto per spiegarci il populismo tra passato e presente. Oltretutto, nato a Trento nel 1931 vive tra Roma e Innsbruck e conosce bene l’universo emotivo germanico.
Professor Merker, il populismo nasce a sinistra nell’800, in Russia e in America. Poi emigra a destra dal ‘900 a oggi. Come mai?
«È una creatura che acquista strani connotati nel tempo. Il People’s Party americano del 1899-90 rifiutava la rappresentanza parlamentare ed era basato sulle comunità rurali. Era avverso al ceto politico, “criminale”. Agli intellettuali e agli immigrati, ma restava una costola del Partito democratico. Il populismo russo invece, basato sull’alleanza di intellettuali e contadini, va inquadrato nella lotta all’assolutismo zarista, e appartiene alla storia del socialismo »
Il trapianto in Europa è una vera mutazione reazionaria. Ma a partire dalla lotta a morte contro il 1789. È così?
«In Europa, il segno cambia, malgrado certe analogie. In gioco c’è l’antica avversione contro la Rivoluzione francese e tutto ciò che ne deriva: dalla rappresentanza, all’eguaglianza, ai diritti dell’uomo. È sul continente che nasce l’idea del popolo come comunità mistica e indivisa.E la differenza con Russia e America, sta nel connubio tra mistica del popolo e “gerarchia”. Di qui viene pure l’idea del condottiero che sorge dal popolo e che ne riassume identità e flussi di energia. Il riconoscimento di massa del capo è esattamente questo».
In fondo è una forma di tribalismo moderno...
«Certo, c’è uno specimen tribale. E fin da autori raffinati come Edmund Burke, avverso al 1789 e assertore di tradizione, continuità, religione. Come valori che tessono la continuità della nazione attraverso le generazioni. Una trama che l’illuminismo “astratto” lacera. Anche il savoiardo De Maistre, ha un modo affine di ragionare, ancorché diverso. Il popolo è popolo di Dio e i sovversivi lo distolgono dalla sua destinazione divina. Rifiutando il mistero e l’Autorità».
La Germania però è centrale. Non è lì che si celebra il tripudio del popolo offeso e «unico», dai romantici al nazismo?
«La Germania è emblematica e “originaria”. Fichte incita alla guerra contro Napoleone. Lui e altri intellettuali affermano: se i tedeschi vogliono liberarsi dalla Francia, debbono fondarsi sull’opposto della Francia. Non sui diritti cosmopolitici, bensì sulla stirpe, sullo Stamm,: il ceppo etnico. Ecco l’ideologia völkish, etno-populista. Persino i liberali tedeschi, nel 1848 a Francoforte, misero all’ordine del giorno la cacciata dei polacchi, tanto per intendersi. Il punto è sempre quello, dagli Schlegel, a Novalis, a Fichte, ad Adam Mueller: la Germania deve basarsi sulla comunità di stirpe per essere uno stato-nazione».
Ieri come oggi, non c’è in tutto questo il senso dell’angoscia e dell’identità minacciata? «Nella nazione concepita in tal modo, l’angoscia è innegabile. È legata a risentimento e insicurezza. Quando uno stato-nazione diventa tale in ritardo, esplodono la gara contro gli altri, la paura di restare schiacciati. Il che è evidente nella Germania, divisa in centinaia di stati dopo il 1648, invasa dai francesi, poi travolta dalla catastrofe della prima guerra. Su questo si innesta la spinta salvifica populista con la ricerca di un capo che indichi un destino ai tedeschi, tra primato biologico della razza e narcisismo idealistico di onnipotenza. Gli attori politici del populismo odierno, nelle varie forme, ripercorrono inconsapevolmente queste movenze, magari in forme iper-democratiche e anticapitaliste. Ma è storia nota. Basti pensare al primo nazismo e al primo fascismo ».
Veniamo al linguaggio. Che tipo di retorica contraddistingue i populismi, ieri e oggi? «L’antecedente esemplare è nel MEIN KAMPF DI HITLER. SI PRESCRIVEVA UN LINGUAGGIO FATTO DI POCHE FORMULE STEREOTIPE, DA RIPETERE IN MODO MARTELLANTE. FINO A FARLE DIVENTARE VERITÀ, COMEDISSE GOEBBELS. E L’ESALTAZIONE DELL’ISTINTO E DELL’INTUIZIONE. CONTRO IL RAGIONAMENTO. COSE GIÀ TEORIZZATE DA GUSTAVE LE BON, PSICOLOGO DELLE FOLLE AMATO DA MUSSOLINI E HITLER. INFINE, LA STIMOLAZIONE DELLA VIOLENZA E DELL’ECCITAZIONE. NELL’OTTICA DELL’AMICO/NEMICO. LORO E NOI...».
Ma questa non è una specialità di Carl Schmitt, giurista decisionista di quegli anni?
«C’è molto in comune con Schmitt, che teorizza lo stato razziale-etico: identità etnica dentro la contrapposizione col nemico etnico. E che rintraccia la coppia amico/nemico fin dentro le relazioni tra gli individui. Nondimeno il processo mondiale va in tutt’altro senso, come vide Kant nel suo PROGETTO DI PACE PERPETUA DEL 1794. DICEVA: LA TERRA È TONDA. PER QUESTO TUTTI DISTANO IN EGUAL MODO DAL CENTRO E SONO DESTINATI AD INCONTRARSI. È L’IDEA DELLA GLOBALIZZAZIONE DEMOCRATICA. DOVE LE DIFFERENZE ARRICCHISCONO L’UNIVERSALE. SENZA CHIUSURE E FOBIE». C’è anche un risvolto fobico del cosmopolitismo, che evoca nazionalismi e populismi. Come oggi in Europa. Non le pare?
«Senza dubbio, perciò la storia del populismo è cruciale. L’Europa è nata come un legno storto. Come unione daziaria e monetaria e non politica. E con la presunzione dei tedeschi di fare da guardiani. L’inglobamento economico della Germania est, colonizzata e annessa, dimostra l’errore iniziale di questa Europa».
Sta dicendo per caso che i virtuosi tedeschi dell’Ovest si sono comportati e si comportano da tecno- populisti egemoni, da populisti virtuosi?
«Sono dei tecno-populisti, che si affidano alla dittatura dell’economia e praticano una sorta di primato, anche geopolitico. Nel segno di una sordità e di un’arroganza non confessate. L’ombra di Frau Merkel, brava capo famiglia e guardiana dei conti, ha cancellato sensibilità cosmopolitiche, come quelle di Willy Brandt. Ma in Germania esistono anche degli antidoti. Penso alle possibilità della Spd nella Grosse Koalition. E all’ultimo libro di Martin Schultz, socialdemocratico candidato alla presidenza della Commissione europea. Propone un Europa democratica ed eletta dai cittadini europei. Europa federale, che mutualizzi il debito, investa in infrastrutture e allarghi il mercato interno. Senza l’ossessione dell’inflazione. Insomma, gli Stati Uniti d’Europa. Almeno come ideale regolativo».

Repubblica 28.3.14
I paletti della Costituzione
La libertà di decidere sulla vita
di Stefano Rodotà



BENVENUTA la lettera con la quale il Presidente della Repubblica ha sollecitato l’interesse del Parlamento per le questioni riguardanti la fine della vita. Non sarà facile. Ma la ragione non sta nell’esistenza di un completo “vuoto normativo”. Al contrario, esiste già un insieme di principi e regole che definiscono il quadro giuridico da tener presente, sì che il vero rischio oggi può essere quello di usare una nuova legge per restringere diritti già riconosciuti.
”Morire con dignità”, “morire bene”, “diritti dei morenti”, sono alcune tra le tante espressioni con le quali da anni si descrive non solo la condizione delle persone alla fine della vita, ma più in generale il rapporto che ogni persona deve poter stabilire con il tempo estremo della sua esistenza. Infatti, se la morte appartiene alla natura, il morire appartiene alla sua vita, è divenuto sempre più governabile e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio seguendo gli itinerari del diritto, è agevole accorgersi di questo radicale mutamento di prospettiva, con l’attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell’interessato. La rivendicazione del diritto di morire diviene così parte del più complesso movimento di riappropriazione del corpo.
Tutto questo ha chiari e forti riferimenti nella Costituzione. Nell’articolo 32, dove la salute è definita diritto «fondamentale», si afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»: questo intervento, tuttavia, è ammissibile solo nei casi in cui vi sia una ragione sociale rilevante. Non a caso quell’articolo si conclude con parole molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In nessun’altra costituzione si trova una norma così impegnativa. Si individua così un’area dell’”indecidibile”, preclusa a qualsiasi intervento legislativo e che viene identificata riferendosi al rispetto assoluto della dignità e della persona nella sua integralità.
Quest’area, sottratta alla competenza parlamentare, è quindi attribuita alla libertà di scelta della persona. Un passaggio essenziale, chiarito in modo inequivocabile dalla sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Questa linea costituzionale ha trovato ripetute conferme in importanti sentenze dei giudici ordinari e nelle iniziative di un centinaio di comuni che hanno istituito registri dei testamenti biologici. Che non hanno un semplice valore simbolico, perché consentono di accertare l’effettiva volontà di una persona, superando una delle polemiche che accompagnarono la vicenda di Eluana Englaro. E da questo quadro di principi bisogna partire, lasciandosi alle spalle le polemiche che, nella scorsa legislatura, furono determinate dai tentativi di risolvere con norme proibizioniste una questione tanto impegnativa.
Nella discussione, che si snoda ormai nel corso dei decenni e non in Italia soltanto, compaiono due espressioni - accanimento terapeutico e rifiuto delle cure - che costituiscono punti fermi per quanto riguarda i doveri del medico e i diritti della persona. Ma questi non sono due mondi separati, anzi i veri problemi da risolvere sono proprio quelli che riguardano i medici e le loro responsabilità, anche se queste sono state escluse sia dalla magistratura che dall’ordine dei medici nei casi Welby e Englaro. Permane comunque una incertezza, che deve essere eliminata.
Su questi temi ha lavorato a lungo un gruppo di giuristi, medici e studiosi di bioetica, intelligentemente coordinati da professor Paolo Zatti, che ha elaborato una dettagliata proposta di legge, presentata al Senato da Luigi Manconi e che può costituire il riferimento per una discussione parlamentare finalmente liberata da ogni pretesa fondamentalista. Su questo testo varrà la pena di tornare quando sarà avviata la discussione parlamentare. Ma fin d’ora si può ricordare che esso muove dall’ormai incontestabile diritto all’intangibilità del corpo, ribadito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui si esprime al più alto grado il rispetto della dignità umana.
L’abbandono di ogni pretesa di invadere lo spazio della persona, che la Costituzione vuole tenere al riparo dagli interventi del legislatore, non risponde soltanto all’esigenza di affrontare in modo più adeguato, e liberato da ambiguità paternalistiche e pietistiche, la condizione reale di molte migliaia di sofferenti. Chiarisce come il diritto all’autodeterminazione, fondato com’è sulla libertà di governare liberamente la propria vita, mette in evidenza la necessità di tener conto dei diritti di chi intende proseguire la propria esistenza con tutta l’assistenza necessaria. Emerge così il diritto d’ogni cittadino di accedere alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Solo tenendo insieme le due possibili scelte della persona, si può uscire dalla schizofrenia istituzionale e dalle ipocrisie di chi invoca l’intervento del legislatore in aree precluse dalla Costituzione, mentre ignora i doveri delle istituzioni pubbliche.
Questi sono i tragitti che portano verso un effettivo rispetto della vita, non quelli di chi si arrocca intorno alla difesa di valori “non negoziabili”, espressione di posizioni che possono avere anche una forte convinzione personale, ma che non possono cancellare i principi costituzionali. Forse i tempi si stanno facendo più propizi ad un confronto ispirato al rispetto pieno della dignità delle persone, grazie all’attenzione partecipe che per questa manifesta continuamente il Pontefice. Il Parlamento non può estraniarsi da questo contesto, continuando a subordinare i diritti delle persone alle convenienze di un partito o di una maggioranza di governo. La Chiesa può rendere la discussione più libera e consapevole. La Germania, oggi così detestata, può ricordarci il ruolo significato della sua Conferenza episcopale nel favorire una legge assai avanzata proprio sulle decisioni di fine vita.


La Stampa 28.3.14
Torino ’44, a cosa servono quei fiori rossi del Martinetto
A settant’anni dalla fucilazione degli otto eroi della Resistenza raccontata nel libro di Valdo Fusi, uno degli scampati all’eccidio
di Bruno Quaranta


Non scoloriscono i Fiori rossi al Martinetto, «l’episodio più popolare, più splendido dell’Europa resistente», come lo innalzerà Valdo Fusi, il suo «cronista». Si compì in sei giorni. Tra il Duomo di Torino, dove il 31 marzo 1944 fu arrestato il comitato militare del Cln piemontese. La Corte d’Assise, sede, il 2, domenica delle Palme, e il 3 aprile di un sommario processo. Il poligono di tiro del Martinetto, zona Campidoglio, dietro corso Regina Margherita, dove, all’alba del 5 aprile, cadranno il generale Giuseppe Perotti, Franco Balbis, Massimo Montano, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Errico Giachino e Quinto Bevilacqua, una plurale Italia, dal militare al professore universitario, dall’avvocato all’operaio.
Alla fucilazione scamperanno Gustavo Leporati, Giuseppe Giraudo, Silvio Geuna e Pietro Carlando (ergastolo); Cornelio Brosio (due anni); Luigi Chignoli e Valdo Fusi (assolti per insufficienza di prove). Non sarà accolta la richiesta di Geuna (che rappresenterà nell’Assemblea Costituente la Democrazia Cristiana): la sua vita («siccome io sono scapolo») per quella del generale Perotti, padre di tre figli.
Missione compiuta fulmineamente. Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato si era adeguato alla volontà di Mussolini di fare presto. Volendo dimostrare, come osserverà Alessandro Galante Garrone, «all’alleato il vigore e l’efficienza repressiva del fascismo repubblichino».
Il «mite giacobino», allora magistrato, assistette al dibattimento, come, tra gli altri, il collega Giuseppe Manfredini, già nel comitato di redazione di Energie Nove, la prima rivista gobettiana, Gobetti vittima di una passata - Anni Venti - irrequietudine del Duce: «Rendere difficile vita questo insulso oppositore governo e fascismo».
Luci, ombre. Zone grige del processo di Torino, su cui graverà, acuendo l’efferatezza del collegio giudicante, l’uccisione del «camerata» Ather Cappelli, direttore della Gazzetta del Popolo: «Il tribunale, all’evocazione dello scomparso, sorge in piedi. I giudici sporgono un braccio».
La fierezza, l’onore, la statura morale degli imputati, e lo stoicismo (il capitano di artiglieria Franco Balbis che, avvicinandosi l’estrema ora, dà appuntamento ai condannati a morte come lui: «Il prossimo Comitato giovedì mattina alle otto e trenta al terzo angelo a destra di San Pietro»).
L’ambiguo Pietro Carlando, socialista («suscita alquanta perplessità» in Valdo Fusi alla prima riunione del Comitato militare). Richiama alla memoria l’evangelico «Prima che il gallo canti»: di capitolazione in capitolazione, financo cercando di ingraziarsi il Tribunale con «un saluto romano a mezz’asta» («Dite, Carlando - sillaba il presidente -, chi c’era nelle riunioni che avete tenuto nelle parrocchie? Diteci i loro nomi. Cercate di ricordare, Carlando. Io vi leggerò i nomi. Voi dite semplicemente sì o no». E Carlando dirà sì e no. Chiosa il testimone di Fiori rossi: «Questa è la sentenza. Nell’aula cala un silenzio di tomba»).
Il parroco del Duomo, che alla maniera di Don Abbondio non sa darsi il coraggio, inguaiando Fusi (Fusi aveva dichiarato di essersi recato in Duomo per confessarsi, il parroco non lo asseconda: «Non so, non ricordo bene»; il pubblico ministero lo ringrazierà: «Il testimone principale a difesa dedotto dall’avvocato Fusi è stato il più efficace strumento di accusa»).
L’invecchiato Cardinale («porta i segni della veglia e della sofferenza»), Maurilio Fossati, che non riuscirà a toccare il cuore degli Innominati tedeschi, a differenza del Borromeo: «Ho provato, in principio, a parlare alle autorità. I tedeschi mi hanno risposto che badassi ai fatti miei».
«Incatenati come Silvio Pellico, gli otto patrioti camminavano lungo i corridoi del carcere; nel cortile salivano sul furgone, li scortava un cappellano, andavano al Martinetto, a tingere di rosso il cammino della rinascita». Valdo Fusi rinnoverà la memoria del crudele aprile accostando primo e secondo Risorgimento in Torino un Po, una guida sentimentale che farà battere il cuore al gelido Calvino, nella capitale subalpina riconoscendo tre spiriti guida: Guarino Guarini, Massimo d’Azeglio, Vittorio Alfieri, il gobettiano eroe della libertà.
Maestro di libertà, per Valdo Fusi, nato a Pavia (il Pavese cuna di altre figure che svetteranno a Torino, da Franco Antonicelli a Italo Cremona a Nino Salvaneschi), sarà al liceo D’Azeglio Augusto Monti. Virginia Galante Garrone, sorella dello storico Alessandro, ricordava come il «profe» avesse commosso e influenzato l’allievo leggendo in classe il Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco: «In faccia alla morte nessuno ha dato segno di viltà. Tutti l’han guardata con l’istessa fronte con cui avrebbero condannato i giudici del loro destino».
Al cattolico avvocato Valdo Fusi, dopo la Liberazione, toccherà interpretare l’Ecclesiaste («C’è un tempo per la guerra e un tempo per la pace») assumendo la difesa del colonnello Biglio, tra i suoi giudici, e ottenendone l’assoluzione. Conosciutane nel frattempo la figlia, Edoarda, la sposerà, manzonianamente scoprendosi protagonista di un disegno provvidenziale.
Non scoloriscono i Fiori rossi al Martinetto? La retorica è sempre in agguato. Lo stesso Valdo Fusi metteva in guardia nel 1974, a trent’anni dalle esecuzioni. All’amico Luigi Ravelli che voleva ripresentare il suo «diario» (da ultimo lo ha pubblicato l’editore Riccadonna) scriveva: «Perché vuoi proporre queste paginette, dove, orrore, ci è dentro perfino gente adulta che piange? Ma, forse, proprio perché non servono tu le offri, ritenendo che qualcosa possano ancora significare il dare senza avere e l’altruismo eroico, in questo mondo a pezzi del 1974!». Heri dicebamus...

Repubblica 28.3.14
“Siate assetati di scoperte la scienza ha bisogno di voi”
L’appello ai cittadini della senatrice e ricercatrice Elena Cattaneo: è bello studiare l’ignoto, provateci
intervista di Luca de Vito



ELENA Cattaneo, senatrice a vita e ricercatrice, sarà tra gli ospiti all’appuntamento di domani di “Next - Repubblica delle Idee”. Dal suo punto di vista di studiosa e di persona che lavora nei palazzi della politica, cosa significa innovare?
«Quando si parla di innovazione si pensa sempre alle start up, all’imprenditoria e al desiderio di passare subito all’azione. Passa il messaggio che è solo questo che può fare da traino all’economia. Ma le cose non stanno così: il vero traino sono lo studio, la scuola, l’università. E la ricerca. Se questa non viene percepita come un bene comune, come un’area di esercizio della creatività, viene meno la linfa vitale che regge l’innovazione».
Che percezione si oggi ha della ricerca scientifica?
«In Italia sembra che sia qualcosa che è legato solo al mondo accademico o a chi è in grado di trasformarla in impresa. Invece dovrebbe essere coinvolta tutta la società nella bellezza di scoprire e indagare l’ignoto. Perché il concetto fondamentale che sta alla base dell’innovazione è la cultura della ricerca che deve diventare patrimonio di tutti. E poi il resto viene da sé: il cittadino assetato di conoscenza è spinto a innovare. Ci sono tantissime start up che nascono intorno e dentro alle università, ma questo accade proprio perché ci sono scienziati e professori che non ci pensano nemmeno a creare un’impresa. Sono persone impegnate a studiare».
Domani sarà a Milano. Qui alcuni ricercatori sono stati minacciati di morte dagli animalisti e a Brescia ha trovato credito il metodo Stamina. La scienza è sotto attacco?
«Confesso di avere un po’di paura. C’è poca, pochissima coscienza di cosa sia realmente la scienza e mi dispiace. Ogni giorno mi interrogo su quali siano le nostre colpe come studiosi. C’è una radicata ignoranza su cosa sia il metodo scientifico, ovvero non si conoscono quelle che sono le modalità attraverso cui si producono prove a confutazione di un’ipotesi. Uno dei grandi pregi della scienza è che tutte le sue prove sono pubbliche, visibili e verificabili. Solo che vanno cercate e non tutti hanno gli strumenti adatti per farlo. Per questo è fondamentale coinvolgere i cittadini. E c’è un anche altro aspetto da considerare».
Quale?
«Valorizzare le figure professionali che già abbiamo. Alcuni studenti di medicina, dopo il caso Stamina, mi hanno scritto: “cosa studio a fare se le mie competenze vengono messe sullo stesso piano di un Vannoni qualsiasi?”. Hanno ragione. Il compito della politica è riconoscere le straordinarie capacità che ci sono in questo paese».
Scienza e Politica, però, sono due mondi che sembrano lontani tra loro.
«È vero, spesso si guardano con diffidenza. La politica non vede la scienza come un patrimonio e anche gli studiosi faticano a capire la complessità delle procedure e dei meccanismi che stanno dietro a una legge. Ma è fondamentale che inizino a parlarsi. E ad avvicinarsi».

Repubblica 28.3.14
La bellezza matematica nascosta nel mondo
È una disciplina in crisi, molti la odiano, è insegnata male
Ecco come capire (e amare) la scienza dei numeri
di Piergiorgio Odifreddi


L’artista, il musicista e il poeta percepiscono le meraviglie del mondo attorno a sé, raffigurandole e trasfigurandole nelle loro opere. Osservano i variopinti colori dei fiori nei prati, riproducendoli in tele realiste o impressioniste. Ascoltano i gorgheggianti canti degli uccelli, riverberandoli in composizioni pastorali. Guardano oltre una siepe, fingendosi sovrumani silenzi e profondissima quiete. Osservano la danza della graziosa e silenziosa Luna, domandandosi che ci fa in cielo.
Ma rispetto all’artista, al musicista o al poeta, il matematico va oltre, e non altrove. E la sua visione del mondo non sottrae bellezza alla descrizione dell’umanista, ma gliene aggiunge. Perché la bellezza c’è a tutti i livelli della Natura, dal microcosmo al macrocosmo: non solo al livello antropico, al quale siamo tutti abituati e allertati, ma che rimane marginale e secondario rispetto al tutto.
Ad esempio, quando il matematico osserva un fiore, dietro al numero dei suoi petali nota la successione di Fibonacci e la proporzione aurea alla quale essa tende. Dietro ai suoi colori, riconosce le lunghezze e le frequenze di velocissime onde luminose. Dietro alle infinite gradazioni della tavolozza della Natura o del pittore, isola le tre lunghezze corrispondenti ai tre colori fondamentali intercettati dai tre tipi di coni della retina dei nostri occhi. Dietro alla “luce visibile”, identifica la piccola finestra aperta dalla nostra vista sullo spettro elettromagnetico, e ne riconosce molte altre aperte dalla scienza del Novecento, dalle onde radio alle microonde ai raggi X.
E poi, quando il matematico ascolta il canto di un uccello, dietro alla sua altezza e al suo volume riconosce la lunghezza e l’ampiezza di più lente onde sonore. Dietro al suo timbro, isola i suoni puri delle componenti armoniche, esattamente come fa l’orecchio attraverso la complessa struttura del timpano. E condensando le informazioni di ciascuna armonica in tre soli numeri, corrispondenti alla lunghezza, l’ampiezza e la fase della rispettiva onda, può approssimare le caratteristiche di ciascun suono mediante liste di terne di numeri, che vengono scritte digitalmente nei compact disk e rilette acusticamente dai lettori cd.
E ancora, quando il matematico guarda agli andirivieni palesemente errabondi della Luna e dei pianeti, vi scorge l’effetto della regolarità nascosta di moti di cerchi su cerchi su cerchi. E descrive la sovrapposizione di questi moti nello stesso modo in cui descrive la sovrapposizione delle armoniche dei suoni, scoprendo e confermando il potere unificatore del linguaggio astratto delle formule.
Naturalmente, questi non sono che esempi dello sguardo del matematico sul mondo, che si estende a ogni branca del sapere, da quelle frequentate dal pittore, dal musicista o dal poeta, a quelle praticate dal teologo, dal filosofo e dal politico. L’intera scolastica, ad esempio, fu un tentativo di affrontare il discorso su Dio dal punto di vista razionale della logica. La filosofia moderna iniziò con un Discorso sul metodo, che identificava appunto nella matematica il modello da seguire per fare discorsi chiari e distinti. E la politica alta, purificata dai bassi interessi, si affida a numeri, curve e teoremi per risolvere problemi che vanno dalle leggi elettorali alle scelte decisionali.
Ma se la matematica costituisce uno strumento così versatile, fertile e indispensabile per capire il mondo naturale e umano, com’è che quasi tutti la odiano visceralmente, e si vantano di non averci mai capito niente? Che gli artisti, i musicisti e i poeti si lasciano guidare più dalle viscere, che dalla testa? I credenti si affidano più alla fede irrazionale, che al pensiero logico? I filosofi seguono le chiacchiere degli esistenzialisti, più che i ragionamenti dei razionalisti? I politici incarnano l’arte del voltagabbana, e disdegnano la legge di non contraddizione? I media rincorrono avidamente scrittori e artisti, anche da quattro soldi, ma evitano accuratamente gli scienziati, anche da Nobel? E, amarus in fundo, gli studenti considerano la matematica la loro bestia nera e il loro incubo?
Una prima spiegazione, fisiologica, l’ha data Howard Gardner nei suoi studi sui vari tipi di intelligenza. A un estremo, la prima a svilupparsi nel bambino è l’intelligenza musicale, fin dai primi anni di vita. All’altro estremo, l’intelligenza logico-matematica è l’ultima ad arrivare, con la pubertà e l’adolescenza. Così, mentre si conoscono geni precocissimi come Mozart o Mendelssohn, che a quattro anni suonano e compongono, anche matematici precoci come Pascal o Gauss sono sbocciati solo tra i sedici e i diciott’anni. Il che significa che la matematica richiede una maturità e uno sviluppo che non si hanno ancora alle elementari e alle medie, quando la si subisce come una perversa violenza e la si interiorizza come un indelebile trauma.
Una seconda spiegazione, psicologica, deriva dalla natura stessa di un gioco come la matematica, in cui non si può sgarrare, e tanto meno barare: basta lasciarsi scappare un segno sbagliato, o non chiudere una parentesi, per subire una débâcle. Molto più facile abbassare il tiro, seguire le linee di minima resistenza e rivolgersi a giochi con regole meno vincolanti o, come nel romanticismo, addirittura inesistenti. E lasciar perdere una disciplina che costringe a estenuanti esercizi e sfibranti concentrazioni, incompatibili con la tempesta di “stacchi pubblicitari” a cui si viene diseducati fin da bambini.
Una terza spiegazione, sociologica, ha a che fare con il potere. La maggioranza dei ruoli dirigenziali, dai ministeri ai media, è distribuita per tradizione in accordo al motto di Croce: «Comanda chi ha studiato greco e latino, e lavora chi conosce le materie utili». E non si può pretendere che gli umanisti aprano passivamente le porte al “nemico”, o evitino attivamente di denigrarlo, magari con la scusa che «così vuole la gente»: i due terzi della quale comunque non legge un libro all’anno, mentre il rimanente terzo si concentra sui romanzi.
Un’ultima spiegazione, pedagogica, ha a che fare con l’anacronismo della nostra scuola. Ministri e funzionari insensibili e inesperti, programmi e testi antiquati e aridi, esercizi sadici e noiosi inflitti con metodi di insegnamento antidiluviani, completano l’opera di allontanamento anche degli studenti meglio disposti.
Con queste premesse, non c’è da stupirsi che la matematica sia così poco apprezzata e capita: semmai, ci sarebbe da stupirsi del contrario. Peccato però che, in un mondo tecnologico, chi non la conosce finisca per rimanere un vero e proprio analfabeta. Con gran cruccio di quei governi e di quelle società che prima fanno di tutto per bruciare la terra attorno alla matematica, e poi si preoccupano di esserci riusciti, domandandosi impotenti e tardivi come rimediare.

Repubblica 28.3.14
L’ultima polemica su Lombroso minacce alla studiosa che lo difende
Il teschio della discordia
 Il brigante Villella torna a far parlare di sé. Nel mirino adesso finisce l’antropologa che smonta il mito che ne aveva fatto un eroe
E, per motivi di ordine pubblico, il paese dove è nato cancella la presentazione del saggio
di Massimo Novelli



QUESTO libro non si deve presentare: almeno non ora, e forse mai. Succede a Motta Santa Lucia, paese calabrese di ottocento anime in provincia di Catanzaro, arroccato sulle montagne che sovrastano la valle del Savuto. Il volume in questione, appena pubblicato dalla casa editrice Salerno, in una collana diretta dallo storico Alessandro Barbero, è Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Lo ha scritto l’antropologa Maria Teresa Milicia. Avrebbe dovuto essere presentato domani proprio a Motta Santa Lucia. L’avvenimento, però, è stato annullato all’ultimo momento. Le ragioni? Si temevano contestazioni da parte di esponenti di quei movimenti neoborbonici e antiunitari che da tempo, mediante un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d’Italia e del Risorgimento, impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro.
A fare infuriare ancora di più i neo-legittimisti del Mezzogiorno ci sono, poi, le origini calabresi di Maria Teresa Milicia, stimata docente di antropologia culturale all’Università di Padova. Quale è la sua “colpa”? Quella di avere smontato un mito, del tutto fasullo e strumentale, caro ai neo-borbonici. Nel suo saggio ripercorre con rigore scientifico, e attraverso una ricerca meticolosa, le vicende che hanno portato alcune associazioni nostalgiche del Regno delle Due Sicilie a trasformare Giuseppe Villella, un verosimile ladruncolo di polli e di caciotte, vissuto nell’Ottocento, in una sorta di eroe nazionale, alfiere della lotta del Sud contro il colonialismo del Nord. Da qui le violente contestazioni contro il Museo Cesare Lombroso di Torino; lì, tra gli altri reperti appartenenti al criminologo nato a Verona e morto a Torino (1835-1909), è conservato il cranio di Villella. Proprio esaminando i suoi resti, sul finire dell’Ottocento, il fondatore dell’antropologia criminale partì per elaborare la sua teoria, rivelatasi sbagliata, sul presunto atavismo del delinquente. É nato poi persino un Comitato “No Lombroso”, con cui è stata chiesta, anche per vie giudiziarie (la causa sarà discussa in appello a dicembre), la restituzione al comune di Motta Santa Lucia del cranio di Villella, pretesa vittima del razzismo sabaudo e di Lombroso. Nel frattempo è stato incoronato dai borbonici del 2000 a leggendario patriota del Sud. In realtà, come dimostra Maria Teresa Milicia, costui non fu né un brigante e tantomeno un patriota, bensì soltanto un poveraccio. Autore di piccoli furti, morì di malattia nel carcere di Pavia. La studiosa, inoltre, smentisce nel suo lavoro le accuse di razzismo e di antimeridionalismo mosse a Lombroso, riscoprendo certi suoi scritti sulla Calabria in cui denunciava alcuni guasti dell’unificazione nazionale, «troppo più formale che sostanziale», e il peso della criminalità locale.
Sicuramente chi contesta il libro non può averlo già letto, dato che non è ancora stato distribuito in tutte le librerie italiane. Saperlo in uscita, in ogni caso, è bastato per far saltare l’appuntamento di Motta Santa Lucia, annunciato da giorni dai manifesti affissi nelle vie del paese. È stato il sindaco, l’avvocato Amedeo Colacino, lo stesso che aveva invitato la Milicia, a parlarle mercoledì sera di una informativa dei carabinieri della zona, che, preoccupati per le proteste ventilate, avevano consigliato di cancellare la presentazione. Ora Colacino precisa: «Diciamo che si è preferito rinviare l’incontro per motivi di opportunità, anche per quanto è stato pubblicato su alcuni siti». Su quello del comitato “No Lombroso” si sprecano insulti, e contumelie assortite, alla Milicia. Aggiunge il sindaco: «Magari presenteremo il libro della dottoressa Milicia in contraddittorio con quello, più neo-meridionalista, che ha scritto Francesco Antonio Cefalì». Quest’ultimo, comunque, risulta essere soprattutto il coordinatore della sezione Michelina De Cesare, che era davvero una brigantessa, del cosiddetto Partito del Sud di Lamezia Terme. Commenta l’autrice di Lombroso e il brigante: «Se non ci fosse stato di mezzo Lombroso, il cranio del povero Villella sarebbe stato sepolto in una fossa comune. E nessuno ne avrebbe mai parlato. Invece, intorno alla sua figura, è stata costruita una leggenda identitaria e storica del Mezzogiorno, che purtroppo si è diffusa molto». Basti dire che la segreteria telefonica del centralino del comune di Motta Santa Lucia recita che «è la città del pane, dei portali e del brigante Villella». Nella prefazione al saggio, Maria Teresa Milicia ricorda: «Ho scritto questo libro anche perché sono convinta che il Museo Lombroso non è un museo razzista», e che «i modi, il linguaggio della protesta e il palese tentativo di mistificare la verità storica istigano all’odio gli italiani e danneggiano i calabresi ». Non tutti, in Calabria, la pensano come gli animatori dei gruppi borboneggianti. Il 9 aprile, infatti, il libro verrà discusso all’Università di Cosenza da storici e antropologi come Brunello Mantelli, Silvano Montaldo e Marta Petrusewicz, Vito Teti e Mary Gibson, studiosa del “maledetto” Lombroso. E il 16 sarà il Museo Lombroso di Torino a presentarlo.

Corriere 28.3.14
Biden, il pianeta oltre Plutone che allarga il sistema solare
di Giovanni Caprara


Lo spettacolo degli anelli Chariklo è il primo asteroide con un sistema complesso di anelli come quello di Giove o Saturno: gli astronomi ritengono che siano composti parzialmente da acqua ghiacciata (Afp) È il corpo celeste più lontano dalla Terra mai scoperto È il pianeta più lontano del nostro sistema solare. È stato scoperto oltre i confini finora conosciuti, in un profondo buio dove finora si pensava esistessero soltanto astri con la coda e per questo era stata battezzata la culla delle comete. Il nuovo corpo celeste ha per il momento soltanto una sigla, 2012 VP113, ma basta per far sognare rapidi cambiamenti nella conoscenza del lontano mondo a cui si guarda con sempre maggior curiosità. Il nuovo protagonista del corteo solare è un pianeta nano, secondo la nuova classificazione adottata nel 2006 dall’Unione astronomica internazionale.
La decisione fu allora molto contrastata perché portò alla cancellazione di Plutone come ultimo pianeta e diventato il primo della nuova classe. Ma il provvedimento venne adottato perché ci si rendeva conto che ormai i confini del sistema solare dovevano essere ridisegnati lasciando solo gli otto grandi pianeti fino a Nettuno degni di questo nome mentre gli altri era opportuno battezzarli «nani». In verità erano più piccoli, ma avevano anche caratteristiche differenti e quindi era il caso di distinguerli diversamente. A spingere verso questa drastica scelta era stata soprattutto la scoperta di un corpo celeste, Sedna, più grande di Plutone: una prova inconfutabile dell’esistenza di una famiglia di corpi da osservare con occhi diversi.
I confini del sistema solare sono posti a 50 unità astronomiche, vale a dire cinquanta volte la distanza tra la Terra e il Sole che è di 150 milioni di chilometri. Sedna si trova a 76 unità astronomiche. Ora il nuovo pianeta VP113, già ribattezzato non ufficialmente da alcuni «Biden» (in quanto «VP», vicepresidente degli Stato Uniti), si trova ancora più lontano, a 80 unità astronomiche: è nella «nube di Oort», la culla delle comete. Gli autori della scoperta (i primi indizi risalgono al 2012) sono gli astronomi americani Scott Sheppard e Chadwick Trujillo, che hanno utilizzato un telescopio in Cile. «Di questi corpi con un diametro superiore a mille chilometri riteniamo ne esistano almeno novecento in quelle zone estreme», hanno precisato.
Ma studiando l’orbita di Biden gli astronomi hanno risollevato quasi un mito inseguito da decenni; cioè la presenza di un pianeta gigante oltre tutti quelli conosciuti, il famoso e mai trovato «decimo pianeta». Ci sono infatti anomalie nella sua corsa che farebbero pensare alla presenza di un corpo dieci volte più grande della Terra. L’origine di Biden resta misteriosa. Si immagina che una volta fosse vicino al Sole e che sia stato spinto lontano con il tempo o addirittura che sia frutto di una cattura al corteo di un’altra stella. Tutte ipotesi non facili da verificare, comunque affascinanti da indagare.
Il nuovo pianeta si è accompagnato in queste ore ad un’altra scoperta interessante (entrambe pubblicate sulla rivista Nature ) e cioè il ritrovamento attorno all’asteroide Chariklo in orbita tra Saturno e Urano di due densi anelli di polvere analoghi per certi aspetti a quelli ben più numerosi del famoso Saturno. Gli anelli di Chariklo sono ben più ristretti e rispettivamente larghi tre e sette chilometri. Anch’essi rappresentano un record perché è la prima volta che si avvistano anelli intorno ad un asteroide.

Corriere 28.3.14
La lezione di quei due innocenti nel braccio della morte
di Paolo Di Stefano


Ogni tanto bisognerebbe fare un fermo immagine del mondo, per chiedersi come sia possibile che Paesi economicamente (e culturalmente) evoluti in alcuni casi non trovino pratica migliore che l’omicidio, per proteggere la comunità: non che la cosa sia meno scandalosa in Paesi socialmente o politicamente più arretrati, ma che ciò accada ancora in certi Stati nordamericani, che si presentano al cospetto universale come esempi di democrazia, rende insostenibile il paradosso. Stiamo parlando della pena di morte, che secondo gli ultimi dati di Amnesty International continua a crescere sul pianeta: 778 le esecuzioni note nel 2013 contro le 682 del 2012. Non più di due settimane fa nella Louisiana Glenn Ford, 64 anni, da 25 anni detenuto in attesa della pena capitale per aver ucciso un gioielliere nel 1983, è stato rilasciato perché nuove prove ne hanno confermata l’innocenza che lui aveva sempre proclamato. E proprio in coincidenza con la pubblicazione del rapporto di Amnesty International, ieri in Giappone, dopo 48 anni di attesa (dell’impiccagione) in isolamento nel carcere di Tokyo Kouchisho, il settantottenne Iwao Hakamada è stato scarcerato perché il processo va rivisto: era stato condannato nel 1966 per diversi omicidi, ma ora, sulla base di alcuni test del Dna, si insinuano seri dubbi sulla sua colpevolezza. Ex pugile ed ex impiegato in una fabbrica di soia, è possibile che in questi anni Iwao si sia sentito un ex essere umano. Chissà quanti uomini e donne sono stati messi sulla sedia elettrica, impiccati, avvelenati prima che venisse dimostrata la loro innocenza, ma Iwoa e Glenn non ne avranno una gran consolazione. La vita, in massima parte, è stata loro negata da una giustizia ingiusta, ma prima ancora dalla barbarie di Paesi modernissimi: «Generalmente — ha scritto Albert Camus — l’uomo è distrutto dall’attesa della pena capitale molto tempo prima di morire. Gli si infliggono due morti, e la prima è peggiore dell’altra». Bisognerebbe riuscire a fare un fermo immagine sull’innocente che attende, anche per una sola notte, di essere impiccato. Ma anche sul colpevole .