l’Unità 2.3.14
L’uguaglianza è innovazione
di Silvano Adriani
Ritengo sia importante l’impegno posto da Matteo Renzi, commentando la riedizione del famoso libro di Norberto Bobbio sull’argomento, per contribuire a ridefinire il ruolo della sinistra. Non era scontato per uno della sua storia, anche se poi è vero che una sinistra democristiana è sempre esistita.
E che le idee del riformismo del Novecento, maturate dall’incontro del pensiero liberaldemocratico con quello socialdemocratico, nucleo centrale delle politiche della sinistra, furono introdotte nel dibattito politico italiano dopo la guerra soprattutto dai « professorini» - Dossetti, La Pira, Fanfani - tutti democristiani.
Renzi sostiene che la coppia uguaglianza/disuguaglianza non sia più sufficiente a caratterizzare il ruolo della sinistra e che adesso vada aggiunta la coppia innovazione/ conservazione. Ora io penso che la capacità di innovare sia oggi molto importante per la sinistra, ma che quella coppia di per sé non distingue la sinistra dalla destra. La grande strategia imperiale di Gladstone fu un’importante innovazione della politica, Mussolini ed Hitler non furono certo dei conservatori e la stessa Thatcher ha innovato la politica quando, rispondendo al crescente individualismo, ha rilanciato il pensiero utilitarista secondo il quale la società non esiste, esistono solo gli individui e si è impegnata a ridurre il ruolo dello Stato e di tutti i corpi intermedi.
D’altro canto lo spostamento dell’accento dall’uguaglianza all’innovazione è stato già fatto dai sostenitori della terza via e non a caso Blair è esplicitamente citato. Ora, a venti anni dall’affermarsi di quella visione e dopo anni che la sua esperienza è finita, non mi pare appropriato citarla senza fare un bilancio. Sul piano dei diritti delle persone e di un generale modernizzazione culturale necessaria in tempi di globalizzazione ritengo che quell’esperienza sia stata positiva. Ma se si considerano la visione dello sviluppo ed i rapporti economici l’approccio «terzaviista» si è mosso all’interno del pensiero liberista dominante, anzi per certi aspetti lo ha sopravanzato. La totale liberalizzazione della finanza, che ha accelerato la finanziarizzazione dell’economia mondiale, la degenerazione della finanza e portato alla crisi finanziaria fu decisa dai governi di Clinton e di Blair.
Negli anni della terza via le disuguaglianze sono aumentate fortemente: oggi Stati Uniti ed Inghilterra sono tra i Paesi avanzati quelli con le disuguaglianze maggiori e con la maggiore concentrazione della ricchezza e del reddito. A chi gli faceva notare questa deriva dell’Inghilterra è noto che Blair rispose che limitando i guadagni di Beckam non si sarebbero risolti i problemi dell’Inghilterra, a riprova di un certo cinismo e soprattutto dell’incapacità di comprendere il nesso inscindibile che lega la distribuzione del reddito alla crescita economica. Oggi è generalmente ammesso che alla radice della crisi economica ci sia la crescita delle disuguaglianze: una crescita trainata dai consumi privati mentre stagnavano i redditi della grande maggioranza della popolazione è stata possibile solo con una poderosa crescita dell’indebitamento privato base della degenerazione della finanza.
La crescita delle disuguaglianze crea uno squilibrio tra aumento della domanda ed aumento del prodotto che l’indebitamento non può bilanciare all’infinito e limita la formazione dei talenti giacché si ha un bel dire che il problema non è l’uguaglianza dei redditi, ma quella delle opportunità di vita, se il reddito si concentra nelle mani di pochi, le opportunità non possono che divergere sicché ad una parte crescente della popolazione viene impedito di realizzare i propri talenti con ripercussioni negative sulle possibilità di crescita. Di conseguenza si riduce la mobilità sociale cosa accaduta sia in Usa che in Inghilterra. Il problema dell’uguaglianza non è solo un problema di giustizia sociale è anche un problema di efficienza del modello distributivo rispetto alla sostenibilità della crescita.
Parlare di innovazione oggi non è possibile senza tenere conto che si tratta di uscire da oltre un trentennio di dominio liberista che ha comportato un forte aumento delle disuguaglianze. Si tratta certo per la sinistra, come sostiene Renzi, di tenere conto dei grandi mutamenti dell’assetto sociale e quindi dei bisogni e delle risorse delle società, ma ciò va inevitabilmente fatto all’interno di una visione complessivamente diretta a ridurre le disuguaglianze. Innovazione significa oggi soprattutto rompere con l’ortodossia del pensiero unico che, benché sconfitta sul piano culturale è ancora dominante in Europa con le politiche di austerità. Oggi i temi dell’innovazione e dell’uguaglianza coincidono perfettamente.
Se una critica si può fare al libro di Bobbio, a mio avviso, è di trascurare una seconda issue che non meno di quella dell’uguaglianza ha definito l’identità della sinistra a partire dall’Ottocento: la liberazione del lavoro dalla condizione di merce. Dopo il fallimento della risposta data a questa issue dal «socialismo reale», la statalizzazione dei mezzi di produzione, in effetti non se ne parla più. Eppure i grandi cambiamenti culturali in corso, le nuove forme della comunicazione, la crescita di importanza della conoscenza come fattore della produzione consentirebbero di ritematizzare e rilanciare quella issue spingendo per un graduale crescita della partecipazione creativa dei lavoratori all’attività produttiva ed alla governance delle imprese. Questo sarebbe un altro grande tema di innovazione per la sinistra.
Il Sole Domenica 2.3.14
Norberto Bobbio (1909-2004)
Una bussola per la sinistra
di Massimo Salvadori
Il testo che segue è uno stralcio dell'introduzione di Massimo Salvadori al volume di Norberto Bobbio «Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica. Edizione del Ventennale», Donzelli, Roma, pagg. 208, € 19,50
Nel 1996, dopo la vittoria dell'Ulivo guidato da Romano Prodi di cui il Partito democratico della sinistra costituiva il nerbo, Norberto Bobbio fece una dichiarazione che, a chi non conoscesse la biografia intellettuale e politica del filosofo torinese – ormai da tempo assurto in Italia alla posizione di un ascoltatissimo maître à penser, che ricordava quella di Benedetto Croce nella prima metà del secolo – poteva a prima vista apparire sconcertante e contraddittoria da parte di chi, come lui, era stato e continuava a essere un maestro di liberalismo e uno studioso e grande ammiratore del giovane Piero Gobetti, il quale nel 1924 aveva alzato la bandiera della «rivoluzione liberale». In questa dichiarazione – con riferimento al fatto che l'ex comunista Massimo D'Alema, allora segretario del Pds, aveva auspicato che in Italia avesse luogo, finalmente, una rivoluzione liberale – Bobbio, nell'esprimere soddisfazione per la vittoria dello schieramento antiberlusconiano ma avendo in mente come proprio Berlusconi nel 1994 avesse espresso l'intenzione di voler cambiare alla radice il paese attuando una rivoluzione liberale, affermava: «Avrei però preferito che un grande partito di sinistra, invece di lasciarsi sedurre dalla riproposizione della "rivoluzione liberale", quando tutti erano diventati liberali e naturalmente in primo luogo gli avversari, risollevasse la bandiera della "giustizia sociale", che era sempre stata quella sotto la quale avevano percorso una lunga strada milioni e milioni di uomini e donne che avevano fatto la storia del socialismo. Se dovessi proporre un tema di discussione per la sinistra, oggi, proporrei il tema attualissimo, arduo ma affascinante, della "giusta società". Continuo a preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà».
Quella di Bobbio suonava come una esortazione alla sinistra italiana a non interrompere il legame con la storia del socialismo, a riprendere quindi un cammino, nella consapevolezza che il compito fosse, appunto, reso «arduo» da un vento che spirava fortemente ostile a chi volesse continuare a mettere al centro il tema della «giusta società»: una esortazione che, insieme a un incoraggiamento, conteneva un rimprovero alle forze che, mentre continuavano a proclamarsi di sinistra, lasciavano cadere la sostanza, l'unica sostanza, che giustificava e rendeva tale quest'ultima. Bobbio scrisse le parole sopra ricordate nel 1996. Era evidente la continuità con l'ordine di pensieri espressi due anni prima in uno dei saggi più fortunati della sua produzione, che ottenne un enorme successo e tra il 1994 e il 2004 ebbe quattro edizioni: Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica.
Quando pubblicò la prima edizione del saggio, il filosofo torinese si poneva decisamente controcorrente in un duplice senso: nei confronti non solo delle tendenze neoliberiste – le quali, sentendosi trionfanti, proclamavano, ripetendo a loro vantaggio, sulla favorevole onda gonfiante creata sia dal crollo dell'impero sovietico sia dall'arretramento della socialdemocrazia, il Leitmotiv in passato tanto abusato dai comunisti che la storia aveva dato loro ragione – ma anche di tanti ex e post comunisti italiani e non solo italiani che, alla ricerca di una via di uscita dallo sbandamento in cui erano caduti, sostenevano che occorresse ormai andare al di là dei concetti di destra e sinistra, al di là delle esperienze storiche del comunismo e della socialdemocrazia, realizzando una nuova sintesi, oppure, nel caso tenessero nonostante tutto fede alla loro collocazione di provenienza, barcollavano incapaci di darsi un baricentro credibile ed efficace. Destra e sinistra fu il tentativo di chiamare a raccolta, con le armi proprie di un intellettuale, una sinistra che stava perdendo la bussola, quando non l'aveva decisamente perduta.
La Stampa 2.3.14
Rodotà: “Renzi è senza futuro. Sì all’alleanza Civati-Tsipras”
Il professore: “Alcuni ex 5 Stelle potrebbero avvicinarsi alla sinistra”
intervista di Andrea Malaguti
«Ormai il dibattito politico è schiacciato su una logica inaccettabile».
Quale, Professor Rodotà?
«Quella per cui se Renzi fallisce è tutto finito. Una descrizione catastrofista voluta per non disturbarlo».
Andrebbe disturbato?
«Per me il progetto a cui ha dato vita è già finito. Siamo passati dalle larghe alle piccole intese. Renzi è bravo dialetticamente, è veloce, ma quale visione politica ha? E soprattutto quale maggioranza? Se ne può discutere o lo si deve considerare fideisticamente il Salvatore della Patria?».
Due milioni di elettori del Pd alle primarie gli hanno dato fiducia.
«Renzi è diventato segretario del partito solo perché il Pd non c’era più da molto tempo. Ha vinto senza bisogno di combattere. E lui si è preso tutto quello che si poteva prendere in una città morta. Ma governare non sarà altrettanto semplice».
Renzi, la ricostruisce questa città morta o ne fonda una nuova con lo stesso marchio?
«Ne fonda una nuova. Lo ha già fatto. È evidente».
Eppure il Pd ha aderito al Pse. Il Capo Scout si è alleato con Schulz.
«Era una strada obbligata. Renzi è da sempre un sostenitore del bipolarismo. Con l’Ncd che guarda al Ppe non poteva restare nel limbo. Mi pare che abbia fatto una scelta più legata alla strategia che alla sensibilità».
Che cosa succederà alle europee?
«Sono pessimista nei pronostici. Ma la strada del Pd è in salita considerate le posizioni di Grillo, di Alfano, della Lega e di Forza Italia. L’Europa era stata presentata come un valore aggiunto, poi i governi che si sono alternati l’hanno sempre descritta come la matrigna che chiede sacrifici. Immagino una campagna elettorale che abbiamo come slogan: dobbiamo riscrivere la costituzione europea».
Il populismo paga?
«Forse in termini di consensi. Perciò Grillo è andato avanti con le espulsioni. Per salvaguardare la sue rendita di posizioni. Ma è ovvio che l’orizzonte deve essere diverso».
Ovvero?
«La via l’ha in parte tracciata il Presidente della Repubblica. Napolitano a Strasburgo ha detto: dobbiamo uscire dalla logica dell’autorità e rimettere in discussione non tanto il vincolo del 3%, ma una serie di parametri che hanno delegittimato l’Europa agli occhi dei cittadini. Dobbiamo rimettere la politica al centro. Apertamente. Prima del voto. Parlando con Francia e Spagna. E con la Merkel».
Noi non ce l’abbiamo un ministro per le politiche europee.
«Magari, come spero, Renzi considera questa partita decisiva e la vuole giocare in prima persona. Oppure, e io spero di no, è disinteresse».
È all’altezza di questa partita?
«Non lo so. Alla Camera il suo discorso sull’Europa, come su una serie di altri punti, mi è sembrato vago. Tra l’altro sostenere che il cambiamento è sempre positivo è una semplificazione pericolosa. Se cambia la legge elettorale, per esempio, che cosa succede?».
Non sembra un esempio a caso.
«Non lo è. La stanno rifacendo nel nome della supposta governabilità. Ma se tutto deve avere come riferimento la governabilità in sostanza si cambia la Costituzione».
Professore, c’è qualcosa che le piace di Renzi?
«Che, ad esempio sul lavoro, sembra volere riscrivere un’agenda sociale diversa da quella di Letta, tutta governativamente autoreferenziale».
Ha riportato il tema della scuola in cima all’agenda.
«Sì. Ma in questo periodo di crisi, in cui le risorse dovrebbero essere concentrate sul pubblico, che cosa farà con i 236 milioni che vengono destinati alle scuole private? Vuole una previsione? Eviterà di affrontare il problema».
Quali altri problemi eviterà?
«Questa maggioranza tratterà al ribasso tutti i temi legati ai diritti civili».
È possibile una maggioranza diversa?
«Sì, liberandosi dall’esperienza infausta delle grandi e delle piccole intese».
Tornando al voto?
«Non solo. Sel viene da un congresso travagliato, in più c’è un’area civatiana che può essere allargata dalla diaspora del Movimento Cinque Stelle. Non mi pare che siano condizioni da sottovalutare. Sarebbe un modo per liberarsi dalla sudditanza dal centrodestra ed evitare governi con questi sottosegretari. Certo, serve tempo. Ma poi si potrebbe andare avanti fino al 2018».
Il famoso partito di Rodotà immaginato da Civati? Un nuovo centrosinistra?
«Ho letto dei sondaggi che danno la lista Tsipras al 7%. Numeri che se alle europee si dovessero realizzare non avrebbero un effetto immediato sulla vita politica italiana. Ma che potrebbero accelerare un processo in atto».
È disposto a metterci la faccia?
«Certamente non mi tirerei indietro».
Alle europee voterà Tsipras?
«So che ci sono difficoltà per la lista, ma direi proprio di sì. Tsipras fa una critica molto forte all’Europa, ma senza dire: sbaracchiamo, usciamo».
Non teme che la sua scelta possa provocare una scissione nel Pd?
«Ah, non lo so. Ma alla mia età non sono proprio capace di starmene tranquillo».
l’Unità 2.3.14
Pressing sul premier. Gentile non può restare
Il caso del sottogretario del Ncd scuote anche il Pd: «Serve un passo indietro»
di Claudia Fusani
«Inopportuna», «sbagliata», «un cedimento ». La nomina di Antonio Gentile a sottosegretario è al centro di forti proteste dal Pd alla Fnsi. L’esponente del Ncd era intervenuto nei giorni scorsi per impedire la pubblicazione dell’«Ora di Calabria».
La più dura di tutti è Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia: «Non si può dire che ci sia stato rigore nelle nomine dei sottosegretari. E questi sono cedimenti che non ci possiamo permettere». Il fatto che scatti l’applauso e che salga da un affollato convegno di Libera contro le mafie dove sono presenti tre ministri del governo e i vertici dell’antimafia, è solo un’imbarazzante conferma che il sottogoverno del governo Renzi non solo non piace perché ci sono «poche donne» (Debora Serracchiani) o perché ha lasciato molti scontenti e delusi.
A mettere pubblicamente il dito nella piaga, dentro il Pd, è il senatore Corradino Mineo. «Ma perché - domanda - fra i tanti in fila per una casacca da sotto segretario, Renzi doveva proprio caricarsi questo Antonio Gentile da Cosenza, già scelto da Berlusconi per sostituire Cosentino dopo i noti guai giudiziari?».
Il riferimento è al caso del senatore calabrese di Ncd, nominato sottosegretario alle Infrastrutture e tirato, a causa del figlio, in un caso gravissimo di censura giornalistica. Peggio: sabotaggio delle rotative. Il Pd calabrese è in disaccordo con il presidente del Consiglio. «È stato un errore grave da parte del Nuovo Centrodestra indicare Antonio Gentile come sottosegretario. Il Pd calabrese non condivide la scelta e chiede sia rivista », dice il segretario Ernesto Magorno. «È un’indicazione - aggiunge - che va nella direzione della conservazione, opposta alla nostra che è quella del cambiamento ». Non s’illuda, poi, il governatore Scopelliti (Ncd) che «questo basti per far cessare la battaglia del Pd contro il malgoverno nella regione».
Palazzo Chigi, da parte sua, allarga le braccia e dice: «Il sottogoverno rispecchia quello che è il Parlamento». Come dire: questo passa il convento, con questo dobbiamo fare. Ma il caso Gentile va oltre il necessario compromesso. E non c’entra essere schizzinosi. Una storia tutta da raccontare. I fatti risalgono al 19 febbraio. Quel giorno il quotidiano regionale l’Ora di Calabria non esce in edicola. La causa è un improvviso guasto tecnico alle rotative. Conviene fissare i nomi dei protagonisti della storia: Luciano Regolo, direttore del quotidiano; Umberto De Rose, stampatore del giornale; Andrea Gentile, avvocato, figlio del senatore Antonio.
Quella mattina, si diceva, il quotidiano non esce. Viene diffusa però, nel pomeriggio, una nota del direttore Luciano Regolo. Che conviene riportare. «Ieri notte - si legge nella nota - si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l’editore (Alfredo Citrigno, ndr)mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l’articolo relativo all’indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d’ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell’ambito del caso Azienda sanitaria provinciale di Cosenza... Ho minacciato all’editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi ».
«Mentre discutevamo di questo, in mia presenza - prosegue - e in viva voce, l’editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come “mediatore” della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che “il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti”. Avendo io ribadito all’editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative». Secondo il direttore dell’Ora della Calabria «è evidente che si è trattata di un’azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l’indagine sul conto di suo figlio».
La procura ha poi convocato il direttore Regolo e l’inchiesta sull’oscuro incidente alla rotativa è in corso. Caso mai ci fossero dubbi sui toni, ieri è stato anche diffuso l’audio della telefonata tra lo stampatore De Rose, presidente di Fincalabria, e l’editore Citrigno.
Occorre anche specificare che il senatore Gentile, attuale sottosegretario alle Infrastrutture nonché coordinatore di Ncd in Calabria, non compare mai in alcuna telefonata. E che «la famiglia Gentile », per conto della quale stava mediando De Rose, può essere anche solo il figlio, Andrea, lui sì indagato a Cosenza in un fascicolo relativo a incarichi concessi dall’Azienda sanitaria locale. Nell’indagine sono coinvolti due avvocati, Alessandro Ventura, legale di Paola, e Andrea Gentile, figlio di Tonino indagati per abuso d’ufficio, falso ideologico, truffa ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. In una più generale contestazione di associazione a delinquere. Il sottosegretario ieri ha minacciato querele e cause civili contro chiunque associ il suo nome ai fatti del quotidiano l'Ora di Calabria. Ma tutto questo è solo diritto di cronaca.
Corriere 2.3.14
Quei nomi inopportuni e i posti lottizzati
di Marco Demarco
Prima ancora di metterli fuori dal governo, come molti già chiedono, Renzi dovrebbe spiegare perché nel governo li ha fatti entrare, seppur come sottosegretari. Perché il calabrese Antonio Gentile, che avrebbe impedito la stampa di un giornale per evitare la pubblicazione di notizie riguardanti il figlio, è finito alle Infrastrutture? E perché Francesca Barracciu, considerata inadatta al ruolo di governatore della Sardegna, ora è alla Cultura?
Prima risposta: perché il Nuovo centrodestra di Alfano ha il suo più grande bacino elettorale nel Mezzogiorno e in modo particolare in Calabria, tra Cosenza e Reggio, dove Gentile è una potenza dal punto di vista della raccolta dei consensi. Seconda risposta: perché il Pd, che alla Barracciu ha chiesto un sacrificio per essere risultata indagata dopo aver vinto le primarie, una ricompensa doveva pur dargliela.
Nomi inopportuni, posti lottizzati: cambiano i sistemi elettorali, si riforma la Costituzione, si mandano in soffitta leader una volta influenti, eppure sul fronte del sottogoverno sembra proprio che il tempo non passi mai. Prima, Seconda o Terza Repubblica: nulla cambia. Tutto si è rottamato (o quasi) tranne il manuale Cencelli, quello che calcolava alla perfezione le quote di potere da distribuire. Ma ora c’è più di una aggravante da considerare. Quando il Cencelli era assai in voga, funzionava il sistema proporzionale e nei partiti c’erano le preferenze, così da poter valutare sia i singoli sia le correnti. Più preferenze raccoglievi, più probabilità avevi di andare al governo, e di rimanerci. Erano criteri a loro modo oggettivi. Ma col passaggio dal Parlamento degli eletti a quello dei nominati, anche questa discutibile oggettività si è persa. Oggi è più ampio il potere discrezionale di chi sceglie e ciò nonostante, o forse proprio per questo, i vizi non sono diventati virtù. Si parla di meritocrazia, ma non sempre se ne intuisce il senso. Si parla anche di etica e di comportamenti: qual è l’esempio che può dare il sottosegretario Gentile, che con la sua telefonata nella notte tra il 18 e 19 febbraio ha fatto di tutto per bloccare le rotative e censurare la notizia del figlio iscritto al registro degli indagati? Particolare curioso. Tra i nuovi viceministri c’è anche chi, come Carlo Calenda, una volta propose di trasformare il Senato in una Camera dei cittadini, utilizzando come criterio di selezione quello che in Grecia spesso utilizzavano anche i contemporanei di Socrate e Platone, quello del sorteggio... Era un tentativo di nobilitare le istituzioni liberandole dai condizionamenti clientelari. Pure esercitazioni. Fantasie di gioventù.
il Fatto 2.3.14
Il direttore censurato
“Qui vince ancora l’impunità”
di Lucio Musolino
La vicenda evoca scenari che sono agghiaccianti per terminologie, sostrati mentali, culturali e sociologici”. Il direttore de L’Ora della Calabria Luciano Regolo commenta così la telefonata, pubblicata ieri sul sito del suo giornale, con cui lo stampatore Umberto De Rose voleva convincere l’editore Alfredo Citrigno a bloccare la notizia sull’inchiesta a carico di Andrea Gentile, figlio del senatore del Nuovo Centro Destra Tonino Gentile, nominato da Renzi sottosegretario alle Infrastrutture.
Direttore, alla fine De Rose aveva ragione. Come funziona la Calabria? Il senatore Tonino Gentile censura i giornali e Renzi lo nomina sottosegretario alle Infrastrutture? Che idea ti sei fatto?
È come se desse più potere a una certa logica di presunta impunità. Renzi si pone come il volto nuovo, vicino alle istanze reali della gente. È questo che ama dire. Quali sono le istanze in una regione in cui un giornale fisicamente viene eliminato in una logica totalitaria? Il solo fatto che un senatore possa essere sospettato di aver contribuito a un’azione del genere è incredibile. Poi viene nominato sottosegretario.
Nell’editoriale di oggi, definisci questa nomina uno schiaffo alla Calabria. Uno schiaffo soprattutto del Partito democratico. Qual è stata la solidarietà che hai ricevuto dal Pd?
Niente. Il Pd è stato silente. Il segretario regionale Ernesto Magorno non si è mai sentito, né con un comunicato né per chiedere chiarimenti. Dopo che noi abbiamo portato a galla questa situazione, ha diffuso una solidarietà generica senza entrare nel merito della nomina. Solo oggi (ieri, ndr), che noi abbiamo pubblicato la telefonata, critica la scelta di Renzi di fare Gentile sottosegretario. Tenga in considerazione che al senatore Ndc è stato affidato un comparto dove il fratello è assessore regionale. E quindi è aumentata l’influenza della famiglia Gentile.
E il presidente della Regione Giuseppe Scopelliti?
Si dice orgoglioso della scelta fatta da Renzi. Mi domando: ma di quali calabresi sta parlando ? Ma questa registrazione l’avete sentita? La Calabria è solo un serbatoio di voti, può succedere che queste oligarchie vengano perpretate. Questo è un fango silenzioso.
La procura di Cosenza ha aperto un fascicolo. È stato interrogato?
Sono stato sentito dai magistrati e ho dato loro quello che era in mio possesso. È una vicenda sconcertante. È una cultura opprimente che ha poco rispetto per la legalità. Mi auguro che questa situazione faccia riflettere in un Paese dove passa nel silenzio che un giornale non vada in stampa. Vorrei che Renzi facesse una bella riflessione su Gentile. Pensi alla mia redazione che vede questa persona giurare come sottosegretario.
il Fatto 2.3.14
Gentile, un uomo da cacciare
I direttori delle principali testate non hanno dubbi
L’esecutivo non può tollerare un sottosegretario come lui
È un’offesa alla libert di stampa
di Marco Lillo
Uno schiaffo alla libertà di stampa: è questo il giudizio unanime sulla nomina a sottosegretario del senatore calabrese NCD Antonio Gentile, dopo che in una telefonata si faceva riferimento proprio alla sua futura ascesa a sottosegretario per intimorire un editore e convincerlo a non pubblicare una notizia sul figlio di Gentile, poi non uscita grazie a un improvviso guasto alla rotativa. I direttori delle maggiori testate italiane, da Ferruccio de Bortoli del Corriere della Sera a Ezio Mauro di Repubblica, da Roberto Napoletano del Sole 24 ore a Mario Calabresi della Stampa, fino a Enrico Mentana del Tg La7, invitano in coro Renzi a rimuovere questa macchia. Non c’è altra strada per mettere una toppa tardiva sullo sconcio: Gentile se ne deve andare. Non si può parlare di rinnovamento e poi nominare sottosegretario alle infrastrutture proprio il politico calabrese coinvolto in un caso di minaccia e censura alla stampa senza precedenti.
EZIO MAURO: Renzi deve pretendere che Ncd ritiri quel personaggio.
FARE del giornalismo libero in Calabria è più complicato che altrove. La telefonata per bloccare l’articolo sgradito va inquadrata nel contesto. Quando si fa riferimento al cinghiale ferito che può ammazzare, quando si dice ‘ma a te chi te lo fa fare’, quando si fa riferimento al potere che Gentile acquisterà diventando sottosegretario, c’è tutta un’aura di intimidazione, di minaccia vera e propria che configura un vero e proprio attacco alla libertà di stampa. Tutto questo per non far pubblicare una notizia, non perchè si dice che la una notizia è falsa o che non sia sia sentita la controparte. Sappiamo poi che il giornale non è uscito per un misterioso guasto. La cosa è gravissima in sé, per il contesto in cui è avvenuto e perchè, dopo, Gentile è stato fatto sottosegretario. C’è stata evidentemente una spartizione di potere. Renzi si è scelto la sua squadra , poi ha aperto i cancelli e ha lasciato che gli altri facessero quello che volevano. Gentile è coordinatore regionale del NCD di Alfano e ha sfruttato la sua posizione per accumulare altro potere. La cosa è particolarmente grave, perchè Renzi ha esaltato le biografie delle persone. Ma nelle biografie ci sono anche i comportamenti, non c’è soltanto l’età. Questo è il “Governo Renzi” davvero. Nel senso che è fortemente caratterizzato dall’impronta del presidente del consiglio e ne porta intera la responsabilità. Quindi Renzi deve attivarsi per pretendere che Alfano ritiri la candidatura di Gentile e che questa persona lasci immediatamente l’incarico. Quello che è avvenuto è già sufficiente.
FERRUCCIO DE BORTOLI: Se quella nomina l’avess e fatta B. sarebbero insorti tutti.
LA NOMINA del sottosegretario Gentile è uno schiaffo a tutto il mondo dei giornali, un pessimo segnale per la Calabria e per l’Italia, un comportamento di estrema gravità e di scarso gusto. Probabilmente chi ha fatto questa scelta considera secondari i ministri e ancora più i sottosegretari ma a mio parere un Governo nella sua interezza si qualifica dalle persone che lo compongono. Se l’avesse fatto Berlusconi sarebbero insorti tutti. Abbiamo agitato il bavaglio per tanto tempo e invece mi pare di capire che esista bavaglio e bavaglio. C’è stata una superficialità grave nelle scelte o una lottizzazione tra i gruppi che sostengono il Governo. Se il tratto qualificante del modo di operare di Renzi è quello di prescindere dalle vecchie regole di lottizzazione credo che costerebbe poca fatica tornare indietro. Anche Alfano dovrebbe fare una riflessione. Ormai pensavamo che fatti come questi appartenesse a un’altra epoca o che fossero pratiche di altri paesi che non hanno la nostra civiltà. Mai mi sarei aspettato una cosa di questo genere. Se questo è il prototipo dell’editoria che ha in mente Matteo Renzi, siamo freschi.
ENRICO MENTANA: Quella delega va ritirata. È un problema di libertà.
MI RIFIUTO di pensare che Renzi sapesse che stava per nominare sottosegretario uno che aveva appena fatto una cosa simile. Voglio pensare che il caso sia frutto della scarsa presenza sul territorio dei partiti e che non fosse informato. La libertà di stampa è un problema di tutti. E’ stato fatto un torto alla comunità che ha diritto di essere informata e solo dopo a una categoria, della quale fanno parte i giornalisti e gli editori. Poi c’è il problema politico di Renzi: il nome di Gentile è stato designato da Alfano che ha il suo punto di forza proprio in Calabria in Scopelliti e in quelli che sono passati con lui lasciando Forza Italia. Però il capo del Governo e il Presidente della Repubblica nelle mani del quale il Governo ha giurato hanno tutto il tempo per sanare l’errore. Dando per scontato il prezzo politico da pagare alla Calabria di Scopelliti e Alfano, esisterà un altro politico di Ncd che non ha dato uno schiaffo all'informazione e quindi a una delle guance della democrazia. Allora aspettiamo tre giorni per giudicare. Da venerdì sera la libera informazione denuncia questo fatto, sta a Renzi sanarlo nell'unico modo possibile: cioè il ritiro della delega.
ROBERTO NAPOLETANO: È una figura screditata Impossibile mediare: vada via.
IL GESTO dello stampatore che dopo tante pressioni non fa uscire il giornale con la notizia sgradita sembra un urlo che viene da un altro mondo. Queste cose in Italia non succedevano da decenni. Ognuno parla con la sua storia e i suoi atti. E i comportamenti di Gentile, che arrivano al punto di arrivare a bloccare la stampa del giornale che si permette di pubblicare la notizia del figlio indagato, sono gravi inquietanti e disarmanti. Intervenire per bloccare la stampa di un giornale è un comportamento al di fuori delle regole fondanti della società civile. Nessuna mediazione politica dovrebbe consentire di venire a patti con figure così screditate. Un progetto politico che si dichiara nuovo viene valutato sulla base della squadra che mette in campo. Di sicuro c'è stata una precisa indicazione politica del NCD che ha in quel territorio una forte presenza ma questo non è un motivo valido perché questa richiesta sia accettata. Se poi è stata accettata senza approfondire la storia della persona penso che Renzi abbia il dovere e l'interesse per farlo velocemente e prendere le decisioni conseguenti.
La Stampa 2.3.14
Felice Casson, senatore Pd
«Anche il vice Costa è incompatibile con la nostra linea»
di A. Pit.
C’è il sottosegretario Gentile a creare tensioni, ma ci sono pure i nodi della giustizia a generare allarme al Nazareno. Insomma, sia il riconfermato sottosegretario Cosimo Maria Ferri che il neoviceministro Enrico Costa, dentro al Pd hanno creato più di qualche mal di pancia. Per questa ragione Felice Casson parla chiaramente di «binari opposti». Perché sulla giustizia, «noi del Pd siamo una cosa, quelli del Nuovo centrodestra un’altra».
Dunque posizioni inconciliabili?
«Le critiche su Ferri le conosciamo e le conoscevamo anche prima».
Quanto alla nomina di Costa?
«Contraddittoria, perché segnala un compromesso sulla giustizia con il Nuovo centrodestra. E io lo avevo detto chiaramente nel mio intervento al Senato: sulla giustizia siamo all’opposto rispetto a loro. Abbiamo visioni diverse e Costa rappresenta il nostro opposto».
E adesso?
«C’è una contraddizione all’interno del ministero della giustizia sulla quale il ministro Orlando, in prima battuta, ma anche il presidente del Consiglio dovranno stare molto attenti».
Poi ci sono pure gli inquisiti...
«Renzi tiene molto all’immagine e questa è una brutta scivolata. A livello di governo non dobbiamo presentare persone che hanno a che fare con la giustizia».
La frittata ormai è fatta, non trova?
«Queste persone possono benissimo fare un passo a lato e aspettare di risolvere i loro problemi giudiziari. Lasciamo da parte i vincoli giuridici, direi che è una questione di immagine nuova che il Pd deve dare: pulizia e trasparenza».
Corriere 2.3.14
Barracciu: io indagata? Il mio partito è garantista «Il codice etico del Pd non esclude che in questi casi ci si possa candidare Io ho esperienza e titoli adeguati»
intervista di Daria Gorodisky
ROMA — Francesca Barracciu, subentrata poco più di un anno fa per il Pd al Parlamento europeo quando Rosario Crocetta è diventato presidente della Regione Sicilia, racconta che sapeva in anticipo che «c’era la possibilità di diventare sottosegretario». Così l’altro ieri mattina aspettava serenamente, «perché poteva succedere o non succedere».
È successo che ha avuto la Cultura. E si parla di un risarcimento per aver rinunciato — dopo un avviso di garanzia per peculato — a correre come presidente della Regione sarda. Nell’inchiesta «spese pazze» le è stato contestato l’uso di 33 mila euro durante il mandato da consigliera regionale nel triennio 2006-2008; lei dice che si è trattato di rimborsi chilometrici «come da tabella Aci», spostamenti in auto «per attività politico-istituzionali».
«Risarcimento è un’espressione che proprio non mi piace. Io ho esperienza politica e istituzionale, titoli di studio adeguatissimi e resistenza al lavoro molto alta. Ho iniziato a fare la gavetta a 28 anni, mi sono conquistata tutto senza fare sgambetti né ricevere regali. Alle ultime Europee ho avuto 117 mila preferenze, un risultato storico per la Sardegna».
Chi l’aveva informata della possibilità di un incarico di governo?
«Moltissimi compagni di partito speravano che accadesse».
Avrà avuto contatti con Renzi, no?
«Sì, ho avuto qualche contatto con la segreteria nazionale e sapevo che poteva esistere una possibilità del genere».
A dicembre lei era la candidata del Pd per la presidenza della Sardegna e, anche dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia, dichiarava «non farò alcun passo indietro». Poi, invece, lo ha fatto.
«Renzi non mi ha mai chiesto di rinunciare alla candidatura, quindi non c’è stata alcuna trattativa su una contropartita. L’ho fatto perché metà del Pd sardo mi diceva che ero indebolita politicamente e che questo avrebbe potuto causare una sconfitta. E anche alcuni alleati mi dicevano che, in caso di futura condanna, sarebbe decaduto tutto il Consiglio. Quindi ho deciso di ritirarmi. Matteo Renzi mi ha riconosciuto responsabilità e generosità per questo».
Si è chiusa una porta, ma poi si è spalancato un portone. Quando ha ricevuto l’avviso di garanzia non ha pensato che fosse opportuno ritirarsi?
«Il Pd è un partito garantista, il suo codice etico non esclude che ci si possa candidare in caso di avviso di garanzia. Neppure per rinvio a giudizio. Inoltre, il 22 dicembre i sondaggi, che conservo, mi davano due punti avanti a Cappellacci. E poi, quando abbiamo fatto le primarie che ho vinto, io non avevo nessun avviso di garanzia mentre il mio avversario Gianfranco Ganau ne aveva uno e anche un rinvio a giudizio. Però nessuno ha fatto il cancan che dopo hanno organizzato su di me».
Perché? Come se lo spiega?
«…Un mistero della fede…».
Dicono che questa sua nomina sia anche servita a bypassare la sua richiesta dell’assessorato alla Sanità nella nuova giunta regionale sarda. Una cosa che avrebbe creato imbarazzi al nuovo presidente, Francesco Pìgliaru.
«Non ho mai chiesto alcun assessorato. Non credo neppure che sarebbe opportuno un mio ingresso in Giunta, sarei potuta essere una presenza ingombrante».
Conosce Renzi da molto tempo?
«No, solo dalle ultime primarie del partito. E ho pensato subito che avrebbe potuto rappresentare la svolta per il Pd e per il Paese».
Non crede che, in un clima di crisi e risparmi, i sottosegretari nominati siano troppi?
«Una squadra è grande o piccola a seconda di quanto produce. Lavoreremo con i ritmi dettati dal presidente del Consiglio e risparmieremo il tempo».
Pochissime donne in questa squadra.
«Credo che, in questo caso, abbia giocato il tasso di conservazione dei partiti».
Il suo primo obiettivo concreto?
«Cagliari capitale della cultura: per il bene della Sardegna e di tutto il Paese».
Si è subito dimessa da europarlamentare?
«Devo sistemare alcune cose, lo farò in tempi brevi».
Corriere 2.3.14
Firenze
Niente posto nell’esecutivo, le mosse di Giani
Qualcuno, su Twitter, ha già cominciato a far circolare l’hashtag #Eugeniostaisereno. Ma Eugenio Giani, raccontano, è invece «profondamente amareggiato». Presidente del consiglio comunale fiorentino e consigliere regionale, è tra i grandi esclusi dalla lista dei viceministri e sottosegretari, dopo che per giorni si è parlato della sua probabile coinvolgimento nella squadra di Matteo Renzi. Convocazione che avrebbe risolto una grana non da poco per la successione a Palazzo Vecchio. Per percorrere la strada che porta a Roma, infatti, Giani avrebbe fatto un passo indietro nella corsa a sindaco di Firenze, a cui era interessato. Anzi, era il sogno di una vita. Ma la scelta del segretario pd per la successione in Comune è caduta su Dario Nardella. «Eugenio, è una questione generazionale. Hai 55 anni e a me la tua esperienza farebbe comodo a Roma…», gli avrebbe detto Renzi — come riportato dal Corriere Fiorentino — a margine del suo ultimo consiglio comunale da sindaco, il 17 febbraio. E si è cominciato a parlare dell’«accordo» per evitare una spaccatura del fronte renziano alle primarie. Quel giorno, mentre Renzi dava l’addio al consiglio, dietro di lui il presidente dell’assemblea era scuro in volto. A dispetto dell’invito a «stare sereno», ha avviato i contatti per avere rassicurazioni. E i suoi timori sono poi diventati realtà: venerdì il suo non compariva tra i nomi della squadra. Per lui, presidente provinciale del Coni, si continua a parlare di un possibile incarico da consigliere di Palazzo Chigi per lo Sport. Ma anche se l’offerta dovesse arrivare, non è detto che Giani accetti: tra i suoi amici, c’è chi dice che si sente tradito nell’orgoglio, chi parla di lacrime e singhiozzi. Così come non è scontato che non si rimetta in pista per le Comunali. Venerdì sera i candidati del Pd alle primarie fiorentine hanno presentato i programmi. Giani non c’era. Oltre a Nardella, erano lì il civatiano Iacopo Ghelli e Alessandro Lo Presti (sinistra pd). Ma per candidarsi alle primarie del 23 marzo c’è tempo fino a martedì. E da due giorni il nome del grande escluso ha ripreso a circolare: il recordman di preferenze (oltre 1.600 all’ultimo giro) sarebbe una grana per i piani di Renzi e per Nardella.
il Fatto 2.3.14
Tasi-Chiesa L’esenzione falsa e quella vera
L’equivoco, quello che la stampa ha definito “caos sugli immobili della Chiesa”, nasce per caso e vive solo sui giornali. Ieri il governo aumenta l’aliquota Tasi e nel comunicato finale scrive: “Sono esentati dal versamento della Tasi i fabbricati della Chiesa indicati nei Patti Lateranensi”. L’esecutivo è più realista dell’ex re di Roma: non c’è alcun bisogno di chiarire la cosa, visto che quei 25 palazzi secondo il Concordato godono della extraterritorialità e sono “esenti da tributi” di qualunque genere. Così s’innesca l’equivoco che porta all’immaginario “caos” sul patrimonio immobiliare della Chiesa. Qualcuno traduce addirittura “esenti dalla Tasi solo 25 immobili”, mentre tutti gli altri pagheranno. Niente di tutto questo, ovviamente: l’esenzione sui 25 immobili concordatari è un fatto scontato, mentre non c’è equivoco sul fatto che i normali immobili degli enti ecclesiastici - come denunciato più volte dal Fatto Quotidiano - continuino a non pagare le tasse sulla casa anche quando generano profitti: l’anno scorso per dire - nonostante esista una fumosa legge in materia - il Tesoro si è dimenticato di fare i relativi moduli di pagamento. Fremono per pagare, i religiosi, ma non possono.
il Fatto 2.3.14
Classe dirigente
Gli incompetenti al governo ministero per ministero
di Marco Palombi e Carlo Tecce
Il Renzi I è quello che è: un governo raffazzonato, nato in laboratorio sul metro della forza politica e dei ricatti incrociati anziché sulla competenza e una visione politica. Se dalle petizioni di principio si passa alle facce, la fotografia è la pagina che vedete. Ecco a voi l’esecutivo dei dilettanti (e a volte peggio).
RIFORME
Maria Elena Boschi, ministro, laurea in Giurisprudenza, fedelissima di Renzi, deputata da neanche un anno.
Ivan Scalfarotto (foto), sottosegretario, già bancario nella City, attivista gay, debutta sulla scena politica nel lontano 1996 come “deluso dell’Ulivo”.
SEMPLIFICAZIONE E P.A.
Marianna Madia (foto) ministro , laurea in Scienze politiche, dottorato in Economia, ha lavorato all’Arel di Enrico Letta. A dicembre , dovendo discutere la riforma del lavoro, sbagliò ministero e andò da Flavio Zanonato, che stava allo Sviluppo.
AFFARI REGIONALI
Maria Carmela Lanzetta, 59 anni, farmacista, dal 2006 al 2013 sindaco antimafia a Monasterace (Reggio Calabria). Gianclaudio Bressa (foto), 58 anni da Belluno, maturità classica, in politica da sempre, da parlamentare s’è sempre occupato di Affari costituzionali.
ESTERI
Benedetto Della Vedova, classe 1962, già radicale poi Pdl oggi Monti, economista liberista, sottosegretario.
INTERNO
Filippo Bubbico (foto) 60 anni, viceministro riconfermato: laurea in Architettura nel 1979, in politica dal 1980.
Gianpiero Bocci , 51 anni, sottosegretario, laurea in Scienze politiche, sindaco Dc del suo paese, in Umbria, a 22 anni, in regione e in Parlamento s’è quasi sempre occupato di agricoltura.
GIUSTIZIA
Andrea Orlando, 45 anni di La Spezia, è il nuovo Guardasigilli: fin giovanissimo funzionario del Pci, nel 2009 Pier Luigi Bersani lo nominò responsabile Giustizia del Pd. Con Letta era ministro dell’Ambiente.
DIFESA
Gioacchino Alfano (foto) classe ’63, campano, commercialista, consulente tecnico al tribunale di Torre Annunziata, curatore fallimentare . È alfaniano.
SVILUPPO
Federica Guidi, ministro, ex presidente dei giovani di Confindustria, figlia di Guidalberto, proprietario di Ducati Energia, azienda che lavora per diverse società partecipate dallo Stato. Silvio Berlusconi ha più volte cercato di coinvolgerla nell’attività politica di Forza Italia.
Simona Vicari, sottosegretario, architetto di professione, amica intima di Renato Schifani, risulta tra i politici ospiti nei villaggi vacanze di Valtur.
Antonello Giacomelli (foto) sottosegretario , ex direttore di Canale 10, un’emittente locale, in Parlamento s’è occupato prima di Difesa e poi di Finanza, adesso avrà la delega per le Comunicazioni. Franceschiniano di ferro, amato dai giornalisti.
TRASPORTI
Maurizio Lupi, ministro, esponente di Cl, laureato in Scienze politiche. Ha scritto La prima politica è vivere per Mondadori. Riccardo Nencini (foto), viceministro , ultimo dei socialisti, appassionato di ciclismo, per 3 anni assessore al Bilancio toscano.
Umberto Del Basso De Caro, sottosegretario, avvocato penalista. Antonio Gentile, sottosegretario, impiegato, giornalista pubblicista.
AGRICOLTURA
Andrea Olivero (foto), viceministro, laureato in Lettere classiche e insegnante liceale a Cuneo, ex presidente delle Acli.
Giuseppe Castiglione, sottosegretario, ex presidente dell’Unione delle province italiane, laurea in Giurisprudenza, giornalista pubblicista.
AMBIENTE
Gianluca Galletti (foto), ministro , ex sottosegretario all’Istruzione, è un fautore del nucleare.
Silvia Velo, sottosegretario, laureata in Chimica e Tecnologie farmaceutiche, già vicepresidente della commissione Trasporti a Montecitorio.
Barbara Degani, sottosegretario, presidente della Provincia di Padova, esperienze amministrative in Affari istituzionali, Enti locali e Bilancio.
SANITÀ
Beatrice Lorenzin, ministro, diploma classico, lavorò con Paolo Bonaiuti a Palazzo Chigi durante il governo Berlusconi..
LAVORO
Franca Biondelli, viceministro, operatore sanitario, ex sindacalista Cisl a Novara responsabile per enti locali e sanità.
Massimo Cassano (foto), sottosegretario, imprenditore e commercialista.
ISTRUZIONE
Roberto Reggi, sottosegretario, ingegnere elettronico, ex sindaco di Piacenza, responsabile per le primarie di Matteo Renzi nel 2012 contro Bersani
Angela D’Onghia, sottosegretario, imprenditrice nel settore dell'abbigliamento, già presidente di Confindustria a Bari, settore moda.
Gabriele Toccafondi (foto), sottosegretario , esponente di Cl, s’è battuto per la difesa delle scuole private parificate a Bologna e contro l’estensione dell’Imu alla Chiesa.
CULTURA
Dario Franceschini, ministro, romanziere. Francesca Barracciu (foto), sottosegretario , laureata in Filosofia e Pedagogia, insegnante di Lettere, europarlamentare.
Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario, imprenditrice, già presidente del Fondo Ambiente italiano. Ha contribuito alla campagna elettorale di Scelta Civica con una donazione di 710.000 euro.
il Fatto 2.3.14
B. va all’incasso: “Cambia la giustizia”
Il Caimano, ottenuto un premier amico, attacca i giudici
Il legale: rivedere il processo Mediaset
di Antonella Mascali
Silvio Berlusconi rispolvera il suo cavallo di battaglia: la presunta persecuzione da parte dei magistrati, ringalluzzito, forse, dai nuovi sottosegretari alla giustizia, non certo a lui ostili: Enrico Costa e Cosimo Ferri.
Ieri, durante una telefonata a un circolo di Forza Italia di Trecate, ha parlato della condanna per frode fiscale nel processo Mediaset: “Sono stato condannato con una sentenza mostruosa e inverosimile, quella della giustizia è la riforma delle riforme perché nessuno di noi con una magistratura irresponsabile, incontrollata e incontrollabile, può sentirsi al sicuro”. Poi se l’è presa ancora una volta con la Corte costituzionale, rea di aver bocciato tutti i “lodi” che dovevano congelare i suoi processi quando era premier: “La Corte costituzionale non è un organo di garanzia sopra le parti, ma è un organismo della sinistra perché gli ultimi tre presidenti della Repubblica di sinistra hanno nominato i loro amici di sinistra”. Sempre ieri, uno degli avvocati di Berlusconi, il professor Franco Coppi, ha parlato di una possibile richiesta di revisione del processo Mediaset: “È ancora in programma, si sta raccogliendo il materiale”, ha detto all’Ansa. L’ex premier è stato condannato a 4 anni di pena (3 indultati) e a due anni di interdizione dai pubblici uffici. Quest’ultima, pena accessoria, dovrà essere discussa in Cassazione il 18 marzo, mentre il 10 aprile comincerà l’udienza del tribunale del Riesame a Milano che deve decidere se accogliere o meno la richiesta di Berlusconi di scontare l’anno di pena principale in affidamento ai servizi sociali.
DI REVISIONE aveva parlato già Berlusconi. In una conferenza stampa, nel novembre scorso, aveva sventolato una serie di presunte prove a suo favore, prima nell’elenco la testimonianza di tale Dominique Appleby, già smentita da documenti processuali.
Nella stessa giornata in cui il leader di Forza Italia torna ad attaccare la magistratura, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, durante una riunione di giunta ha anticipato le richieste che l’associazione delle toghe presenterà giovedì al ministro della Giustizia Andrea Orlando. “Chiediamo al governo di affrontare i veri problemi della giustizia, della corruzione e della criminalità diffusa”, ha detto Sabelli che è tornato a chiedere di “rottamare” la riforma berlusconiana del 2002 che ha svuotato i reati societari e il falso in bilancio, e di introdurre il reato di autoriciclaggio. In merito alle difficoltà nell’organizzazione del lavoro e al conseguente forte rallentamento dei processi, il presidente dell’Anm ha ricordato che “da 17 anni non vengono banditi concorsi per personale amministrativo. Negli anni ‘90 c’erano 52 mila dipendenti a fronte di 7.500 magistrati, oggi sono 36.400 con 9 mila magistrati. Per questo la magistratura non è più in grado di assicurare la presenza in aula dei cancellieri, né l'esecuzione delle sentenze, per non dire della magistratura di sorveglianza che con il decreto carceri ha visto aumentare il carico di lavoro del 100 per cento”. Sabelli ha poi denunciato che in commissione Giustizia del Senato “procede l’esame in silenzio, senza che l’Anm né altri siano stati chiamati a esprimere il proprio parere” su alcuni disegni di legge in tema di responsabilità civile diretta dei magistrati e paventa un pericolo: si rischia di trasformare il giudice in “burocrate, con l’ossessione dei ritardi, sotto minaccia di sanzioni disciplinari e della responsabilità civile diretta”.
il Fatto 2.3.14
Il “lampadina”
Chi è Luca Lotti, evangelista renziano
di Marco Palombi
Tra qualche anno, se il turbo-premier manterrà le sue promesse, su parecchi libri di storia si potrà leggere che tutto cominciò alla fiera della ceramica di Monte-lupo, comune - ovviamente ridente - a una trentina di chilometri da Firenze. È a causa di questo innocuo evento commerciale, infatti, che il volenteroso e ambiziosissimo Matteo Renzi ha trovato il suo Richelieu o, come più modestamente si dice oggi, il suo Gianni Letta.
CI SI RIFERISCE a Luca Lotti, 31enne da Montelupo, appunto. Quando tutto comincia - siamo alla fine del 2005 - è un giovanissimo consigliere comunale della Margherita a cui capita di essere presentato all’altrettanto giovane presidente della provincia di Firenze, giunto sul posto per dare un’occhiata alla famosa fiera. Lotti accompagna Renzi sul posto con la sua Golf: leggenda vuole che lungo il tragitto ascoltino l’immortale Champagne di Peppino Di Capri. Una settimana dopo Luca lavora per Matteo in provincia e da allora i due non si sono più lasciati: capo di gabinetto al Comune di Firenze (ora è in aspettativa), plenipotenziario del sindaco per la trattativa sulle liste alle ultime politiche, deputato e unico renziano nella segreteria del Pd, infine sottosegretario a palazzo Chigi con delega all’editoria (un tema che, va detto, gli è completamente estraneo).
Si spera che al governo faccia meglio che da deputato: in un anno zero proposte di legge come primo firmatario, un’interrogazione e un solo intervento in aula (per commemorare Giorgio La Pira). Lotti, infatti, sposato e padre dal marzo scorso, è cattolico ed ex scout proprio come il suo capo e come lui ama il calcio: centrale difensivo in proprio, è stato allenatore di una squadra di bambini, ma tifa Milan e non Fiorentina. Fin dalla scuola lo chiamano “Lampadina” o “Sparaluce” per via della chioma bionda e riccia, soprannomi che ancora conserva, ma Renzi lo chiama “fratello”. Riservato, come si addice a un Gianni Letta, anche se al di fuori degli addetti ai lavori nessuno lo conosce. Lotti è il personaggio centrale del renzismo politico e pure l’uomo che ha portato in dote al premier in giubbotto di pelle il corpaccione stanco del Pd.
INIZIALMENTE, s’intende alle primarie 2012 contro Bersani, Renzi aveva affidato il compito di domare la bestia a Maurizio Reggi, ma quello s’era fatto fregare sulle regole e allora il buon Matteo ha mandato a Roma il suo personale “sottosegretario alle grane”. Lotti, appunto. L’unico autorizzato a propagandare il Vangelo secondo Matteo: tutti gli altri sono apocrifi e lo sanno, tanto che chiedono a lui lumi su cosa dire e fare per non trovarsi involontariamente “fuori linea” (posizione pericolosissima nell’universo renziano).
Lo specifico dell’evangelista Luca, però, è la politique politicienne, per così dire. È stato Lotti a gestire, ad esempio, il passaggio sotto l’egida del rottamatore dei bersaniani sul territorio in cerca di nuovo padrone. Ancora lui a traghettare informalmente un bel pezzo dei gruppi parlamentari nell’orbita renziana. Sempre lui, durante le primarie per la segreteria di dicembre, a portare in dote al cavallo vincente un bel pezzo di arnesi della politica vecchi e nuovi. È noto, per dire, il suo rapporto con Antonio Decaro, deputato pugliese che è il figlioccio politico dell’ex assessore regionale e senatore Alberto Tedesco, quello dello scandalo Sanità in Puglia, che lo impose come assessore a Bari e poi gli regalò la pioggia di preferenze che nel 2010 lo rese il consigliere regionale più votato. Non solo. Anche tralasciando i Loiero o i De Luca, nelle recenti elezioni in Sardegna ha garantito il posto a tre indagati irrinunciabili, non solo il renziano Gavino Manca, ma anche a Marco Espa e Franco Sabatini. Nel frattempo ha tranquillizzato Francesca Barracciu, vincitrice delle primarie che aveva dovuto rinunciare alla candidatura proprio perché indagata: ora è sottosegretario.
il Fatto 2.3.14
Lecca Renzi
Silvio Renzi, l’eroe di Segrate
MATTEO RENZI è solo incidentalmente il segretario del Pd. In realtà, almeno a leggere la stampa arcoriana, è il Doppelgänger di Silvio Berlusconi piazzato sagacemente a capo del partito avversario per marcare nel nome del Cavaliere anche il prossimo ventennio. Il settimanale d’informazione di punta della Mondadori, vale a dire Chi di Antonio Signorini, ormai procede diritto verso la beatificazione. Non era bastata “l’intervista esclusiva” a Giovanni Sassolini, ex parroco del giovanissimo Matteo, che garantiva a verbale che il neo premier “già da piccolo aveva la stoffa del leader”. No, questa settimana Chi piazza in prima pagina due foto gemelle di Renzi e Berlusconi col titolo immaginifico “mai così vicini”. Seguono laudi medievali all’interno. Non di solo Signorini vive Silvio Renzi. Pure il buon Alessandro Sallusti ha voluto dire la sua definendolo “il nostro Gorbaciov” sul Giornale di famiglia. A Panorama invece, dove sono indipendenti, hanno fatto una copertina su Renzi tipo “Pierino il fichissimo”. Una critica? Per carità, scrive il direttore Giorgio Mulè: “Un monito”. Mai così vicini.
il Fatto 2.3.14
Aereoporto di Firenze
Carrai, il factotum di Renzi fa affari con il faccendiere
L’acquirente, da anni legato alla destra italiana, è sotto processo per il crac di Volare e cercò di forzare Bernabè a cedere Telecom Argentina
di Giorgio Meletti
Chi si aspettava dal regime renziano la rottamazione degli intrecci più opachi tra politica e affari, si rassegni a una paziente attesa. Le solite compagnie di giro continuano a tessere le loro trame come prima, e trovano tra gli amici di Matteo Renzi le loro sponde. “Entusiasmo e soddisfazione” ha manifestato il vicesindaco di Firenze Dario Nardella (storico braccio destro del premier) per l'acquisto del 34 per cento della Adf (Aeroporto di Firenze, società presieduta da Marco Carrai, altro fedelissimo del capo) da parte dell'ottantenne imprenditore argentino Eduardo Eurnekian. La sua Corporacion America ha pagato 40 milioni al fondo F2i guidato da Vito Gamberale, e adesso si prepara all'offerta pubblica di acquisto su tutto il capitale, per un investimento totale di 120 milioni, che andranno agli attuali azionisti e non alle strutture aeroportuali. Le ragioni di tanta gioia da parte di Nardella e Carrai (e Renzi) si scorgono con fatica. Mentre balzano all'occhio diverse stranezze.
LA PRIMA è la palese sponsorizzazione di Eurnekian da parte di Vito Riggio, da oltre dieci anni inamovibile padre-padrone dell'Enac, l'ente di controllo sull'aviazione civile. L'Enac sta agli aeroporti come la Banca d'Italia alle banche. Basta dire che una pista è troppo corta o troppo vicina alle case e l'aeroporto è morto. Riggio si comporta da regista del sistema, promuovendo gli investitori: “Questo è un gruppo vero, che sa gestire aeroporti in maniera manageriale”, ha detto già tre anni fa di Eurnekian. Fatto sta che (seconda stranezza) nessuno dice perché Gamberale, impegnato da anni nella costruzione di un polo aeroportuale, ha venduto le azioni dello scalo di Peretola. Ma autorevoli testimoni parlano di pressioni molto forti per dare spazio all'amico argentino e convincere Gamberale ad accettare la spartizione del mercato.
La terza stranezza, di cui sicuramente si occuperà la Consob, è che le azioni Adf, dopo anni di stasi attorno ai 9,5 euro, due mesi prima dell'annuncio dell'affare hanno cominciato a volare in Borsa, crescendo repentinamente del 20 per cento. Qualcuno evidentemente ha saputo e si è arricchito. Ma questo sarebbe il meno, per così dire. Benché il plenipotenziario in Italia di Eurnekian sia un noto e ben collegato ingegnere fiorentino come Roberto Naldi, Carrai e Nardella sembrano ignorare con chi hanno a che fare. Eurnekian è il perno attorno a cui ruota una giostra di affari e relazioni talmente vorticosa doverla guardare alla moviola.
EURNEKIAN è in questi mesi a processo a Vicenza, con altri dieci imputati tra cui Naldi stesso, per la bancarotta della compagnia aerea Volare, di cui era azionista. Si è sempre dichiarato parte lesa, ma i pm sostengono che, dopo il fallimento, il commissario (oggi defunto), Eurnekian e Naldi “avrebbero dato vita a un accordo corruttivo finalizzato a favorire Alitalia nell'acquisto rispetto ad altre pretendenti”. Quando Eurnekian si presenta davanti ai magistrati il legale che lo accompagna è Giuseppe Bonomi. Sì, proprio lui, l'ex parlamentare leghista, poi presidente della Sea (aeroporti milanesi di Linate e Malpensa), poi presidente dell'Alitalia, poi di nuovo alla Sea e oggi, indovinate un po’, consulente del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi per il settore aeroportuale.
Eurnekian ha in Italia un sacco di amici. È rimasta celebre la grigliata di carne argentina nella villa del suo socio Ernesto Gutierrez, cui partecipò l'allora presidente della commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera Mario Valducci, berlusconiano della prima ora, oggi piazzato alla Authority per i trasporti. Era il 2009 ed Eurnekian puntava al controllo di Telecom Argentina: lo spalleggiava il governo di Buenos Aires, lo spalleggiavano gli amici politici italiani, gli chiuse la porta in faccia il numero uno di Telecom Italia, Franco Bernabè, che disse no alla vendita e spiegò alla Procura di Roma i suoi sospetti: “Abbiamo ricevuto pressioni per cedere quella partecipazione, in particolare al gruppo Eurnekian-Gutierrez. La vicenda è stata effettivamente strana”.
Per Eurnekian la voglia di aeroporti italiani è antica. Nel 1998 con il presidente della Sea Bo-nomi, suo futuro avvocato, fece l'accordo per un investimento comune su alcuni aeroporti argentini. In breve tempo, con un'acrobazia poi oggetto di durissime controversie, Eurnekian è riuscito a prendere il controllo del Consorzio Argentina 2000, lasciando alla Sea l’onere di mettere i soldi senza l'onore di comandare. Il successore di Bono-mi, l'ex presidente della Confindustria Giorgio Fossa, mandò un dirigente della Sea in Argentina per sciogliere l’aggrovigliata matassa: era Roberto Naldi, oggi rappresentante di Eurnekian in Italia. Sulla scorta delle investigazioni di Naldi, Fossa comunicò al sindaco di Milano Gabriele Albertini (azionista di controllo della Sea) che non c'erano gli estremi per un'azione di responsabilità contro Bonomi. Oggi Fossa è imputato insieme a Eurnekian e Naldi nel processo di Vicenza per la bancarotta della Volare.
IN SEGUITO Eurnekian ha cominciato ad ambire agli aeroporti italiani. Nel 2005 voleva la Sea, poi ha puntato a Comiso, a Genova, ad Ancona-Falconara, a Bologna, a Palermo. Ci ha provato con Il Barajas di Barcellona, e con gli aeroporti portoghesi. Gli hanno sempre chiuso la porta in faccia. Alla fine ha preso da privati il 23 per cento dell’aeroporto di Pisa e da F2i il 34 per cento di Firenze. I due scali sarebbero destinati alla fusione ma adesso la cosa si complica con la rivolta di Pisa. Dalla città di Enrico Letta il deputato ex sindaco Paolo Fontanelli e il sindaco ex deputato Marco Filippeschi si sono già detti pronti a bloccare la holding unica di cui si parla da tempo. I due scali sono divisi da un’aspra rivalità, e sotto la torre pendente cominciano a temere che quando Renzi dice che gli secca andare a prendere l’aereo a Pisa non sia solo una battuta. Vai a vedere che l’opaca trama di Eurnekian e dei suoi sponsor politici magari si arena in una guerra di campanile, a casa Letta.
il Fatto 2.3.14
L’ex sindaco Massimo Cacciari
“Renzi il demagogo si è fatto un governo al suo servizio”
intervista di Silvia Truzzi
Un secondo dopo il “pronto”, il professor Massimo Cacciari mette immediatamente in chiaro una cosa: “Questo è il governo Renzi. La differenza con il precedente è che il presidente della Repubblica non è il sommo protettore: non si può più parlare di un governo del presidente, come nel caso di Letta”.
Infatti parliamo del governo Renzi. Alcuni nomi stanno provocando imbarazzi non di poco conto.
I nomi contano relativamente. Una volta che la scelta non è caduta su un esecutivo politico, che cosa poteva inventarsi? Quello che passa la politica oggi in Italia è quella cosa lì. Mica c’è altro. Mi pare che tra ministri e sottosegretari sia riuscito ad accontentare tutti: ha formato un governo che dovrebbe rassicurarlo molto, sia perché c’è solo lui in grado di decidere sia perché intorno a sé ha sostanzialmente mezze figure, nessuna delle quali è in grado di fargli resistenza. Mi pare che sia sistemato bene.
Il ministro Guidi è stata attaccata per il conflitto
d’interessi con l’azienda di famiglia. E non è l’unico caso.
È palese che c’è un conflitto d’interessi! Ma mi sembra che su questo tema non ci sia nessuna intenzione di fare una legge seria, né mi sembra che Renzi abbia mai sollevato la questione come una sua priorità. È più onesto di altri, in questo. Diciamo che coerentemente non ha tenuto conto del problema nella composizione del governo. D’altra parte sono vent’anni che se ne parla, non è mai stato fatto nulla.
Anche l’affaire Gentile, il sottosegretario alle Infrastrutture, sta creando problemi, per via della mancata uscita de L’Ora della Calabria che dava notizia del coinvolgimento del figlio di Gentile in un’inchiesta giudiziaria.
Qualche prezzo per avere il centrodestra alleato Renzi l’ha dovuto pagare. Così come ha dovuto fare mosse verso Berlusconi nella formazione del governo per poter fare la riforma elettorale con Forza Italia. Alcuni compromessi deve averli fatti. Però nel complesso, ripeto, si tratta di un governo politico di basso profilo. O attingeva ai Settis, ai Boeri, oppure doveva arrangiarsi con quel che passava il convento. Ma poi: cosa se ne faceva Renzi di persone difficilmente gestibili? Così ha un esecutivo “al suo servizio”. È nel suo carattere, nel suo stile. Nella scelta dei sottosegretari mi pare abbia accontentato tutte le correnti del Pd, a parte forse i civatiani: astuto. L’uomo sta dando prova di capacità, dal punto di vista del palazzo. Se avrà anche capacità di governo, lo vedremo. Come animale politico però non scherza.
Lei si fida del presidente del Consiglio?
Non è questo il tema. Io mi limito a osservare e devo dire che costui è una novità: per capacità di decisione, per ambizione, per spregiudicatezza. Dove ci porterà, ora non lo sa nessuno. Ma non ha senso fargli le pulci sulle questioncelle della composizione del governo. Sono dettagli, sia rispetto alla novità sia rispetto alle prospettive che sono anche inquietanti.
Cioè?
Penso al discorso al Senato, allo stile, al linguaggio, anche all’indifferenza verso ogni ordine logico. C’è una confusione mentale inenarrabile, per esempio nei passaggi sull’edilizia scolastica e sugli Stati Uniti d’Europa. Ha una grande capacità comunicativa, dice cose che tutti intendono. Renzi però ha un governo a sua immagine e somiglianza, un partito a sua immagine e somiglianza, alleati che devono stare con lui volenti o nolenti, addirittura avversari come Berlusconi che non hanno, ora come ora, altre convenienze: bisognerà vedere se in questa situazione sarà in grado di affrontare alcuni nodi reali della politica italiana.
A Servizio Pubblico lei ebbe un confronto piuttosto acceso sul salario di cittadinanza con Marianna Madia, che oggi è ministro alla Semplificazione e alla Pubblica amministrazione.
Il salario di cittadinanza fa parte di tutte le cose che ha detto Renzi per le quali non è affatto chiaro quale sia la copertura economica: spero che stia lavorando per individuare come trovare le risorse per realizzare il 10 per cento di tutto ciò che ha raccontato. Speriamo che ci riesca, me lo auguro. Io non sono contrario all’idea del salario di cittadinanza, il problema è come si può fare oltre la demagogia. Questa è la domanda che si deve fare a ogni demagogo. E Renzi lo è tecnicamente, cioè nel senso di uno che intende condurre il popolo e assumersene tutte le responsabilità. Lo stile è quello, non c’è nulla di spregiativo.
L’altro tema della settimana è l’espulsione dei quattro senatori grillini e la fuoriuscita di altri sette parlamentari dal Movimento: che ne pensa?
In un movimento – ma vale in gran parte anche per il Pd – necessariamente emerge il capo. È inevitabile quel che sta accadendo tra i grillini: chi non segue il capo viene cacciato o se ne va. Grillo è molto logico nei suoi comportamenti. La sua strategia è attendere il cadavere del nemico: se si confonde anche minimamente con il nemico, alla fine il cadavere sarà anche il suo.
il Fatto 2.3.14
Un governo senza politica è come quel treno in bilico
di Furio Colombo
L’immagine che voglio evocare è questa: il locomotore deragliato del treno Genova-Marsiglia con una inclinazione pericolosa e i vagoni ancora agganciati, i passeggeri salvi per miracolo, la scoperta che questa essenziale linea internazionale ha un solo binario. L’immagine mi serve in due modi. Il primo: perché non lavorare qui, subito, invece che in Val di Susa, liberandoci dall’immagine umiliante e dal pericolo incombente del binario unico per viaggiare da Genova a Marsiglia? Il secondo. Che cosa direste di qualcuno che, a locomotore ancora pendente, fosse arrivato di corsa dalle stanze del governo con la proposta affannata di riorganizzare, intanto, l’intero sistema ferroviario italiano, prima di toccare quel treno? Mi rendo conto: sono due domande altrettanto provocatorie, però diverse. La prima è politica. Credo che la buona politica dovrebbe usare come direttiva il famoso consiglio di Einstein sul modo saggio di cominciare una nuova ricerca: “Si comincia sempre da un punto tecnicamente facile”. Se questo non accade, e si comincia dalle cose più complicate (tipo la riforma della Giustizia), ricordate che sul banco degli imputati va portata la politica e le sue scelte azzardate per ragioni azzardate, molto prima della famosa lentezza della burocrazia. La seconda domanda ci porta allo strano punto della storia (o meglio, della complicata cronaca che stiamo vivendo). Ricorderete che un primo governo d’emergenza era nato, al di fuori delle maggioranze e opposizioni elettorali, per risolvere “il problema del locomotore in bilico sul vuoto” (ovvero fare subito una legge elettorale come gru per calare la deragliata vita politica italiana in un territorio meno insicuro) e le immediate questioni finanziarie del momento terribile. Poi è nato dal nulla un secondo governo d’emergenza, così grave da richiedere di sospendere l’elezione di un nuovo capo dello Stato, e di lasciare a lui la nomina del nuovo primo ministro e di decidere che nella “maggioranza” – detta anche “pacificazione” – dovevano confluire gli uni e gli altri con il compito vago e vasto di “fare subito le riforme”. Il locomotore continuava a restare sospeso nel vuoto ma si è cominciato a parlare della durata dell’emergenza, forse un anno, forse due. E si è cominciato a chiamarla “stabilità”, detta anche “condizione indispensabile per uscire dalla crisi”.
IMPROVVISAMENTE arrivano di corsa, senza elezioni, un governo e un leader che durano (questo è l’impegno) quanto un governo eletto, ma che non è un governo eletto. Però è assolutamente deciso a non accettare limiti. Basta con l’emergenza di poche cose gravi che non possono aspettare. No, si farà tutto. Segue celebrazione immediata. Finalmente c’è un governo che farà tutte le riforme. E le farà fino alla “naturale scadenza”. In che senso naturale? Indicare la data del 2018 è un auspicio o ambizione o decisione perfettamente arbitraria, perché non c’è rapporto fra il voto, la maggioranza parlamentare (che, per giunta, si prospetta variabile), il governo e il voto. Ma l’artificiosità del momento diventa più grande quando al treno (che fingiamo sia ad alta velocità, ma non potrà che essere lento e spesso fermo) di “tutte le riforme”, aggiungiamo la semplificazione e la riforma della burocrazia. La semplificazione può essere: le leggi, e allora si fa in Parlamento. Oppure i percorsi attraverso cui passa una legge per raggiungere i cittadini. Allora è bene ricordare che, su quel percorso, gravano autorità diverse, norme diverse e gradi diversi di controllo. Ovvero, occorrono altre leggi e altre norme, da settori molto diversi del Parlamento e del governo, per toccare certe materie che vengono per comodità descritte come “burocratiche” e immaginate come responsabilità funzionariale o impiegatizia e genericamente immaginate come volontaria pigrizia che un risoluto governo può scuotere. Non può, se è attendibile (lo è) la breve descrizione che precede. Segue, sempre in bilico sul vuoto, il pesante vagone della burocrazia vera e propria, i “gabinetti”, gli uffici, i consiglieri, gli accentramenti (lo decidono a Roma) i decentramenti (questo spetta al prefetto, no alla regione, oppure a un provveditorato o invece a una autorità), tutti provocati da uno strato successivo di norme di ministeri diversi che gravano sulla stessa materia o di materie diverse regolate da un unico e spesso arbitrario raccordo, a volte dovuto al cliente, a volte alla sgridata severa dell’opinione pubblica, a volte imposte da una sentenza, a volte inserite in un’altra legge per semplificare un’altra materia. E tutto ciò avviene in stratificazioni successive e in epoche e climi culturali e politici successivi e diversi, di più spesa, meno spesa, controlli più frequenti e più stretti, improvvisa svolta sull’autonomia e autocertificazione, a loro volta ristrette da rigorosi richiami a verifiche necessarie contro il degrado, il clientelismo e la corruzione.
LO STO DICENDO non per creare un clima di disperazione (certo che si può riformare e razionalizzare la immensa macchina burocratica) ma per dimostrare, sia pure in questa breve e riassuntiva carrellata, che tutto è politico, e ben poco dipende dalla malevola volontà di un protervo direttore generale o di un pigro impiegato. E come fai a mettere mano a una riforma che può essere, e deve essere, soprattutto politica, se non hai (se non puoi e non devi avere) una prospettiva, un ideale punto di arrivo che si chiama visione politica? Ovvio che non può esservi visione politica in un governo che può anche elencare grandi ideali, ma dispone, come maggioranza di sostegno, di progetti politici smontati e mischiati, una sorta di Ikea in cui, da un pacco-prodotto all’altro, sono stati scambiati i pezzi e nessun montaggio è possibile. Possiamo anche aspettare il 2018, se lo dice Renzi. Lui sa come intrattenerci. Ma l’Europa ci casca? E la ripresa arriva lo stesso?
Repubblica 2.3.14
Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia
di Eugenio Scalfari
CHI vuol essere lieto, sia / di doman non c’è certezza. Così poetava il Magnifico Lorenzo che a mezzo millennio di distanza Matteo Renzi ha certamente eletto a proprio modello e questi suoi versi ad insegna della sua operazione politica.
Purtroppo - almeno per quanto ne sappiamo - il neopresidente del Consiglio non sa poetare, ma la sua eloquenza comiziesca è tra le migliori che si siano sentite negli anni dell’Italia repubblicana. Mi viene in mente Pietro Nenni quando ancora esaltava nelle piazze la Resistenza e la vittoria che la classe proletaria doveva realizzare. Mi viene in mente Vanoni e la forza del suo ragionare e Luciano Lama ed Enrico Berlinguer la cui retorica dell’anti-retorica affascinava milioni di persone. Ma mi viene in mente anche Benito Mussolini che, in materia di comizi di Stato, non fu certo secondo a nessuno.
Renzi non somiglia a nessuno di loro, la sua è un’eloquenza casual di notevole efficacia. Racconta la sua vita, le sue speranze, il suo desiderio di successo. Racconta d’un paese che potrebbe esser felice, di giovani creativi che possono battere i loro coetanei di tutto il mondo sol che lo vogliano e li chiama a mettersi all’opera insieme a lui per riavviare la macchina che si è fermata e che solo a spinte può far ripartire il motore bloccato. Con lui naturalmente al volante.
Ma poi gli viene il dubbio che la spinta non basti e che il motore non sia bloccato ma fuso e quindi bisogna cambiarlo.
Se è così la faccenda si complica perché allora occorre modernizzare lo Stato, la pubblica amministrazione, il fisco, gli ammortizzatori sociali. Ci vogliono intelligenza, costanza, risorse. Ci vuole continuità e insieme discontinuità. Ci vuole una squadra, un partito consapevole, una classe dirigente che abbia coraggio e preparazione, nuova, giovane, ma preparata. Ci vuole il partito dei sindaci e il sindaco d’Italia. E risorse. E riforme. E tempo.
Il programma è dunque cambiato: dalla spinta per riavviare il motore in quattro mesi ad un’operazione che impegna il Paese per un’intera generazione.
Va bene uno come Renzi? O forse era meglio Enrico Letta? O qualcun altro che non conosciamo?
Certo non Berlusconi, cui il peggio di Renzi somiglia (ognuno di noi ha il peggio e il meglio dentro di sé e Renzi non fa certo eccezione); certo non Grillo che comincia a perder pezzi come era prevedibile.
Questo comunque è il tema che ci soverchia. Chi vuole esser lieto sia, di doman non c’è certezza. Lorenzo morì giovane, a 43 anni, dopo esser scampato ai pugnali che uccisero suo fratello. Renzi, per sua e nostra fortuna, questi rischi non li corre, ma ne corre altri e il punto che deve esser chiaro a tutti è questo: se non ce la fa, se è incapace di far ripartire il motore, se non ne ha la forza, la capacità e la preparazione, se ha affrontato il compito solo per aver successo, allora lui perderà la faccia ma tutti noi e cioè il Paese finiremo nel baratro, saremo un Paese politicamente fallito ed economicamente commissariato e i sacrifici che abbiamo fin qui sopportato saranno giuggiole di fronte a quelli che ci aspetteranno. Perciò la vigilanza delle persone responsabili non deve mai venire meno.
*** Alcuni obiettivi economici cominciano a delinearsi ed anche qualche indicazione di copertura dopo la nebbia che tuttora circonda il “Jobs Act” (dove la parola job che in italiano significa lavoro è invece declinata al plurale).
Ieri mattina tuttavia è stata diffusa dal palazzo del governo una notizia “eccitante”: tutti i disoccupati avranno un salario minimo garantito indipendentemente dalle loro condizioni economiche. Il governo nella persona del ministro del Lavoro non ha avuto ancora il tempo di esaminare il progetto e tantomeno l’ha avuto il Consiglio dei ministri. Tutto è ancora nelle mani di Taddei che è il capo del settore economico del Pd e parla direttamente con Renzi.
Da quanto siamo in grado di sapere finora l’ammontare del salario garantito sarebbe di circa mille euro mensili (al lordo o al netto di tasse e contributi?). Il costo totale sarebbe di 1,6 miliardi. Ma 7,2 miliardi vengono già da tempo destinati a questo compito. Il totale, cioè 7,2 più 1,6, sarebbe poco meno di 9 miliardi, e il nuovo progetto potrebbe essere finanziato pescando nei 2,5 miliardi della Cig in deroga. Sicché il nuovo stanziamento di 1,6 miliardi produrrebbe solo uno spostamento dall’esubero della Cig in deroga al sussidio di disoccupazione per categorie rimaste finora scoperte, con un’operazione a somma zero.
Fin qui la notizia che in questi termini è una vera e propria matassa poco comprensibile dalla quale emerge che il gran fracasso del governo e dei media è fondato non già sullo splendido inizio della scossa per riavviare il rilancio dell’equità e del lavoro, bensì sul nulla.
L’obiettivo principale è comunque il taglio del cuneo fiscale, indicato in 10 miliardi. Anche Letta l’aveva messo e fatto approvare dal Parlamento nella legge di stabilità, ma per 6 miliardi affinché non vi fossero ripercussioni sul limite del 3 per cento del deficit, imposto dalle regole europee e ribadito dal governatore Visco nel suo recente incontro con il nuovo presidente del Consiglio appena nominato.
Oltre al cuneo fiscale un altro obiettivo è il riassetto degli edifici scolastici affidato all’intervento dello Stato per un totale di 2 miliardi. Assistenza alle piccole e medie imprese (ma l’ammontare non è definito), aiuti agli esodati, ai disoccupati, ai precari (ma anche per queste voci manca l’ammontare). Infine il pagamento “to-ta-le” (scandito così) dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, effettuato con fondi della Cassa depositi e prestiti. La Cassa è pronta a far fronte a quest’impegno per un ammontare di 30 miliardi, i debiti to-ta-li sono stimati un’ottantina, ma questa cifra va verificata e il ministro dell’Economia, Padoan, si accinge a farlo sperando che siano di meno. Corrado Passera, ai tempi del governo Monti che sembrano ormai preistorici, ne pagò più di 20. Il ricorso alla Cassa è previsto anche nella legge di stabilità, ma deve esser chiaro un punto: ricorrendo alla Cassa lo Stato non estingue il suo debito ma cambia soltanto il nome del creditore: invece di aziende c’è una banca. L’aspetto positivo dell’operazione è comunque un’iniezione di liquidità nel sistema.
Il complesso di questi interventi si aggira sui 50-60 miliardi. Se si defalcano i 30 della Cdp, ne restano da coprire 20-30. Il commissario alla spending review Cottarelli prevede un taglio immediato di 3 miliardi; per gli altri ci vogliono ancora molti mesi. La lotta contro l’evasione è già stata contabilizzata da Saccomanni, forse potrà dare due o tre miliardi in più; cinque miliardi vengono dalla diminuzione dello spread. Il totale di queste cifre è di circa 10 miliardi. Ne restano scoperti dai 10 ai 20. Ricordiamo che in questi conteggi almeno la metà è stata prevista da Letta e già contabilizzata nella legge di stabilità, perciò in tutto questo non c’è alcuna scossa particolare ma soltanto una continuità con più grinta.
A produrre una scossa sarebbe semmai un’imposta edilizia di natura progressiva, ma qui bisognerebbe superare l’opposizione sia di Berlusconi sia di Alfano. Quanto all’imposta sulle rendite è opportuno non parlare più dei titoli di Stato, a cominciare dai Bot, che già sono ampiamente tassati e non si debbono più oltre toccare per non turbare un importantissimo mercato del risparmio dove ogni anno il Tesoro deve prelevare 400 miliardi per rifinanziare i debiti in scadenza.
Questo è quanto. Citando il poeta dirò: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie». Tutto dipenderà da Draghi, dalla Merkel, dall’Europa.
Alcuni economisti ed esperti dei mercati e del rapporto del dare e dell’avere tra Italia ed Europa suggeriscono un’altra via. In modi diversi ma analoghi la indicano Roberto Perotti sulSole24 Ore di giovedì scorso ed Enrico Marro sul Corriere della Sera dello stesso giorno. La via è quella di convincere l’Europa a consentire al governo italiano di sforare il limite del 3 per cento e di scambiare il contributo che l’Italia versa al bilancio della Ue con le somme che la Ue versa all’Italia per aiutare le regioni economicamente depresse del nostro Paese che sono quelle del profondo Sud.
La stessa idea l’aveva anche Letta che ne aveva già discusso con Draghi, Barroso e con i governi dell’area mediterranea (Francia e Spagna in particolare) con l’Olanda e la Germania trovandoli abbastanza disponibili. Il punto di svolta si sarebbe verificato nel corso del semestre di presidenza italiana.
È una strada percorribile anche da Renzi? Noi ce lo auguriamo. Questa sì, sarebbe una scossa decisiva per il rilancio economico e sociale del nostro Paese combinando insieme continuità ed energia politica.
*** Ma a proposito di politica c’è da segnalare una novità: il Movimento 5 stelle sta mostrando segni crescenti di sfaldamento parlamentare, sia alla Camera sia al Senato. Sta prendendo forma un gruppo di dissidenti che darà probabilmente luogo ad una nuova formazione politica con intenti simili a quella di Vendola e di Civati. Questa novità modifica in prospettiva i potenziali orientamenti del Pd e della maggioranza parlamentare che sostiene Renzi.
Fino ad ora il partito renziano disponeva di due distinte maggioranze, non necessariamente alternative: quella con Alfano per governare day by day; quella con Berlusconi (ed anche con Alfano) per le riforme costituzionali del Senato e del Titolo V e la legge elettorale. Ma si profila ora una terza maggioranza, alternativa alle prime due: quella con Vendola e con la dissidenza grillina che all’interno del Pd interessa Civati, l’ala bersaniana ed anche D’Alema e Cuperlo. Sposterebbe il Pd verso una posizione di sinistra-centro anziché di centro-sinistra e favorirebbe il recupero elettorale dei tanti simpatizzanti del Pd che hanno però da tempo abbandonato quel partito scegliendo Grillo o l’astensione dal voto.
Renzi resterebbe alla guida del governo ma la natura del partito registrerebbe un mutamento di notevole rilievo. Se quest’ipotesi si verificasse, la sinistra- centro potrebbe essere bilanciata da una posizione moderata centrista, del tipo Tabacci-Casini-Alfano. Renzi potrebbe essere il perno di quest’ampio schieramento che avrebbe una durata medio lunga fino al 2018 e anche oltre.
Il sindaco di Bari che è estroso nel linguaggio chiama Renzi col nome di Matteo Bonaparte e, sul
Foglio di venerdì scorso scandisce «Na-po-leo-ne». Estroso e per me alquanto preoccupante. Napoleone fu ai suoi tempi un genio militare. Politicamente non ne sapeva granché e si serviva di Talleyrand nel bene e nel male. Non mi pare che Delrio e neppure Carrai abbiano la taglia del duca di Périgord.
Concludo ripetendo: chi vuole essere lieto sia, di doman non c’è certezza.
Il Sole 2.3.14
Renzi tra Berlusconi e Alfano
Patti ambigui verso il 2015
di Stefano Folli
Il punto di ambiguità su cui è nato del governo Renzi resta tale. Si riassume così: è più forte il sodalizio fra il premier e la sua maggioranza, compresi Alfano e la minoranza del Pd; oppure il vero asse strategico è quello che lega sotto traccia Renzi e Berlusconi, quest'ultimo solo in apparenza capo dell'opposizione? A seconda della risposta avremo anche la chiave dell'altro quesito: questa legislatura finisce in pochi mesi o durerà due o tre anni?
Il neo premier è stato molto bravo finora a tenere coperte le sue carte. Nessuno può rivendicare, allo stato delle cose, di conoscere il suo pensiero recondito. Per cui l'astuto fiorentino sta con ogni probabilità giocando su due tavoli. Da un lato tenta di strumentalizzare Berlusconi (sarebbe il primo a riuscirci...) con l'idea di mandare avanti la legislatura e il piano di riforme anche costituzionali (Senato, titolo V, eccetera). Dall'altro invece finge di rassicurare Alfano, ma è pronto ad andare alle elezioni il più presto possibile, con il pieno accordo di Forza Italia, non appena ottenuta la riforma elettorale.
Inutile spremersi troppo le meningi. Una prospettiva certa ancora non c'è e il giovane presidente del Consiglio non ha deciso in modo definitivo quale strada imboccare. Per la verità Renzi ha l'aria di uno che ha dato affidamenti contraddittori un po' a tutti, dai centristi ai berlusconiani, essendo il prezzo da pagare per entrare a Palazzo Chigi. Poi vedremo. Dipenderà dalle circostanze, dallo stato dell'economia, dal grado di popolarità che il leader sarà riuscito a mantenere nei prossimi non facili mesi. E anche dalla congiuntura internazionale: la crisi in Ucraina, nella sua imprevedibile drammaticità, potrebbe diventare uno di quei "cigni neri" che talvolta appaiono all'orizzonte, del tutto imprevisti, e cambiano in radice gli scenari.
Aspettiamo, allora. Senza sottovalutare gli indizi che si presentano. Ieri Ugo Magri, sulla "Stampa", accreditava l'idea del patto segreto fra il leader del Pd e il partito di Berlusconi e lasciava intendere che "i fuochi artificiali di settembre", adombrati in ambienti di Forza Italia ma non specificati, potrebbero coincidere con la corsa alle elezioni. In fondo anche ieri Berlusconi è tornato sul tema e ha parlato di votare nel 2015.
Difficile credere che il premier sia insensibile a questa sirena. Tuttavia il problema di Renzi, l'hanno scritto molti osservatori, riguarda la riforma elettorale. Senza avere in mano la pistola carica di una legge iper-maggioritaria (e, aggiungiamo, senza la ragionevole certezza che nessuno dei suoi competitori raggiungerà la soglia del 37 per cento al primo turno, permettendogli così di giocare le sue carte al ballottaggio) l'uomo del "veni, vidi, vici" non ha interesse a bruciare le tappe. O meglio: questo è quello che dice ad Alfano, per il quale una lunga legislatura e il castello governativo nel quale si è rifugiato sono la vera garanzia di sopravvivenza.
C'è un modo sicuro per capire dove risiede la verità. Verificare l'iter della riforma elettorale, i tempi, ma soprattutto gli accordi per modificare questo o quel punto dell'impianto già approvato senza entusiasmo in commissione. I centristi delle varie confessioni sono sul sentiero di guerra e si preparano a un conflitto parlamentare per ottenere significative modifiche della legge. Renzi non li sconfessa, ma chiede che la riforma sia approvata in tempi certi e brevi. Lo scontro sarà duro e senza dubbio decisivo per capire se voteremo fra un anno oppure se questa legislatura ha un futuro. Berlusconi attende sulla riva del fiume. E il giovane, brillante toscano dovrà decidere presto da che parte stare. Altrimenti avranno ragione quanti si dichiarano certi che l'ipotesi A è quella giusta. Quindi riforma elettorale e poi di corsa al voto, al limite anche in autunno, cioè prima del 2015, facendo leva sulle prime, inevitabili difficoltà del governo.
Corriere 2.3.14
Il leader, la partita con Ncd e l’opzione voto nel 2015
Il lodo sulla legge elettorale
di Maria Teresa Meli
ROMA — Succede talvolta in politica — e soprattutto nella politica italiana — che siano storie apparentemente minori a rivelare quello che accade nelle sfere superiori.
E così succede che mentre Renzi sta parlando davanti ai leader del Pse, il segretario del Pd capitolino Lionello Cosentino stia scambiando qualche opinione con i «compagni» romani. E tra una chiacchiera e l’altra giunge la rivelazione: Marino potrebbe saltare e le elezioni per il nuovo sindaco di Roma si potrebbero fare in abbinata con le politiche del 2015.
Come, con le politiche del 2015? Si, proprio così, racconta sempre Cosentino, il quale rivela di averne parlato con il responsabile Enti locali della segreteria nazionale Stefano Bonaccini. Che non avrebbe escluso lo scenario di un voto anticipato, stando al leader del partito romano. Non che quello sia l’obiettivo principale di Renzi, ma a quanto pare il premier vuole tenersi un’arma carica per non essere condizionato da niente e da nessuno. L’uomo è fatto così: non a caso, la sua ultima giunta fiorentina veniva scherzosamente (ma fino a un certo punto) definita «un monocolore renziano».
Però il gioco dell’alleato Ncd è proprio l’opposto: imbrigliare il premier, imporgli questa maggioranza fin quando gli alfaniani non si sentiranno forti abbastanza. E finora, con i ministri e i sottosegretari, l’hanno spuntata loro. Ma non era quella la partita che interessava veramente Renzi. Anche se le polemiche su Gentile non gli hanno fatto piacere: «Se Alfano — ha sussurrato a Orlando sul palco del Pse — avesse scelto Cuccureddu e Cabrini avremmo fatto miglior figura».
Comunque ciò che preme veramente al premier è portare a segno qualche risultato prima delle europee. Per questa ragione sta preparando il Jobs act. E non si tratta solo di regole per il mercato del lavoro ma anche di liberare investimenti e risorse «perché i dati della disoccupazione sono veramente allarmanti e questa è un’emergenza italiana».
Un buon risultato elettorale servirà a Renzi per continuare a governare senza problemi sia l’Italia che il Pd. Ma le ambizioni del presidente del Consiglio vanno oltre quel voto. In questo senso per lui è stato un tassello importante l’ingresso nel Pse e l’appoggio alla candidatura di Schulz alla presidenza della commissione Ue.
Renzi spera che avendo un grande partito alle spalle a Strasburgo, il semestre di presidenza Ue, una Commissione «amica», con magari dentro un finalmente quietato D’Alema, sia per lui più facile combattere la politica di rigida austerità che finora ha avuto la meglio in Europa. E questo consentirebbe all’Italia più ampi spazi di manovra. Insomma, a quel punto si potrebbe finalmente «agganciare la ripresa» e sperare nella «crescita». Si arriverebbe così al 2015 e allora Renzi potrebbe decidere se andare avanti con questa maggioranza fino al 2018 o se, piuttosto, puntare alle elezioni politiche, forte dei risultati ottenuti con il suo esecutivo, per avviare una nuova legislatura con una maggioranza più omogenea, e quindi in grado di lavorare e governare meglio.
Perciò adesso diventa cruciale la partita della riforma elettorale che comincia questa settimana alla Camera. «Noi si va a dritto, come si dice dalle mie parti», è il ritornello del premier. Tradotto dal toscano: si va avanti. Anche se il «match» è difficile. Perché Alfano, evidentemente, non pensa più quello che pensava e diceva il 9 gennaio scorso: «Ho fiducia in Renzi, non userà la rapida approvazione della legge elettorale per andare al voto». Sennò perché ora il leader del Ncd vuole una norma in cui sia scritto nero su bianco che questa riforma non é applicabile da subito?
«Noi, però — ha spiegato il premier ai suoi — non possiamo fare scherzetti e non mantenere i patti con chi li abbiamo sottoscritti. Si può trovare una soluzione, ma bisogna convincere anche Berlusconi». Il che significa che l’emendamento Lauricella, quello che lega la validità della legge al completamento della riforma del Senato, verrà archiviato.
Al suo posto si sta lavorando su una norma transitoria che dovrebbe sancire una sorta di compromesso. Un meccanismo che dica nel contempo che la legge elettorale scatterà dopo la riforma del Senato o quanto meno dopo un certo lasso di tempo, un anno, per esempio, in modo da tenere aperte tutte le porte, anche quella delle elezioni anticipate di qui al 2015. Ma ci si sta ancora lavorando sopra. Comunque il voto sarà palese e questa volta tutti dovranno giocare a carte scoperte, minoranza pd inclusa.
il Fatto 2.3.14
Cari malpancisti, scendete dal treno Pd
di Luisella Costamagna
Cari malpancisti del Pd, da brava crocerossina devo abbandonare al loro destino i casi disperati (tipo Letta), somministrare maalox ai meno gravi, e concentrarmi sulle vie di mezzo, quelli a rischio ulcera. Tre su tutti: Pippo Civati, Stefano Fassina e Miguel Gotor. Accomunati da percorsi di studio di tutto rispetto (filosofia, economia e storia), dal fresco ingresso in Parlamento e dall’avversione verso Renzi. Dovete sapere che la bile (malcelata) fa parecchi danni. Non dico di tornare ai vostri studi, ma perché almeno non tornate alle vostre idee?
Lei, Civati, a dispetto dell’anagrafe, è stato il primo rottamato di Renzi. Partì con lui dalla Stazione Leopolda nel 2010, ma è sceso alla prima fermata. Ha poi preso altri treni, rimanendo però, per protesta, sempre sulla scaletta: non ha votato la fiducia a Letta ma ha votato il resto, ha promesso di “vendicare” Prodi ma non ha mai fatto i nomi dei 101 che l’hanno impallinato, dopodiché è stato ri-rottamato alle primarie da segretario e, ora che Renzi è arrivato con l’alta velocità a Palazzo Chigi, gli dice “Matteo sbagli, ma ti voto”. Non vorrei che a forza di stare mezzo dentro e mezzo fuori si surgelasse o, peggio, si spettinasse il ciuffo.
A lei, Fassina, ho già scritto quando si dimise da viceministro proprio in polemica con Renzi. Ora – ma come fa?
– gli vota la fiducia, però “non in bianco” e non senza puntare il dito scandalizzato contro il conflitto d’interessi della ministra Guidi. Strano, mi pareva di ricordare che lei fosse al governo con il re degli interessi Berlusconi.
Stessa critica alla Guidi mossa da lei, caro Gotor, che aggiunge che il governo nasce sotto “la manina di Berlusconi”, che il discorso di Renzi ha “pochi contenuti”, “tutti titoli”, e il sindaco d’Italia è “come De Mita”. Dopo questa gragnuola eccola, tutto d’un pezzo, votare la fiducia. Naturalmente per “disciplina di partito”. Ma è un partito o una caserma? C’è licenza di uccidere un premier ma non di votare liberamente (e poi sono altri gli antidemocratici…)? Perché vi ostinate a starci dentro? Speranza di inciampi renziani per tornare in auge, banale interesse poltronistico o masochismo?
Guardate il centrodestra: hanno un partito per ogni leader, sono alla maggioranza e all’opposizione, dicono tutto e il contrario di tutto, così possono conquistare tutti gli elettori possibili. Tanto poi alle elezioni saranno uniti. Voi invece avete una pletora di leader (di vario cabotaggio) nello stesso partito, siete centripeti invece che centrifughi: una galassia interna che gira, gira, le fa girare a voi e pure ai vostri elettori, che non sanno più se siete di destra, di centro o di sinistra.
Perché non scendete finalmente dal treno lanciato verso non si sa dove? (Mica vorrete pure voi “Cambiargli verso” come Renzi, no?). Incontrereste molti delusi sulla vostra strada, evitereste accuse di opportunismo e ci guadagnereste in credibilità, coerenza e dignità. Vi sembra poco?
La Stampa 2.3.14
Cinque stelle l’illusione iperdemocratica
di Luca Ricolfi
Ultimamente, qualcuno si è messo a dire che i grillini sarebbero fascisti.
I loro metodi sono stati tacciati di squadrismo. E in questi giorni, di fronte alle procedure di espulsione dei dissidenti, è risuonata forte e chiara l’accusa di stalinismo.
A me pare un abbaglio. Un abbaglio enorme. Soprattutto, un abbaglio che rischia di occultare la vera natura del Movimento Cinque Stelle.
No, cari critici del Movimento Cinque Stelle. I partiti totalitari del passato erano un’altra cosa. Erano violenti e anti-democratici. Il Movimento Cinque Stelle è l’esatto contrario: è non violento e iper-democratico.
Non violento, innanzitutto. Perché la violenza e il suo uso politico, come nel fascismo, nel nazismo e nel comunismo, sono stati una cosa troppo seria e tragica. Evocarle a proposito di qualche spintone in Parlamento (sicuramente deprecabile, ma pur sempre spintone) significa non avere il senso della misura, e in definitiva nutrire poco rispetto per le vittime di quei regimi.
Il punto fondamentale, però, quello che caratterizza veramente il grillismo, è l’iper-democrazia.
Qui è il cuore dell’ideologia 5 Stelle. E qui sta la sua vera e più grave pericolosità, a mio sommesso parere.
Che cos’è l’iper-democrazia?
L’iper-democrazia è un’ideologia che si è consolidata solo negli ultimi 20 anni, in concomitanza con il trionfo di internet, ma le cui radici risalgono a quasi mezzo secolo fa, e precisamente al biennio 1968-69. Che cosa è capitato, in quei due anni cruciali?
Due cose, fondamentalmente. Nelle scuole e nelle università è nata l’ideologia assembleare, il cui nucleo logico è il seguente: le decisioni le prendono coloro che si riuniscono in assemblea, gli assenti hanno sempre torto. L’idea soggiacente è quella di una sorta di primato morale della politica: se fai politica, se sei impegnato, allora sei un gradino sopra gli altri; se invece non la fai, allora sei un egoista, un opportunista, un edonista, o come minimo un qualunquista. E questo a dispetto del fatto che chi fa politica è una minoranza, e la maggioranza ha altro da fare (pochi lo sanno, ma nel mitico ’68 gli studenti politicamente attivi erano solo 1 su 5). Ecco perché la minoranza politicizzata si sente moralmente superiore, e disprezza profondamente la massa che si astiene dalla politica, cui riserva termini carichi di connotazioni negative: maggioranza silenziosa, apatici, qualunquisti. Il complesso di superiorità della sinistra nasce anche di qui.
Ma c’è un altro evento capitale in quegli anni: il 7 gennaio 1969 nasce un tipo di trasmissione radiofonica completamente nuova, “Chiamate Roma 3131”, che diventerà un modello per decine di altre trasmissioni consimili. In essa gli ascoltatori diventano improvvisamente protagonisti: chiunque può telefonare e intervenire a prescindere da qualsiasi credenziale di cultura, esperienza, autorevolezza. Oggi ci sembra normale, ma allora fu un’assoluta novità, che cambiò completamente il rapporto fra pubblico e media. Da allora, sia pure lentamente e gradualmente, si fece sempre più strada l’idea che tutti possono essere protagonisti e, soprattutto, che non è richiesta alcuna speciale dote, competenza o merito per poterlo essere.
Ma veniamo a oggi. Che cos’è il Movimento Cinque Stelle?
Per molti versi non è altro che la micidiale fusione di questi due cambiamenti epocali, entrambi risalenti a mezzo secolo fa. Grazie alla diffusione di internet, l’utopia di una comunità di decisori potenzialmente universale, in cui tutti decidono su tutto, è sembrata improvvisamente una possibilità reale. Il mito della democrazia diretta, da cui Norberto Bobbio ci aveva sempre messi in guardia, è sembrato finalmente alla portata dei tempi. Una volta acquisito che tutti possono circolare in rete, una volta stabilito che il discorso pubblico non richiede alcuna speciale competenza, una volta interiorizzata l’idea che chi fa politica è migliore di chi non la fa, c’erano tutte le condizioni per la nascita di un movimento come quello di Grillo: un movimento iper-democratico, perché fondato sulla credenza che tutti possano partecipare e sulla convinzione che debbano farlo.
Restava un piccolo problema, un dettaglio non risolto. La maggioranza della gente, la stragrande maggioranza delle persone normali, ha un sacco di cose da fare e non si diverte affatto a fare politica, a meno di voler chiamare «politica» il fare gli spettatori nei combattimenti di galli che ogni sera ci offrono Floris, Santoro, Formigli, Paragone, eccetera. Da decenni e decenni le inchieste rivelano che i cittadini politicamente attivi sono una piccolissima minoranza (diciamo il 3%), e che la maggior parte della popolazione o disprezza, o ignora, o assiste passivamente alla commedia della politica. E questo è ancora più vero nel movimento di Grillo, dove i militanti sono circa lo 0,5% degli elettori, ossia qualcosa come 5 persone su 1000.
Ciò crea un salto, una vera e propria frattura, fra la grande e silenziosa maggioranza degli elettori, che si limita a votare e tutt’al più a informarsi, e la minoranza degli impegnati, che frequenta sempre meno le sedi di partito superstiti ma, in compenso, inonda la Rete di ogni sorta di pensieri, analisi, insulti, volgarità, esternazioni più o meno ostili alla grammatica italiana.
Ma non si tratta solo di una frattura, quella c’è sempre stata, anche ai tempi del glorioso Pci. La novità è che ora, con il movimento di Grillo, a quella frattura si dà uno statuto nuovo, esplicito e paradossale. Grillo sogna una civiltà digitale in cui tutti, seduti davanti al proprio schermo, partecipino alle decisioni fondamentali della comunità. Una civiltà iper-democratica perché tutti possono partecipare, tutti hanno le competenze per farlo, e l’assenza di partecipazione è una colpa, come era nel ’68 e come, sotto sotto, è sempre rimasta nella cultura e nella mentalità della sinistra.
Questa visione della democrazia e della partecipazione genera almeno due conseguenze. La prima è il sostanziale disprezzo per la democrazia rappresentativa, che si basa invece proprio sul principio opposto, secondo cui la gente ha il pieno diritto di non occuparsi attivamente di politica, ed è del tutto normale che il cittadino deleghi ad altri, i politici di professione, il compito di amministrare la cosa pubblica. La seconda conseguenza è il disprezzo per il proprio stesso elettorato, ossia per quei 995 elettori su 1000 che non partecipano alle decisioni in Rete. Questo disprezzo, non il presunto fascismo o stalinismo, è secondo me il vero lato inquietante del grillismo. Perché, nel movimento di Grillo come negli altri partiti, i militanti non sono affatto un campione rappresentativo degli elettori. Spesso sono invece i più aggressivi, i più faziosi, i peggio informati (perché leggono tanto, ma solo ciò che li conferma nelle loro opinioni), i meno vicini al sentire comune delle persone normali. Le quali lavorano, studiano, si divertono, cercano la loro via nel mare aperto della vita. L’iper-democrazia della Rete, molto poco democraticamente, le snobba e le esclude, e in questa esclusione rivela il vero volto di sé stessa.
Il «compagno» Matteo Renzi, contornato da socialisti, saluta i suoi «predecessori» Pier Luigi Bersani, Piero Fassino e Massimo D’Alema. Lui, che viene dai Popolari e dalla Margherita, sta sul palco. Loro, che vengono dal vecchio partito comunista, poi Pds e Ds e infine Pd, lo guardano dalla platea, con un sorriso un po’ scettico, un po’ malinconico.
Il segretario italiano esordisce parlando di un «giorno speciale» e citando «my friend» Bersani e gli altri «predecessori». Sfodera qualche parola di inglese, poi vira sul francese («ici à Rome tout est commencé») e infine torna all’italiano. Qualche citazione del nonno («che ha combattuto sul confine francese e in Grecia») e della madre («che si mise a piangere quando venne giù il muro di Berlino»)
(A. Trocino, sul Corsera di oggi)
l’Unità 2.3.14
Il Pse accoglie il Pd, Schulz: «Insieme per cambiare l’Ue»
«Matteo Renzi ha definito un piano di riforme coraggioso per ridare speranza e futuro all’Italia»
di Umberto De Giovannangeli
È il giorno dell’orgoglio socialista. Il giorno di una «famiglia allargata» che ha un sogno ambizioso e si sente pronta a realizzarlo: costruire una Europa dei cittadini, sociale, solidale, aperta. È il giorno dell’investitura ufficiale di Martin Schulz (368 favorevoli, 2 contrari, 34astenuti) a candidato del «fronte progressista » alla presidenza della Commissione europea. Ed è anche il giorno in cui si completa, dopo sette anni, il percorso di adesione del Partito democratico al Pse. «Diamo il caloroso benvenuto nella nostra famiglia al Pd. Senza il Pd la nostra famiglia non poteva considerarsi completa. Oggi siamo più forti », dice il presidente del Pse, Sergei Stanishev, dal palco del congresso. Per due giorni, intensi, emozionanti, la «nuova Europa» passa per Roma.
SFIDA EPOCALE Con orgoglio, Stanishev sottolinea che oggi in Europa i premier socialisti sono 12 contro i 3 del recente passato. E molti di quei premier prendono la parola dalla tribuna del Palazzo dei Congressi per sostenere l’«amico Martin» e per rilanciare, uniti, la sfida del cambiamento. Una sfida ideale, programmatica, in cui idealità e concretezza si fanno «manifesto »: il Manifesto dei 10 punti progressisti, il «Manifesto di Roma». Libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia: principi che vengono ripetuti in tante lingue, ma con una determinazione comune: far vivere i principi storici, fondativi, identitari del socialismo democratico europeo, in una campagna elettorale che ha come posta in gioco l’Europa del futuro. Non è un libro dei sogni quello che viene narrato a Roma, anche se i sogni a volte motivano un impegno collettivo, una passione civile, un entusiasmo che vivono nei sorrisi, negli slogan, nella voglia di esserci, da protagonisti, dei giovani volontari di tutta Europa che hanno colorato il congresso.
«Towards a new Europe», verso una nuova Europa. Non è solo lo slogan che campeggia sullo sfondo della tribuna congressuale. È molto di più. È il filo conduttore di tutti gli interventi, è la visione comune che si fa progetto. È l’Europa di Martin Schulz. Prende la parola per ultimo, colui che da qui a qualche mese potrebbe diventare il primo cittadino d’Europa. Il suo discorso è di quelli che lasciano il segno: nei cuori e nelle menti. «Se chi non ha votato la volta scorsa andrà a votare noi vinceremo le elezioni. Dobbiamo organizzarci e agire, andare là fuori e bussare alle porte perché la gente vada a votare. Ma serve una mobilitazione e un radicamento sul territorio, lottiamo per un’Europa, giusta, sociale, umana e democratica, un’Europa socialdemocratica», scandisce tra gli applausi il presidente dell’Europarlamento.
Quella che tratteggia è l’Europa dei cittadini contro quella dei mercati. L’Europa che si coniuga al femminile, l’Europa che punta sulle giovani generazioni. L’Europa della trasparenza. «Oggi si può votare per scegliere l'Europa che vogliamo, ma i cinici sono sempre in agguato e dicono che non ha importanza ciò per cui si vota, chi avrà la maggioranza nel Parlamento europeo, perché il presidente verrà scelto con un accordo nascosto, questo è sbagliato», aggiunge Schulz. «Io vi posso assicurare che non mi presto per nulla ad accordi nascosti, non sono un ex capo di governo, rappresento la gente onesta e sincera. Busserò alle porte, viaggerò per l’Europa per parlare alla gente delle mie idee perché c'è un solo accordo a cui ambisco, ossia un patto chiaro con gli elettori europei». Schulz illustra anche il programma elettorale che intende mettere in atto se sarà eletto alla guida della Commissione Ue: «Dove si crea valore lì si pagano le tasse, questa è la regola da introdurre in Europa. Dobbiamo regolamentare i mercati finanziari. È possibile farlo, è un dovere farlo. Mettere fine alla speculazione e dire ai cittadini che non succederà mai più».
La «mia Europa» mette i cittadini al primo posto, rimarca ancora toccando il delicato tema della tutela della privacy. «Non ci devono essere più cittadini spiati da servizi o da aziende e spetta a noi socialisti e democratici difendere le persone». Questa Europa unisce Est e Ovest, Nord e Sud del vecchio Continente. Una Europa che sa ascoltare il dolore dei senza lavoro, dei giovani senza futuro, e che non si richiude nelle stanze ovattate di Bruxelles. Sono convinto anche - afferma il candidato del Pse - che l’Europa non deve fare tutto ma deve intervenire dove può, portare valore ai cittadini perché insieme siamo più forti. Non tutto si può risolvere a Bruxelles, c’è molto da affare a livello locale e nazionale, noi daremo margine di manovra agli Stati e ci occuperemo delle sfide globali».
È un bel cammino quello che prende le mosse da Roma. Obiettivo 25 maggio. Una vittoria a cui il Pd può dare un contributo importante. «I nostri amici italiani ce la stanno mettendo tutta per rendere l’Italia un paese più forte, più giusto, un paese dove Matteo Renzi ha definito un piano di riforme coraggioso per ridare speranza e futuro all’Italia», dice Schulz. Speranza e futuro: la nuova Europa ne sarà ricca.
l’Unità 2.3.14
Tre obiettivi per cambiare
di Gianni Cuperlo
SIAMO TUTTI NEL PSE. E QUESTA È UNA BELLA NOTIZIA. VUOL DIRE CHE SIAMO TUTTI SOCIALISTI? NON DIREI. Piuttosto è il socialismo europeo, col suo corredo di acciacchi e virtù, che ha scelto di allargare il raggio di sé. E questa è una notizia anche più bella. Per tante ragioni tutte figlie della marcia che la sinistra, nella sua pluralità, ha compiuto dall’89 in poi. Ma soprattutto per la prova che a quella sinistra si para davanti adesso, quando un tempo storico si è consumato e il nuovo non è del tutto scolpito.
Il punto è che senza Europa da questa crisi non si esce ma l’Europa che c’è non funziona più. Anzi, a seguire il sentiero tracciato potremmo trovarci al sole estivo col parlamento più antieuropeo della storia, che vorrebbe dire lo sgretolarsi dell’integrazione e una lunga afonia dei progressisti. Su questa paura si fonda l’invito a una sterzata di Bruxelles anche se l’appello a cambiare non sempre spiega la frattura tra le promesse e i fatti. In pratica, davanti alla crisi combinata di finanza, debiti sovrani, integrazione e sviluppo perché di questo parliamo evocando la crisi dell’Europa il primo scoglio è capire cosa ostacola la risposta più logica e la sola destinata a funzionare. Claus Offe quella barriera la descrive con semplicità. Lui dice che «ciò che sarebbe necessario fare con urgenza è assolutamente impopolare e di conseguenza praticamente impossibile in un contesto democratico ».
E cosa si dovrebbe fare se prevalesse il buon senso? Più o meno tre cose. Primo, una mutualizzazione del debito a lungo termine con misure redistributive tra gli stati membri, e al loro interno tra ricchi e poveri. Secondo, aiutare la competitività dei paesi periferici con una mutualizzazione della crescita, cominciando coll’investire risorse pubbliche in un’opera straordinaria cioè letteralmente fuori dall’ordinario di creazione di nuove occasioni di impiego, agendo da leva per il mobilizzo di risorse private innescando fiducia e ripresa. Terzo, adeguare il costo del lavoro che porterebbe a un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio. Ok, vasto programma, ma da lì si deve passare. Prima di tutto perché archiviata dopo Maastricht l’arma della svalutazione, ogni compensazione degli squilibri commerciali si è risolta in tagli brutali a settore pubblico e occupazione. Per capirci, non potendo svalutare la moneta si sono svalutati il lavoro e con quello i diritti e la dignità dei cittadini, occupati o meno che fossero.
Altra soluzione non c’era e non c’è? Anche questa è una piccola bugia. Un’alternativa vi sarebbe, e pure cautamente di sinistra, del tipo aumentare il prelievo fiscale sui redditi elevatissimi e sulla ricchezza (lo so che abbiamo quel popò di evasione, per altro da perseguire, ma non è buona ragione per rinunciare al principio). Siccome, però, l’Ue tra i suoi limiti ha quello di non aver completato un’armonizzazione fiscale quella strada pare ostruita e ci si ritrova a comprimere salari e pensioni, ingegnandosi su nuove gabbie per il mercato del lavoro, istruzione, sanità. L’esito? Che nell’arco degli anni, «compiti a casa» e «riforme» hanno spinto, la sinistra a pensare che solo provvedimenti impopolari le avrebbero restituito una chance di vittoria. Ma è come chiedere il consenso promettendo di usarlo per bastonare chi ti vota. Funziona? Direi di no. L’aspetto curioso è che molti tra i disperati per i sondaggi sulla prossima assemblea di Strasburgo continuano a teorizzare la stessa visione stupiti che milioni di persone non aderiscano di slancio al programma che li vorrebbe sotterrare. Mistero della Storia! Detto ciò, cosa potrebbe convincere i tedeschi che cambiare «verso» conviene pure a loro? Per paradossale che sia, l’egoismo o almeno la convenienza. Cioè prendere atto che proseguire la discesa nel pozzo del rigore sarebbe un danno per tutti dal momento che un default ad Atene o altrove non lascerebbe indenne il surplus commerciale di Berlino. Certo, servirebbe uno spirito laico (ma chi avrebbe mai pensato a economisti più dogmatici del Sant’Uffizio?). E soprattutto servirebbe il coraggio di una sinistra sino qui acconciata più a dar ragione agli altri che a rivendicare buone pratiche per sé. La realtà, se si pensa l’Europa, è che mai come oggi ferisce il divario tra le politiche e la politica, tra le misure che servirebbero e le istituzioni in grado di predisporle. Conseguenza pure questa di una sinistra che a lungo ha smesso di indicare la rotta, contentandosi di aggiustare la ricetta degli altri. Ma appunto per questo la campagna elettorale di maggio diventa la vetrina di cosa vorrà essere la sinistra del continente. La scelta è tra proseguire sull’asse di ora o cambiare parecchio. Per prima cosa come gestire debiti sovrani, armonizzazione fiscale, politiche per il lavoro e contro la povertà. E poi giù giù, l’idea di democrazia e cittadinanza, i diritti umani, civili, sociali, culturali. Fino al recupero di una strategia per il Mediterraneo scosso da un rivolgimento senza eguali nella contemporaneità.
Non è un decalogo di traguardi. È una mentalità che va riformulata perché da quella dipenderà il destino di una sinistra capace di riprendersi le sue parole più forti, uguaglianza, democrazia e sopra a tutte la pace scossa in queste ore dalle notizie drammatiche che arrivano da Ucraina e Crimea dove in gioco come nel “secolo breve” sono integrità territoriale e autodeterminazione di intere popolazioni. Altro che tecnocrati, se non vogliamo lasciare populismo e nazionalismi a sgovernare l’Europa quel che serve come l’acqua al mare è una nuova grande politica, un’altra idea dell’Europa che nascerà. E tocca alla sinistra cercarla. Toccherà a Schulz e a tutti noi, socialisti e democratici. Non da soli. Bisognerà ascoltare alcune buone ragioni che arrivano dall’altra sinistra di Tsipras e da quei movimenti di popolo o generazione che magari in forma impulsiva, ma la fine del vecchio europeismo moralistico l’hanno denunciata da tempo. È possibile farcela? Se alziamo lo sguardo si capisce che provarci non solo conviene ma è un dovere al quale sottrarsi non si può più.
Corriere 2.3.14
Gabriel: la sfida di Matteo è riportare in Italia gli investimenti
Il vice cancelliere: è sulla strada giusta su burocrazia e semplificazione
di Paolo Valentino
ROMA — Sigmar Gabriel è vice-cancelliere tedesco e ministro socialdemocratico dell’Economia e dell’Energia nel governo di «Grosse Koalition» guidato da Angela Merkel.
In che modo i socialisti europei pensano di risolvere la contraddizione tra la necessità per un Paese di avere conti a posto e quella di rilanciare crescita e occupazione?
«Non c’è contraddizione, perché si può avere consolidamento durevole solo se si ha crescita sostenibile. Nessuno di noi socialisti è contro il consolidamento e il risanamento dei conti nazionali. Nessuno sa meglio di noi quanto sia importante ridurre debito e deficit. Ma il risparmio unilaterale non porta alcuna crescita. Senza crescita, non c’è lavoro. E senza lavoro non c’è futuro per giovani che lavorano e senza giovani non potremo avere i conti a posto. Nel mio Paese, in Germania, abbiamo risolto i nostri problemi perché nel momento della crisi finanziaria abbiamo investito nella crescita».
Matteo Renzi, il nuovo premier italiano , propone di contabilizzare diversamente gli investimenti infrastrutturali, per esempio quelli per la scuola, togliendoli dal calcolo del 3% del deficit di bilancio. Lei che ne pensa?
«In primo luogo Matteo dice una cosa molto interessante: noi avremo crescita solo se libereremo gli imprenditori italiani dai troppi lacci che li frenano, ridurremo il peso della burocrazia riorganizzando in modo più efficiente l’amministrazione pubblica, riformeremo il sistema di tassazione rendendolo più semplice e trasparente. Credo che abbia ragione, perché questo consentirebbe di risparmiare denaro da investire in crescita e occupazione. Renzi capisce che le riforme strutturali sono essenziali per lo sviluppo. Quello che mi dicono molti imprenditori tedeschi sull’Italia è che il freno burocratico è talmente forte che perfino le aziende italiane preferiscono investire all’estero piuttosto che nel loro Paese».
Ma l’idea di scorporare dal calcolo del deficit gli investimenti per la scuola?
«È una discussione aperta anche da noi. Ma io penso che alla fine la cosa decisiva sia di creare nel Paese un clima favorevole agli investimenti. Matteo Renzi mostra di averlo capito e sta formulando ottime proposte».
Qual è la sfida per il Partito socialista europeo nelle prossime elezioni per il Parlamento dell’Unione?
«Si tratta di difendere il progetto europeo dall’assalto dei movimenti nazional-populisti e di destra. L’Unione Europea è il più grande progetto di civilizzazione degli ultimi cento anni. Nessun altro continente al mondo, così ricco di culture diverse, è riuscito a fare altrettanto. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Europa era a pezzi, la Germania un Paese sconfitto e devastato. Ma l’Europa ci aiutò a rimetterci in piedi e costruire un futuro. L’Ucraina ci mostra in queste ore cosa succede quando l’Europa non lavora insieme per la pace. Ma l’Europa dev’essere qualcosa in più in futuro. Dovrà crescere sempre più unita, perché solo così potrà avere un ruolo nel mondo di domani. Un presidente cinese o un premier indiano non telefonerà a 28 capi di governo, per chiedere quale sia l’opinione dell’Europa. O avremo una sola voce, oppure i nostri figli e nipoti non avranno alcuna voce».
Una voce per dire cosa?
«Una voce per più libertà, più democrazia, più solidarietà. L’altra sfida è infatti di mettere giustizia sociale ed equità al centro delle preoccupazioni dell’Unione. Un esempio: non è accettabile che in Italia ogni artigiano, fornaio, piccolo imprenditore paghi più tasse di Amazon, solo perché questa può pagarli in Paesi europei con minore pressione fiscale. Il dumping fiscale è inaccettabile. Abbiamo bisogno di maggior eguaglianza di condizioni per chi investe e per chi lavora».
In che modo pensate di riuscire a contrastare l’ondata populista e anti-europea?
«Passando all’offensiva e smascherandone le bugie. La rinazionalizzazione non crea alcuna opportunità per i popoli europei, anzi fa l’esatto opposto. Neppure la Germania da sola può farcela nel mondo globalizzato. Siamo 7 miliardi oggi, saremo presto 9 e soltanto insieme l’Europa potrà generare crescita, prosperità e sicurezza».
il Fatto 2.3.14
Renzi, socialista improbabile E il vecchio Pd va alla riscossa
Schulz omaggia il premier: “Ce la sta mettendo tutta”
di Wanda Marra
Ciao caro, come stai?”. Massimo D’Alema allunga la mano per prendere quella che Matteo Renzi, entrando al congresso del Pse, gli tende, prima di andarsi a sedere in prima fila, tra Martin Schulz e Susanna Ca-musso. Un omaggio al Lìder Maximo, vero padrone di casa, che fino a qualche minuto prima è stato sul palco. Poi si è seduto in platea, ad ascoltare doverosamente tutti gli interventi. D’altra parte l’adesione al Partito socialista europeo è una delle sue vittorie (ultimamente ne ha incassate parecchie: Padoan, ex direttore della Fondazione Italianieuropei è ministro dell’Economia, Minniti e Del Basso De Caro sottosegretari). L’adesione al Pse è un progetto partito ben prima che Renzi diventasse segretario. Nelle prime file, davanti ai delegati di tutta Europa che agitano entusiasti cartelli con il nome del candidato, non c’è neanche un renziano (a un certo punto arriva il neo sottosegretario agli Affari europei, Sandro Gozi), ma in compenso è schierato tutto il Pd pre-Matteo: Guglielmo Epifani, Gianni Cuperlo, Enzo Amen-dola, Stefano Fassina, Andrea Orlando, Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo. Il neo sottosegretario socialista Nencini fa il mattatore, Vendola si agita, diviso tra il socialismo e la lista Tsipras. A Pier Luigi Bersani la platea riserva una standing ovation. Roberto Speranza, capogruppo Pd a Montecitorio, provenienza bersaniana è collaborativo: “Dobbiamo dare una mano a Renzi al partito. Mica può fare tutto da solo”. Parole che pesano, visto che da domani il segretario-premier deve rimettere mano all’organigramma democratico e la minoranza è sul piede di guerra.
IL VECCHIO Pd ricomincia dall’Europa. È lo stesso premier che evidentemente assorbe un’atmosfera da antichi congressi di partito, con parole d’ordine, riti e movenze che non sono mai state le sue (vedere Schulz che, cravatta rossa, si accalora mentre parla di un’Europa in cui “i poveri diventano sempre più poveri”). Quando sale sul palco è subito gaffe: “Ringrazio Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Piero Fassino, che mi hanno preceduto alla guida del Pd”. D’Alema è stato a capo del Pds, Fassino dei Ds. Lapsus: di quale Pd sta parlando? Ma poco importa: Matteo cavalca l’onda, tra bilaterali (ieri con il premier francese Ayrault e quello ceco Sobotka) e chiacchiere informali in prima fila. Fa amicizia e già che c’è, tenta pure un abbozzo di dialogo con la Camusso. Si prende i complimenti, gli auguri e gli omaggi di premier e segretari socialdemocratici del vecchio continente. Rapporti che gli servono. “Sono sempre stato il più giovane. Mi batti di un anno, complimenti Matteo!”, si entusiasma il premier maltese Muscat. Ed è tutto un “benvenuto Matteo”, “caro Matteo”. Il suo turno arriva prima della proclamazione di Schulz. Esordisce in inglese (“For the Democrat Party, it's a special day”) poi torna all’italiano, poi si concede qualche parola in francese. Concetti complessi in italiano, frasi a effetto in inglese. Cita la Grande bellezza (in odore di Oscar) Willy Brandt e J. F. Kennedy. Si distanzia dall’“Europa dei burocrati” e sottolinea che i conti in ordine “si devono tenere per i nostri figli”. Non manca l’omaggio ai banchieri fiorentini. Ma è l’esordio che conta. Quello in cui si immagina già i tg: “Stasera alle 8 più generazioni di italiani vedranno i servizi sul congresso del Pse. Lo vedranno le mie nonne, che erano sposate a due persone che hanno combattuto in Francia e Grecia”.
MA ANCHE : “Lo vedrà mia madre, che quando cadde il muro di Berlino e la Germania si riunificò pianse”. Un pianto di gioia. C’è da giurare che alcuni in platea piansero di dolore. Renzi, il più post ideologico dei post ideologici è l’unico che può traghettare il Pd nel Pse senza il carico simbolico degli ex comunisti. Segue l’elezione di Schulz (quello al quale B. diede del “kapò”), che nel suo intervento di 40 minuti old style trova il modo di dare atto al premier (“Ce la sta mettendo tutta”) e parla da sindaco a sindaco. Note finali. Niente Internazionale socialista, ma una melodia che ricorda “Ti ricordi di me” di Gianna Nannini, prescelta da Bersani per la sua campagna elettorale. Foto ricordo. Renzi sta in un angolo, lontano dai garofani, si dà agli autoscatti con le delegate. Scende dal palco, sale D’Alema. Matteo l’ha chiarito: non lo candiderà alle Europee. Ma per lui il futuro oltre confine sembra più che un’ipotesi.
l’Unità 2.3.14
La sfida decisiva ai populismi
di Claudio Sardo
IL POPOLO EUROPEO ANCORA NON C’È. IL POPULISMO INVECEAVANZA. ANZI, I POPULISMI. Diversi tra loro per messaggi, leadership, matrici geografiche e culturali. E tuttavia accomunati da aspettative crescenti, dal vento della crisi che ne gonfia le vele, da parole d’ordine che stanno diventando senso comune. A cominciare dall’avversione all’euro e all’Unione, dalla chiusura delle frontiere agli immigrati, dal no alle tasse e all’intervento pubblico, dall’incessante polemica contro l’establishment. È politicamente scorretto affiancare il Front National della signora Le Pen con il Fidesz del premier ungherese Orban, il Pvv olandese di Wilders con il partito di Grillo, Alternative für Deutschland con il Fpo austriaco o con le nuove destre scandinave, però sono innegabili i tratti comuni, favoriti anche da quel linguaggio antipolitico che oggi appaga il diffuso senso di frustrazione e di paura.
Alle prossime elezioni saranno i populisti gli avversari politici più insidiosi della sinistra europea. O forse occorre dire, anche in questo caso, delle sinistre nazionali in Europa, perché purtroppo il sogno europeista - sì, gli Stati Uniti d’Europa, unica possibilità per il Continente di giocare un ruolo da protagonista nella globalizzazione - è ancora lontano dalla famiglia socialista che ieri a Roma ha accolto ufficialmente il Pd e annunciato la candidatura di Schulz alla presidenza della Commissione. Sono i populisti gli avversari più insidiosi perché hanno messo radici nelle stesse basi elettorali e sociali della sinistra. Perché mietono consensi nelle fasce più povere, tra i giovani senza lavoro, nella classe media minacciata. Perché condizionano ormai tutti gli attori politici, e dunque anche le forze di sinistra, il loro sistema di valori. Entrato nella circolazione sanguigna nella sinistra, il populismo la spinge verso radicalismi generici, ma difficilmente questo rafforza i valori di solidarietà e uguaglianza, oppure l’efficacia dei programmi di governo. Di solito produce ancor più dipendenza, più rabbia, più solitudine.
Così, nel timore di non farcela a battere i populismi, si diffonde a sinistra la tentazione di scendere a patti. Si dice che ci vorrebbe un po’ più di «populismo di sinistra». Che l’antipolitica va combattuta con astuzia, assorbendone alcune ragioni. Bisogna intendersi: la sinistra deve anzitutto rimettere radici nel «popolo», dove le ha perse. Questo è il vero problema. E per farlo deve riconoscere i suoi errori e i limiti della politica attuale. Non basterà però un gioco di parole o una spruzzata di indignazione per riacquistare la credibilità perduta. È tempo di dire con forza che questa Europa va cambiata. E soprattutto come va cambiata: con investimenti per lo sviluppo, con bilanci comunitari più impegnativi, con maggiore integrazione, con politiche attive per il lavoro e per i giovani, con la difesa e il rinnovamento del modello sociale europeo. La sinistra deve tornare a essere sinistra. Anche quando è al governo. Diversa dai conservatori europei, non appiattita nella gestione dell’Unione intergovernativa, più coraggiosa nel parlare di Europa unita. La candidatura di Schulz sarà un passo avanti se la campagna elettorale avrà il segno dell’Europa «da cambiare». Ma nessuno si illuda che il percorso sia agevole. I populismi non sono un retaggio del passato. Sono una manifestazione della modernità, che si scontra con la globalizzazione ma ne usa gli strumenti. La sinistra italiana lo sa bene, avendo pagato un prezzo alto all’esplosione elettorale dei Cinque stelle. La modernità sta nella comunicazione veloce, nelle ingiustizie della globalizzazione e dell’austerity europea, nell’insostenibilità del vecchio compromesso tra lavoro, welfare, cittadinanza. Per questo sono necessarie nuove politiche. L’impressione è che la famiglia socialista sia consapevole del bisogno di una nuova «politica». Ma le «politiche» concrete, quelle che producono effetti tangibili, appaiono tuttora inibite da poteri e dottrine che sopravvivono al loro fallimento.
E comunque anche le politiche, da sole, non basteranno a rianimare quella competizione tra destra e sinistra, che i populisti negano. Per tornare ad essere se stessa, la sinistra deve far rivivere i propri valori costitutivi. La sinistra è la speranza di una società più solidale e carica di opportunità. È il desiderio di eguaglianza di chi ha di meno. È, al fondo, l’idea che la persona non verrà abbandonata all’individualismo e alla solitudine. O l’Europa tornerà a essere veicolo di questa visione di pace e prosperità oppure soccomberà tra nazionalismi rinascenti e opportunismi intergovernativi. Il nucleo vitale della sinistra sta nell’affermazione dei diritti sociali e delle speranze comunitarie. Gli stessi diritti civili sono il compimento di una società più solidale: laddove invece i diritti individuali diventano il surrogato (magari in versione ultra-radicale) di una sinistra impotente nelle politiche economiche e sociali, allora non ci sarà più argine all’egemonia liberista e al pensiero unico. Per vincere questa partita la sinistra deve rifondarsi. È una partita epocale. Da essa dipenderà l’Europa dei nostri figli. E forse anche un po’ della civiltà del mondo globalizzato.
l’Unità 2.3.14
Cara Giannini, sulla scuola dissento
di Luca Canali
L’INTERVISTA È QUELLA AL NUOVO MINISTRO DELL’ISTRUZIONE, STEFANIA GIANNINI, PUBBLICATA DA «REPUBBLICA» QUALCHE GIORNO FA. Ho qualche obiezione in proposito. La riduzione degli anni di liceo da cinque a quattro sarà forse la gioia di alcuni studenti, ma la disperazione di tante famiglie, e intanto abbasserà sciaguratamente il già basso livello culturale delle giovani generazioni.
Riguardo al paragone con le scuole europee, a parte il pappagallismo di esso, la gentilissima signora ministra non calcola che ci sarà l’aumento di un anno di disoccupazione per i ragazzi stessi; la già estrema difficoltà di trovare lavoro confermerà la posizione di triste primato che l’Italia ha in Europa riguardo appunto alla disoccupazione giovanile. Del resto il paragone degli anni d’insegnamento in Italia con quelli del resto d’Europa è vanificato dai giorni di vacanza, per ricorrenze patriottiche o religiose, oltre ai numerosi «ponti» che interrompono spesso i corsi scolastici, che sono probabilmente i più numerosi d’Europa.
Riguardo poi alle sovvenzioni statali alla scuola privata, quasi sempre a gestione ecclesiastica («paritetica» è un eufemismo per «privata») ritengo che ciò sia una palese ingiustizia giacché sono le scuole pubbliche che hanno bisogno, quelle sì, di essere maggiormente aiutate e seguite dallo Stato, mentre le private possono contare sulle rette richieste per la frequenza, notevolmente alte rispetto alla tassazione richiesta dalle scuole pubbliche.
Altra obiezione che mi permetto di fare, riguarda la tendenza ad abolire gli scatti di stipendio per l’anzianità di servizio, riguardante i docenti, e ad accordarli sulla base del merito e dell’efficienza. Ciò significa affidare ai presidi, cioè a un giudizio personale e incontrollabile, tale concessione. Durante la mia lunga esperienza scolastica ed universitaria mi è accaduto di conoscere amici che da più di un decennio percepiscono sempre la stessa cifra del loro stipendio iniziale, pur essendo, come io testimonio sul mio onore, degli insegnanti di altissimo livello.
Scrivo queste righe non per qualsiasi impegno politico, anche se in me c’è sempre stato, ma per semplice rigore logico.
Repubblica 2.3.14
Quei soldi pubblici alle scuole private
di Nadia Urbinati
Cambiano i governi non la politica scolastica, che promette di andare verso la graduale eguaglianza delle scuole private a quelle pubbliche. Alcuni governi sono più energici di altri; questo parte con una straordinaria determinazione. Le prime dichiarazioni della nuova ministra della Pubblica istruzione, Stefania Giannini, sono improntate al merito e al bisogno, per usare una fortunata coppia di valori, molto frequentati negli anni ’80. Il merito dovrebbe guidare la diversificazione remunerativa degli insegnati delle scuole pubbliche: coloro che producono di più dovrebbero essere meglio retribuiti, come i dipendenti di una qualunque azienda.
Il criterio per stabilire il merito nell’insegnamento medio e superiore non sarà facile da individuare, a meno che non si adottino criteri discutibili come il numero dei promossi, le ore di servizio alla scuola, o il buon gradimento da parte dei genitori o del dirigente scolastico. Ma è doveroso attendere le proposte prima di giudicare, riservandoci un angolino di scetticismo per le pratiche che vogliono applicare la logica degli incentivi economici a tutte le funzioni indifferentemente, non tenendo conto che ci sono beni di cittadinanza (come la scuola) che non possono essere giudicati con gli stessi criteri della produzione di beni destinati al mercato.
Le dichiarazioni di Stefania Giannini sono invece più esplicite nella parte relativa ai rapporti dello Stato con le scuole private paritarie. Qui la ministra invoca il bisogno. E le posizioni che emergono sono molto preoccupanti benché non nuove. Nuovo è l’armamentario argomentativo, perché pensato non per convincere che le scuole private parificate meritino più finanziamenti, ma per sostenere che esse hanno bisogno dei soldi pubblici e, infine, che il sollievo dal bisogno sarà garantito dal percorso del governo che va verso l’affermazione dell’eguaglianza piena, non più della parità, delle scuole private con quelle pubbliche. Il fine è far cadere ogni barriera che distingue i due ordini di scuola allo scopo di non dover più giustificare i finanziamenti pubblici, che a quel punto sarebbero dovuti. In questa cornice si iscrive la proposta della ministra di rilanciare le scuole private paritarie.
Veniamo alla giustificazione di questa marcia accelerata verso la scuola privata, che come si è detto è basata sul bisogno: in pochi anni le scuole private hanno perso studenti (in cinque anni uno su cinque), e per fermare questa emorragia lo Stato dovrebbe intervenire. E così è. I soldi pubblici sono infatti già stati accreditati alle Regioni, come ha comunicato la Compagnia delle opere (ben rappresentata nel governo): 223 milioni di euro stanziati per l’anno scolastico 2013/2014, in aggiunta a 260 milioni già previsti per lo stesso anno. In tutto, 483 milioni che tengono in piedi un settore in estrema difficoltà. Il pubblico, dunque, “tiene in piedi” la scuola privata in difficoltà. I vescovi e la ministra Giannini all’unisono chiamano questa una politica di «libertà effettiva di scelta educativa dei genitori».
Ma se c’è emorragia di studenti dalle private alle pubbliche, logica vorrebbe che si diano più risorse alle pubbliche, sia perché ne hanno presumibilmente più bisogno sia perché se lo meritano, avendo attratto più studenti, nonostante le “classi pollaio” esito della riforma Gelmini. Se è solo per bisogno che le scuole private devono ricevere i soldi pubblici, ciò significa che lo Stato fa dell’assistenza vera e propria. Non è dunque chiaro con quale logica la ministra applica la coppia merito/ bisogno, perché qui sembra di capire che le pubbliche siano punite proprio per ricevere gli studenti che abbandonano le private, le quali per non saper trattenere gli studenti ricevono invece i finanziamenti. È chiaro che i soldi pubblici servono a tenere queste scuole in vita, non a premiare il merito o il buon rendimento.
Tenerle in vita, si sostiene, perché sono il luogo dove si concretizza la «libertà educativa dei genitori». Ma perché i genitori scelgono di iscrivere i figli alla scuola pubblica? Presumibilmente questa loro scelta libera è dettata da ragioni di merito: la scuola pubblica è, nonostante tutto, migliore e vince sul mercato della libertà educativa. Ma a seguire le parole del ministro sembra di capire che lo Stato interverrebbe quando la scelta è già stata fatta, ovvero per finanziarne il residuo (cioè il risultato di quella scelta) non per garantirla. Qui vediamo in azione l’opposto del criterio del merito e del bisogno legato al merito, e inoltre una stridente contraddizione con il principio della libera scelta.
Un argomento insidioso per giustificare il tampone di emorragia con i soldi pubblici è che un alunno delle scuole private costa meno di un alunno delle scuole pubbliche. Nel contesto di razionalizzazione mercatista della spesa pubblica nella quale ci troviamo, non si fatica a intuire quale sarà il passo successivo: meglio finanziare le scuole private che quelle pubbliche perché costano meno all’erario. Questo sarebbe un epilogo fatale per la scuola pubblica. A giudicare da queste prime dichiarazioni della ministra Giannini, nel settore dell’istruzione il governo promette di essere un governo della restaurazione, ovvero di voler chiudere la disputa tenuta aperta dalla nostra Costituzione, decretando che tutte le scuole sono pubbliche, quelle dello Stato e quelle private parificate, che tutte devono essere “eguali”. La maggioranza parlamentare ha il potere di farlo. Ma l’opinione pubblica e politica ha il dovere di criticare questa scelta e di operare per fermarla o cambiarla.
Repubblica 2.3.14
Università, beffa per gli aspiranti prof “Troppo specializzati, vi bocciamo”
Decine di esclusi eccellenti in rivolta: “ Favoriti i parenti dei baroni”
di Giovanni Valentino
ROMA - Mentre Matteo Renzi pensa di ricostruire l’Italia dalla scuola, qualcun altro vuol finire di distruggerla all’università. Una pioggia di ricorsi amministrativi s’è abbattuta sull’ultimo concorso per l’Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l’assunzione in ruolo. È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei.
Nell’ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti “bibliometrici”, forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè mono-grafie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari.
La pietra dello scandalo che ha consentito di modificare l’ordine di merito si chiama “sottosettorialità”. E già il termine, criptico e ambiguo, la dice lunga sulla sua pericolosità. Questo parametro variabile ha consentito alle commissioni di stabilire arbitrariamente quali lavori possono essere considerati “sottosettoriali”, e quindi di minor rilevanza o interesse, per correggere in negativo il giudizio sull’idoneità di questo o di quell’aspirante professore.
Fatto sta che molti candidati bocciati avevano ottenuto valori più alti di quelli promossi: per alcune discipline, la discriminazione ha toccato addirittura il 75%. E contemporaneamente è riemerso anche un vizio antico del nostro mondo accademico: i figli dei “baroni”, vale a dire dei cattedratici più anziani e autorevoli, sono risultati tutti idonei indipendentemente dal livello della loro produzione scientifica. Dall’illusione della meritocrazia, l’università italiana è ripiombata così nella realtà della parentopoli più abusata e brutale.
Il caso più clamoroso è quello di Medicina e in particolare di Ortopedia con oltre cento candidati. Nel settore disciplinare delle “Malattie dell’apparato locomotore”, denominato 06 F4, i cosiddetti sottosettori sono stati variamente interpretati come distretti anatomici (spalla, gomito, anca, ginocchio, caviglia ecc. ecc.) oppure come ambito di ricerca (scienza di base, traumatologia, oncologia, traumatologia sportiva, patologia degenerativa, ortopedia pediatrica eccetera). Così il concorso per titoli s’è trasformato in una sorta di lotteria che, secondo un’analisi statistica dei risultati, ha premiato gli autori di pubblicazioni che avevano un valore medio di gran lunga inferiore a quello di diversi candidati giudicati “non idonei”.
Nel sito del ministero, con un po’ di pazienza si possono verificare i titoli di ciascun candidato all’indirizzo http://abilitazione.miur.it/public/pubblicarisultati.php). Vi sono storie professionali di medici noti e affermati: uno nella chirurgia della spalla o del ginocchio e l’altro nel trattamento delle lesioni delle cartilagini, sono stati valutati negativamente dalla commissione proprio a causa di quella “sottosettorialità”, ovvero specializzazione, che ha permesso loro di eccellere in un determinato campo di ricerca.
A citare qualche nome, a titolo di esempio, è un illustre cattedratico come il professor Andrea Ferretti, primario all’ospedale Sant’Andrea di Roma e già medico della Nazionale di calcio: Alessandro Castagna di Milano (spalla); Stefano Zaffagnini (ginocchio) ed Elisabetta Kon (cartilagini), entrambi di Bologna. «Quest’ultima – dice Ferretti – è una vera scienziata, un’autorità in campo internazionale. Ma tengo a precisare che nessuno dei tre fa parte della mia scuola». E aggiunge: «A parte la Medicina e il nostro settore, questo concorso non fa onore all’intera università italiana».
I ricorsi presentati alla giustizia amministrativa puntano in genere sulla tesi che quello della “sottosettorialità” può anche essere un criterio complementare, ma non l’unico per valutare la produzione scientifica di un candidato. I commissari, inoltre, avrebbero dovuto specificare preliminarmente come sarebbe stato interpretato e applicato, per mettere i candidati in condizione di integrare o eventualmente ritirare la domanda. A ogni modo, qualunque sia stato il parametro di valutazione, i ricorrenti sostengono che nel complesso «non sono stati espressi giudizi uniformi».
Per paradosso, insomma, in un concorso del genere anche un Premio Nobel avrebbe rischiato di essere respinto. E a partire dall’Ortopedia, è proprio il caso di dire che ancora una volta l’università ne esce con le ossa rotte.
Corriere 2.3.14
Natura e fine vita, quando la Chiesa si scopre più avanti delle leggi laiche
di Armando Torno
Il 28 marzo alle 16, alla Camera dei deputati (nella Sala della Regina), si terrà un Cortile dei Gentili sul «Fine vita». Vi parteciperanno medici (tra essi Massimo Antonelli), bioetici e giuristi (Francesco Paolo Casavola), filosofi (Giulio Giorello). La materia è di particolare attualità giacché — si sussurra anche in Vaticano — la Chiesa Cattolica è più aperta alle soluzioni della attuale legislazione italiana. Del resto, gli ultimi giorni di papa Giovanni Paolo II e del cardinale Carlo Maria Martini hanno di nuovo spostato i confini di queste delicate normative verso scelte affidate più alla natura che non all’accanimento terapeutico.
Un Cortile dei Gentili che affronta dunque un problema concreto, delicato, continuamente da ripensare dinanzi al progresso delle terapie. E, sottolineiamo, in linea con il nuovo corso indicato da papa Francesco, il quale — ci perdonerà la sintesi — ha fatto capire in mille modi che oggi la realtà supera le idee e che i dibattiti teoretici, anche in ambito teologico, devono cedere il passo ai casi umani.
Il cardinale Gianfranco Ravasi, che è l’anima e il cuore del Cortile dei Gentili (pur se organizzatore, non farà una relazione il 28 marzo) ci confida: «Le questioni bioetiche meritano continui approfondimenti e non è possibile affidarsi, come sovente capita, a slogan e semplificazioni. Affrontare problemi delicati e moralmente sensibili con la loro cancellazione brutale non è scelta umanamente corretta. È significativo che sulla frontiera di tali problemi siano rimaste le religioni, il cristianesimo in primo piano ma anche ebraismo e islam, ad affermare con rigore il primato dei principi di fondo della vita. Ora, sia per la teoria del gender ( ovvero la non-esistenza di una differenza biologica tra uomini e donne; il termine inglese ha sostituito, anche negli studi internazionali, il vocabolo sesso; n.d.r.) sia per le questioni bioetiche è indispensabile ritornare, in sede religiosa e in ambito laico, a riflettere sul concetto di “natura”, sulla legge e sul diritto naturale, elementi strutturali dell’essere uomini e donne».
Giuliano Amato, che parteciperà a questo nuovo incontro del Cortile dei Gentili (potrebbe essere aperto dal presidente della Camera, Boldrini), ci ha detto: « Che in questa materia la morale, e non solo quella cattolica, superi la legislazione ed eviti che essa entri in campo può essere, secondo me, soltanto un bene. Dalla legge — e ne abbiamo avuto tutte le avvisaglie — possono venire solo rigidità, che prendono il posto delle decisioni che, caso per caso, il medico, i familiari e lo stesso malato possono prendere nel modo migliore. Sempreché siano rispettati i diritti essenziali della persona e non sia chiesto a nessuno di porre fine attivamente alla vita di altri».
Insomma, un convegno che intende segnare nuove prospettive e offrire materia per riflettere ulteriormente. In questa ottica, aggiungiamo, si sta orientando il futuro delle iniziative nate nel dicastero vaticano della cultura: in programma c’è qualcosa che si rivolgerà agli studenti delle superiori e ai giovani delle periferie di grandi città quali Roma e Napoli. Tutto questo senza dimenticare gli orizzonti internazionali: ad aprile sono previste le giornate di Washington, con un dibattito tra l’altro alla Biblioteca del Congresso.
Ma questo si vedrà nei prossimi mesi. Aggiungiamo che il Cortile dei Gentili sta prestando attenzioni particolari alle questioni concrete. Quelle che stanno a cuore a papa Francesco.
il Fatto 2.3.14
Lite capitale
E Marino rischia il trattamento-Letta
di Elisabetta Ambrosi
Pare che il Pd romano abbia già lanciato, per preparare il terreno, l’hashtag #marinostaisereno. E che stia già litigando per decidere cosa mettere nelle valigie del primo cittadino di Roma, tirate fuori in vista della sua probabile dipartita. D’altronde lo capirebbe anche un bambino: se ci si può disfare di un premier senza passare per le elezioni, perché non di un sindaco. E poi insomma: che brutta cosa quella reazione “scomposta” nel chiedere a Renzi di tirare fuori i soldi per salvare una capitale sull’orlo del deficit, ma che maniere sono queste. E quella fissazione di starsene sempre nel suo circoletto di assessori, per cercare di capire come salvare dal baratro l’Atac e l’Ama, combattere i dehors selvaggi, scegliere addirittura il capo dei vigili con il cv, roba da matti. Qui a Roma la politica si fa seduti davanti a una carbonara, col lobbista di turno che strizza l’occhietto e dice “stai sereno amico”. Sì, ma il 60% dei votanti che lo hanno indicato perché governi? Tranquilli, mettiamo un giovane, che Marino è del ’55, un dinosauro. E il referendum contro la privatizzazione delle municipalizzate? “Riguardava le tariffe, mica la proprie-à”, ci spiega Chicco Testa. E la democrazia? “Con questa crisi, non possiamo permettercela”.
La Stampa 2.3.14
Roma simbolo di un’Italia malata
di Lorenzo Mondo
La bocciatura parlamentare del decreto salva-Roma ad opera dell’inedita alleanza tra padani e grillini, lo scontro fra il sindaco Marino e il primo ministro Renzi, hanno riproposto con vividezza quello che era da sempre noto, che soltanto a furia di sanatorie la capitale italiana può evitare il fallimento. Città eterna davvero, nel caos organizzativo, finanziario e morale che la affligge. Gli sprechi, gli alti stipendi, i ritardi burocratici, le spropositate assunzioni dettate da connivenze familiari e clientelari evidenziano numeri da capogiro che confluiscono a provocare il disavanzo incredibile dei conti pubblici. Roma, con i suoi eccessi dilapidatori, è diventata il simbolo di un Paese malato. Perché si tratta della sua capitale, nonostante l’irrisione offerta dalla Breccia di Porta Pia, dove, dopo il crollo parziale delle mura, si ammucchiano i rifiuti e trovano riparo i senzatetto.
Una Breccia che stavolta sembra unificare la penisola con i suoi miasmi.
Eppure c’è chi, in tanto disastro, non esita a spendersi sulla «Bellezza di Roma», come si intitola il libro di Raffaele La Capria, appena uscito nelle edizioni Mondadori. Lo scrittore non si nasconde la cospirazione delle «anime morte» perché «nulla mai cambi o sia fatto, o sia fatto con tanto ritardo che sia inutile più farlo». Denuncia l’esistenza delle troppe leggi «che confondono e aiutano a non decidere» e hanno fatto della Culla del Diritto, «la culla in cui, tra la nenia di una legislazione ininterrotta, la Giustizia dorme». E’ uno scritto, di pregnante attualità, pubblicato la prima volta nel 1975. Eppure...
La Capria, memore tra l’altro del fervore creativo di lontane stagioni, non cessa di esaltare, con occhi innamorati, la città più bella del mondo, la qualità della luce, che avvolge e dà respiro alla poetica scenografia delle sue piazze. Ma è preso dall’ira e dallo sconforto constatando che «i monumenti della passata grandezza sono diventati il monumento del presente sfacelo».
Rammenta la sporcizia, gli sfregi, l’incuria che sembrano voler cancellare, in un cupio dissolvi, questa città impareggiabile, sovrapponendole una immagine mostruosa. Non sono divagazioni estetizzanti, perché anche qui si tratta di creature vive e il loro stato di salute getta una luce riflessa anche sulle condizioni della gente comune. Per questa Roma che amiamo saremmo forzati ad accettare l’ennesimo soccorso del Governo. Se fosse oculato e stringente, se comportasse un parallelo «dimagrimento» di detestabili inerzie e privilegi. Una pulizia, comunque salutare, che faccia bene anche ai monumenti.
La Stampa 2.3.14
Il Senato spinge Putin al blitz
Kiev: dichiarazione di guerra
Il leader russo ottiene l’autorizzazione dal Parlamento per “l’invio di truppe” Kiev protesta ma le milizie della Crimea esultano: “Si torna alla nostra patria”
di Domenico Quirico
Forse scrivo già da un altro Paese. Simferopoli: non più Ucraina, ma Russia. I nuovi colori, bianco rosso e blu, sono ovunque, sui palazzi del Potere, intrecciati nei nastri nei capelli delle ragazze, i soldati russi sono nelle strade, negli aeroporti, già stamane rimetteranno sulle maniche le mostrine che tenevano nascoste, basta un piccolo gesto con la mano. La Crimea torna russa. E poi, forse, tutto il sud est che ieri era in fiamme, assalti ai Palazzi, feriti, bandiere russe, richieste di aiuto a Mosca: siamo in pericolo, gli estremisti di Kiev ci attaccano. È il congegno applicato qui, con successo. «Putin ci dichiara guerra… è pazzo», mi ha gridato, sconvolto, un giovane rivoluzionario di Maidan al telefono da Kiev. Gli ho risposto: «No, è solo molto astuto, implacabile e tenace».
Come sempre gli uomini entrano nelle tragedie cantando, berciando, ignari, indifferenti, stoltamente felici: anche qui ieri, a Simferopoli, fredda e grigia, come sepolta sotto la cenere. Il centro era fitto di gente, anziani, famiglie, fidanzati, venuti ad applaudire i soldati russi, la foto con il telefonino sotto la statua di Lenin, con aria accesa e imbambolata, costumi cosacchi, fruste, vecchie divise della marina rossa con i cappelli da ammiragli, cori: una festa con i caffè e i cinema pieni. Ha riaperto anche il circo. Così maciullati dal troppo udire e dal troppo vedere si diventa folla, si crede agli auspici, si trasforma la realtà in simbolo, il fatto in leggenda. Alla radio annunciavano che Putin ha ottenuto i pieni poteri per «entrare in Ucraina». A Kiev si gridava alla guerra, alla mobilitazione. Che importa! Il conto è regolato, torniamo a casa. Bravo Putin!
Il palazzo dei sindacati è caduto alle 13,30. In punto. Non è stato difficile. Lo difendeva - uffici, scaloni, targhe con i nomi dorati degli stakanovisti degli eroi del lavoro delle alacri formiche del socialismo - soltanto la vecchia signora Irina, vigile e piccolina, con il suo grembiule verde, le ciabatte, lo strofinaccio con cui da più di trent’anni lotta contro il tempo e le scarse cure degli uomini.
Gli assalitori: erano terribili gli assalitori. Una centuria ben inquadrata di energumeni, il volto coperto da passamontagna, torsi e bicipiti che tendevano le tute mimetiche. Sono arrivati in fila per tre, passo militare e la bandiera (russa) in testa. I bellicosi apostoli del neonato «Fronte della Crimea» liberata. La porta del palazzo era chiusa, sabato giorno di festa anche se c’è la rivoluzione e si parla di guerra. «Aprite!» hanno urlato e giù calci e pugni che squassavano i cardini. La vecchia custode si è affacciata da una finestra, sembrava volessero scardinarla di urla, ordini, imprecazioni. Impavida, ha fatto gesti energici: andate via. Il capo dei forsennati, l’unico a viso scoperto, ha dato un ordine. Hanno portato una lastra di cemento e la finestra è andata in frantumi. Una folla imbandierata applaudiva. Un’auto della polizia è arrivata sgommando scenograficamente. L’ha chiamata la custode. Non aveva capito che era il primo giorno della nuova era, le vecchie regole, i violenti, la polizia, l’ordine, tutto finito, abolito, scomparso. Due agenti, le mani sulle pistole, si sono lanciati verso l’ingresso devastato, quando hanno visto i miliziani e la bandiera hanno fatto dietrofront scusandosi.
La signora Irina è dignitosamente al suo banco, lacrime lente scendono sulle guance. Ieri hanno rotto con la finestra il vaso della sua vita e da questa incrinatura l’acqua buona corre via impercettibilmente. È nata nelle terre del gulag, a quattro o cinque fusi orari di qui, il padre era militare a Sebastopoli, guarda in fondo a se stessa e non capisce il mondo nuovo: «Sono pazzi. Questo palazzo appartiene a tutti noi. Perché fanno così?»
Già. Bisogna chiederlo a Costantin Nerik che comanda il gruppo degli incappucciati. Il Fronte della Crimea è destinato a un sicuro avvenire: di braccio politico della riorganizzazione dopo l’intervento russo.
Hanno anticipato ieri la data dell’autoproclamato referendum sulla autonomia: il 30 marzo. Perché nessuno si faccia illusioni sul risultato loro hanno attaccato una bandiera russa nella sala che diventerà il centro stampa del nuovo movimento: «Ma non è una bandiera straniera! È il simbolo delle aspirazioni di quelli che abitano in Crimea. Che volete che facciamo? A Kiev sono gli estremisti armati che dettano le leggi in parlamento, dobbiamo difenderci da soli. I terroristi ucraini ci scrivono che verranno a impiccarci sulla piazza Lenin. In Crimea regna la calma e l’ordine, non vogliamo il caos e il fascismo. La porta rotta? Pagheremo i danni e anche l’affitto. Le maschere sono per la sicurezza dei nostri uomini».
I russi marciano svelti, le cadenze dei loro piani sono giornaliere, Putin ha in mano il gioco, non intende lasciarlo. L’annuncio del premier ucraino che Kiev non intendeva reagire con la forza l’ha interpretato come un segno di debolezza e non di prudente ragione. I soldati russi dopo 24 ore erano più spavaldi, scoperti, l’aria di padroni di casa. Segno ancor più preoccupante i gruppi di autodifesa si inquadrano militarmente, hanno sostituito la vecchia polizia. Il governo di Crimea dichiarato illegale da Kiev nomina ormai i funzionari, anche il capo della sicurezza. Quello inviato da Kiev è stato respinto. Si forma un esercito collaborazionista, con i reduci del Berkut, il nucleo antisommossa che ha cercato di schiacciare ferocemente Maidan. Il nuovo governo ucraino lo ha sciolto. Un errore. Perché la Crimea russa li ha arruolati.
Ma questo ormai è il passato. Già incombe il nuovo capitolo, l’est, le folle russe scatenate a Kharkiv, a Donetz, a Dniepropetrovsk, nel feudo del padrino-presidente deposto dalla rivoluzione.
Dopo la Crimea è qui che Putin vuole smontare Maidan, rimettere il morso ai ribelli di Kiev, ricacciare indietro l’Europa. Manovrando sulla differenza tra le due parti del Paese diviso dal Dnipro, l’est dove la presenza russa e russofona è più forte ma soprattutto la storia è diversa, la terra delle miniere, dei grandi Kombinat industriali integrati con l’economia russa, dove i gregarismi postsovietici sono più stretti e le seduzioni dell’Europa più fragili.
Nelle strade ieri si rovesciavano le scenografie di Maidan, come in uno specchio: fiori e lumini in lunghe file, e le foto, ma per ricordare i morti del berkut «uccisi dai terroristi mentre facevano il loro dovere», l’omaggio a Lenin, la caccia ossessiva ai «tituski», i provocatori, l’Europa là idolatrata e qui derisa e maledetta. Perfino le milizie di autodifesa sono il rovescio dei gruppi rivoluzionari, fitte di un lumpenproletariat che cerca spazio e voce.
«Ci hanno divisi in centuria, un colpo di telefonino del capo e arriviamo. Siamo pronti a ricevere quegli schifosi di Kiev. Il parlamento, il nostro parlamento non lo hanno toccato. Le armi: sono gli altri che le usano. Per ora non ne abbiamo bisogno, ma se occorre...».
Li domina la teoria del complotto, della congiura, che giustifica tutto. Ha ben lavorato la propaganda russa: Maidan non è stata una rivoluzione ma un colpo di Stato, oligarchi contro oligarchi. È una macchinazione dell’Occidente che è dietro a tutto, ma lo sai che ci sono 200 organismi in Ucraina messi in piedi negli anni scorsi e pagati con cento milioni di dollari per finanziare quello che è successo e impadronirsi del Paese? Soldi polacchi, americani, tedeschi, francesi che in ogni settore, educazione, cultura, assistenza hanno lavorato per destabilizzare, indebolire, condizionare?
Davanti al monumento per la riunificazione della Crimea alla Russia ai tempi della Grande Caterina le corone di fiori sono freschissime. E un grande cartello: «Stiamo liberando la Crimea dall’occupazione degli Stati Uniti e dell’Europa. Poi sarà la volta di tutta l’Ucraina».
Repubblica 2.3.14
Kiev, tra le tende di Majdan la piazza della Rivoluzione confusa dai tamburi di guerra
Voci di una missione della Tymoshenko a Mosca per trattare
di Bernardo Valli
KIEV. BARACK Obama l’invita a rispettare la sovranità dell’Ucraina, e Vladimir Putin gli risponde chiedendo al suo Parlamento l’autorizzazione a intervenire con le forze armate. E l’ottiene con un voto all’unanimità che suona come un rifiuto netto e solenne al monito americano.
LA BRUSCA reazione russa sollecita sul momento timori che sembravano irripetibili in Europa. Dà al dialogo a distanza tra Mosca e Washington toni allarmanti, anche se il voto del Parlamento non equivale a un ordine da eseguire. Putin non ne riceve da nessuno. Si tratta dunque della legittimazione anticipata a un decisione da prendere in un imprecisato futuro. Come una divinità mitologica in preda alla collera, il presidente scaglia le sue frecce contro chi ha osato umiliarlo. Le vorrebbe avvelenate. Ma hanno spesso la mosca, come i fioretti nelle palestre.
L’eventuale intervento militare in Ucraina, per proteggere i russi che vi vivono, per ora non sarà tuttavia promosso. Resterà in sospeso. Perlomeno non avverrà nel futuro immediato e nelle dimensioni a cui fa pensare il voto solenne del Parlamento. Secondo l’agenzia Tass, rispettosa delle verità del potere, sarebbe infatti previsto un viaggio a Mosca di Yulia Tymoshenko. E non si aggredisce, abitualmente, il Paese dell’ospite. I portavoce di Yulia Tymoshenko hanno smentito la sua visita al Cremlino. Hanno detto che sta soltanto trattando. Anche con i russi? Con tutti. La semplice prospettiva di un viaggio, non affacciata a caso da una agenzia di Mosca, è la sorpresa. Potrebbe essere l’asso nella manica. La carta che Putin ha sempre in riserva per smorzare la minaccia appena lanciata. I suoi fulmini diventano così innocui, fastidiosi brontolii di temporale. L’intimidazione e subito dopo il sorriso. Questa volte forse riservato a un’ambasciatrice di pace, in carrozzina, perché malandata dopo trenta mesi di carcere. Scontati per volontà degli amici di Putin.
Yulia Tymoshenko al Cremlino, sia pure nella veste di semplice visitatrice, sarebbe un avvenimento. È il personaggio più in vista e anche tra i più quotati nell’Ucraina infedele e ribelle. Il primo ministro, Arseni Yatseniuk, alla testa del governo che per Mosca è illegittimo, è il suo più stretto alleato. Ma è un’oligarca, miliardaria grazie alla vendita di gas russo, e proviene da una provincia orientale popolata da una maggioranza russofona. Yulia Tymoshenko è sempre stata un interlocutore gradito a Putin. Lui apprezza da tempo il suo coraggio. Ed è lei che il presidente russo potrebbe usare per ridimensionare la paura di un intervento militare. Prima un gesto distensivo poi una minaccia. O viceversa. L’ordine può cambiare, ma la tattica è quella.
Yulia Tymoshenko è un ex primo ministro con cui il leader russo ha avuto continui scontri politici, ma di cui ha imparato ad ammirare lo stile e il coraggio. Quando era in prigione e malata, Putin ha proposto, inascoltato, di ricoverarla in un ospedale russo. Ricevendola al Cremlino lui tratterebbe di fatto per la prima volta con il governo di Kiev, di cui lei è l’ispiratrice. In una nota del Cremlino si diceva due giorni fa che Putin aveva invitato il governo “a continuare a discutere con i partner di Kiev”. Non è certo insignificante il fatto che, mentre si annuncia e si smentisce un viaggio di Yulia, nessuno si sogna di accennare a un invito al Cremlino di Viktor Yanukovich, esule in Russia, che resta formalmente per Mosca il presidente ucraino legittimo, ma non rispettato e ormai archiviato.
Cerco di raccogliere nella tarda serata le reazioni a tutti questi avvenimenti sulla Majdan. Ho la sensazione che i protagonisti della rivoluzione si sentano superati dall’ampiezza assunta dalla crisi. Le contraddizioni confondono le loro idee. Il Cremlino minaccia l’invasione e Yulia Tymoshenko potrebbe andare da Putin. La logica è difficile da trovare. Le tende miserabili, maltrattate dalla pioggia e bucate dai proiettili dei poliziotti assassini, sono sovrastate dalle grandi potenze e dai famosi personaggi come da grattacieli. Le barricate sono ormai un po’ folcloristiche. I sacchi di sabbia o di spazzatura slittano sul selciato bagnato di piazza Indipendenza e non sempre vengono rimessi sui mucchi di cianfrusaglie improvvisati che hanno demolito un regime e sfidato la Russia.
Alcuni membri delle “centurie” avevano tolto le maschere, adesso se le rimettono, come se si preparassero a un nuovo confronto. Ma non riescono a conciliare la minaccia militare e la non esclusa missione di Tymoshenko. Un ragazzo armato di manganello è scettico: «Quello di Putin è un bluff non oserà mai invadere l’Ucraina». Aggiunge un anziano in tuta mimetica: «Lui vuole la Crimea, se la pigli». «Oh no!» esclama un altro. «La Tymoshenko? Lei è un’oligarca, non è dei nostri». Gli increduli sono molti. Le minacce di Putin provocano sorrisi di scherno, ma in fondo preoccupano la Majdan come agitano le cancellerie nel mondo.
Sentivo la necessità di immergermi per qualche minuto nella Piazza. Da lì, da quel povero e spavaldo accampamento è scaturita la scintilla che ha acceso una crisi d’altri tempi. Una rivoluzione patriottica di stampo antico, non più alla moda, provocata dall’orgoglio, da tenzoni storiche, secolari, interne alla stessa società e da una crisi economica devastante, ha investito come uno schiaffo il potente Vladimir Putin. L’ha umiliato. Ha bloccato la sua ambiziosa ricostruzione, sotto altre spoglie, con il nazionalismo al posto del comunismo, dell’impero sovietico scomparso. Si capisce come la collera di Putin appaia a tratti in preda a un crescendo verbale di cui si stenta a immaginare la conclusione. Stava creando un’Unione euroasiatica da contrapporre all’Unione europea, e l’Ucraina, il più grande partner sul Vecchio continente, si è schierato con il fronte non nemico ma antagonista. È stato un affronto alla potenza russa, che ha do-minato per secoli su tante province ucraine.
Gli occhi sono puntati sulla Crimea. Putin vorrebbe riprendersela. Fu Krushev, che era di origine ucraina e che in quella terra aveva a lungo rappresentato il partito comunista, a staccarla dalla repubblica russa e ad aggregarla a quella ucraina. Ma era un’operazione burocratica, perché a quel tempo (1954) contava il potere sovietico. Sessant’anni dopo le cose sono cambiate. La penisola è al tempo stesso una reliquia, perché vi hanno soggiornato gli zar e i loro cortigiani, e poi i gerarchi comunisti, da Stalin a Krushev, e i più prestigiosi ospiti stranieri nel periodo sovietico. Palmiro Togliatti è morto a Yalta nel 1964. Le sue città e spiagge hanno ospitato i più celebri scrittori russi, da Cecov, a Gorky, a Tolstoj. ed è quindi un santuario della cultura. Oggi, la maggioranza dei due milioni di abitanti della provincia autonoma è del resto composta da russi. I quali non nascondono il loro attaccamento alla patria d’origine. È per proteggerli da minacce al momento immaginarie che Vladimir Putin non esclude un intervento delle sue forze armate. Il primo ministro della Crimea autonoma, Sergei Aksionov, non riconosce il governo di Kiev e chiede protezione a Mosca. Un referendum, previsto per il 30 marzo, dovrebbe dare maggiore autonomia alla provincia.
La Crimea solleva ondate di emozioni patriottiche in Russia. È un prezioso frammento della nazione da recuperare. Da buon populista Vladimir Putin sollecita la rivendicazione senza chiedere la secessione. Anche se la tentazione è forte. La base navale di Sebastopoli (25 navi da guerra e tredicimila uomini) non è soltanto importante sul piano militare. È un monumento storico. Dal Settecento è il porto di partenza dal Mar Nero verso i mari caldi: il Mediterraneo raggiungibile attraverso il Bosforo, accesso spesso sbarrato dalle potenze europee. Ed è là, per questo, che nel 1853 il Regno di Sardegna con Cavour primo ministro mandò i bersaglieri a combattere la prima guerra moderna. insieme a ottomani, inglesi e francesi, contro i russi.
l’Unità 2.3.14
Lo storico Massimo Salvadori: «Memoria, appartenenza etnica, interessi geopolitici un mix pericoloso con implicazioni che vanno ben oltre la Crimea»
«Dietro la crisi, il sogno di un grande Stato nazionale»
intervista di Umberto De Giovannangeli
«Da quando è salito al potere, Vladimir Putin ha costantemente perseguito, fin qui con successo, l’obiettivo di dar vita ad uno Stato nazionale russo, che è tutt’altra cosa da ciò che è stata l’Unione sovietica. Gli eventi che investono drammaticamente la Crimea non sono estranei a questo disegno. Con un’avvertenza, però: quanti, anche in Europa, parlano dei diritti dei cittadini ucraini, non possono dimenticare o mettere tra parentesi il fatto che non solo in Crimea ma anche in Ucraina esiste una cospicua parte della popolazione russa, la quale non ha nessuna intenzione di accettare una Ucraina unitaria in senso occidentale, e al limite parte dell’Unione europea». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici italiani: il professor Massimo Salvadori.
La «guerra di Crimea», la «battaglia di Sebastopoli». Sembravano pagine, tragiche, consegnate ai libri di storia. Invece, la storia sembra ripetersi. È così?
«La storia non si ripete mai propriamente ma lascia eredità che condizionano in maniera molto significativa il presente di vari Paesi. Una considerazione che sembra trovare conferma in quello che sta avvenendo oggi in Crimea, nel quadro della gravissima crisi in cui è precipitata l’Ucraina. E qui la storia può darci una mano». In che senso, professor Salvadori? «Per cercare di capire il presente vi sono, a mio avviso, due fatti da cui non si può prescindere; il primo, è che la Crimea è stata unita all’Ucraina nel 1954 da Kruscev, e che il Paese è diviso da una profondissima diversità etnica, perché quasi il 60% della popolazione ucraina è composta da russi e solo il 25% da ucraina, e il restante 15% da altre minoranze. Di fronte alla minaccia di scissione dell’Ucraina, la Crimea, che oltre tutto è una repubblica autonoma, risente profondamente del rapporto con la Russia, e la popolazione russa in Crimea chiede protezione a Putin. Ma non si tratta soltanto della presenza di una maggioranza di popolazione russa. Nel leggere le mosse del leader del Cremlino va tenuto conto anche del fatto che Mosca ha interessi talmente importanti nella regione, si pensi soltanto alla presenza della sua flotta del Mar Nero, tali da fare della Crimea un fronte strategica, un bastione irrinunciabile. Per non parlare poi della partita del gas che si gioca in quell’area».
E l’Europa? Quale ruolo dovrebbe giocare in questa drammatica vicenda?
«L’Europa dovrebbe giocare un ruolo importante, perché l’Ucraina è una zona di rilievo strategico non solo per la Federazione Russa e gli Stati Uniti ma per l’Unione stessa. Il punto è che quando scoppiano crisi di questa rilevanza, l’Ue torna a manifestare una cronica debolezza per il fatto di non avere una politica estera comune degna di questo nome. Di conseguenza, non si può dubitare che i due soggetti che pesano e peseranno maggiormente nella crisi ucraina, sono e saranno Mosca e Washington».
All’inizio della nostra conversazione, lei ha fatto riferimento al disegno di Putin di fondare la potenza dello Stato nazionale russo...
«Non v’è dubbio che la popolazione russa dell’Ucraina sia attratta dal richiamo del progetto putiniano. D’altro canto, va ricordato che di fronte alla parte di popolazione di origine russa che vive in Ucraina, sta un’altra componente della popolazione che è tradizionalmente ostile alla dominazione e all’influenza della Russia. Basti menzionare il fatto che durante la Seconda guerra mondiale, moltissimi ucraini accolsero i nazisti, in un primo momento, come liberatori dalla tirannide sovietica, salvo poi mutare atteggiamento di fronte alla schiavizzazione loro imposta dai conquistatori che consideravano quella ucraina una popolazione inferiore destinata al servaggio agrario. Da questo punto di vista, memoria storica, appartenenza etnica, interessi geopolitici compongono un mix altamente pericoloso con implicazioni che vanno ben oltre la Crimea».
Siamo dunque di fronte a un vicolo cieco.
«Indubbiamente siamo di fronte a una situazione carica di contrasti esplosivi, che pone tanto la Russia quanto gli Stati Uniti e l’Unione europea di fronte a compiti di estrema difficoltà che rendono fortemente ipotizzabile che l’Ucraina possa andare incontro a una divisione territoriale e politica che pure nessuno dice, pubblicamente, di volere».
il Fatto 2.3.14
Effetto Urss
di Giampiero Gramaglia
Guai a chi tocca la cortina! Arretrato rispetto ai tempi non lontani della Guerra fredda, il cordone di protezione intorno alla Madre Russia non è più di ferro, ma resta un confine d’influenza per Mosca invalicabile: Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Georgia. E che la Russia faccia sul serio, quando qualcuno non rispetta le convenzioni della geopolitica, lo dimostra la guerra di Georgia del 2008: i territori russofoni sottratti a Tblisi con le armi, non le sono stati restituiti. Ora, la decisione di Putin di chiedere alla Duma l’autorizzazione all’invio di truppe in Crimea sorprende chi dimentica che, nel 2002, il presidente George W. Bush si fece autorizzare dal Congresso Usa l’attacco all’Iraq; e che, soltanto sei mesi fa Obama voleva sollecitare al Congresso il via libera per l’intervento in Siria (e lì fu la Russia a fornirgli una via d’uscita).
Il fatto che Washington e Mosca abbiano, nel loro dna di superpotenze, l’uso della forza non lo giustifica di certo. Ma l’accento non va ora posto sulla sorpresa, che non può esserci, né sull’indignazione, che è ipocrita, ma piuttosto sugli strumenti per evitare un conflitto in Europa: di morire per Kiev, non ha voglia nessuno; ma morire a Kiev si può e s’è appena visto. Il mantra dell’integrità territoriale dell’Ucraina, cui per ora s’attengono Ue e Usa, Nato e Onu, non è assoluto. Il totem della scelta europea dell’Ucraina è un falso idolo. Che la Crimea decida con chi vuole stare, Kiev o Mosca o per conto suo. Senza tornare alle tragedie della ex Jugoslavia, dove il diritto all’autodeterminazione valeva per tutti, meno che per i serbi fuori dai confini della Serbia.
Il Sole 2.3.14
Se lo «zar» si avvicina al punto di non ritorno
di Ugo Tramballi
Michael McFaul, l'ambasciatore americano, ha lasciato Mosca qualche giorno fa e al dipartimento di Stato ancora non hanno designato il suo successore. Apparentemente normale avvicendamento deciso in tempi non sospetti. Ma l'assenza di una linea di contatto come questa, che resta ad alto livello anche nel secolo tecnologico, sembra quasi la casuale premonizione di un disastro.
Quanto siamo vicini al punto di non ritorno della più pericolosa crisi europea dai giorni della caduta del Muro e della fine dell'Urss? Leggendo i flash d'agenzia che si susseguono, sembra questione di ore, al massimo di giorni: occupata la duma della Crimea, poi l'aeroporto di Simferopol, movimenti di truppe, milizie armate, esercitazioni alla frontiera e soldati russi ormai dentro la frontiera. Dichiarazioni minacciose e ammonimenti da qualsiasi luogo si parli: Mosca, Kiev, Berlino, Washington, Parigi, Londra. È il momento della mischia. Nella quale Vladimir Putin ha compiuto nello spazio di 24 ore la sua annessione della Crimea. La metodologia è quella tradizionale di un anschluss: l'appello dei fratelli minacciati oltre frontiera, gli interessi economici e nazionali in gioco, l'ordine e la sicurezza da ripristinare. I russi lo hanno già fatto altre volte nel loro spazio geopolitico. Lo fecero anche i tedeschi, in passato. E gli americani nel 1845, prendendosi il Texas messicano in nome di un "destino manifesto". Scomponendo il rullio di tamburi ucraini, è possibile prevedere se e quando la polvere si diraderà abbastanza per riprendere il filo di un dialogo? Forse è possibile. Sempre che qualcuno non commetta una follia: al momento un'ipotesi altamente possibile. Putin sa che nel nostro campo occidentale è impensabile "morire per Sebastopoli". Ma dall'altra parte l'ipotesi non è affatto più attraente. Dmitri Trenin del Moscow Center della Carnegie Institution, ricorda che «sebbene molti pensino alla Crimea come territorio russo, un recente sondaggio dice che quasi tre quarti dei russi sono contrari a un diretto coinvolgimento in Ucraina». Guardata da Mosca, la situazione è complessa quanto lo è vista da Bruxelles e Washington. Putin è solo più determinato. Da quando governa, gioca sul revanscismo di una nazione che fu impero (sotto ogni forma mai davvero attento alla felicità e al benessere del suo popolo) e che ora si sente in credito con la Storia.
Il governo provvisorio ucraino in qualche modo ha assecondato le paure russe, trasformate in pretesto da Putin. Preso il potere, non ha dato alcun segno di pacificazione con i perdenti filo-russi della battaglia di Maidan, che sono una minoranza cospicua. Al contrario, ai gruppi ultra-nazionalisti sono stati attribuiti incarichi di una certa importanza nel settore della sicurezza nazionale. Per organizzare un Piano Marshall ucraino, Usa, Ue e organismi multilaterali devono chiarire chi comanda oggi a Kiev, se qualcuno comanda, e chi governerà fino alle elezioni di maggio.
Se l'arroganza di Vladimir Putin non ha raggiunto una dimensione soprannaturale, l'annessione de facto della Crimea alla Russia non verrà mai formalmente dichiarata. A essere realisti, nessuno nega questo diritto storico: in una situazione meno tesa, forse anche gli ucraini si libererebbero di una penisola già autonoma, piena di russi e tartari musulmani. Ma questi non sono giorni dedicati al realismo. Nella sua richiesta alla camera alta di Mosca, Putin parla d'intervento militare in Ucraina, non in Crimea. Liberatosi finalmente degli sciatori e dei pattinatori di Sochi, Putin è tornato a interpretare il ruolo che gli viene meglio.
Corriere 2.3.14La Frontiera della Storia
Quella Penisola sul Mar Nero ventre molle dell’Impero Russo
Caterina la Grande, Stalin, Eltsin: tutti hanno difeso la Crimea
di Sergio Romano
I buoni accordi internazionali sono quelli in cui ciascuna delle due parti, senza trascurare i propri interessi, riesce a mettersi nei panni dell’altra e ne comprende le esigenze. Dopo la guerra del 1870 Bismarck capì che la Francia umiliata non avrebbe dimenticato la sconfitta e ne favorì le ambizioni coloniali in Tunisia per dare qualche soddisfazione al suo bisogno di dignità e grandezza.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Stalin capì che una Finlandia indipendente e neutrale sarebbe stata meno pericolosa per l’Urss di una repubblica sovietizzata e costretta a vivere all’interno delle frontiere del Paese contro cui si era coraggiosamente battuta. La Nato e più recentemente l’Unione Europea sembrano avere dimenticato questo principio della convivenza internazionale. Hanno esteso le frontiere dell’Alleanza Atlantica al di là del sipario di ferro sino ai confini nord-occidentali della Russia. Hanno incluso l’Ucraina e la Georgia fra i Paesi che, prima o dopo, ne sarebbero divenuti membri. E corrono il rischio di commettere errori altrettanto gravi nel caso della Crimea.
Fino alla seconda metà del XVIII secolo la Crimea era un khanato tataro, residuo storico dell’Orda d’oro (da cui la Russia era stata occupata nel XIII secolo) e vassallo dell’Impero ottomano. Conquistato da Caterina la Grande nel 1784, permise alla Russia di rafforzare la sua presenza nel Mar Nero e divenne la principale base militare della sua flotta meridionale. La guerra di Crimea e l’assedio di Sebastopoli, nel 1854, confermarono che quello era il ventre molle dell’Impero, la provincia che la Russia non poteva abbandonare senza rinunciare alla propria sicurezza. Una delle condizioni più umilianti del Trattato di Parigi, dopo la fine della guerra di Crimea, fu per l’appunto la chiusura delle basi, imposta dai vincitori. La clausola fu revocata prima della fine dell’Ottocento, ma dopo la Rivoluzione d’Ottobre, durante la guerra civile, la Crimea divenne uno dei principali contrafforti dell’esercito bianco del generale Denikin e, più tardi, del generale Wrangel. Riconquistata dai Rossi, continuò ad avere per lo Stato sovietico la stessa importanza politica e militare che aveva avuto per lo Stato zarista. Erano criteri e riflessi imperiali, ma non diversi da quelli che ispiravano le grandi potenze e che hanno motivato negli ultimi decenni molte iniziative della politica americana.
La Seconda guerra mondiale confermò i timori della Russia. Quando le armate tedesche invasero l’Urss nel 1941 e avanzarono rapidamente sino ai sobborghi di Mosca, Hitler volle che una parte del corpo di spedizione piegasse verso sud e scendesse in Crimea. Non gli bastava Odessa, presidiata dai romeni sul Mar Nero. Voleva conquistare il Caucaso e impadronirsi del petrolio di Baku, sognava di lanciare la Wehrmacht verso l’India con un sogno strategico che ricordava quelli di Alessandro e di Napoleone. I tedeschi s’installarono in Crimea (dove poterono contare sulla collaborazione di molti tatari) e furono respinti per qualche tempo dall’Armata Rossa, ma riuscirono a tornarvi sino all’autunno del 1943. Stalin non dimenticò il rischio corso dall’integrità dello Stato e non esitò a deportare le popolazioni tatare in Asia centrale. Più tardi, nel 1954, Kruscev regalò la penisola a Kiev per festeggiare il trecentesimo anniversario della storica unione fra Russia e Ucraina. Forse voleva dare una soddisfazione al Paese in cui era nato, forse aveva festeggiato, come era spesso sua abitudine, con troppi bicchieri di vodka.
Anche Boris Eltsin era un grande bevitore, ma in materia di Ucraina e di Crimea dette prova di prudenza e buon senso. Sapeva che la fine dell’Unione Sovietica presentava grandi rischi. I confini delle repubbliche erano il risultato delle manipolazioni staliniane e quasi sempre contestabili. Occorreva quindi evitare che lo scioglimento del patto federale imposto dal regime comunista risvegliasse i nazionalismi che continuavano ad ardere come brace sotto la crosta della vecchia Unione Sovietica. Eltsin sperava di sostituire all’Urss una Comunità degli Stati indipendenti e sapeva che il suo disegno avrebbe avuto qualche possibilità di successo soltanto se le frontiere di tutte le repubbliche fossero state confermate e riconosciute. Avrebbe potuto rivendicare la Crimea, dove i russi, prima del ritorno dei tatari, rappresentavano circa due terzi della popolazione. Ma rinunciò a qualsiasi pretesa. Non poteva, tuttavia, ignorare l’importanza strategica di Sebastopoli per la flotta e negoziò con i dirigenti di Kiev un affitto di lunga durata fino al 2017 che è stato recentemente rinnovato per un periodo di 25 anni dal governo di Viktor Yanukovich.
Vladimir Putin non ha abbandonato questa linea. Ha fatto la guerra cecena per impedire la nascita di uno Stato musulmano a nord del Caucaso, ma ha dato in cambio denaro e autonomia. Ha punito le aspirazioni atlantiche della Georgia con la creazione di due piccoli Stati vassalli (Abkhazia e Ossezia), ma soltanto dopo la provocazione militare di Mikhail Saakashvili. Ha cercato di impedire che l’Ucraina, insieme alla Crimea, venisse attratta verso l’Unione Europea e domani, probabilmente, verso la Nato. Ma non credo che tema il cambiamento dei confini meno di Eltsin. L’Unione Europea, in queste circostanze, ha di fronte a sé due scelte possibili. Può sostenere le piazze ucraine e accettare di conseguenza la possibilità che il Paese si spacchi in quattro pezzi: l’Ucraina di Leopoli, quella di Kiev, quella russofona e una Crimea inevitabilmente soggetta a una sorta di protettorato russo. Può invece cercare con la Russia un accordo che salvi l’integrità dello Stato e lo aiuti economicamente a uscire dalla crisi. Speriamo che si ricordi, prima di prendere una decisione, ciò che accadde quando la Germania, nel dicembre 1991, riconobbe troppo frettolosamente l’indipendenza della Slovenia e della Croazia.
Corriere 2.3.14
le Tre Chiese di Kiev, la frattura politica che mette le Religioni l’una contro l’altra
di Luigi Accattoli
Papa Francesco invita a vedere la Chiesa come un «ospedale da campo» dove si soccorrono i feriti della vita: la sua metafora ha oggi in Ucraina una verifica fattuale impressionante, con l’ospedale da campo che da tre mesi è in funzione nella Cattedrale di San Michele, a Kiev, dove medici e volontari assistono i feriti degli scontri di piazza. Si sono visti anche monaci e pope delle diverse denominazioni mettersi in mezzo tra polizia e dimostranti per impedire — finché è stato possibile — l’uso delle armi.
In questo soccorso alla popolazione — in sostanziale appoggio al movimento di piazza — si sono trovate unite tutte le Chiese più rappresentative: la Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Mosca (la più grande, con forse 15 milioni di battezzati); la Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev (non riconosciuta dalle altre Chiese e osteggiata da Mosca); quella ortodossa ucraina autocefala (vicina a Costantinopoli) e i greco-cattolici in comunione col Papa, detti anche Uniati (quattro milioni).
Pur in grande conflitto tra loro, le Chiese in questa occasione sono riuscite a lavorare insieme per mantenere pacifica la protesta. Nella piazza degli scontri erano state allestite tende dove le diverse denominazioni celebravano a turno la messa su richiesta dei manifestanti. Con dichiarazioni comuni hanno più volte condannato le violenze e chiesto ai politici di «trovare una soluzione pacifica».
Pare addirittura che lo sviluppo del conflitto di piazza e la vittoria della protesta stiano aiutando le diverse anime dell’Ortodossia a trovare una composizione delle vecchie divisioni. È del 24 febbraio la notizia di un cambio al vertice della Chiesa legata al Patriarcato di Mosca, con l’elezione – da parte del Santo Sinodo – del metropolita di Chernivtsi e Bukovyna, Onufry, alla Sede di Kiev, cioè a primate dell’intera Chiesa: una decisione d’emergenza, che ufficialmente è stante giustificata con la malattia ormai irrecuperabile del primate uscente Vladimir, ma che rispondeva soprattutto alla necessità di una guida forte in un frangente straordinario.
Cinque giorni addietro, improvvisamente, un comunicato di quella Chiesa informava che i membri del Santo Sinodo si erano recati all’ospedale di Kiev dove è ricoverato Vladimir e avevano deciso che non era più in grado di continuare a ricoprire il ruolo di primate. Subito da Mosca il neoeletto Onofrio ha ricevuto la benedizione del Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill.
Lo stesso Kirill è più volte intervenuto nelle ultime settimana con appelli «per la cessazione della guerra civile». Ed è sicuramente con la sua approvazione che Onofrio e il Sinodo che l’ha eletto hanno annunciato l’apertura di negoziati con le due Chiese minoritarie alla ricerca di una composizione. Il dramma politico spinge le Chiese a dialogare. In piazza hanno saputo collaborare, vedremo che sapranno fare per ricomporre fratture di lunga data, lacerate come sono tra una componente dominante filorussa e varie componenti — tra loro in conflitto — vetero-nazionaliste e filo-occidentali. Politicamente agli ortodossi filo-occidentali si possono accostare i cattolici di rito orientale (detti Uniati), i cattolici di rito latino e varie denominazioni protestanti.
Si calcola che in Ucraina, su 45 milioni di abitanti, gli ortodossi siano il 40%, i cattolici il 10%, i protestanti il 3%. Quando i cattolici ricevettero nel giugno del 2001 la visita di papa Wojtyla, all’incontro ecumenico e interreligioso che si tenne a Kiev non fu presente la più grande delle tre Chiese ortodosse, ma solo le due minoritarie. Anche allora la tensione interna aveva due poli di attrazione esterni che erano la Russia e l’Unione Europea. Il governo e le Chiese filo-occidentali facevano buona accoglienza al Papa sperando che l’Ucraina potesse trarre dalla sua visita un vantaggio di immagine per l’ingresso nell’Unione, gli altri definivano la visita «un atto ostile» temendo che favorisse l’allontanamento da Mosca.
La conflittualità interna agli ortodossi dell’Ucraina non è nuova e risale a prima del comunismo. «Tre Chiese sono troppe per Kiev: la Vecchia, la Vivente e l’Autocefala. La Vecchia odia la Vivente e l’Autocefala, la Vivente odia la Vecchia e l’Autocefala, l’Autocefala odia la Vecchia e la Vivente»: non è una satira grossolana dell’Ortodossia ucraina coinvolta nei tragici eventi di oggi, ma una descrizione divertita di quella degli anni venti del secolo scorso, posta da Michajl Bulgakov ad apertura del capitolo «Tre Chiese», nel reportage «La città di Kiev» (1923).
A parte l’odio (oggi il sentimento dominante è lo smarrimento), tre Chiese c’erano allora e tre ce ne sono oggi. L’Autocefala attuale è quella d’allora. Alla Vecchia, oggi corrisponde la «Canonica» che obbedisce al Patriarcato di Mosca. La Vivente non esiste più: era una Chiesa fantoccio creata dal regime comunista, che non ha avuto seguito popolare. Ma c’è una terza Chiesa, come abbiamo già detto, composta in maggioranza di emigrati in Occidente rientrati in patria dopo la caduta del regime comunista, che si è attribuita di propria iniziativa il titolo patriarcale nel 1992.
Repubblica 2.3.14
“Schiave del sesso, niente scuse” lo schiaffo del Giappone di Abe
Scontro con Seul e Pechino sulle prigioniere sfruttate in guerra
di Giampaolo Visetti
PECHINO - Il passato non risolto torna a dividere le super-potenze dell’Asia, sempre più scosse dall’esplosione del nazionalismo e sull’orlo di una crisi che allarma anche gli Usa. A riaccendere l’odio popolare in Cina e Corea del Sud è ancora una volta il premier giapponese Shinzo Abe, deciso a riesaminare la “Dichiarazione Kono” del 1993, con la quale Tokyo chiese scusa per le schiave sessuali sfruttate dall’esercito imperiale durante la seconda guerra mondiale. A migliaia, dopo l’invasione di Corea e Cina, furono costrette nei bordelli militari giapponesi, venendo definite “donne di conforto”.
Stupri e sparizioni hanno scavato ferite mai rimarginate. Vent’anni fa Tokyo porse le «sincere scuse del popolo giapponese » dopo la testimonianza di sedici sopravvissute coreane, che portò il governo dell’epoca a riconoscere la complicità nipponica nel sistema della schiavitù di guerra. Il conservatore Abe, accusato di «revisionismo» e di spostare il Giappone su posizioni sempre più di estrema destra, ha ora annunciato di aver istituito una commissione per il «riesame delle scuse del 1993». Inutile l’intervento dell’ex premier, che incontrò i protagonisti delle violenze confermando che «la complicità delle autorità di Tokyo è un fatto evidente».
Dopo lo scoppio dello scontro con Pechino per le isole contese nel Mar Giallo, Abe soffia sul fuoco del montante nazionalismo interno e alimenta i risentimenti di chi ha sempre considerato ingiusta la tragica pace imposta al Giappone nel 1945 dall’atomica Usa. Deciso a riavviare le centrali nucleari chiuse dopo la crisi di Fukushima, Abe ha promesso di abolire la Costituzione pacifista postbellica, lanciato la corsa al riarmo ed evitato di condannare recenti episodi di razzismo e antisemitismo. A fine dicembre ha fatto infuriare la Cina visitando il santuario di Yasukuni, dove oltre ai caduti giapponesi sono sepolti 14 ufficiali che Pechino e Seul considerano criminali di guerra. Un crescendo di provocazioni, sostenuto da nostalgici e neo-nazisti, che a metà febbraio ha indotto la Casa Bianca a inviare in Asia il segretario di stato John Kerry, sia per evitare che si rompa l’asse Giappone- Corea del Sud, in chiave anti- Pechino e anti-Pyongyang, sia che precipiti il conflitto sino-giapponese.
Anche in Cina si rafforzano infatti propaganda nazionalista e vecchi rancori contro gli ex invasori. Il governo ha annunciato che il giorno del massacro di Nanchino del 1937, quando i soldati giapponesi uccisero 300 mila civili cinesi, e quello della vittoria sul Giappone nel 1945, saranno onorati come festività nazionali. Un tribunale di Pechino ha accettato la richiesta di risarcimento di alcuni ex prigionieri cinesi che furono sfruttati dai giapponesi per lavori forzati, come altre migliaia. In Cina, come in Corea del Sud, la svolta a destra di Tokyo semina nuovi risentimenti, con imprese ed espatriati giapponesi che vivono nell’incubo di rappresaglie. Il
Quotidiano del popolo ieri ha lanciato un gioco on line che offre ai lettori la possibilità di sparare ai 14 criminali di guerra giapponesi sepolti a Yasukuni, tra cui l’ex premier Hideki Tojo. Una tensione prossima al limite, in cui un incidente casuale può ormai degenerare in una guerra asiatica. Prospettiva che, oltre agli Usa e alle Borse, spaventa ora anche un’Europa già scossa dall’intervento di Mosca in Ucraina.
La Stampa 2.3.14
Cina, assalto alla stazione
27 uccisi a colpi di coltello
L’ombra del terrorismo islamico: la tecnica è quella usata di solito dagli uiguri
di Ilaria Maria Sala
Un’assalto all’arma bianca terminato in un bagno di sangue: 27 i morti, 109 i feriti, e immagini terribili che cominciano a circolare in piena notte. Ancora non è chiaro che cosa sia successo alla stazione di Kunming, nella Cina del Sud-Ovest, se non che vi è stato un attentato orrendo, già definito come «terrorista» dai media ufficiali.
Uno dei pochi dati certi è che gli aggressori erano cinque, armati di coltelli e forse anche machete, tutti e cinque già uccisi dalla polizia a colpi di arma da fuoco. Chi erano? Per quale motivo si sono scagliati contro passeggeri innocenti? Le poche testimonianze oculari che filtrano dal Web parlano di «uomini vestiti di nero, con lunghi coltelli», e basta: le direttive per la stampa cinese sono di seguire quanto riporta Xinhua, la principale agenzia di stampa cinese, e di non pubblicare foto che mostrano le vittime.
Per ora, in attesa che Xinhua decida quale versione approvare, si accavallano supposizioni, basate sui precedenti. Prima di tutto, i coltelli: un’arma che in passato è stata utilizzata da terroristi uiguri in azioni anti-cinesi. Qualcosa di tristemente simile si vide infatti nel 2009, quando una violenta sommossa anti-cinese a Urumuqi, la capitale regionale del Xinjiang, portò a 197 morti e centinaia di feriti, prima che iniziasse una stagione orrenda di sparizioni nella notte di uomini dalla comunità uigura, condotti via dalla polizia.
Le fotografie diffuse ieri notte prima della censura dai social network cinesi, riportano alla mente la tragedia di quasi cinque anni fa. Ieri Urumuqi, oggi Kunming: decine di corpi riversi sul freddo delle piastrelle del pavimento della stazione, in mezzo al sangue, sotto le luci livide dei neon dell’illuminazione notturna.
Ma se un attacco simile aveva una sua macabra logica nel Xinjiang, la grande regione di frontiera dove le tensioni etniche fra uiguri e cinesi sono all’ordine del giorno (il Xinjiang è una zona turcofona passata sotto controllo cinese più o meno alla stessa epoca del Tibet), sarebbe ben più sorprendente se ciò avvenisse in una regione relativamente calma come lo Yunnan. Altra ipotesi dunque, il terrorismo di «vendetta», verificatosi già in numerose altre occasioni. Scatenato di solito da rancori personali, o comunque di piccoli gruppi di persone, che si vendicano di angherie subite con attacchi indiscriminati. Ultima ipotesi che si rincorre sulla Rete, quella che la maggior parte delle vittime lo sia stata in conseguenza dell’eccessiva reazione della polizia, che ha ucciso sia i terroristi che alcuni malcapitati.
L’unica certezza, nel frattempo, sono quei poveri corpi senza vita riversi a terra nella notte, in un’insanguinata stazione della Cina meridionale.
La Stampa 2.3.14
“Due popoli, due Stati? Un’illusione. Israele deve restare in Cisgiordania”
Il ministro “falco” Bennett: “Gli accordi di Oslo hanno portato solo terrorismo”
di Maurizio Molinari
Niente cravatta, in maniche di camicia, l’inglese con accento americano e un marcato ottimismo sul futuro di Israele: così Naftali Bennett si presenta nella sala riunioni della Knesset, il Parlamento, dove guida «HaBayit HaYehudì» (La casa ebraica) alleato-chiave del Likud nella coalizione di Benjamin Netanyahu. I sondaggi danno la sua popolarità in crescita e a 41 anni è considerato una stella nascente della politica, anche perché somma l’esperienza nelle truppe speciali al successo nell’hi-tech. «Molti leader sono meteore, Bennett è sulla scena per rimanervi» assicura Shimon Shiffer, il più apprezzato analista politico.
La scelta di raccontarsi a un ristretto gruppo di giornalisti europei testimonia la volontà di farsi conoscere anche all’estero.
Da dove viene la sua passione per la politica?
«Vengo da Haifa. Ero poco più che un ragazzo quando si pensava che con gli accordi di Oslo era arrivata la pace. In realtà sono arrivati i kamikaze della Seconda Intifada, la seconda guerra del Libano e la guerra a Gaza. Siamo stati aggrediti nelle nostre città. Oggi gli Hezbollah hanno 100 mila missili con cui ci minacciano. Israele deve essere difesa, rafforzata».
Lei ha combattuto in Libano. Ci racconta che mansioni aveva?
«Appartenevo alle unità che davano la caccia ai lanciamissili degli Hezbollah. Dovevamo trovarli. Poi venivano distrutti».
Perché ha fondato il partito «HaBayt HaYehudì»?
«Vengo dal Partito nazional-religioso, aveva appena tre deputati. Credo nella collaborazione religiosi-laici e in un maggior coinvolgimento degli ortodossi nella vita pubblica. Ho sostenuto tali idee, abbiamo preso 12 deputati e possiamo ancora crescere».
Come ministro dell’Economia che obiettivi si è dato?
«In Israele non c’è solo il boom dell’hi-tech, c’è anche un’altra economia più debole da rafforzare. Per farlo bisogna spingere gli ebrei ortodossi e le donne arabe a partecipare di più nel mercato del lavoro. Sono le mie più importanti priorità anche se, certo, aver raggiunto il pareggio di bilancio è di indubbio valore. Stiamo andando nella direzione giusta, sono ottimista sul futuro».
Per l’hi-tech, dal quale lei viene, cosa prevede?
«Deve puntare sulle frontiere più avanzate: sicurezza alimentare, cybersicurezza, allungamento della vita umana e gestione idrica».
Come è cambiato il Medio Oriente attorno a Israele?
«Siamo passati dalla Primavera araba all’Inverno musulmano dominato dall’instabilità e dalla Jihad globale. In tale cornice Israele rappresenta un faro di democrazia».
I palestinesi di Abu Mazen premono per l’accordo sulla fine del conflitto, è possibile raggiungerlo?
«Uno Stato palestinese dentro Israele non funzionerà. Troppo spesso ci siamo illusi che bastasse ritirarci per raggiungere la pace. Nel 1994 ci ritirammo dalle città palestinesi e poco dopo da quegli stessi luoghi arrivarono i kamikaze. Nel 2000 ci siamo ritirati dal Sud Libano, dove non abbiamo rivendicazioni, e ci si è insediato Hezbollah lanciandoci razzi. Nel 2005 abbiamo lasciato Gaza e abbiamo avuto altri razzi. Lasciare la terra non basta perché l’Iran ne sfrutta ogni lembo per infiltrarsi, con terroristi e missili. È una strategia. Se dovessimo lasciare la Giudea e Samaria sarebbero gli iraniani ad approfittarne».
Come pensa di risolvere il conflitto con i palestinesi?
«Non ho una soluzione immediata ma credo nello sviluppo economico. Per questo sono per l’estensione a Giudea e Samaria - la West Bank - della legge israeliana sul lavoro. Porterebbe a quadruplicare all’istante i salari dei palestinesi. Credo anche in un maggiore coinvolgimento della Giordania».
Se Netanyahu dovesse firmare l’intesa con Abu Mazen sui due Stati, lascerete la coalizione?
«Vedremo cosa dirà l’eventuale accordo prima di decidere come reagire. Non voglio cacciare 2 milioni di palestinesi ma ritengo possano esserci soluzioni nuove, migliori, da perseguire».
Ad esempio?
«Estendere il controllo di Israele alle intere aree B e C di Giudea e Samaria, dove vive pressoché la totalità dei 400 mila israeliani degli insediamenti. Vi sono anche 70 mila palestinesi in questi territori e potremmo garantirgli la piena cittadinanza. All’Autorità resterebbero i maggiori centri abitati dove si concentra la quasi totalità dei palestinesi. È una strada basata sul rispetto dell’identità degli abitanti».
Cosa vede nell’immediato futuro di Israele?
«Abbiamo un governo forte che va nella direzione giusta ma il pericolo è l’atomica iraniana. Teheran ha 19 mila centrifughe e può realizzare una bomba ogni 6 settimane. I negoziati in corso devono obbligare l’Iran a smantellare l’intero programma nucleare».
Corriere 2.3.14
La revisione storica parte da YouTube
«The Act of Killing» e il Caso indonesiano
di Dino Messina
Dall’ottobre 1965 alla primavera successiva forze militari e paramilitari indonesiane, schierate con il futuro dittatore Suharto, compirono un massacro di cui poco si è parlato: oltre cinquecentomila persone, c’è chi dice un milione, accusate di essere comuniste o genericamente di sinistra, o semplicemente di etnia cinese, vennero uccise in risposta a un attentato in cui avevano perso la vita cinque generali. Questa storia è stata raccontata in un film candidato agli Oscar: The act of killing , l’atto di uccidere, in cui il regista texano Joshua Oppenheimer, come ha scritto Paolo Mereghetti nella recensione del 15 settembre 2013, «mescola realtà e finzione».
Quel che ancora non sapevamo è che il film, proibito in Indonesia dai governi che su quei fatti hanno steso un velo di silenzio durato quasi mezzo secolo, è stato distribuito gratuitamente per volontà del regista su YouTube e ha innescato un dibattito collettivo e un salutare processo di revisione ancora in corso.
A parlarne sul New York Times è Andreas Harsono, un attivista di Human Rights Watch, figlio di un ricco rappresentante della comunità cinese che nei mesi della persecuzione portò in salvo la famiglia da Jember, città epicentro della repressione, nella parte orientale di Java, al porto di Surabaya.
Nonostante le dichiarazioni giustificazioniste del ministro dell’Interno Djoko Suyanto, secondo cui l’Indonesia non sarebbe il Paese che è senza quella crudele repressione, il presidente Youdhoyono è stato costretto a nominare una commissione d’inchiesta sui fatti. Il riconoscimento della verità sulle persecuzioni di cinquant’anni fa non è un fatto accademico riservato solo agli storici. Denunciare le squadre della morte di ieri è necessario per delegittimare i gruppi paramilitari di oggi che seminano il terrore sotto le bandiere dell’estremismo islamico e per togliere qualsiasi alibi alla mano forte usata contro i nazionalisti di Papua.
Andreas Harsono stanotte seguirà la premiazione degli Oscar e farà il tifo per il film di Joshua Oppenheimer.
La Stampa 2.3.14
Ottimo e abbondante: il futuro non si addice a Cassandra
Contro i profeti di sventura, Peter Diamandis spiega perché l’avvenire è migliore di quanto pensiamo. Un libro da leggere, soprattutto in Italia
di Gianni Riotta
Alla fine del XVIII secolo Malthus previde lo sterminio dell’umanità: poiché la popolazione cresceva in progressione geometrica - 1, 2, 4, 8, 16, 32… - il cibo solo in progressione aritmetica - 1, 2, 3, 4, 5 -, tutti morti di fame in poco tempo. Le previsioni tragiche hanno di rado successo, Cassandra non coglie le tragedie vere, guerra nel 1914 e 1939, Aids, crisi finanziaria 2008, e annuncia spaventapasseri innocui. Stanley Jevons ebbe successo nel 1865 scrivendo che il carbone si sarebbe esaurito entro il secolo, il
Times
di Londra denunciava nel 1894 che entro il 1944 la città sarebbe stata sommersa da tre metri di sterco di cavallo di migliaia di carrozze e tram. Nel 1914 il governo Usa stima la fine del petrolio in 10 anni, e ripete l’errore nel 1939 e 1951. Nel 1972 il Club di Roma - attraendosi le ironie dell’ Economist - è certo della fine di petrolio, gas naturale e materie prime, del boom dei prezzi, della depressione globale. Smentito, intigna: sbagliammo allora, ma il Caos resta vicino!
Perché il business di Cassandra non conosce crisi - date un occhio a giornali, tv e web - annunciando ogni sorta di malanno che il futuro non comprova? Secondo lo studioso e investitore Peter Diamandis, autore con Steven Kotler del saggio Abbondanza. Il futuro è migliore di quanto pensiate (prossimamente in libreria per Codice Edizioni) è colpa dell’amigdala, la parte del cervello umano che controlla la reazione alla paura e al pericolo. Millenni di sopravvivenza grazie all’amigdala che ci avvisava della bestia feroce in agguato nella boscaglia, del predone con un tomahawk dietro la grotta, ci rendono più sensibili al rischio da prevenire che all’opportunità da cogliere. Ci insegnava il direttore della Columbia Journalism Review, Spencer Klaw: «La gente scambia sempre il commentatore pessimista per autorevole, l’ottimista per superficiale». Amigdala!
Diamandis è un ottimista, la sua X Prize Foundation concede milioni di dollari in finanziamenti a chi realizza progetti pilota, auto elettriche, capsule spaziali economiche. Ed è dunque persuaso, al contrario di Malthus e del Club di Roma, che il futuro sarà migliore del presente, malgrado crisi, cambio del clima, disuguaglianze crescenti. Perché sbagliano le Cassandre, secondo Diamandis? Perché - e qui l’autore ha ragione - calcolano il futuro sui parametri del presente, come se nulla cambiasse e non si introducesse innovazione a mutare le stime. Oggi negli Usa la rivoluzione dello shale gas, energia che solo 10 anni fa valeva nulla, rende il paese libero dal ricatto del petrolio e assai meno vulnerabile dal ricatto energetico di Mosca e del Medio Oriente.
Siate pessimisti o ottimisti, in Abbondanza troverete spunti affascinanti, il futuro delle energie solari, robot chirurghi, nati in guerra e che adesso lavorano sulle ginocchia infortunate, stampanti tridimensionali con materiale genetico (creeremo pelle sintetica per gli ustionati), energia nucleare pulita entro il 2030, altro che Fukushima, desalinatori per rendere fertile il Sahara e dissetare le megalopoli con l’acqua marina. Ci preoccupiamo tanto della desertificazione, Slow Food e Terra Madre di Carlin Petrini giustamente difendono i venerabili prodotti della terra, mentre Diamandis parla - e va ascoltato - di «agricoltura verticale», grattacieli che hanno a ogni piano una serra gigantesca: sorgendo in periferia della città, tagliano a 0 i costi di trasporto, uso di fertilizzanti, danno respiro ai campi troppo sfruttati, portano frutta e verdura fresca in ogni tavola senza che la carta di credito ci rovini al supermarket.
I critici, come Matt Ridley del Wall Street Journal, contestano a Diamandis che la sua «dematerializzazione», risolvere i problemi con un software o un algoritmo secondo la filosofia di Silicon Valley, non basta a eliminare disoccupazione, inquinamento, miseria. Diamandis risponde che si tratta di processi, non di formule magiche (il dibattito Ridley-Diamandis al sito http://goo.gl/tRzejN).
Per chi ama il realismo, senza farsi condizionare dalle fobie dell’amigdala o dalle utopie tecnologiche, Abbondanza suscita due riflessioni. La prima: libro assolutamente da leggere in un Paese drogato di pessimismo come l’Italia, tra profeti cupi, persuasi che il web crei ignoranza, lo shale gas terremoti, gli Ogm mostriciattoli verdastri, le infrastrutture mafia…, per ricordarsi quanto le Cassandre abbiano sbagliato negli ultimi due secoli e sbaglino nel 2014. La seconda: verissimo che il presente è migliore di quanto i nostri nonni non sognassero e la realtà diversa dalle chiacchiere dei talk show (negli Usa il 5 per cento dei più poveri è, in media, più ricco del 5 per cento degli indiani più ricchi, nessuno ve lo dice e vale la pena di riflettere su cosa significhi questa cifra…), ma come il futuro ci sorprende in bene, ci sorprenderà anche nel male. Chi avrebbe detto, ai tempi degli abbracci tra Reagan e Gorbaciov, che un nuovo leader del Cremlino avrebbe mandato truppe oltre i confini russi? Purtroppo all’impotenza di Obama e degli europei, l’ottimismo condivisibile di Diamandis nessun aiuto offre. Davanti ai carri armati di Putin servono Machiavelli e Churchill, non bastano le stampanti 3D.
La Stampa 2.3.14
“Biermann, Christa Wolf e gli altri non capivano ma si adeguavano”
L’accusa del poeta Uwe Kolbe, che nel suo primo romanzo racconta gli anni della Ddr: erano gli intellettuali a legittimare Honecker
di Tonia Mastrobuono
Della «dittatura dei piccoloborghesi» Uwe Kolbe non voleva riesumare soltanto la sua storia personale. Quella di un enfant prodige della poesia che con la caduta del Muro scopre, come milioni di tedeschi, di essere spiato da una persona amata. In questo caso addirittura dal padre, un alto ufficiale della Stasi. Come per prendere le distanze da quel passato, dal quartiere di Berlino Est, Prenzlauer Berg, che ha battezzato uno dei circoli letterari più famosi della Ddr e che lo ha cresciuto, Kolbe ci dà appuntamento in un famoso caffè dietro l’«isola dei bevitori furbi», come l’ha chiamata in una poesia recente, dietro Savignyplatz, nella parte occidentale della città. E il tema principale della nostra conversazione è una ferocissima resa dei conti con quegli ambienti, con gli intellettuali della Germania Est, anche con icone intoccabili come Christa Wolf, Heiner Müller e Wolf Biermann, che il poeta ritiene corresponsabili della lunga sopravvivenza del regime.
Kolbe vive ormai a Amburgo ed è nella capitale per presentare il suo primo, bellissimo romanzo, Die Lüge (La bugia, ed. S. Fischer), che effettivamente racconta un rapporto tra padre e figlio fatto di menzogne e tradimenti. Allude al conflitto sin dai nomi, Hildebrand e Hadubrand, presi in prestito dal primo poema della letteratura tedesca, dalla medievale Canzone di Ildebrando, dove i due eserciti di padre e figlio si affrontano in battaglia e il primo uccide il secondo. Ma nonostante le apparenze, le somiglianze anche biografiche – il padre è un comunista convinto, il figlio un artista che diventa famoso quando è ancora molto giovane – il romanzo tratta di altro.
In alcune opere più vecchie, Kolbe aveva già fatto i conti con il suo passato doloroso. Qui si tratta piuttosto di raccontare il regime e i suoi corresponsabili, che agli occhi di Kolbe sono gli scrittori, i poeti, i musicisti «che ballavano sul Muro, che si giostravano tra roboante opposizione e adeguamento, che facevano i funamboli, sprecando le loro energie e le loro intelligenze critiche per qualcosa che non esisteva. Non hanno mai capito che non c’era un interlocutore, un destinatario dei loro messaggi. Avrebbero dovuto dire “il re è nudo”, come pochissimi hanno fatto. E anche quelli che andavano via, che andavano in Occidente, hanno continuato a fornirci le loro inutili analisi marxiste della realtà».
Il regime di Honecker, un personaggio talmente ridicolo, sottolinea Kolbe, «che Chaplin non avrebbe potuto neanche caricaturarlo in un altro Grande dittatore», aveva certamente degli aspetti raccapriccianti, «di cui abbiamo parlato mille volte, la repressione, la Stasi, eccetera». Ma il tema, sottolinea, «è anche che Honecker era una figura piccola, squallida, un borghesuccio, come si capì pure quando ci fecero vedere quelle ridicole villette dove viveva, a Wantlitz». La verità, «che molti ancora faticano a vedere, è che Honecker e i suoi avevano una paura tremenda. E presidiavano una zona di potere vuota. Il problema è: chi li legittimava? È chiaro: gli intellettuali. Ed è con loro che faccio i conti». Tanto è vero «che il primo impulso era stato di titolare il libro “Indolenza”».
L’indolenza è quella del suo alter ego, Hadubrandt – «perché è ovvio che con il libro non voglio soltanto far male ad alcuni di quella generazione, ma anche, in parte, a me stesso» –, che attraversa decenni di spensierata vita da artista, oscillando tra adattamento al regime – per non perdere il successo garantito in primo luogo dalla benevolenza dell’apparato – e accenni timidi di reazione. Ma che è dedito soprattutto «allo sfrenato edonismo tipico della Ddr, vietato ma diffusissimo», che colleziona donne, figli e colossali bevute. Il protagonista è «un marxista ribelle che si oppone a parole ma poi è attratto dalla sirena del successo. Per me Hudubrandt è una “pars pro toto”, è quel miscuglio di ribellione e adeguamento che disgraziatamente caratterizza ogni regime». Ecco perché il romanzo non è ambientato esplicitamente nella Ddr.
I personaggi, però, sono riconoscibilissimi. C’è il suo mentore, Franz Führmann, che fu un oppositore della dittatura e che nel libro è tra le rare figure positive, così come appaiono altri famosi intellettuali come Heiner Müller «colpevoli di essere ribelli riluttanti» o Wolf Biermann «che andò all’Ovest per diventare che cosa? Il più grande critico comunista dei comunisti». E Christa Wolf, che non è mai citata nel romanzo, ma che fu vittima, in uno dei più famosi romanzi sul Muro, Eroi come noi, di una lunga stroncatura da parte di un altro scrittore di Berlino Est, Thomas Brussig? «È l’esempio lampante dell’intellettuale che non prende posizione, che spreca energie per qualcosa che non esiste». Per Kolbe, «alla fine la riflessione vera è la seguente: come ha potuto durare 40 anni questo presunto “paradiso in terra”, che non era altro che un teatro dell’assurdo, un regime che aveva ereditato uomini e strutture del Terzo Reich? E perché gli intellettuali sono stati lì a difendere l’utopia contro il reale? Un fatto vero è che gli intellettuali tedeschi non erano anticomunisti, non erano liberali, non erano cattolici come Solidarnosc. E hanno cullato questo sogno assurdo della Terza via. Persino quando crollò il Muro, lo avrebbero voluto lì, per un altro po’, per fare esperimenti socialisti. Un popolo intero li ha giustamente mandati a quel paese».
La Stampa 2.3.14
65.000 dollari per il Mein Kampf con dedica di Hitler
Undici potenziali compratori si sono dati battaglia per aggiudicarsi a un’asta online a Los Angeles una copia in due volumi del Mein Kampf di Adolf Hitler: copia particolarmente rara perché contiene una dedica e la firma dell’autore. Alla fine, il discutibile cimelio è stato battuto per 64.850 dollari. I due volumi erano stati destinati da Hitler come dono natalizio, con tanto di auguri e autografo, a uno dei suoi seguaci della prima ora, Josef Bauer, che era con lui nel Putsch di Monaco, il fallito di colpo di Stato del novembre 1923. Proprio per quegli eventi Hitler finì in carcere, dove si dedicò a scrivere una parte del suo «manifesto», o meglio a dettarlo all’amico e compagno di prigionia Rudolf Hess. Ne venne fuori un’opera in due volumi: il primo, intitolato Eine Abrechnung (Resoconto) uscì nel 1925; il secondo, Die nationalsozialistische Bewegung (Il movimento nazional-socialista), nel 1926. Dei due volumi venduti all’asta uno è del 1925, l’altro del 1926: si tratta quindi di due prime edizioni, ma il prezzo raggiunto nella vendita ha comunque sorpreso molti, anche perché l’ultima volta che i due volumi erano passati di mano, nel 2012, in un’asta a Londra, erano stati venduti per 25.000 dollari.
Repubblica 2.3.14
Dora Maar nonostante Picasso
La donna che pianse per il suo Minotauro
Il loro fu l’incontro tra un sadico e una masochista
Lui era un satiro, un poligamo totale che faceva soffrire tutti quelli che gli stavano attorno e le sue muse in particolare
di Dario Pappalardo
C’è una foto che rende già l’idea. Picasso è seduto sulla spiaggia con un costumino bianco e la faccia coperta da un cranio di bue. È in quel momento che diventa il Minotauro. Dietro l’obiettivo - estate 1937, sud della Francia - c’è la donna finita per dieci anni nel suo labirinto. Si chiama Dora Maar. Per la storia è solo l’amante più celebre di Pablo: lamujer que llora, la donna che piange delle sue tele, la tradita, la gelosa, la nevrotica. Dora e il Minotauro, Dora in versione canina, Dora con testa e naso enormi e le sembianze deformate dal cubismo. Le pareti dei musei sono piene di ritratti così. Di Henriette Theodora Markovitch, così si chiama davvero, nata a Parigi nel 1907, si ignorano un prima e un dopo Picasso. Nel 1946, quando la relazione finisce, lei è come risucchiata da un buco nero. Si chiude in casa, veste di scuro, vede poche persone. Soprattutto il suo analista, Jacques Lacan, e un padre spirituale. Perché «Dopo Picasso, c’è solo Dio», dice.
A rimettere insieme i frammenti di una vita lunga quasi un secolo - Maar muore novantenne, nel 1997 - è stata Victoria Combalía, curatrice, storica dell’arte e, per vent’anni, detective del “caso Dora”. L’unica persona che, nell’ultimo periodo, ne ha raccolto direttamente confidenze e memorie. Il risultato è una biografia uscita in Spagna nel 2013, Dora Maar. Más allá de Picasso (pubblicata da Circe) e, adesso, una grande mostra che apre l’8 marzo a Venezia: “Dora Maar. Nonostante Picasso” (catalogo Skira). A Palazzo Fortuny saranno esposte, per la prima volta in Italia, oltre cento opere di lei, non di lui: fotografie realizzate negli anni Trenta da una donna libera, che probabilmente sarebbe diventata una grande artista, se non fosse finita nell’ombra del pittore più famoso del Novecento.
«Non ti risponderà mai al telefono, mi dicevano tutti - racconta Combalía - Poi un giorno, superando la paura, l’ho chiamata e il miracolo è accaduto ». Dora, che non vuole incontrare più nessuno, le parla. Tra le due inizia un rapporto di fiducia. «Viveva ritirata dal mondo, ma al tempo stesso era ancora curiosa, la conversazione con lei risultava brillante. E la cosa assurda era che, quando mi capitava di incontrare i suoi vecchi amici di un tempo, loro mi chiedevano di portarle i saluti. Ero diventata l’unico tramite con l’esterno ». Dopo l’abbandono di Picasso, l’esilio volontario di Dora Maar si fa via via più estremo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il rapporto con il più grande maestro del secolo l’ha segnata per sempre. «Per certi versi, il loro fu l’incontro tra un sadico e una masochista - spiega la biografa -. Picasso era un satiro, un poligamo totale, faceva soffrire tutti quelli che gli stavano attorno. E le sue donne in particolare. Amava innescare situazioni esplosive. Quando, nel 1936, ha ormai cominciato la relazione con Dora, le fa incontrare nel suo studio l’amante precedente, Marie-Thérèse Walter, madre della figlia Maya. Le due arrivano a picchiarsi. Lui, rimasto fermo a guardare, commenterà: “È uno dei ricordi più belli della mia vita”. E rinnoverà il copione qualche anno dopo, presentando a Dora la giovanissima pittrice Françoise Gilot, che ne prenderà il posto».
Dell’affollato gineceo di Picasso Dora Maar è la donna più colta, e anche quella con cui l’artista entra più in competizione. «Lui, che pure ne apprezza il lato intellettuale, arriva a sottometterla. Perché “le donne sono macchine costruite per soffrire”, è il suo motto. Esercita il suo sadismo nella pittura: la ritrae prima bella e malinconica, poi come “la donna che piange”, la vittima, e mano a mano sempre più mostruosa. Un giorno, lei mi ha detto: “Si comportava da vero uomo, rivendicava fortemente i suoi diritti”. Intendeva quelli sulle sue donne: un modo elegante per sottolineare che era estremamente maschilista e violento. È incredibile che Dora non abbia mai usato parole negative per descriverlo. In casa aveva centotrenta opere realizzate da lui. Ne era ancora affascinata. O forse, alla fine, aveva fatto pace con se stessa e con l’ex amante. Ricordava ancora con trasporto quei giorni del 1937, quando lui dipingeva
Guernica e lei sistemava grandi lampade nello studio per fotografare le varie fasi di lavorazione dell’opera».
Quegli scatti, ora nella collezione del Reina Sofía, sono tra le opere che saranno esposte a Venezia. «Perché questa mostra - precisa Combalía - restituisce a Dora Maar il suo ruolo di artista negli anni Trenta, prima dell’incontro con Picasso, di donna impegnata a sinistra, nella Parigi dei surrealisti e di Georges Bataille, con cui intreccia una breve relazione e di cui sposa le idee rivoluzionarie. La mia tesi è che, se si guardano le sue fotografie, si capisce che sarebbe potuta diventare celebre come Cartier-Bresson o Brassaï. Aveva uno sguardo molto personale sul mondo. Anche le sue foto più crude, quelle che ritraggono i diseredati e i mutilati di guerra, mantengono come una luce di mistero unica».
In mostra ci sono le immagini che Maar raccoglie per le strade di un’Europa nel pieno della crisi economica: borseggiatori, venditori ambulanti, accattoni, ragazzini con le scarpe spaiate. Lei, che è cresciuta in una famiglia dell’alta borghesia, diventa di casa a La Zone, il quartiere delle baracche ai margini di Parigi: ne ritrae la vita, i bambini, le roulotte e la povertà. Lo stesso fa in Spagna, dove alterna alla documentazione della miseria la festa e i sorrisi delle venditrici del mercato della Boquería di Barcellona. Nel 1934, Dora entra nel gruppo surrealista: Jacqueline, la moglie di André Breton, è una delle sue migliori amiche e l’oggetto di alcuni scatti. Le influenze del movimento sono evidenti in un foto collage finora inedito come Ciechi a Versailles, dove l’artista inserisce sullo sfondo della sala dei re di Francia tutti i ritratti dei non vedenti realizzati durante i suoi viaggi.
Due anni dopo, Paul Éluard le presenta Pablo Picasso alla prima di un film di Jean Renoir. Lei lo conquista giocando a piantare un coltello sul tavolo nello spazio tra le dita. Dirada la sua attività di fotografa, lo segue ovunque. Dirà: «Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone ». Nel 1945 arrivano le crisi di nervi e il ricovero, l’elettrochoc e Lacan. Il pittore è ormai insieme alla Gilot. «Dora mi raccontò che continuò a vedere Picasso fino al 1946, poi non si incontrarono più. Tra le compagne di Pablo, Marie-Thérèse Walter si impiccò e Jacqueline Roque si sparò alla tempia. Dora cercò di curarsi in tutti i modi e di vivere. Abbracciò la fede e, da progressista che era, divenne profondamente conservatrice. Non ebbe mai più un uomo. Ho trovato dei biglietti che inviò a Picasso ancora negli anni Sessanta. Brevi messaggi: “Spero tu stia bene”. “Mi auguro che pensi anche alla tua anima”. Voleva convertirlo al cattolicesimo. Non ho trovato le risposte di lui, posto che ci furono».
Dora Maar muore a Parigi il 16 luglio 1997. Al funerale partecipano sette persone. La stampa titola: «Sacrificata al Minotauro».
Repubblica 2.3.14
Le schiave e i padroni
di Natalia Aspesi
Molto più vecchio delle sue mogli e compagne, una faccia cattiva, nerboruto, con spaventose magliette a righe, ci si chiede: perché le donne, le ragazze, impazzivano per lui? L’arte, la celebrità, i soldi, lo sguardo nero e cattivo, va bene. Ma se anche una donna intelligente e libera come Dora Maar, finita la loro relazione, si chiuse in una specie di clausura e non trovò di meglio, per sostituirlo, che uno scrittore gay e la fede, la ragione doveva essere altra. Proprio quella a cui le donne già si ribellavano da tempo, la brutale supremazia del maschio, la sua capacità di sottomettere anche donne di grande valore, che scambiavano la crudeltà non solo psicologica per meravigliosa passione. Picasso era un geniale seduttore che faceva credere alle sue donne (sette importanti, compresa Dora) di adorarle perché uniche: quando se ne stufava le distruggeva. Oggi che questi tiranni sono quasi scomparsi, le donne scrivono e leggono avidamente storie sadomaso di schiave e padroni. Non sarà per inquieta, assurda nostalgia?
l’Unità 2.3.14
In principio fu il bit
Un libro sulla nascita della filosofia digitale
Il nuovo pensiero è ambizioso: passare da una visione cosmica fondata sulla materia a una visione cosmica fondata sull’informazione
Che cos’è allora la natura?
di Pietro Greco
IN PRINCIPIO FU IL BIT. SÌ, IL QUANTO D’INFORMAZIONE. L’ATOMO DELLA COMPUTAZIONE. Poi furono la materia e l’energia. E finalmente dopo il Bit Bang, la grande esplosione informatica, prese forma il nostro universo, occupando tutti gli spazi di libertà lasciati dal programma.
È questa l’idea archetipica che vanno proponendo da alcuni anni fisici, come Seth Lloyd ed Edward Fredkin; matematici, come Gregory Chaitin; e fisici matematici, come Stephen Wolfram. Ed è questa la trama fondamentale di Bit Bang, il libro che Giuseppe O. Longo, informatico e scrittore, ha scritto insieme ad Andrea Vaccaro, filosofo e teologo, per ricostruire «la nascita della filosofia digitale » (Edizioni Maggioli; pagg. 217; euro 18,00; 2014). Quelle che tutte queste persone (e altre ancora) propongono sia sul piano fisico sia sul piano filosofico è un vero e proprio cambio di paradigma. Passare da una visione cosmica fondata sulla materia e sull’energia – anzi, per dirla con Albert Einstein, sulla materia/energia – a una visione cosmica fondata sull’informazione. E proprio come l’universo fisico è fondato sul quanto di materia/energia, ovvero su una quantità discreta e indivisibile, così l’universo informatico è (sarebbe) fondato sul bit, ovvero su una quantità discreta e indivisibile di informazione.
Attenzione, avvertono i nostri, la nuova filosofia è ambiziosa. Molto ambiziosa. Non dice, infatti, che la natura può essere interpretata in termini di filosofia digitale. Dice che la natura è digitale. E il bit è l’arché, il principio primo. La nuova (ma, a ben vedere, non poi così nuova) filosofia è ambiziosa perché cerca di rispondere alle tre domande fondamentali poste da Gregory Chaitin: cos’è la natura? Qual è la legge del divenire? Perché l’essere (ma Chaitin scrive Essere) invece del nulla (il Nulla, secondo il matematico americano).
Le tre domande non sono originali. È da qualche millennio che l’uomo se le pone e cerca una risposta. Ma, come spiegano Longo e Vaccaro, sono le risposte a essere originali. E a proporsi come le tre colonne su cui poggia l’intera filosofia digitale. La prima colonna è quella dell’«ontologia digitale». Il bit è il fondamento di tutte le cose. È il fondamento della realtà cosmica. È la pasta del mondo. «It from bit», come diceva un altro grande fisico teorico, John Archibald Wheeler. La materia viene fuori dall’informazione. Ma poiché il bit – il quanto di informazione – è uno stato binario che può essere rappresentato da una cifra binaria, 0 o 1, qual è, sul piano ontologico. La differenza tra la nuova filosofia digitale e l’antica filosofia di Pitagora, secondo cui tutto è numero? Beh, spiegano Longo e Vaccaro, la differenza è che i numeri di Pitagora rappresentano una realtà statica, mentre quello digitale è un universo dinamico. «From bit to it», dall’informazione nasce (continuamente) la cosa.
Di qui la seconda domanda (qual è la legge dinamica che governa l’universo dei bit) e la seconda colonna della nuova filosofia: l’evoluzionismo digitale. La legge dinamica che governa l’universo dei bit è la computazione. Tutto computa. E tutto nasce dalla computazione. Di più, sottolineano Longo e Vaccaro: «tutto e frutto della computazione e tutto può essere trasformato in un dispositivo computante ». Ovvero in un computer. Ne deriva che l’universo intero è un Grande Computer. Con un coté in apparenza paradossale. A 13 miliardi e più dalla sua nascita, il Grande Computer ha computato la nascita dei Piccoli Computer grazie ai quali la sua esistenza è stata scoperta dall’uomo (che è, nel medesimo tempo, un altro prodotto della computazione e un altro dispositivo computante). L’idea di un universo Grande Computer può apparire come una vistosa concessione al determinismo (e anche all’Intelligent Design). Ma, come è stato dimostrate da quegli oggettini virtuali computanti che sono gli automi cellulari, il Grande Computer pone dei vincoli alla creatività della computazione, non impone un unico percorso predeterminato.
La terza domanda – perché c’è qualcosa invece del nulla? – spalanca all’ultima colonna della nuova filosofia: la «metafisica digitale». Una metafisica molto forte. Perché gli algoritmi dell’universo computazionale sono immateriali, proprio come le idee di Platone. Cosicché il mondo della filosofia digitale è quanto di più vicino esiste, sostengono ancora Longo e Vaccaro, al mondo delle idee di Platone. Con un elemento aggiuntivo, però. Mentre dal mondo delle idee di Platone scaturiscono tutte le cose esistenti nel mondo materiale, dal mondo dei bit di Ed Fredkin e degli altri scaturiscono tutte le cose di tutti i mondi possibili.
La filosofia digitale nata dal Bit Bang e ricostruita con accuratezza da Giuseppe O. Longo e Andrea Vaccaro non si esaurisce certo in queste brevi proposizioni. Tuttavia queste brevi proposizioni spalancano già a una considerazione. La filosofia digitale propone l’informazione come principio primo del cosmo. In altri termini sostiene che la realtà è informazione. E il divenire è computazione. Si propone, dunque, non come una potente costruzione matematica che interpreta bene la natura. Ma come una teoria scientifica realista, che descrive la natura così com’è. Tuttavia sembra ancora mancare l’elemento che trasforma un’ipotesi scientifica in una teoria validata: la prova empirica.
La filosofia digitale è un nuovo paradigma molto stimolante. E, non a caso, è stata fatta propria da scienziati e filosofi di grande qualità intellettuale. Ma, per quanto stimolante resta, per ora, un’ipotesi. Non abbiamo ancora la prova che in principio fu effettivamente il bit.
Repubblica 2.3.14
Centomila anni indietro alla scoperta di noi stessi
di Francesca Bolino
Chi siamo. Senza punti interrogativi. È la storia della diversità umana che ha un’origine e un fondamento comune, in Africa, e una data di nascita, all’incirca centomila anni fa. È un libro per “chi ama la storia” come scrivono nell’introduzione a questa nuova edizione di un testo nato vent’anni fa Luca e Francesco Cavalli-Sforza. La combinazione di archeologia, genetica, linguistica, demografia e altre discipline, l’applicazione di metodi statistici e la forza dei computer ci consentono di arrivare oggi a rispondere in modo inimmaginabile fino a pochissimo tempo fa alle grandi questioni dell’uomo.
L’evoluzione più antica, sostengono gli autori, è stata riscritta dalle nuove scoperte che ne hanno confermato l’unica origine africana e hanno mostrato come la nostra specie non si sia evoluta in modo lineare ma piuttosto a cespuglio, in più direzioni, migrando in regioni diverse del pianeta e dando origine a varianti umane distinte. Il testo rinnovato di Cavalli-Sforza padre e figlio, genetista e filosofo, è corredato dalle fotografie di Giovanni Porzio, che del racconto dell’origine dell’uomo danno un contrappunto di immagini che ne rappresentano il certificato iconografico.
il Fatto 2.3.14
La Superstoria, c’è vita anche in Viale Mazzini
di Carlo Tecce
Uffa, direte, che vuoi che sia il 2,8 per cento di share e neanche mezzo milione di telespettatori di un giovedì sera di febbraio.
Smaltite il vizio (non di rado stupido) di valutare una trasmissione dai numeri d’ascolto, soprattutto se l’editore è un servizio pubblico, e pensate che quest’ottimo risultato l’ha prodotto La Superstoria di Rai3, un programma che fa bene a chi guarda la televisione. E fa bene perché, senza avere pretese pedagogiche, mostra la televisione con un linguaggio non metafisico e sofisticato, ma con l’effetto primordiale del mezzo: l’immagine. E ci racconta un passato illuminato o disilluso attraverso un narratore raffinato, Andrea Salerno, che definire onnisciente sarebbe riduttivo e scolastico. Rai3 ha scomodato La Superstoria per celebrare i sessant’anni di viale Mazzini e Salerno, che poteva scadere nel banale, nel ripetitivo, nel tautologico (cos’è il nuovo, oggi?), s’è permesso di rovistare fra le teche di viale Mazzini e annodare il percorso (perverso) di una televisione che nacque pubblica e morirà altrove. La Superstoria, che sollecita la memoria a un pubblico che consuma spesso senza coscienza, ci aiuta a fissare l’epoca che asfaltiamo con frugalità intellettuale e, impegno ancora maggiore di coesione nazionale direbbero al Quirinale, ci dice chi cavolo siamo diventati.
È come se andassimo a sbirciare nel cestino della spazzatura, si spera differenziata, per capire di quali mostruosità ci nutriamo.
LA TECNICA di Andrea Salerno è proprio quella maieutica: cerca di spingere l’interlocutore (cioè il telespettatore) a comprendere il significato di un concetto, di un argomento, di una stagione italiana. Quando viale Mazzini costruisce un fallimento e spreca migliaia di euro, senza pregiudizi, vanno evidenziati gli errori e vanno individuati i responsabili, ma quando la tradizione migliore viene rinnovata
– e questo è un caso – va ringraziato anche il direttore di Rai3, Andrea Via-nello. Perché La Superstoria, che può sembrare un accrocchio intellettualoide, ha il merito di costare 5.000 euro a puntata. Secondo i parametri televisivi, questi 5.000 euro, spesso, sono spiccioli utili per comprare un vestito per Antonella Clerici o Mara Venier. Salerno, autore televisivo e produttore con Fandango, è anche l’ideologo di Gazebo, una trasmissione sperimentale, che non penalizza il bilancio di viale Mazzini con i suoi 30.000 euro a serata, ma che va tutelata.
A volte, la mezz’ora prevista viene compressa, deturpata dai palinsesti che, per natura congenita, intimano fretta e precisione. Gazebo ha creato personaggi come Zoro (Diego Bianchi) e, spesso, descrive la politica dei palazzi meglio di qualsiasi scafato retroscenista. Adesso per Gazebo è il momento di fare un salto, di applicare il modello interpretativo di fatti centrali o laterali non soltanto nell’emiciclo storico di Roma o nel narcisismo (goffo) di Twitter. Ma Rai3 deve aiutare Gazebo se ci crede. E poi chissenefrega se un pubblicitario esclama: uffa, che ascolti. La qualità non è roba da discount.
Repubblica 2.3.14
Quei misteriosi riti del sud Italia che resistono al tempo
di Cristiano De Majo
La vita di un santo salentino del Seicento che , in estasi mistica, riusciva a lievitare. La processione dei battenti di Guardia Sanframondi come “teatro totale” di sangue versato e carni martoriate. Il culto delle anime del Purgatorio a Napoli, nella sua particolare relazione tra vivi e ossa di cadaveri. Questi tre fenomeni, uno dietro l’altro, con la bussola di Gregory Beteson, sostenitore del “mettere insieme i dati” come forma di spiegazione, sono al centro di un interessante libro uscito da D’Auria Editore, intitolato Mezzogiorno di Fede e firmato da Stefano De Matteis, singolare figura di antropologo-editore napoletano. Un saggio che, pure pagando il pegno di un linguaggio a tratti accademico e gergale – l’uso della seconda persona plurale, certi raccordi troppo didascalici – conserva svariati motivi di interesse per il lettore non specializzato, ma curioso. E innanzitutto per la notevole abilità descrittiva dell’autore, che in questo viaggio intorno alla strettissima relazione tra corpo, Meridione d’Italia e fede, scrive pagine di grande forza narrativa. Succede, soprattutto, nel racconto della processione dei battenti di Guardia Sanframondi. Un rito «antico, irriproducibile e segreto», che si svolge ogni sette anni in questo piccolo paesino della provincia di Benevento e che resta «vivo e poco compromesso da trasformazioni » nonostante fosse stato proibito già in epoca borbonica. Si fa fatica a credere che oggi, nell’Occidente delle identità liquide, mille persone incappucciate, con in mano un tappo di sughero ricoperto da trentatré chiodi, si feriscano volontariamente, ricoprendo di sangue le strade del loro paese, eppure, seguendo il racconto del testimone- antropologo non si fa nessuna fatica a essere sul posto ad ascoltare «il suono sordo dei colpi inferti sul corpo» e ad assistere con un misto di rapimento e rifiuto. Il corpo è, del resto, il protagonista assoluto dell’indagine; il trait d’union che collega queste storie di religiosità meridionale, nonostante la loro diversa collocazione temporale. A partire dalle illuminanti considerazioni sul rapporto tra malattia e beatitudine, bene incarnato dalla vita di San Giuseppe da Copertino, sorta di Padre Pio ante litteram, per arrivare al corpo nella sua riduzione ultima, lo scheletro, e in particolare il teschio, adottato, quasi coccolato, trasformato in un membro di famiglia, nel minoritario culto delle anime del Purgatorio, oggi quasi del tutto scomparso, ma fino a pochi anni fa attivo in alcune comunità di zona, a Napoli. Si legge pensando a quanto possano essere ambigue e permeabili le categorie del moderno o del contemporaneo, e a quanto il Sud contenga nelle sue contraddizioni senza tempo una forma di verità.
Repubblica 2.3.14
Il torbido Kokoschka riletto da Camilleri
di Leonetta Bentivoglio
È una storia delirante, fascinosa e vera. Nel 1912 il pittore Oskar Kokoschka si vota per intero ad Alma Mahler, splendida vedova del compositore e musa di personaggi quali Gustav Klimt, Walter Gropius e Franz Werfel. Kokoschka, a cui Alma ispira il magico quadro La sposa del vento, cade in una passione che lo agguanta come un maleficio. Vuole entrarle nel sangue, controllarle il respiro. La genialità di Andrea Camilleri, autore de La creatura del desiderio, il libro che (giocando sui documenti) registra quest’incontro ferocemente fisico, sta nel concentrarsi sulla reazione di Kokoschka davanti all’abbandono di Alma, che presto fugge dalle ossessioni dell’amante. Il quale, per rimpiazzarla, si fa costruire una bambola di dimensioni umane, simulacro perfetto nel riprodurre le sembianze della donna nei più intimi dettagli. Con l’effigie parla, va a teatro, fa l’amore. Per poi compiere con furia l’uccisione simbolica della femmina ribelle. Un mondo di proiezioni e miti si specchia in questa cronaca perversa. Il sogno di Pigmalione. Il dottor Coppelius e Coppelia, suo bramato manichino. I feticci erotici dei corpi gonfiabili.
Repubblica 2.3.14
Quel bene di tutti chiamato paesaggio
di Francesco Erbani
LA partita del territorio italiano, del paesaggio e della loro tutela, si gioca tutta intorno a un’espressione latina, ius aedificandi.
Secondo Paolo Maddalena, professore di Diritto romano, poi giudice della Corte dei Conti e, per un decennio, della Corte Costituzionale, se si chiarisse per bene, senza ambiguità, che una cosa è essere proprietari di un suolo altra cosa è aver diritto a farci quel che si vuole, forse per territorio e paesaggio italiano si può immaginare un futuro più sereno.
Ma che cosa c’entra lo ius aedificandi?
C’entra, spiega Maddalena in questo saggio di lettura agile (con introduzione di Salvatore Settis), nonostante la mole di sapienza giuridica che vi è riversata, perché un presunto diritto a costruire si ritiene sia connaturato al diritto di proprietà. È una convinzione molto diffusa in Italia: ne è prova il successo di uno degli slogan simbolicamente più efficaci del berlusconismo, “padroni in casa propria”, che ha fatto proseliti sia fra i grandi che fra i piccoli possessori di aree, a dimostrazione che esiste nel nostro paese un nutrito, multiforme “blocco edilizio” tenuto insieme da una smodata intolleranza verso le regole.
Ma uno ius aedificandi così inteso, baluardo di un oltranzismo privatistico, è uno sgorbio giuridico, insiste Maddalena, senza riscontri nelle fonti del diritto romano, anzi ampiamente smentito da questo, e soprattutto in patente contrasto con la nostra Costituzione. Ciò nonostante sul diritto a costruire vige una specie di consuetudine, avallata da alcune norme del codice civile e da qualche sentenza della Corte Costituzionale (risalente a prima che Maddalena vi facesse parte) e poi da un sentire diffuso che autorizza sia abusi edilizi sia piani casa.
E invece possedere un suolo non è come possedere un tavolo. Non lo si può trasformare o manipolare a piacimento. L’edificazione, scrive Maddalena, «produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità».
Stendere un velo di cemento anche solo su duecento metri quadrati di suolo sottrae irreversibilmente a questo alcune funzioni che sono di interesse della collettività. Quella porzione di suolo sarà impermeabilizzata, con un acquazzone la pioggia vi scivolerà e non sarà assorbita ricaricando le falde. Il suolo non potrà più essere coltivato. Non immagazzinerà più carbonio. Se sopra il velo si innalzerà un edificio, questo altererà la prospettiva esistente, attirerà più persone, produrrà più scarichi. Se invece che uno, gli edifici sono tanti, tutti questi effetti si moltiplicheranno. Non può essere solo il proprietario a decidere che cosa fare del suo suolo.
La proprietà privata non dà diritti illimitati. Diritti che, per fare un esempio, un costruttore ritiene di poter esercitare quando va a contrattare la trasformazione di un area con un’autorità pubblica troppo spesso soggiogata politicamente. Ma – ed è qui uno dei punti cruciali del saggio di Maddalena – non è la proprietà privata limitata dagli interessi pubblici. La prospettiva va ribaltata. È il territorio nel suo complesso un bene appartenente alla collettività (come sostenevano già i romani), essendo il territorio il luogo nel quale si esercita la sovranità popolare. E ciò determina, scrive Maddalena, una prevalenza giuridica dell’interesse pubblico su quello privato. Detto in altri termini (sperabilmente non troppo elementari): se in qualunque modo si tocca il territorio sono gli interessi pubblici che vanno considerati più di quelli privati.
Il libro di Maddalena ripercorre in modo assai coinvolgente la storia di come il territorio sia stato considerato un bene collettivo ed enumera le norme giuridiche che hanno supportato questa concezione. Dall’età classica alla nostra Costituzione. Inoltre il libro è percorso dall’idea di quanto sia necessario riferirsi a questi principi nella pratica legislativa, in quella politica e in quella amministrativa. Qui non è possibile neanche sintetizzare tale ricchezza di documentazione, salvo sottolineare come il saggio di Maddalena segni un punto fermo nella saggistica dedicata al territorio e al paesaggio. E nelle battaglie per la loro tutela.
Corriere La Lettura 2.3.14
C’è uno zio all’origine dell’umanità
L’organizzazione della parentela è un passaggio cruciale dell’evoluzione
Le ricerche su cacciatori e raccoglitori individuano alle radici della nostra specie tre ««rivoluzioni familiari»
di Adriano Favole
na vecchia battuta che circola tra gli addetti ai lavori dice che se la teologia si occupa di Dio e la psicologia dell’Io , l’antropologia (culturale o sociale) si interessa piuttosto allo... zio . In effetti la parentela è stata, fin dalle origini tardo ottocentesche della disciplina, uno dei suoi temi privilegiati. La parentela è un fenomeno che unisce e differenzia al tempo stesso le società umane: le unisce perché nessuna di esse può esimersi dal dare forma e significato ai fatti della nascita, del matrimonio e della discendenza; le differenzia perché questi processi, lungi dal seguire automatismi biologici, sono culturalmente plasmati.
Nel suo ultimo libro Antropologia sociale delle origini umane , di prossima uscita in Italia per il Mulino, Alan Barnard propone un uso innovativo e, per molti versi, imprevisto degli studi sulla parentela. Lo studioso britannico, specialista di cacciatori e raccoglitori (oggi si preferisce l’espressione «società acquisitive»), ritiene che gli antropologi sociali dovrebbero mettere a frutto le loro conoscenze sulle società contemporanee per comprendere le lontane origini dell’umanità. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il discorso sui processi di ominazione è stato progressivamente fatto proprio dalla paletnologia, dall’archeologia e dall’antropologia biologica; più di recente, dalla linguistica, dalla genetica e dalle neuroscienze. E gli antropologi sociali? Non hanno nulla da dire sulle prime società umane?
In realtà, l’esperienza etnografica, le teorie e i concetti elaborati nello studio di una variegata molteplicità di culture, se integrati con le acquisizioni e le conoscenze maturate dalle altre discipline, potrebbero rivelarsi molto produttive. Il metodo è quello dell’«analogia etnografica» — proiettare sul passato dati relativi a studi compiuti sul campo, incrociandoli con le «evidenze» e le inferenze di altre discipline. Quella proposta da Barnard è, per riprendere il titolo dell’ultimo capitolo del libro, «una nuova sintesi»: una definizione impegnativa, che fa il verso al celebre libro di Edward Wilson Sociobiologia. La nuova sintesi (Zanichelli, 1979). La «nuova sintesi» di Barnard è tuttavia lontana dalla sociobiologia: non si tratta di riportare il sociale al sostrato biologico, ma di proiettare gli studi su parentela, etnicità, scambio, riti e miti sulle lontane origini dell’umanità.
Prendiamo come esempio proprio la parentela e il modo in cui può essere connessa alle tre grandi rivoluzioni che, secondo Barnard, caratterizzano il processo evolutivo che porta a Homo sapiens . Seguendo da vicino i lavori di Aiello e Dunbar sulla coevoluzione tra dimensione della neocorteccia e dimensione dei gruppi e quelli di Calvin e Bickerton sul linguaggio, Barnard ipotizza che la prima «rivoluzione del significante» abbia avuto luogo nel lungo passaggio tra le australopitecine e la comparsa di Homo habilis (quest’ultimo visse tra 2,3 milioni e 1,4 milioni di anni fa). Se le prime vivevano in gruppi di 65-70 individui, Homo habilis contava circa 75-80 individui e i successivi Homo erectus (1,9-1,4 milioni di anni fa) e Homo ergaster (1,8-1,3 milioni di anni fa) circa 110. In questa lunga fase, gli Homo impararono a dare nomi alle cose e, secondo l’ipotesi di Barnard, a strutturare il campo della parentela. Comparvero probabilmente in questa fase i termini per designare il «padre» (il padre biologico, i suoi fratelli e forse tutti gli individui maschi della loro generazione), la «madre», i «fratelli»: termini di tipo classificatorio, simili a quelli che Louis Henry Morgan ritrovò a metà Ottocento tra i nativi americani. Questa prima rivoluzione è detta anche «della condivisione» perché i cacciatori e raccoglitori delle origini, adottata una dieta carnea, dovettero elaborare precise regole per condividere cibo e attrezzi. Forse, come per gli attuali cacciatori e raccoglitori del Kalahari (Africa australe), gli artigiani che realizzavano gli attrezzi per la caccia avevano diritto a una parte della preda.
La «rivoluzione sintattica» segna il passaggio alle forme arcaiche di Homo sapiens . Il linguaggio consente ora di formulare frasi e di distinguere «noi» e «loro»: Homo heidelbergensis (tra 600 mila e 250 mila anni fa) vive in gruppi di 120 individui circa. Dal punto di vista della parentela, prende forma la distinzione tra i fratelli e le sorelle della madre: una distinzione cruciale, perché i discendenti dei fratelli (cugini incrociati) danno vita a gruppi in cui si può trovare un coniuge, mentre i discendenti delle sorelle (cugini paralleli) formano gruppi in cui non si può contrarre matrimonio. Nasce insomma l’esogamia, ovvero l’obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo. È la scintilla che innesca la dinamica dello scambio, di uomini e donne e delle «cose» che li accompagnano.
La terza rivoluzione o «rivoluzione simbolica» vede la nascita di Homo sapiens anatomicamente moderno (circa 200 mila anni fa) e «fu, in un certo senso, à la Lévi-Strauss. La vera parentela coincide con l’emergere di strutture elementari di parentela», scrive Barnard. Uomini e donne vivono in gruppi di circa 150 persone — secondo l’ipotesi di Dunbar il limite massimo della comunità basata sui rapporti faccia a faccia. La sintassi è ormai pienamente sviluppata: domina una forma di parentela «universale», quella che si ritrova praticamente in tutti i gruppi di cacciatori raccoglitori contemporanei. Ognuno cioè classifica tutti gli altri come parenti di qualche tipo e non esiste la categoria dei non parenti. Fondamentale, in questo sistema sociale, è la distinzione tra parenti paralleli (figli/e di fratelli/sorelle dello stesso sesso) e parenti incrociati (figli/e di fratelli/sorelle di sesso diverso). La scelta del coniuge è prescritta all’interno dei parenti incrociati. La comunità risulta così divisa in due «metà» (o in più gruppi) che si scambiano regolarmente individui, creando un flusso costante di beni e persone.
Per il 95% della sua storia, l’umanità moderna è vissuta in gruppi di circa 150 individui, ha praticato la condivisione dei beni e ha distinto i parenti in paralleli e incrociati. L’approdo al Neolitico sconvolse questi schemi, avviando la transizione dalla condivisione al possesso e dando vita a quelle che Lévi-Strauss chiamava le «strutture complesse della parentela», in cui non esistono norme rigide per la scelta del coniuge. Le persone con cui si hanno relazioni sono distinte in parenti e non parenti.
Con il libro di Barnard nasce dunque, come l’autore auspica, una nuova disciplina, l’antropologia sociale delle origini umane? La proposta è allettante, anche se lascia spazio a dubbi e perplessità. Fino a che punto si può spingere l’«analogia etnografica», ovvero l’applicazione di conoscenze maturate nel contemporaneo a società preistoriche? È vero, come dice Barnard, che anche la genetica e l’archeologia, applicate alle origini, fanno ampio uso dell’inferenza: ma non si rischia così di cadere nuovamente in forme di antropologia puramente congetturale? E ancora: non c’è il rischio di considerare i cacciatori e raccoglitori contemporanei o le società orticole egualitarie come dei «fossili» viventi? Secondo Barnard è bene non indulgere troppo nel «politicamente corretto»: i cacciatori raccoglitori «sono spesso orgogliosi della profondità storica delle loro radici culturali. Nella loro visione è piuttosto da mettere in dubbio l’umanità di noi uomini agricoli e industrializzati».
Non hanno più segreti i pizzini runici. L’ominazione
Il processo evolutivo che ha prodotto la comparsa e la diffusione sulla Terra di Homo sapiens viene chiamato ominazione. Secondo gli studiosi, la nostra specie deriva da primati originari dell’Africa centrale e si è differenziata dagli ominidi detti australopitecine circa 2,4 milioni di anni fa
Il saggio
Esce in libreria il prossimo 27 marzo il saggio di Alan Barnard Antropologia delle origini umane (Il Mulino, pagine 252, e 20). L’autore insegna Antropologia all’università di Edimburgo
Per approfondire
Alcuni testi di rilievo su antropologia e darwinismo: Giorgio Manzi, Il grande racconto dell’evoluzione umana (Il Mulino, 2013); William Calvin e Derek Bickerton, Lingua ex Machina , (Cambridge University Press, 2000). Da segnalare anche il saggio di Leslie Aiello e Robin Dunbar, Neocortex Size, Group Size, and the Evolution of the Language , apparso nel 1993 sulla rivista «Current Anthropology»
Corriere La Lettura 2.3.14
Gli imam alla prova delle religioni del mondo
Un’università marocchina forma le guide spirituali dell’islam, portandole a confrontarsi con interpretazioni diverse e con società secolarizzate. Diventeranno «ambasciatori della fede»
di Marco Ventura
Sono studenti universitari come gli altri. Li incontri nel campus a passeggio sui viali, jeans, felpa e giubbotto, magari calzoncini corti nella bella stagione. Tra una lezione e l’altra li trovi ai tavolini della caffetteria. Li incroci a mensa, nei club studenteschi. O diretti alle residenze, con i sacchi della spesa. Sembrano distinguersi solo perché un po’ più avanti con gli anni. Devi entrare in aula con loro, per cogliere la vera differenza. Devi osservare che cosa succede quando il professore apre la discussione sul testo assegnato per quel giorno. La preparazione è impeccabile. La precisione è strabiliante. Senza guardare le fotocopie ricordano esattamente ciò che hanno letto. Ma se nelle prime lezioni chiedi di criticare l’autore, se spingi all’interpretazione personale, li metti in imbarazzo.
Comprendi allora che non sono studenti come gli altri. Ti spiegano: a dieci anni, per entrare nelle migliori scuole religiose, come la mitica Qarawiyyin di Fez, dovevano già conoscere il Corano a memoria. Per anni, da allora, la loro vita è stata apprendimento mnemonico, disciplina. Ora sono imam. Guide della comunità musulmana. Le loro famiglie sono orgogliose. Sono fieri di loro il Marocco e il suo re: Mohammed VI, comandante dei credenti.
Non sono studenti come gli altri, ma si trovano in questo campus universitario per diventarlo. A modo loro. Nel 2010, il ministro degli Affari religiosi marocchino, Ahmed Toufiq, siglò un accordo col rettore dell’università Al Akhawayn di Ifrane per l’istituzione di un corso di formazione per imam. In autunno arrivò il primo gruppo. Per tre anni gli imam studiano le religioni nella società contemporanea e l’islam globale. Autorità governative e accademiche hanno scommesso sulla compatibilità tra lo studio islamico tradizionale e il sapere occidentale. Uomini che dopo anni di scuola coranica hanno conseguito l’ijaza , titolo che consente l’accreditamento presso il ministero degli Affari religiosi, possono integrarsi in un’esperienza accademica all’americana. Gli imam che usciranno dal training saranno più forti, più completi: pronti per essere leader ovunque; a proprio agio a Meknes e a Montreal, a Casablanca e a Manchester.
Dopo tre anni, il progetto è ormai consolidato. Il governo del Mali ha firmato un accordo per inviare propri imam. Sembra che nelle scorse settimane anche la Tunisia abbia raggiunto un’intesa con le autorità marocchine. Al corso in scienze religiose, religious studies , disegnato per gli imam, s’iscrivono anche studenti americani e europei, che vengono qui soprattutto per l’islam. Connell Monette e Emilie Roy, rispettivamente direttore e professoressa nel programma, sono canadesi, con un solido percorso nordamericano nei religious studies . Il loro primo problema con gli imam è stato l’inglese, lingua ufficiale del corso. Ma la vera questione è più profonda. Dopo lunghi anni di madrassa, di scuola religiosa, gli imam che arrivano a Ifrane sono supini all’autorità del testo e dell’insegnante e hanno una testa divisa in due: esiste il sì e il no, il vero e il falso. L’islam è verità, il resto è ignoranza. Studiare l’islam secondo il metodo tradizionale fa bene; invece studiare qualsiasi altra cosa, soprattutto le altre religioni, fa male.
Monette, Roy e gli altri professori provano a spezzare la naturale resistenza dei loro studenti speciali senza minacciare la loro reverenza per l’islam. Lo studio critico della religione è proposto come un altro mondo che può aggiungersi a quello delle scuole coraniche. Il modello educativo dei religious studies di Al Akhawayn, scrivono Monette e Roy, «non è alternativo, ma di complemento» all’educazione tradizionale ricevuta nelle madrasse. Il banco di prova è lo studio della preghiera rituale musulmana, salât . Non si mette in discussione la verità islamica sul culto a Dio. Ma si usa il concetto di salât anche per definire in qualsiasi religione la ritualità, il comportamento esteriore, e si aiuta lo studente a familiarizzarsi con la categoria accademica di «rituale», cui non è più necessario applicare un giudizio di verità e falsità.
Il compito di professori e studenti è titanico. Si tratta di riconciliare due mondi straordinariamente diversi, fin nel paesaggio. Gli imam che hanno studiato a Fez sono cresciuti ne lla medina, con l’odore che sale dalle vasche in cui si conciano le pelli, i canti delle confraternite sufi, la ressa per le viuzze in cui si ammassano pezzi di carne e stoffe, datteri e ciambelle. È tutto diverso quassù a Ifrane, sul Medio Atlante, 1.600 metri di altezza, la Chamonix del Nord Africa. Struttura e vita del campus sono da università americana. Potresti scambiare il minareto della moschea per il campanile di Berkeley, se non fosse per la neve che ricopre i prati. I manifesti in bacheca pubblicizzano un corso di maquillage, la seduta settimanale di sensibilizzazione contro le molestie sessuali, la conferenza di Aicha Belarbi, ex ministro femminista venuta da Rabat. In un’aula della biblioteca, Jeremy Gunn sta preparando la proiezione serale del corso di cultura americana. Dalla Grace Kelly quacchera di Mezzogiorno di fuoco al predicatore di Furore , alla Madonna di Material Girl e alla Lady Gaga di Beautiful, Dirty, Rich .
Per gli imam paga il governo, ma costa caro iscriversi in questa università, in cui i rampolli del Marocco benestante studiano ingegneria, management e comunicazione, mentre gli studenti americani e europei vengono a imparare come si cammina sul filo di scambi e denaro che collega l’Occidente al mondo arabo. Gli imam si mischiano a studenti, come l’italiana Sofia, che hanno fretta di crescere e di riuscire.
Il collega Bouziane Zaid mi ha invitato nel suo corso di comunicazione e sviluppo, per parlare della teologia della liberazione. Racconto di Oscar Romero, di Desmond Tutu. Una studentessa di Liegi con il velo si stupisce che in tanti anni nelle scuole cattoliche del Belgio nessuno le abbia mai parlato di tutto ciò; si entusiasma al pensiero di un islam liberatore degli oppressi. Kenza Oumlil mi ha invitato nel suo corso di teoria dei media. Agli studenti interessa il business, nessuno vuol fare il giornalista: mestiere troppo mal pagato, troppo pericoloso. Non per questo si tirano indietro quando viene il momento delle domande.
Mi incalzano sui due Papi, sul rinnovamento della Chiesa, su ciò che ho dichiarato in proposito ad Al Jazeera un anno fa. Non ci sono imam in aula. Questi corsi non fanno parte del programma. Ma alla mia conferenza, la sera, una dozzina di loro è in sala. Parlo dell’uso della religione nella politica post moderna: faccio scorrere le immagini del Dalai Lama e di Tom Cruise, di Berlusconi e Gheddafi, dei manifesti svizzeri anti-minareto, delle musulmane in marcia a Parigi contro la laicità che vieta loro di indossare il velo a scuola, dei barbuti che a Londra inneggiano alla sharia che dominerà il mondo, debellando la democrazia.
Un imam, a fine conferenza, mi dice la sua passione per un islam politico, la sua determinazione nel costruire una religione di progresso. Gli imam di Al Akhawayn si preparano a diventare gli ambasciatori nel mondo dell’islam del Marocco. Non hanno dubbi che il loro sia il migliore islam possibile. Moderato ed energico, tradizionale e moderno. Non hanno velleità rivoluzionarie. Stanno con un ministero degli Affari religiosi impegnato a costruire un islam ufficiale, di credo asharita e di scuola malikita, sensibile al sufismo e alle tradizioni popolari.
Nella geopolitica globale, quest’islam d’ordine piace a molti, anche in Occidente. Quello che avviene sul campus, tuttavia, sfugge alle strategie e ai disegni. È grande politica, certo, ma anche, soprattutto, traiettorie individuali. Glorianna Pionati, psicologa italoamericana del campus, mi dice che i problemi sono simili per tutti: l’ossessione della verginità, la paura dell’omosessualità, i diversi modelli sociali e familiari che fanno l’individuo a pezzi. C’è l’imam che ha trovato qui la fidanzata, l’imam già sposato, quello che attende la scelta delle famiglie. C’è chi resterà in Marocco, chi sogna il Canada. C’è chi è a disagio per questa formazione e chi grazie ai corsi, mi dice Emilie Roy, «ha smesso di vedere l’islam come una bolla di astrazione teologica». Ci sono infine i tanti che hanno solo voglia di capire, di fare, che si preparano a percorrere le strade del mondo pensandola come Gunn: «Il problema non sta nelle religioni, ma in coloro che popolano le religioni».
Oltre l’antico diritto di asilo L’università
L’autore di quest’articolo ha trascorso un periodo di ricerca e ha tenuto alcune lezioni presso l’università di Al Akhawayn, a Ifrane in Marocco (nella foto Afp, il re Mohammed VI ). L’ateneo è stato fondato nel 1993 e aperto nel ‘95 sul modello delle università americane. La lingua ufficiale è l’inglese: www.aui.ma/en/
I docenti e i testi
Jeremy Gunn utilizza per il corso su Religion and politics il suo libro Spiritual Weapons: The Cold War and the forging of an american national religion (Praeger, 2009). Il professor Gunn sta scrivendo una Storia del mondo arabo alternativa alla celebre opera Gli arabi di Eugene Rogan (Bompiani, 2012). La presentazione del Al Akhawayn University Master of Arts in Islamic Studies scritta da Connell Monette e Emilie Roy è in corso di pubblicazione negli atti del Consultation Seminar on Islamic Studies for Peace and Coexistence in the Arab World. Beirut (Libano), 28-30 giugno 2013 (Adyan Foundation). Di Aicha Belarbi sono disponibili varie opere in francese. Si veda in particolare Egalité – Parité. Histoire inachevée (Editions Le Fennec, 2012). Sull’educazione religiosa tradizionale in Marocco, si vedano infine gli studi di Dale Eickelman
Corriere La Lettura 2.3.14
Putin smonta l’Accademia delle Scienze
Ma non i professori, che gridano: libertà addio
di Nuccio Ordine
Forse quel cerchio rimasto spento il 7 febbraio scorso a Sochi, durante la cerimonia di inaugurazione della XXII edizione dei giochi olimpici invernali (e poi bissato, con una certa autoironia, alla cerimonia di chiusura), avrebbe potuto essere considerato un simbolico annuncio in mondovisione: nei cieli di Russia non brillerà più la luce di un’antica istituzione della ricerca scientifica e umanistica. La prestigiosa Accademia russa delle Scienze — fondata a San Pietroburgo nel 1724 da Pietro il Grande —– era riuscita, nel corso dei secoli, a sopravvivere ai sussulti della storia, sfuggendo anche alle turbolenze del periodo sovietico. Ma nella scorsa estate un’improvvisa riforma, voluta dal presidente Vladimir Putin e tenuta segreta fino all’ultimo momento, ha minato alla base la sua autonomia.
In tempi rapidissimi, infatti, la Duma ha approvato la nuova legge con cui l’Agenzia federale degli Enti scientifici eredita dall’Accademia gli istituti di ricerca, con i relativi collaboratori scientifici, e tutti i diritti di proprietà (terreni ed edifici, apparecchiature scientifiche). Nel giro di pochi mesi — dal 1° luglio, quando si discute per la prima volta il disegno legislativo, al 27 settembre, quando Putin rende esecutiva la riforma — migliaia di accademici hanno visto crollare un’istituzione che aveva dato alla Russia parecchi premi Nobel in varie discipline.
A nulla sono valse le pubbliche proteste organizzate (e puntualmente vietate dalla polizia) a Mosca, a San Pietroburgo, a Novosibirsk, a Ekaterinburg, a Vladivostok e finanche in diverse località degli Urali e del Caucaso. E nella totale indifferenza sono cadute le ventiduemila firme raccolte contro la riforma e le lettere di disapprovazione inviate da diverse singole accademie (tra cui anche quella Britannica e quella dei Lincei), dall’Unione internazionale delle Accademie, dall’International Mathematical Union, dall’Associazione delle Società filosofiche e da altri prestigiosi enti di ricerca internazionali. Settantadue autorevoli membri dell’Accademia (fondatori del «Club 1° luglio», pubblicamente sostenuto da oltre duemila scienziati «resistenti») hanno alzato il tiro, dichiarando la loro rinuncia a far parte della nuova istituzione disegnata da Putin. Tra questi, anche due brillanti studiosi di fama mondiale, il fisico Vladimir Zakharov e lo storico dell’antichità Askold Ivantchik, che hanno accettato di illustrare la loro posizione a «la Lettura».
«Siamo di fronte a una riforma senza precedenti — spiega Ivantchik — tenuta nascosta addirittura al presidente dell’Accademia, che ne è venuto a conoscenza solo la notte prima della diffusione ufficiale del disegno di legge. Non sono state rispettate neanche le regole che prevedono la pubblicazione di una legge almeno due mesi prima della discussione in Parlamento, per consentire un dibattito pubblico. Luciano Maiani, ex direttore del Cern, ha giustamente osservato che l’unica analogia nella storia moderna richiama lo svuotamento, imposto da Mussolini, dell’Accademia dei Lincei, che fu assorbita, comprese le proprietà, dalla fascista Accademia d’Italia…». «Di fatto — aggiunge Ivantchik — si tratta di un disegno che vuole asservire l’Accademia al potere politico. Gli istituti di ricerca dovranno essere subordinati all’Agenzia federale degli Enti scientifici (la cui sigla in russo è Fano, ndr ), che si presenta come un’istituzione governata da burocrati, incapaci di capire tanto le esigenze della ricerca scientifica quanto le necessità che riguardano la vita dei colleghi scienziati. Perdere l’autonomia amministrativa significa perdere automaticamente la libertà di autogestione degli istituti. Adesso spetterà alla Fano nominare i nuovi direttori e imporre un severo controllo su programmi, progetti, rendiconti. E temiamo anche di perdere molti dei preziosi palazzi storici in cui sono alloggiati gli istituti nel centro di Mosca: saremo trasferiti nelle periferie per lasciare posto a speculazioni immobiliari? ».
Le stesse preoccupazioni nutre il grande scienziato Vladimir Zakharov, insignito della prestigiosa medaglia Dirac nel 2003. «Per chi detiene il potere — osserva Zakharov — la scienza dovrebbe essere al servizio dei burocrati e degli imprenditori. Chi fa ricerca, insomma, viene equiparato a un barbiere. Ogni nostro progetto dovrebbe essere orientato esclusivamente al profitto e al mercato. Ma quando il potere pretende di imporre la sua volontà, si può arrivare a distruggere anche la scienza migliore, come è accaduto nella Germania nazista. L’intera esperienza mondiale ci insegna che lo sviluppo della ricerca è possibile solo in un sistema autogestito dagli stessi scienziati, in un sistema dove vige la libertà…».
Per questi motivi, riprende Zakharov, «non è possibile immaginare uno sviluppo della ricerca scientifica in Russia all’interno di un ente gestito da amministrativi che obbligheranno tanti colleghi a perdere tempo nella compilazione di programmi e rendiconti. Purtroppo spetterà solo a loro giudicare e distinguere quale progetto sarà efficiente e quale invece no. Adesso per noi scienziati si apre uno scenario molto complicato…».
Anche l’Istituto di Filosofia dell’Accademia alza la voce, attraverso le dichiarazioni del suo direttore, Abdusalam Guseinov, illustre studioso di etica: «L’Accademia — dice a “la Lettura” — non è più la repubblica autonoma degli eruditi che vi lavorano, così come l’aveva fondata Pietro il Grande. Se finora la riflessione teorica e la libera ricerca disinteressata erano stati al centro della nostra attività, adesso ogni progetto sarà piegato a fini e interessi pragmatici. Con questa riforma, l’Accademia non sarà più protagonista del suo sviluppo: viene declassata a essere un osservatore passivo, privo di strumenti per incidere veramente sul suo destino. Ho l’impressione che il governo abbia ridotto noi accademici a generali senza armata, a un club di gentiluomini che ha perduto la sua identità scientifica…».
Ma Guseinov, Zakharov e Ivantchik non disperano. Adesso, calato il sipario sull’Olimpiade invernale, sarà molto importante attirare l’attenzione dei media internazionali per squarciare il velo del silenzio. E, in ogni caso, la protesta continuerà. Perché questa è la volontà di migliaia di scienziati russi decisi a lottare, fino in fondo, per la loro indipendenza e per una ricerca libera da ogni asservimento al potere politico.
Corriere La Lettura 2.3.14
Eric Hobsbawm, I ribelli, Einaudi 1966
La parabola del Buon Passatore
di Dino Messina
Il mito del ladro gentiluomo, secondo Eric Hobsbawm (I ribelli , Einaudi 1966) si fonda su alcuni requisiti, tra i quali aver subito un torto originario, uccidere solo per autodifesa, morire per tradimento, essere amato dai poveri. Il profilo del brigante Stefano Pelloni, detto il Passatore (1824-1851), sembra che unisse queste ad altre caratteristiche meno romantiche, se riuscì ad affascinare subito i poeti ottocenteschi, da Arnaldo Fusinato, il cantore della Venezia su cui «sventola bandiera bianca», autore anche di un «Passatore a Forlimpopoli» (1851), a Giovanni Pascoli che nel 1880 nell’ode alla Romagna definì il suo sanguinario conterraneo «cortese», non si sa se perché galante con le donne (in realtà la sua banda ne violentò alcune) o di animo generoso.
A ripercorrere realtà e mito di Stefano Pelloni, figlio di un traghettatore sul fiume Lamone e perciò detto il Passatore, è lo storico Roberto Finzi, nel saggio Segni particolari: sguardo truce , raccolto nel volume collettaneo, a cura di Eraldo Baldini e Dante Bolognesi, Storia di Russi (Longo editore). Fu infatti in un capanno di caccia vicino al comune della provincia di Ravenna che il Passatore sostenne l’ultimo fatale scontro a fuoco con le forze dell’ordine dello Stato pontificio. L’ultima impresa era stata una sfida aperta all’autorità: l’occupazione con 15 uomini del teatro di Forlimpopoli, dove i possidenti della città vennero depredati di oltre 5 mila scudi. Non era la prima volta che la banda del giovane Passatore, cui facevano capo più di cento malviventi, occupava e rapinava un intero paese: lo aveva fatto già a Brisighella e a Consandolo. Ma quella volta ci era andato giù pesante. Durante la scorribanda alcune donne furono violentate, tra queste una sorella del padre della cucina italiana, Pellegrino Artusi. Le autorità intensificarono i controlli e aumentarono la taglia, portandola a 3 mila scudi. Le gesta del Passatore tuttavia affascinarono anche Giuseppe Garibaldi e nel Novecento ispirarono film (nel 1947 con Rossano Brazzi e Alberto Sordi), sceneggiati televisivi (nel 1977 di Piero Nelli) e pièce teatrali, fino alla canzone dei Casadei sulla «triste storia di Stefano Pelloni in tutta la Romagna chiamato il Passatore... dei cuori femminili incontrastato re».
Corriere La Lettura 2.3.14
Ei fu, anche un manager
Napoleone univa alla progettazione la rapidità d’azione Conosceva e motivava le persone, valorizzava la cultura
di Ernesto Ferrero
Il 31 marzo 1814 lo zar Alessandro I, accompagnato dal re di Prussia, entra in Parigi. È il coronamento della guerra patriottica cominciata meno di due anni prima, con l’invasione francese della Russia. Napoleone conserva ancora l’esercito con cui ha condotto una serie di brillanti battaglie difensive, ma i suoi generali non vogliono più combattere. Il 6 aprile si decide ad abdicare. Firma un trattato che gli assegna la sovranità dell’isola d’Elba e due milioni di franchi l’anno (che non verranno mai versati). Il 20 si congeda dalla Guardia, e annuncia ai fedelissimi in lacrime che «nell’isola del riposo» avrebbe scritto le grandi gesta che avevano compiuto insieme.
Naturalmente l’ipercinetico generale Bonaparte (come si ostinano a chiamarlo gli inglesi, è l’unico titolo legale che gli riconoscono) a riposo non ci sa stare. Tutti sanno che l’Elba è un compromesso momentaneo. Gli alleati già meditano di deportarlo in un altrove più sicuro, i Caraibi, l’America, persino un’isola remota che si chiama Sant’Elena. Lui, che dispone di ottimi servizi di intelligence, prepara la fuga del febbraio 1815 recitando la parte del pensionato che pensa soltanto alle sue vacche e alla casa di campagna da risistemare. Il giorno dopo il suo arrivo a Portoferraio comincia a rivoltare come un guanto l’amministrazione dell’isola. In meno di una settimana sistema cisterne e acquedotti, navigli e batterie costiere, magazzini, ponti e strade, giardini, fogne e smaltimento rifiuti, dazi e tributi. Visita le miniere di Rio per capire come sfruttarle meglio, avvia la costruzione della nuova residenza. Dà all’architetto otto giorni per finire. Si conferma per quel che è sempre stato: un manager multitasking come non se ne sono mai visti, un organizzatore onnisciente, lucido, fulmineo.
Se ne era accorto anche Goethe: «Vedo che quando Sua Maestà è in viaggio non trascura di fermare lo sguardo anche sulle cose più piccole». Dio e il Diavolo si vedono nei dettagli, e lui è un problem solver nato, che non lascia nulla al caso. Per ogni emergenza ha sempre pronto un piano B. «Tutto in me è calcolo», si vanta.
Il vero Napoleone non è quello a cavallo, sontuosamente abbigliato, che David immagina al passaggio del San Bernardo, ma l’amministratore affaticato da una notte di lavoro, che si fa ritrarre nel suo ufficio dal medesimo David a fianco di una candela semispenta, e sembra dire ai francesi che possono dormire tranquilli perché lui è sempre lì che lavora per loro. Il Memoriale di Sant’Elena , pubblicato nel 1823, diventa il breviario dei ceti emergenti perché porge un messaggio potente: anche voi bravi borghesi potete ambire alle imprese più alte, il mondo è vostro, se avrete energia, talento, volontà inflessibile, capacità di sacrificio.
Ma che cosa troverebbe oggi Napoleone sbarcando sulle coste italiane dopo duecento anni? Nessuno dei precetti che compongono il suo sistema operativo è stato assimilato. La concezione del Tempo, anzitutto. Per la vecchia aristocrazia, il tempo era una risorsa praticamente illimitata, di cui disporre a piacere. Per lui, in pace come in guerra, è un bene primario, di cui non va sprecato nemmeno un secondo. Per anni la rapidità delle sue mosse, le marce forzate, l’ubiquità dei suoi eserciti gli assicurano il fattore sorpresa. È un cambio radicale di mentalità. Pianifica con mesi d’anticipo, realizza fulmineamente. Il suo è il tempo del produttore e del mercante, molto simile a quello delle catene di montaggio che verranno.
Secondo e fondamentale ingrediente, la capacità di motivare i suoi uomini e la meritocrazia. Il grande organizzatore sa che «i valori morali rappresentano i tre quarti, le attrezzature un quarto». Vince la prima campagna d’Italia infiammando un’armata cenciosa con i suoi proclami. Apre le carriere al merito: con lui anche Julien Sorel, figlio di un falegname di paese, poteva diventare maresciallo. L’impeto travolgente delle armate francesi è in primo luogo un sogno di rivincita sociale che riesce a realizzare se stesso. Il merito viene premiato largamente e prontamente, portato ad esempio, sino a diventare chanson de gestes , campionario mitologico. Altro caposaldo della gestione napoleonica è il controllo rigoroso dei budget, cui sovrintende personalmente, avvalendosi di una memoria che gli consente di identificare e colpire esemplarmente sprechi e abusi.
Si crea così la leggenda del Capo dai cento occhi cui nulla può sfuggire, che alimenta i comportamenti virtuosi. Non meno decisiva la sua capacità di parlare un linguaggio diretto, essenziale, calibrato su ognuno dei diversi interlocutori. Una chiarezza che impronta di sé anche la materia legislativa e amministrativa. Invece delle migliaia di leggi fumose, scritte male e attuate peggio che sono uno dei cancri dell’Italia contemporanea, Napoleone promulga una normativa trasparente, che lascia poco margine all’interpretazione, come dimostra il Codice civile che porta il suo nome.
Maestro della comunicazione, è l’inventore di tecniche modernissime di consenso di massa. Nessuno come lui ha capito quanto sia grande il potere delle parole sugli uomini. Non trascura nemmeno il merchandising di se stesso. Sforna un fiume di busti, tabacchiere, bottiglie, boccette per i profumi, parafuochi, alamari, ventagli, portafogli, lumini da notte, termometri, sigilli, coltelli, calendari illustrati che portano la sua effigie. In piedi, seduto, a cavallo c’è un Napoleone in ogni casa.
Di non minore importanza è l’attenzione portata alla scuola, alla formazione dei futuri quadri, alla gestione dei Beni culturali. Il protettore delle lettere e delle arti sa bene cosa può fare la cultura per la formazione di una coesione nazionale. Non a caso il museo che oggi conosciamo come il Louvre viene alimentato con una serie di razzie artistiche che il ventisettenne alla guida dell’Armata d’Italia ha ben chiare in testa ancor prima di partire. La stessa spedizione in Egitto parte con una marcata valenza scientifica. Nella pratica del buongoverno entrano persino — udite, udite! — i libri. Prima di lasciare Fontainebleau per l’Elba va in biblioteca, e sceglie personalmente le opere che si vuol portare dietro: i classici greci e latini, le Confessioni di Agostino, Rousseau, Montesquieu, Diderot, Voltaire, opere di storia, astronomia, geografia, anatomia, chimica, botanica, architettura, topografia. È un lettore onnivoro e compulsivo, un costruttore di biblioteche che si tiene aggiornato sulle novità librarie, controlla le letture dei suoi dipendenti, incoraggia gli scrittori. Lui stesso era uno scrittore che aveva cose più urgenti da fare.
Il Vinto che sbarca a Portoferraio il mercoledì 4 maggio 1814, tra la sospettosa curiosità degli elbani accorsi a vedere che effetto fa la sventura, dopo duecento anni corre ancora davanti a noi, e ogni tanto si guarda indietro. No, del buongoverno italico ancora nessuna traccia. Chissà che adesso nel gruppo dei ritardatari cronici non si stagli la figuretta di un altro giovane generale lanciato al galoppo.
Corriere La Lettura 2.3.14
Elba, il nido borghese dell’Aquila imperiale prima dell’ultimo volo
di Vittorio Criscuolo
Il 3 maggio 1814, nello stesso giorno in cui Luigi XVIII faceva il suo ingresso a Parigi, la fregata inglese che portava Napoleone all’isola d’Elba giungeva nella rada di Portoferraio. Era stato lo zar di Russia Alessandro I, entrato nella capitale francese il 31 marzo 1814 alla testa delle forze coalizzate, a concedergli con il trattato di Fontainebleau la sovranità dell’isola e un appannaggio annuo di 2 milioni a carico del tesoro francese, in cambio della rinuncia a ogni pretesa sulla Francia. Il cancelliere austriaco Metternich e il ministro degli esteri inglese Castlereagh, giunti a Parigi qualche giorno dopo la firma del trattato, sapevano bene quanto pericolosa fosse la presenza di Napoleone a pochi chilometri dalle coste italiane, ma ormai era impossibile tornare indietro.
Il 4 maggio, vestito con l’abito verde dei cacciatori della Guardia imperiale, Napoleone sbarcò sull’isola, accolto dalla popolazione con un moto di stupefatto entusiasmo, nel quale non mancava una certa inquietudine per quell’evento che veniva a sconvolgere la quiete dell’isola. Sui forti di Portoferraio sventolava già la bandiera che lo stesso Napoleone aveva ideato per il suo regno: bianca attraversata da una banda diagonale rossa con tre api d’oro.
Colpito dalla magnifica vista sul mare che offriva il giardino, egli scelse come sua residenza la Villa dei Mulini, e fece costruire poi una villa di campagna fra i vigneti della valle di San Martino. Poiché il trattato di Fontainebleau gli garantiva il mantenimento del rango e dei titoli, ripristinò il cerimoniale di corte. Mise insieme anche una biblioteca che potesse soddisfare la sua passione per la lettura. I veterani della guardia dicevano scherzando che Villa dei Mulini era il palazzo delle Tuileries, e San Martino il castello di Saint-Cloud. In effetti lo scenario era lontano dalla passata grandezza; il primo cameriere Marchand, che lo avrebbe seguito anche a Sant’Elena, osservò che tutto era come alle Tuileries, ma in miniatura. Tutto sembrava insomma un po’ finto, e l’abitudine dei pranzi domenicali della piccola corte restituisce quasi l’immagine di un interno borghese.
Della sua famiglia lo seguirono solo la madre e la sorella Paolina. Egli attese invano l’arrivo del figlio e della seconda moglie Maria Luisa, figlia dell’imperatore d’Austria. Le sue lettere non ebbero risposta: nel ducato di Parma che le era stato assegnato, ella si era legata ormai con un ufficiale austriaco, il conte Neipperg, che avrebbe sposato nel 1821. Quanto al figlio, era di fatto un ostaggio alla corte di Vienna. Spinti dall’ammirazione o dalla curiosità, numerosi visitatori si recarono nell’isola; fra essi anche la polacca Maria Walewska con il figlio avuto da Napoleone. Grazie soprattutto a Paolina, frequenti furono le feste, i balli e le rappresentazioni teatrali, per le quali Napoleone fece trasformare una chiesa in disuso.
Fin dai primi giorni l’imperatore diede vita ad una frenetica attività, che sconvolse la sonnacchiosa vita dell’isola. Si preoccupò innanzitutto della sicurezza, rafforzando le fortificazioni e sistemando delle batterie nelle isole di Pianosa e Palmaiola. Curando personalmente ogni dettaglio, provvide alla costruzione e alla manutenzione delle strade, all’igiene pubblica e alla sanità. Si sforzò anche di promuovere l’agricoltura, anche attraverso l’introduzione di nuove colture, di incrementare la pesca, di migliorare lo sfruttamento delle miniere di ferro, iniziative che rimasero per lo più allo stato di progetti. Non bisogna credere però che questo frenetico attivismo servisse soprattutto a mascherare il desiderio di fuga: il ritorno in Francia fu deciso solo quando se ne realizzarono le condizioni.
Certo, egli poteva lamentare l’impossibilità di ricongiungersi alla moglie e al figlio, e il mancato pagamento dell’indennità da parte del governo francese. Sorvegliato da spie di tutte le potenze, egli temeva anche che il governatore della Corsica avesse l’incarico di assassinarlo. A novembre giunsero dal Congresso di Vienna, dove le potenze vincitrici erano riunite, voci di una possibile deportazione a Santa Lucia o a Sant’Elena. Ma soprattutto risultarono decisive le notizie sulla situazione interna della Francia ricavate dai giornali, dai viaggiatori, dagli emissari bonapartisti: la smobilitazione dell’esercito, l’arroganza di emigrati e ultrareazionari che mettevano in discussione la Carta costituzionale concessa da Luigi XVIII, l’offensiva clericale avevano creato un diffuso malcontento nei confronti della restaurata monarchia borbonica.
Approfittando di un’assenza temporanea dell’ufficiale inglese incaricato di controllarlo, Napoleone organizzò in tutta fretta i preparativi per la partenza. Non mancarono in seguito voci secondo le quali l’Inghilterra avrebbe favorito ad arte la fuga per sbarazzarsi definitivamente del nemico. Nella notte del 26 febbraio Napoleone lasciò l’isola con circa mille uomini, stipati sulla fregata «L’Inconstant» e su altre sei imbarcazioni. Senza incrociare le navi francesi che pattugliavano il mare, Napoleone giunse nel Golfo Juan il 1° marzo e arrivò attraverso le Alpi a Grenoble e poi a Lione, dove fu accolto trionfalmente dalla popolazione.
Il maresciallo Ney, inviato ad arrestarlo, passò dalla sua parte. Così senza alcun ostacolo egli poté rientrare il 20 alle Tuileries, mentre Luigi XVIII fuggiva in Belgio. La notizia della fuga giunse a Vienna il 7 marzo, e subito Inghilterra, Austria, Prussia e Russia rinnovarono la loro alleanza, mettendo Napoleone «al bando delle relazioni civili»: ancora una volta egli era solo di fronte all’Europa. Ebbe il sostegno dei soldati, dei contadini, dei lavoratori delle città, mentre la borghesia e i notabili rimasero freddi. Il volo dell’Aquila, giunta di campanile in campanile fino a Parigi, rinverdiva i fasti della leggenda. Ma la Francia intuiva oscuramente che questa avventura non poteva portarle nulla di buono: dopo Waterloo la pace fu ottenuta a condizioni ben più dure rispetto all’anno precedente. D’altra parte il ritorno di Napoleone dimostrò che era impossibile ogni conciliazione fra gli eredi della rivoluzione e i fautori dell’antico regime: due France ormai si confrontavano, inconciliabilmente nemiche, e il loro conflitto avrebbe caratterizzato a lungo la storia della nazione.
Il Sole Domenica 2.3.14
La giustizia faccia il balzo
L'equità sociale riproposta come «internazionalismo liberale»: la povertà assoluta degli stranieri deve preoccuparci quanto l'ingiustizia interna agli Stati
di Sebastiano Maffettone
In questo nostro mondo, c'è chi fa la dieta e chi muore di fame, ci sono bambini che possono studiare e altri che non possono, pazienti che vengono curati e persone che invece si ammalano senza speranza di cura. Tutto questo dipende dal semplice fatto di essere nati in un posto piuttosto che in un altro: dal caso e non dal merito. La cosa è ancora più grave in quanto oggi, diversamente dal passato, accade al cospetto di un sostanziale aumento di ricchezza totale dovuto al progresso tecnologico e alla globalizzazione economica. Nonostante queste nuove opportunità, molti esseri umani vivono in regime di estrema povertà. A mio avviso, questa è la più formidabile questione del nostro tempo. Per affrontarla, la carità e la benevolenza, che pure sono benemerite, non bastano. Ci vuole più giustizia per tutti. Sarebbe a dire una soluzione politica e non puramente morale o religiosa. Ma la giustizia globale, così intesa, va incontro a sostanziali difficoltà teoriche prima ancora che pratiche. In questo consiste il problema della giustizia globale, che cerco di affrontare in questa lezione.
Il problema della giustizia globale, in questi termini, è sentito da molti se non da tutti. Ma a un'intuizione comune corrispondono diversi modi di renderne conto. L'intuizione ci rivela l'ingiustizia di un mondo diviso tra chi può condurre un'esistenza agiata o comunque decente e chi invece vive sotto la soglia della povertà. Si tratta in fondo di un tema classico di giustizia distributiva, che ci invita a non tollerare ineguaglianze non giustificabili, come quelle dovute alla nascita. A questo punto però ci si divide. Ci sono quanti dubitano della possibilità di estendere a livello globale gli standard di giustizia distributiva che, non dimentichiamolo, sono stati creati nell'ambito dello Stato-nazione. Sono costoro, gli assolutisti del Leviatano, convinti che la giustizia globale sia una chimera, un'utopia nel senso cattivo del termine. Per loro, al di là dello Stato esistono solo doveri umanitari. Altri sono invece convinti che la giustizia globale non sia affatto diversa da quella all'interno dello Stato. Per costoro, i fan di Cosmopoli, i criteri di giustizia sono sempre gli stessi, e basta avere un po' di fantasia per trasportarli dallo Stato al mondo globale. È mia convinzione che sia i primi che i secondi abbiano torto. Prendere sul serio il problema della giustizia globale, per quel che credo, non vuol dire negare la possibilità della giustizia oltre lo Stato, ma neppure sostenere che non ci siano questioni specifiche legate al passaggio da statale a globale. In altre parole, la mia tesi è che la giustizia globale esiste ma è sui generis, diversa da quella tradizionale nata all'ombra dello Stato-nazione.
Alla luce di quanto detto, possiamo dividere gli approcci alla giustizia globale in statisti e cosmopoliti. La distinzione riguarda l'ambito di applicazione delle teorie. Secondo gli statisti non c'è giustizia politica al di là dei confini dello Stato, mentre secondo i cosmopoliti i confini non fanno la differenza e la giustizia distributiva è intrinsecamente globale. Gli approcci statisti sono "relazionali", nel senso che al loro interno conta più di ogni altra cosa la relazione di appartenenza allo Stato-nazione. Gli approcci cosmopoliti possono invece essere relazionali o non-relazionali: i cosmopoliti relazionali (come Beitz, Pogge, Cohen e Sabel) tendono a espandere la struttura istituzionale dallo Stato al globo e immaginano una specie di governo del mondo; i cosmopoliti non-relazionali (Caney, Buchanan) invece usano argomenti morali piuttosto che istituzionali e spesso partono dal principio che tutti gli esseri umani vanno trattati con eguale dignità e rispetto. Nella lezione, spendo molto del mio tempo per criticare gli autori cosmopoliti, sia nella versione relazionale che in quella non-relazionale. Mi limiterò qui a dire che i cosmopoliti relazionali sbagliano perché le istituzioni globali sono diverse da quelle nell'ambito dello Stato-nazione, e i cosmopoliti non-relazionali perché troppo spesso confondono la morale e la religione con la politica.
Le obiezioni che io muovo al cosmopolitismo sono simili a quelle che muovono gli statisti. Tuttavia, io non credo fino in fondo nello statismo. Nella mia visione ci sono veri obblighi di giustizia globale. Per distinguere la mia visione di giustizia globale da statismo e cosmopolitismo, la ho chiamata «internazionalismo liberale».
L'internazionalismo liberale non è statista, come dicevo, ma deve ovviamente resistere alle due obiezioni che muovo al cosmopolitismo. Deve essere cioè capace di trovare soluzioni istituzionali e morali per la giustizia globale diverse da quelle cosmopolitiche. Sostengo che la risposta a tali interrogativi consista in una concezione specifica dei diritti umani e in un dovere naturale vincolato alla stretta necessità. Una caratteristica sia dei diritti umani sia del dovere naturale così intesi è quella di non poggiare sull'egualitarismo, che invece è fondamentale per la giustizia distributiva statuale, ma su una base "sufficientaria". Il che vuol dire che la giustizia distributiva globale si occupa più di soglie minime che di reddito comparato, più del livello assoluto di povertà che dell'ineguaglianza relativa.
Non mancherà chi riterrà la differenza tra statismo e internazionalismo liberale non particolarmente significativa. Non è così, né in teoria né in pratica. Ho detto qualcosa sulla differenza in teoria, ma perché l'internazionalismo liberale è diverso dallo statismo in pratica? Nella visione statista, le differenze di reddito e status che riguardano i cittadini dello Stato-nazione hanno la precedenza su quelle che riguardano gli abitatori del resto del mondo. Rendere più giusto il mio Paese è il solo contributo che posso dare alla giustizia globale. Nella visione che propongo, invece, la povertà assoluta degli stranieri conta talvolta quanto e di più dell'ingiustizia interna. Uno Stato giusto, per il liberale internazionalista, bilancerà quindi le esigenze egualitarie della politica interna con l'attenzione ai bisogni primari degli altri. Non è poco per una politica internazionale troppo spesso concepita all'insegna dell'egoismo nazionale e del disinteresse per l'umanità.
Il Sole 2.3.14
Ippocrate e la medicina
Il veleno nelle uova di serpente
di Luca Pani
Questa è una storia di serpenti che si risvegliano e di ambasciatori che dormono. Inizia 2.500 anni fa, agli albori del mondo occidentale, nella Grecia del Dodecaneso, quando le malattie erano un castigo degli Dei e i Templi erano, allo stesso tempo, luoghi di preghiera e di cura. Tra i malati più gravi c'erano gli epilettici; attacchi devastanti scuotevano il corpo e le membra e osavano interrompere persino le funzioni religiose. Fu così che quella malattia venne chiamata il «morbo sacro». I primi serpenti erano lì a pochi passi dal malato rantolante, in una fossa dedicata a loro e simbolicamente rappresentavano la terapia perché ritenuti, erroneamente, gli unici animali immuni da malattie. Dovevano spaventare il paziente inducendo uno stato di shock e fargli apparire il Dio che l'avrebbe salvato. Fu allora che un uomo ebbe il coraggio di ergersi davanti ai Sacerdoti del Tempio e di negare l'intervento divino nelle malattie umane dichiarando che la malattia sacra era dovuta a una disfunzione dell'organismo.
Ippocrate visse tra il 460 e il 370 a.C. nell'isola di Kos, da dove prese origine la scuola razionale, e vennero gettate le fondamenta di tutto il pensiero logico che ancora ci accompagna. Il suo giuramento contiene ancora oggi i cardini di ciò che facciamo da venticinque secoli per proteggere la salute umana. Lo spartiacque tra medicina e magia venne tracciato allora e il solco si è sempre più allargato. La Medicina ha aumentato la durata della vita media di cinque volte, ha abbattuto la mortalità infantile, debellato migliaia di infezioni e curato malattie che sino a solo dieci anni fa erano letali. La magia non ha mai prodotto niente di là da qualche ora di intrattenimento, spettacoli di cabaret e – ultimamente – effetti speciali Hollywoodiani, anche sulla pelle dei malati e delle loro famiglie.
Nei secoli i serpenti vennero liberati dalle fosse, uno di loro si attorciglia ancora simbolicamente attorno al bastone di Asclepio e due incrociati a forma di otto, formano il Caduceo, il bastone sacro di Hermes/Mercurio messaggero degli Dei. In questo modo le divinità mostrano benevola attenzione alla sofferenza umana. Lo scettro passava agli araldi e agli ambasciatori come simbolo della loro funzione divulgatrice e come emblema d'inviolabilità. Medici e farmacisti hanno ereditato questa funzione e giurato di proteggere la Medicina e diffonderla tra tutte le umane genti. Tutte le volte in cui questa funzione è venuta meno, i serpenti si sono risvegliati. Come cento anni fa (1917) quando un tale Clark Stanley iniziò a raccontare come dai serpenti ricavasse un fantomatico olio che curava tutte le malattie. L'intruglio risultò essere una banale miscela di peperoncino, canfora e olio minerale. La truffa fu scoperta grazie all'infaticabile indagine di un giornalista investigativo (Samuel Hopkins Adams).
Gli ultimi serpenti sono quelli dei giorni nostri. Si insinuano viscidamente tra le pieghe più dolorose della sofferenza umana e depositano migliaia di uova malate che covano informazioni distorte, false e violente. In questo modo, con la complicità di tanti e il silenzio di troppi in nome di piccoli malati che hanno tutti i diritti di essere ascoltati e curati ma con terapie sperimentate in modo controllato, si consuma un nuovo delitto: il vilipendio della Medicina.
Come nel vilipendio si registrano disprezzo, rancore e astio espressi con parole, scritti o atti gravemente offensivi verso tutto quello che la Medicina è stata e continua ad essere. Le offese sono indirizzate proprio a coloro che avrebbero dovuto difenderla e rappresentarla e che invece, poggiato il bastone di Asclepio e il Caduceo da una parte, si sono lasciati trascinare dal clamore della piazza o, peggio, dal silenzio delle loro coscienze.
Il Sole Domenica 2.3.14
Nuovi manuali di filosofia /1
Innamoratevi del sapere
Che cosa significa conoscere, credere, vivere, esistere? È la displiplina che pone questioni che implicano il pensare: «E il pensare filosofico è ciò che distingue gli uomini dagli animali»
di Umberto Eco
Proprio mentre il Miur riduce le ore di insegnamento, suscitando le proteste dei maggiori filosofi italiani (vedi la rubrica Filosofia minima della scorsa settimana), escono due nuovi manuali. Uno a cura di Umberto Eco (di cui presentiamo qui la sintesi generale) e Riccardo Fedriga, l'altro di Armando Massarenti (responsabile di questo supplemento) e Emiliano Di Marco, con la prefazione di Stefano Rodotà che qui a fianco sottolinea l'importanza della filosofia per la formazione dei cittadini di domani. Gli strumenti sono quelli di una filosofia produttrice di conoscenza e di buone pratiche argomnetative come quella di cui ci parla Diego Marconi presentando il suo volume in uscita per le Vele Einaudi.
A parte l'etimologia originaria per cui «filosofia» significherebbe «amore per il sapere», definire la filosofia è impresa difficile perché il senso della parola cambia attraverso i secoli. Nella Grecia classica si riteneva che l'uomo iniziasse a filosofare (come diceva Aristotele) come reazione ad atti di meraviglia, ma rispondono a un atto di meraviglia sia la domanda «chi ha fatto tutte le cose che ci circondano?» (domanda certamente filosofica anche se comune a tutte le religioni) sia la domanda «come mai i ruminanti hanno le corna, salvo il cammello?» – che era questione a cui Aristotele aveva tentato di rispondere ma che oggi noi affidiamo alla ricerca scientifica e non alla filosofia.
Eppure se è la scienza che oggi deve spiegarci origine e natura dei ruminanti, e può dirci che essi sono il prodotto dell'evoluzione naturale, rimane una domanda prettamente filosofica a cui ancora oggi si risponde in modo assai vario, e cioè: «anche se i ruminanti fossero il prodotto dell'evoluzione naturale, c'è un disegno intelligente che ha stabilito leggi di natura per cui essi si sono evoluti in tal modo (per cui ha corna ciascun bue che nasca in ogni epoca e in ogni luogo)?». Vi renderete conto che questo è ancora una volta il problema dell'esistenza (o meno) di Dio. La scienza può dirci che non è necessario ipotizzare un creatore per spiegare l'origine dell'universo e della vita, ma non può dimostrare che Dio non c'è - così come non può dimostrare che ci sia, anche se nel medioevo San Tommaso d'Aquino pensava che la ragione potesse confermare la fede e aveva elaborato cinque prove (filosofiche) dell'esistenza di Dio. Ma Kant ha poi sostenuto che questo tipo di prova non era razionalmente valido e che la presenza di Dio poteva essere solo postulata per ragioni morali. Ed ecco come la filosofia, per quanto si espanda il territorio proprio della scienza, mette ancora (per così dire) il suo naso dappertutto.
Potremmo allora dire che, anche se dall'antichità a oggi l'umanità ha delegato alla scienza la risposta ad alcune domande, ce ne sono altre per cui la scienza non ha risposta (per esempio che cosa sono il bene e la giustizia, se c'è un'idea di Stato migliore delle altre, perché esistono il male e la morte, e così via) e che sono oggetto perenne della ricerca filosofica. Tanto che qualcuno ha detto che la filosofia è la disciplina che si occupa delle domande per le quali non c'è risposta.
È una definizione esagerata. È vero che ci sono domande per cui non c'è risposta, ma ce ne sono anche nell'universo scientifico, per esempio quale sia il più alto dei numeri dispari: problema di cui si occupa la scienza matematica e a un livello che definiremo di filosofia della matematica. Ma la filosofia si occupa piuttosto di domande a cui le altre discipline non trovano risposta, tipo: Che cosa significa essere? È diverso dire io sono, nel senso che esisto, o dire che i cani sono mammiferi, oppure che io sono nato nell'anno tale, o ancora chiedersi che cosa sia il tempo. Ci sono due diverse ragioni per cui accettiamo l'idea che un angolo retto abbia novanta gradi e quella che tutti gli uomini siano mortali? Se io penso che sia vero che i cani sono mammiferi, ora sta piovendo, i Re Magi hanno visitato Gesù Bambino, Napoleone è morto a Sant'Elena e l'angolo retto ha novanta gradi, tutte queste mie credenze sono "vere" nello stesso senso? E che cos'è la verità? Non è che queste domande non abbiano risposta ma certamente ne hanno avute troppe ed esistono diverse definizioni della verità.
E la domanda filosofica più drammatica è forse stata ed è «perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?» Forse queste sono questioni difficili e qualcuno pensa che i filosofi siano dei perdigiorno a porsi domande del genere. Ma pensiamo a uno sventurato, oppresso dalla miseria o dalla malattia, che si chieda «ma perché sono nato? Non potevano i miei genitori non mettermi al mondo?» Il poveretto sta parlando di qualcosa di essenziale per lui, eppure sta facendo della filosofia, anche non se ne rende conto, così come il famoso personaggio di Molière non si era mai accorto di parlare in prosa.
Ed ecco altre domande tipicamente filosofiche che anche le persone normali si pongono: Ma c'è una giustizia in questo mondo? Ma perché bisogna soffrire? C'è una vita dopo la morte in cui le mie sofferenze saranno compensate? Il mio amato mi sembra il più bello di tutti, ma cosa vuole dire bello? È meglio che tutti siano uguali o che ciascuno venga compensato secondo i suoi meriti? Un angolo retto ha novanta gradi e io ci credo, ma che tutti gli uomini siano mortali è altrettanto vero, o basterebbe un immortale per rendere vana questa credenza? Se, da un disco volante, scendessero sulla terra degli alieni penserebbero anche loro che un angolo retto ha novanta gradi? Ma chi ci ha detto che un angolo retto ha novanta gradi? Gli animali hanno un'anima? E io ce l'ho? E cosa è l'anima? E dove sta? E cosa è la memoria, visto che se uno perde del tutto la memoria sembra che non abbia neppure più un'anima? Perché piango sulle vicende di personaggi romanzeschi anche se so che non sono vere? È meglio diventar ricchi mandando al diavolo tutti gli altri o vivere da altruisti? Mi dicono che un maiale è più intelligente di un cane ma perché io preferisco andare a spasso con un cane? Dipende dall'amicizia, dall'amore, dalla identificazione con qualcuno? Ma cosa sono amicizia, amore, identificazione? Perché penso che la persona di cui mi sono innamorato sia la più perfetta tra tutte mentre se vivevo in un altro ufficio o in un'altra città ne avrei amata un'altra? Che differenza c'è tra convincere mediante dimostrazione di una verità matematica (per esempio il teorema di Pitagora) e persuadere qualcuno (per esempio a votare un partito piuttosto che un altro)? Se dimostrare un teorema ci pare "razionale", convincere a votare dipenderà da scelte "irrazionali"? O da scelte soltanto "ragionevoli"? La dimostrazione del teorema non fa leva sul sentimento mentre la decisione di voto si basa anche su preferenze, sentimenti, emozioni. Dovrei quindi fidarmi più dei geometri (dei tecnici) che dei politici? Quali differenze intercorrono tra ragione, intelletto, sentimento, convinzione, preferenza, scelta per abitudine? In che misura il nostro corpo interferisce col nostro cervello?
Si potrebbe continuare all'infinito: sono tutte questioni filosofiche, e non bisogna essere professori di filosofia per porsele. Le questioni filosofiche interessano ciascuno di noi.
Potete certamente decidere che tutte queste sono questioni che lasciano il tempo che trovano e che si può vivere benissimo divertendosi, facendo soldi o morendo di fame senza che esse ci tocchino da vicino. Ma – a parte che certi esseri umani non possono resistere alla meraviglia che li porta a farsi queste domande – nel corso della storia queste questioni "irrilevanti" hanno determinato il nostro modo di vivere, hanno spinto certi gruppi a guerre di religione, hanno influenzato profondamente le indagini degli scienziati, hanno determinato il nostro modo di intendere la vita, il divertimento, il guadagno e le nostre miserie, anche per coloro che non se ne sono mai resi conto.
Ci sono stati nella storia dell'umanità altri modi di reagire alla meraviglia per ciò che ci circonda. Per esempio le religioni, che sono materia di fede, e che sono state tramandate sotto forma di miti o di rivelazioni, mentre la risposta filosofica si basa su un uso della ragione. Sono esistite filosofie che hanno cercato di mostrare come le rivelazioni delle religioni non contrastino con una "sana" ragione (e si pensi a come Tommaso d'Aquino aveva elaborato cinque modi razionali per dimostrare l'esistenza di Dio), così come ci sono stati casi in cui la filosofia ha agito come critica delle religioni (come in Feuerbach o in Marx). Ci sono state cosmologie, ovvero narrazioni più meno fantastiche su come è nato l'universo, o sulle genealogie degli dèi (per esempio Esiodo). Tutte queste "narrazioni" si distinguevano dal ragionamento filosofico, mediante il quale, invece, si cercava sempre di attenersi a quelle che venivano considerate le leggi della nostra mente.
Forse ci sono altre e numerose ragioni per capire e studiare la filosofia, e per suggerirle tutte le pagine di questo manuale appena bastano. Ma speriamo che questi pochi accenni siano sufficienti per invogliare qualcuno a comprendere che cosa voglia dire pensare. Perché il pensare, e il pensare filosofico, è quello che distingue gli uomini dagli animali.
Il Sole 2.3.14
Nuovi manuali di filosofia / 2
Il pensiero è nelle domande
di Stefano Rodotà
Genere letterario tra i piú difficili, quello dei manuali è stato sempre accompagnato anche da diffidenze, ambiguità, ripulse. Nei tempi in cui maggiore si fa sentire il bisogno di spirito critico, ai manuali viene rivolta l'accusa d'essere strumento di indottrinamento, al fondo autoritario, teso a chiudere insegnamento e apprendimento entro schemi unilaterali, definiti una volta per tutte. E questa considerazione si fa piú forte quando l'allargarsi degli orizzonti del sapere, l'irrompere delle nuove tecnologie, con lo straordinario ampliarsi dell'accesso diretto alla conoscenza in Rete, disegnano un contesto assai diverso da quelli del passato. Questa giusta preoccupazione, tuttavia, non fa venir meno la necessità di strumenti che mettano le persone, gli studenti in primo luogo, nella condizione migliore per cogliere le nuove opportunità. Ma una guida per muoversi con consapevolezza in questo mondo davvero nuovo è cosa assai diversa dall'indicazione di un'unica linea attraverso la quale comprenderlo e interpretarlo. Si arriverebbe cosí non alla migliore comprensione di una conoscenza dilatata, ma ad improprie riduzioni di questa ricchissima dimensione. Tornando alla logica tradizionale del manuale, non è difficile accorgersi che essa è strutturata intorno a una sequenza di risposte.
Armando Massarenti e Emiliano Di Marco ribaltano questo schema, mettendo al centro le domande. Le domande che hanno sempre accompagnato la riflessione degli studiosi, ma pure quelle suscitate dalle loro ricerche. L'effetto è duplice. Da una parte, i contributi dei singoli pensatori trovano la giusta collocazione nel loro tempo. Dall'altra, le domande vengono presentate e strutturate in modo tale da essere a loro volta produttive di domande da parte del lettore. Un intreccio tra storicità e problematicità che si trasforma in una eccellente vaccinazione contro ogni forma di pensiero unico, contro improprie gerarchizzazioni, contro qualsiasi pretesa totalizzante. Questo non vuol dire affatto che si persegua una sorta di appiattimento, che preclude la possibilità di cogliere i momenti alti della cultura, i mutamenti significativi. Al contrario, proprio la consapevolezza della portata effettiva di ciascun contributo di pensiero permette di penetrarne il significato e di sottrarsi alle ingannevoli e davvero strumentali operazioni di «attualizzazione» di questo o quell'autore, con una indebita distorsione del loro effettivo significato culturale. Il lettore viene sollecitato a compiere continui «esperimenti mentali», viene stimolato da continue messe in guardia contro semplificazioni e ideologizzazioni. La sua cassetta degli attrezzi è progressivamente arricchita, la sua autonomia di giudizio critico si dilata. Questi libri divengono cosí non soltanto una stimolante operazione intellettuale, ma una buona azione civile, un vero contributo alla laicità e alla democrazia.
Il Sole 2.3.14
La favola delle api ha 300 anni
Un alveare ancora scontento
di Nicla Vassallo
Medico eccellente a quanto pare, Bernard de Mandeville passa alla storia per lo spirito sarcastico e polemico, spirito presente in diverse sue opere letterarie, e, in particolare in una, pregnante di filosofia, di una filosofia che ha scandalizzato, e forse prosegue con lo scandalizzare: vi si sostiene che la società economicamente fiorente dipende da tutta una serie di vizi privati, generati dall'egoismo individuale, che vengono, per ipocrisia, denunciati, mentre dovrebbero venir esaltati in quanto necessari, per l'appunto, alla prosperità pubblica. Ciò, si badi bene, non implica che lo stesso Mandeville propugni i vizi, che va narrando, inerenti alla convivenza umana; leggendolo e rileggendo è anzi chiaro il suo mero intento descrittivo di una certa società. E su ciò tornerò per accennare al concorso delle scienze empiriche.
L'opera a cui mi riferisco, The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest, risale al 1705, e nel 1714 viene ripubblicata, in forma arricchita, col titolo che la rende famosa e imprescindibile, Fable of the Bees: or, Private Vices, Public Benefits (La favola delle api ovvero, vizi privati pubblici benefici): questa è la ragione per cui ne celebriamo ora il tricentenario, nonostante seguiranno altre edizioni rivedute e trascorreranno altri anni prima che Mandeville giunga a giudicare definitiva la versione della sua "favola".
Parecchie le motivazioni per rileggere quest'opera, insieme a A Modest Defence of Pubblic Stews (a favore della legalizzazione della prostituzione) e a An Inquiry into the Origin of Honour. Non tanto per il suo cosiddetto libero pensiero, pensiero a cui può venir ascritto di tutto e di più, quanto per il suo presunto illuminismo, un illuminismo inglese che tra i suoi illustri rappresentanti annovera David Hume, Alexander Pope, Adam Smith, Jonathan Swift, illuminismo che, oltre finire erroneamente subordinato a quello francese, si trova a confrontarsi con la tesi, avanzata dallo stesso Mandeville, per cui l'essere umano consiste in un aggregato di passioni, di emozioni disorganizzate e incorreggibili. Subordinazione palese, come risulta da due recenti saggi.
Non menziona mai Mandeville, Genevieve Lloyd, nel peraltro notevole Enlightenment Shadows (Oxford University Press, Oxford), pur soffermandosi su Hume e Smith, pur riflettendo sulle intersezioni delle emozioni con l'intelletto, nonché sul significato etico di immaginare se stessi nelle situazioni altrui. Anthony Pagden, invece, a Mandeville dedica alcune pagine preziose, sebbene sempre limitate, in un volume corposo e avvincente (The Enlightenment and Why It Still Matters, Oxford University Press, Oxford), che con accuratezza, garbo, potenza difende l'illuminismo, di cui dovremmo farci custodi, soprattutto nella tutela delle nostre attuali visioni cosmopolite. Ma forse non è un particolare segno d'illuminismo contestare, come fa Mandeville, l'ipocrisia insita nella denuncia dei vizi privati, se si tratta di vizi funzionali alla sfera pubblica, quando, a meno di non sposare il cinismo, non si possa pretendere, perlomeno in politica, di rinunciare del tutto all'ipocrisia stessa? David Runciman lo precisa bene in Political Hypocrisy: The Mask of Power, from Hobbes to Orwell and Beyond (Princeton University Press, Princeton), in cui, non a caso, un intero capitolo viene dedicato proprio a Mandeville.
Di più. Rileggere Fable of the Bees significa non solo confrontarsi con le diverse interpretazioni che individuano nel suo autore il classico rappresentante del «laissez-faire» – cosa che non risulta affatto scontata. Senza tralasciare Aristotele e la sua discussione sul carattere del denaro, Aristotele da cui, tra l'altro, si avvia ogni discorso contemporaneo sulle virtù, e di conseguenza sui vizi, rileggere Fable of the Bees significa soprattutto confrontarsi con uno dei primi testi che indaga in modo ampio, sottile, dirompente le tematiche del commercio, del mercato, dell'economia, in relazione alla natura umana e societaria, oltre che al potere politico, domandandosi come viene intesa l'economia: scienza naturale o scienza sociale? (Si veda, in proposito, Margaret Schabas, The Natural Origins of Economics, The University of Chicago Press, Chicago).
Il Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes di Jean-Jacques Rousseau, che disprezza apertamente Mandeville, è successivo, così come Das Kapital di Karl Marx, entrambi agli antipodi delle teorie rintracciabili nella Fable of the Bees, in cui invece trovano ispirazione, tra i tanti, un Adam Smith o, più recentemente, Ayn Rand, iniquamente ignorata o snobbata da troppi filosofi. Benché Rand sostenga un egoismo di tipo razionale, mentre in Mandeville a emergere è un tipo psicologico di egoismo, Jay W. Richards assimila i nostri, accusando sia Mandeville, sia Rand di non comprendere che l'interesse privato dell'individuo include quello altrui, ovvero l'interesse pubblico, poiché ognuno di noi è un essere sociale.
Benché aborra l'argumentum ad homimen, e invero mi pare di non impiegarlo, credo che qui si annidi una sorta di contraddizione in termini, dato che Jay W. Richards risulta al contempo un sostenitore del disegno intelligente, un filosofo analitico e l'autore di Money, Greed, and God: Why Capitalism is the Solution and Not the Problem (Harper Collins, New York).
Non mi interessa tanto comprendere (richiederebbe lo spazio di un intero volume) se la parabola dell'alveare mandevilliano, ove a funzionare risultano le ineguaglianze tra gli individui, non le uguaglianze, rappresenta quanto alla società finisce coll'accadere, nel bene o nel male, bensì rammentare che natura e interessi egoistici degli esseri umani, al di là di quali benefici pubblici producano e di come ciò avvenga o debba avvenire (si pensi, in proposito, anche alle teorie di Thomas Hobbes) urgono di un importante distinguo, prima di poter teorizzare oltre, per giungere, per esempio, a evidenziare che chi pensa e si comporta da egoista finisce con l'autocontraddirsi.
Un distinguo tra descrittivo e normativo. Difatti, nel caso si proponga un egoismo di tipo psicologico, stando a cui ogni individuo mira principalmente al proprio benessere, si avanza una tesi descrittiva, che, come tale, necessita dell'avallo delle scienze empiriche e così occorre ricorrere a queste ultime per comprendere se Mandeville abbia ragione o torto. Diverso sarebbe se in lui rintracciassimo tesi normative, quali "un'azione è eticamente o razionalmente giusta se e solo se massimizza il proprio interesse personale". Sempre che non si consegnino i concetti di etica e razionalità nelle mani delle scienze.
Il Sole Domenica 2.3.14
Credere e sperimentare
Gesù ha concesso a Tommaso di toccare la sua verità fisica
In anteprima il libro dialogo tra Ravasi e il filosofo Luc Ferry
di Gianfranco Ravasi
Iniziamo il nostro viaggio di ricerca nell'orizzonte del credere cristiano. Siamo nello spazio limitato della sala della Bildergalerie nel grande parco reale Sanssouci della città tedesca di Potsdam, la Versailles prussiana. Davanti ai nostri occhi si presenta una tela impressionante che Caravaggio dipinse fra il 1597 e il 1599. La scena raffigurata appartiene alla penultima pagina del Vangelo di Giovanni (20,24-29) ed è impressa nella memoria di tutti sotto il segno dell'incredulità dell'apostolo Tommaso, un'incredulità smentita e fin sbeffeggiata.
Nel racconto evangelico le cose, però, non stanno proprio così: Cristo concede all'amico dubbioso la possibilità di una prova, di una verifica, di una dimostrazione. E il pittore ce la mostra quasi con brutalità, attraverso una fisicità esasperata: l'apostolo è invitato a infilare il dito oltre la pelle, nella ferita sanguinante del costato di Gesù, penetrando nella carne viva.
Il gesto si trasforma in una parabola: la fede non è abdicazione della ragione, non è cecità della mente rassegnata e inchinata. Il suo è un itinerario che può comprendere l'oscurità, che si alimenta di domande, che sale sui sentieri d'altura della ricerca, perché, come suggerisce in modo folgorante Albert Einstein, «sottile è il Signore, ma non malizioso».
Il dito di Tommaso è il simbolo dell'interrogativo del filosofo, dello storico e del teologo: senza il fiore delle domande dai tanti petali, non si ha il frutto delle risposte. Il libro biblico più originale sul tema della fede, quello di Giobbe, è sostanzialmente un incessante e rovente interrogatorio lanciato verso un Dio apparentemente muto. È un testo talora segnato da toni paradossali: «Interrogami pure» dice Giobbe al Signore «e io risponderò, oppure domanderò io e tu ribatterai» (13,22). Un fuoco di fila di domande che, alla fine, sollecitano persino l'ironia divina: «Se sei un uomo valoroso, cingiti i fianchi, io ti interrogherò e tu mi istruirai» (38,3). L'approdo sarà sorprendente, non sfocerà in una serie di teoremi veritativi, ma in una sequenza di domande ulteriori che Dio rivolgerà a Giobbe, domande che custodiscono in sé, in nuce, una risposta, come accade a tutte le vere interrogazioni (cc. 38-39).
La «carnalità» cristiana, la scoperta finale di Giobbe non sarà la mera razionalità di un sistema speculativo come quello elaborato dagli amici teologi che lo circondano. Non sarà, però, neppure l'abbandonarsi a una disarmata irrazionalità, bensì l'ingresso in una metarazionalità che non ignora i precedenti percorsi razionali ma li trascende e li eccede. È un nuovo canale di conoscenza che non elide gli altri e che è dotato di una sua coerenza e di una sua logica, un po' come succede al conoscere poetico e a quello amoroso. Questo accade attraverso un incontro: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» conclude Giobbe (42,5). È un po' il paradosso proposto da Jean Cocteau nel suo Diario di uno sconosciuto (1952): «Prima trovare. Poi cercare».
E qui ritorna in scena Caravaggio. Il Cristo che il dubbioso Tommaso incontra è fortemente carnale, anche se ormai assegnato all'orizzonte della gloria. Sembra quel Risorto descritto dall'evangelista Luca che, di fronte alle esitazioni che colgono anche gli altri discepoli, ripete: «Perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate! Un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho!» (24,38-39). Lo statuto del dubbio non è, perciò, necessariamente da scrivere nell'albo dell'incredulità. Ma c'è di più, perché Cristo va oltre: «"Avete qui qualcosa da mangiare?" Gli offrirono una porzione di pesce arrostito. Egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (24,41-43). Con la carnalità lucana e caravaggesca ci si inoltra nel cristianesimo. Esso, infatti, ha nel suo cuore la storicità, la «carne» appunto, l'evento, l'incontro, l'esperienza e non solo la teoria, l'intuizione, l'elaborazione spirituale e intellettuale. Capitale è quell'asserto giovanneo: ho Lógos sarx eghéneto, il Verbo divino e trascendente «carne divenne» (1,14). Un asserto che Jorge Luis Borges così aveva ripreso in un'ampia meditazione lirica su quel versetto, presente nella sua raccolta poetica Elogio dell'ombra (1969): «Io che sono l'È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo... Vissi prigioniero di un corpo / e di un'umile anima...».
Il Sole 2.3.14
Questioni etiche
Il concepimento secondo natura
di Lucetta Scaraffia
Non ha l'aria di essere particolarmente aderente alla natura la Storia naturale del concepimento scritta da Aarathi Prasad, genetista brava nella divulgazione, che parte dalle teorie dei medici greci per arrivare agli scenari che il futuro ci prospetta. La prima parte, infatti, ci incanta con la storia della scoperta del meraviglioso lavoro che la natura predispone per assicurare la nascita di nuovi esseri umani partendo da un ovulo e uno spermatozoo, e naturalmente da un utero che li contenga, sbalordendoci con la successione di scoperte che hanno permesso di conoscere quasi tutti i meccanismi complessi che regolano la procreazione, una possibilità quasi «magica». Nella seconda parte invece cambia tutto. Aperto il giocattolo, gli esseri umani vogliono ricostruirlo in modo che risponda più perfettamente ai loro desideri e scelte, senza lasciare nulla al caso. Così la generazione diventa un processo sempre più artificiale: per rimediare alla sterilità (spesso procurata da scelte come quella di concepire figli sempre più avanti negli anni), per scegliere gli embrioni più sani, per permettere di procreare anche a donne prive di utero grazie a un utero artificiale, evitando così spiacevoli mercati del corpo femminile e del materiale germinale, con relativo sfruttamento dei poveri.
Nonché costruendo, attraverso la stimolazione delle staminali pluripotenti, ovuli e spermatozoi «artificiali». Il libro finisce con la prospettiva di un aumento significativo di genitori single, che si fanno un figlio ricavando ovulo e spermatozoo dalle loro staminali e lo fanno crescere in un utero artificiale, come se la differenza sessuale non esistesse.
Le conseguenze negative che questo uso della tecnoscienza potrebbe comportare sono appena accennate, qua e là, con troppa leggerezza. Si allude per esempio al fatto che i bambini concepiti in provetta sono spesso più fragili di quelli «naturali», o si parla dei messaggi epigenetici che una madre passa al figlio durante la gravidanza e che diventano elementi della sua personalità, anche se questi verrebbero sicuramente a mancare in un utero artificiale.
Ma secondo Prasad questi cambiamenti sarebbero nell'insieme senza dubbio positivi, perché doterebbero gli esseri umani di maggiore libertà e autonomia – o addirittura libererebbero un sesso dalla necessità dell'altro e le donne dalla fatica della gravidanza e del parto – e soprattutto alla fine porterebbero a una totale eguaglianza fra donne e uomini. Tesi sulle quali si discute molto.
Aarathi Prasad, Storia naturale del concepimento, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 280,
€ 22,00
Il Sole Domenica 2.3.14
Contro gli insulti sessisti
Donne liberal per sempre
Va recuperata la tradizione di John Stuart Mill che difende la libertà di espressione di ogni essere umano e la parità sessuale tra uomini e donne
di Nicla Vassallo
Provando a praticare una qualche empietà, che a volte serve, da un punto di vista strettamente civile e filosofico, non si comprende bene quando, come, perché le donne abbiano iniziato a pretendere equità ed eguaglianza, e, se questa rivendicazione oggi valga ancora, oppure se le donne "bianche" vi abbiano rinunciato, cedendo alle fatalità della cosiddetta società multietnica (che tale poi non si rivela, almeno sul piano degli equilibri), per adempiere a un preciso ruolo egemonico (chi lo nega aderisce al perbenismo conformistico più spregiudicato), prediligendo, in alcuni casi e di fatto, uomini "inferiori", sempre che loro siano eterosessuali. Insomma, non mi è chiaro cosa di liberal risieda in ciò.
In effetti, l'otto marzo riguarda le donne che hanno optato, optano, opteranno per l'eterosessualità. Perché il problema rimane, alla faccia della filosofia della differenza, che ormai solo qui da noi impera, quello dell'equità ed eguaglianza nei rapporti tra donne e uomini, a partire dai rapporti sessuali: se in questi non si instaura davvero parità, come potrebbe darsi qualche seria parità su altri piani, per esempio, nelle professioni? E che a questa domanda occorra purtroppo rispondere che la parità non si dà viene testimoniato dal fatto che, quando una qualsiasi donna si ritrova in una posizione professionale, più o meno celebre, la si insulta nei e con i termini che conosciamo, e che qui, per amor di clemenza e soprattutto di decenza, non replichiamo, a favore di educazione, civiltà, umanità. La si insulta in tal modo perché? Già: insulti, ormai di gran moda, contro le donne, insulti sessisti.
Ma non dimentichiamo che la pratica dell'insulto non è cosa recente. Forse Aristotele non si immaginava di insultare le donne definendole passive; altrettanto non avrebbe pensato di venire, a sua volta, insultato pesantemente, in virtù del suo bel politeismo, con una franca ferocia, sia da Al-Gazali, sia da Lutero: e oggi ne avvertiamo le oscure "ragioni". Uomini che insultano altri uomini, per questione mistiche o teologiche. E donne che insultano uomini, con fare sottile, elegante, senza apparenti concessioni al sessismo, come la grande e sconosciuta a più (perché mai?) Elizabeth Bowen che su Aldous Huxley, conosciuto ai più, si esprime così: «The stupid person's idea of a clever person». A William Irvine non sfugge l'episodio, nel suo recente A Slap in the Face. Why Insults Hurt - And Why They Shouldn't (Oxford University Press). E a lui non sfugge neanche la preminenza e la permanenza nella nostra società del ruolo che gli insulti svolgono nel cementare relazioni: per esempio, sempre nelle relazioni eterosessuali, si possono manifestare in una donna briosa, o detestabile, che si prende gioco del proprio compagno, e viceversa. Però, a incidere è che degli insulti poco dovrebbe importarci, che gli insulti non dovrebbero ferirci, anzi sugli insulti dovremmo ridere, infischiandocene, e altrettanto comportarci con l'insultatore di turno, che spicca sempre e solo per banalità, ignoranza, tracotanza.
Questa situazione, nella sue varie sfaccettature, suggerisce l'esigenza di una traduzione contemporanea di una tradizione liberal che rintraccia un esponente esemplare (l'esemplare per eccezione?) in John Stuart Mill, nella sua filosofia teoretica, etica, politica, nel suo anticipare e criticare i discorsi sull'appartenenza sessuale e di genere, nella sua difesa della libertà d'espressione di ogni essere umano, quindi di donne e uomini, nella sua vocazione antipaternalistica, nella sua difesa dell'eguaglianza sessuale. In tutto ciò, come ben attesa David Brink (Mill's Progressive Principles, Clarendon Press), a contare e a prevalere nelle esistenze equilibrate rimane la felicità individuale e collettiva, felicità in stretta relazione con le proprie competenze o incompetenze deliberative – e allora occorre domandarsi se, oggi come oggi, le medesime competenze o incompetenze vengano elogiate e criticate in donne e uomini, in egual misura e proporzione, applicando a tutti/e loro i medesimi diritti e doveri.
Temi e problemi che appartengono a una bella e sana filosofia che non si ripiega su se stessa, né si arrocca in pratiche astruse. Così (ri)leggere A Vindication of The Rights of Woman di Mary Wollstonecraft Godwin (anche attraverso la precisa ottica di Sandrine Bergès, nella sua The Routledge Guidebook to) ci conduce a comprendere quanto una certa e precisa vocazione liberal ci appartenga, e debba esercitare la propria influenza sulle nostre menti, in particolare, sulle menti di donne che si ritrovano a proteggere certi pregiudizi maschilisti, magari in nome di un multiculturalismo paternalistico, con esiti sempre pericolosamente relativistici sul piano dei diritti umani e civili, o, comunque, a compiacere un certo tipo di maschio, accettandone esaurimenti, inciviltà, insensibilità, intemperanze, inettitudini, fondamentalismi.
E, quando a questo "tipo", da donna o da uomo, domandi di insulti, di John Stuart Mill, di Mary Wollstonecraft, e lui ti guarda in cagnesco o con occhi da pesce bollito, comprendi, una volta di più, perché tu devi essere liberal, per sempre.
Il Sole Domenica 2.3.14
Antiche cortigiane
Più sagge di Socrate
di Anna Li Vigni
Atene come New York. È circa il 160 d.C. quando il pensatore greco Luciano di Samosata, conferenziere e sofista esperto, reclamato nelle sale di retorica di tutto il Mediterraneo, si trasferisce nella metropoli antica, dove pullulano sia la vita mondana sia la cultura internazionale. Qui più che mai si percepisce tutta la criticità di quella che Eric R. Dodds definisce un'«epoca d'angoscia», il mondo tardo antico. Ad Atene impazza l'usanza, tra gli uomini di accompagnarsi a bellissime etere. Non si tratta di prostitute, bensì di "cortigiane", ragazze spesso figlie di stranieri, che avevano trovato un modo assai redditizio di vivere intrecciando relazioni con uomini benestanti i quali, in cambio, le mantenevano e facevano loro generosi doni. A dispetto del clima di riprovazione sociale che le attorniava, le etere erano donne colte, raffinate, che avevano viaggiato, pertanto risultavano assai affascinanti nell'ambiente dell'élite: un'etera – dice Crobile – «veste in modo elegante, è sempre allegra con tutti senza eccedere in risa sguaiate, prende il cibo con la punta delle dita e, quando beve, lo fa lentamente, a piccoli sorsi». Erano le uniche donne veramente libere, che partecipavano a eventi pubblici e a banchetti e che, quando si legavano a politici potenti, acquisivano prestigio sociale. Basti pensare all'etera Aspasia, per la quale Pericle ripudiò la moglie. Luciano fu colpito dall'influenza che queste donne esercitavano sulla cultura e sugli uomini, e ad esse dedicò 15 deliziosi Dialoghi delle cortigiane (tradotti e introdotti da Francesco Chiassone). Si tratta di ritratti di finissima fattura letteraria, nei quali sono le stesse donne a mostrare ciascuna il proprio carattere attraverso un linguaggio molto realistico che fa rivivere, sulla pagina, il mondo ateniese antico. L'ironia e il sarcasmo, tipici di Luciano, non mancano: le etere sfoggiano un eloquio e una capacità ragionativa degna di un filosofo. Mentre i filosofi delle grandi scuole – classico bersaglio critico di Luciano – talvolta fanno una magra figura. Nel decimo dialogo, Aristeneo, stoico dalla ridicola «barba lunga un metro», vieta all'allievo Clinia di frequentare l'amata etera Droside invitandolo invece a seguire la virtù; ma la filosofia è un alibi che cela le mire del filosofo sul ragazzo. La penna di Luciano è assai graffiante, quando afferma: «Confronta l'etera Aspasia e Socrate il sofista, e valuta quale di loro istruì meglio i giovani».
Luciano di Samosata, Dialoghi delle cortigiane, traduzione e cura di Francesco Chiossone, Il Melangolo, Genova, pagg. 110, € 8,00
Il Sole 2.3.14
L'architrave di famiglia
Paul Ginsborg esamina la vita familiare in cinque Paesi nei primi 50 anni del XX secolo raccontando l'evoluzione della società e le riforme giuridiche che si sono susseguite
di Donald Sassoon
«È sorprendente – scrive Paul Ginsborg – come nella maggioranza degli studi sul XX secolo le famiglie restino perennemente dietro le quinte». Questo è vero se pensiamo a grandi indagini storiche come Il secolo breve di Hobsbawm o Le ombre d'Europa. Democrazia e totalitarismo nel XX secolo di Mark Mazower, dove la famiglia è quasi assente. Per rimediare a questa carenza servirebbero studi di analoga portata che mostrino in che modo il corso degli eventi politici ed economici abbia influenzato o sia stato influenzato dalle famiglie. Sarebbe un'impresa non da poco, perché servirebbe qualcuno in grado di stabilire se i cambiamenti nella struttura delle famiglie siano stati dovuti a cause "interne" (abbastanza improbabile) o a eventi esterni, come per esempio cambiamenti delle leggi, emigrazioni, guerre o sviluppo economico. Bisognerebbe delineare la configurazione della vita familiare all'inizio del periodo preso in esame e poi tracciare un quadro dei cambiamenti e delle cause di tali cambiamenti. Inoltre, questo lavoro andrebbe realizzato in forma comparativa, in modo da poter valutare se una cosa come il calo della fecondità sia dovuta a fattori che trascendono le differenze religiose o politiche.
Famiglia Novecento non fa niente di tutto questo. È un libro abbastanza strano, in realtà. Da un certo punto di vista, è difficile non apprezzarlo per quello che è: un'antologia di eventi e fatti disparati, raggruppati sotto l'intestazione generica di "famiglie". È una lettura molto piacevole, dove si trova un gran numero di eventi che avevamo dimenticato, o che non avevamo mai saputo. Ginsborg propone una serie di esempi presi da cinque Paesi nella prima metà del XX secolo: Russia/Unione Sovietica, Italia, Spagna, Impero Ottomano/Turchia e Germania. Perché proprio questi Paesi? Perché hanno subito, più di altri in Europa, cambiamenti di grande rilevanza: la transizione rivoluzionaria dal regime zarista all'era sovietica, inclusi gli anni terribili della guerra civile e poi della collettivizzazione, la transizione dall'era liberale al fascismo per quanto riguarda l'Italia, la guerra civile in Spagna, Weimar e il nazismo in Germania, e in Turchia, per concludere, la fine dell'Impero Ottomano e la rivoluzione guidata da Kemal Atatürk. Al confronto quello che è successo in Francia o in Gran Bretagna può apparire di minore importanza. Ma è proprio così? Le due maggiori democrazie europee non hanno subito cambiamenti di regime e il loro sistema politico è rimasto sostanzialmente immutato nei primi cinquant'anni del XX secolo, ma sono passate per due grandi guerre, con un bilancio di vittime smisurato; sono state devastate dalla spaventosa epidemia di spagnola del 1918, che uccise 250mila persone nel Regno Unito e 400mila in Francia; durante la Seconda guerra mondiale, la Francia fu occupata e la Gran Bretagna bombardata. Andare a guardare l'evoluzione della famiglia in questi due Paesi poteva fornire un interessante elemento di comparazione. Le famiglie inglesi e francesi sono rimaste più stabili di quelle dei Paesi interessati da grandi conflitti politici e militari? I cambiamenti nella struttura della famiglia e nelle relazioni di genere sono influenzati da evoluzioni economiche di lungo termine, molto più che da eventi catastrofici di breve durata come guerre e dittature. Per esempio, negli Stati Uniti l'età media del matrimonio registrò un brusco calo dopo il 1945, quando il Paese fu coinvolto in numerose guerre, ma tutte di importanza relativamente minore rispetto alla Guerra di Secessione e alle due guerre mondiali. Oggi la maggioranza dei primi figli negli Stati Uniti (e in alcuni Paesi europei) nasce prima del matrimonio: un chiaro segnale, con disappunto dei tradizionalisti, che l'era del matrimonio come base per la procreazione forse sta per giungere a termine. Queste recenti evoluzioni sono state causate da fattori economici e culturali, non da guerre e rivoluzioni.
In ogni sezione Ginsborg ci presenta un affascinante schizzo della vita familiare di alcuni personaggi famosi, quindi fornisce una descrizione dei cambiamenti, in alcuni casi realmente rivoluzionari, intervenuti nel diritto di famiglia (divorzio, aborto, legislazione sul matrimonio, uguaglianza: è la parte più interessante); poi accenna alle proposte di riforma dell'istituto familiare, di solito semiutopistiche, e infine propone delle descrizioni (un po' superficiali) di famiglie "vere". Quest'ultima è la parte meno convincente del libro. Non è particolarmente illuminante, per esempio, leggere che nella Russia zarista «nelle campagne le donne venivano "trattate con grande brutalità" da mariti spesso ubriachi», perché ovviamente una cosa del genere non era limitata ai mariti russi. Erano più brutali e ubriaconi dei mariti di Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna? Probabilmente sì, ma quali dati ci sono a supporto? Tra l'altro, nella stessa parte Ginsborg descrive le condizioni di vita terrificanti nelle fabbriche della Russia zarista, dove gli operai, appena emigrati dalle campagne, riuscivano comunque a spedire a casa a moglie e figli una parte dei loro miseri salari: non tutti erano degli alcolizzati insensibili, quindi. E definire come patriarcale la vita familiare in Russia o in Turchia non è certo una rivelazione, considerando che la famiglia patriarcale era un tratto quasi universale e non certo limitato al periodo preso in esame, nei cinque Paesi sconvolti da turbolenze.
L'autore dedica molto più tempo a parlarci delle famiglie "speciali", le famiglie dei personaggi famosi: Lenin, la femminista bolscevica Inessa Armand (l'amante di Lenin), Aleksandra Kollontaj, l'unica donna commissario nel primo Governo rivoluzionario russo, Marinetti e Mussolini, Goebbels e Francisco Franco (un marito migliore di Mussolini, a quanto pare: non che questo ci dica qualcosa di utile sulle differenze tra il suo regime e il fascismo, o sulla "famiglia"), Kemal Atatürk e la famosa nazionalista femminista turca Halide Edib (descrivendo il suo matrimonio infelice e le sue battaglie in favore dell'uguaglianza delle donne), e tanti altri. Ma non ci dà nessuna spiegazione per queste scelte. Perché Marinetti e non D'Annunzio? Perché non c'è nulla sulla contessa Daisy di Robilant, una fascista-femminista fuori dagli schemi, che si batté con un'energia non comune in favore delle donne non sposate. È perché Halide Ebid ci ha lasciato due volumi di memorie piuttosto egocentrici, mentre Daisy no?
La parte sui cambiamenti del diritto di famiglia è prevalentemente descrittiva, con in aggiunta un commento, che va da una misurata approvazione (come per le riforme realizzate in Unione Sovietica e in Turchia) a una condanna esplicita (Italia e Germania). Ma il compito dello storico è spiegare, non dire «questo è buono, questo no». È chiaro che nella nostra ottica contemporanea le riforme "migliori" sono quelle che facilitano il progresso verso una maggiore uguaglianza tra uomini e donne, una maggiore facilità di divorzio e un approccio laico al matrimonio: la conseguenza è che le riforme realizzate in Unione Sovietica e nella Turchia di Atatürk sono più "moderne" di quelle realizzate in Italia o in Spagna, dove, con il Concordato nel primo caso e la vittoria di Franco nel secondo, la Chiesa incrementò il suo potere.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Paul Ginsborg, Famiglia Novecento, Einaudi, Torino, pagg. 684, € 35,00