Repubblica 7.1.14
90 anni di Unità
C’era una volta il giornale del Partito
Il 12 febbraio del 1924 Gramsci fondava il quotidiano. Dalla guerra alla caduta del Muro alla crisi, il mondo raccontato da sinistra
di Filippo Ceccarelli
Mercoledì 12 L’Unità esce con un allegato di 96 pagine con 90 prime pagine, foto, articoli di Reichlin, Serra, Di Paolo e una tavola inedita di Staino
Vista, rivista, ricordata e analizzata dalle prime pagine di un quotidiano la storia procede necessariamente a sbalzi sacrificando l’umile quotidianità che pure anticipa e rincorre i grandi eventi illustrati con magnifiche foto e altissimi titoli.L’Unità compie dunque novant’anni. «Puro e semplice» impose il titolo della testata Antonio Gramsci. Tale è rimasto, con più di 30mila numeri alle spalle, una piccola grande vicenda, la necessità, la cospirazione, la persecuzione, il tempo del ciclostile, la rinascita, il distinto perfezionismo di Togliatti che voleva il giornale «degli operai e dei contadini» ispirato nelle sue forme ai grandi giornali borghesi, la stagione di massa delle feste e della diffusione domenicale, il gran vivaio dei giornalisti che si consideravano «la Marina del Pci», l’arma più elegante, quasi snob; poi la crisi del partito, la strenua resistenza e il patatrac del suo “organo”, come pure a lungo si diceva senza ridere, quindi le traversie, le peripezie e la lotta per la sopravvivenza.
Sempre più dura, quest’ultima, come se l’antica e impersonale proprietà, pur incarnata nella figura di Amerigo Terenzi, manager pratico e leggendario, finanziere misterioso, eppure sublime esperto d’arte e filosofo di luminoso scetticismo romanesco con quel suo passeggiare al Verano intrattenendo i suoi interlocutori dinanzi all’iscrizione tombale: «Quello che siete fummo/ Quello che siamo sarete», ecco, è come se l’antica proprietà, una volta venuta meno, si fosse vendicata facendosi surrogare da una girandola di quote azionarie ammattite, residui ciellini, boss della Sanità, cavalieri di ventura, rampanti del meta-berlusconismo in ritirata edella psicologia ascendente e perfino un cane lupo, a nome Gunther.
Comunque fondata da Antonio Gramsci: «E allora i soldi — disse una volta Occhetto, giovialone — fateveli dare da Gramsci». Sia come sia, mercoledì 12 i lettori troveranno in edicola uno speciale che raccoglie 90 prime pagine dell’Unità, inserto realizzato da Fabio Luppino con articoli di Alfredo Reichlin, Michele Serra, Paolo Di Paolo e una tavola inedita di Sergio Staino. Per ragionianagrafiche, politiche e quindi anche sentimentali se ne consiglia la visione in compagnia. Forse un modo per attenuare l’ombra del tempo che fugge e insieme provare a riallacciare i fili, le fila e un po’ anche i filamenti della storia.
Non c’è gioia, infatti, in queste pagine e forse nemmeno più quella superba sicurezza che a lungo si avvertiva nel Pci, che come tale possedeva il monopolio della Razionalità. Quella specie di orgogliosa autosufficienza che si avverte risfogliando un opuscolo fotografico di fragile rilegatura — Come vive un giornale (1945-1972) — con Togliatti meticolosissimo in tipografia, le maestranze in canottiera e un teatro con drappi e pubblico incappottato per la cerimonia de “La Befana dell’Unità”. Un mondo a parte, ma più che rispettabile e forse, alla metà degli anni Settanta, indispensabile. Ma oggi?
Non dev’essere stata facile oggi la selezione, e non solo perché il giornale — come tutti, un po’ più di tutti — naviga in cattive acque. È che il comunismo è passato veramente e disperatamente di moda; e seppure l’espressione è orribile ritrovarselo lì, nudo e crudo, fa uno strano effetto; e i ricordi si aggrovigliano, stentano a trovare un senso, ondeggiano nel loro utile e contraddittorio susseguirsi.
Gli anni fondativi, come sempre, assomigliano a un’epopea. A Roma, notte fonda, camionette riportano a casa giovanotti stremati, Ingrao, Alicata, Pintor, Reichlin, Maurizio Ferrara, giornalisti «irruenti e sfacciati», secondo Ingrao, «come missionari in Congo», li ricorda Ferrara.
Giornalismo proletario, si diceva. All’edizione di Milano ci sono Renato Mieli e Davide Lajolo, due vite a loro modo fantastiche. Fattorini, segretari, autisti, centralinisti hanno conosciuto il carcere, l’emigrazione, la guerra partigiana. Per i corridoi si aggira “Nuvola”, una misteriosa donnina di origini bulgare dallo sguardo duro e indagatore che pare sia stata l’amante di Dimitrov. Legge, ritaglia e traduce vecchi articoli della Pravda e li consegna complice ai redattori: «Notizie fresche dall’Urss». A Torino comanda un dirigente arcigno e triste, Mario Montagnana, cognato del Migliore, fissato con l’idea di arruolare come redattori operai veri. Un giorno ne trova uno alle Ferriere che è il più operaio di tutti, ma ha poco tempo di compiacersene perché quello, imparato il mestiere, si trasferisce allaGazzetta del popolo. Nel frattempo Calvino è inviato sul set diRiso amaro, in redazione arriva Diego Novelli con chitarra che improvvisa una specie di équipe di cantastorie che gira per la città, ma si processa un giornalista che si è comprato delle scarpe di zebù, segno di inopportuno imborghesimento.
Mentre per il Sud e non per caso anche per il mondo femminile — gioie e dolori, fatiche e speranze — vale appena segnalare lo splendido romanzo di Ermanno Rea,Mistero napoletano (Einaudi, 1995), incentrato sul suicidio di una giovane, bellissima e libera, soprattutto, giornalista dell’Unità, Francesca Spada.
Poi, come tutto, anche questa storia continuò avventurosamente, per quarant’anni e più, senza riconoscere che stava avviandosi alla sua temeraria fine. Con musiche, balli e trenini, per dire, nella «festa d’addio del giornalista comunista», ai margini del congresso di Rimini, nel 1991, dancing “Rio Grande”, Igea Marina. Ma da allora trascinandosi dietro un sentore di tristezza, come solo il vuoto gli dà essenza e colore.
E da Gramsci, passando per Cannavaro che solleva la coppa con le braccia tatuate, l’opuscolo del novantesimo arriva così a un orrido Renzi, ripreso dal basso, a occhio di rana, celebrandone “il trionfo”. Ma nulla al dunque riesce a eguagliare il fascino, tutto gramsciano, di quel titoletto là in basso, quasi invisibile del primo numero. Un dubbio che dice: «Rincuorare o illudere?» — e ognuno gli dia la risposta che può.
l’Unità 7.2.14
Pedofilia, di nuovo la Chiesa viene colta impreparata
di Francesco Benigno
LA PUBBLICAZIONE DEL RAPPORTO DEL COMITATO DELLE NAZIONI UNITE PER IDIRITTI DEL BAMBINO COGLIE ANCORA UNA VOLTA LA CHIESA CATTOLICA IMPREPARATA AD AFFRONTARE LA DELICATA VICENDA degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti su minori, una questione che da tempo agita il mondo ecclesiastico e turba le coscienze dei cittadini, e ancor più quelle dei credenti.
Il rapporto delle Nazioni Unite, definito dalla Cnn senza precedenti, lancia ora vero e proprio atto di accusa alla Chiesa. Composto da 18 membri indipendenti e costituito per sorvegliare l’applicazione della Convenzione sui diritti del bambino, ratificata anche dal Vaticano, il Comitato sostiene in sostanza che la Chiesa ha posto in atto politiche che, pur rispettando formalmente la convenzione, nei fatti la violano. Per questo esso chiede alla Chiesa una completa revisione dell’atteggiamento sulla pedofilia e una revisione del codice di diritto canonico. Così, di nuovo, malgrado i provvedimenti presi nel 2011/12 nei confronti di circa 400 preti, costretti in pratica a lasciare l’abito talare, nonostante l’impegno del nuovo Papa Francesco e la nomina a dicembre 2013 di una Commissione Vaticana sul tema. La Chiesa si ritrova nuovamente spiazzata e, se così si può dire, colta alla sprovvista. Sicché la domanda che ci si può porre è la seguente: come mai la Chiesa, di fronte all’esplodere al suo interno della questione della pedofilia non ha saputo affrontarla?
Una prima spiegazione può essere che sia scattata una solidarietà elementare, una difesa corporativa fin troppo ovvia e naturale, di fronte a quello che è stato vissutocome un attacco mediatico indebito e anche intrusivo. Una seconda spiegazione, invece, potrebbe fare riferimento alla posizione dottrinale della Chiesa, in cui spicca la mancanza di un giudizio di condanna definitivo e viceversa la tendenza ai concedere sempre al peccatore pentito un’altra chance di salvezza. E tuttavia né l’una né l’altra di queste spiegazioni colgono il cuore del problema: il ritardo della Chiesa in questa vicenda non è dovuto a lassismo connivente o a inveterata propensione all’indulgenza ma a quello che potremmo definire un drammatico ritardo culturale. Vediamo: la materia è regolata dal 1962 (sulla base di un testo del 1922) da un documento chiamato Crimen sollicitationis, che stabilisce le procedure da utilizzare per processare un sacerdote che utilizzi la sua carica (e in specie il sacramento della confessione) per avanzare molestie sessuali. Si tratta, si badi, di molestie sessuali (sollicitationis ad turpia) in genere e non specificamente dirette verso minori. Nel titolo terzo del documento, scritto dal cardinale Ottaviani al tempo di Giovanni XXIII, si stabiliscono le circostante aggravanti e tra esse incontriamo gli atti diretti verso minorenni o nei confronti di persone consacrate a Dio, vale a dire membri del clero. Per valutare queste circostanze aggravanti, tuttavia, molti sono gli elementi da prendere in considerazione: tra essi appunto l’aspetto turpe delle avances effettuate, la frequenza e cioè il carattere reiterato e non occasionale degli atti commessi, la malizia, la recidività dopo i primi richiami, etc. Il tutto culmina (nel titolo quarto) nel crimen pessimum, vale a dire nella pratica dell’omosessualità, considerata l’attitudine peggiore, cui sono equiparati i rapporti sessuali con bambini e con animali; in pratica tutti atti ritenuti contro natura.
Il quadro dottrinale entro cui si è a lungo mossa la Chiesa è dunque quello del peccato, con le sue delicate compatibilità, da vagliare con attenzione, e le sue controverse responsabilità da valutare con prudenza. L’adescamento di minori è, in questo quadro, solo parte di una casistica più vasta sulle deviazioni del comportamento dei sacerdoti, alla cui massima gravità sta l’omosessualità, specie se esercitata con altri sacerdoti. Mentre la Chiesa coltivava questi tradizionali principi, tuttavia, nella sensibilità comune avveniva un cambiamento culturale epocale: da una parte l’omosessualità usciva dalla stigmatizzazione sociale che l’aveva contrassegnata e diveniva una pratica ritenuta legittima. Dall’altra, viceversa, il sesso nei confronti di minori e specie di bambini, cessava di essere un peccato e veniva avvertito come un crimine. Qual cosa da reprimere senza se e senza ma, in cui non si danno ragioni contrapposte o circostanze da soppesare: in breve un dramma terribile in cui campeggiano da una parte una vittima, e dall’altra un carnefice. Il clamoroso ritardo della Chiesa su questo terreno non è dovuto perciò principalmente a omertà o tendenza all’indulgenza ma è derivato da un attardarsi su principi respinti dalla sensibilità comune, e cioè dal continuare a considerare un peccato da correggere ciò che l’opinione pubblica nel frattempo aveva preso a considerare un crimine irredimibile.
il Fatto 7.2.14
Scomunica mediatica della Santa Sede contro le accuse Onu
Scandalo pedofilia: il Vaticano schiera giornali (“Avvenire”) e alti prelati per screditare il dossier
di Marco Politi
La prima reazione del Vaticano al rapporto del Comitato Onu per i diritti dell’infanzia è una robusta cortina fumogena. I termini negativi si sprecano. Che è ideologico, inesatto. Che interferisce con la libertà religiosa. Che il rapporto è frutto di pressioni di lobby gay e pro-aborto. Si segnalano le due pagine del giornale dei vescovi Avvenire , dove il testo di Ginevra viene definito “uno scherzo di pessimo gusto... (pieno di) inesattezze, confusioni di piani, ignoranze di dati materiali da lasciare sgomenti”. La tesi è che il documento Onu sia marchiato da “preconcetti”.
POI INTERVENGONO i calibri più grossi. L’avvocato Jeffrey Lena, che negli Stati Uniti ha vinto la causa per dimostrare che i papi non possono essere citati in tribunale come diretti superiori dei preti stupratori, spara a zero: “Il comitato non aveva nessun diritto di pronunciarsi sulla questione degli abusi sessuali da parte di membri del clero cattolico”. Il rappresentante della Santa Sede presso le organizzazioni Onu di Ginevra, mons. Tomasi dichiara che i “preti non sono dipendenti o funzionari vaticani nel mondo ma cittadini del loro Paese”. Dice mons. Tomasi: “Ciò che mi ha sorpreso è l’impressione che fosse già scritto, magari con l’aggiunta di qualche paragrafo dopo l’incontro del comitato con la nostra delegazione”.
Il segretario della Cei, mons. Galantino, denuncia “indebita interferenza su aspetti qualificanti ed eticamente sensibili dell’insegnamento della Chiesa su aborto e famiglia”.
Per non parlare del Giornale, che a caccia di voti della destra cattolica per il ritorno elettorale del berlusconismo si esibisce in titoli truculenti tipo “l’Onu in guerra con il Vaticano” o, ancora più gustoso, “Coprono orrori e tiranni, ci risparmino la predica”. Dove “loro” sono naturalmente quelli delle Nazioni Unite scatenati nel “far apparire la Chiesa come orchi in agguato…”.
IN REALTÀ, dietro il muro di gomma innalzato per reagire al colpo, il Vaticano si sta interrogando seriamente sul modo migliore di affrontare la questione. Il nuovo Segretario di Stato, cardinale Parolin, ha dato una risposta prudente: “Ci sarà una risposta articolata… il fatto che la Santa Sede abbia aderito significa proprio la sua volontà di adempiere a tutte le indicazioni della Convenzione (per i diritti dell’infanzia)”.
Al di là di singoli passaggi del documento il comitato di Ginevra ha posto domande precise al Vaticano. Sono stati rimossi e consegnati alle autorità civili tutti i preti abusatori? Si può dire tranquillamente di no. Perché se le autorità ecclesiastiche non fanno indagini in tutte le diocesi, una massa di delitti e colpevoli rimangono impuniti. Sono stati aperti gli archivi? No. la Santa Sede ha fornito un quadro completo di quanto è successo negli ultimi decenni? No. Il punto cruciale è che il Vaticano deve mostrare di agire con determinazione per fare applicare ovunque le leggi severe, che formalmente ha adottato. Se in Australia nel 2011 il vescovo William Morris è stato espulso dal suo incarico per volontà di papa Ratzinger, poichè aveva osato parlare di sacerdozio femminile, l’opinione pubblica si chiede perché non si sono mai sanzionati vescovi, che hanno coperto con piena consapevolezza preti stupratori seriali.
Il Fatto ha ricordato ieri la storia di don Ruggero Conti, condannato in appello per avere violentato sette ragazzi. La domanda è: come mai dal 2008 a oggi non c’è stato nemmeno il processo ecclesiastico nei suoi confronti? Cosa fa la Santa Sede se un vescovo come mons. Gino Reali, soltanto a qualche chilometro da piazza San Pietro, non compie il suo dovere di fare luce su crimini commessi da un suo sacerdote?
C’È UNA VICENDA che è destinata a ritorcersi prima o poi contro il Vaticano e sulla quale i soliti “indignati” non aprono bocca. Il nunzio Jozef Wesolowski è sotto indagine nella Repubblica Dominicana per avere abusato di minori. Nessuna congiura anticlericale, il papa sa che è colpevole e lo ha destituito e richiamato a Roma. Domanda: la storia di un arcivescovo che ha abusato dei minori più indifesi, ragazzi delle baraccopoli alla periferia di Santo Domingo si chiude qui? Con una immunità diplomatica nel discreto rifugio di qualche appartamento o convento romano. Sarà portato o no di fronte alla giustizia a Santo Domino o in Polonia, sua patria, come è possibile fare anche con i turisti sessuali che vanno in Thailandia? Non ci sono molte alternative: o lo si processa per i suoi delitti oppure lo si sottrae alla giustizia, proteggendolo. Esattamente quello che chiede il comitato Onu.
A Boston il cardinale O’Malley, che ha fatto pulizia nella sua diocesi, assicura che papa Francesco sta lavorando alla creazione della speciale commissione vaticana per “fare luce sugli abusi commessi da sacerdoti, con l’obiettivo di prevenirli”. Papa Francesco è stato eletto da un conclave, da cui mancava un cardinale (lo scozzese O’Brien) espulso da Benedetto XVI per le sue relazioni con quattro seminaristi. Ormai l’opinione pubblica non si può zittire.
il Fatto 7.2.14
Pedofilia, il Vaticano cancelli la prescrizione
di Giovanni Panunzio
Dopo le accuse rivolte alla Chiesa dall’Onu, una risposta immediata a tutela dei minori e delle loro famiglie sarebbe l’abolizione nella legislazione vaticana della prescrizione per il reato di pedofilia, attualmente non punibile oltre i 20 anni, partendo dal compimento della maggiore età della vittima. Generalmente la vittima denuncia la sua dolorosa vicenda quando è già adulto: tale limite gli impedisce sia di avere giustizia, che di chiederla. A ciò va aggiunto il fatto che un vescovo informato del sopruso di un sacerdote su un minore non è tenuto a comunicarlo alla magistratura. Se invece la pedofilia nella Chiesa potesse essere perseguita per tempo anche dalle autorità civili e la prescrizione divenisse illimitata, non solo avremmo deterrenti più persuasivi, ma altre potenziali vittime di abusi sessuali riceverebbero protezione. In termini diversi si chiama prevenzione. La pedofilia è un delitto grave come l’omicidio, se non peggiore, perché provoca pure la morte interiore: è giusto che venga punita fino a quando il carnefice è in vita e identificabile.
La Stampa 7.2.14
Tra i berlusconiani si allarga il fronte di chi appoggerebbe un governo Renzi
Al Cavaliere piace sempre di più lo stile del sindaco-segretario
di Ugo Magri
qui
il Fatto 7.2.14
Il piano del Caimano per vincere con Renzi
Berlusconi confida: Alle europee non mi presento, Ncd sarà con noi
Denis Verdini, il sindaco di Firenze e quegli incontri fissi del lunedì
di Fabrizio d’Esposito
A Palazzo Madama, per un giorno, si ricrea lo schema del centrodestra d’antan: Forza Italia con Ncd, Lega e Udc. Nei suoi ragionamenti, il Caro Condannato è convinto che la nuova federazione sarà battezzata già alle elezioni europee, complice lo sbarramento del 4 per cento. Il colpo grosso sarebbe il ritorno di Alfano: “I sondaggi veri danno il Nuovo Centrodestra a non più del 3,6 per cento. Non vanno da nessuna parte e Angelino sa meglio di ogni altro che io sui sondaggi non bluffo. Alla fine verrà con noi, se vuol portare i suoi a Strasburgo, non ha alternative, e vinceremo con il nostro rassemblement in modo schiacciante, raggiungeremo quota 37, sarà l’antipasto delle politiche. Sarà il nostro grande rilancio e mio personale. Dimostrerò che sono ancora vivo”. Sempre ieri, Fabrizio Cicchitto, tra gli alfieri di Ncd, ha ribadito: “Alle europee andremo da soli”. Questione di tempo e di sondaggi e qualcosa cambierà.
Il nome nel simbolo
Altra smentita, quasi in diretta, arriva da B. all’annuncio di Renato Brunetta al Financial Times: “Berlusconi si candiderà alle europee, se non glielo permettono farà ricorso”. Il Cavaliere, in cuor suo, già è rassegnato: “Questi ricorsi non portano da alcuna parte. Il mio nome non sarà in lista ma nel simbolo della federazione sì. Il mio vero problema sarà l’ultimo mese e mezzo di campagna elettorale. Dal 10 aprile sarò ai domiciliari o ai servizi sociali, come spero. I miei avvocati hanno presentato una lista di onlus al tribunale, spero di farli a Milano, abitando ad Arcore”. Per la precisione si tratta di onlus tutte ampiamente beneficiate dal munifico B.
I caveau ad Arcore e Grazioli
Sulle residenze di B. è in arrivo un’altra sorpresa. Per evitare “intrusioni giudiziarie” Palazzo Grazioli e Arcore diventeranno anche sede degli uffici di due senatori: Niccolò Ghedini, in Lombardia, e Mariarosaria Rossi, a Roma, peraltro nominata ieri capo dello staff della presidenza berlusconiana. Tutti i documenti, on line e cartacei, del Condannato saranno trasferiti in questi uffici. Come fossero caveau di una banca.
“Grasso prende ordini dal Quirinale”
Mentre parla, Berlusconi viene informato degli sviluppi roventi al Senato sulla costituzione di parte civile. Il Condannato quasi si accascia, “per l’e n n esima ferita”, ma non è sorpreso: “Me l’aspettavo, Grasso prende ordini da quello lì, non fa un passo se non lo consulta”. “Quello lì” è Giorgio Napolitano. Dopo mesi di sfoghi in privato, solo qualche giorno fa B. si è lasciato andare in pubblico: “Non lo rieleggerei più”. Per la cronaca, quando il capo dello Stato si insediò per la seconda volta, il Condannato definì il discorso del re come “il più straordinario degli ultimi venti anni”.
“Toti? Non c’era di meglio”
Con Berlusconi ai servizi sociali e non candidato, dal 10 aprile sarà cruciale il ruolo di Giovanni Toti, per ora consigliere politico di B. Ai suoi interlocutori, scettici sulle qualità mostrate sinora dall’ex direttore della galassia Mediaset. il Condannato ha opposto le sue ragioni: “Voi mi dite che è moscio, che non sfonda, che è grasso. Tutto vero, ma dopo il tradimento di Angelino ho bisogno di una persona di fedeltà totale. Giovanni non ha ambizioni e non ha una forza politica alle spalle. Per me è l’ideale e per questo, vedrete, diventerà coordinatore nazionale di Forza Italia. E con tutta onestà vi dico anche che intorno a me non ho visto di meglio. Giovanni non farà il furbo”.
“Se quelli non fanno casini”
Tutto questo ragionamento ha come sfondo implicito una certezza di B.: il 25 maggio non si voterà anche per le politiche: “Le elezioni nazionali non ci saranno a meno che Renzi non combini casini. Ma io di lui mi fido, Matteo e Denis (Verdini, sherpa di B., ndr) si vedono da anni ogni lunedì a Firenze. Adesso la priorità è portare a casa la legge elettorale, su questo sono inflessibile, e fare la riforma del Senato. Vedrete non voteremo per le politiche”.
l’Unità 7.2.14
Governo, Pd fermo al bivio
Renzi: Letta giochi a carte scoperte e decida
Il premier: non galleggio
Cuperlo: o c’è il rilancio o Matteo prenda l’iniziativa
Il segretario: se volete cambiare schema di governo ditelo. Ma è rinvio al 20 febbraio
di Vladimiro Frulletti
La Direzione Pd non scioglie il nodo del governo. Renzi punta sulle riforme (oltre la legge elettorale, il Senato e il Titolo V) e avverte: Letta giochi a carte scoperte, decida se fare un rimpasto. Il premier: non voglio galleggiare, ma il Pd è centrale se lavora unito. Cuperlo e la minoranza chiedono di scegliere: o si rafforza Letta oppure il segretario prenda l’inziativa. E lui nella replica dice: se volete cambiare schema di governo ditelo. Ma se ne riparlerà il 20.
«Se pensa che le cose vadano bene così, vada avanti». Non pare proprio un grande incoraggiamento quello che il segretario del Pd regala a Enrico Letta davanti alla direzione del Pd. Certo per chi vuole vedere un bicchiere mezzo pieno le parole di Renzi non sono neppure una condanna, ma appaiono comunque come la conferma della distanza di sicurezza che il sindaco vuol mantenere dal governo. Sono il segno di quella che Paolo Gentiloni individua come la necessaria «iniziativa autonoma» che il Pd deve mantenere proprio per non caricarsi addosso l’esecutivo. Un distacco che Letta sente e che prova a ridurre salendo sul palco per dare il proprio esplicito sostegno all’azione del Pd renziano su riforme e adesione al Pse. L’analisi è coincidente con quella di Renzi: di fronte abbiamo una grande occasione, irripetibile per cambiare il sistema e per rispondere alla doppia crisi sociale e politica, quindi non va sprecata e anzi va colta nei tempi stretti indicati da Renzi a cominciare dalla legge elettorale.
L’abbraccio però non riesce come fa notare Gianni Cuperlo che invita Letta e Renzi alla chiarezza. O il premier accetta la scommessa, spiega l’ex presidente del Pd, e traccia lui la via per la ripartenza o tocca a Renzi farsi avanti. Piccoli ritocchi, i rimpastini non servono, avverte Cuperlo.
Questo nodo però ieri Renzi non l’ha volutamente sciolto. Tuttavia, nella replica, ha accolto la richiesta della minoranza di dedicare una direzione alla questione governo. Non quella della prossima settimana che dovrà dire sì all’ingresso del Pd nel Pse in vista del congresso dei socialisti europei a Roma di fine mese. Ma quella del 20 febbraio che inizialmente doveva discutere del jobs-act. Ma spiegando che la chiarezza se l’aspetta innanzitutto da Letta. Perché lo schema che lui sta seguendo è quello enunciato da Letta lo scorso aprile: 18 mesi per rispondere alla crisi finanziaria e fare le riforme e poi, chiusa la parentesi delle eccezionali intese più o meno larghe, tornare al voto. «Bene, mancano 8 mesi, vogliamo cambiare schema? Vogliamo giocare un altro schema o confermare l’attuale, o dire che il mio schema non va bene e si va a votare?», è la sfida di Renzi. «Perché il problema di Letta – dice – non è il Pd».
Intanto si tiene alla larga dal pressing sulla staffetta, che parte dei suoi come Gentiloni continuano a ritenere un trappolone, e che lui, nei colloqui coi suoi, continua a ripetere che non gli interessa e che a Palazzo Chigi vuol andarci coi voti. Inevitabile quindi ribadire la propria convinzione sulla necessaria separazione dei ruoli fra partito e governo. Fra lui e Letta.
Lui, come segretario eletto dalle primarie, punta a realizzare il mandato ricevuto dagli elettori Pd: fare le riforme e farle in fretta. Il governo e la sua composizione non lo riguardano. È compito di Letta occuparsene. Quindi se il Presidente del Consiglio ritiene che fin qui le cose sia andate avanti bene, prosegua su questa strada. Se invece ritiene che siano necessarie modifiche «indichi quali, l’affronti nelle sedi istituzionali, e giochiamo a carte scoperte». Renzi cioè non ci sta a fare la parte di chi lancia e fa lanciare frecciate a Letta perché punta a mettere dei suoi fedelissimi al posto degli attuali ministri. E tanto meno gradisce il ruolo che qualcuno gli assegna di guastafeste. Il suo scopo, e lo dice chiaramente, è difendere il Pd. E fa notare che fin qui né lui né il Pd hanno mai posto problemi al governo. Al contrario l’hanno sempre sostenuto. «Non è mai mancato il nostro appoggio in nessun passaggio rilevante» dice. Neppure quando si trattava di dire sì a scelte non gradite e neppure quando è stato chiesto esplicitamente aiuto su ministri che pure avevano problemi (implicito riferimento all’appello di Letta ai deputati per non votare la sfiducia al ministro Cancellieri). Logica conclusione è che l’aiuto del Pd a Letta non arriverà chiedendo un rimpasto. Per Renzi è roba da
Prima Repubblica che chi vince il congresso chieda poi un governo più rassomigliante. «L’aiuto del Pd al governo, sarà spingere sulle riforme» spiega Renzi aggiungendo, non senza un pizzico di veleno, che quella delle riforme era una priorità del governo Letta 18 mesi fa, «ma ne sono passati già 10». Il tempo è oramai scaduto, avverte, facendo notare come tutti, anche quelli che nel Pd non condividono le sue proposte, hanno ritenuto importante l’accelerazione data. Ecco questo è il modo con cui «il Pd sta dando una mano al Paese».
Del resto questo è un obiettivo davvero a portata di mano. L’accordo con gli altri c’è. Anche con Forza Italia. «È un valore che abbia detto sì visto che s’era tirata indietro» dopo l’uscita dal governo, spiega Renzi. «Un bene per il Paese» perché «le regole si fanno assieme» e perché così verranno garantiti i voti indispensabili per modificare la Costituzione e sufficienti a non rendere poi necessario l’eventuale referendum popolare.
Quindi entro il 15 febbraio, annuncia, partirà la riforma del Senato al Senato e quella del Titolo V alla Camera (riforma delle Regioni comprensiva anche dei tagli alle indennità dei consiglieri e dei contributi ai gruppi), mentre dovrebbe andare in porto la legge Delrio sulle province su cui, spera, di far rientrare l’opposizione di Forza Italia. Intanto mercoledì l’Italicum inizia la sua strada. Renzi si rallegra che oltre il 90% dei deputati Pd ha detto sì al vaglio di costituzionalità: «una bella risposta a chi diceva che dovevamo temere il voto segreto ». Intanto però scaccia le cassandre che, sostenute dai sondaggi, prevedono una vittoria di Berlusconi grazie al figliol prodigo Casini. «Se Berlusconi con
Casini e Bossi ci batte il problema ce lo abbiamo noi», non è colpa dell’Italicum.
Anzi quello schema del ‘94 sarebbe un vantaggio per un Pd innovativo. Intanto un dato positivo c’è già ed è la sparizione del centro. Certo poi anche il Pd, annuncia, farà alleanze per una coalizione coi moderati che non vogliono andare a destra e con «una parte della sinistra».
E Grillo? Il potenziale dei 5 Stelle rimane alto e per le europee la loro carica di antipolitica rappresenta un vero pericolo per il Pd. Però, annota Renzi, stando reagendo male (vedi le offese e i tumulti in Parlamento) alla capacità della politica di fare. Non è un caso, dice, che l’escalation grillina sia avvenuta contemporaneamente alla spinta del Pd sulle riforme. Da qui la necessità di andare avanti per dare una risposta ai cittadini anche sui costi della politica e magari liberando qualche parlamentare grillino dalla prigionia del blog.
il Sole 7.2.14
La direzione Pd. «Letta giochi a carte scoperte e decida - Il 20 una riunione ad hoc sul Governo»
Renzi: «Cambiare schema? Si può, ma prima l'Italicum»
Al premier «i 15 giorni» per fare una proposta
Cuperlo evoca il Renzi 1, tutte le strade aperte
di Emilia Patta
ROMA «Vogliamo cambiare schema? Disponibilità totale. Se vogliamo giocare un altro schema, confermare quello attuale o dire che si va alle elezioni, possiamo differire la riflessione sul Jobs act e dedicare la direzione del 20 febbraio a un chiarimento sul tema del governo, presumibilmente dopo aver approvato la legge elettorale». Solo alla fine, nella replica di una direzione del Pd dedicata in gran parte alle riforme costituzionali, Matteo Renzi nomina l'innominabile, ossia lo «schema» di governo. Rispondendo nell'unico modo possibile: che cosa fare del governo e dell'impegno del Pd in questo senso chiesto da più parti si deciderà solo dopo aver fatto chiarezza sull'Italicum, ossia la legge elettorale bipolarista uscita dal "patto del Nazareno" tra Renzi e Silvio Berlusconi. Perché è chiaro che se l'intesa dovesse saltare nel segreto dell'urna a Montecitorio su qualche emendamento significativo, magari quello sull'introduzione delle preferenze, non ci sarà più da discutere né di rimpasto né di Letta bis né di "Renzi I". Renzi lo ha detto e ripetuto in queste settimane: se salta la legge elettorale salta la legislatura, o almeno si apre uno scenario del tutto nuovo e certo più drammatico. Quanto all'accusa rivoltagli più o meno velatamente da minoranza Pd e lettiani di non sostenere se non a parole il governo, Renzi replica con forza rigettando la palla a Enrico Letta: «Sono metodologicamente convinto che la discussione sul governo deve vedere chiarezza da parte del governo. Io ho cercato di respingere un'idea per la quale il problema del governo è la mancanza di serietà del Pd. Questa ricostruzione è inaccettabile. Perché in tutti i passaggi il Pd è stato serio nei rapporti con il governo». Sul destino del governo e alla sua composizione, rimpasto Letta bis o altro, è Letta che deve fare la sua proposta. Nei 15 giorni che mancano da qui alla direzione del 20: «Il giudizio sulla composizione del governo spetta al premier, affronti il problema nelle sedi istituzionali e giochiamo a carte scoperte».
Le prime ore della direzione sono dedicate alle riforme all'ordine del giorno: Titolo V e abolizione del Senato (si vedano gli articoli in pagina). Con un lettura di Renzi, condivisa anche da Letta, dell'escalation di proteste e atti al limite del lecito da parte del M5S: «L'escalation di toni nelle Aule parlamentari deriva dal fatto che il Parlamento ha iniziato a legiferare sulle riforme. Il tono è più alto perché si è iniziato a produrre risultati che tolgono la terra sotto i piedi ai movimenti della protesta». Quanto ai timori di una vittoria del centrodestra dopo il ritorno di Pier Ferdinando Casini con Berlusconi, Renzi è tranchant: «Con l'Italicum vince Berlusconi? Le elezioni si vincono se si prendono i voti, non se si cambia sistema elettorale». A indicare il "re nudo" è quasi a fine dibattito il leader della minoranza Gianni Cuperlo: «Non possiamo fare finta di nulla. O c'è una vera ripartenza del governo, il tema è se Letta vuole fare lo sforzo ed è in grado. O si discuta, sul Renzi I parlano tutti i giornali, e se è così Renzi prenda posizione e troverà piena responsabilità da tutte le componenti del Pd in una collaborazione stretta». Il fantasma del Renzi 1, di cui si discute da giorni sui giornali e in Transatlantico, entra così in diretta streaming. E a farlo entrare ufficialmente nel dibattito è proprio il leader di quella minoranza che finora è stata la più convinta sostenititrice del premier. Renzi probabilmente non se lo aspettava e la sua risposta è appunto quella dei 15 giorni: ne riparliamo il 20, a legge elettorale approvata.
Renzi ha dunque dato i 15 giorni al premier? «In realtà i 15 giorni a Letta li ha dati la minoranza...», si replica nella stretta cerchia del segretario. Che ormai non eslcude più nulla, si fa notare: un cambio totale di schema, e dunque anche un Renzi 1, oppure elezioni anticipate. In realtà Renzi continua a non pensarci ad arrivare a Palazzo Chigi senza passare per le urne. Il timore di replicare il flop di Massimo D'Alema nel '98 è fortissimo. «Io non sono come D'Alema», continua a ripetere a quanti tra i suoi lo spingono a considerare l'ipotesi per uscire da una situazione di stallo politico. E gli stessi renziani doc sono divisi su questo punto: Graziano Delrio e Lorenzo Guerini più a favore, ad esempio, Dario Nardella più contrario. Ora ad ogni modo si attende Letta: entro la prossima settimana il via libera (sempre che arrivi) all'Italicum, poi c'è ancora una settimana di tempo affinché il premier faccia la sua proposta per discuterne nella direzione del 20. Un timing che alcuni ministri democratici vedono per la verità un po' anomalo: Letta che fa la sua proposta per poi rischiare di vedersela bocciare dalla direzione assomiglia un po' troppo ad un commissariamento.
La Stampa 7.2.14
Alla fine la strada del rinvio per prender tempo
di Marcello Sorgi
Dovrà pazientare altri quindici giorni chi si aspettava che dalla direzione Pd sarebbe venuto oggi un chiarimento sulle sorti del governo, sulle voci di staffetta tra Renzi e Letta, e sul ritorno alle elezioni anticipate. Alla fine di un dibattito fiacco, in cui né il segretario né il presidente del Consiglio hanno scoperto le loro carte, Renzi ha scelto la strada del rinvio, con l’accortezza di mettere tra le opzioni da valutare anche quella della fine anticipata di una legislatura nata morta.
Decidere oggi, alla vigilia della ripresa della discussione alla Camera sulla legge elettorale, sarebbe stato prematuro. Al leader del Pd non sfugge il deterioramento del quadro politico avvenuto negli ultimi giorni: la decisione del presidente del Senato di costituirsi parte civile nel processo per la compravendita dei senatori ha molto irritato i parlamentari di Forza Italia, che hanno abbandonato l’aula di Palazzo Madama mentre Grasso cercava di spiegare le ragioni della sua scelta. Anche alla Camera qualche momento di nervosismo c’è stato a proposito del decreto «Svuotacarceri». Il resto lo hanno fatto la spinta di Ncd e Scelta civica, per un più convinto impegno del Pd a sostegno di Letta, e al limite per un cambio alla guida del governo, con Renzi al posto di Letta: argomenti, questi ultimi, che da due giorni corrono di bocca in bocca nel Transatlantico di Montecitorio.
Che la legge elettorale, dopo quel che sta accadendo in questi giorni, possa subire uno slittamento, è il minimo. Ma Renzi aspetterà per valutare se si tratti di ritardi e manovre passeggere, o di un blocco vero e proprio. In quest’ultimo caso diventerebbe più concreta, di fronte a una paralisi del Parlamento, l’ipotesi dello scioglimento. O, in extremis, di un governo Renzi, che d’improvviso si troverebbe catapultato dalla guida del partito a quella dell’esecutivo.
Ma di questi argomenti ieri in direzione non s’è quasi parlato. Il rinvio apre una fase di osservazione, per decidere, appunto, il da farsi.
La Stampa 7.2.14
La tregua può fare il gioco della destra
di Elisabetta Gualmini
È tornato, a quanto pare per rimanere, almeno un anno, il governo di servizio. Ieri alla direzione del Pd, Matteo Renzi ha ricondotto il Letta-Alfano alla sua natura e alla sua misura. Un governo anomalo, speciale, frutto della paralisi successiva alle elezioni del 2013, di cui il Pd è diventato l’azionista di gran lunga maggiore, di cui continua ad essere il sostenitore più leale, ma che non può riconoscere come il «suo» governo. In questo quadro, al presidente del Consiglio spetta la gestione del personale (con eventuale rimpasto) e l’ordinaria amministrazione. Al Pd il compito di dettare, passo dopo passo, un’agenda sufficientemente ambiziosa. Enrico Letta, fa buon viso a un gioco che al tempo stesso gli concede il tempo richiesto e lo ridimensiona. Parla del partito-comunità, di un gioco di squadra, implicitamente riconoscendo a Renzi la fascia del capitano.
Lo scambio è chiaro. Innanzitutto il Pd confida di incassare la riforma del sistema elettorale, scongiura il baratro proporzionalista predisposto dai giudici della Corte Costituzionale, ristabilisce le condizioni minime per un ritorno al voto (in qualsiasi momento) secondo una logica bipolare.
Aquel punto, la prospettiva della riforma costituzionale, inizialmente salutata con sollievo dagli altri partner del governo Letta, Alfano in primis, come una assicurazione sulla vita, diventerà un ulteriore impegno vincolante, prendere o lasciare. La condizione senza la quale si torna al voto. Ma l’impegno non è leggero. La riforma della riforma del Titolo V, con l’abolizione delle competenze concorrenti Stato-Regioni, farà forse arrabbiare qualche governatore ma non dovrebbe trovare resistenze insormontabili nei gruppi parlamentari. Lo stesso vale per il taglio delle indennità dei consiglieri regionali.
Ma smontare il bicameralismo è tutt’altra impresa. Si tratta del cambiamento di gran lunga più ambizioso e incisivo tra quelli variamente ipotizzati nel più che trentennale dibattito intorno alle riforme istituzionali. Fino ad ora solo pochi isolati visionari avevano proposto di trasformare così radicalmente il Senato. Tutte le proposte avanzate dai maggiori partiti e dalle varie commissioni di esperti si sono sempre fermate un passo prima, nel presupposto (o con l’obiettivo) di mantenere in vita due corpi di parlamentari a tempo pieno, con quanto ne consegue. Renzi propone invece una soluzione simil-tedesca, con una seconda camera composta in prevalenza da componenti di diritto per il ruolo svolto nei governi territoriali (presidenti di Regione e sindaci dei Comuni capoluogo), con eliminazione di indennità e poteri circoscritti. La riduzione del numero di parlamentari che ne deriva, da 945 a 630, è una minuzia rispetto all’alleggerimento complessivo del sistema istituzionale.
Intorno a questo schema di gioco Renzi e Letta hanno siglato una tregua, che potrebbe funzionare se il Parlamento non si ingolfa e vota le riforme.
Tutto bene? Probabilmente bene se le cose andranno così per il paese. Non necessariamente per il Pd e per il centrosinistra, che rischiano per l’ennesima volta di aggiustare la situazione preparando la strada a una alternanza vantaggiosa per i loro avversari, come è andata fino ad oggi. Due fantasmi si aggiravano per la direzione Pd, tutti e due per ora verbalmente irrisi, ma pronti a materializzarsi come in un incubo.
Renzi e Letta si raccontano all’unisono che il pacchetto all inclusive di riforme sulle regole e una voce più autorevole in Europa possano ridimensionare l’onda anomala della protesta che un anno fa ha travolto destra e sinistra. Ma non bastano nuove regole e un Parlamento più rapido per proiettarci nel migliore dei mondi possibili. Pezzi interi della classe media, con figli super-istruiti (ma senza prospettive), si sono arruolati con entusiasmo nell’esercito di Grillo, per colpire i partiti che negli ultimi 20 anni hanno ascoltato se stessi invece dei cittadini, preoccupandosi moltissimo della loro autoconservazione e pochissimo del paese. Questi elettori non torneranno così facilmente a votare per quegli stessi partiti, nonostante il cambio di facce e di ritmo. Così come non si può affatto escludere che dopo un anno di purgatorio, la ritrovata coalizione Fi-Lega-Udc e altre sigle eventuali non ritrovi il feeling con la larga quota dormiente di elettori moderati che hanno fatto vincere il centrodestra nel 1994, nel 2001 e nel 2008.
Corriere 7.2.14
I duelli senza fine flagello a sinistra
di Pierluigi Battista
Deve essere una maledizione. L’istinto a reiterare sempre lo stesso schema. L’ossessione del dualismo. Ora è Renzi contro Letta e il giorno dopo è Letta contro Renzi. Basta ricordare i tormentoni del passato per accorgersi che qualcosa del genere ha dominato perennemente l’immaginazione della sinistra. Talvolta in una spirale autodistruttiva. Anzi, quasi sempre.
Nel Pci erano ufficialmente proibite le correnti. E la guerra interna tra le diverse «anime» (si doveva dir così, per evitare la parolaccia «corrente», contraria allo spirito e alle liturgie del centralismo democratico) si incarnavano in personalità contrapposte che, specialmente dalle tribune congressuali in cui si apprezza la bravura oratoria dei leader, dividevano emotivamente il partito: Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, per esempio, con le schiere degli «ingraiani» e degli «amendoliani». Ma poi c’era il segretario a «fare sintesi» e il dualismo si smussava, non produceva spaccature, non si ossificava in uno scontro permanente. Nella Dc invece, le correnti erano talmente forti da imprigionare i conflitti tra i «cavalli di razza». Poi, con la Seconda Repubblica e la crisi verticale dei vecchi partiti, il dualismo sembra diventare lo scoglio inamovibile su cui si infrangono progetti, speranze, buoni propositi.
Il dualismo tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema è diventato addirittura un genere letterario: su di esso sono state scritte tonnellate di articoli. Due caratteri, due personalità. Due modi di vedere contrapposti, due immagini. Niente di male, in linea assoluta. Ma quando la ferita non si rimargina mai, si rischia l’infezione. E la cronicizzazione. Lo scontro politico, culturale e caratteriale tra Veltroni e D’Alema ha poi dominato gli anni della sinistra al governo e della sinistra all’opposizione. Sembrava un duello interminabile, anche se poi gran parte dell’opinione pubblica di sinistra è diventata insofferente a un dualismo così ossessivo. Perché intanto altrui duelli, altri dualismi hanno calcato la scena dell’autolesionismo di sinistra nel corso di questi venti anni. Per esempio il dualismo tra uno dei protagonisti del duello storico, Massimo D’Alema, e Romano Prodi. Nel ’96 il dualismo sembrava essere disciplinato e canalizzato in questo modo: a Prodi il governo, a D’Alema la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Niente, la ragionevole separazione delle carriere non funzionò. Fallita la Bicamerale, il dualismo si riaccese fino ad arrivare nel ’98 al famoso ribaltone che portò D’Alema a Palazzo Chigi estromettendone Prodi, a sua volta in partenza per la Commissione Europea. Fu un trauma, uno strappo. E si sa poi come andò a finire: con la sconfitta storica della sinistra nel 2001.
Ma la lezione non è stata definitiva. Si decise di far confluire in un unico partito i Ds e la Margherita proprio per disinnescare il dualismo tra le due anime del centrosinistra. Ma con la nascita ufficiale del Pd, nel 2007, un inevitabile dualismo si ripropose, stavolta tra il leader del neonato Partito democratico Walter Veltroni e Romano Prodi, logorato al governo da una coalizione rissosa e senza requie. Anche lì, il risultato non fu brillante. E certamente non fu brillante il risultato conseguito da Pierluigi Bersani nelle elezioni del 2013 dopo essersi sfiancato (ormai «spompo», a detta del sindaco di Firenze) in un duello feroce con Matteo Renzi per le primarie. Oggi di nuovo una tensione palpabile quotidiana tra Renzi, che ha stravinto le primarie per la segreteria del Pd, ed Enrico Letta, che è diventato capo del governo occupando la carica di vicesegretario di quello stesso partito. Una ossessione. Una questione di istinto? L’istinto a farsi del male.
La Stampa 7.2.14
La melina post-democristiana
La direzione surreale dove vince solo l’eterna melina stile Dc
I duellanti si passano la palla, e non decidono
di Federico Geremicca
A chi è un po’ avanti con gli anni, per qualche momento è sembrato di assistere (in streaming) ad una riunione della Direzione della fu Dc: giri di parole spesso incomprensibili, avvertimenti sottotraccia, minacce (politiche) più o meno velate.
E soprattutto una sorta di surreale parlar d’altro. Strano, certo. Ma non stranissimo, visto che a incrociare le lame come accade ormai da un paio di mesi erano due giovani ex o post-dc: e cioè Matteo Renzi ed Enrico Letta.
Oggetto del prudente contendere (qualche stoccata è stata tirata giusto nel finale) il rapporto tra il Pd e il governo e dunque la sorte di quest’ultimo. Detto così, non significa niente; ma in realtà, si tratta della questione dalla quale dipendono i possibili sviluppi di cui si scrive da settimane: la durata dell’esecutivo, il rischio di elezioni, l’ipotesi di una “staffetta” tra Letta e Renzi, il destino del processo riformatore (a cominciare dalla legge elettorale).
Tanto Renzi quanto Letta hanno deciso di affrontare la questione alla maniera dei loro antichi “maestri politici”: cioè girando intorno al problema, sperando che fosse l’avversario a scoprire le carte. “Dica il Pd se questo governo gli sta bene oppure no”, hanno chiesto molti in Direzione, tentando di far uscire Renzi allo scoperto; “Ci dica Letta se ritiene che il governo possa andare avanti così”, ha replicato Renzi, che ha irrigidito i toni solo nella replica finale: «Io sto allo schema dell’aprile 2013: si diceva 18 mesi, ne mancano otto. Si vuol cambiare schema? Non ho nessun problema... Se vogliamo giocare con un altro schema o confermare l’attuale o dire che il mio schema non va bene e si va a votare, credo sia opportuno inserire nella Direzione del 20 il tema di cosa pensa il Pd del governo...». Dunque, tutto sospeso per ancora due settimane. E il risultato di questa sospensione non può che essere il perdurare di una situazione di stallo che, a questo punto, rischia di lasciar sviluppare in maniera incontrollata le mille tensioni in campo ed un processo disgregatore che pare inarrestabile. D’altra parte, quando il maggior partito di governo non esercita il ruolo che gli competerebbe e cioè il far da propellente per l’esecutivo non è che ci si possa aspettare (soprattutto in una situazione come quella attuale) che ci pensino altri.... Anzi.
Quando la cortina fumogena creata ieri dai due giovani ex o post dc si sarà dissolta, forse gli stessi protagonisti realizzeranno che lo stallo e la paralisi non fanno bene certo al Paese: ma nemmeno al Pd e al governo, e dunque a loro Letta e Renzi che ne hanno la guida e la responsabilità. Per ora, questa consapevolezza è apparsa più presente in altri da Cuperlo a Bettini che nei due protagonisti. È possibile, naturalmente, che qualcosa cambi: ma per ora non se ne vedono ancora i segni...
In realtà, la surreale Direzione pd di ieri ha avuto il corso che ha avuto anche perchè per una volta sulla questione governo Renzi ha deciso di non fare il Renzi (cioè: avanti tutta e chi non è con me è contro di me) sperando che fosse il presidente del Consiglio a proporre il tema di un esecutivo che certo non solo per sua responsabilità non pare più all’altezza dei compiti inizialmente affidatigli. Peccato che Letta abbia sapientemente evitato di addentrarsi su questo terreno, limitandosi a ripetere che non intende restare a palazzo Chigi a ogni costo e tantomeno “galleggiare”.
Il risultato di una tale dialettica non poteva che essere un rinvio della resa dei conti e il perdurare di uno stallo che rischia di produrre i suoi (negativi) effetti per il Pd -nelle non più lontane e già programmate tornate elettorali: tra dieci giorni la Sardegna, poi le europee e il voto in Abruzzo. Letta lo sa, e Renzi anche. Così come sanno che se il loro paralizzante duello dovesse continuare sarebbe difficile per entrambi evitare di finire sul banco degli imputati per sconfitte elettorali che ancora un mese fa nessuno poteva prevedere...
Repubblica 7.2.14
Dietro al duello tra Enrico e Matteo rispunta l’eterna guerra tra democristiani
Entrambi hanno origini nella Dc e lo stesso Renzi ieri ha ammesso la vicinanza con certe dinamiche dello Scudocrociato
di Filippo Ceccarelli
QUANDO Matteo Renzi è un po’ stanco, come ieri sera, sembra molto più democristiano di quello che è - e lo è davvero parecchio, essendo non solo figlio di un democristiano, ma dallo stesso babbo addestrato fin dalla più tenera età, povero innocente, a decifrare anche i pur minimi slittamenti che si andavano registrando attorno a De Mita, dalle parti di Forlani e perfino ai margini della corrente del Golfo.
Quando Enrico Letta, d’altra parte, si sforza di apparire più tranquillo di quanto sia realmente, come ad esempio nel momento in cui si è materializzato al Nazareno, l’innata sua democristianità è tale da conformare l’andatura con cui si è avvicinato al podietto, la postura presidenziale che ha assunto, nonché la sorvegliata disinvoltura con cui quest’altro «nipote d’arte» ha espresso pacatamente le sue considerazioni così sfumate, come ovvio, da rasentare la più naturale reticenza.
Purtroppo le riprese in streaming non hanno consentito al gentile pubblico di osservare in che modo, o meglio con quale simulata e/o dissimulata espressione del volto il segretario del partito ascoltava l’intervento del presidente del Consiglio. Ma certo la situazione, almeno per i più attempati osservatori della politica, era tutto fuorché inedita. C’è tutta un’affollata iconografia e sequenziale: Fanfani che guarda De Gasperi, Moro che guarda Fanfani, Andreotti che guarda chiunque altro e così via, per un quarantennio circa. Il fatto che l’uno volesse soffiare la poltrona all’altro era perfettamente e sistematicamente nella norma dello scudo crociato.
Un dualismo così codificato che qualche settimana fa un illustre funzionario e competente studioso del potere che su Europa si firma con il nom de plume di Montesquieu ha rinverdito lo schema applicandolo con i dovuti e maliziosi aggiornamenti ai post-democristiani Renzi e Letta: là dove al reciproco «sostegno formale» corrisponde un «sostanziale lavorio di segno opposto».
Ecco. Tra una verifichetta e un rimpastino la vecchia e cara ipocrisia è ricomparsa ieri in forma smagliante. I due rivali fanno finta di non esserlo, anzi una persona normale direbbe che vanno d’accordo. Ma la «staffetta» in realtà è già dietro l’angolo; così come per Letta è prevista una poltrona «in Europa» come si ventila con formula anch’essa tanto obliqua e generica quanto ostinata e minatoria. Insomma, meglio che si tolga di mezzo. E il bello, o il brutto, dipende, è che a spingere Renzi verso Palazzo Chigi è al momento chi non gli vuole tanto bene, e lui lo sa benissimo. Come del resto alla fine degli anni 80 lo sapeva benissimo De Mita e infatti resistette per quasi un anno, ma alla fine Forlani e quegli altri del Golfo ce lo spedirono lo stesso per cucinarselo meglio.
Bene. L’intera direzione di ieri è stata dominata dalla più criptica ambiguità di ordine iniziatico. I profani, cioè i cittadini comuni, non hanno afferrato niente di ciò che ieri era in ballo dietro le apparenze. Il tutto aggravato dalla vistosa fuffa che la Seconda Repubblica,con la sua attitudine a macroscopiche e megalomani strategie, ha introdotto nel discorso pubblico.
A un certo punto l’ex ghost-writer di Veltroni, il senatore Tonini, ai tempi assimilato per il suo aspetto a un barbuto frate cappuccino, se n’è uscito con una formula di natura ossimorica, «temperato dissenso», che ha suscitato il sincero ancorché ironico entusiasmo di Renzi, che di quel mondo antico, crudele e sapiente coltiva le raffinatezze fino a punto da ribattezzare i suoi collaboratori «Arnaldo» (come Forlani) e «Mariano» (come Rumor). Così ieri se n’è uscito: «Debbo dire che nel Pd è in corso un processo di democristianizzazione» ha scherzato, ma fino a un certo punto. Tanto da sentirsi in dovere di aggiungere: «Anch’io ho cercato di contenermi, riuscendoci con difficoltà, com’è noto».
Peccato per quel piccolo sbocco di narcisismo racchiuso nella compiaciuta espressione «com’è noto». I capi dc di una volta, che avevano paura di far peccato, non se la sarebbero fatta scappare. Ma il tempo sciagurato del turbo-ego non passa invano. E se solo si pensa che il Pd doveva o rischiava di essere l’erede e magari il continuatore del Partito comunista, beh, evidentemente la storia si diverte un sacco e l’unione di due democristoidi non fa mai somma intera.
Repubblica 7.1.14
Il giorno del giudizio
di Massimo Giannini
NON serviva il genio della lampada, per capire che la difficile «coabitazione» tra Letta e Renzi non avrebbe retto alla prova dei fatti. Non serviva la malizia dei «disfattisti», per immaginare che la pazienza del premier temporeggiatore non sarebbe stata compatibile con l’urgenza del segretario riformatore. E infatti si avvicina il giorno del giudizio. Il 20 febbraio si capirà se il governo ha la forza per andare avanti, o se il Pd ha la forza per «cambiare schema». Cioè per «traslocare» il suo leader da Palazzo della Signoriaa Palazzo Chigi.
Questa, dunque, è ormai la posta in gioco. Più ancora, forse, delle elezioni anticipate, che pure restano sullo sfondo. I «duellan-», per la prima volta riuniti l’uno di fronte all’altro in direzione, hanno provato a troncare le polemiche e a sopire i conflitti. Fino a un certo punto, hanno cercato di parlare d’altro, riducendo il dibattito al Nazareno a una surreale rimpatriata tra dorotei. Renzi e Letta sembravano Andreotti e Forlani, ricongiunti in una riunione di corrente che offende le intelligenze del partito e le sofferenze del Paese. Il primo a ribadire che il Pd è sempre stato leale con il governo, il secondo a ripetere che lui non vuole galleggiare.
Ma alla fine, grazie all’«operazione verità» reclamata dalla minoranza interna dei Cuperlo e dei Fassina, il Pd ha evitato di lasciarsi intorpidire da quello che lo stesso Renzi ha definito onestamente un pericoloso «processo di democristianizzazione». E il segretario, nella sua replica, ha lasciato cadere l’ultimo tabù. Per la prima volta, il partito che porta sulle spalle il peso di questa «strana maggioranza», si dice pronto a discutere se sia giusto continuare a sostenere questo governo, o se sia invece più opportuno staccare la spina, e pensare a un «cambio di fase».
La fase nuova, oggi, è per il Pd diRenzi il «bivio» del quale ha scritto due giorni fa Claudio Tito. O accettare la soluzione della crisi, e cioè puntare alle elezioni anticipate dopo aver incassato il sì del Parlamento sull’Italicum. O cedere alla tentazione del governo che in molti, dentro e fuori dal suo partito, gli agitano davanti, e cioè puntare direttamente a sostituire Letta a Palazzo Chigi. Ieri, in direzione, il segretario è stato attento a non muovere un solo passo, verso l’una o l’altra strada. Ma alla fine, ed è anche questa una prima volta, ha accettato l’idea che il partito ne discuta a viso aperto, e poi decida. E questa è una svolta importante, forse decisiva per i destini della legislatura.
Renzi è il primo a sapere che per lui, più che una strada, quella di Palazzo Chigi è una «scorciatoia». Magari seducente, ma pericolosissima. C’è un passato da riscattare: il fantasma del D’Alema del ’98 turba ancora i sonni del popolo della sinistra, e l’esecutivo occupato con una «manovra di palazzo» accende ancora gli animi del popolo della destra. Ma più ancora di questo, c’è un presente da difendere: la forza vera del sindaco di Firenze, al di là del mantra della rottamazione, sta proprio nel profilo «popolare» costruito in questi anni e consolidato con le primarie. Un profilo che verrebbe irrimediabilmente sporcato da una «macchinazione» di potere, tipica della Prima Repubblica. Per questo Renzi, giustamente, resiste alle pressioni. Ma potrà ancora farlo se alla direzione del 20 (com’è già in parte successo ieri) il suo partito gli chiede di mettersi in gioco in prima persona?
Letta, per contro, dovrebbe essere il primo a sapere che così il suo governo non può reggere, con la pura inerzia del semestre di presidenza della Ue. Il morso della disoccupazione non si allenta con un più 0,3% di Pil nell’ultimo trimestre del 2013. L’urto della recessione non si attenua con l’obolo da 500 milioni degli emiri del Kuwait. Il prestigio dell’esecutivo non si recupera spostando qualche ministro da una poltrona all’altra. Un rimpasto ha senso se è al servizio di un piattaforma programmatica rinnovata e potenziata. Altrimenti resta un’operazione di cosmesi politica, dalla quale il Paese non trae alcun vantaggio. Serve una scossa, e sta al premier imprimerla. Ma finora non è arrivata. E l’intervento alla direzione di ieri, purtroppo, non è stato confortante.
La strada maestra, per uscire da questa palude italiana, sarebbe dunque quella del voto. Subito dopo il via libera alla nuova legge elettorale debitamente corretta, anche con una clausola di salvaguardia sul Senato. Ma qui entrano in gioco altri due attori. Il primo è il più imprevedibile, e si chiama Silvio Berlusconi. L’asse che lo lega a Renzi sull’Italicum si è indebolito, dopo lo strappo deciso da Grasso a Palazzo Madama sul processo per la compravendita di De Gregorio. Se il Cavaliere decide di romperlo del tutto, come ha sempre fatto da vent’anni a questa parte, il Paese precipita in un caos. E del caos, come sempre, si giovano l’antipolitica e i populismi, cioè Grillo e lo stesso Berlusconi. Non certo il Pd.
Il secondo attore è il più affidabile, e si chiama Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica guarda con preoccupazione allo sfarinamento del quadro politico, ma è restio all’idea di un cambio di governo «in corsa» e meno che mai di uno scioglimento anticipato delle Camere. I timori del capo dello Stato sono fondati e comprensibili. Ma anche Napolitano vede quello che vedono tutti gli italiani: senza riforme, l’Italia va a fondo. Fino a quando possiamo permettercelo?
Il Sole 7.2.14
Le prime incertezze
di Stefano Folli
Il primo rinvio dell'era Renzi ha preso corpo ieri pomeriggio sul tardi: due settimane prima di decidere sul governo Letta, convocando allo scopo un'altra direzione del Pd. Per un leader che fa dell'antico "veni, vidi, vici" il suo motto, non è un gran risultato. Ma si può capire. In fondo compiere la scelta giusta sul governo è oggi la cosa più difficile.
Però ci si attendeva che il leader fosse più determinato e imboccasse una strada senza esitazioni. Una delle due: o il pieno sostegno all'esecutivo Letta, compresa l'offerta di nuovi ministri di fiducia della segreteria; ovvero la disponibilità ad assumere in prima persona la guida del governo in qualità di capo del partito di maggioranza relativa.
Non stupisce che Renzi abbia lasciato sullo sfondo quest'ultima ipotesi, suggestiva e del tutto logica in termini politici, ma poco realizzabile nelle condizioni attuali. Non ha torto chi osservava che sono proprio gli avversari interni di Renzi (nel Pd e nella coalizione) i più speranzosi di vederlo approdare a Palazzo Chigi, convinti forse che le sabbie mobili finirebbero per inghiottirlo o almeno per renderlo più duttile. D'altra parte non c'entra nulla la "staffetta" degli anni Ottanta fra Craxi e De Mita, evocata da più parti in questi giorni.
Quella fu una trattativa fra due capi partito che si scambiarono, non senza resistenze, la guida del governo. In questo caso si tratterebbe di un leader appena entrato in carica che chiede di portare la sua forza politica a Palazzo Chigi, sostituendo un esponente del suo stesso partito più debole perché privo proprio di quella forza che Renzi possiede ma esita a usare. Non è la stessa cosa. Semmai il nostro caso ricorda il passaggio in Inghilterra da Blair a Gordon Brown, entrambi laburisti. Oppure fra la Thatcher e John Major, conservatori, qualche anno prima. Ma si sa che a Londra i meccanismi istituzionali sono ben collaudati, anche quando c'è da affermare la supremazia del partito sul premier.
Da noi il problema è che Renzi è tutt'altro che sicuro di avere le spalle coperte dal suo partito, una volta che si fosse caricato la responsabilità del governo. Una responsabilità da cui non deriva gloria, tanto meno gloria elettorale, ma solo una serie infinita di problemi di ardua o quasi impossibile soluzione. In altre parole, l'avventura può trasformarsi in un attimo in una trappola mortale per un giovane ambizioso che non vuole incrinare il proprio consenso e punta solo ed esclusivamente a un'ampia, indiscutibile vittoria elettorale (resa più clamorosa dal generoso premio di maggioranza previsto dalle nuove norme).
E allora meglio prendere tempo. In fondo un rinvio di due settimane è poca cosa, anche se comporta l'ulteriore posticipo della discussione sulla riforma del lavoro (il famoso "Jobs Act"), un testo che invece meriterebbe una rapida discussione. Anche per misurarne la praticabilità. Il punto in ogni caso non è il rinvio, quanto la sensazione che Renzi non sappia esattamente cosa fare. O meglio, sappiamo quello che non vuole: essere coinvolto in un rimpasto minore, che finirebbe per coinvolgerlo nella gestione del governo senza offrirgli delle carte da giocare. Peraltro un eventuale governo Renzi vorrebbe dire negoziare ogni giorno con Alfano, uno scenario che la retorica anti-centrista del segretario tende a escludere. Mentre è fuori della realtà l'ipotesi di un'inclusione di Berlusconi nella maggioranza (il patto della riforma trasferito su un più alto livello).
In sostanza, Letta ha qualche "chanche" di andare avanti e di coprire l'intero 2014, purché sappia trasmettere un messaggio positivo al paese e il senso che non siamo immobili. Il famoso "cambio di passo" non è un'eventualità, bensì un dovere.
Pippo Civati all’uscita della Direzione nazionale del Pd risponde ai cronisti che gli chiedono se “l’Italicum è un autogol per il Pd visti i sondaggi che danno davanti il centrodestra”: “E’ una legge piena di difetti che non so se riusciamo a cambiare, ma se fai un accordo lo devi pure tenere”.
il Fatto 7.2.14
Il renziano Doc
Oscar Farinetti Via col vanto
di Daniela Ranieri
Arieccolo, il bru-bru di Leo Longanesi, quello che entra nel salotto politico solo perché “un giorno a colazione trovò lo slogan per lanciare un’acqua minerale o un tipo extra di pasta all’uovo”.
Farinetti Oscar, figlio di partigiano, fondatore di Eataly (“il più grande centro enogastronomico del mondo”) e fidatissimo di Renzi, è la faccia nuova di un’Italia che mima la risalita. Si vocifera di dicasteri, colpo di coda del nominismo porcellino ai tempi dell’accordo inter eos sulla legge elettorale. Farinetti ci crede tantissimo: espugna città, costruisce Las Vegas stile Leopolda all’odor di alici di Cetara e soldi pubblici; rilascia interviste schiette, da macellaio che ha fatto il miliardo ma ti mette da parte i pezzi migliori; autarchico del futuro, loda l’Italia bio e schernisce l’altra.
Da imprenditore-guru, sa il fatto suo e lo va a dire in Tv pensando sia anche il nostro. Dà consigli a metà tra il passante e il ministro in pectore. Cavaliere per investitura, elogia il tempo che fu, la crostata come una volta, ma nel lavoro è rapido, sbrigativo, diretto. I dipendenti, araldi della flessibilità con cappellino bordò, li paga un po’ poco, ma beato chi ha un presente in questa morta gora.
FARINETTI PIACE a Renzi, forse perché è il contraltare imprenditoriale perfetto della sua filosofia politica, fatta di riforme-Ikea, ruvide, anti-burocratiche e refrattarie alle cose vecchie di pessimo gusto come i servizi di nonna Speranza, la Costituzione, l’ideologia. Al posto della teleologia dell’avvenire, qui c’è la religione del km 0. In luogo dell’integrità, la purezza di una farina macinata a pietra.
Certo quella di Renzi è un’altra sinistra rispetto a quella che subiva una “attrazione fatale per il capitale” (come la chiamò Robecchi sul Fatto ), e allo yacht di Bazoli preferisce la trafilatura a bronzo dei fusilli artigianali. Dalla razza alla terrazza padrona, versione light di un elitismo più sottile, fatto più di comunicazione che di borsa, di spuntini bio in stanze vero-finto-rinascimentali più che di lunghi pranzi democristiani da Fortunato, e si va spicci e dritti verso soluzioni efficaci. Slow food e politica fast. Pochi fronzoli, zero discussioni da vecchia sezione di partito. La sinistra terremotata si è fatta prendere da un rottamatore, e ha trovato un manovratore abile a far della politica non il connubio di teoria e prassi, ma un gioco di incastri e equilibri.
L’avanguardia di Renzi mette l’urgenza di disintegrare le gerarchie fossili del potere, quello dei banchieri compreso. Le banche non sono alleate ma zavorre al desiderio collettivo di ripresa (tra Farinetti e un forcone c’è l’ineffabile fascino di una spremitura a freddo). Ma poi lo stesso Renzi vota sì al favore-Bankitalia da 7 miliardi e mezzo.
Perciò largo alla qualità di ciò che mangiamo, che poi secondo il compagno Feuerbach era ciò che siamo. “Alti cibi”, mica patate da assedio di Stalingrado. Se di capitale si tratta, è quello sano delle sue facce più cool: Apple, Eataly. Stay fresco, stay hungry: il pranzo al sacco, metonimia manco tanto suggerita di una contingenza da guerra, è diventato sexy. Sfamaci tu, Farinetti, con soli 13 euro e un occhio all’eccellenza.
È IL MOMENTO giusto, se pure Obama loda Letta perché in Toscana si mangia bene: la cultura del cibo sposa i milioni e sfonda in politica liberandosi delle “vecchie liturgie”, a cui si preferisce la sapienza pratica del maneggione con le mani in pasta tutto il giorno con contratti e vertenze, prezzi delle merci e malumori dei sindacati. A ogni epoca il suo guru. Venti anni fa ci piaceva pensare che un palazzinaro intrighino esperto di creste sui VHS potesse far uscire il paese dalla palude della Prima Repubblica. Uno è un bravo gestore del suo, e a noi ci pare già il conte di Cavour. E al solito, di un ricco non pensiamo che voglia fregarci: è già ricco di suo! Parlare di conflitto d’interessi ci annoia, è roba Anni 90, e proprio non vediamo conflitto tra amministrare milioni per le politiche agricole e costruire cattedrali “multifunzionali” di arance e tortelli in ogni città.
SILENZIO, parla Farinetti. Siamo tutti in attesa. Ora ci spiega lui come si fa, come si rimette in sesto l’Italia. Buon senso, visionarietà, pragmatismo: il “mercante di utopie” (così la sua biografia) conosce il Paese palmo a palmo, vitigno per vitigno. Ariecco pure il territorio. Macina applausi come grano duro di Altamura. Si lamenta di tasse, propone riforme. È un miliardario che geme e (sempre Longanesi) “l'anima dei ricchi geme a sinistra”.
Altro che petrolio: negli occhi gli brillano riflessi di olio EVO Armonico. Ci sentiamo un po’ in colpa, a disagio, come se ci fossimo presentati a una cena in ambasciata col cappellino di McDonald’s. Siamo superstiti di un mondo che sta scomparendo, che parla ancora di popolo, diritti e lavoro e non sa nemmeno cos’è uno scalogno, un’oliva taggiasca.
l’Unità 7.2.14
Grasso: «Così difendo la dignità del Senato»
Il presidente di Palazzo Madama spiega la decisione riguardante Berlusconi: «Non sono un vigliacco. Da me nessuna persecuzione»
I parlamentari di Fi abbandonano l’aula urlando «vergogna» e chiedendo le dimissioni
di Claudia Fusani
«Non sono un vigliacco, difendo la dignità del Senato perché mai nella storia della Repubblica e di questa istituzione è capitato di dover leggere nell’atto di citazione di un giudice che qui, in quest’aula, in queste stanze, in determinate sedute ci sono stati atti di mercimonio del mandato parlamentare». Il presidente del Senato prende posto nel suo scranno alle 11 e 30 di ieri mattina e avvia una requisitoria, che è anche l’arringa di se stesso, che mai avrebbe immaginato di dover pronunciare. Tra qualche fischio e molti applausi, Piero Grasso, che in oltre trent’anni di magistratura ha vissuto processi e interrogatori ben più duri, spiega con la sua faccia e massima calma le ragioni di una scelta che «non è una condanna e meno che mai una persecuzione» verso una parte politica e il suo leader Silvio Berlusconi bensì l’unico modo «per non castrare la dignità di questa assemblea» violata da chi è accusato di aver agito e aver trattato il mandato parlamentare come il cartellino di un calciatore in vendita.
Non doveva essere in aula ieri mattina il presidente Grasso stretto in un’agenda già fitta di impegni tra convegni e visite di Stato. Ma tutto il centro destra compatto, nel primo rinnovato atto d’amore figlio della nuova legge elettorale che vede insieme Fi, Ncd, centristi e Udc, Lega, Gal e Fdi, ha cominciato la giornata chiedendo le sue dimissioni in risposta alla decisione di costituire il Senato parte civile nel processo di Napoli (inizio martedì 11) sulla compravendita dei senatori. Berlusconi e Lavitola sono accusati di corruzione. «Se lo fanno, faccio saltare il banco» aveva minacciato Berlusconi. Ma il banco, a fine giornata, non salta. Il Cavaliere, certamente furioso, ha fatto sfogare i suoi spiegando però che si tratta dell’ennesima provocazione per causare un fallo di reazione. Trappola in cui non vuole cadere perché ora ha un obiettivo solo e troppo ghiotto: approvare il prima possibile la legge elettorale che tra uno sbarramento e l’altro, un recupero e qualche ritorno, lo vede in testa in molti sondaggi.
Ma ieri mattina il clima era pesante assai. I titoli dei giornali, il sospetto che la decisione fosse «un colpo inferto all’asse Berlusconi-Renzi», le reazioni pesanti già dalla sera prima. L’aula del Senato è convocata alle 10. Grasso non c’è. I senatori azzurri lo attaccano. Casellati e Biancofiore chiedono le dimissioni. Gasparri lo sfida: «Venga in aula ». Il presidente è nel suo studio, ascolta gli interventi, decide di cancellare gli impegni e si presenta in aula. Dai banchi del centrosinistra si alzano applausi. Da quelli del centrodestra qualche fischio e provocazione. Quella di Alessandra Mussolini, ad esempio: «Caro presidente, lei ha una cosa di paglia lunga da qui al Quirinale» alludendo a una decisione suggerita in altre stanze. «La sua è una moralità ad orologeria» urla il pur mite Malan.
Decisamente troppo per il paziente presidente del Senato. E con la calma di uno che deve nuovamente spiegare cose che dovrebbero essere acquisite, inizia il suo intervento. A braccio. Con calma. Un professore che spiega l’A-B-C delle regole istituzionali.
Sono molte le accuse da smontare. La prima, quella di aver deciso in contrasto all’orientamento dell’ufficio di presidenza che mercoledì pomeriggio si era espresso con 10 voti contrari e 8 favorevoli (Pd-Sel-M5S). «Dopo un lungo travaglio - comincia - ho ritenuto di rappresentare il Senato come recita l’articolo 8 del nostro regolamento per difenderne la dignità e l’immagine nel momento in cui qualcuno ritiene che il Senato possa essere considerato una parte offesa, quindi lesa». È vero, l’ufficio di presidenza si era espresso in modo contrario ma «quando ho parlato di dovere morale, da parte mia, non ho inteso offendere in alcun modo nessuno. Né ho voluto mettere in risalto la presunta immoralità di chi non era d’accordo con me».
Cercando di interromperlo, gli urlano che «non riesce a non fare il pm», che «non c’era alcuna necessità» e che «mai nella storia della Repubblica era accaduta una cosa del genere». E allora, non il pm («qui non c’entra nulla il mio passato») ma l’uomo di legge, spiega che «mai prima d’ora era accaduto» perché «mai prima d’ora era capitato che qualcuno accusasse dei senatori di aver cercato di comprare il voto di altri senatori». Non è mai successo, che «ci fossero stati dei senatori, anzi ex senatori per fortuna, che hanno fatto certe cose ». Il Presidente allude a Sergio De Gregorio (ex senatore, reo confesso di aver preso 3 milioni per l’Operazione Libertà, cioè affondare il governo Prodi nel 2008 e già condannato a 20 mesi per corruzione). Ma non riesce a finire la frase, è sommerso dai fischi di chi crede che quell’ex senatore sia Berlusconi. «Fatemi finire, mi riferisco a De Gregorio...» precisa Grasso. I senatori di Fi e Gal sono già fuori dall’aula gridando «Vergogna», «dimettiti».
Essere parte civile nel processo non alcun senso «persecutorio»: «La mia decisione non è antiberlusconismo». Bensì il diritto dello Stato, di cui il Senato fa parte, di seguire «l’iter del processo e capire se e fino a che punto è stata lesa la sua integrità e dignità». Grasso è convinto di aver fatto «come sempre nella mia vita, il mio dovere super partes. Se proprio volete, la decisione si può anche revocare». Servono però l’unanimità. E la maggioranza numerica dell’aula ha voluto, invece, tutelarsi partecipando a quel processo. E nessuno avrebbe dovuto avere dubbi in proposito.
Repubblica 7.2.14
Grasso respinge le accuse di Forza Italia: “Toni molto aggressivi, ma la legge elettorale si farà”
“Ero super partes prima, lo sono ora tutelo la dignità delle istituzioni”
intervista di Liana Milella
ROMA — Lo rifarebbe? «Certo». È pentito? «No». Decisione tecnica o politica? «Istituzionale». Ora che accadrà della riforma elettorale? «Andrà avanti». Pietro Grasso parla mentre la sua auto sfreccia verso l’aeroporto dove l’attende un volo per la Tunisia. Dice: «Come si potrebbe non seguire un processo del genere? È doveroso e necessario». E ancora: «Revocare la costituzione? Io non ne vedo il motivo».
La giornata peggiore dall’inizio del suo mandato?
«Assolutamente no, ce ne sono state altre. Per me le peggiori sono tutte quelle in cui non si riesce a fare nulla di concreto per risolvere i problemi dei cittadini, che sono molti e gravi».
I berlusconiani la rimproverano di non aver mai smesso la toga... È un’offesa?
«Intanto ho cambiato funzione, mi sono dimesso dalla magistratura e so ben distinguere la differenza dei ruoli. Ciò detto, l’aver mantenuto la capacità di essere autonomo, indipendente e super partes non mi costa fatica, è quello che ho fatto per 43 anni da magistrato, e credo che questi valori possano essere utili anche alla politica».
Fazioso, persecutorio, perfino cattivo, grida Forza Italia. L’aveva messo nel conto?
«Avevo previsto una comprensibile reazione, ma non questi toni così aggressivi».
Le rivolgono un’accusa grave per un presidente, di non rappresentare tutti...
«In questa situazione le parti erano divise: ho ascoltato tutti e deciso autonomamente, con grande senso di responsabilità».
Dicono che dietro di lei c’è Napolitano. Gli ha parlato?
«Alla fine del consiglio di presidenza, con una battuta, ho comunicato che “mi sarei ritirato in camera di consiglio per deliberare”, e così ho fatto. Non ho seguito le agenzie ne avuto contatti con alcuno prima della decisione».
«Sono coerente con la mia storia», dice lei. Ma la coerenza da magistrato non cozza con il Grasso ormai politico del Pd che deve farsi carico delle riforme? Non rischia di rompere il feeling Renzi-Berlusconi?
«Come presidente ho anteposto la difesa della dignità e dell’immagine dell’istituzione che rappresento. Sono convinto che questa dovrebbe essere la normalità e che non dovrebbe inficiare in alcun modo la spinta riformatrice condivisa dalle forzepolitiche».
Ne ha parlato con Renzi?
«Ho deciso da solo».
Ha chiamato prima Berlusconi?
«Ho chiamato tutti i capigruppo 48 ore prima del consiglio di presidenza, in modo da dare a tutti la possibilità di valutare laportata politica del tema e di condividere con i propri rappresentanti ogni valutazione in vista della riunione».
Il merito della decisione. È giusto che il presidente del Senato si assuma da solo la responsabilità?
«Fa parte del ruolo, ed è stato unanimemente riconosciuto anche durante l’acceso dibattito inaula. Al contrario di quanto mi viene contestato io non ho voluto umiliare il consiglio di presidenza, piuttosto valorizzarlo, chiedendo a ciascuno le proprie argomentazioni. Non c’è stata una richiesta di parere, e non si è arrivati a nessun voto. Questo era chiaro a tutti. Prima della riunione ero aperto a ogni soluzione. Ho fatto tesoro delle argomentazioni di tutti, poi ho deciso».
Decisione tecnica o politica? C’erano gli estremi per non costituire parte civile il Senato?
«La costituzione di parte civile è una facoltà. Mi sono convinto che essere presenti al processo tramite l’Avvocatura era non solo doveroso, ma necessario. Non ho trascurato che vengono citate nel capo d’imputazione sedute specifiche del Senato nel corso delle quali si sarebbero commessi i fatti e che alcuni senatori sono chiamati come testimoni. Come si potrebbe non seguire un processo del genere? Circa l’effettiva qualità di persona offesa del Senato sarà il tribunale a decidere sull’ammissibilità».
Non c’erano precedenti, dicono i suoi detrattori...
«È vero, ma non c’erano nemmeno precedenti di un processo in cui degli imputati venivano tratti a giudizio per la compravendita di senatori e per aver alterato il rapporto di rappresentatività tra parlamentari ed elettori».
In aula ha detto che la costituzione si può revocare. Lo pensa davvero?
«Se non ci fossimo costituiti parte civile entro l’11 febbraio non avremmo più potuto farlo, ma si può revocare in ogni momento. Io non ne vedo il motivo, per me rimane ferma la necessità di seguire l’iter processuale e l’accertamento di una verità che riguarda il Senato come istituzione».
Dicono che parlando di «dovere morale» lei abbia qualificato come immorali coloro che non erano d’accordo...
«Non ho inteso in alcun modo tacciare di immoralità chi si è espresso contro la costituzione. Si è trattato solo di una mia personale e ulteriore motivazione rispetto a quelle giuridico-politiche prospettate nella riunione».
Per chi era la battuta «senatore, ex per fortuna»?
«Non era una battuta: era una constatazione sull’ex senatore De Gregorio, che ha ammesso di aver venduto il proprio voto per denaro. Si può restare indifferenti ed estranei a tutto questo?».
Prima la decadenza di Berlusconi, ora la costituzione. I suoi detrattori dicono che è più antiberlusconiano ora di quando era magistrato...
«Non ho mai avuto sentimenti persecutori contro nessuno. Ricordo la pioggia di critiche per aver riconosciuto i meriti di alcuni ministri di un suo governo, a riprova che ho sempre affrontato con obiettività i temi che riguardavano lui come chiunque altro. Spero che si ritorni presto alla normalità e alla tranquillità nei rapporti tra i senatori e il loro presidente. Sono sempre stato e resto sopra le parti in questo ruolo istituzionale, sereno per la decisione che ho preso e che avrei preso nei confronti di chiunque».
l’Unità 7.2.14
Camusso a Landini: discutiamo, in Cgil
Il segretario scrive al leader della Fiom per un confronto il 26 o 27 febbraio, «nei luoghi deputati»
Il leader dei metalmeccanici convoca la Consulta giuridica domani a Bologna
di Massimo Franchi
Il giorno dopo il confronto al Nuovo Pignone che ha lasciato le posizioni dei duellanti inalterate, Susanna Camusso prende carta e penna e scrive a Maurizio Landini. Loinvita ad un nuovo confronto - il 26 o il 27 febbraio - «per ricondurre la nostra discussione nei luoghi deputati e non sui quotidiani o sui mass media, modalità che può solo alimentare un conflitto e non trovare soluzioni», come lo stesso Landini ha più volte rimarcato («vengo a sapere dai giornali che hai scritto una lettera per chiedere sanzioni contro di me»).La lettera di Camusso si rifà «alla volontà» di «partecipazione» ad una riunione del Comitato centrale» della Fiom, invito fatto dallo stesso Landini prima del Direttivo del 17 gennaio in cui è scoppiato lo scontro con il famoso «senza un voto dei lavoratori, non mi sento vincolato a rispettare l’accordo sulla rappresentanza ». Camusso, il 13 gennaio, non accolse l’invito per motivi di impegni e da lì le distanze si acuirono. Propose di invertire gli impegni: prima il Direttivo della Cgil (e dunque il voto impegnativo per tutte le categorie), poi il Comitato centrale della Fiom. Ora torna sull’«utilità di dare seguito agli impegni presi» e rilancia l’invito al confronto «a tutta la segreteria della Fiom»,proponendo alla stessa - «se condivisa » - «la convocazione di una riunione del Comitato centrale Fiom Cgil con la segreteria nazionale». Il tutto anticipato dall’impegno a «ulteriori valutazioni sul come trovare continuità positiva alla discussione in atto», nella segreteria confederale convocata per lunedì. Al netto del sindacalese con cui è scritta la missiva, si tratta di una novità molto importante. Una nuova mano tesa a Landini, dunque. Che invece ha già convocato per domani a Bologna la riunione della Consulta giuridica della Fiom con all’ordine del giorno l’esame del Testo unico sulla rappresentanza.
Nel frattempo l’intera Cgil è preoccupata. Sia la dirigenza nazionale che locale. Il livello di scontro a meno di tre mesi dal congresso allarma l’intera confederazione. E disorienta i lavoratori e i 6 milioni di iscritti chiamati in questi giorni nelle assemblee congressuali suoi luoghi di lavoro. Per loro è difficile anche esprimersi. Il paradosso di questa situazione sta nel fatto che i due duellanti hanno sottoscritto la stessa mozione: dunque le contrapposizioni si traducono nello stesso voto. L’unica differenza sta nell’emendamento che i delegati Fiom (ed ex minoranza interna) propongono e che - solo in alcune assemblee - vengono votati. Ma per alzata di mano.
Nel mezzo ci sono tutte le altre categorie. Che sono rimaste sorprese dal fatto che sia stata proprio Susanna Camusso a chiedere al Consiglio nazionale statutario se quel «non si sento vincolato al voto del Direttivo» possa avere conseguenze per Maurizio Landini. Anche in chi ha sempre appoggiato le posizioni del segretario generale, la mossa viene vista come «un autogol» che ha avuto la «conseguenza di rialzare la temperatura dello scontro ».Ora- forse – può cominciare il riavvicinamento.
il Fatto 7.2.14
Fiom, appello di Cofferati: “Cara Camusso, fermati!”
Secondo l’ex segretario il processo a Maurizio Landini può sfasciare la Cgil
di Salvatore Cannavò
Sceglie di vestire i panni del “saggio”, Sergio Cofferati, ex segretario della Cgil e oggi parlamentare europeo del Pd. E davanti allo scontro tra Susanna Camusso e Maurizio Landini, a colloquio con il Fatto, lancia l’appello alla prima: “La Cgil si fermi. Smetta di trattare il dissenso con lo Statuto e ripristini un passaggio fondamentale, la consultazione di coloro che sono coinvolti dall’Accordo sulla rappresentanza, gli iscritti dell’industria”. Cofferati precisa che ha seguito la polemica da lontano e che preferisce non immischiarsi negli affari interni al sindacato che pure ha diretto a lungo. Però giudica “incomprensibile” quanto sta avvenendo e accetta di ricordare la vicenda che lo vide contrapposto a Claudio Sabattini, segretario della Fiom alla metà degli anni ‘90, Cofferati gestiva una linea di concertazione che l’allora segretario della Fiom contestava in nome dell’ “indipendenza” della stessa Fiom. “Parliamo di uno scontro molto più duro di quello attuale in cui si rivendica solo autonomia”. Eppure allora, ricorda Cofferati, il congresso non si spaccò, nessuno chiamò in causa gli organi di garanzia interna, la divergenza rimase nel binario di una dialettica naturale. “E va ricordato” dice l’ex leader Cgil “che in quella segreteria, guidata da Claudio Sabattini c’era proprio Susanna Camusso”. “Il dissenso – insiste Cofferati – si affronta con la politica e non con i regolamenti interni. L’idea di rispondere a delle obiezioni di merito utilizzando lo Statuto mi pare sbagliata”.
DI CAMUSSO preferisce non parlare ma ammette di essere rimasto “molto sorpreso” nel leggere la lettera inviata al Collegio statutario (quella con cui il segretario generale ha chiesto se e come sia possibile sanzionare Landini) definita “irrituale”. Di fatto “un’anomalia” nella vita democratica del sindacato. Da qui l’invito a “fermarsi”, e a dare vita alla consultazione degli iscritti, fuori dal congresso e utilizzando quest’ultimo per una discussione sulla funzione del sindacato. E se non ci si ferma? “Si rischia di produrre una frattura che poi diventerà difficile ricomporre”.
L’appello di Cofferati giunge nel momento in cui il “processo alla Fiom” occupa tutto il sindacato. Ieri Maurizio Landini, intervenendo con Walter Veltroni alla presentazione del libro di Corrado Formigli, ha ribadito di non “volere scissioni” ma che “fino a quando non faranno votare i lavoratori non cambio idea”. Molti dirigenti nazionali, invece, come la segretaria della Funzione pubblica o quelli di Filcams e Fillea, si sono pronunciati a difesa della segreteria generale. Non l’ha fatto Carla Cantone, dello Spi-Cgil, che vale la metà degli iscritti del sindacato, con un silenzio che può essere indicativo della preoccupazione che aleggia nella maggioranza Cgil.
“CHE IN GIRO CI SIA un bel po’ di mal di pancia, è certo” dice al Fatto Gianni Rinaldini, che di Landini è stato il predecessore e che, allo scorso congresso, ha diretto la minoranza de “La Cgil che vogliamo”. Rinaldini ritiene che, con queste regole e con questa vita interna, “la Cgil non sia più ‘scalabile’”. “La dialettica democratica è bloccata, tutto viene gestito e controllato dal gruppo dirigente con metodi autoritari”. Rinaldini ne ha per tutto il Direttivo nazionale che “ha votato un accordo sulla rappresentanza facendo finta che si trattasse di un semplice regolamento”. La Cgil che qui viene descritta è un sindacato gestito completamente dall’alto “che accetta le bugie” e che quindi è avvitato in una “crisi vera e drammatica”. “Se continuiamo così faremo la fine dei partiti, saremo travolti e ci estingueremo. Il sindacato è in crisi in tutta Europa”. La ricetta, spiega il sindacalista, è solo un recupero pieno della democrazia “che non può essere sequestrata dai sindacati ma appartiene a tutti i lavoratori”. Da qui, la proposta di andare oltre lo Statuto dei lavoratori con “una legge che affermi il diritto dei lavoratori a votare sul proprio contratto”.
PER QUANTO riguarda il dibattito interno, Rinaldini propone di “sospendere il congresso, che ormai ha cambiato senso”. E poi chiama in causa direttamente il ruolo di Susanna Camusso. Alla domanda se l’attuale segretario sia adeguata a guidare l’organizzazione risponde con un paragone storico: “Quando Bruno Trentin, nel 1992, firmò l’accordo sul blocco della scala mobile e sulla concertazione, ritenendo di non aver ricevuto il mandato, contemporaneamente diede le dimissioni. Un modo per lasciare libero di decidere il gruppo dirigente. Lo stesso è avvenuto il 10 gennaio. Ma Camusso ha scelto di fare esattamente il contrario: si è rivolta agli organismi statutari per sanzionare il dissenso”.
l’Unità 7.2.14
Cgil, la guerra che non serve
Non far deragliare l’opportunità di un congresso che parli di lavoro e futuro
di Bruno Ugolini
IL RISCHIO È QUELLO CHE IL CONGRESSO DELLA CGIL ANNUNCIATO A INIZIO MAGGIO E CHE GIÀ IMPEGNA CENTINAIA DI LUOGHI DI LAVORO, non tenga fede al bel titolo scelto: «Il lavoro decide il futuro ». Un’occasione storica, nel bel mezzo di una crisi assordante che sta spazzando via, appunto, il futuro di milioni di persone.
La Cgil che, pur assalita da tante parti, ha saputo mantenere una sua forza e identità e potrebbe, come in altre occasioni, far sentire non solo la disperazione di tanti, ma anche proposte innovative capaci di alimentare la sterzata necessaria. Perché c’è un Paese che appare in ginocchio e avrebbe bisogno di ritrovare fiducia. Invece il rischio è quello di alimentare, come già avviene, titoli e titoli di giornali che non parlano dei drammi sociali ma di uno scontro tra Maurizio Landini e Susanna Camusso. Dimenticando che quell’accordo sulla rappresentanza che alimenta il dissidio non è stato sostenuto solo dalla segretaria generale ma anche dalla stragrande maggioranza del comitato direttivo della Cgil e dai segretari delle tante categorie del mondo del lavoro. E par difficile sostenere che si tratti di una massa di burocrati tutti asserviti a miraggi carrieristici, disposti a sacrificare i capisaldi del diritto del lavoro che, secondo i contestatori, sarebbe stato ulteriormente dilaniato, dopo i colpi assestati dal centrodestra.
Non è facile, comunque, entrare nei vari aspetti dell’accordo. Leggiamo però l’autorevole commento di un giuslavorista come Piergiovanni Alleva che elenca, certo, quelli che considera gravi pericoli insiti nell’intesa. Con, però, un’importante premessa: «Nulla toglie al fatto positivo che l’accordo volta pagina rispetto al sistema antidemocratico precedente, dove un sindacato minoritario poteva concludere con questa un contratto gradito alla controparte datoriale, che sarebbe divenuto di fatto l’unico applicato, anche se i lavoratori fossero stati contrari». Però si sarebbe passati, spiega Alleva entrando nei dettagli, dalla sconfitta «dittatura della minoranza» a una nuova «dittatura della maggioranza». Sarebbe, insomma, un accordo lesivo dei diritti anche delle minoranze interne ai sindacati, come la Fiom. Tanto che, con un approccio che ricorda altre eclatanti discussioni di questi giorni, a proposito della riforma elettorale cara al Pd di Renzi, si ipotizza da parte di Alleva, addirittura un intervento della Corte costituzionale. E c’è da dire che tali sottolineature circa le minoranze private di diritti rimbalzano così davvero facilmente dal terreno politico a quello sindacale. Con Renzi in qualche modo appaiato paradossalmente alla Camusso.
Ora la speranza è che, come auspica lo stesso Alleva, tali accuse siano ascoltate e si giunga a un chiarimento. E che l’ascolto sia reciproco. Ovverosia che anche la Fiom tenga conto di eventuali precisazioni. Lo stesso svolgimento dei congressi può essere l’occasione di un ragionamento, senza per questo fare della questione il fulcro dell’assise. Certo forse si poteva giungere (ammesso che non lo si sia fatto) a una consultazione reciproca, prima della fatidica firma dell’intesa. Proprio per evitare quei rischi che dicevo all’inizio e che forse si potevano immaginare. Certo si è di fronte ad un fatto inedito. Non ricordo precedenti simili, con ipotesi di pesanti sanzioni per infrazioni allo Statuto, impartite non dalla Camusso bensì dagli organismi preposti alla gestione dei conflitti interni e capaci di coinvolgere un’intera categoria. I metalmeccanici hanno una storia gloriosa fatta anche di dissensi. Uno fra tutti? Quello sulla scelta dei consigli di fabbrica unitari contrapposti alle vecchie commissioni interne. Interveniva, in quelle occasioni (negli anni Settanta) il Pci e io ricordo bene una tormentata riunione con i dirigenti sindacali ad Ariccia, alla presenza di Giorgio Amendola ed Enrico Berlinguer. Ma la battaglia per convincere la Confederazione fu lunga e ostinata, senza colpi di testa. Soprattutto fu unitaria, con una Fiom che concordava le scelte con Fim e Uilm. Altri tempi, si dirà anche se allora le ragioni delle divisioni avrebbero dovuto essere ben più forti. Fatto sta che ricordo altrettanto bene Bruno Trentin quando arrestò la marcia unitaria dei metalmeccanici, obbedendo alle scelte assunte dalla maggioranza della Confederazione. Magari andando incontro alle rampogne di Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto. Avevano giurato di bruciare i vascelli alle spalle, ma ripresero la rotta. Perché l’importante era non aiutare più grandi separazioni.
l’Unità 7.2.14
Damiano Galletti. Il segretario della Camera del Lavoro di Brescia:
«La soluzione c’è: diamo il voto a tutti gli iscritti»
di Luigina Venturelli
Fino a quando non sarà approvata una compiuta legge sulla rappresentanza sindacale, la materia resterà probabilmente occasione di scontro tra la Fiom e la Cgil. Ma mai finora si era giunti ad un parere formale del Collegio statutario del sindacato sulla possibilità per la confederazione di sanzionare i propri metalmeccanici che non vogliono riconoscere l’accordo del 10 gennaio scorso.
«È grave che il segretario generale abbia interrogato i garanti. Non è così che si risolvono questioni del genere » afferma il segretario della Camera del Lavoro di Brescia, Damiano Galletti. «Non è minacciando sanzioni che si affronta il dissenso interno».
Lo scontro aperto tra Camusso e Landini non ha precedenti nella storia del sindacato. Il nodo della questione è davvero l’accordo sulla rappresentanza firmato con Cisl, Uil e Confindustria, o si tratta di battaglia congressuale?
«Non commettiamo l’errore di personalizzare lo scontro. A confrontarsi non sono Susanna Camusso e Maurizio Landini, ma due posizioni diverse su come il sindacato deve cambiare per affrontare le sfide poste dal futuro. Del resto il segretario della Fiom, come me, ha firmato il documento congressuale presentato dal segretario generale, ma chiede di migliorarlo attraverso alcuni emendamenti, uno dei quali riguarda proprio il ritiro della firma all’accordo sulla rappresentanza».
Qual è, secondo lei, il problema posto da quell’intesa?
«Limita l’autonomia contrattuale delle categorie e, in caso di disaccordo su contratti aziendali, ne comprime il diritto ad iniziative di contrasto. Facciamo un esempio: se, come ipotizzato in questi giorni, l’Electrolux procedesse con il taglio dei salari in cambio del mantenimento dell’occupazione, la Fiom non potrebbe scioperare senza incorrere in sanzioni. In questo modo si modifica profondamente la natura delle libertà sindacali».
L’accordo interconfederale, però, è stato approvato a larga maggioranza dal direttivo della Cgil.
«Ma non è stato votato dai lavoratori, mentre lo Statuto della Cgil afferma in modo chiaro che sugli accordi interconfederali il parere dei lavoratori è vincolante. Altri sindacati hanno deciso in maniera diversa, ma la Cgil dovrebbe essere orgogliosa della propria storia di democrazia e confronto, e non può adeguarsi a questa deriva ».
Come definirebbe questa deriva?
«Non voglio dare definizioni. Mi chiedo semplicemente perchè la Camusso abbia chiesto il parere del Collegio sulla sanzionabilità della Fiom se non aveva alcuna intenzione di procedere in tal senso. Ora l’unica possibilità per ricomporre lo strappo è dichiarare che quell’intesa va sottoposta al voto di tutti i lavoratori o, visto che Cisl e Uil non sono d’accordo, almeno di tutti gli iscritti».
Ci sono i tempi tecnici per farlo prima di arrivare alla fase finale del congresso di maggio?
«La consultazione si può fare benissimo in venti giorni. Il punto non sono i tempi tecnici, ma la volontà politica».
E la rappresentanza sindacale è per definizione questione molto politica.
«Più che restringere, abbiamo bisogno di allargare gli spazi. Più che avere paura del giudizio dei lavoratori, dobbiamo ascoltarli e farli sentire parte attiva del nostro sindacato. Certo la democrazia diretta è un percorso più complicato, non si risolve in poco tempo, ma solo così i lavoratori diventano davvero protagonisti e decidono sulle proprie condizioni di lavoro. Dobbiamo andare verso il mare aperto. È l’unico modo per risolvere anche la crisi di rappresentanza che il sindacato si trova ad affrontare».
Altro tema caldo.
«Il sindacato deve ammettere le proprie difficoltà e da lì partire per affrontarle. Dobbiamo dare risposte ai milioni di precari e di partite Iva che sono privi di tutele sindacali. E dobbiamo essere anche sindacato di territorio, contrastare le discriminazioni e lesioni dei diritti dei cittadini, anche quando non strettamente sindacali».
l’Unità 7.2.14
Danilo Gruppi. Il segretario Cgil di Bologna:
«Fermiamoci, così facciamo un favore a chi ci vuole morti»
di M. Fr.
«Già al Direttivo avvertivo che fossimo ad un passo dalla catastrofe. Ora ne ho la conferma: siamo dentro la catastrofe, è a rischio la tenuta della Cgil. Per questo mi sento di fare a tutti, me compreso, un appello: fermiamoci. Diversamente rischiamo di arrivare al congresso di maggio morti, facendo risparmiare perfino la fatica a chi da tempo punta ad ammazzarci». Danilo Gruppi, «pretoriano» del gruppo dirigente attuale, come segretario della Camera del lavoro di Bologna può essere considerato un azionista forte della Cgil. Gruppi, lei si definisce «un curato di campagna», ma dal suo punto di osservazione privilegiato come vive questo momento tra ricorsi, polemiche, «vincolati» , sanzioni...
«Proprio perché ho un ruolo di responsabilità in un territorio in cui la Cgil ha ancora un riconoscimento straordinario, rimango attonito quando vedo che la nostra dialettica interna ha un evidentissimo tratto di autoreferenzialità che rischia di produrre un corto circuito rispetto alla disperata domanda di miglioramento della condizione delle persone».
Lei però è sempre stato vicino alle posizioni di Susanna Camusso. In questo invito a fermarsi c’è anche un senso di autocritica?
«In questo momento se cerchiamo chi ha più responsabilità, non usciamo dal tunnel in cui siamo entrati. Per questo il mio invito è rivolto a tutti, nessuno escluso. Devo dire che in questa fase, nonostante io consideri il Testo unico sulla rappresentanza il coronamento di un sogno- perché rimette nelle mani dei lavoratori il voto sul contratto, la scelta dei rappresentanti, il tutto dopo 5 anni della barbarie dei contratti separati - non penso che tutti la debbano pensare come me. Il problema è che è venuta meno una condizione preliminare per una discussione sul merito: si tratta del rispetto delle posizioni altrui. Senza rispetto, senza confronto, senza dibattito, anche aspro, senza il sale della democrazia, la Cgil non va da nessuna parte».
Non c’è il rischio che tutta la discussione diventi una battaglia fra Camusso e Landini?
«Questa è l’altro grande errore. Tramutare il congresso in una sorta di primarie camuffate tra Camusso e Landini - che fra l’altro paradossalmente hanno sottoscritto lo stesso documento - è gravissimo. Noi non siamo il Pd. La Cgil non vive di lotta tra leader, di personalizzazione. La nostra è invece una storia collettiva fatta di sintesi fra posizioni diverse. A quello dobbiamo tornare».
Parla però il giorno dopo il confronto Landini- Camusso alla Nuovo Pignone...
«Sì, ma in altre epoche un evento così avrebbe prodotto effetti profondi. Mentre mi pare che, nonostante il confronto, entrambi siano rimasti sulle loro posizioni. Non sono scesi nemmeno i toni».
l’Unità 7.2.14
Fca: premio a Marchionne gli operai a bocca asciutta
Un «tesoretto» di 150 milioni per l’amministratore delegato
di Giuseppe Vespo
Fiat e sindacati del «sì» sono «a un passo dalla rottura». Il muro opposto dalla casa automobilistica all’aumento di novanta euro legato al rinnovo del contratto sta esasperando gli animi tra le sigle buone, quelle che negli ultimi anni hanno avallato le riforme volute da Marchionne per trasformare il Lingotto in un gruppo globale.
Adesso tornano termini come «rottura » e «conflitto», negli ultimi tempi prerogative del vocabolario della sola Fiom-Cgil, e si prepara la mobilitazione. All’ordine del giorno c’è il blocco degli straordinari, ma «siamo pronti anche allo sciopero» dice Rocco Palombella, segretario della Uilm. «Fiat deve assumersi la sua responsabilità o cambia tutto».
Un avvertimento rilanciato anche dalla Fim-Cisl, che ritiene «grave» il comportamento del gruppo e ribadisce la necessità di «mettere in campo iniziative se l’azienda continuerà a mantenere questa posizione». Il punto, sostiene il segretario della Fim-Cisl Ferdinando Uliano, è che «non c’è contratto senza soluzione salariale». Negli ultimi due mesi di trattative «l’azienda non ha fatto passi in avanti» e continua a presentare le stesse giustificazioni: la crisi del settore, gli sforzi finanziari legati alla fusione con Chrysler e i promessi investimenti nelle fabbriche italiane. Scuse che non bastano ai metalmeccanici, che hanno già programmato per i prossimi giorni assemblee in tutti gli stabilimenti «per informare e preparare i lavoratori ».
«REGALINO»
Mentre fatica chi lotta per un aumento di 90 euro da spalmare tra il 2014 e il 2015, c’è chi fa i conti in tasca a Sergio Marchionne. Spunta fuori così quello che l’Espresso chiama il «tesoretto» del manager, che ammonterebbe a 150 milioni di euro. Un gruzzoletto ottenuto sommando le azioni Fiat che il manager già possiede a quelle che potrà riscuotere entro l’anno prossimo come compensi e incentivi vari. Entro il 22 febbraio, se ne facesse richiesta, secondo gli accordi con il Lingotto l’amministratore delegato potrebbe ritirare un regalino in azioni Fiat-Chrysler pari a 16 milioni di euro. «Non c’è nulla di nuovo, nessuno regalino », fanno sapere da Torino. Quelle azioni sono previste «da un piano di incentivazione a lungo termine da sette milioni di stock grant suddivise in tre anni, approvato nell’assemblea degli azionisti del 2012», e sono legate alla permanenza dell’ad di Fiat in azienda nel triennio 2013-2015.
Marchionne oggi potrebbe arrivare a Pomigliano d’Arco dove è previsto un evento aziendale. Ad attenderlo troverebbe i presidi degli operai militanti dello Slai-Cobas, che ieri hanno celebrato il funerale del loro collega cassintegrato che due giorni fa si è tolto la vita. «Era uno dei trecento operai della Fiat confinati da Pomigliano nell’inesistente reparto Logistica - scrive il sindacato di base in una nota - che a fronte delle innumerevoli promesse di decollo industriale dei fantomatici piani dell’ad Fiat si trovano da sei anni collocati in cassa integrazione ».
Di Fiat Chrysler automobile, e della recente decisione di trasferire la sede legale del gruppo in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna, ha parlato anche il segretario del Pd, Matteo Renzi, durante l’apertura della direzione del partito. «Mi colpisce il fatto che ci sia stato poco più di due giorni di dibattito sulla decisione della principale azienda del paese di portare la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. Su questo tema si è discusso meno che del rimpasto, delle riforme o della legge elettorale». Eppure «qualche debito con l’Italia c’è stato, sarebbe interessante discutere del fatto che l’azienda un’identità territoriale dovrebbe averla». «Domandiamoci perché - dice Renzi - Amsterdam sì e Torino no. Evidentemente lì è più semplice svolgere qualche attività».
l’Unità 7.2.14
Prato, tutto come prima
I cinesi tornati nell’ombra
di Silvia Gigli
Prato è un pentolone che ribolle. Dopo il tragico rogo del 1 dicembre scorso, nel quale hanno perso la vita sette operai cinesi, uccisi dalle fiamme e dal fumo mentre dormivano nel capannone nel quale lavoravano, la città laniera, che un tempo fu il fiore all’occhiello del made in Tuscany, non dorme sonni tranquilli. A distanza di due mesi dal rogo, continuano ad arrivare in città giornalisti stranieri per capire, chiedere, vedere con i propri occhi come sia stato possibile che nella Toscana culla dell’artigianato d’ingegno e di lusso, sia stato possibile veder morire sette persone così.
L’illegalità, sulla quale ha messo radici e prosperato un certo tipo di manifattura, quella dei capi low cost realizzati da imprese gestite da cinesi, ha una storia vecchia almeno vent’anni e ormai è un cancro difficile da estirpare. Ma è su questo argomento che si giocherà, per l’ennesima volta, la battaglia elettorale per le amministrative di primavera dove il giovane deputato renziano Matteo Biffoni sfiderà con ogni probabilità il sindaco uscente di centrodestra Roberto Cenni. «Negli ultimi anni il mondo è cambiato e Prato ha fatto fatica a stare al passo - dice sicuro il candidato del Pd -. Si sono sovrapposti fenomeni diversi, dalla crisi economica ai forti flussi migratori, che la città ha spesso solo subìto, invece di provare a rilanciare». Un segnale di cambiamento per far mangiare la polvere a Cenni, imprenditore di fast fashion assurto agli onori della cronaca per il fallimento del suo gruppo, la Sasch, e per aver subito il primo sciopero di operai cinesi nella fabbrica che aveva aperto proprio in Cina, a Shanghai.
Cenni vuole ripresentarsi ma vuol farlo con una lista civica, senza il peso delle bandiere di Forza Italia o Udc (che lo sostengono) e aborrendo l’eventuale appoggio del Nuovo Centrodestra con alcuni esponenti del quale lo dividono vecchie ruggini. L’unico segno di discontinuità della sua giunta rispetto alle precedenti - 63 anni di ininterrotta guida del centrosinistra - è stata la guerra a colpi di blitz alle aziende irregolari cinesi. Centinaia di controlli, che lo stesso Cenni e l’assessore sceriffo Aldo Milone snocciolavano fieri due mesi fa in via Toscana, tra i capannoni del Macrolotto.
I controlli a tappeto però non hanno fatto altro che sollevare solo un po’ di polvere. Spiega la giornalista del Sole 24Ore Silvia Pieraccini, autrice di un saggio sul fenomeno, L’assedio cinese - Il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato: «I controlli sono importanti ma se non c’è un raccordo tra i vari enti preposti a farli, in questo caso almeno dieci, diventano di fatto inutili. Con aziende che nascono e muoiono in un battito di ciglia, si rischia che un’eventuale multa comminata arrivi quando della fabbrica non resta nemmeno il titolare. Non solo. Tutti gli enti che sono deputati ai vari controlli non parlano tra loro, non hanno archivi comuni da scambiarsi». In pratica è come arginare una piena con un dito, se si pensa che le imprese cinesi attualmente registrate a Prato sono quasi 5000: 3700 nella filiera dell’abbigliamento e 1000 tra bar, ristoranti e supermercati. «I controlli e le sanzioni nei magazzini cinesi vanno proseguiti e perfezionati - sostiene dal canto suo Biffoni - ma devono essere affiancati a progetti concreti per sostenere chi vuole emergere e promuovere l’integrazione. Il tavolo di lavoro per Prato deve essere aperto e gestito dalla presidenza del Consiglio. Da sola la comunità di Prato non ce la può fare».
Ma come si è arrivati a questo? La prima ondata di immigrazione cinese a Prato arriva all’inizio degli anni 90. I pionieri iniziano a lavorare come contoterzisti per le imprese tessili gestite dai pratesi che gradiscono questa manodopera veloce e a basso costo. Lavorano tanto e non battono. In testa hanno un chiodo fisso: diventare imprenditori. Alla fine degli anni 90, con la crisi del tessile, fanno il salto. Gli operosi cinesi da contoterzisti si trasformano in imprenditori di moda a basso costo: fanno pronto moda che già avevano iniziato a fare i pratesi. Nell’arco di una manciata di anni, il Macrolotto, sorto negli anni 80 per regolare le aziende tessili pratesi, parla cinese. Adesso vendono i loro capi a prezzi irrisori - 2 euro per una maglietta, 10 per un cappotto - soprattutto nei paesi dell’Europa dell’Est ma anche in Libia, Tunisia, Grecia. La possibilità di mettere il marchio Made in Italy apre molte porte. Utilizzano tessuti acquistati in Cina e manodopera di compatrioti disposti a tutto pur di arrivare in Occidente.
IL MECCANISMO DELL’ILLEGALITÀ
«La cosa funziona così - continua Silvia Pieraccini - gli operai che prestano la loro manodopera in questi capannoni per i primi due anni non percepiscono nessuno stipendio perché il loro titolare anticipa i soldi per farli venire in Italia e quindi li devono riscattare. In cambio del lavoro, anche 14-16 ore al giorno, hanno vitto e alloggio spesso in una piccola stanza ricavata nel capannone nel quale lavorano. Sono anfratti realizzati con il cartongesso o con il truciolato, dove si muore di freddo e dove per scaldarsi e cucinare si usano le bombole di gas perché allacciarsi alla rete del metano vorrebbe dire denunciare che dentro quei laboratori ci si vive. Sono lavoratori fantasma perché i datori di lavoro tengono in custodia i loro passaporti, spesso non parlano una parola d’italiano e sovente nemmeno il mandarino ma solo il dialetto della loro regione. Ai nostri occhi appaiono come schiavi ma la verità è che nella maggior parte dei casi accettano queste condizioni e non si ribellano perché vogliono guadagnare e aprire loro stessi un laboratorio». Quando Pieraccini ha scritto queste era il 2008 e a quanto pare niente è cambiato.
All’indomani del rogo, è stato istituito un tavolo nazionale a Roma con quattro ministri per affrontare la questione Prato. Ma dopo la prima convocazione non se n’è saputo più nulla. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi ha recentemente denunciato la lentezza del governo. Lui, dal canto suo, ha stanziato 10 milioni di euro per assumere 50 nuovi ispettori della Asl 4 (più altri 24 per le Asl limitrofe) che verifichino le condizioni di sicurezza. La previsione è di fare oltre 2900 controlli all’anno. Ma c’è bisogno anche di altro. Innanzitutto di districare quel groviglio di interessi che ha fatto sì che negli anni molti italiani si siano resi complici dell’evasione fiscale delle aziende cinesi affittando loro i capannoni a cifre esose e quasi del tutto a nero. Un fatto è certo. Le 3700 imprese di moda hanno 2 miliardi di euro stimati come valore di produzione all’anno e il 50% di questi incassi è in nero. Non solo. Ammontano a 400 milioni di euro all’anno le tasse non pagate e se si moltiplicano per vent’anni si capisce di cosa si parla. Se a tutto questo si aggiungono i milioni e milioni inviati in Cina attraverso i Money Transfer, il quadro è ancora più chiaro. In un tessuto così denso di denaro e di possibilità di eludere i controlli è stato inevitabile che la criminalità organizzata mettesse radici. E quella della mafia cinese è diventata molto più di un’ombra.
In una città che conta ben 110 etnie e la più grande comunità straniera d’Europa se rapportata alla popolazione (45mila cinesi sui 190mila abitanti di Prato e i 250miladella Provincia), per capire il clima basta scorrere in un qualsiasi giorno della settimana i titoli dei giornali locali. Per esempio, La Nazione on line di martedì4 febbraio: «Trasporta abusivamente900paia di pantaloni: sequestro e maxi multa al Macrolotto»; «Loculi dormitorio, sigilli a ditte cinesi»; «Capi in cachemire fatti con peli di topo». Per gettare un po’ di balsamo sulle ferite della città, basta fare capolino al Museo del Tessuto. Lì da qualche giorno è ospitata la mostra «La camicia bianca secondo me», una retrospettiva dedicata al genio dello stilista-architetto Gianfranco Ferrè. All’uscita dal museo, vagando per le stradine del piccolissimo centro storico, con l’imponente Castello dell’Imperatore e le sue otto torri a dominare la città, si osservano dondolare ai balconi le foto in bianco e nero di coppie di italiani e cinesi che vivono insieme. Sono storie di integrazione, portate alla luce dal progetto Facewall. Un segno piccolo ma tangibile che qualcosa forse si può cambiare. Stando insieme.
Repubblica 7.2.14
“Un dovere difendere quella donna amo Napoli ma adesso ho paura”
Parla il nigeriano del video-shock: tanta gente stava con lo scippatore
intervista di Conchita Sannino
NAPOLI — «Perché ho reagito? L’ho fatto per istinto, perché sono un cristiano. E voglio bene a Napoli, i love them, questi cittadini mi danno da mangiare, da anni». Benjamin è un fantasma, apparentemente. Uno di quelli che attraversano la città da invisibili, addossati contro l’angolo di un vicolo o il sagrato di una chiesa. Nigeriano, rifugiato politico, sposato con una connazionale, trentacinque anni, da cinque in Italia e ormai residente in una piccola comunità di Caserta, Benjamin O. è il giovane africano che è stato l’unico a fermare il rapinatore e a difendere un’anziana vittima nel video choc diffuso ieri da Repubblica.
Custodisce un passato con sofferenza e, forse, ombre. E al sole di mezzogiorno, sotto il monumentale bugnato della basilica del Gesù Nuovo, si guarda intorno sorpreso. Si scusa. «Mi lasci lavorare, poi parliamo», stende il cappellino per l’elemosina. Ti fissa negli occhi per capire come mai proprio lui, perché ora all’improvviso — lo dice tra stupore e disincanto — sarebbe diventato un “hero”, l’eroe. Mescola più lingue: un inglese concitato che è stato il ponte per la salvezza, il francese con cui si esprime con la moglie Cinthia, il napoletano imparato dai ragazzi di strada, l’italiano a tratti.
Benjamin, sapeva che c’era un video col suo intervento a favore della donna scippata? E che il rapinatore è in carcere?
Si avvicina all’Ipad, segue il video. «No, non lo immaginavo. però è giusto. Io non l’ho chiamata la polizia. Io ho solo cercato difermare il bandito perché se il male avviene proprio sotto i miei occhi non posso stare fermo, non posso girarmi».
Sua moglie dice che ha paura, adesso. È così?
«Sì, ho un po’ di paura. È vero. Ma io lo so che Dio sta con me, io credo e sono sicuro che mi protegge. Difatti oggi sono tornato qui, sullo stesso posto. Chi fa del bene è protetto dall’Alto. Io stesso prego per quelli che mi aiutano qui, per quelli che sono cittadini normali, come quella signora scippata, che ogni giorno si fermano, mi danno quello che possono».
Com’è andata quel pomeriggio? Era il primo febbraio.
«Ho sentito e ho visto. La donna urlava “Ci sono i documenti!”, non voleva perdere le sue cose, e intanto quello la buttava giù col motorino. Mi sono piegato a raccogliere la borsa, la signora era molto stordita, diceva “Quello mi poteva uccidere”. Poi dicevo: “questo roba”, voglio dire “ruba”. Ma alcuni mi credevano, altri no. Ho cercato di fermarlo, ma lui voleva andare via, scappare».
Si è chiesto perché era solo a cercare di fermare il rapinatore? Secondo lei, quella folla non ha capito com’erano andati i fatti? Oppure non voleva rischiare?
«Io ho visto questo: alcuni la pensavano come me, erano dispiaciuti per la signora, forse avevano paura. Ma altri, secondo me, erano d’accordo con lui, col ladro. Perché gli dicevano di andare, di stare attento, facevano quella faccia che significa “è andata così, andiamocene tutti a casa”».
Chi le ha detto “grazie”, dopo quell’episodio?
«Alcune persone sono state buone con me, mi hanno fatto i complimenti. La signora che è stata scippata, io non so neanchecome si chiama o dove abiti, ma lo sa?, mi ha dato 20 euro. Non me l’aspettavo».
Lei, ventiquattro ore dopo il clamore di quel video choc, è ancora al suo solito posto di “lavoro”. Questa storia non ha mutato la sua visione di Napoli?
«No, difatti. Voglio bene a questa città. Mi sento vicino a questi cittadini,i love them.I ladri ci sono ovunque. Qui però vedo anchepersone che mi fanno un regalo o mi stanno vicino. Le confesso una cosa. C’è una signora che abita qui nei paraggi che ogni dieci giorni, esattamente ogni dieci giorni, mi regala una bellissima colazione: venti euro. La paga al bar, mi fa fare caffè, cornetto, e poi ricevo il panino, o la pizza».
Benjamin, quando comincia il suo pezzo di vita italiana?
«Quasi sei anni fa. Sono andato via dalla Nigeria perché lì c’è la guerra. Mi hanno ucciso mio padre, hanno ucciso altri miei parenti. Sono un rifugiato politico, anche se non sono riuscito ad ottenere quel certificato. Ora ho un permesso di soggiorno, ma non ho più un lavoro. Non è che io non voglia lavorare, lo dica. Non lo trovo, lo scriva».
Com’è arrivato in Italia? È passato da Lampedusa, e magari per uno dei nostri Cie, i centri di identificazione ed espulsione?
«Ho preso una nave, poi sì, sono passato per Lampedusa. Ho lasciato in Nigeria due figli. Poi sono stato nel Centro di Caltanisetta (poi chiuso, dopo un rogo e una rivolta ndr). Oggi vivo a Caserta».
Che ricordo ha della permanenzanel centro?
«Non voglio ricordare nulla. Perché altrimenti ricordo anche la fuga dalla Nigeria, quello che mi hanno fatto e che ho lasciato».
Tutti i giorni viene da Caserta a Napoli in treno per stare nel centro antico? E racimolare questi spiccioli?
«Every day, sì». Ti saluta con un mezzo sorriso, l’abito di eroe non gli piace, sembra stia più a suo agio in quello di fantasma.
il Fatto 7.2.14
Migrante eroe per un giorno
“Io, dal Cie allo scippo sventato”
di Andrea Postiglione
Se ho paura che possa succedermi qualcosa? Certo, ma sono convinto di aver fatto la cosa giusta. E lo rifarei. So che dio mi proteggerà”. Da qualche giorno Benjamin è l’eroe del centro storico di Napoli. Più precisamente dalla mattina del primo febbraio. Sono passate da poco le dieci del mattino e a via Capitelli, a due passi dalla centralissima piazza del Gesù, c’è il solito via vai di gente. Benjamin è di fronte al bar del vicolo, poggiato sul muretto a chiedere qualche spicciolo ai passanti. Di fronte a lui, a bordo di uno scooter, passa veloce uno scippatore che strappa la borsa a una signora, trascinandola sul selciato. La scena si svolge davanti a molti, ma Ben è l’unico che ha la prontezza e il coraggio di intervenire: blocca il ladro facendolo cadere dal motorino, gli prende la borsa e la riconsegna alla donna.
“NESSUNO si era mosso, tutti erano rimasti a guardare – racconta il giovane nigeriano, diventato famoso suo malgrado dopo che le sue gesta immortalate dalla telecamera di sicurezza di un negozio sono state trasmesse dai tg di tutta Italia – e soprattutto nessuno chiamava la polizia. Mi è sembrata una scena assurda. Anche in Nigeria queste cose succedono, ma lì se c’è un ladro in azione nessuno gira la faccia dall’altra parte”. Del resto, le immagini parlano chiaro: l’unico che tiene fermo lo scippatore e che ne evita la fuga immediata è Benjamin. Gli altri quasi aiutano il centauro a rialzarsi e a guadagnare la fuga. Il che non gli servirà per scamparla: i carabinieri acciufferanno il ladro poco dopo. “È quello che chiunque avrebbe dovuto fare. Io l’ho fatto perché sentivo il dovere di aiutare una persona in difficoltà, così come fanno quelli che mi aiutano dandomi qualche spicciolo per mangiare o donandomi qualche vestito vecchio che non usano più”, continua mentre mostra il maglione infeltrito che un amico napoletano gli ha regalato qualche giorno fa. “Stavolta era qualcun altro ad aver bisogno di aiuto e io non potevo negarglielo”. Scappato dalla guerra in Nigeria, Benjamin vive ormai da cinque anni tra Napoli e Caserta. Nella sua città natale, Port Harcourt, lavorava in un’azienda di logistica. Poi la scelta di scappare, la fuga nel deserto, l’arrivo in Libia e da lì in Italia, destinazione Lampedusa. “Dopo poco mi trasferirono nel Cie di Caltanissetta, dove riuscii a ottenere asilo politico. Ma è durato solo un anno. Così sono venuto a Napoli, dove ho potuto incontrare di nuovo mia moglie, arrivata in Italia qualche anno prima di me in cerca di un lavoro. Alla fine un contratto per avere il permesso di soggiorno sono riuscito a ottenerlo, ma non mi permette di vivere”. Anche perché la moglie Cinthia, professione cuoca, lavora solo pochi mesi all’anno. E così trovare i soldi per pagare il fitto, mangiare e intanto provare a racimolare un gruzzoletto da mandare ai due figli di quattro e sei anni, rimasti in Nigeria dai nonni, diventa quasi impossibile. “So che quel ladro è in galera, e so anche che se dovesse uscire potrei essere in pericolo. Ma la mia vera preoccupazione, oggi, è di trovare un lavoro che permetta a me e alla mia famiglia di vivere dignitosamente”.
Repubblica 7.2.14
La Roma paga il conto ultrà: curve chiuse
Nord e Sud vuote con Samp e Inter dopo i cori razzisti contro i napoletani
di Matteo Pinci
ROMA. Lo aveva sentito tutto lo stadio, non potevano far finta di nulla i tre delegati della Procura federale all’Olimpico. Il solito coro, quello sul Vesuvio che i tifosi del Napoli si sentono strillare contro in (quasi) ogni stadio d'Italia, costa alla Roma la chiusura delle due curve, Sud e Nord, per le prossime due gare interne di campionato. Senza tifosi contro Sampdoria e Inter: il verdetto del giudice sportivo Tosel appariva scontato fin dalla serata di mercoledì, a chi aveva un posto all’Olimpico per la semifinale di andata di Coppa Italia tra giallorossi e azzurri, aggiungendo alla sanzione per l’ultimo episodio di discriminazione territoriale anche la revoca della sospensiva per i cori analoghi di ottobre. Il giudice sportivo, nonostante sospensive e ricorsi accolti dagli organi federali, punisce secondo il metro fissato in estate. Ma la Roma, che non è certo contenta di giocare due gare forse decisive per il titolo senza tifosi , ha già inoltrato preavviso di reclamo e oggi si prepara a depositare il ricorso. Non per contestare la sostanza della decisione, ma la forma della sua applicazione. In fondo, riflettono a Trigoria, perché scontare in campionato una sanzione ricevuta per episodi relativi a una partita di coppa? “Se una squadra rinunciasse alla disputa di un match di coppa Italia verrebbe penalizzata in campionato?”, l’esempio che i legali del club potrebbero sottoporre alla Corte federale per giustificare la propria istanza. Sapendo che il regolamento non fornisce chiarimenti certi in merito.
Eccezioni simili, in fondo, hanno trasformato la tolleranza zero sventolata in estate, nei dispositivi a corrente alternata di oggi. L’inasprimento delle sanzioni annunciato ad agosto per equiparare le discriminazioni territoriali al razzismo, e applicato con l’inizio della stagione, si era dovuto scontrare in fretta con le opposizioni dei grandi club, ostaggio degli ultrà, pronti a chiudere stadi interi pur di continuare a combattere le proprie battaglie. Lo aveva evidenziato Galliani, anche a costo di scivolare su pensieri come «a norma sulla discriminazione territoriale va abolita». Così la prima retromarcia: a ottobre il pugno duro estivo aveva già lasciato il posto al compromesso della 'condizionale': pena sospesa per 12 mesi al primo rilevamento e chiusura dei singoli settori, ma non degli stadi interi (“Se non in casi gravi”), assecondando il suggerimento decisamente ingombrante del presidente Uefa Michel Platini. Il modo più semplice per le istituzioni sportive di salvare la faccia - o almeno inscenare un tentativo in questo senso - senza pestare i piedi alle società, soprattutto le big four, che avrebbero dovuto affrontare non solo la penalizzazione sportiva di giocare senza pubblico e senza tifo, ma ancheil danno economico dei mancati incassi. Quando la sospensiva non è bastata, poi, è subentrato altro: per Roma e Inter la Corte di giustizia federale ha aperto il fronte del supplemento di indagini , un solco in cui ha trovato terreno fertile anche il Milan. Arrivando a ottenere persino l'annullamento delle sanzioni inflitte: i cori che avevano sentito gli uomini della Procura federale sono spariti in appello. Ora la Roma è pronta a sollevare un nuovo elemento di discussione: l’applicabilità della sanzione ricevuta in coppa anche in campionato. Il regolamento è nebuloso e consente appigli. A chiunque voglia trovarne.
Repubblica 7.2.14
L’intervista
Tsipras e la sfida di sinistra alla Ue “La linea Merkel porta solo povertà per batterla cerco alleati in Italia”
Il leader greco di Syriza oggi a Roma per lanciare la sua lista
di Ettore Livini e Matteo Pucciarelli
MILANO — È la stella della sinistra radicale europea. Neanche 40 anni, Alexis Tsipras è riuscito a trasformare la litigiosa e minoritaria area greca neo-post comunista in un unico soggetto (Syriza) diventato — secondo i sondaggi — il primo partito. È all’opposizione del governo di larghe intese, e più passano mesi e più i suoi consensi aumentano. La prossima sfida è però continentale: per questo la sinistra europea (Gue) lo ha candidato alla presidenza della Commissione. Un po’ Davide contro Golia: la cenerentola greca contro la Germania. In Italia un gruppo di intellettuali (tra cui Barbara Spinelli e Luciano Gallino) sta varando una lista a suo sostegno in vista delle europee, con l’appoggio di Sel e Rifondazione. Oggi Tsipras sarà a Roma: debutto al Teatro Valle. Un luogo simbolico. “Com’è triste la prudenza”, recita un gigantesco striscione nello spazio occupato nel centro della Capitale: un motto in cui si ritrova molto.
Der Spiegel l’ha definita “il nemico numero uno dell’Europa”. Si sente davvero una minaccia?
«Certo, sono il rivale dell’Europa dei mercati e delle disuguaglianze sociali. Ma siamo anche l’unica speranza per quella solidale, dei popoli, della democrazia, della dignità».
Tra i “cattivi” ci mette anche i socialdemocratici?
«Le politiche neoliberiste stanno disgregando la Ue. E finora conservatori e riformisti sono andati entrambi in questa direzione».
Angela Merkel e il candidato presidente dei socialdemocratici Martin Schulz sono la stessa cosa?
«A me Schulz sta simpatico. Ma da venti anni la socialdemocrazia si è tagliata fuori dalla sua tradizionale base politica e sociale. Spero nella loro svolta a sinistra. Non puoi sostenere una prospettiva diversa da quella dell’austerità e poi andare a braccetto con la signora Merkel».
Ovvero?
«Quanto fatto dal 2008 ad oggi verrà insegnato nelle facoltà di Economia, ma come esempio da evitare. La crisi è figlia delle asimmetrie dell’unione monetaria. E l’establishment politico europeo sorretto da popolari e socialisti con l’austerità ha peggiorato la situazione. Per cosa, poi? Per salvare le banche che avevano titoli di Stato dei paesi altamente indebitati. Jürgen Habermas ha dettoche la gestione della crisi “non solo non affronta le cause che l’hanno provocata, ma nasconde anche il pericolo di andare verso un’Europa tedesca”. La vedo così».
Cosa si dovrebbe fare allora?
«Una conferenza europea per il debito, sul modello di quella del ‘53 che cancellò gran parte del debito della Germania postbellica, dandole la spinta necessaria per il miracolo economico. La Bce dovrebbe funzionare come una vera banca centrale, simile a quella americana, che presti agli Stati e non solo alle banche. Poi legiferare affinché si separino attività commerciali e quelle di investimento delle banche. È urgente varare unNew Dealeuropeo, un piano di investimenti pubblici per lo sviluppo. Gli attuali vertici della Ue hanno utilizzato la crisi per imporre il modello del capitalismo neoliberista, scatenando un attacco senza precedenti al mondo dellavoro».
Wolfgang Schäuble spiega che la cura greca sta funzionando. Le previsioni del Pil greco per il 2014 sono positive. C’è stato un avanzo primario della spesa.
«A quale prezzo? Una disastro mai visto: disoccupazione al 30 per cento, il 35 per cento della popolazione a ridosso della povertà. Chiusura di ospedali, fusioni di scuole. Ad Atene giri per strada e trovi gente ben vestita che rovista nella spazzatura. Tutto questo è insostenibile. Quanto al Pil, lo dice latroika:l’Ocse rileva invece che la recessione continuerà».
I movimenti populisti crescono ovunque. Da voi i fascisti di Alba Dorata sono il terzo partito, nonostante l’arresto del suo leader e l’omicidio di un vostro militante. Come si ferma la loro avanzata?
«Sono il prodotto politico del liberismo. Alba Dorata è passata dallo 0,3 al 7 per cento proprio negli anni dell’austerità. Fomentano rabbia e disperazione, ma verso i più deboli, gli immigrati. Sono falsi nemici del sistema: non se la prendono con i forti, ma con i debolissimi».
Cosa pensa della lista italiana a suo sostegno?
«Credo vada costruita dal basso, con i movimenti, gli intellettuali, la società civile. Come sta avvenendo. Cittadini che si auto-organizzano insieme alle associazioni e alle altre forze che vogliono partecipare. Mettendo le differenze da parte: fare un passo indietro tutti per farne molti in avanti, insieme».
Conosce Matteo Renzi e Beppe Grillo?
«So che a Renzi sembrano andar bene gli attuali equilibri europei, mentre a Grillo sembra importare poco e basta: risposte che trovo sbagliate e inadeguate. Ma non esiterò a chiedere loro una mano se da primo ministro greco mi metterò a capo di un duro processo di rinegoziazione nella Ue per conto di tutta l’Europa del Sud».
Se diventerà premier nel suo paese, quale sarà il primo provvedimento?
«Rivedere con la Ue non solo il fallimentare memorandum impostoci, ma tutta la politica europea per affrontare la crisi».
È favorevole o no al ritorno della dracma? Un pezzo di Syriza sì.
«L’abbandono della moneta unita non è la via d’uscita. Lavoriamo piuttosto a un nuovo patto sociale continentale per l’occupazione e lo sviluppo».
il Fatto 7.2.14
Una speranza chiamata Alexis Tsipras
di Armando Ferrero
Viste le miserevoli condizioni in cui è precipitato questo disgraziato paese, mi pare che la nascita della lista autonoma della società civile per le elezioni europee, che fa riferimento ad Alexis Tsipras della coalizione di sinistra greca Syriza sia un evento di notevole importanza, e rappresenti uno sprone, non solo a nuovi impegni per rimediare ai disastri in cui è precipitata la sinistra italiana, ma sia anche un buon viatico per dare una speranza alla politica tutta e con essa venga riconosciuta a questo paese la dignità, la credibilità e il rispetto (da tempo immemore a gradimento zero), dal parte del mondo intero. Leggendo i nomi dei promotori della lista, persone di cui ho grandissima stima (in primis Barbara Spinelli) e sconfinata fiducia. Una cosa, però, desta in me qualche (molta) preoccupazione e cioè che questa iniziativa non venga recepita dalla maggioranza dagli italiani, in quanto, a parte il Fatto Quotidiano, nessuno degli altri media, in specie la televisione, ne parla.
Corriere 7.2.14
Non solo Roma
La giungla dorata degli Affitti di Stato
Il Campidoglio ricava 27 milioni dai suoi alloggi ma ne spende 21 per pagare costruttori e immobiliaristi la pigione di 4.800 case
Solo i ministeri sborsano 730 milioni
di Sergio Rizzo
qui
Repubblica 7.2.14
Zero controlli e leggi cancellate così vince il partito dell’evasione
In un libro i regali di Berlusconi a chi non paga le tasse
di Roberto Pietrini
ROMA — Prodi e Visco costruiscono. Berlusconi e Tremonti smontano. Il centrosinistra cerca, con tenacia, di mettere in campo misure contro l’evasione. Il centrodestra, arriva, e passa un colpo di spugna. La storia degli ultimi vent’anni del contrasto all’Italia dei furbi, che non paga le tasse e le carica sui contribuenti onesti, si può riassumere così.
Fino ad oggi è stata una sensazione, un oggetto di contesa politica, ma ora si trasforma in una dettagliata indagine supportata da cifre e inconfutabili basi scientifiche. La tela di Penelope della lotta all’evasione italiana è raccontata in un puntuale libro di Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso, che esce oggi con un titolo eloquente: “Ladri. Gli evasori e i politici che li proteggono”, edito da Bompiani.
Il cuore del volume è un grafico che narra la consistenza dell’evasione fiscale in Italia negli ultimi trent’anni, governo dopo governo. Alle soglie del 2001, quando Berlusconi vinse le elezioni con l’ineffabile slogan “meno tasse per tutti”, l’Italia era appena uscita da un periodo assai difficile, segnato dai giorni duri per l’ingresso nell’euro, ma gli evasori erano in ritirata. I governi Ciampi, Amato e il primo Prodi avevano portato ai minimi termini il rapporto tra pressione fiscale effettiva (quella che tiene conto anche del “nero” e dunque è più alta) e quella apparente (cioè quella ufficiale): la forbice si stringeva e i contribuenti disonesti arretravano.
L’arrivo del Cavaliere invertì disastrosamente la tendenza: il mega condono del 2002-2004, che portò nelle casse dello Stato 26 miliardi, diede la certezza agli italiani che si poteva evadere tranquillamente. Tanto, prima o poi, un condono sarebbe arrivato.
Il filo spezzato fu riannodato, tra il 2006 e il 2008: Prodi e l’instancabile ministro delle Finanze Vincenzo Visco si misero nuovamente al lavoro. Le misure sono agli atti dei documenti parlamentari: tracciabilità dei pagamenti per i professionisti, elenco clienti-fornitori, stretta sui pagamenti in contante, pubblicazione degli elenchi delle dichiarazioni dei redditi. Quattro provvedimenti regolarmente cancellati con l’arrivo di Berlusconi.
Il lavoro di Livadiotti – anticipato dall’Espresso di oggi - calcola il costo in termini di gettito della rinuncia a ciascuna di queste misure. Ricordate la tracciabilità dei pagamenti per i professionisti? Tutti gli incassi di dentisti e avvocati dovevano affluire dentro un conto corrente «dedicato» e oltre i 100 euro niente contante. Fu adottata nel luglio del 2006 e subito l’imposta sul reddito dei lavoratori autonomi aumentò il gettito del 12,1%. Quando Tremonti la cancellò, nel 2008, il calo del gettito fu immediatamente del 2,9%. Stesso copione per l’introduzione dell’elenco clienti fornitori, cioè l’obbligo di trasmettere telematicamente ogni incasso all’Agenzia dell’entrate: l’Iva ebbe un boom, che si sgonfiò quando al timone arrivò il centrodestra.
E’ solo una strategia malsana, che vede nelle tasse il male assoluto, a guidare la mano del berlusconismo? Purtroppo la spiegazione, che emerge dal libro, è più desolante. Sociologi e politologi assicurano che, dopo la caduta delle ideologie, in Italia il partito degli evasori è diventato determinante. Per vincere le elezioni.
il Fatto 7.2.14
Test per docenti, 20 commissioni costrette a rivedere i risultati
Dopo che “il Fatto” ha denunciato il trucco la selezione è stata corretta
di Carlo Di Foggia
Mariastella Gelmini, da settimane oggetto di una valanga di critiche sul web, e non solo. I ricorsi al Tar si moltiplicano, così come le lettere di protesta inviate al ministero dell'Istruzione da decine di candidati infuriati per i giudizi anomali. Una di queste, come raccontato dal Fatto , anticipava addirittura i nomi di chi sarebbe stato abilitato nel settore di Storia antica, mesi prima che i risultati fossero pubblicati, violando il segreto d'ufficio. Il 16 gennaio scorso, il giorno dopo il primo articolo pubblicato dal nostro giornale, diverse commissioni hanno congelato i risultati e riaperto i lavori per evitare ricorsi. Nel giro di una settimana la procedura riguardava già venti commissioni. In molti casi si è provveduto a correggere “gravi errori di giudizio” riguardanti diversi candidati. I giudizi contrari di alcuni commissari sono così diventati di colpo favorevoli.
DAL MIUR spiegano che si tratta di errori nella compilazione dei verbali, e comunque circoscritti a pochi nomi. La procedura preventiva in “autotutela” ha evitato il ricorso ai giudici amministrativi, ma i giudizi contestati sono centinaia, con studiosi di profilo internazionale, con decine di pubblicazioni, bocciati e modesti concorrenti promossi. Negli uffici di viale Trastevere si cerca di riparare come si può alle tante segnalazioni e non si fa mistero di aver ereditato un grana frutto della gestione Gelmini. È il pasticcio dell'Abilitazione scientifica nazionale (Asn). Una procedura di verifica del curriculum e dei risultati scientifici voluta dall'ex ministro per archiviare lo scandalo dei concorsi universitari truccati. Adesso, solo chi riceve l'idoneità nel proprio settore di riferimento può partecipare ai concorsi banditi dagli atenei. Dopo quattro anni di blocco della programmazione, l'Asn è sembrata a molti l'ultima occasione per mettere un piede nel mondo accademico. Un sistema già mastodontico, si è così trovato a fare i conti con quasi 60 mila domande, troppe . In molti casi la mole di lavoro ha reso impossibile il lavoro. Nel settore di Storia contemporanea, visto l'elevato numero di domande i commissari (5 per ogni commissione) hanno potuto dedicare solo 2 minuti e 10 secondi per vagliare i curricula di ognuno dei 425 candidati della seconda fascia (associati) e ben 4 minuti e 55 secondi per quelli di prima fascia (ordinari). Stesso problema nell'area di sociologia. Qui i risultati dell'Asn hanno scatenato una guerra intestina tra le diverse correnti accademiche, con accuse pesanti. La media degli abilitati è la più bassa fra tutti i settori (19,6 di abilitati nella prima fascia, 16,7% nella seconda), e la maggior parte sono concentrati nelle regioni del Nord.
MOLTI ricercatori e docenti accusano i commissari di aver volutamente falcidiato i candidati meridionali. In Sicilia, ad esempio, si registrano solo due candidati, e i ricercatori dell'Università di Palermo hanno deciso di non tenere più corsi in segno di protesta. “Ci si chiede dunque: a che titolo a questo punto insegneremmo (e cosa?) data la nostra qualità non riconosciuta dal punto di vista scientifico?”, hanno scritto in una lettera aperta indirizzata ai vertici dell'ateneo. “In Lingua e letteratura latina - ha scritto sulla rivista Roars , Loriano Zurli, Ordinario di Filologia latina, Università di Perugia - verbali alla mano, quattro quinti della Commissione giudicatrice del settore ha lavorato dal 29 gennaio al 14 settembre (196 giorni). Ammettendo che abbiano lavorato tutti i giorni (festivi e domeniche comprese, senza fare altro), esclusa la sola domenica, ciascuno dei commissari avrebbe letto più di 13 pubblicazioni al giorno”.
Gli aspiranti docenti di lingua e letteratura inglese non sanno invece più a che santo votarsi, la loro commissione è stata chiamata sei volte a nominare un nuovo commissario, visto che i predecessori si sono dimessi. E a tutt'oggi non si conosco i risultati, nonostante i termini, più volte prolungati, siano scaduti il 31 dicembre scorso. All'appello mancano ancora oltre 50 commissioni, e questo nonostante sia già partito l'iter della nuova tornata per il 2013.
il Sole 7.2.14
Boom di avvocati che hanno ottenuto il titolo in Spagna
Elenco speciale a quota 3.759 iscritti. Il 92% è di nazionalità italiana
Tra questi, l'83% ha conseguito il titolo in Spagna e il 4% in Romania
di G. Ne.
MILANO Che sia uno stratagemma per aggirare l'obbligo di esame per poter esercitare la professione forense sono ormai i dati a renderlo evidente. Il Consiglio nazionale forense ha reso noti i risultati di una rilevazione effettuata presso tutti i consigli dell'Ordine. A emergere è il fatto che ben il 92% degli avvocati iscritti nell'elenco degli avvocati stabiliti è di nazionalità italiana. Tra questi, l'83% ha conseguito il titolo in Spagna e il 4% in Romania. In numeri assoluti, su un totale di avvocati stabiliti pari a 3.759, 3.452 sono di nazionalità italiana. Gli Ordini forensi che contano il maggior numero di avvocati stabiliti di nazionalità italiana, iscritti nell'elenco speciale, sono Roma (1.058), Milano (314), Latina (129) e Foggia (126).
I dati, ad avviso del Cnf, fanno emergere chiaramente come la direttiva comunitaria cosiddetta «di stabilimento» è diventata lo strumento utilizzato da parte di tanti aspiranti avvocati italiani per eludere la disciplina interna e, in particolare, per sottrarsi all'esame necessario per poter acquisire la necessaria abilitazione all'esercizio della professione forense in Italia.
La direttiva sul diritto di stabilimento (direttiva 98/5/CE, recepita in Italia col decreto legislativo 2 febbraio 2001 n. 96), in particolare, consente agli avvocati comunitari di svolgere l'attività forense in uno Stato europeo diverso da quello nel quale gli stessi hanno conseguito il titolo professionale. L'obiettivo, condivisibile, è quello di promuovere la libera circolazione degli avvocati europei, che sono chiamati stabiliti nei Paesi ospitanti. In Italia devono iscriversi in un elenco speciale tenuto dagli Ordini forensi.
«Negli ultimi si è assistito alla nascita di molteplici associazioni e/o scuole volte unicamente ad assistere il candidato nell'iter volto a ottenere il titolo abilitativo all'estero» si legge nel dossier del Cnf. Un fenomeno dai risvolti anche pochi chiari, in quello che è diventato un mercato dei titoli professionali europei e delle abilitazioni, che ha già sollevato l'attenzione anche dei media.
«È evidente che queste pratiche falsano la corretta concorrenza tra avvocati nei Paesi Ue, ma soprattutto mettono a rischio i diritti dei cittadini che si affidano a questi professionisti per la loro tutela – spiega Andrea Mascherin, consigliere segretario del Cnf –. I giovani aspiranti avvocati italiani che seguono la corretta procedura dell'esame di abilitazione sono svantaggiati rispetto a coloro che ottengono il riconoscimento di un titolo acquisito all'estero con scorciatoie e furbizie».
A ben vedere, poi, questi ultimi sono esposti ad abusi "commerciali", a pratiche commerciali scorrette, a pubblicità ingannevole, da parte di agenzie, società, associazioni che millantano risultati immediati con messaggi ingannevoli tipo «diventa avvocato senza fare l'esame», magari ad alti costi.
Ultimo rischio, ma certo il più rilevante, è che questa crescita patologica metta in pericolo la qualità professionale delle prestazioni professionali e dunque i diritti dei cittadini. Il Cnf ha provato un'attività di contrasto. Da ultimo, un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee, sul quale l'11 febbraio si terrà l'udienza (cause Torresi C-58/13 e C-59/13).
Repubblica 7.1.14
Il delitto tre anni fa davanti alla spiaggia della Feniglia, all’Argentario. “Incapace di intendere e di volere”
In gita sul pedalò annegò il figlio, assolta “È malata e quel giorno era fuori di sé”
di Franca Selvatici
GROSSETO — È stata assolta per infermità di mente e non andrà neppure in ospedale psichiatrico giudiziario la commercialista romana Laura Pettenello, 47 anni, che il 9 agosto 2011 annegò il suo figlio più piccolo, Federico Cassinis, di 18 mesi, nelle acque della Feniglia, a Porto Ercole. È stata dichiarata incapace di intendere e di volere ma non socialmente pericolosa. Perciò è libera, sebbene fosse accusata di omicidio volontario pluriaggravato. Così ha deciso ieri, al termine del giudizio abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare di Grosseto Valeria Montesarchio. Il padre di Federico, Lorenzo Cassinis, ha patteggiato 8 mesi per concorso colposo in omicidio volontario, per non aver ascoltato le raccomandazioni della pediatra e dello psichiatra che aveva in cura la moglie: più volte avevano consigliato il ricovero della donna e l’allontanamento del bambino dalla madre.
Lorenzo Cassinis e la moglie hanno altri due figli e avevano molto desiderato il terzo. Ma la nascita di Federico aveva sconvolto l’equilibrio della madre. Nell’ottobre 2010 lo psichiatra Athanasios Koukopoulos, che l’aveva in cura, aveva diagnosticato una grave depressione post partum degenerata in depressione psicotica puerperale. E anche la pediatra Elena Porro era molto preoccupata per il rapporto della madre con il bambino. Il 13 marzo 2011 Laura Pettenello, sola incasa nel grande appartamento romano, tentò di affogare Federico nella vasca da bagno. Il bambino fu soccorso quando era ormai in arresto cardiaco e si salvò permiracolo.
Nonostante le raccomandazioni dei medici, la mattina del 9 agosto 2011 Laura Pettenello arrivò in spiaggia, alla Feniglia, sola con Federico, prese un pedalò e si diresse verso il mare aperto, dove, secondo le accuse, affogò il figlio tenendolo sott’acqua per almeno 5 minuti. Poi tornò in spiaggia e lo depose, avvolto in un asciugamano, sul lettino, come se fosse addormentato. Non lanciò l’allarme, non chiese aiuto. Quando arrivò al pronto soccorso il bambino era morto. Laura Pettenello ha sempre detto che era stata una disgrazia. Ma nel suo personal computer, sequestrato dai carabinieri, il perito della procura ha scoperto che per mesi aveva digitato ossessivamente parole chiave come «infanticidio in Italia», «tecniche infanticidio», «annegamento lattante», «abbandono nella vasca da bagno». E a un amico conosciuto in chat aveva confidato: «Vorrei solo che questo bambino sparisse dalla mia vita. Non riesco ad amarlo».
I periti psichiatrici nominati dal gip, Massimo Ammanniti e Romano Fabbrizzi, hanno diagnosticato una gravissima «psicosi affettivo puerperale biologica» che si è tradotta in un vizio totale di mente. Hanno escluso però la pericolosità sociale.
Le madri assassine hanno inItalia destini diversi. Ad Annamaria Franzoni, la madre di Cogne, non è stato diagnosticato alcun vizio di mente. Ad altre madri killer è stata invece riconosciuta l’infermità o la seminfermità mentale, ma anche una pericolosità sociale, per cui sono state mandate in ospedale psichiatrico giudiziario. Unica eccezione, la nobildonna Alessandra Bresciani Torri che nel ’95 uccise a Firenze il figlio Ludovico di 5 anni: in appello fu assolta per vizio totale di mente e lasciata libera perché ritenuta non più pericolosa.
Corriere 7.2.14
Londra, prime inchieste penali contro la mutilazione femminile Fahma, 17 anni, volto della campagna: «Tolleranza zero»
di Fabio Cavalera
Corrispondente Londra — La sfida è cominciata: signor ministro della Scuola e dell’Istruzione ci aiuti a rompere il muro della vergogna e dell’omertà. Tutti lo sanno che nella multietnica settima potenza al mondo ci sono, stime della polizia, delle associazioni mediche e del volontariato, 66 mila donne vittime di mutilazioni genitali e che 20 mila, ogni anno, sono a rischio. Già. Tutti lo sanno però nessuno mai è stato arrestato, mai un processo per quello che dal 1985 secondo la legge britannica è un reato da 14 anni di galera. Una barbarie dimenticata e nascosta.
Ha 17 anni, Fahma Mohamed. Viene dalla Somalia, che ha lasciato quando ne aveva sette, con il papà, la mamma e otto fratelli, per sbarcare nel Regno Unito. È una studentessa delle superiori a Bristol. Il velo le copre i capelli. «Cominciai a sentire parlare delle mutilazioni genitali che ero davvero piccola e ne rimasi terrorizzata». Oggi Fahma rompe il tabù, si lascia fotografare dal Guardian in prima pagina col suo bel volto e il suo sorriso, per diventare la testimonial coraggiosa di una campagna che ha l’obiettivo di liberare le bambine e le adolescenti di famiglie africane, mediorientali e asiatiche, emigrate e residenti in Gran Bretagna, dall’incubo di una violenza feroce sul loro corpo, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità «procedura per la rimozione parziale o totale dei genitali femminili per ragioni non mediche».
Fahma scrive al ministro conservatore, Michael Gove, per dargli la sveglia. Possibile che l’Occidente sviluppato e maturo resti indifferente all’orrore di una discriminazione fisica, culturale e di genere esportata dalle regioni più povere dove ancora per ignoranza sopravvive la tradizione primitiva di consegnare una giovane «immacolata» al futuro sposo imponendole la mutilazione? Possibile che nelle scuole dell’Occidente e della civilissima Gran Bretagna il silenzio circondi un atto così feroce? «Bisogna fare qualcosa, bisogna fare di più» sollecita e implora Fahma. E non è l’unica. Come lei, col velo, nella City Academy di Bristol tante ragazze stanno alzando la voce. Hanno fondato la Defence Female League, la Lega per difesa delle donne, tolleranza zero con chi pratica l’infibulazione. E rendono pubblico ciò che è clandestino. L’omertà si infrange. «Ma le istituzioni devono aiutare».
Nel globo, indicano le Nazioni Unite, sono fra i 100 e i 140 milioni le donne vittime di una atrocità che può portare dolore, ferite, infezioni e anche morte. In sette paesi lo sono quasi tutte le bambine e le adolescenti: il Mali, l’Eritrea, la Repubblica di Gibuti, la Sierra Leone, l’Egitto, la Guinea. E la Somalia (con la spaventosa percentuale del 97,9) di Fahma. All’unanimità l’assemblea generale dell’Onu nel 2012 votò per l’eliminazione della mutilazione genetica. Eppure poco è cambiato. E l’Europa scopre di avere la vergogna in casa .
«No, non credevo proprio che potesse accadere anche qui nel Regno Unito», si è confidata la ragazza somala. I numeri sono impressionanti. Accade che nella «cutting season», la stagione del «taglio», in estate, migliaia di bambine e di giovani donne figlie di emigrati partano per i Paesi d’origine con il pretesto delle vacanze. In realtà sono costrette dalle famiglie perché è il periodo di chiusura delle scuole e hanno quindi il tempo «di recuperare dal trauma» e di eliminare dagli occhi i segni della sofferenza. Ventimila rischiano (ma c’è chi parla di almeno il doppio), ogni estate, il viaggio della mutilazione. E poi ci sono le cliniche clandestine, a Londra, Birmingham, Bristol. Ovunque vi sia una minoranza etnica residente, rivela al Guardian Sarah McCulloch di una organizzazione non governativa, «è un problema gravissimo e nessuno parla, nessuno informa, nessuno si muove». Poche decine di denunce (69 a Londra nel 2013) e non un caso che dalla legge del 1985 sia finito in tribunale. Adesso il Crown Prosecution Office, l’ufficio della pubblica accusa, sta esaminando dieci casi. Si promette che finalmente assisteremo al primo processo. Scotland Yard ha istituito un gruppo speciale. E il governo ha dato istruzione affinché i medici siano obbligati a segnalare le pazienti sottoposte alla violenza della mutilazione. Il passo decisivo è delle giovani che parlano e raccontano, mettendosi alle spalle le complicità di clan.
Fahma chiama in causa il ministro dell’Istruzione e dà il suo volto alla prima pagina del Guardian per sensibilizzare il Regno Unito e il mondo. Anche Manika, 25enne del Gambia, si confida. Vive in Scozia. Aveva 8 anni e subì la barbarie. «Ne porto con me le conseguenze fisiche e psicologiche, non riesco a fare sesso». Sono brecce storiche per provare a cancellare quella che un altro quotidiano, il Times , non esita a definire nell’apertura del giornale «la vergogna del Regno Unito» .
il Fatto 7.2.14
Israele e la rabbia degli ultraortodossi per la leva
Migliaia di studenti di collegi rabbinici ortodossi si sono duramente scontrati in 5 città israeliane con reparti della polizia, mentre il Parlamento si accinge ad approvare una legge relativa alla loro graduale coscrizione, dopo decenni di esoneri in massa dall’esercito. Ansa
il Fatto 7.2.14
Turchia, super-bavaglio a Internet
Giro di vite sul web in Turchia nel pieno della bufera tangentopoli. L’autorità garante potrà chiudere entro 4 ore, senza consultare giudici, siti o blog e conservare per 2 anni i dati personali degli utenti. Manifestazioni di piazza nel paese e critiche di Ue, Usa, Osce e Consiglio d’Europa. LaPresse
La Stampa 7.2.14
NY, il Ramadan e l’anno del Cavallo si festeggeranno in tutte le scuole
Il sindaco Billde Blasio ha deciso di introdurre tra le “comandate” dell’anno scolastico alcune feste musulmane e il capodanno cinese: “L’obiettivo è arrivare alla massima inclusione possibile
di Francesco Semprini
qui
Corriere 7.2.14
Crisi degli stati musulmani, ritornano le tradizioni religiose
risponde Sergio Romano
Riguardo alla sua risposta «I militari in Medio Oriente sono soltanto tiranni?», penso anch’io che i militari, soprattutto nei due Paesi da lei citati, Egitto e Turchia, siano stati anche una garanzia d’ordine o d’indipendenza. Ma colpisce il fatto che, sempre i quei due Paesi e, forse, in altri, non appena i militari hanno accettato d’indire le elezioni, sono stati sorpresi da maggioranze islamiste. Ciò sembra dimostrare che i responsabili militari, fin dai tempi di Nasser e Sadat e fin dai tempi di Atatürk, non si siano minimamente curati di sradicare l’estremismo religioso e di diffondere una cultura di governo laica, valori ai quali s’ispiravano. Quali sono le cause di tanta impreveggenza?
Franco Pettini pettini@skynet.be
Caro Pettini,
L e propongo una lettura diversa. La nascita di una classe dirigente laica nei Paesi arabi del Mediterraneo coincide con la progressiva colonizzazione europea dell’Africa del Nord fra l’Ottocento e il Novecento, dalla conquista francese dell’Algeria nel 1830 a quella italiana della Libia nel 1911. Il fenomeno diviene più rapido con le due guerre mondiali del Novecento. Dopo la disintegrazione dell’Impero Ottomano, mentre l’influenza europea si estende all’intero Medio Oriente, Kemal Atatürk, in Turchia, abolisce il Califfato e crea uno Stato laico in cui esistono istituzioni non ancora adottate in tutti i Paesi europei: il voto alle donne, il divorzio, l’aborto. La decolonizzazione, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, trasferisce il potere a gruppi sociali — militari, funzionari della pubblica amministrazione, esponenti delle professioni liberali — che sono stati esposti alla cultura occidentale. Là dove l’indipendenza è conquistata con le armi, come in Algeria, i militanti politici e i combattenti della «guerra di liberazione» hanno generalmente una formazione culturale modellata da ideologie occidentali: nazionalismo, marxismo, fascismo, socialismo democratico.
Quasi tutti i leader che conquistano il potere dopo la rivoluzione egiziana di Nasser, sono militari e cercano di adattare alle tradizioni locali programmi sociali e istituzionali non troppo diversi da quello di Atatürk. Ma questi tentativi falliscono, con molte varianti da un Paese all’altro, per alcune ragioni. I sistemi politici sono spesso oligarchie dinastiche che sfruttano le risorse nazionali, là dove esistono, all’interno di una ristretta cerca di familiari e amici. Gli apparati statali sono corrotti, clientelari e tribali. Le sconfitte subite durante le guerre contro Israele sono umilianti e lasciano una macchia di discredito sulla reputazione delle classi dirigenti di formazione occidentale. Quanto più queste classi deludono le società nazionali, tanto più cresce l’autorità morale dei gruppi che predicane il ritorno alle tradizioni culturali e religiose. La Fratellanza musulmana, in particolare, riesce spesso a colmare, con le sue iniziative assistenziali, il vuoto lasciato dalle politiche dei governi.
I mali di questi Stati cominciano a manifestarsi verso la metà degli anni Settanta con la guerra civile libanese e con la rivoluzione iraniana del 1979. Non vi è crisi, da quel momento, in cui i movimenti islamici non abbiano una crescente influenza. E non vi è guerra, dall’invasione sovietica dell’Afghanistan ai conflitti più recenti, in cui l’Islam radicale non colga l’occasione per meglio reclutare e addestrare i suoi militanti. Persino le rivolte arabe del 2011 (forse l’evento più “occidentale” della regione dopo la decolonizzazione) hanno aperto spazi che l’islamismo ha cercato di riempire. Credo che la nuova modernizzazione dei Paesi arabo-musulmani, quando comincerà, non potrà avere luogo senza la partecipazione e la collaborazione dei movimenti religiosi.
Corriere 7.2.14
Il pensiero di Vico restituito dal manoscritto
di Armando Torno
La nuova edizione critica delle opere di Giambattista Vico era in corso dal 1982 presso Guida di Napoli. Da poco è passata alle Edizioni di Storia e Letteratura. Questa benemerita editrice ha riproposto i volumi già usciti e ha avviato la pubblicazione dei nuovi. A cura di Paolo Cristofolini e Manuela Sanna vede la luce La scienza nuova, 1744 (pp. 376, e 52; presentazione di Fulvio Tessitore).
Vico pubblicò la celebre opera in prima edizione nel 1725, ne seguì una seconda, rivista, nel 1730 (il testo critico di essa, con i medesimi curatori, uscì nel 2004 da Guida e ora è nelle Edizioni di Storia e Letteratura) e, infine, con ulteriori modifiche apparve l’ultima nel 1744. Quella che Cristofolini e Sanna definiscono «il momento culminante nell’attività di pensatore di Giambattista Vico». Il lavoro si può così riassumere: i curatori hanno collezionato il manoscritto autografo dell’opera (conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli) con l’editio princeps del 1744, uscita nella città partenopea dalla Stamperia Muziana «a spese di Gaetano e Steffano Elia». La necessità di riprendere il manoscritto per qualche emendamento risale a Fausto Nicolini, che un secolo fa pubblicava nella compianta collana degli «Scrittori d’Italia» di Laterza un’edizione delle opere di Vico. Ma soprattutto, ricordano Cristofolini e Sanna, «sono già stati resi pubblici risultati di perizie ecdotiche più puntuali e circoscritte che dal testo fornito dal Nicolini hanno preso le distanze e hanno formulato nuove letture». D’altra parte, la stampa del 1744 offre qualche passo «di scarsa attendibilità».
I curatori dunque, partendo dal manoscritto considerato testimone fondamentale, hanno tenuto poi conto delle edizioni ottocentesche di Giuseppe Ferrari, di quella del Nicolini (che è stata la base per quasi tutte le novecentesche) nonché del lavoro di Andrea Battistini (curò una scelta di opere di Vico per i «Meridiani» Mondadori nel 1992).
Il risultato è questa nuova edizione con varianti a piè di pagina. Un testo più sicuro dei precedenti, che si avvale di oltre due secoli di ricerche e consente di ritrovare un’opera che Adorno consigliava di leggere e rileggere. In essa Vico espone una scienza umana a fondamento delle cui certezze pose la possibilità di considerare il «fatto», vale a dire quanto si compie o si produce, come «vero». Avviava in tal modo una polemica notevole con il razionalismo scientifico e metafisico di René Descartes. Filosofo che egli amava tradurre con la locuzione «Renato delle Carte»
Repubblica 7.1.14
Il potere dei folli
Il saggio di Jon Ronson, autore de “L’uomo che fissa le capre”, traccia il profilo psicopatologico dei leader che fanno andare avanti il mondo
Dai dittatori ai super manager comandare è roba da matti
di Gabriele Romagnoli
Il rais girava con una scorta di amazzoni, dormiva sotto una tenda e stuprava minorenni. Il presidente riceveva in una stanza piena di tigri impagliate da lui stesso cacciate. L’amministratore delegato pretendeva che tutte le auto nel parcheggio aziendale fossero dello stesso colore e frantumò con una mazza da golf il parabrezza dell’unica non omologata. Qualcuno lo sussurrava: «Questo qui mi pare picchiatello». L’affermazione, oltreché rischiosa per l’incolumità o la carriera, non trovava consenso. Il potere (come il successo e la ricchezza) sana e trasfigura. Quel che in un sarebbe un sintomo inquietante e univoco, in un notabile è un forte tratto della personalità, uno degli aspetti eccentrici che l’hanno reso unico e vincente. Noi vediamo, sappiamo, ma ci lasciamo convincere del contrario, concedendo il beneficio del dubbio e il danno della rielezione. Verrà la storiografia a sancire quel che era evidente. Eppure è già venuto qualcuno a dirci, con un libro, che il re non è nudo, è psicopatico. Davvero? Che sia questa la ragione per cui metteva al senato la sua cavalla, consultava le astrologhe prima di quotarsi in Borsa, pretendeva che il summit si tenesse all’alba e tutti si presentassero in calzini?
Grazie a Jon Ronson per aver scritto Psicopatici al potere (Codice Edizioni). Almeno adesso non si potrà dire che nessuno se ne era accorto. Ronson è conosciuto per aver scritto L’uomo che fissa le capre (da cui un film con George Clooney) e svariati reportage sull’affollato universo dei complottisti. L’interesse per gli psicopatici gli è nato dal sospetto che lo stessero cercando, che fossero intorno a lui, che lui stesso fosse uno di loro. Il titolo originale,The Psycopath test,è meno forte. Quello della traduzione italiana va dritto al punto: questa categoria ci governa. Nella definizione originaria dello psichiatra francese Philippe Pinel sono espressione di un tipo di follia privo di manie, depressioni, psicosi. Ronson sostiene che “per consenso universale” rappresentano “solo” l’1% dell’umanità. Limitandoci all’Italia: “solo” mezzo milione circa. La percentuale è curiosamente simile a quella dell’élite che possiede la ricchezza del restante 99%, la “superclass” planetaria. Questo non significa che i due spicchi di 1% coincidano. Non del tutto, ma in buona parte. Esistono psicopatici in economy, ma è molto più facile trovarli in business. Ossia: «ai livelli più alti della politica e dell’economia». Sono loro a «far andare avanti il mondo, giacché una mente squilibrata è più potente di una razionale».
Gli psicopatici piacciono, conquistano. Perché? Anzitutto perché vogliono piacere, conquistare. È uno dei loro tratti distintivi. Intervistato da Ronson lo ammette Emanuel “Toto” Constant, un carnefice, ex comandante degli squadroni della morte di Haiti. Come un qualunque concorrente di reality nominato confessa: «L’idea di non piacere mi fa star male, per me è molto importante, sono sensibile alle reazioni altrui». Per non soffrire s’impegna, seduce. E riesce. Le persone razionali a un certo punto mollano l’osso. Sono consapevoli che, come insegna il Corano: «La vita su questa terra è solo un gioco, un passatempo». Lo psicopatico insiste, non ha domani, non ha altrove. Il suo mondo è IL mondo, non ci sono confini. Non ci sconfigge, ci arrendiamo a lui. E non lo facciamo per stanchezza, ma perché pensiamo, sbagliando, che non sarà la fine del mondo. È solo l’inizio del SUO mondo e viverci sarà un inferno.
C’è un’altra caratteristica che consente allo psicopatico di andare al potere:l’assenza di empatia. È talmente impegnato a evitare il proprio dolore che non contempla, manco concepisce quello altrui. Puoi mostrargliene una fotografia (bimbi in catene, disoccupati alla fame, pinguini sterminati), non batterà ciglio. Alcuni sostengono che accada per un difetto insito in una parte del cervello detta amigdala. Dunque non è colpa sua, l’han disegnato così?
Il problema vero, come sempre, non è l’effetto, ma la causa. Ovvero, se lo psicopatico va al potere è perché ce lo mandano. E ce lo tengono. Davvero quando gli consegnano le chiavi di casa non capiscono con chi hanno a che fare? Sarebbe opportuno, per il bene dell’umanità, ritagliarsi la lista dei “Venti indizi per riconoscere uno psicopatico” redatta dallo psicologo canadese Bob Hare. Ne cito alcuni: loquacità, fascino superficiale, egocentrismo, tendenza al grandioso, menzogna patologica, propensione alla noia, abilità nella manipolazione, assenza di rimorso o senso di colpa, insensibilità, deficit del controllo comportamentale, promiscuità sessuale, mancanza di obiettivi realistici a lungo termine, irresponsabilità, versatilità criminale. Dove trovare facilmente persone rispondenti a questo identikit? In galera, ovviamente. Poi: a Wall Street e a Davos. Perché ci sono psicopatici che finiscono in carcere e altri che vanno ai summit? Secondo Ronson dipende soprattutto dalla famiglia d’origine. In effetti ci sono rampolli che sarebbe stato più saggio mandare in cella che a consigli d’amministrazione o dei ministri.
La cosa più incredibile è che, smascherato uno psicopatico, si affidi il potere a un altro. Ronson racconta un caso emblematico, quello della Sunbeam, una società motoristica britannica. Negli Anni Ottanta sceglie come amministratore delegato tale Robert Buckley. Girava con una guardia del corpo armata di mitragliatrice, collezionava sculture di ghiaccio del valore di diecimila dollari, aveva una flotta di jet e Rolls Royce, manteneva il figlio in un appartamento da un milione di dollari a spese dell’azienda in crisi. Fu licenziato per aver messo a rimborso centomila dollari di vino. A questo punto lo scettro fu passato a un certo Paul Kazarian. Lanciava boccali di succo d’arancia contro i collaboratori, sparava con la pistola ad aria compressa durante le riunioni e urlava cose come: «Pur di chiudere l’affare, succhiagli il cazzo a quel bastardo!». Non avendo chiuso abbastanza affari fu sostituito da Al Dunlap,un sadico dei licenziamenti, che minacciò la prima moglie con un coltello, non andò al funerale dei genitori e frodò la società falsificando il bilancio e intascando sessanta milioni di dollari. Licenziato a sua volta, fece causa e vinse, ottenendo una liquidazione d’oro.
Uno psicopatico, se non si ha la lista di Hare in tasca, può sfuggire. Due? Mah. Tre sono una prova. Di che cosa? Del fatto che questi esemplari umani piacciono, a troppi. E quei troppi a loro si consegnano come a un destino ineluttabile, con il più clamoroso degli errori di prospettiva. Ossessivi e smaglianti, gli psicopotenti non indicano la luce e la salvezza, ma il fuoco e la fine. La Sunbeam ha chiuso stabilimenti in mezzo mondo. Il suo ex amministratore delegato Al Dunlap vive in Florida, in una immensa villa popolata da decine di sculture di feroci predatori: squali, falconi, alligatori, ma soprattutto tigri, tante tigri.
IL LIBRO Psicopatici al potere, di Jon Ronson (Codice, trad. di I. Oddenino e C. Stangalino pagg. 268 euro 21)
Repubblica 7.2.14
Beni culturali
Riforma al via, tutti contro Bray
Sindacati e associazioni: “Vogliono il controllo politico”
di Francesco Erbani
ROMA Mesi di discussione, una commissione, poi una lunga riflessione. Il progetto di riforma del ministero per i Beni culturali e il turismo è pronto. Forse approda oggi al Consiglio dei ministri. Intanto ci sarà un passaggio con i sindacati. Tutto bene per il ministro Massimo Bray? Non proprio, perché il testo suscita pesanti malumori all’interno del ministero stesso, che talvolta virano all’opposizione frontale. Crescono, dunque, le difficoltà che Bray incontra: penultimo episodio, la nomina del soprintendente a Pompei non di un dirigente del ministero, ma di un professore di archeologia, Massimo Osanna, assai stimato e con un ricco curriculum, ma senza spiccate competenze pompeianistiche. Quelle che avrebbero giustificato il ricorso a un esterno. La sua nomina ha suscitato la sollevazione di un centinaio fra soprintendenti e dirigenti del ministero, che hanno scritto una lettera durissima: l’incarico, dicono in sostanza, ignora che la legge consente di chiamare un esterno in mancanza di disponibilità interne e ricordano il caso di Vittorio Sgarbi, scelto da Sandro Bondi per dirigere il Polo museale di Venezia e la cui designazione fu poi bocciata. Per Pompei sono state presentate tre domande da parte di interni al ministero e due da parte di esterni.
Ma è sulla riforma del ministero che Bray rischia uno scontro che non aumenta le possibilità per lui di restare sulla poltrona dei Beni culturali. Il suo nome circola spesso fra le vittime di un rimpasto. E sono tutt’altro che buoni i suoi rapporti con Matteo Renzi e con i renziani, fra i quali Andrea Marcucci, ex sottosegretario, presidente della commissione Beni culturali del Senato. La riforma è blindata. E questo irrita molto i sindacati: la Uil parla «di luci e di ombre, ma soprattutto di ombre» e la Cgil incalza: «Ci aspettavamo molto di più, siamo delusi, è prevalso uno schema centralistico». Protestano le associazioni di categoria (Assotecnici) e quelle di tutela: la Bianchi Bandinelli sostiene che la riforma «rappresenta un ulteriore colpo al patrimonio culturale e dimostra la mancanza di un progetto politico complessivo e lungimirante. Siamo di fronte a un’occasione perduta per rilanciare il ruolo del ministero». Molti membri della commissione incaricata da Bray, inoltre, non vedono affatto rispecchiato il loro lavoro nelle conclusioni del ministro. L’intenzione più volte proclamata era quella di utilizzare la spending review per snellire l’apparato centrale del ministero in favore delle strutture periferiche, le soprintendenze, in primo luogo. Questo proposito sembra realizzato in minima parte. Le direzioni generali non diminuiscono di numero, ma soprattutto aumentano quelle burocratiche. Non viene soppressa la direzione generale della valorizzazione (che viene accorpata all’innovazione), ma quella dell’archeologia. E questo provoca un malcontento serissimo: oggi alle 16 è previsto un sit-in al ministero e sono pronte lettere per Napolitano e per Letta. L’archeologia passa sotto la direzione per il paesaggio e il patrimonio storico-artistico, e non vede neanche indicato il proprio nome nella dicitura dell’ufficio. In serata il ministero assicura: tutte le funzioni di tutela saranno trasferite.
Alcune direzioni regionali vengono unificate: la Basilicata va con la Puglia, l’Umbria con le Marche, l’Abruzzo con il Molise. Ma per alcuni è singolare che la Liguria faccia tutt’uno con il Piemonte, creando una maxistruttura poco gestibile. Alle direzioni regionali vengono comunque tolti poteri a favore delle soprintendenze, mentre una spiccata autonomia è restituita agli archivi.
Viene poi creato un Ufficio di pianificazione degli obiettivi, che sembra una sovrapposizione del Segretariato generale (una struttura che parte della commissione auspicava venisse soppressa). Secondo la Bianchi Bandinelli e Assotecnici, la nuova creatura «assume le funzioni di controllo politico e di supervisione dell’amministrazione (ruolo inquietante)», e produce un aumento «dei livelli di potere, in contrasto con la necessità di svolgere adeguatamente i compiti istituzionali». Viene anche creato un ufficio unico per la comunicazione. Le associazioni lamentano l’assenza, invece, «di una direzione generale per il paesaggio e la pianificazione paesaggistica».
Altro punto contestato: l’arte e l’architettura contemporanea vengono infilate nella Direzione generale dello spettacolo e ad esse si affianca, ed è una novità assoluta, il patrimonio immateriale (le feste, i riti, le sagre... Eppure tutta la parte etnografica e delle tradizioni popolari resta alla direzione per il patrimonio storico-artistico). L’attuale direttore è il potentissimo Salvo Nastasi, ex capo di gabinetto con Bondi, Galan e poi con Ornaghi, che, se verrà confermato, avrà competenze sul Maxxi, su Triennale e Quadriennale. Negli ambienti del contemporaneo si raccolgono sentimenti di sfiducia: «Per noi era essenziale restare agganciati al sistema dei beni artistici: che cosa c’entriamocon le fondazioni liriche?».
Repubblica 7.2.14
Il Memoir di Cardano, star del Cinquecento
Ritorna “Il libro della mia vita”, autobiografia del medico e astrologo
di Franco Marcoaldi
Un farmaco che la mamma si era procurata per abortire non fece effetto: fu così che io nacqui il 24 settembre 1501». Girolamo Cardano non ha nessuna intenzione di imbellettare la propria vicenda biografica, e a partire da una nascita tanto rocambolesca enumera le sue mille disgrazie e malformazioni con bruschezza e sprezzatura: lo tirano fuori dal ventre materno che sembra morto e per farlo respirare lo tuffano in un bagno di vino caldo; a soli due mesi contrae la peste per la prima volta e un’anomalia ai genitali lo renderà impotente fino ai trentun anni.
Basso di statura, la mano destra con le dita storte, ha gli occhi minuscoli e perennemente semichiusi: a parte gli infiniti guai fisici (palpitazioni cardiache, cronici disturbi di stomaco, ernie intestinali) è un nevrastenico conclamato. E sul dolore ha una sua teoria piuttosto curiosa: essendo il piacere nient’altro che un dolore placato, meglio avere sempre qualche disturbo a portata di mano. Se necessario, procurandoselo in proprio. Come? Mordendosi le labbra, torcendosi le dita, strizzando «l’esile braccino sinistro» sino a lacrimare.
Non si tratta né della prima né della più rilevante bizzarria di un uomo geniale e stravagantissimo, che offre una testarda e minuziosa auto-analisi nel celebre Il libro della mia vita,riuscito ora in un’edizione curata da Serafino Balduzzi per Luni editrice (pagg. 208, euro 20). Si dice sempre che l’Io entra a pieno titolo sulla scena letteraria della modernità con Michel de Montaigne, ma ci si dimentica questa autobiografia di Cardano, che viene stesa a un anno dalla morte, nel 1575, dunque in leggero anticipo sulla stessa pubblicazione degli Essais.
L’epoca è segnata dai prodigi dell’arte tipografica, dall’uso della bussola, dalla diffusione della polvere da sparo e prima ancora dalle scoperte geografiche: «certo ci si può aspettare che dividere fra noi un bottino di queste dimensioni ci provocherà disastri a non finire: ciascuno farà di testa sua, si butteranno via arte e cultura, si scambierà il certo per l’incerto. Queste cose se le vedranno i posteri; per il momento noi stiamo ancora nel prato fiorito e godiamo».
Cardano è medico, filosofo e matematico e oggi, quando si pensa a lui, il primo pensiero va al giunto cardanico delle automobili, ma la sua gigantesca opera ha spaziato in lungo e in largo, malgrado la fama postuma non sia pari allo straordinario talento. Questa autobiografia, considerata dall’autore come “ombelico” del proprio lavoro, è il modo migliore offerto al lettore comune per tornare a riaccostare la sua strabordante personalità. Il godimento è assicurato: l’acume incrocia di continuo un ingenuo candore, l’acribia dialettica sfocia sovente nella magia. Senza contare l’ininterrotto fuoco d’artificio immaginativo cui assistiamo: la passione per il gioco dei dadi lo spingerà ad azzardare l’abbozzo di una teoria sul calcolo della probabilità, quella per l’astrologia a disegnare l’oroscopo di Gesù Cristo, con conseguenti, gravissimi guai con Santa Romana Chiesa (ivi compreso il carcere).
Nell’Europa del Cinquecento, Cardano è una star: gli uomini potenti si contendono i suoi servigi. Eppure il tragitto biografico resta accidentato, doloroso (per dirne una, il figlio Giovanni Battista verrà condannato a morte gettandolo in uno stato di assoluta prostrazione), né per certo lo aiuta il suo pessimo carattere: iroso, attaccabrighe,paranoico. Il Nostro ripete a ogni pie’ sospinto di voler rifuggire dagli onori e dal potere, l’unico suo cruccio è rimanere nella memoria dei posteri. Per questo lavora come un matto, sorretto da doni naturali che enumera con precisione certosina. Si va dalla stregonesca capacità di predire gli eventi alla forza di carattere nel sostenere le peggiori avversità. Ma il dono più importante è quello che lui chiama «il lampo di luce nella mente», «una fusione di ragionamento esperto e di folgorazione intuitiva: l’uno radicato nel mestiere e l’altro vagante in totale libertà». Cardano non ha dubbi: questo modo di procedere rappresenta «la vetta suprema della natura umana», qualcosa che rasenta la perfezione divina. Solo così si può infondere l’opera di vera gioia, solidità, leggerezza. Però ci vuole tempo, molto tempo prima che questo dono affiori nella mente: i pochi che ne sono toccati, lo riconoscono solo in vecchiaia.
Antesignano del pensiero libertino, Cardano – come ha scritto Alfonso Ingegno, uno dei suoi massimi studiosi – individua nella longevità e nella tranquillità d’animo le precondizioni di quel misticismo sapienziale, benefico per le sorti dell’umanità, a cui figure eccezionali come la sua sono destinate.
IL LIBRO Il libro della mia vita di Girolamo Cardano (Luni Editrice pagg. 208 euro 20)
l’Unità 7.2.14
Cento anni
Chaplin il vagabondo
Era il 7 febbraio del 1914 quando uscì il primo film in cui l’attore interpretava Charlot
di Alberto Crespi
IL 7 FEBBRAIO 1914, NEI CINEMA AMERICANI, USCÌ UN FILM INTITOLATO «KID AUTO RACES AT VENICE, CAL».
Era una delle tante comiche brevi che stipavano i nickelodeon, le sale dove pagando un nichelino (10 centesimi) si potevano vedere numerosi film uno dietro l’altro. Ma in quel film, che oggi compie cent’anni, compariva un uomo che avrebbe cambiato la storia del cinema, rendendo quel divertimento popolare un’Arte con la «A» maiuscola.
Passo indietro. L’11 gennaio 1914, a Los Angeles, era una domenica come un’altra. L’unico evento, si fa per dire, era la «Pushmobile Parade» una gara automobilistica riservata ai bambini in programma nel quartiere di Venice, sul mare. Le macchinine si fiondavano in pista passando da una specie di rampa, poi sfrecciavano su un circuito improvvisato nelle vie del quartiere. Una fiera di paese avrebbe avuto più «glamour». Per la cronaca, nel 1914 Los Angeles non era nemmeno una vera città: piuttosto un conglomerato di piccoli centri sparsi su un’area vastissima, ancora piena di boschi, di canyons, di campi e di zone semi-desertiche. Solo all’interno, in quella che poi si sarebbe chiamata Downtown, c’erano palazzi alti abbastanza per essere definiti, in California, «grattacieli». Del resto solo un pazzo avrebbe costruito una città in quel punto: non c’era acqua (bisognava farla arriva dal fiume Colorado, a miglia di distanza) e i terremoti si succedevano con ritmo inquietante. Quale persona sana di mente avrebbe deciso di vivere lì?
I cinematografari, infatti, non erano sani di mente. Erano un gruppo di avventurieri, di guitti e di aspiranti artisti (alcuni di loro) che da alcuni anni si erano trasferiti da New York e dal New Jersey per sfuggire ai taglieggi della mafia e alla rigidità dei brevetti sulle macchine da presa stabiliti, a Est, da Thomas Edison e dai suoi partner industriali. In California c’erano meno controlli e, soprattutto, c’era il sole praticamente tutto l’anno: i primi film si giravano esclusivamente in esterni, con luce naturale, e il clima della East Coast non era proprio il massimo. Una delle principali «ditte» che si erano installate in un sobborgo chiamato Hollywood era la Keystone di Mack Sennett. Produceva esclusivamente comiche da uno o due rulli, dieci o al massimo venti minuti di durata. La trama era quasi sempre la stessa: due o più comici si sfidavano a duelli di torte in faccia, qualche bella ragazza (possibilmente in costume da bagno) passava sullo sfondo, nel finale i protagonisti venivano inseguiti da torme di poliziotti (i famosi «Keystone Cops»). Ma ogni tanto qualche variazione sul tema era possibile. E quel giorno una troupe della Keystone si era spostata fino a Venice, dove si svolgeva quella famosa gara di automobiline per bambini. Avrebbero girato una comica, così, senza copione, nel giro di poche ore. I film si facevano così, nel 1914. Nessuno aveva un dialogo da memorizzare, nessuno aveva nemmeno idea di cosa fosse una sceneggiatura. Si partiva da una situazione e si andava a braccio. Bastava che qualcuno – il regista, uno degli attori, lo stesso Sennett – avessero un’idea. E quell’11 gennaio qualcuno, appunto, aveva avuto un’idea. Quel «qualcuno» non aveva ancora 25 anni ed era membro della Keystone Company da pochissimo tempo. Era inglese. Era arrivato in America con una famosa compagnia di varietà e vaudeville diretta dal famoso impresario teatrale Fred Karno. Gli inglesi, nella comicità teatrale, avevano una tradizione antichissima. In quella compagnia c’erano vecchi squali del vaudeville, gente che ne aveva vista di tutti i colori, che era sopravvissuta in teatri di provincia o di periferia dove il pubblico, durante gli spettacoli, parlava, mangiava, beveva, ruttava e faceva altre cose innominabili, e se il comico non li faceva ridere rischiava il linciaggio. Un po’ la stessa atmosfera dell’Ambra Jovinelli in Roma di Fellini, ricordate? Ma in quell’anno 1914 Karno aveva portato con sé anche due ragazzi di talento. Uno era giovanissimo e si chiamava Stan Laurel. L’altro era un po’ più grande, era per così dire «figlio d’arte» (la madre era stata attrice e cantante) ma aveva conosciuto anche la durissima realtà dell’orfanotrofio e della vita sulla strada. Si chiamava Charles Spencer Chaplin.
Sennett l’aveva visto in teatro. Tra le altre cose faceva il numero dell’ubriaco, un classico. Ma lo faceva bene. Faceva ridere. Gli spedì un telegramma per convocarlo a Los Angeles. Nella sua autobiografia Chaplin racconta che, quando in teatro gli dissero che c’era un telegramma per lui, sperò che fosse morta una sua vecchissima zia che non aveva mai visto, ma che era emigrata in America decenni prima. Puntava all’eredità. Quando vide che si trattava di cinema, fu deluso. Il cinema, per i teatranti dell’epoca, era una cosa disdicevole. Quasi come battere il marciapiede. Però giravano soldi, soldi veri. E così Chaplin andò alla Keystone, si presentò a Sennett e alla star della ditta, la grande adorabile Mabel Normand. Il primo film girato da Chaplin con la regia di Henry Lehrman fu Makinga Living, uscito il 2 febbraio 1914. Ma in quel corto l’attore non aveva ancora la maschera del Vagabondo che lo rese famoso. In Kid Auto Races, sì. Nel film Chaplin, con tanto di bombetta, bastoncino e scarpe sfondate, è un rompiscatole che «impalla» di continuo le macchine da presa con cui la troupe – che si vede in campo – sta riprendendo la corsa. Il Vagabondo nasce come un importuno, e il regista Lehrman entra nell’inquadratura per cacciarlo, ma il pubblico ignaro che assiste alla scena prende subito la sua difesa.Ediventa involontario protagonista della nascita di un mito, che oggi compie cent’anni.
Corriere 7.2.14
Radio, la seconda vita Rivoluzione digitale per un suono perfetto
di Paolo Ottolina
Che cosa resta di analogico nell’era digitale? A parte qualche vinile, roba da collezionisti, l’unico media vecchio stile resta la radio, quella che Finardi amava perché «arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente». La radio continua a entrare nelle case in modulazione di frequenza, l’Fm. Come ai tempi di quel Finardi (1976). Negli ultimi tempi però a qualcuno sarà capitato di ascoltare alcuni spot che parlano di «Digital Radio». Che cos’è questa radio digitale e come si fa a sentirla?
Digital Radio è il nome scelto dal marketing per lanciare la diffusione delle trasmissioni realizzate con lo standard Dab+. Il Dab (Digital Audio Broadcasting) in verità è roba stagionata: è un progetto europeo che risale agli Anni Ottanta, con canali digitali attivi (in Norvegia e Regno Unito) da quasi 20 anni. Nel 2007 è nata l’evoluzione, il Dab+, ora utilizzato anche in Italia. Per ricevere un programma digitale bisogna dotarsi di un apposito ricevitore, domestico o da auto.
Che cosa ci porta in dote la radio digitale? Miglior qualità audio, più semplicità d’uso, contenuti aggiuntivi (testo, immagini) e potenzialmente anche nuovi canali.
In Italia l’accelerazione sul tema è recente. L’arrivo del digitale terrestre televisivo ha (finalmente) liberato alcune frequenze che sono e saranno utilizzate proprio dalla Digital Radio. In Trentino Alto Adige è partito un progetto pilota, il primo in Italia, con regole precise imposte dall’Agcom. Ma anche nel resto d’Italia il Dab+ già arriva, sia pure con concessioni a trasmettere provvisorie.
Buona parte del Nord Italia è coperta. Scendendo verso sud, Roma è servita, così come molti tratti autostradali. Più in ritardo il Mezzogiorno. In Italia si è puntato soprattutto al cosiddetto outdoor . Cioè all’esterno, quindi alle auto, che per le radio valgono circa il 60% del tempo di ascolto. Questo non significa che all’interno delle case la Digital Radio non si senta, ma bisogna trovarsi in un’area urbana o molto ben coperta.
Che cosa si può sentire oggi? Le emittenti sono organizzate in consorzi. C’è la Rai, con 8 canali (eccellenti i due della filodiffusione). Poi ci sono i privati nazionali: Club Dab Italia (Radio 24, Deejay, Capital, Rds, 101, Radicale, M Due O, Radio Maria), Euro Dab (Rtl, Radio Vaticana, Radio Italia, Radio Padania), Cer (105, Montecarlo, Virgin, Kiss Kiss; ma non ha ancora trasmissioni Dab+). Infine consorzi di radio locali.
Il principale vantaggio della radio digitale è di tipo qualitativo. La resa sonora è simile a quella dei cd (dipende però dalla compressione utilizzata). Il segnale, se c’è, si riceve in modo perfetto: addio interferenze. Attenzione però: come per il digitale terrestre, se il segnale è troppo debole non si riceve nulla.
Altri punti di forza. Non c’è bisogno di ricordare o memorizzare le frequenze: la ricerca dei canali si fa direttamente col nome. Ai programmi possono essere associati testi (notizie, titoli dei brani, risultati sportivi, etc) o immagini statiche che ruotano.
Chiaramente non si tratta di differenze eclatanti rispetto all’Fm. Tant’è che finora, come in un circolo vizioso, l’assenza di un mercato di apparecchi in grado di ricevere il Dab ha frenato le emittenti. E la scarsa copertura del territorio ha invogliato ben pochi ad acquistare una radio Dab. Ma ora, come spiega Giorgio Guana, country manager di Pure (il produttore di apparecchi audio che più di tutti spinge verso la Digital Radio), «in Italia ci sono già circa 100 mila radio compatibili con il Dab+, senza contare le auto». E quasi tutte le automobili nuove hanno un’autoradio Dab+, per lo meno tra gli optional (poche però quelle di serie): se dovete cambiare macchina prestateci attenzione.
Una cosa è certa: la Digital Radio è un’opportunità per chi ama la radio ma nessuno sarà obbligato ad acquistare un apparecchio Dab+. All’orizzonte non c’è nessuno «spegnimento» dell’analogico, come avvenuto per la tv.