● I giornalisti dell’Unità hanno festeggiato il novantennale del giornale con un’iniziativa di grande successo e un prodotto editoriale di indubbio valore, andato esaurito in edicola. Questa straordinaria risposta, il successo della nostra festa, la vicinanza dei nostri lettori dimostrano che l’Unità è viva, ha uno spazio riconosciuto nel mercato editoriale e nel cuore del popolo della sinistra. Questo grazie esclusivamente al lavoro delle giornaliste e dei giornalisti, che hanno dimostrato ancora una volta dedizione, generosità, capacità professionale. Purtroppo l’azienda non si è mostrata all’altezza perché non ha supportato adeguatamente l’iniziativa.
IL CDR
● L’Azienda plaude al successo dell’iniziativa editoriale che in un oggettivo periodo di crisi del mercato ha permesso all’Unità di triplicare le vendite in edicola. L’inserto, ovviamente voluto da Azienda ed Editore, verrà riproposto domenica 16, sempre in allegato con l’Unità ed è sempre disponibile al prezzo di 1 euro nella sua versione digitale.
L’AZIENDA
Repubblica 13.2.14
L’animale viene citato diverse volte nella Genesi, ma fu introdotto in Terrasanta solo centinaia di anni dopo La scoperta di un team di archeologi rafforza l’ipotesi che l’Antico Testamento sia stato “corretto” nei secoli
“Troppi cammelli così la Bibbia è stata riscritta”
di Fabio Scuto
Gerusalemme. Percorrere le strade della Terrasanta con
le Sacre Scritture in mano cercando riferimenti geografici e tracce degli
elementi che ne hanno fatto il crogiuolo delle tre grandi religioni monoteiste,
rischia di essere una grande delusione. Per questo storici e ricercatori che
operano in questa terra si muovono con grande cautela. Adesso grazie alla
datazione con il carbonio 14, una ricerca di due archeologi israeliani della
Tel Aviv University è in grado di dimostrare che nella Bibbia, ci sono troppi
riferimenti ai cammelli in un’epoca in cui questo animale, era forse presente
in Terrasanta, ma certamente non era addomesticato, anzi era ancora cacciato
per le sue carni e l’uso del pellame.
Secondo la ricerca dei professori Erez Ben-Yosef e
Lidar Sapir- Hen - riportata da Haaretz - che hanno a lungo effettuato scavi
nella valle di Arava (sud di Israele) e in Giordania, si dimostra che i
cammelli probabilmente fecero la loro comparsa più di 300 anni dopo di quanto
si sia ritenuto finora, quindi molto tempo dopo i regni di Davide e Salomone e
che nella vita dei primi Patriarchi ebrei come Abramo, Giacobbe e Giuseppe,
questi animali avevano poca o nessuna importanza. Ma nella Bibbia i cammelli
sono ampiamente citati: nella Genesi 24 si racconta di un servo di Abramo che a
dorso di cammello parte peruna missione destinata a trovare una moglie per
Isacco, oppure (Genesi, 32) Giacobbe invia come doni a suo fratello Esaù
«insieme a duecento capre e venti caproni, trenta cammelle da latte con i loro
piccoli». La menzione dei cammelli nella Genesi è un anacronismo ben noto
all’archeologia. Si tratta per lo stesso motivo di una delle prove giudicate
decisive per dimostrare che la Bibbia è stata scritta, o corretta, centinaia di
anni dopo gli eventi che narra. Tutte le prove archeologiche raccolte a Arava e
Wadi Finan in Giordania rafforzano la teoria che il cammello non venne
addomesticato in questa regione fino al 930 aC.
Stando allo studio della Tel Aviv University le ossa
di cammello più antiche finora trovate in Israele sono quelle rinvenute nei
pressi delle miniere di rame di Timna, che si trova poco a nord dell’odierna
Eilat, sul Mar Rosso, e risalgono all’ultimo terzo del 10° secolo aC.,
quindi secoli dopo la vita dei Patriarchi e decenni dopo il Regno di Davide.
Gli egiziani, dopo la campagna militare del Faraone Shoshenq I, presero il
controllo di queste miniere ed è probabilmente allora che il cammello -
addomesticato secoli prima ma fuori dalla Penisola Araba - venne introdotto
come bestia da soma. «L’introduzione del cammello nella nostra regione ha
costituito un importante sviluppo economico e sociale», ha spiegato
Ben-Yosef che ha guidato gli scavi a Timna per anni, «ed è stato grazie al
cammello che si è potuto commerciare con l’India e l’Arabia. Muli e asini non
ce l’avrebbero fatta a sopportare la traversata del deserto, il cammello ha
accelerato lo sviluppo di queste rotte commerciali che iniziano ad essere
praticate infatti nel IX° secolo aC. E sono proseguite per più di 1.500 anni».
Corriere 13.2.14
Spinta di Cgil e Confindustria dietro la corsa del segretario
Quella telefonata al Cavaliere
Il leader del Pd ha chiamato Berlusconi prima di imprimere la svolta decisiva
di Francesco Verderami
ROMA — Perché? Perché ha cambiato la linea con cui si era imposto alle primarie del Pd? Perché ha stracciato il «patto di programma» proposto a Letta per il 2014? Perché ha disatteso l’intesa con Berlusconi sulle riforme che non prevedeva un cambio di governo? Insomma, perché il leader democratico ha sconfessato se stesso, decidendo di muovere subito su Palazzo Chigi? È vero, Renzi va veloce per indole. Ma stavolta ha accelerato anche perché «spinto». Lo ha fatto capire nei conversari riservati dello scorso weekend, nei colloqui e nelle telefonate con le quali ha preannunciato ai suoi interlocutori la decisione di puntare alla guida dell’esecutivo.
Certo, in parte Renzi ha fatto dipendere la scelta da fattori politici e dall’analisi dei sondaggi: con l’esecutivo in carica segnato da una progressiva crisi di consensi e con il rischio di veder compromessa la corsa delle Europee «non ho alternative», aveva spiegato ad Alfano per sondarlo. Chissà, forse di «alternative» ne avrebbe avute, se non fosse che a spingerlo per impegnarsi in prima persona — a suo dire — si erano messi in tanti: da Confindustria a Cgil. E lui per tempo li aveva assecondati. Già la decisione di convocare la direzione del Pd per il 20 febbraio — il giorno dopo la mobilitazione generale delle imprese a Roma — era parso un segnale chiaro, specie all’indomani delle dichiarazioni di Squinzi, secondo cui se Letta il 19 si fosse presentato al direttivo degli industriali con la «bisaccia vuota» sarebbe stato «un problema»: «Tanto varrebbe andare a votare».
«Non si è mai visto un presidente di Confindustria trattare così un presidente del Consiglio», aveva commentato l’Ncd Cicchitto: «La verità è che si sono schierati con Renzi. Vogliono la staffetta a Palazzo Chigi». E la moral suasion verso il capo democrat pare provenga anche dal mondo delle aziende pubbliche, dove in primavera andranno in scadenza centinaia di incarichi: dai vertici di Enel a Finmeccanica, a quelli di Eni, il cui capo è in grande sintonia con Renzi. Almeno così è sembrato agli ospiti di Porta a Porta invitati all’ultima apparizione del leader democratico alla trasmissione tv. Tra gli invitati infatti c’era anche Scaroni, che — prima di andare in onda — nella saletta dove viene servito un buffet, si era avvicinato a Renzi e a voce alta gli aveva detto: «Matteo, hai visto quello schema che ti ho mandato? Se c’è qualcosa che non si capisce, chiamami...».
Difficile capire se la scelta di «Matteo» sia il frutto del pressing esterno o piuttosto di un convincimento interiore, è certo che domenica sera aveva già scelto, quando ha fatto squillare il telefono di Arcore. Berlusconi non immaginava che all’altro capo ci fosse Renzi, e men che meno immaginava di sentirsi fare quel ragionamento. Il leader del Pd non ha usato giri di parole quando ha spiegato al Cavaliere l’intenzione di sostituirsi a Letta, di voler andare avanti sulle terreno delle riforme insieme a Forza Italia, ma di non puntare a una maggioranza di larghe intese. E non meno eloquente è stato quando ha chiesto all’ex premier un’opposizione «non pregiudiziale» in cambio di scelte di governo «non aggressive». Così Berlusconi ha raccontato la conversazione ai suoi commensali, dopo la telefonata.
Anche a quella tavola si sono interrogati sulle motivazioni che hanno indotto il segretario del Pd a puntare su Palazzo Chigi. Il Cavaliere è parso lì per lì quasi comprensivo: «Si logorerà al governo, ma se rimanesse fuori lo logorerebbero ugualmente». Gli ospiti si sono divisi. C’è chi ha spiegato che «i consiglieri economici di Renzi sostengono che in questo modo intercetterà l’uscita dell’Italia dalla recessione» e chi invece — in modo più prosaico — ha posto l’accento «sulle nomine nelle aziende pubbliche che sono roba di potere». Berlusconi — che quando era al governo ha sempre delegato la questione a Gianni Letta — è andato al sodo. Un accenno al tema della giustizia, più di un cenno sul tema delle comunicazioni, e infine la linea da dettare al partito: opposizione «senza sconti» ma anche «senza barricate».
Il resto appartiene alla sfera della politica: al «cannibalismo dei leader» praticato nel Pd e che ha stupito Berlusconi per la sua «efferatezza»; alle mosse di Alfano che — dopo aver mostrato «la nostra lealtà» a Letta — «senza patti chiari» non farà certo da spalla a Renzi; a Napolitano che non intende comunque ascoltare «la sciocchezza» del voto anticipato. Si vedrà se Renzi, oltre ad andar veloce, saprà anche andar lontano. Sul campo si stanno già schierando i giocatori. Sugli spalti ci sono gli spettatori. Alcuni molto interessati.
La Stampa 13.2.14
Viaggio a Rignano
La madre di Matteo sospira: “L’ho affidato alla Madonna”
di Michele Brambilla
qui
Corriere 13.2.14
Chi spinge e consiglia Matteo
Obama, Prandelli, il parrucchiere Tony: eroi, alleati e amici nel mondo di Matteo
L’intesa con ex avversari come Boschi e Bonifazi, la rottura con Gori e Civati
di Aldo Cazzullo
Più che dal finanziere Davide Serra e dalle Cayman, per entrare nel mondo di Renzi bisogna passare dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza, via Sant’Agostino 20, Oltrarno. Qui, nel quartiere fiorentino che preferisce, il sindaco viene tre volte la settimana. Questo è l’unico posto in cui stacca il cellulare.
Qualche volta Renzi si fa spuntare i capelli (è stato Tony a convincerlo a tagliare il ciuffo) o si stende dieci minuti sul lettino abbronzante. Altre volte si ferma solo a prendere un caffè con Tony, che è arrivato a Firenze nel 1951 da Caserta ed è anche il parrucchiere di sua moglie Agnese: l’11 gennaio scorso si è brindato qui al compleanno del sindaco, con una bottiglia di Veuve Clicquot.
L’unico amico invitato nella casa di Pontassieve quella sera era però il suo coetaneo Marco Carrai. Rampollo di una famiglia di imprenditori, presidente dell’Aeroporto, consigliere dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze, Carrai è anche l’unico ad accompagnare Renzi a sciare, nelle gite dalla sera alla mattina all’Abetone. Gli ha costruito una serie di rapporti, non solo economici e finanziari: è stato lui ad esempio a presentargli Baricco. Ma neppure Carrai è l’eminenza grigia che più volte a Firenze si è cercato di indovinare dietro il sindaco (un gioco in cui sono entrati e usciti in molti, dall’ex procuratore Pino Quattrocchi all’ex patron dei jeans Rifle, l’immobiliarista Sandro Fratini). In realtà, Renzi non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un «uomo di». Tanto meno di Lapo Pistelli, di cui fu assistente parlamentare («portaborse!», lo bollò Stefano Fassina), e che batté alle primarie per il Comune di Firenze. Terzo arrivò il dalemiano Michele Ventura, nonostante il sostegno di due giovani che oggi siedono nella segreteria pd, Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi. Renzi non ha mai esitato a pescare tra gli uomini del nemico, e a rompere con i suoi: Giorgio Gori, Pippo Civati, Giuliano da Empoli, in parte lo stesso Roberto Reggi; gli assessori con cui ha iniziato il mandato se ne sono andati tutti, tranne il vicesindaco Stefania Saccardi (che ora sta per diventare vicepresidente della Regione). Sarebbe sbagliato anche sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Oscar Farinetti («se non fossi Renzi vorrei essere Farinetti», disse una volta) e Alessandro Baricco («una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto»): Renzi decide di testa sua, spesso facendo il contrario di quel che gli viene consigliato. Gli accade di restare incantato dal carisma altrui, ad esempio davanti all’arcivescovo di Vienna Christoph Schoenborn; nessuno però l’ha mai visto in soggezione, neanche quando riuscì a infilarsi da Obama alla Casa Bianca con cinquanta sindaci americani, grazie ai buoni uffici di un diplomatico fiorentino amico suo, Niccolò Fontana (anche lui classe 1975). È una spregiudicatezza rivendicata, che Renzi sintetizza con una formula ricorrente: «Io son di Rignano!»; come a dire del contado, del popolo.
Popolani sono di sicuro il bar Marcello di corso Europa, dove si ferma a fare colazione, e la pizzeria Far West di Pontassieve, che frequenta anche perché è l’unico locale della zona aperto fino a tardi (talora vi porta anche i figli Francesco, Emanuele ed Ester, e la sorella Matilde, l’unica che vive in zona: l’altra sorella Benedetta è a Bologna, il fratello Samuele è medico in Svizzera). Tra i suoi amici ci sono osti fiorentini come Fabio Picchi, Torello Latini, Chiara Masiero della trattoria Cammillo («ogni volta ordino la bistecca e lei mi convince a mangiare qualche sua ricetta strana…»). A pranzo vede volentieri Cesare Prandelli, con cui ha un rapporto molto forte, Lorenzo Cherubini (insomma Jovanotti), e Patrizio Bertelli, di cui è stato ospite quest’estate a San Francisco, a bordo di Luna Rossa. Qualche volta, in via riservata, ha visto Roberto Saviano. Le giacche colorate che indossa sono del suo amico Ermanno Scervino, ma è legato anche allo stilista Stefano Ricci: è stato lui, che ha investito in Sud Africa, a portarlo da Nelson Mandela. Si deve invece a Giuliano da Empoli l’incontro con Tony Blair, da cui derivano i rapporti con i fratelli Miliband e con Peter Mandelson, il «principe delle tenebre» che Renzi ha incontrato più volte a Londra. Con Roberto Cavalli l’amicizia è recente. All’inizio fu scontro: il Comune sequestrò la pedana che Cavalli aveva fatto mettere davanti al suo locale, nonostante il divieto della Sovrintendenza. Poi si trovarono insieme a commemorare il massacro di Cavriglia, il borgo dell’Aretino dove i nazisti fucilarono 191 innocenti. Renzi scoprì che tra loro c’era Giorgio Cavalli, il padre dello stilista. Si abbracciarono. Anche con Diego Della Valle era cominciata male: il presidente della Fiorentina convocò una conferenza stampa per chiedere le scuse del Comune sulla questione stadio, l’assessore allo Sport Barbara Cavandoli si dimise, ma poi la passione viola ha ricucito il rapporto con il sindaco. Pure con l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori ci fu qualche contrasto, cui seguì la pace.
Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Beppe Severgnini e Massimo Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto). Al di là dell’antico rapporto con Luigi De Siervo (fratello di Lucia, sua compagna ai tempi degli scout), l’uomo cui se potesse affiderebbe la Rai è Antonio Campo dall’Orto, magari con Enrico Mentana al Tg1.
Tra i politici la prima alleanza fuori le mura di Firenze fu con Rutelli: dei suoi portavoce uno, Michele Anzaldi, oggi è deputato renziano; l’altro, Filippo Sensi, è il nuovo capufficio stampa del Pd (anche se il portavoce di Renzi rimane il fidato Marco Agnoletti, «il mio unico amico juventino»). Tra i veterani, quello con cui è in maggiore sintonia è Walter Veltroni, che però non gli perdonerà mai di avergli scherzato i romanzi («la cosa migliore che ha fatto in questi anni», disse Renzi). Nel tempo ha costruito una rete di sindaci: il novarese Andrea Ballaré, il savonese Federico Berruti, e il lodigiano Lorenzo Guerini, ora in predicato di diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio, forse accanto a Luca Lotti, che Renzi considera un fratello minore (il «fratello maggiore» è Graziano Delrio). Dario Nardella, il più strutturato politicamente della prima cerchia, è stato in questi mesi l’ambasciatore presso la vecchia guardia: D’Alema, Amato, il presidente Napolitano. Strettissimo è da sempre il legame con Simona Bonafé, di cui Renzi è stato testimone di nozze.
Gli è simpatico Flavio Briatore: a chi gli rinfacciava il loro pranzo fiorentino, rispose di essere curioso della destra (non capendo che Briatore non è la destra italiana, ma la sua caricatura). Ha conosciuto le famiglie dell’aristocrazia toscana (il maglione color senape con cui lo si vede spesso in tv è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari). Ma il suo riferimento restano gli scout, dove oltre alla moglie ha conosciuto uno dei più cari amici, Matteo Spanò; suo caposcout era Nicola Danti, consigliere regionale, che lo iniziò alla politica, insieme con l’ex comunista Emanuele «Mene» Auzzi, scomparso nel 2008, di cui ha appeso il ritratto nella stanza da segretario pd. Perché accanto alla spregiudicatezza c’è in Renzi una forte vena moralista, che gli viene anche dal rapporto con il gesuita padre Enrico Deidda, il suo confessore, e con il cognato sacerdote, Filippo Landini, il fratello di Agnese.
il Fatto 13.2.14
Dopo Eataly, Carrai: alla Scuola Holden entrano i Renzi boys
Farinetti, socio principale della società di Baricco, impegnata in un mega progetto da 4 milioni di euro
E nel Cda siede il fund raiser di fiducia del sindaco
di Davide Vecchi
Alessandro Baricco e Oscar Farinetti sono tra gli ipotetici ministri
dell’altrettanto ipotetico esecutivo Renzi. Tra smentite ufficiali e non, è
plausibile che il sindaco fiorentino tenti di presentarsi al soglio governativo
con gli uomini più fidati. E i due, Baricco e Farinetti, oltre a essere amici
del segretario democratico, da pochi mesi sono anche soci. Con esattezza dal 13
maggio 2013, quando il patron di Eataly, attraverso una sua controllata
affidata al figlio Francesco e creata ad hoc appena dieci giorni prima, la
Eataly Media, ha acquistato il 25% della Holden srl di Baricco per 800 mila
euro. Partecipazione poi aumentata fino all’attuale 36,7% a scapito degli altri
due soci, Baricco e la Effe 2005 Gruppo Feltrinelli, che oggi detengono
rispettivamente 31,78 e 31,52 per cento.
Nella Srl torinese c’è anche l’uomo più fidato di Renzi: il suo fund raiser
Marco Carrai, che siede nel consiglio di amministrazione sin dal 14 marzo 2012.
Ed è stato Carrai a presentare Baricco al sindaco fiorentino e a convincerlo a
intervenire alla Leopolda del novembre 2012. Nulla di complesso per chi, come
Carrai, è bravissimo a persuadere imprenditori e finanzieri ad aprire ciò che
hanno più a cuore: i portafogli, così da finanziare le campagne elettorali di
Renzi. La scuola Holden in meno di un anno è diventata un perno dell’universo
renziano. L’arrivo di Eataly Media ha apportato un fondamentale innesto di
nuovi capitali, benché la società di Farinetti sia una srl con un capitale
versato di appena 25 mila euro. Ha un amministratore unico, Francesco
Farinetti, e non si conoscono ancora i conti economici, visto che è nata
solamente nel 2013. Abbiamo più volte cercato di contattare Eataly senza però
riuscire a ottenere una risposta dall’ufficio stampa, in dieci giorni.
Decisamente più disponibile la Holden. La società chiuderà in perdita il
2013, come già avvenuto nel 2012. A confermarlo è il direttore operativo nonché
procuratore speciale Lea Iandorio . “La perdita della Holden srl del 2012
è precisamente di 69.874,00 euro” ed “è stata riportata a nuovo e non è stata
coperta avendo un capiente capitale sociale” versato pari a 2 milioni 180 mila
euro.
“Non sappiamo ancora come uscirà il bilancio 2013 che però sarà sicuramente
in perdita dato che la Holden ha investito in un progetto tutto nuovo e prevede
gli stessi tempi di rientro degli investimenti di una start up (almeno cinque
anni )”, ha spiegato Iandorio al Fatto. La scuola di Baricco nel settembre
2012 ha infatti firmato una convenzione con il Comune di Torino per avere in
uso la ex Caserma Cavalli, un’area di circa 4 mila metri quadrati in cui trasferire
la propria sede. Uno spazio enorme concesso per 30 anni in cambio della
ristrutturazione degli edifici. I lavori saranno completati nel giugno 2014 e
hanno richiesto un investimento economico di 3 milioni 600 mila euro. Un
impegno notevole, considerati anche i risultati registrati dalla Holden negli
ultimi anni. L’ultimo bilancio in utile, per 11 mila euro, risale al 2010.
Insomma il progetto è più che impegnativo, eppure la Holden ha vinto il
regolare bando del Comune ricevendo la benevola benedizione del sindaco Piero
Fassino che ha anche partecipato all’inaugurazione dei primi spazi
ristrutturati nel quartiere di Borgo Dora lo scorso 14 settembre. Quella sera
c’erano tutti . Matteo Renzi è prima intervenuto alla festa del Pd, ha
cenato con Oscar Farinetti e poi i due, insieme, si sono presentati alla Holden
dove ad aspettarli hanno trovato anche Fassino. “Sono qua per amicizia, che è
la cosa più bella che c’è”, disse Renzi all’epoca già impegnato nella campagna
elettorale per le primarie dell’8 dicembre. E magari sarà sempre per amicizia
che porterà al governo Baricco alla Cultura. Non è certo una novità, il sindaco
di Firenze è accerchiato da fidatissimi. Carrai e pochi altri. Maria Elena
Boschi, per dire, è stata inserita nel board della Fondazione Open (evoluzione
della Big Bang) e con ogni probabilità entrerà nell’eventuale esecutivo Renzi.
Ma lei è una politica, non è un imprenditore come Farinetti, fra l’altro
prossimo allo sbarco in Piazza Affari. “Eataly prima o poi si quoterà, ma non
adesso, forse nel 2017, prima deve diventare un po’ più globale”, ha detto
martedì il patron alla presentazione del progetto Fico a Bologna: 80 mila
metri quadrati con un fondo di investimento compreso fra i 95 e i 400 milioni
di euro. “Accidenti ai quattrini, finiscono sempre col darvi una malinconia del
diavolo”, diceva il giovane Holden. Renzi invece preferisce una frase tratta da
Novecento di Baricco: “Non è quello che vidi che mi fermò, ma quello che non
vidi”. L’ha usata per le primarie a sindaco nel 2009. Da allora non s’è mai
fermato.
il Fatto 13.2.14
Individualismi
La Repubblica dei capricciosi
di Franco Arminio
I bambini in Italia sono pochi e durano pochissimo, fino a sei anni.
L’adolescenza ormai va dai sei a sessant’anni. Poi comincia una terra di nessuno,
un’ampia fascia di confine tra l'adolescenza e la vecchiaia. Dunque, le
pizzerie sono piene di adolescenti, il Parlamento è pieno di adolescenti.
Dunque, Renzi è uno statista o un brufolo? Il suo successo viene dalla sua
immagine di figlio. Non ci sono padri sulla scena politica italiana. La faccia
da padre apparteneva a Togliatti, a De Gasperi, a Berlinguer. Berlusconi,
ovviamente, non è padre, al massimo zio impertinente.
Viviamo nella dittatura del capriccio. D’Alema è un capriccioso gelido.
Grillo è un capriccioso furente, sempre di capricciosi si tratta. Se il Pd a
suo tempo avesse dato la tessera a Grillo, il suo movimento avrebbe avuto tutta
un’altra storia. Poi ci sono quelli fintamente pacati, capricciosi anche loro.
Penso al Presidente della Repubblica. I capricciosi non si stancano mai. Il
nostro Presidente non è ancora stanco. Non è stanco Casini. E ovviamente non è
stanco Berlusconi. Tutti animati non da ideali, ma dall’idea di non darla
vinta agli altri. Tutti accesi dal gruppo elettrogeno del rancore, dalle pile
della miseria spirituale. Il tratto distintivo della casta non è l’ingordigia,
quella è distribuita in tutta la popolazione, ma una particolarissima
diserzione dalla serenità. Per arrivare al potere, sia esso culturale,
economico o politico, bisogna essere dotati di un qualche squilibrio, di una
foga senza fine. E allora c’è da riflettere sulla democrazia. Tutti possono
concorrere, ma vincono i più aggressivi, i più ossessivi, non quelli che hanno
le idee migliori. La differenza col passato è che non abbiamo e forse non
avremo più Caligola e Hitler e Mussolini, ma gente come Berlusconi, Renzi,
Casini. Più che cupe follie, ora siamo all’agonia ciarliera di una
democrazia consumista che è diventata sempre più merce di se stessa. L’uomo politico
è un intrattenitore, in qualche caso un artista, anche se di infima categoria.
Berlusconi ha portato in Italia il surrealismo di massa. Renzi ha riesumato il
futurismo. Più che di correnti politiche, dovremmo parlare di correnti
letterarie. Non ci sono più i progressisti e i conservatori, ma i cultori del
sonetto, Napolitano, e i cultori del verso libero, Grillo. In nessun posto al
mondo esiste un programma televisivo che dura tre ore, ma che conta solo per le
cose che dice un comico nei primi cinque minuti: tutto il resto è una sorta di
appendice, un velo lunghissimo e pietoso. Crozza illustra come stanno le cose.
Gli invitati in studio stanno lì a convalidare lo stato inerte e delirante di
tutta la nazione.
In un contesto del genere non ha senso cambiare governo e neppure
Parlamento, è come truccare una faccia che non esiste. Gli italiani, ognuno col
suo potere (nessuno ne è completamente privo, perfino il più avvilito
mendicante), devono capire che lo spettacolo della politica non può durare all’infinito.
Il mondo si fa per le strade, nelle case, dentro la terra, non sugli schermi
della finzione globale, non tra le ombre digitali della finanza e della Rete.
L’agenda delle riforme dovrebbe vedere al primo posto il ritorno delle cose
vere. E ognuno di noi deve partecipare a questa riforma con un gesto, con
un pensiero radicalmente onesto. Essere adulti è questo, nient’altro che
questo. Forse facciamo ancora in tempo a evitare il tempo in cui di noi diranno
che fu finta anche la vita più convinta.
l’Unità 13.2.14
Uno scontro pericoloso che mette a repentaglio il Pd
di Michele Prospero
Riuscirà la direzione Pd convocata
per oggi a conservare una unità politica reale risolvendo però le antinomie che
agitano questa convulsa fase parlamentare? La crisi è in una cristalleria,
dichiara Letta. E bisogna muoversi con delicatezza perché tutto si può rompere
rimanendo feriti tra i vetri andati in frantumi.
senza farsi del male? Chi
prevedeva un Letta remissivo, pronto a lasciare la strada al nuovo che avanza, deve
ricredersi. Rivendica con puntiglio i successi mietuti contro l’emergenza
economica e rilancia sul patto di coalizione. Accenna anche a grandi piani per
la crescita e il lavoro indicando degli stringenti tempi di attuazione
programmatica. Egli stesso però rivela la sua estrema debolezza politica quando
dichiara che a Palazzo Chigi ha vissuto come se ogni giorno fosse l’ultimo.
Come rilanciare una credibile grande politica se non muta la forza che dovrebbe
sorreggerla e anzi il sostegno alla sua leadership declina in una maniera che
pare irreversibile?
Lo scontro nel Pd è esplicito,
come chiara è la maschera che ciascuno dei duellanti indossa per affrontare la
prova finale. Da una parte si colloca l’uomo delle istituzioni, che si presenta
come il capo di un governo di servizio, senza alternative perché maturato in un
Parlamento bloccato e immerso nell’emergenza più cupa. Anche se con garbo e
qualche pizzico di ironia su chi gli aveva garantito di governare sereno, il
presidente del Consiglio resiste all’assalto, lui le chiama esplicitamente
manovre di partito. Dall’altro si muove il leader del partito che dopo le
primarie crede che solo la sua immediata assunzione della guida del governo sia
la condizione per ricaricare la batterie bagnate dell’esecutivo.
Nella direzione di oggi l’esito
del duello può ritenersi scontato. Visti i rapporti di forza usciti dalle
primarie, si sa dove pende la bilancia, tanto più che anche la minoranza pensa
di inchiodare il suo vecchio antagonista, ma consegnandogli i pieni poteri di
governo e di partito. In ogni caso, il confronto è senza infingimenti e pare
tutt’altro che indolore la soluzione del rude contrasto. Due punti di vista in
netta antitesi si affrontano, e nessuno dei contendenti sembra disposto ad
arretrare di un palmo. Letta non può accettare che in condizioni politiche
invariate proprio a lui tocchi firmare la resa, quasi a certificare che solo un
deficit personale di leadership sia alle origini dell’immobilismo. E però è
palese che la diarchia tra partito e governo non può perdurare in una stasi
altamente conflittuale.
Se la debolezza principale
dell’esecutivo risiede nella diarchia competitiva che ha eroso la sua base di
sostegno, l’accorpamento delle cariche di segretario e di premier in una sola
persona, e senza la ratifica di un passaggio elettorale di investitura, non
basta a scappare dalla palude. Non solo rimangano le sorde resistenze di chi è
stato defenestrato in maniera che ritiene cruenta e serba un naturale spirito
di vendetta.Ma se i rapporti parlamentari restano nella sostanza invariati
rispetto agli attuali, è una grossa incognita la velleità di trasformare un
governo di scopo (sotto continua tutela del Quirinale) in un autarchico governo
di partito.
Il peso dei piccoli partiti e il
calcolo delle loro convenienze immediate (può Alfano, in cambio di una utile
rassicurazione circa un lungo governo di legislatura accettare una coloritura
sempre più politica dell’esperienza?) può minare alla radice la svolta
annunciata. Anche l’esaurimento del mandato politico-istituzionale all’insegna
di una discreta supplenza con cui era stato configurato il secondo mandato di
Napolitano, apre scenari sistemici al momento imprevedibili. Per non parlare
della preventivabile reazione di Berlusconi che non si lascerà certo
depotenziare dopo il clima idilliaco della «profonda sintonia» riscontrato
sulle materie elettorali. La mancanza di condizioni economico-finanziarie
favorevoli per determinare una credibile inversione di rotta, la invarianza
delle condizioni europee e internazionali di fondo, la comparsa di guerriglie
parlamentari fratricide: questo è il presumibile scenario di una staffetta non
consensuale.
Il Pd rischia di esplodere. Il
ritorno a pratiche da prima repubblica, con i nuovi equilibri congressuali che
mutano rapidamente la geografia di governo, senza però la presenza di quegli
attori e soprattutto delle pratiche di assorbimento delle accese tensioni,
rischia di lasciare per strada solo cadaveri e nessun reale vincitore. Il
paradosso che la riunione del Nazareno deve rimuovere è quanto mai insidioso:
non ci sono le condizioni politiche né per sostenere il sogno di Letta, di
vedere la metamorfosi di un governo incerto in un alfiere di grande politica,
né per sorreggere un governo di legislatura evocato da Renzi e operante con un
tocco miracoloso in ogni campo, dal lavoro alle riforme costituzionali. Saprà
il Pd trovare un comune obiettivo realistico per impedire che un irriducibile
scontro di personalità tra loro antagoniste assuma i segni di un epilogo drammatico?
Corriere 13.1.14
Giochi pericolosi
di Ernesto Galli della Loggia
Nell’Europa «normale» si diventa capi del governo dopo aver vinto le elezioni, in Italia no. Da noi basta vincere (sia pure alla grande) le primarie del Pd. Infatti, salvo colpi di scena dell’ultima ora sempre possibili, Matteo Renzi sarà chiamato tra pochissimo alla carica di presidente del Consiglio: non solo senza aver mai partecipato a una competizione politica nazionale, e tanto meno aver in essa vinto alla testa di un partito, ma senza neppure sedere in una delle due Camere elettive, dal momento che, come si sa, egli non è né deputato né senatore. Una delle tante anomalie della vita pubblica nella patria della Costituzione «più bella del mondo».
Le anomalie però talvolta costano care. E ad accorgersene potrebbe essere proprio Renzi. Sostanzialmente inviso a una parte notevole del suo partito, la vera forza del sindaco di Firenze è stata fino a oggi nella simpatia e nel consenso che egli sapeva ottenere presso l’opinione pubblica. Ma quando siederà a Palazzo Chigi — non portatovi però dal successo elettorale che quel consenso prometteva, bensì da una decisione tutta interna al Pd — sarà principalmente se non solo con il suo partito che egli dovrà vedersela. Da presidente del Consiglio — arrivatovi tuttavia nel modo che proprio lui aveva tante volte condannato: per designazione di una nomenclatura di partito — non potrà fare appello ad alcuna volontà popolare, ad alcun patto politico con gli elettori. Sarà solo. Solo, alle prese con quegli intrighi, quelle giravolte, quelle vendette, abituali nel campo dei Democratici, che oggi amareggiano il triste commiato di Enrico Letta, e che domani — come dubitarne? — cominceranno subito, implacabilmente, a lavorare ai fianchi anche lui.
Renzi dunque dovrà governare senza l’appoggio manifesto di alcun «Paese reale». Per giunta dovrà farlo dovendo vedersela con due potenziali contraddizioni destinate con molta probabilità ad agitare in permanenza la sua maggioranza. La prima è l’eterogeneità di questa stessa maggioranza. Il suo, infatti, per il programma e per l’ambizione rinnovatrice, non potrà che presentarsi come un governo di centro-sinistra organico, come si dice: perché solo così egli potrà dare un segnale di svolta rispetto alle «larghe intese». E però sarà l’unico governo di centrosinistra al mondo in cui siederanno ministri di un partito che si chiama Nuovo centrodestra. Un Ncd, tra l’altro, che difficilmente, c’è da immaginare, potrà sottoscrivere alcuni punti caratterizzanti del programma «rinnovatore» del presidente del Consiglio (unioni civili et similia ). Che cosa farà allora Matteo Renzi?
E come farà, per dire della seconda delle due contraddizioni di cui sopra, a condurre in porto le riforme istituzionali, sulle quali pure egli si gioca tanta parte della propria fortuna politica?
Come farà cioè — poiché i numeri sono quelli e non c’è nulla da fare, dei voti di Berlusconi egli ha bisogno — a convincere Forza Italia, principale forza d’opposizione, a votare però insieme a lui le suddette riforme? Sarà mai possibile far procedere il programma di governo con una maggioranza e quello delle riforme istituzionali con un’altra, nonostante che ci sia la stessa persona a rappresentare entrambi? Come si vede la decisione che Renzi deve prendere in queste ore è quanto mai difficile. In sostanza è una scommessa sulle proprie capacità poliedriche, di essere in grado di giocare sulla scena della politica e della vita parti diverse tenendole insieme, o passando da una all’altra senza rompersi l’osso del collo. Fino a oggi la parte di Giamburrasca del Pd, domani quella di Mandrake di Palazzo Chigi.
Corriere 13.2.14
Il dualismo tra i leader diventa un conflitto che avvicina la crisi
di Massimo Franco
I punti fermi sono due: il «no» di Giorgio Napolitano all’ipotesi di elezioni anticipate; e il «no» di Enrico Letta all’idea di farsi da parte senza una sfiducia esplicita. Ma oggi potrebbe arrivarne un terzo, destinato almeno nelle intenzioni a sparigliare i precedenti: la decisione del segretario del Pd, Matteo Renzi, di porre un aut aut al premier.Non ci sarà un appoggio al «patto per il 2014». O il sindaco di Firenze va a Palazzo Chigi, o, se Letta non getta la spugna, si rischia di andare tutti alle urne: questo direbbe oggi Renzi alla Direzione del proprio partito. Magari additando il capo del governo come figlio del Pd che non ha vinto le elezioni del 2013, e che si rifiuta di prendere atto dei nuovi rapporti di forza. Uscire dal ginepraio sarà difficile. Soprattutto, sembra impossibile un compromesso tra i due.
Se non arriva una mediazione in extremis del Quirinale, che ha definito «sciocchezze» le voci di voto, si intravede un percorso che non esclude una crisi di governo; forse elezioni anticipate con il sistema proporzionale, perché non ci sarebbe tempo per la riforma. E magari primarie per Palazzo Chigi con Letta e Renzi a contendersi la carica. Ma lo scontro nel Pd sta portando rapidamente l’Italia sull’orlo dell’ennesima anomalia. La riconsegna a un’instabilità che non è solo politica ma anche economica, con conseguenze internazionali immaginabili e un po’ da brivido. Senza volerlo, la nuova generazione del Pd rischia di logorarsi e di fare una splendida campagna elettorale a beneficio di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo.
D’altronde, che qualcosa non funzionasse si è capito dopo l’incontro tra Letta e Renzi ieri mattina a Palazzo Chigi. Le fonti del partito sostenevano che il colloquio era andato bene, o almeno «benino», nella versione del segretario. Ma quasi in tempo reale, Letta faceva sapere che ognuno dei due «è rimasto sulle rispettive posizioni». Il fantasma della rottura si è materializzato in quel momento, col segretario pronto a replicare: «In Direzione parlerò a carte scoperte». Seppure in maniera guardinga, gli alleati di Letta e i candidati al governo di Renzi già fanno capire di essere pronti a un altro esecutivo.
Una maggioranza che va dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano al Sel di Nichi Vendola, magari con qualche scheggia del Movimento 5 Stelle, sa di azzardo. E comunque, per provare a formarla bisogna aspettare la Direzione odierna del Pd e il modo in cui sarà chiesto a Letta di gettare la spugna. Ieri, nella conferenza stampa nella quale ha presentato con parole orgogliose e un’ira fredda «Impegno Italia», il premier ha tenuto a ribadire di essere «un uomo del Pd» e delle istituzioni. Non è chiaro, dunque, se basterà la sfiducia del suo partito a farlo dimettere, senza un passaggio in Parlamento. Ma avvertendo Renzi che la crisi potrebbe «finire male» perché ci si muove «come in una cristalleria», ha mandato un avvertimento chiaro.
Ha accusato il segretario del Pd di avere perso tempo, per poi imputare a Palazzo Chigi i ritardi. «Ognuno deve dire quello che vuole fare, a carte scoperte: soprattutto chi vuole venire al posto mio. Le dimissioni non si danno per dicerie e manovre». Letta, tuttavia, è il primo ad ammettere che il governo «ha cambiato natura». Nella sua ottica, questo legittima un «Letta bis»; per Renzi, invece, impone un cambio col segretario a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura, nel 2018. Progetto ambizioso; e contraddittorio, dopo avere negato per mesi di volere prendere il posto di Letta senza passare per le elezioni. Un Pd spaventato dalle urne proietta Renzi al governo: non da «rottamatore», però, ma come puntello di un Parlamento che cerca di sopravvivere, e di gruppi economici che considerano l’instabilità politica non un limite ma un’occasione.
il Fatto 13.2.14
Sindrome Pd, Renzi-Letta botte da orbi
Lo scontro sul governo arriva oggi in Direzione
Il premier non si sposta da Palazzo Chigi
Il rottamatore minaccia i suoi di portarli alle urne
Intanto il partito è già alla frutta
di Wanda Marra
L’hashtag è io sono sereno, anzi zen”. Enrico Letta strappa la risata ai
cronisti accorsi alla sua attesissima conferenza stampa convocata alle 18 a
Palazzo Chigi per rilanciare l’azione di governo, mentre praticamente tutto il
suo partito, per non dire tutto l’arco parlamentare, lo dà per morto. “Per lui
ci vuole un trattamento sanitario obbligatorio”, commenta una deputata
democratica della minoranza. Battuta forte, che dà il senso degli umori di una
giornata che corre come un treno lanciato a velocità supersonica verso la
direzione di oggi. Quella in cui il Pd dovrebbe togliere la fiducia al governo
del suo ex vice segretario. Con una resa dei conti plateale di cui non si ha
memoria nella storia di un partito che ha sempre tramato nell’ombra e consumato
i suoi leader, ma mai alla luce del sole.
La giornata si svolge nella più classica altalena di notizie, supposizioni,
smentite. Comincia con il Renzi uno che sembra praticamente fatto. C’è solo un
ostacolo: il presidente del Consiglio in carica. E allora, ecco, che i due,
premier e segretario, si incontrano. Sono le 11 e mezza quando Renzi arriva a
Palazzo Chigi su una smart. Enrico e Matteo parlano per un’ora e un quarto. Un
incontro “franco” e “sincero” lo descriverà più tardi il presidente del
Consiglio. In realtà è così teso che anche il racconto che ne fanno le parti è
totalmente diverso. Renzi dice ai suoi che Enrico alla fine avrebbe ceduto: “Mi
dimetto. Cerca di attrezzarti, perché fare il premier non è facile”. I lettiani
raccontano un altro film, con il premier che avrebbe sfidato il sindaco: “Sei
tu che mi devi sfiduciare”. Finisce con strette di mano tanto poco cordiali,
quanto interlocutorie. Il tempo di arrivare al Nazareno e Renzi si trova
davanti l’agenzia in cui Letta annuncia la conferenza stampa di rilancio
chiarendo: “Renzi e Letta dopo l’incontro sono rimasti sulle loro posizioni”.
Il segretario è furibondo: “Non mi aveva detto di voler andare allo scontro”,
si sfoga con i fedelissimi. Gli vengono anche dei dubbi: sarà stato lo staff a
fargli cambiare idea? Fuma rabbia, studia la controffensiva. Il governo Renzi
sembrava cosa fatta e non lo è. Nel frattempo , Sel è divisa e non così
pronta a fare un governo con lui. Anzi, in serata Vendola lo chiarisce: “Se
resta lo schema di Letta è impossibile sostenere Renzi”. I grillini in Senato
da dieci sono arrivati a 4.
Non sembra esattamente un arrivo in carrozza a Palazzo Chigi, un pressing
così insostenibile da giustificare la staffetta. E allora, partono i dubbi, le
paure. Matteo non è ancora arrivato a Palazzo Chigi e il logoramento è già
partito. Lo dicono le facce dei renziani, che si aggirano per il Transatlantico
senza sapere bene cosa fare e cosa dire. “Come se n’esce?”, la domanda più
gettonata. Renzi al partito convoca la solita cabina di guerra. Con lui fissi
ci sono Davide Faraone, Maria Elena Boschi, Stefano Bonaccini, Lorenzo
Guerini, Luca Lotti. Nel corso della giornata si affacciano un po’ tutti. Prova
a mediare tra i due Dario Franceschini. A un certo punto il segretario chiama
il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. Il messaggio più o meno è
questo: “Io Letta non lo posso sostenere, a questo punto dì a tutti di
prepararsi al voto”. Ci pensa Napolitano a chiarire: “Elezioni? Niente
sciocchezze”. Renzi è furibondo per buona parte della giornata. Poi a un
certo punto si calma. I riscontri gli sembrano positivi da tutti. Alfano in
chiaro non si sbilancia: “Renzi premier? Nulla è scontato”. A molti sembra
un’apertura di credito. Lui comunque mette il turbo e va avanti. È deciso a non
mollare, a non fermare la corsa verso Palazzo Chigi. “Serenità” è il messaggio
che trasmette. “Tra una settimana cambia tutto”. La conferenza stampa di Letta
i renziani se la vedono al partito. “Il programma di Letta è il
pro- gramma di Renzi”, ironizzano. Il premier parla non di rimpasto ma di
nuovo governo, con un orizzonte lungo, le riforme. “Sono un uomo delle
istituzioni. Le mie personali aspettative non c’entrano niente, né quelle
attuali, né quelle che mi hanno prospettato”. Affonda: “Le dimissioni non si
danno per dicerie e manovre di palazzo. Chi viene al posto mio deve venire
a dire cosa vuole venire a fare”. Il messaggio è chiaro: Matteo è un
ambizioso sfrenato e inaffidabile. E Napolitano è con lui, dice. “Non è vero -
si sfoga Renzi - il Quirinale lo ha mollato”. A Montecitorio i renziani danno
corpo ai sospetti: “Enrico vuole fare un altro partito, una formazione
centrista”. Davanti alla sfiducia di oggi della direzione, Letta fa capire che
potrebbe prendere atto e dimettersi. Ma glielo devono dire in faccia. I
renziani sono sprezzanti. Carbone dà la linea: “L’obiettivo di Letta è tirare a
campare”. Nel Pd l’operazione Letta-dimissioni va avanti. Renzi sonda un po’
tutti: nessuno ha voglia di difendere il soldato Enrico.
La minoranza al massimo sta a guardare: in fondo è uno scontro tra due
uomini che nulla hanno a che fare con la storia degli ex Ds. Forse qualcuno si
asterrà, ma i renziani sono l’80%. “Quando c’era da fare la battaglia contro
Renzi ci ha lasciati da soli”. Si lavora per trovare chi dovrà fare
l’intervento ufficiale per chiedere la testa del premier. Renzi riflette con i
suoi: “Pensava di farmi saltare i nervi, ma non ci riuscirà. In direzione
ascolterà un po’ e poi si dimetterà”. Poi, la battuta per la lapide: “Pensava
di essere Andreatta, è solo un Andreotti minore”.
l’Unità 13.2.14
Ora il Pd rischia di farsi male. Oggi Direzione ad alta tensione /1
Letta sfida Renzi: «Vuoi il mio posto?
Sfiduciami. Ma la gente è contraria»
di Ninni Andriolo
Raccontano che l’incontro «franco»
di Palazzo Chigi, durante il quale - spiega Letta - «ognuno ha fatto le proprie
valutazioni molto sinceramente », ha assunto in realtà le caratteristiche del
muro contro muro fin dall’inizio. «Enrico me lo chiedono in tanti - avrebbe
esordito Renzi - Anche perché il governo non è all’altezza. Io voglio provarci,
ma voglio il tuo via libera ». «Matteo li hai visti i sondaggi che bocciano la
staffetta? - avrebbe replicato il premier - Hai visto i tweet e Facebook?
Nessun via libera, io non mi dimetto. Assumiti le tue responsabilità alla luce
del sole e sfiduciami apertamente». La reazione del premier ha destato
sorpresa, spiegano. Fin da martedì i renziani davano per imminente il passo
indietro di Letta dopo l’annuncio della disponibilità del leader Pd a guidare
il governo. Il presidente del Consiglio però non si è fatto da parte. Martedì
sera ha fatto filtrare la sua intenzione di andare avanti e ieri ha convocato
una conferenza stampa per presentare Impegno per l’Italia (coppie di fatto,
promozione di nuova occupazione, riduzione del costo dell'energia, sostegno
alle imprese, ius soli, ecc.). Il contratto di maggioranza pronto da tempo e
messo nel cassetto «per garbo istituzionale », perché Renzi - segretario del maggior
partito della coalizione - aveva chiesto di dare precedenza alla riforma
elettorale. «Perché lo presentiamo solo adesso? - ha spiegato ieri il premier -
Perché sono rispettoso degli impegni che ci siamo presi. Il primo era sulla
legge elettorale. Io ho atteso, com'è giusto che si facesse, perché sono un
uomo del Pd, e rispetto il partito. Il Pd ha chiesto e deciso di votare prima
la legge elettorale». La frecciata a Renzi, quindi. «Sono stato accusato di
aver perso tempo. Se perdita di tempo c'è stata, non è stata colpa mia...».
Sfida in campo aperto
Ma la polemica nei confronti del
leader Pd va oltre. «Tutto deve avvenire in campo aperto - ha spiegato ieri il
presidente del Consiglio - La discussione sul futuro del governo dovrà
svolgersi sui contenuti e non sui personalismi. Ho sentito parlare già di liste
di ministri, ma io sono al governo e sono abituato a partire dalle cose da
fare. Le dimissioni poi, non si danno per dicerie e giochi di palazzo e io non
rompo la continuità di governo per dare ascolto a questi...». Sfida aperta di
Letta al sindaco di Firenze alla vigilia di una direzione Pd che dovrà decidere
sul governo. Il premier non ha ancora deciso se si sposterà al Nazareno o
rimarrà a Palazzo Chigi. La cosa certa è che non intende «fare alcun regalo a
Renzi» dandogli vantaggi, mentre dal Pd vengono fatte filtrare notizie su un
leader democratico «furibondo » con il presidente del Consiglio.
Letta, in realtà, è convinto che la base del Pd - fax e social network alla mano - non ha
compreso l’accelerazione verso la crisi, «l’operazione tutta mediatica» che
punta a portare Renzi a Palazzo Chigi, nelle stesse settimane in cui è in corso
il pressing del premier per imprimere una svolta all’azione di governo e per
mettere in campo un Letta bis che imponga all’esecutivo un cambio di passo.
Osservata da Palazzo Chigi, e a dispetto dei titoli di prima pagina che danno
per certa «la staffetta» entro la settimana, la partita per il governo «è tutta
aperta». Anche perché l’iniziativa di Renzi, e il «vado avanti» di Letta,
avrebbero determinando ripensamenti in quello che sembrava un fronte esteso che
si orientava verso il sì al Renzi 1. Chiaro che gli spazi su cui cerca di far
leva la reazione del premier potrebbero richiudersi decretando la bocciatura Pd
al governo. Ma lo scontro non sembrava scongiurato, stando a ieri sera. E
questo malgrado un po’ tutti - lettiani, renziani, ecc - ammettessero che «la
notte sarà lunga e i colpi di scena sono possibili».
Il conflitto d’interessi
«Chi vuole venire al mio posto
dica cosa vuol fare - attacca il premier, alludendo a Renzi - Giochi a carte
scoperte ». E rilancia sull’economia e sulle riforme (conflitto d’interessi
compreso), perni del contratto di governo che destina 30 miliardi per ridurre
le tasse e venire incontro a famiglie e imprese. Il Letta bis che il premier ha
in mente? Un governo non a termine, la cui durata à legata alla realizzazione
delle riforme. Se Renzi promette un esecutivo che duri fino alla fine della
legislatura, il premier mette da parte il traguardo del 2014, convinto com’è -
tra l’altro - che si debba andare «oltre» il semplice rimpasto. Il ministero
degli Esteri o la poltrona di Commissario europeo che gli avrebbe offerto
Renzi? «Le mie prospettive personali non contano nulla - ribadisce il premier -
sono qui per un profondo attaccamento alle istituzioni È per quello che è nato
questo governo di servizio. Mi considero un uomo delle istituzioni e da tale mi
comporterò».
Evidenza istituzionale
Letta potrebbe dimettersi solo se
sfiduciato dal Parlamento qualora la direzione Pd sancisse la fine del Letta 1?
Il premier sfuma, si lascia tutte le porte aperte. Quella di prendere atto di
un pronunciamento del Pd oggi stesso, perché il pollice verso del gruppo
dirigente del maggior partito della coalizione potrebbe rappresentare una di
quelle «evidenze istituzionali » che potrebbero essere espresse «in vari modi».
L’importante è che «la crisi venga affrontata con la logica della cristalleria
(cioè della trasparenza, ndr.), altrimenti può fare male». «Vari modi» però
significa anche salire al Quirinale e chiedere di «parlamentarizzare » la
crisi. Per chiedere un voto di fiducia o - in alternativa - per presentare
Impegno per l’Italia (il lavoro fatto) e dimettersi subito dopo davanti alle
stesse Camere che gli votarono la fiducia.
«Ogni giorno è come se fosse
l’ultimo e in tanti hanno cercato di cacciarmi in questi otto mesi», commenta
Letta. E ricorda che «abbiamo realizzato molto» e che il Paese segna oggi «una
crescita piccola che rappresenta un’inversione di tendenza». «Dopo questa
esperienza - ha concluso ieri il premier - potrei perfino insegnare pratiche
zen in qualunque monastero ».
il Fatto 13.2.14
Il primo ministro
“Le dimissioni non si danno per manovre di Palazzo”
di Antonello Caporale
Come se una bolla magica l’avesse trasformato in mezzo brigante, tutto d’un
tratto Enrico Letta ha presentato all’Italia il suo quid alternativo: se Matteo
mi vuole cacciare me lo deve dire. Senza acuti, con spirito zen, la faccia
levigata, perfettamente rasato e di un magnifico pallore dc, Letta ha sferrato
calci e pugni con quella gentilezza che lo distingue, “io sono un uomo delle
Istituzioni”. Tonico e perfino su di giri è giunto nella palestra di Palazzo
Chigi per dare al Paese la prova che nulla è impossibile: oggi è la volta
dei due premier in contemporanea. Altro che la lotta tra D’Alema e Veltroni. Il
nuovo che avanza è pieno di sciabolate. Chi spinge per entrare e chi non si
sposta. Letta ha ritrovato anche gli aggettivi giusti, ed è parso molto free,
persino disinibito. Ha detto che Matteo è un casinista (gli crediamo) e sta
“incasinando” l’Italia come peggio non potrebbe fare.
E’ un manovratore di Palazzo, si muove come un elefante in cristalleria, si
nutre di sé. Protagonista e insieme vittima del suo ego, della sua personalità
biodegradabile, dell’assetto mutevole delle poche e blande convinzioni. Un
incontinente, un animale che spiana, pialla, distrugge, affossa. Un rottamatore
professionista, il peggio del peggio possibile. “Chi vuole venire qui al posto
mio sa cosa deve fare”, ha avvertito Letta. Incredibile, ma era ancora Letta
che stava parlando, quello della Provvidenza (solo ieri l’altro aveva invocato
l’Onnipotente salmodiando alcuni concetti), l’oltranzista delle parole imbelli,
caramellose, convenzionali e anche tristarelle. È successo che la visione di
Renzi al mattino, quell’incontro disturbatore (“Tu sei sleale”, gli ha
detto Enrico) gli avesse ricaricato le batterie e gonfiato i muscoli, come
braccio di ferro a contatto con gli spinaci. Da ex mite, si è andato
decisamente sviluppando in lui l’ira dell’oppositore. Perciò le sue parole sono
parse più affilate, la gomma è scomparsa e i trucchi della diplomazia, le
cerimonie di Palazzo non hanno retto. Letta non ha ridotto l’enfasi dello
scontro inchiodando Renzi ai suoi brufoli. Dunque l’animo calmo si è gonfiato
di un sentimento cattivello e un tantino carognesco. E compresa appieno la
dimensione della festa che gli sta preparando il suo segretario nei brevi
scambi di colpi mattutini (incontro “franco”) ha deciso che bisognasse
assestare colpi precisi sopra e sotto la cintura. La vista dell’arrogante Smart
parcheggiata dall’usurpatore a Palazzo Chigi (il ministro Franceschini è corso
a fotografare l’auto del nuovo Capo, forse in segno di giubilo) gli ha fatto
decidere per lo scontro totale. È andato a pranzo a casa, ha scelto la cravatta
giusta (quadratini istituzionali su un viola riflessivo) ed è tornato nella sua
stanza consapevole che all’Italia non potesse essere risparmiato il più grande
spettacolo che si ricordi. Tu spingi? Io resisto. La prova di Letta è stata
anche molto più suggestiva di quella che ebbe per protagonista Gianfranco
Fini. Non solo perchè il “che fai, mi cacci?” diretto a Berlusconi suona ora assai
più dozzinale della metafora del foglio excel (nella grammatica renziana il
computer e particolarmente Twitter è il Sol dell’avvenire): ecco il programma,
c’è scritto cosa faremo, in che temnpi, e con quali soldi. “E io metto
l’hashtag: sonoserenoanzizen”. Se Fini, poveretto, gridava ai piedi del palco
sul quale era assiso un tonante e dominante Berlusconi. Enrico invece parlava
seduto ancora sulla poltrona di premier. “Sono pronto a un nuovo governo”.
Bellissimo . La mossa puramente teatrale ha però sortito i suoi effetti.
Perchè la resistenza ha iniziato a infastidire Renzi e anche a renderlo un po’
nervoso.
Figurarsi Napoletano, che mai si era trovato spettatore di una guerra così
banditesca, efferata, distruttiva. Il Pd è stato colpito da un poderoso silenzio,
una sorta di sforzo riflessivo perchè la commedia politica, che assume aspetti
tragici, sta andando oltre le previsioni. Ieri pomeriggio parlavano tutti
tranne loro. Parlava Alfano, pronto a salire sul carro di Renzi ma con profondo
dispiacere (“È vero, ha detto Letta, lui con me è stato leale”). Parlavano i
quattro gatti di Scelta Civica, pronti alla nuova avventura. Si divideva
perfino Sel. Vendola vorrebbe centrare l’obiettivo di dare i voti a Matteo, col
quale si deve alleare alle prossime elezioni, senza dirlo troppo in giro. Tutti
a commentare, ma i protagonisti no. Oggi Renzi reagirà da par suo. Letta giura
che aspetterà la gragnuola di fendenti seduto sulla sedia, coraggiosamente col
petto in fuori. Interverrà nella discussione e tenterà di portare la conta
verso il disordine, una spaccatura finora non registrabile. Se fosse così
proseguirebbe la sua corsa andando a chiedere il voto di fiducia ai
parlamentari. Ma sa di non potersi illudere: le truppe sono già allineate e
coperte. Toglierà le tende quando si alzerà il moto ondoso, l’indice all’ingiù
degli ex amici. Dalla sua parte solo pochi aficionados. La politica è
convenienza, si sa. Enrico ha già convocato il consiglio dei ministri per
l’addio (venerdì alle ore 14), e ieri ha fatto la foto insieme a tutti i suoi
collaboratori. “Oggi siamo andati benissimo”, ha detto. Chiuso il fascicolo,
rimesso nella cartellina il documento programmatico, ha spento la luce ed è
andato a casa.
l’Unità 13.2.14
Ora il Pd rischia di farsi male. Oggi Direzione ad alta tensione /2
Il segretario deciso alla rottura «Questo governo ha chiuso»
di Maria Zegarelli
È furibondo Renzi quando legge la nota di Palazzo Chigi che riassume
l’incontro tra lui e Letta. Il premier sostiene che nulla è cambiato, ognuno
sulle sue posizioni.
È furibondo perché il segretario del Pd aveva avuto un’altra impressione,
l’aveva anche scritto in un sms ai suoi parlamentari, «incontro positivo ».
Vale a dire: Letta potrebbe fare il passo indietro che ormai tutti gli chiedono
di fare. Perché il segretario era stato chiaro con il premier: «Enrico per il
partito il sostegno a questo governo non è più sostenibile, l’opinione pubblica
non ha più fiducia nell’esecutivo, le forze sociali chiedono un cambio di passo
deciso ». Letta aveva sì difeso il suo lavoro e il suo Patto 2014 ma non aveva
alzato un muro. Ecco perché è molto più che furibondo Renzi quando ascolta la
conferenza stampa del premier, indetta alle sei del pomeriggio (e di cui non
gli aveva fatto menzione durante il faccia a faccia di fine mattinata) con la
quale Letta lo sfida senza giri di parole: «Chi vuole il mio posto dica cosa
vuole fare».
Un affronto che, raccontano i fedelissimi del segretario Pd, Renzi non si
aspettava in questi termini. Tanto che il commento a caldo che fa con i suoi
fedelissimi è che questo governo «per quanto mi riguarda è finito. È
un’esperienza conclusa». E questo intende ripetere stamattina nella sua
relazione, una relazione con la quale ripeterà il concetto, resta da solo da
capire con quanta durezza, di un governo che avrebbe potuto fare e non ha fatto
e di un tempo che ormai è scaduto. Sarà Napolitano, è il ragionamento, a
decidere se ci sono ancora le condizioni per andare avanti. Per il segretario
Pd no, non ci sono.
Meno che mai dopo l’evoluzione della giornata di ieri. Letta, di fatto,
mette il cerino nelle mani del segretario - decida lui, decida la direzione del
partito, decidano le Camere. «Ecco il mio programma, ecco le coperture
economiche e se finora non ho agito non è colpa mia ma di chi mi ha detto che
era necessario approvare prima la legge elettorale. Cioè Matteo Renzi - .Eallora
adesso decida lui», questo il senso nudo e crudo del messaggio che urbi et orbi
il premier manda in diretta tv.
il Fatto 13.2.14
Il segretario
“Mi ha preso per il culo”, ma ora è arrivata l’offensiva finale
di Fabrizio d’Esposito
Dalla staffetta, abusata metafora, al derby. Dal Jobs act, sospeso nel
limbo degli annunci, al Jab Act: il gancio al Nipote, nomignolo sprezzante con
cui Renzi appella il premier, è stato fulmineo, improvviso, forte. L’effetto
stordimento è durato per tutta la giornata, iniziata con l’arrivo in Smart a
Palazzo Chigi (l’auto è del suo amico Ernesto Carbone, deputato) e con un post
del papà Tiziano su Facebook. Di rigore il linguaggio calcistico: “Ricevo
appassionati post che mi implorano di sconsigliare Matteo dall’accettare
il trappolone. Anche se fossi ciecamente convinto che mio figlio stesse
assumendosi un rischio elevatissimo di battere una boccata, mai e poi mai
suggerirei di non affrontare il rischio, e per dirla con le sue parole, mai e
poi mai suggerirei di rifiutarsi di battere un calcio di rigore per paura di
sbagliarlo”.
Da giovedì tredici, non proprio venerdì, Matteo Renzi è costretto a
inseguire se stesso in una direzione destinata a diventare il film più
atteso della stagione. E che potrebbe essere il primo caso repubblicano di una
direzione di partito che sfiducia un proprio presidente del Consiglio a viso
aperto. Qui siamo oltre la sinistra modello Tafazzi. Molto oltre. A “Matteo”,
dicono i suoi il pericolo non sfugge. Il duello è più sanguinoso del
previsto e di politico ormai non ha più nulla. Tra i due è una questione
personale, tra l’odio e il disprezzo. Beppe Fioroni, che di democristiani se ne
intende, certifica che “Matteo è il vero democristiano tra i due”. Se davvero
fosse così, oggi “Letta” verrà pugnalato in una precisa liturgia di partito. La
relazione di Renzi, poi i capigruppo che faranno la cerimonia delle pugnalate,
sostenendo la necessità di un altro governo. Nuovo. Ma è prevalere, tra i
gruppi parlamentari, è un’immagine di “tristezza e imbarazzo che nemmeno con
Veltroni e D’Alema”. Colpa dello streaming, forse. I due premier come i
due papi. Il primo, Letta, che resta comunque “troppo debole per andare
avanti”. Il secondo, invece, che “si è spinto troppo avanti per tornare
indietro”. La verità sul faccia a faccia con il Nipote emerge dopo la
conclusione, quando il premier lancia la conferenza stampa per il suo Impegno
Italia. Renzi resta spiazzato. Per lui l’incontro è andato bene, così fa dire
ai suoi. Un pareggio in attesa di sbloccare la partita con l’assalto
finale.
Palazzo Chigi e il Nazareno diventano due trincee in guerra. In mezzo la
Camera, dove tutti, renziani e antirenziani, si aggirano smarriti e confusi per
la ripartenza di “Enrico”. Renzi è furibondo. Una frase secca: “Mi ha preso per
il culo, non ne sapevo nulla”. Il Rottamatore lascia il Nazareno nel pomeriggio
per poi tornare in serata. La rabbia sbollisce nel giro di qualche ora,
lasciando il posto alla voglia di vendicarsi. Soprattutto dopo aver visto e
ascoltato Letta in tv. Le opzioni per oggi salgono e scendono. È un
ottovolante. Dal voto anticipato al Letta bis per riapprodare al Renzi uno. Il
sindaco di Firenze riprende in mano pure la lista dei ministri. Il dicastero
chiave è l’Economia, dove i nomi fioccano a seconda di dove scrivono i
candidati ministri, Corriere o Repubblica. Si va da Bini Smaghi e Padoan a
Boeri. Dagospia butta nella mischia anche Lucrezia Reichlin. Un po’ di renziani
(Delrio e Boschi, innanzitutto), la riconferma della Lorenzin alfaniana,
persino l’ingresso del centrista Vietti alla Giustizia, dello scrittore Baricco
e dell’eatalyano Farinetti.
Il totoministri rischia di essere esercizio vacuo e in ogni caso il metodo
del renzismo prevede una solitaria sintesi finale. Ma prima c’è la direzione di
oggi. Lo scontro totale con il premier dovrebbe portare alla sfiducia. Il Pd
che dice al suo premier attuale di andarsene a casa. A quel punto la logica
politica imporrebbe le dimissioni lettiane, sempre che la resistenza non
conduca a un impazzimento totale. Per Renzi, il rilancio del Nipote è “arrivato
troppo tardi”. Per la precisione dopo due mesi di bombardamento, a partire
dall’Immacolata delle primarie, l’otto dicembre dello scorso anno. In serata al
Nazareno, al cerchio magico di “Matteo” si aggiunge anche Dario Franceschini,
miglior attore non protagonista in questo film apocalittico del Pd. Lettiano
poi renziano, la sua presenza al partito in serata dovrebbe confermare
l’offensiva del sindaco quasi premier. Da stamattina tutto può succedere. Il
pressing su Letta per non andare al massacro non cesserà, ma “Enrico” vuole
guardare in faccia i pugnalatori. “Matteo” lo accontenterà, facendo l’elefante
nella cristalleria del Nipote. Se tutto va nel verso giusto, quello da
cambiare, le consultazioni di Napolitano potranno tenersi già nel fine
settimana. E Renzi tenterà di battere tutti i record di velocità.
l’Unità 13.2.14
Ora il Pd rischia di farsi male. Oggi Direzione ad alta tensione /3
Le ore più difficili del Pd
Ma Renzi fa il pieno tra i democratici
Minoranza schierata col leader per il cambio a Palazzo Chigi
I renziani evocano il ritorno alle urne
di Andrea Carugati
Sono ore difficilissime per il
Partito democratico. Oggi pomeriggio la riunione della direzione rischia di
trasformarsi in un ring tra i duellanti Matteo Renzi e Enrico Letta. In un
«western», dice Pippo Civati, o un «bagno di sangue», come sussurrano in tanti
a Montecitorio. La conferenza stampa del premier, la sua sfida a Renzi e la
volontà di resistere, hanno spiazzato quanti insistevano per un passaggio di
consegne morbido tra i due leader. Ed ha alimentato il fronte dei dubbiosi, che
comprende anche alcuni renziani scettici sulla staffetta. Timorosi di uno
strappo troppo lacerante, che indebolirebbe anche l’eventuale governo Renzi.
E tuttavia, i numeri della
direzione sulla carta appaiono schiaccianti. Anche la minoranza che fa capo a
Gianni Cuperlo si è convinta a sostenere la marcia del segretario verso palazzo
Chigi. Dunque tra i contrari restano Pippo Civati e i suoi fedelissimi e alcuni
pretoriani del premier: una esigua minoranza. Nella serata di ieri si è parlato
persino di un documento contro il governo che oggi potrebbe essere presentato
dalla sinistra Pd, una sorta di assist a Renzi per dimostrare al premier, con
la forza brutale dei numeri, che il suo rilancio non convince. Che ormai il
tempo per un Letta bis è scaduto. «Se il segretario del Pd non vuole più
sostenere Renzi non è mica colpa nostra...», è lo sfogo di un deputato di area
Bersani. Certo, l’ex leader, ancora in convalescenza a Piacenza, avrebbe fatto
pervenire il suo sostegno all’amico Enrico sulla via del confronto a viso
aperto in direzione. E tuttavia ormai il percorso della minoranza sembra
segnato: tra il Bis di Letta e il “Renzi 1” la seconda strada è quella considerata
più «forte per garantire una lunga fase di riforme ».
Ieri all’ora di cena la situazione
era ancora caotica, con Letta determinato a non dimettersi prima del passaggio
in direzione, e soddisfatto della conferenza stampa in cui ha chiaramente detto
«chi vuole cacciarmi deve dirlo». E Renzi asserragliato con i fedelissimi
Boschi, Lotti, Guerini e Faraone a largo del Nazareno, sede Pd, dove è arrivato
anche il ministro Franceschini, in un estremo e forse inutile tentativo di
mediazione. Il segretario è furioso per il rilancio del premier, prepara una
relazione molto dura che conterrà una sfiducia implicita a Letta. Sarà votata
con tutta probabilità anche dalla sinistra, a quel punto il cerino tornerà
nelle mani del premier. In serata Gianni Cuperlo, a nome della sua area, spiega
che «dopo avere ascoltato la conferenza stampa del capo del governo, non è
possibile nascondere la grande preoccupazione per la piega che ha assunto il
confronto interno alla maggioranza e al nostro partito ». «Tocca al segretario
del Pd dire parole di chiarezza sul percorso che il primo partito della
maggioranza intende seguire», aggiunge. «Ci comporteremo con il senso di
responsabilità che è proprio non di una minoranza, ma di un gruppo dirigente
impegnato a lavorare per l'unità del Pd ». Un modo per dire che la sinistra
interna non ostacolerà il percorso di Renzi.
La reazione dei renziani
all’affondo di Letta è durissima: «Il fatto che ora parli di programma senza
scadenze dimostra che il suo unico obiettivo è restare a palazzo Chigi. Altro
che i 18mesi per fare le riforme: le riforme sono naufragate, a rivitalizzarle
ci ha dovuto pensare il Pd. Magli italiani non possono aspettare un altro anno
senza riforme, con il tirare a campare», dice Ernesto Carbone. «Dal premier una
mossa tardiva, con un programma esiguo », attacca Andrea Marcucci.
L’unica cosa che appare certa è
che Letta, per ora, non intende andare in Parlamento a chiedere una nuova
fiducia. E che dunque il match di oggi pomeriggio dovrebbe essere decisivo. Ma
il premier dal suo partito vuole un pronunciamento chiaro. Nel bene o nel male.
Il segretario Pd ieri sera ha passato molte ore a cercare una contromossa.
Timoroso di eventuali contraccolpi negativi di uno strappo troppo lacerante.
Tanto che a un certo punto si è iniziato a parlare anche di una frenata. Di una
tregua armata, seguita poi da una guerriglia parlamentare su ogni
provvedimento. In modo da provocare una crisi e, a quel punto, il ritorno alle
urne. È questa una delle armi che i renziani di rito ortodosso stanno
utilizzando in queste ore. Far capire a tutti, dentro e fuori il Pd, che
mettere i bastoni tra le ruote di «Matteo» avrebbe un solo risultato: ammazzare
la legislatura. «Si torna al voto, anche con la legge della Consulta »,
spiegano alcuni renziani. «Le elezioni restano sempre la strada principale »,
dice Maria Elena Boschi.
Una prospettiva esplicitamente
esclusa dal Capo dello Stato, e tuttavia l’ipotesi della guerriglia
parlamentare per costringere il resistente Letta a sloggiare viene presa in
considerazione anche fuori dal cerchio stretto dei renziani. Anche nella
minoranza l’ipotesi viene citata come «possibile». La strada di Letta, dunque,
sembra totalmente in salita. Impervia. Fuori dal coro Pippo Civati, che ricorda
sul suo blog tutte le dichiarazioni di Renzi per negare mire su palazzo Chigi.
E titola: «Coerenzi». Poi aggiunge: «Matteo rischia di finire in una logica da
Gattopardo. Viviamo una pagine più brutte della storia del Pd».
La Stampa 13.2.14
I tormenti dei democratici
E nel Pd scatta l’incubo peggiore: votare in Aula la sfiducia al premier
di Carlo Bertini
Il fumo si taglia a fette come in un cinema Anni 50 nel corridoio attiguo al Transatlantico dove si radunano drappelli di peones davanti ai due schermi che mandano il discorso del premier in diretta. Appartengono a tutte le tribù del Pd, franceschiniani come Gianclaudio Bressa ed Emanuele Fiano, «turchi» come Silvia Velo, c'è Fioroni, e ci sono anche bindiani, dalemiani, insomma la galassia del corpaccione di un gruppo che conta quasi trecento anime è al gran completo. Ma sono i fedelissimi di Franceschini e di Bersani i più angosciati.
Appena il premier lancia la sua sfida, «i partiti dovranno assumersi le loro responsabilità», appena squaderna il concetto che i governi non eletti dal popolo nascono in Parlamento, l’incubo si materializza. Il riflesso è immediato. «Vuole venire in aula», sussurra subito ad un costernato Gianclaudio Bressa, la cuperliana Elisa Simoni, gran fumatrice di toscani.
«Questa ce la poteva risparmiare», si sfoga Teresa Bellanova, leccese bersaniana doc. Che non si capacità del perché Letta voglia lo strappo, visto che la sfiducia del suo gruppo l’ha registrata martedì quando nessuno lo ha difeso dopo che Renzi aveva parlato di batteria scarica da sostituire. E il perché lo spiega in camera caritatis un lettiano, «Enrico vuole marcare la sua diversità e porsi in sintonia con quegli italiani che vedono la staffetta come una manovra di palazzo».
Comunque vada, che sia in aula o sfiducia in Direzione, il passaggio traumatico se lo sarebbero risparmiati tutti. Certo, perfino i lettiani ammettono che se un voto in Direzione sancirà che lui non deve andare più avanti non servirà un passaggio parlamentare; ma Letta volutamente si è tenuto aperto questo sbocco e il fantasma aleggia in Transatlantico. Ora la speranza di tutti è che Napolitano impedisca lo show down in aula. La previsione di Giacomo Portas, «Enrico non si dimetterà», sintetizza lo sbocco più temuto da quelli che per un motivo o per l’altro non vedevano l’ora di voltare pagina e di blindarsi fino al 2018. E invece dovranno passare nel cerchio di fuoco di votare contro il premier che fu vicesegretario del Pd. E come sempre nel Pd fioccano le dietrologie: Fioroni prima si inalbera contro chi ha permesso che «le due maggiori risorse del Pd si sfracellino a trecento all’ora» e poi nota che «Enrico non parla da premier sfiduciato, ma da leader di un futuro soggetto politico». Quale? Magari nascerà «l’Asinello di Letta», alludendo al partito fondato da Prodi e che fece dura concorrenza ai Ds di D’Alema e al Ppi di Marini.
Ma sgomento, incredulità e sconcerto avvolgono le truppe mentre Letta snocciola impegni di spesa e le possibili entrate da spending review. Intanto nelle segrete stanze, la minoranza di sinistra è riunita con Cuperlo per decidere che fare: abbandonare Letta al suo destino votandogli contro è cosa brutta assai per chi lo avrebbe candidato alle primarie contro Renzi. Ma la maggioranza metterà ai voti in Direzione la linea del cambio di passo e la minoranza non metterà i bastoni tra le ruote al segretario. Ma nessuno è sicuro che Letta non vorrà lo stesso chiedere un voto delle Camere. «In quel caso lo manderemo al Senato», dicono gli uomini di Speranza, visto che lì i numeri sono risicati. La tempesta perfetta insomma, lo psicodramma del Pd. Alcuni ricordano il precedente di un partito che votò contro il suo premier, «una volta con Fanfani ma fu una crisi pilotata», ricorda l’ex Dc Gero Grassi. Altri sperano che sia Angelino Alfano a togliere le castagne dal fuoco al Pd. Ettore Rosato, segretario d’aula e uomo di Franceschini, sdrammatizza: Letta salirà al Colle e dopo le consultazioni, in aula arriverà un premier incaricato che non sarà lui, senza strappi o bagni di sangue...
l’Unità 13.2.14
Letta prigioniero del liberismo
Serve una svolta
di Stefano Fassina
Dopo settimane di incertezza,
siamo a un tornante decisivo per il governo del paese. L’Italia deve riscrivere
la legge elettorale, superare il bicameralismo perfetto e riorganizzare
l'architettura federale. Ma l’emergenza è sul terreno economico e sociale. Le
riforme costituzionali, necessarie e urgenti, richiedono almeno 24 mesi.
Lavoratori e imprese aspettano interventi efficaci subito. Dal racconto
quotidiano sembra che il problema sia la «staffetta» tra Letta e Renzi,
possibilità inevitabilmente in campo, in alternativa alle elezioni, date le
caratteristiche del congresso del Pd (elezione mediante primarie aperte del
segretario-candidato per la presidenza del Consiglio) e un premier senza
mandato degli elettori. Invece, il problema è innanzitutto e soprattutto il
programma per rispondere a chi, oltre a lavoro o azienda, ha perso anche
speranza e dignità. Il governo Letta è rimasto prigioniero dell'insostenibile
europeismo liberista - rappresentato in Italia dall’«Agenda Monti» - riproposto
con insufficienti discontinuità a causa di un'oggettiva crisi finanziaria, una
maggioranza di larghe intese, un’ereditata subalternità culturale e un
malinteso senso di «responsabilità nazionale».
Il programma per la svolta deve
articolarsi a partire da una chiara e oramai oggettiva analisi: la rotta
mercantilista dell’euro-zona, segnata da austerità cieca e svalutazione del
lavoro, è insostenibile: aggrava le condizioni dell'economia e gonfia i debiti
pubblici, aumentati nell'euro-zona dal 65% del 2008 al 95% del 2013.
Nell’euro-zona e in Italia, una ripresa in grado di riassorbire la
disoccupazione non è in vista. E non sono raggiungibili gli obiettivi di
finanza pubblica per il 2014 previsti nel Def. È, infatti, impossibile ridurre
o stabilizzare il debito pubblico in uno scenario di stagnazione di medio-lungo
periodo. Sarebbe autolesionistico e controproducente accanirsi e tentare di
raggiungere gli obiettivi con ulteriori manovre correttive nei prossimi mesi.
Inutile affidarsi al marketing per curare le aspettative degli «agenti
economici»: l’ottimismo va fondato su dati di realtà.
Che fare? Le mitizzate riforme
strutturali non sono condizione sufficiente per l’uscita dal tunnel.
L’invocazione disinvolta, tanto di moda, al taglio di una indefinita «spesa
pubblica improduttiva» per la riduzione delle tasse e del costo del lavoro è
pericolosa. La spesa pubblica italiana al netto degli interessi sul debito, in
termini pro-capite, è tra le più basse dell'euro-zona. Va liberata da
inefficienza e sprechi. Risparmi significativi possono derivare soltanto da una
profonda ristrutturazione dello Stato e del Titolo V. Le risorse recuperate
devono, però, in primis integrare i capitoli decimati dai tagli orizzontali, in
particolare la scuola pubblica e le politiche sociali (es. reddito minimo
d’inserimento). L’eccessivo peso delle imposte va ridotto attraverso il
recupero di evasione fiscale, la variabile davvero fuori linea (il doppio)
rispetto alla media europea. Invece, puntare a un consistente taglio della spesa
non vuol dire riformare ma ridimensionare, fino allo snaturamento, il welfare.
Sarebbe un sacrificio inutile, anzi dannoso, poiché un taglio della spesa,
accompagnato da una corrispondente riduzione di tasse, ha documentatissimi
effetti recessivi.
Allora, bisogna avere come stella
polare il lavoro e virare verso una politica economica alternativa per
l'euro-zona. I capisaldi per l’inversione di rotta sono specificati in un «Memo
per il programma di un governo di svolta», proposto alla Direzione di oggi
insieme a un gruppo di parlamentari. Soltanto l’allentamento della irrealistica
politica di bilancio può aprire spazi per innalzare il livello dell'attività
produttiva e creare lavoro. La variabile decisiva è la domanda aggregata:
quindi sostegno a investimenti produttivi e miglioramento della distribuzione
del reddito. L’unico Jobs Act utile è una politica di bilancio espansiva,
accompagnata dall’introduzione di un «Servizio civile per il lavoro», un Piano
per la redistribuzione del tempo di lavoro, politiche industriali per
l’innovazione sostenibile e ri-organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
Le difficoltà politiche nell'euro area per una svolta sono enormi. Ma
l'euro-zona è sulla rotta del Titanic e dobbiamo comunque tentare. O la svolta
condivisa a Berlino e a Bruxelles. Oppure, in un’alleanza da costruire tra i
Paesi soffocati nella spirale svalutazione del lavoro-recessione-debito
pubblico, un piano B: la permanenza nell’euro e la rinegoziazione degli impegni
sottoscritti. Qualunque governo senza cambiare radicalmente rotta in Europa
farebbe perdere all’Italia l’ultima chance per la ricostruzione morale,
democratica e economica.
l’Unità 13.2.14
Napolitano boccia il voto: «Sciocchezze»
Il Capo dello Stato interviene da Lisbona
Il punto fermo: il Paese ha bisogno di stabilità
di Marcella Ciarnelli
«Non diciamo sciocchezze». È
questa la replica lapidaria con del presidente della Repubblica a chi gli ha
chiesto, durante il suo soggiorno a Lisbona per partecipare alla riunione del
Cotec, se per superare la contrapposizione tra Letta e Renzi fosse ipotizzabile
un ritorno alle urne in tempi brevi. Una soluzione che, è più che noto,
Napolitano non ha mai preso in considerazione. Tanto più in assenza di quella
riforma elettorale tante volte sollecitata e che sta muovendo solo i primi
passi in Parlamento. Per non parlare delle ipotizzate altre riforme da mettere
in cantiere per modificare almeno il bicameralismo perfetto, con la
diversificazione tra le funzioni della Camera e del Senato. Gli echi dello
scontro in casa Pd sono arrivati fino in Portogallo e, d’altra parte,
Napolitano ne aveva avuta diretta testimonianza ricevendo al Quirinale, poco
prima della partenza, prima il segretario del Pd e poi il presidente del
Consiglio. L’uno a cena. L’altro per un colloquio. Il presidente ha contezza di
una profonda contrapposizione anche se non vuole sentir parlare di «muri contro
muri». Ma non intende in alcun modo inserirsi nella questione che riguarda, al
momento, le vicende interne al partito di maggioranza relativa. L’asse portante
del governo Letta che sembra essere messo in discussione da una parte
consistente degli esponenti del Pd che quest’oggi vivrà il momento della verità
nella direzione convocata per il primo pomeriggio.
Nei due colloqui, e anche in altri
possibili confronti con gli esponenti del partito democratico e con altre forze
politiche, la preoccupazione espressa da Napolitano va nel solco di una
apprensione costante per il Paese che sta vivendo nel più tragico dei modi una
crisi economica come mai prima di questi anni. La situazione dell’Italia non
può sopportare contrapposizioni e strappi. C’è bisogno di stabilità. Per la
stabilità passa la credibilità da spendere sui mercati internazionali,
nell’Europa che tra pochi mesi l’Italia sarà chiamata a guidare e che «ha
attraversato una delle pagine più difficili della sua storia».
Una timida ripresa
Il simposio del Cotec riunisce le
Fondazioni di Portogallo, Spagna e Italia, Paesi «costretti a scelte tanto
dolorose quanto improcrastinabili». La situazione è ancora fragile ma si
intravede «una timida ripresa» ha sostenuto Napolitano sollecitando «un
contributo rilevante idoneo a declinare tali primi positivi segnali» per
raggiungere gli obbiettivi di innovazione, ricerca e crescita. In questo scenario
si inserisce lo scontro in casa Pd che, come sottolineato dallo stesso
presidente con chiarezza, deve essere superato nell’ambito del Partito
democratico, senza che nessuno si aspetti un suo intervento diretto. «La parola
spetta al Pd» aveva detto l’altra sera il presidente sbarcando a Lisbona. La
sua posizione non è cambiata anche se è aumentata la preoccupazione che tempo
prezioso vada perso in una disputa che rischia di danneggiare gli interessi
stringenti del Paese. Nel suo intervento al Cotec il presidente ha sottolineato
«l’impegno del governo di procedere con misure di sostegno immediato alle
attività innovative e di ricerca delle imprese» prevedendo a tal fine il
ricorso a fondi strutturali europei.
Citando il governatore Visco,
Napolitano ha allertato sulla possibilità negativa che l’Italia rischi di
«perdere la fiducia faticosamente riguadagnata che non deve essere indebolita
dal riaccendersi di timori sulla risolutezza a proseguire sulla strada delle
riforme e delle responsabilità sia dell’Italia che di altri Paesi europei». Nel
discorso il presidente ha saltato il passaggio che è stato poi confermato come
letto. Nessun retroscena. Nessun giallo.
Repubblica 13.2.14
Il retroscena “Lascia, entrerai nel nuovo governo” “Non accetto trattative sottobanco”
Matteo ed Enrico, a Palazzo Chigi confronto al veleno
di Goffredo De Marchis
Roma - L’arrivo in treno, la
Smart, il leggero ritardo sono le note di colore. Matteo Renzi, appena entra
nello studio di Enrico Letta al primo piano di Palazzo Chigi, va dritto al
punto e mette sul piatto il prendere o lasciare che è una cifra del suo modo di
agire. «La tua esperienza al governo è finita. Ho la processione di
personalità, forze sociali, categorie che mi dicono che così non si può andare
avanti. Lo sai anche tu. Fatti da parte e riceverai tutti gli onori». Il
premier lo guarda, ascolta, non replica. Lo lascia continuare. «Il Pd dirà che
hai svolto un buon lavoro, che il momento era di merda, che è stato fatto il
possibile ma è arrivato il tempo di una nuova fase». È l’exit strategy che il
segretario del Pd offre al presidente del Consiglio del Pd. Una guerra
fratricida, si conclude, nelle intenzioni del sindaco, con una resa
infiocchettata. Il fiocco è l’offerta di un posto al governo. Che c’è stata,
chiara e forte, in quella stanza della sede del governo. E ha fatto
imbestialire Letta, tanto da suggerirgli la battuta più taglientedel faccia a
faccia: «Queste trattative sottobanco qualificano la moralità di chi le
propone».
L’uscita soft proposta
dal segretario si connota così: ministro degli Esteri o un posto garantito
nella commissione europea che sarà rinnovata dopo le elezioni continentali.
Oppure entrambi gli incarichi: prima la Farnesina, poi l’“esilio” a Bruxelles.
Ma Letta si sente ancora in sella. Fa capire di essere pronto a sfidare il Pd e
la sua maggioranza, a celebrare la conferenza stampa di presentazione del programma
per i prossimi anni. «Io sono qui per servire il Paese, l’ho sempre detto. E
sono stato votato dal Parlamento. Certo, non per rimanere a ogni costo». Sono
le parole che fanno dire a Renzi, rientrando a Largo del Nazareno, «è andata
così così ». È chiaro che Letta non intende cedere senza un passaggio
ufficiale, che sia del partito o delle Camere. Non vuole dimettersi come gli
sta chiedendo Renzi annunciandogli «il capolinea». Il trauma dev’esserci, il
sangue deve scorrere.
Qui le versione divergono. Letta
racconta di un confronto a muso duro perché, come racconta a un amico, «non
pensavo che Matteo fosse così spregiudicato, che potesse spezzare un patto
concordato con il Quirinale per far durare l’esecutivo fino al 2015». Renzi
affronta il tema del Quirinale anche durante il faccia a faccia. «Tu sai Enrico
cosa pensa il capo dello Stato. “Se è il Pd a dire che è arrivato il momento di
cambiare, che devo fare io?”». Letta tace e ascolta.
La versione del sindaco è
diversa. Il premier non avrebbe mostrato i muscoli a viso aperto. Anzi, avrebbe
ascoltato con attenzione gli argomenti a favore di un addio anticipato da
Palazzo Chigi. Per questo il segretario scorre i siti e le agenzie e si sfoga
appena torna al partito. Lo indispettisce la descrizione di un incontro di
fuoco. Soprattutto per l’annuncio (che però è una conferma) della presentazione
di “Impegno Italia”, il patto di coalizione, che viene fissato per il
pomeriggio.
«Non me l’aveva detto che sarebbe
andato avanti». La verità è che il segretario si aspettava una pausa
riflessione e le dimissioni del premier, formalizzate già ieri sera a
Napolitano dopo il suo ritorno dal Portogallo. Dario Franceschini gliel’aveva
garantito: «Vedrai che Enrico si fermerà un attimo prima e non andrà fino
infondo». Renzi però esce dal vertice di Palazzo Chigi non proprio convinto che
finirà così. Risale sulla Smart del deputato Ernesto Carbone e riunisce il
gabinetto di guerra a Largo del Nazareno. Un gabinetto che si attende una mossa
del premier da un momento all’altro, ma nel quale Renzi è il più prudente. «Se
vuoi lo scontro frontale allora si può anche andare a votare. È una soluzione,
stiamo attenti», è una parte del discorso fatto nello studio di Palazzo Chigi.
Certo, c’è anche quella terza via. Non la vuole il Colle, non la vuole il Pd,
non la vogliono i parlamentari di tutte le forze politiche, ma come escluderla?
Tutto dice che il gelo assoluto,
durato ben tre settimane senza telefonate, senza sms, è stato rotto solo per
una parentesi di 60 minuti, in cui «ognuno è rimasto sulle sue posizioni». In
pratica, è andata così: Letta seduto forse per una delle ultime volte sulla
poltrona da premier e di fronte a lui il Rottamatore pronto a incassare le
terze dimissioni dopo quelle di Cuperlo e Fassina e a sedersi al posto di
“Enrico”. Un gelo esteso alle diplomazie, se alla fine il premier va davvero in
conferenza stampa e si propone per i prossimi anni alla guida dell’esecutivo.
Anche Renzi dice di fermare le macchine. «Aspettiamo le sue mosse - comunica
all’ora di pranzo - . È gravissimo che sia lui a far scorrere il sangue
parlando di colloquio andato male quando gli aveva offerto l’onore delle armi.
Gravissimo perché io sono il segretario del Pd, ovvero del partito che è anche
il suo e che praticamente tiene in piedi la baracca del governo da solo». Ma il
sangue scorre da giorni, difficile fermarlo in un’oretta scarsa.
Repubblica 13.2.14
“Così il partito rischia di diventare un far west”
Civati scrive un post intitolato “Coerenzi” in cui ricorda le dichiarazioni passate del segretario sulle larghe intese: “Ci stiamo incartando”
intervista di Matteo Pucciarelli
Milano -
«Ci faranno scegliere se sfiduciare il nostro segretario o il nostro primo
ministro?», è la battuta di una collega parlamentare che Pippo Civati fa sua.
Di una cosa è convinto: il sindaco deve diventare premier, ma passando dal
voto.
Insomma, lei ha capito cosa sta
succedendo?
«Allora: Renzi vuole andare a
Palazzo Chigi e basta, una scelta deliberata. Ma sbagliata, visto che per mesi
ha assicurato ben altro. Ora si stanno dando dei giudizi al governo Letta
durissimi, che in confronto i miei sono quelli di un moderato».
Nel mentre Letta tiene duro...
«Tabacci ha detto che sembrano
Forlani e Andreotti, il che è tutto dire. Ci stiamo incartando, la direzione
rischia di trasformarsi in un far west».
Lei ha scritto un post sul suo blog
dal titolo un po’ grillino “coerenzi”, citando tutte le volte in cui il
segretario del Pd garantiva per Letta. Insomma, Renzi è inaffidabile?
«Non è questione di
inaffidabilità, ma appunto di coerenza. Se si viene eletti segretario dicendo no
alle larghe intese, come fai ad andare al governo con Alfano? Se dici no agli
inciuci, come fai a lavorare ad una manovra di potere di questo genere?».
Ma non è che sta cadendo in una
trappola?
«Non saprei, di certo i primi delusi
sono i suoi elettori. Nel mentre ministri del governo Letta a lui vicini
preparano il suo avvento. Renzi crede di risolvere il tutto con un suo governo
di impatto, ma è una scelta davvero rischiosa perché di fatto dovrebbe tenere
in piedi un esecutivo con centrodestra, pezzi di Sel, ex grillini.Ma come
fai?».
Quindi Renzi è semplicemente
presuntuoso?
«È molto convinto di sé. Ma anche
sulla legge elettorale: sembrava aver fatto tutto in un mese e siamo punto a
capo. E ora già non se ne parla più. E il piano per il lavoro? Arenato anche
quello».
Repubblica 13.2.14
Nel Pd oggi la resa dei conti in direzione il voto contro il premier e torna il rischio della scissione
Cuperlo: “Tocca al segretario fare chiarezza sul percorso”
di Giovanna Casadio
Roma - Il Pd si prepara a sfiduciare Letta. Fino
a tarda sera sono in azione i mediatori tra i due contendenti, tra Enrico Letta
e Matteo Renzi, per evitare la sfida all’O.K Corral nella direzione convocata
per questo pomeriggio. Il partito si trova a scegliere tra il “suo” premier e
il “suo” segretario.
Renzi ha preparato un ordine del giorno molto duro
contro il governo: «Il compito dell’esecutivo Letta è esaurito». È
l’operazione- verità sull’inadeguatezza del governo che il segretario ha in
mente di fare. Non si proporrà però per la staffetta a Palazzo Chigi: non vuole
apparire come colui che si presta a manovre e manovrine di Palazzo. Nel recinto
in cui vuole schiacciarlo Enrico, il leader dem non vuole restarci.
Il documento renziano sarà messo in votazione. E la
direzione sarà in streaming. Tanto per stanare le posizioni di tutti i dem e
evitare che qualcuno giochi poi a rimpiattino. «Parlerò a viso aperto»,
premette il segretario. È stata ieri una lunga giornata di colloqui e di
riunioni al Nazareno, la sede del Pd. Stamani prima della direzione ne sono
previste altre. Il “correntino” guidato da Gianni Cuperlo si è dato
appuntamento poco dopo mezzogiorno. Ma la posizione sembra scontata. La si
ascolta a Montecitorio dove capannelli di deputati seguono davanti alle tv la
conferenza stampa nella quale Letta scandisce il suo “non ci sto” e promette di
resistere e andare avanti. «Ormai è troppo tardi », ripetono in tanti.
Cuperlo passa il cerino al segretario: «È lui che deve
chiarire - spiega in una nota il leader della minoranza - Nei giorni scorsi
abbiamo noi per primi chiesto un chiarimento di fondo su un governo di svolta.
E dopo avere ascoltato la conferenza stampa del capo del governo, non è
possibile nascondere la grande preoccupazione per la piega che ha assunto il
confronto interno alla maggioranza e al nostro stesso partito». È una porta
ancora non del tutto chiusa al premier, perché sia Cuperlo che Cesare Damiano
valutano positivamente il merito delle proposte, quel programma di Impegno 2014
illustrato da Letta. Però - è l’altra riflessione - «alla luce dei giudizi
politici espressi da Renzi, tocca proprio al segretario del Pd dire parole di
chiarezza sul percorso che il primo partito della maggioranza intende
seguire». Un conflitto così forte è drammatico per la tenuta dei Democratici.
Pippo Civati parla di Far West, di un western a cui si assisterà in direzione.
Civati non voterà nessun documento, e segue la linea di sempre: varare la legge
elettorale e poi al voto. «Non si trova l’algoritmo del Pd», ironizza amaro
Emanuele Fiano, il capogruppo in commissione Affari costituzionali. Beppe
Fioroni, leader dei Popolari, dice che lo scontro ormai è giunto fino a un
punto di non ritorno. «Letta sembra avere parlato più da leader politico...»,
riflette Dario Ginefra.
Se il duello tra Enrico e Matteo arriverà allo
showdown in direzione, sarà per i Democratici «una guerra atomica». La
definizione è di Gero Grassi. «È una rivoluzione in corso, un redde rationem »,
avverte Civati. Letta potrebbe partecipare alla riunione dem: «Sono un uomo del
Pd...», ha detto in conferenza stampa invitando proprio il partito e in primo
luogo il segretario Renzi ad assumersi la responsabilità sul destino del
governo. Di voto subito, se la situazione si impantanasse in un braccio di
ferro, parlano i renziani. E il segretario stesso potrebbe rilanciare.
Alcuni dem intravedono scenari in cui Letta potrebbe
mettersi a capo di un nuovo partito. Fioroni ricorda che quando Prodi fu
costretto alla staffetta con D’Alema, i prodiani diedero vita all’Asinello.
Ernesto Carbone, renziano della prima ora, a bordo della cui Smart Renzi è
andato a Palazzo Chigi all’incontro con il premier, attacca: «Il fatto che
Letta ora parli di programma senza scadenze dimostra che il suo unico obiettivo
è restare a Palazzo Chigi. Altro che i 18 mesi per fare le riforme: le riforme
sono naufragate, a rivitalizzarle ci ha dovuto pensare il Pd». I Democratici
sperano che il peggio possa essere scongiurato e un accordo tra i due leader si
trovi.
Repubblica 13.2.14
Micaela Campana, deputata democratica: la situazione non è colpa del premier, ma il segretario adesso ha più possibilità
“Enrico e Matteo, i migliori. Purtroppo si odiano”
di Concetto Lo Vecchio
Onorevole Campana, Renzi o Letta?
«Io farò la scelta migliore per
ilgoverno, per il Paese, per il partito».
Mi svicola subito.
«Ma io prima voglio sentire quel
che dirà il segretario in Direzione».
Poniamo che il segretario dica:
Lettava sfiduciato.
«Io sosterrò un governo forte e
solido che possa fare le riforme che servono al Paese».
Voi bersaniani passate per i
primi tifosi di Renzi.
«Renzi è il nostro segretario,
eletto alle primarie con uno straordinario successo. La sua leadership è
fortissima, aspettiamo che ci indichi una strada».
Quindi viva Matteo?
«No, le sto solo dicendo che
voglio un esecutivo il più compatto possibile. E che
duri, perché le elezioni non
servono».
Ecco, vede, siete per Renzi
perché così salvate la poltrona per tutta la legislatura.
«Io non avrei paura delle
elezioni, ho preso 7mila voti alle primarie, sono stata scelta dagli elettori».
Ma meglio non rischiare, no?
«Non sono utili. Quelli della mia
generazione sono alla canna del gas, le famiglie non arrivano alla fine del
mese, questa gente ha bisogno di risposte».
Le è piaciuto il discorso di
Letta?
«È stato schietto, ha detto il
governo è nato in Parlamento e lì si deve decidere la sua sorte».
Come finirà?
«Spero nessuno sovrasti l’altro,
che si salvi il partito. Sono due grandi risorse, le migliori che abbiamo».
Ma si odiano!
«Ha ragione».
Se oggi ci sarà un ordine del
giorno contro Letta lei lo vota?
«Vediamo, le ricordo che siamo
stati noi con Cuperlo a porre per primi pubblicamente il tema del rapporto tra
il governo e il partito».
Avrebbe mai pensato di votare con
tanto slancio l’odiato Renzi?
«Ho sempre avuto la
consapevolezza che i comportamenti vanno commisurati alla realtà contingente,
alla situazione politica del momento».
Adesso parla come una dorotea.
(Ride) «Ho solo 35 anni».
Appunto!
«Non dica così, in tutte le mie
scelte ci ho sempre messo la faccia».
È colpa di Letta se si è arrivati
a questo punto?
«No, questo non lo penso. Ha
avuto un compito difficilissimo, una maggioranza non omogenea».
Però Renzi ora sembra in
vantaggio, giusto?
«Diciamo che politicamente ha più
possibilità».
Repubblica 13.2.14
La ribellione dei militanti sul web “Un suicidio, lottano per la poltrona”
Ironie e rabbia della base. Nicodemo: ma sono voci grilline
di C. L.
Roma - Al termine della
giornata più strampalata che si ricordi dentro il Partito democratico (in
attesa di quella di oggi), tra faccia a faccia al vetriolo e conferenze stampa
velenose, forse le somme le tira su Twitter Pasquale Pugliese col suo «dubbio
della sera: ma Antonio Gramsci che 90 anni fa fondava l'Unità, oggi starebbe
con #Letta o con #Renzi?» Giusto per dire quanto la base del Partito
democratico, lo zoccolo duro che non proviene dalla Dc ma con radici più a
sinistra, osservi con una certa costernazione quanto sta accadendo.
Archiviate le primarie 66 giorni
fa, l’unico modo per farsi sentire, anzi cantarle, sono i social network.
Nessun valore statistico, chiaro. Solo rumori e parecchio di pancia. Ma nelle
ultime 24 ore da Facebook a Twitter se ne leggono di tutti i colori, molti gli
interventi anche piuttosto critici nei confronti del segretario Renzi, della
sua intenzione di entrare a Palazzo Chigi ma passando dall’ingresso posteriore.
Va detto che tra grafomani e commentatori anonimi la gran parte certo non solo
non milita nel Pd ma, ma quel partito nemmeno lo ha votato. Né lo voterà.
Tant’è che vero in serata i post sulla pagina Facebook del partito sono
talmente tanti e pungenti che deve intervenire Francesco Nicodemo, responsabile
comunicazione (renziano) per prendere le distanze e precisare. «Stupisce che si
prendano fake e troll grillini sulla pagina Facebook del Partito democratico
per attaccare il Pd. Come se non fossero in moltissimi casi profili fasulli
usati strumentalmente». Dunque, «nessuna rivolta, solo attacchi fatti ad arte
per inquinare il dibattito, aperto e trasparente, sulle nostre pagine web».
Non solo Fb ma anche Twitter
trasuda commenti, è l’argomento del giorno. Nicola Tamburro, arrabbiato:
«#Renzi e #Letta si scannano per la poltrona. Inutile dire chi beneficerà di
questo balletto in perfetto stile prima repubblica. complimenti». E ancora.
«Stimo #Renzi, ma staffetta é colpo alle regole democratiche. Se #Letta non
regge si torni al voto » scrive Maurizio Matteucci. E un anonimo che si firma
“La torre normanna” rincara: «Come passare da sicuri vincitori a sicuri
perdenti in un mese (e non è la prima volta)». L’aria che tira, sul web, tra i
simpatizzanti democratici è un po’ questa, alla vigilia della direzione di oggi
pomeriggio che qualcuno, come Civati, prefigura già come un western. Di certo
si è sparato, e parecchio, anche su Facebook. E il sindaco di Firenze è
l’indiscusso protagonista sulla pagina del partito. Alcuni niente affatto
teneri con lui: «Un giorno ne dice una e il giorno dopo un’altra! Mi ricorda
qualcuno» scrive Gianna Degano. Altri come Chiara Amèlie Meazza ne prendono le
difese: «No ma scusate, più che dimostrare di fare anche da fuori, che deve
fare? Ancora non ha mai avuto modo di 'fare', non ha mai ricoperto ruoli
nazionali. Io attenderei, prima di sparare a zero». E giù altre ironie sul
presunto feeling con Berlusconi (sulle riforme) e sulla comparsata ad “Amici”.
Stefano Ruggeri la vede nera: «Avanti sorridenti verso l’ennesimo suicidio».
Mentre Andrea Gurioli prova a mettere in guardia il sindaco, sta con lui, quasi
un appello: «Non cadere nella trappola, x l’amor di Dio. È una trappola. Ti
bruci, prendi le colpe di questo governo e non ti faranno fare nulla. Vai al
voto, vinci e governa da solo».
Poi ci sono quelli che si
lanciano a dipingere scenari abbastanza fantasiosi ma che sul web fanno presa.
«Renzi presidente del Consiglio e Letta presidente della Repubblica subito »,
prevede su Twitter Manuela Ruaben. «Nel governo Renzi, la Boldrini sarà
ministro» scrive sicuro invece Nico di Messina. E poi i “simpatici”, che non
mancano mai, e alleggeriscono un po’ la tensione anche sui social nei momenti
più hard. Come Stefano Vedovato: «#Renzi premier sceglie #Letta ministro degli
esteri. Lo spediamo in India e ci riprendiamo i #marò»
La Stampa 13.2.14
I malumori della base democratica
I militanti tra sconcerto e incredulità “Aveva promesso di essere diverso”
di Jacopo Iacoboni
qui
Corriere 13.2.14
Sel tentata, ma si spacca su Alfano
Fava: prima Renzi dovrà dire da chi si fa accompagnare
di D.Mart.
ROMA — «Io al governo con Renzi? Fantascienza», taglia corto Nichi Vendola che cerca di allontanare i fantasmi alimentati ad arte da chi vuole usare Sel in chiave anti-Alfano negli equilibri di un possibile nuovo governo guidato dal sindaco di Firenze. Da 48 ore, il governatore della Puglia e leader di Sel sta cercando a fatica di ridimensionare i «boatos» di marca renziana che parlano di «scissione» e danno «alcuni dei suoi parlamentari» in pista per sostenere il cambio della guardia a Palazzo Chigi: «Se lo schema resta quello del governo Letta non esiste alcuna possibilità per Sel di sostenere Renzi a Palazzo Chigi... Un governo che comprenda i diversamente berlusconiani, è per noi un governo antropologicamente respingente».
Eppure, nonostante le rassicurazioni di Vendola, che si fa vedere in conferenza stampa accanto ad Alexis Tsipras, nella trincea di Sel qualcosa si muove. C’è un’immagine plastica — che gira nei tg della sera — in cui si vede un Renzi sorridente che incontra all’esterno di Montecitorio Gennaro Migliore (il numero due del partito di Vendola) e lo bacia con una familiarità che non corrisponde alle dichiarazioni ufficiali. Migliore, poi, è anche il deputato che ha discusso per settimane i dettagli della legge elettorale con i renziani Maria Elena Boschi e Gianclaudio Bressa.
Il dramma di Sel ha un nome e cognome: Angelino Alfano. Perché, salendo sul treno di Renzi, la prospettiva sarebbe poi quella di dover condividere il viaggio con il ministro dell’Interno del caso Shalabayeva contro il quale proprio Sel presentò una mozione di sfiducia. «Se Sel va al governo con gli ex berlusconiani i nostri militanti arriveranno a Roma con i forconi», dicono ai piani alti di Sel.
Eppure molti parlamentari di Sel sono in mezzo a un vero tormento che, da un lato, apre la strada indicata dal carisma magnetico del leader comunista greco Tsipras e, dall’altro, quella della socialdemocrazia europea del Pse.
A sentire il deputato Claudio Fava — che dagli anni lontani della sceneggiatura dei «Cento Passi» è arrivato a un passo della presidenza dell’Antimafia — questa eventuale occasione offerta da Renzi non va scartata a priori: «Certo, di tutto questo si discuterà all’assemblea nazionale di sabato. È quella la sede in cui il partito prenderà le sue decisioni. Personalmente, ritengo che un’eventuale proposta di Renzi vada valutata solo se rappresenta un vero cambio di passo rispetto al governo Letta. Andrà giudicata, questa proposta, anche sulla base di quello che ci dirà Renzi sulla maggioranza che intende aggregare: ecco, Renzi ci deve dire da chi vuole farsi accompagnare e poi decideremo». Anche di votare la fiducia se ci sarà a breve un nuovo governo Renzi? «Dipenderà da quello che ci viene raccontato».
Al Senato, dove i voti di Sel pesano molto, il pugliese Dario Stefàno (presidente della giunta per le Immunità che ha condotto in porto la difficile partita della decadenza di Berlusconi), ragiona da riformista (e con lui altri tre colleghi) e cita le esperienze di governo targate Sel-Pd in Puglia, nel Lazio, in Friuli e in prospettiva in Sardegna: «Sarebbe un errore non valutare questa proposta tanto più se il progetto di Renzi prevede forti elementi di discontinuità. Perché se si tratta solo di un cambio di leadership vorrà dire che Renzi ama solo gli esercizi di potere».
il Fatto 13.2.14
Lista Tspiras
L’impossibile? Si può fare
di Paolo Flores d’Arcais
È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il
possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre
l’impossibile”. Non è un sognatore a parlare così, ma un classico del più
esigente realismo politico, Max Weber.
La lista della società civile alle prossime elezioni europee, il cui nome
verrà deciso con una consultazione on line sul sitowww.listatsipras.eu durante questo weekend, corrisponde alla lettera
ai canoni di questo realismo.
Sembrava un’impresa impossibile, la solita velleità di qualche
intellettuale che gioca all’engagement (così ghignavano i soloni
dell’establishment). Eppure, in pochi giorni, 24 mila cittadini hanno aderito,
non con una firma tanto per mettersi a posto la coscienza, ma offrendo
disponibilità a essere protagonisti attivi nel lavoro organizzativo e
comunicativo per realizzare questa lista. E in forme artigianali, dunque
talvolta a tentoni e con inevitabili errori, si stanno organizzando fin nelle
più piccole città. D’altro canto, le adesioni più note (da fratel Arturo Paoli,
102 anni, medaglia d’oro per la sua azione durante la Resistenza, figura
imprescindibile del cristianesimo contemporaneo, a Gustavo Zagrebelsky,
presidente emerito della Corte costituzionale, a Furio Colombo, Curzio Maltese,
Adriano Prosperi, Lorenza Carlassare, Corrado Stajano, Moni Ovadia, Carlo
Freccero. Andrea Scanzi, Luciano Canfora, Roberta De Monticelli, Ermanno Rea,
Nadia Urbinati, Massimo Carlotto...) testimoniano di quanto sia ampio lo
spettro dell’opinione pubblica che vive come una amputazione claustrofobica di
democrazia la prospettiva che riduce la libertà di voto all’alternativa “o
Renzi o Grillo”. L’appello “l’Europa al bivio”, lanciato da Andrea Camilleri,
Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (e chi scrive),
dopo la giornata italiana di Alexis Tsipras (il leader greco in testa ai
sondaggi nel suo paese, e che sarà il candidato alla presidenza europea di
questa lista) sta dunque diventando realtà. L’“impossibile” – una lista
autonoma della società civile che sfondi lo sbarramento del 4% – si sta
rivelando un possibile in via di raggiungimento. Un acuto giornalista come
Riccardo Barenghi, inizialmente assai scettico, lo ha riconosciuto su La Stampa
in una cronaca esemplare per onestà. E l’ammissione che la “linea Tsipras” è
l’unica ragionevole perché l’Europa (quella dei cittadini) non tracolli sotto
le cure micidiali della cancelliera Merkel e della finanza d’azzardo, ogni
giorno che passa fa nuovi proseliti e tra breve diventerà senso comune.
Non solo fra gli economisti riformisti, ormai perfino dentro il Pd. Lo
riconosce Civati nel suo blog, lo riconosce Fassina in un lungo articolo
su il manifesto. Peccato che entrambi, con impavido sprezzo della logica
aristotelica, restando nel confortevole calduccio del Pd, continuino a portare
vasi alla Samo della “Grosse Koalition” europea che Merkel e Schulz (candidato
del Pd) hanno già messo nella bisaccia. Ma il coraggio..., come diceva un
personaggio del Manzoni, con quel che segue.
Cambiare l’Europa si può. Cambiamo l’Europa, con Tsipras, è quindi il
realistico messaggio, affidato a ciascun cittadino. Perché la concreta
possibilità non si vanifichi, guardiamo però il bicchiere mezzo vuoto. Le
difficoltà. Gli ostacoli. Le insidie.
150 mila firme, di cui almeno 30 mila in ciascuna circoscrizione (compresa
quella che riguarda solo Sicilia e Sardegna) e almeno 3 mila in ciascuna
regione (compreso il Molise e la piccolissima Valle d’Aosta), certificate da
notai o pubblici ufficiali comunali: sono una enormità. Esprimono la ferrea
volontà dei partiti già rappresentati in Parlamento di difendere
gelosamente il loro monopolio, sbarrando la porta alla società civile e alle
sue liste.
Una enormità. Che però si può raggiungere. Se una parte rilevante
dell’associazionismo democratico, impegnato in questi venti anni in una miriade
di lotte locali e nazionali, spesso vittoriose e poi “tradite” per mancanza di
rappresentanza (l’acqua pubblica, ad esempio) si mobiliterà pienamente. Se i
ventiquattromila cittadini che hanno firmato non aspetteranno che “dall’alto”
(siamo quattro gatti!) arrivino risorse organizzative, ma inventeranno tutti i
modi per auto-organizzarsi, utilizzando il sito www.listatsi pras.eu per coordinarsi e moltiplicare le energie. Se i
piccoli partiti che vogliono davvero combattere, in Europa come in Italia, il
regime asfittico delle larghe intese sosterranno questa iniziativa senza
pregiudiziali. Se il mondo della cultura e della scienza vedrà un ampliarsi
ulteriore delle adesioni, e se quello del cinema, della musica, dello
spettacolo, vedrà fiorire uno slancio di passione civile e di impegno lucido e
generoso, tanto più essenziale quando il monopolio mediatico d’establishment
cerca di annegare una iniziativa scomoda nel silenzio. Mentre la politica
“politicosa” dei palazzi continua nelle sue beghe di potere, questi “se”
possono trasformarsi in altrettanti “sì”, dimostrando che c’è un mare di
cittadini pronto a riprendersi la politica anziché rassegnarsi.
l’Unità 13.2.14
Palazzo Madama
Finanziamento ai partiti: passa in Senato tra le proteste dei grillini
3
il Fatto 13.2.14
Finanziamento ai partiti, decreto già in bilico
TETTO DI 100 MILA euro per le donazioni di privati, pagamento dell’Imu sulle sedi di partito e cassintegrazione per i dipendenti che perderanno il posto. Sono queste le principali novità del decreto legge sul finanziamento ai partiti approvato dal Senato e che ora torna alla Camera in seconda lettura, dove rischia di essere nuovamente modificato. A quel punto dovrebbe tornare a Palazzo Madama, ma si tratterebbe di una corsa contro il tempo in quanto il decreto del governo scadrà il 26 febbraio. Soddisfatta la maggioranza, mentre il M5S protesta in aula, dopo l’approvazione, con una serie di cartelli definendo il provvedimento una “legga truffa”. Il testo è stato approvato da una larga maggioranza, 171 voti a favore e 55 contrari. Alcune novità: le sedi dei partiti pagheranno l’Imu e saranno aboliti i contributi per le “scuole di partito” che avrebbero ricevuto fondi per la formazione. In extremis, però, i dipendenti dei partiti ottengono (con un emendamento a firma Pd) l’estensione per la cassa integrazione: la spesa per lo Stato è di 15 milioni di euro per il 2014, 8,5 milioni per il 2015 e 11,25 milioni l'anno a decorrere dal 2016.
il Fatto 13.2.14
Intervista con Romano Prodi
“D’Alema mente. È una gabbia di matti e la chiave s’è persa”
Prodi replica all’ex Ds: “La vicenda della caduta del mio governo non è certo quella che racconta lui”
di Emiliano Liuzzi
Al professor Romano Prodi, come sempre, bastano poche parole. “Le cose non
andarono così e non capisco neppure perché lo abbia fatto”. Si riferisce alla
lunghissima lettera al Corriere della Sera nella quale Massimo D’Alema ricostruisce
gli ultimi giorni del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei
Democratici di sinistra prese il posto a palazzo Chigi dell’unico esponente del
centrosinistra che sia mai riuscito a sconfiggere Silvio Berlusconi.
Il governo guidato dal professore - ministro della Difesa Nino Andreatta,
alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un
governicchio, per intenderci - restò in carica per due anni, cinque mesi e
quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di
allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel
suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da
molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse
spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando
troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi,
che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di
allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di
sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su
lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante
l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la
possibilità di un governo Ciampi.
Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così
le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata
scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato:
“Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non
voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei
fatti. E quelli restano”.
Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai
danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco
Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema
in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due
per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo
dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei
due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata
la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale.
Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene,
ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con
lui il futuro del centrosinistra.
In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai
fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo
Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi
il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del
Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio
chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da
presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti
da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.
Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi,
D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che - pur essendosi
materializzate solo anni dopo - già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo
conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a
voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato
nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra
serie di particolari.
A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi
una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i
pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del
seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata
elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.
l’Unità 13.2.14
La detenzione nei Cie è inutile e dannosa
di Luigi Manconi e altri
Per l’associazione Medici per i
Diritti Umani (Medu) appena il 45,7% delle persone trattenute nei Centri di
identificazione e di espulsione viene rimpatriata. Una percentuale che conferma
lo scarso apporto che tali luoghi rappresentano nella cosiddetta «lotta
all'immigrazione irregolare». Un rimpatrio che altro dato eloquente -
rappresenta lo 0,9% del totale degli immigrati senza titolo di soggiorno
presenti sul territorio italiano. Una conferma (e un paradosso) di quanto i
Centri di Identificazione e di Espulsione risultino inutili rispetto agli
stessi propositi dell' espulsione e dell’identificazione. Anche perché, nella
maggior parte dei casi, l'espulsione a opera delle forze dell'ordine, non
avviene perché non preceduta dall'identificazione della persona trattenuta. Un
problema che nasce dai rapporti con le autorità consolari dei paesi di
provenienza che, spesso, non collaborano con quelle italiane per accertare
l'identità di chi si trova nel centro.
L'effetto disastroso ed evidente
di tale situazione si riflette sull'intera società. Riguarda gli ingenti costi
di gestione, l impiego di risorse umane, l’organizzazione delle strutture di
sicurezza. Per non parlare del danno culturale prodotto dall’assimilazione
della figura del migrante a quella di un potenziale criminale.
Il tutto per un periodo di
trattenimento che si fa sempre più lungo, arrivando anche ai 18 mesi.
Per questo i numeri riportati da
Medu confermano, dunque, da un lato l inefficacia e l irrilevanza dello
strumento della detenzione amministrativa, dall altro l inutilità e l
irragionevolezza dell estensione del trattenimento dai 6 a 18 mesi (dal giugno
del 2011) ai fini di un miglioramento nell’efficacia delle espulsioni. Del
resto, l abnorme prolungamento dei tempi massimi di detenzione amministrativa
sembra aver contribuito unicamente ad esacerbare gli elementi di violenza e
disumanizzazione di queste strutture. Tale evidenza è stata sistematicamente
riscontrata dai team di MEDU durante le 18 visite effettuate in tutti i centri
nel corso degli ultimi due anni. Sebbene i dati del 2013 della Polizia di Stato
segnalino un tempo medio di permanenza all’interno dei CIE di 38 giorni, tale
dato deve essere scorporato, per un adeguata analisi, dal momento che
rappresenta una media di tutte le persone transitate nei centri, includendo
categorie di migranti trattenuti anche per periodi brevissimi, come ad esempio
i migranti il cui fermo non è stato convalidato dall’autorità giudiziaria. Il
rapporto di Medu non si limita solo alle statistiche: si avanzano alcune
concrete proposte per migliorare il sistema di gestione dei migranti
irregolari: la richiesta di chiusura degli otto Cie temporaneamente non
operativi, ma anche di quelli ancora formalmente aperti, eppure considerati
strutturalmente inadeguati; la riduzione a misura eccezionale, o comunque del
tutto residuale, del trattenimento dello straniero ai fini del rimpatrio; per
giungere, più in generale, all’adozione di misure di gestione dell’immigrazione
irregolare, caratterizzate dal rispetto dei diritti umani.
La Stampa 13.2.14
Cagliari, immigrati in fuga dal Cie
Chiuso l’aeroporto, due voli dirottati
Lo scalo Elmas è rimasto interdetto ai passeggeri per ragioni di sicurezza
per oltre un’ora. Disagi ai passeggeri. Individuati due dei nove fuggiaschi
qui
l’Unità 13.2.14
Fini-Giovanardi bocciata Benefici per 10mila
Per la Consulta illegittima la legge del 2006. Torna la distinzione tra droghe leggere e pesanti
Per migliaia di detenuti si aprirebbe il carcere
Ora legalizzare la cannabis
di Luigi Cancrini
Sono passati otto anni
dall’approvazione della legge 49 del 2006 (la cosiddetta Fini Giovanardi) che
con un colpo di mano di evidente illegittimità costituzionale portò indietro le
lancette dell’orologio.
Cancellando, di fatto, l’esito del
referendum del 1993 che aveva sancito la depenalizzazione della detenzione di
stupefacenti per uso personale. Introducendo la tabella unica delle sostanze e
quindi la parificazione delle pene per tutte le droghe, leggere e pesanti.
Sanzionando pesantemente (da sei a venti anni di carcere) la detenzione (non lo
spaccio) di tutte le sostanze stupefacenti in quantità superiore ad una soglia
al di sopra della quale sarebbe valsa la presunzione di spaccio e incriminando
così i consumatori per il semplice possesso anche di una quantità minima in
eccedenza rispetto a quanto fissato da un decreto del Ministero della Sanità.
Aggravando e burocratizzando pesantemente, infine, le sanzioni amministrative
per l’uso personale fino al determinarsi di una commistione ricattatoria tra
cura e pena.
Il clima in cui questa legge fu
approvata va ricordato. Il governo Berlusconi e la sua maggioranza parlamentare
avevano perso il consenso del paese e le elezioni ormai vicine (maggio del ’96)
erano quelle che sarebbero state vinte dall’Unione di Prodi. Porcellum e
Fini-Giovanardi, due leggi ambedue oggi cancellate dalla Corte Costituzionale,
furono allora scelte portate avanti a colpi di maggioranza senza che di questi
problemi si potesse discutere nel Parlamento o nel Paese per motivi dettati
dalla disperazione di chi stava per perdere e voleva creare problemi alla nuova
maggioranza (il Porcellum) o tentare una manovra propagandistica utile a
catturare, sulla pelle di tanti ragazzi normali e di tanti tossicodipendenti,
il voto dei «benpensanti « (la legge sulla droga): utilizzando una maggioranza
parlamentare che fra poco non ci sarebbe stata più. Senza seguire l’iter
normale di una legge, la Fini – Giovanardi, in particolare, fu proposta (ed è
questa oggi la ragione del suo annullamento) in forma di emendamento aggiuntivo
di una legge che riguardava le Olimpiadi di Torino. Con che risultati?
Drammatici. Come ben documentato dal 4° Libro Bianco sulla legge Fini-
Giovanardi presentato dalla Società della ragione e dal Forum Droghe nel 2013.
È sulla base di quel famigerato articolo 73 della legge sulle Olimpiadi,
infatti, che sono entrati in carcere, dal 2006 al 2012 percentuali sempre
superiori al 30% (nel 2012 il 34,47%) di tutti i nuovi detenuti ed è per colpa
dello stesso articolo 73 che risultavano detenuti in carcere, al 31 dicembre
del 2012, il 38,46% di tutti i detenuti. Nuovi e vecchi. Trafficanti? No.
L’articolo di legge che punisce il traffico «vero» è un altro e ha portato in
carcere una percentuale almeno 4 volte inferiore di soggetti che, spesso, non
sono tossicodipendenti.
I ministri della Giustizia e i
partiti politici non hanno riflettuto abbastanza in questi anni su questi dati.
Si sarebbero resi conto, se lo avessero fatto, del fatto per cui una
percentuale importante (fra 1/3 ed 1/4) della popolazione carceraria è
costituita da persone che andrebbero curate e non recluse. Ma si sarebbero resi
conto, soprattutto, del fatto per cui la stragrande maggioranza di queste
persone è stata incarcerato non perché spacciava ma perché deteneva
quantitativi di droghe, spesso leggere, di poco superiori a quelle previste
dalle tabelle ministeriali: di persone, cioè, che detenevano le sostanze per
uso personale e la cui attività di spaccio era presunta sulla base dell’idea
folle ma radicata nella mente fantasiosa di Fini, di Giovanardi e dei loro
obbedienti colleghi per cui il tossicodipendente che ha bisogno o desiderio
della sua droga ma che per poterla usare deve comunque comprarla e dunque
detenerla viene considerato per legge, per principio, come una persona che la
detiene per venderla o darla ad altri: cosa che il tossicodipendente vero, in
realtà, non farebbe mai o quasi mai.
Che fare adesso? Quello che vorrei
dire con forza al governo che verrà è che partendo da questa sentenza è
possibile e necessario oggi andare oltre la legge Iervolino-Vassalli modificata
dal referendum del ’93 che annullava l’articolo (voluto, allora, soprattutto da
Craxi) che trasformava in un reato il semplice atto di drogarsi. C’è in atto
nel mondo, oggi, infatti, dopo il documento dei saggi nominati dall’Onu nel
2010 sulla necessità di cambiare regime a proposito delle droghe leggere, una
rivoluzione sempre più ampia e convinta degli atteggiamenti da tenere nei
confronti dello spinello che è stato legalizzato, come sostanza da assumere per
ragioni mediche e per ragioni di puro e semplice piacere o divertimento, in un
numero crescente di paesi e in quasi tutti gli Stati Uniti d’America. Usati in
modo moderato e ragionevole gli spinelli sono molto meno pericolosi per la
salute degli esseri umani dell’alcool e delle sigarette. Commercializzarli
legalmente significa da una parte difendere la salute dei consumatori
controllando la quantità di principio attivo che contengono e dall’altra
togliere all’economia criminale una delle sue fonti di reddito fra le più
importanti.
Ci riusciremo anche in Italia?
Dimenticheremo finalmente anche da noi le farneticazioni dei Giovanardi, dei
Muccioli e dei Serpelloni? Riusciremo sul serio e finalmente ad evitare
l’alleanza perversa che da decenni si è stabilità nei fatti fra l’avidità dei
trafficanti di droga e la crudeltà dei politicanti travestiti da tutori di una
ipocrita morale degli altri?
Repubblica 13.2.14
Quelle leggi ideologiche
di Gianluigi Pellegrino
A una a una ci liberiamo delle scorie velenose di un
ventennio devastante.
Della sua legislazione abusiva. Porcellum, norme ad
personam, a servizio del padrone, di uno slogan, di una dottrina o
un’ossessione. In danno del paese e dei suoi cittadini.
Abusare di vino o di vodka, di sigarette o spinelli è
una violenza contro se stessi, un cupio dissolvi che nessuno si sognerebbe
di incentivare e reclamizzare. Ma, come sanno anche le pietre, criminalizzare
le droghe leggere realizza il capolavoro di conseguire insieme più risultati.
Crescita esponenziale del mercato illegale e delle
mafie, ingolfamento di tribunali e carceri, consegna al circuito criminale di
masse di giovani, un aumento dell’uso di stupefacenti solleticato dal fascino
caldo e perverso della clandestinità. Se qualifichiamo “complici” chi vende
morte spacciando eroina e chi fuma una canna in compagnia, il crimine non si
combatte ma si genera. Il cerchio si chiude (ma forse si spiega) con la
conseguente periodica pretesa di amnistia per i delinquenti veri, colletti
bianchi, corrotti e corruttori, concussi e concussori.
Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte
costituzionale a porre rimedio. E a ricordarci quanto purtroppo la politica di
questi anni sia stata incapace e dannosa proprio nella sua più alta proiezione
istituzionale che è la funzione legislativa. Così come ha dovuto cassare
l’inaccettabile Porcellum che altrimenti sarebbe rimasto lì per sempre, la
Consulta oggi, semplicemente applicando la Costituzione, e spazzando via una
norma assurda, garantisce la più razionale, equilibrata ed efficace misura
svuota carceri mentre anche qui in Parlamento si balbetta.
Niente però avviene per caso. Abbiamo assistito ad una
progressiva rottura del principio di rappresentanza culminata con la “legge
porcata” che non a caso, in quella legislatura che moriva, veniva varata negli
stessi giorni della Giovanardi, approvata per servire l’ossessione ideologica
dell’allora fedelissimo del Cavaliere.
Parlamentari ormai sotto ricatto del potere di nomina
ebbero così l’impudenza di inserire la criminalizzazione delle droghe leggere
in un decreto sulle Olimpiadi invernali. Ora l’ex ministro grida che la
Consulta farebbe politica. Ma, così come allora, Giovanardi non sa di che parla.
La Corte ha fatto semplicemente applicazione di un suo ribadito insegnamento
(decisioni 22 del 2012, 32 e 237 del 2013), fondato su un principio basilare
del nostro ordinamento, ricordato anche in numerosi messaggi di Ciampi e di
Napolitano. Utilizzare la conversione di decreti per inserire norme “intruse” è
il tradimento sostanziale della funzione del parlamento, perché genera una
legislazione di “soppiatto”, sfuggendo non solo al principio di rappresentanza
ma anche a quello di responsabilità.
Il che tra l’altro ci ricorda quanto giusta fosse nel
merito costituzionale la recente critica per la misura su Bankitalia
appiccicata al decreto Imu, ma pure quanto miope sia stato trasformarla in
violenta gazzarra.
Se poi la legislazione di soppiatto è puramente ideologica
come la legge Giovanardi, la torsione va al di là del singolo provvedimento
perché vuol transitarci bendati sulle spire dello Stato etico, che impone con
legge costumi e dottrina. Come del resto si tentò di fare sul “fine vita” con
goffa esibizione di servilismo verso presunte aspettative curiali speculando
sulle spoglie martoriate della povera Englaro. «Assassini! » gridò un
Quagliariello invasato. Anche quest’abisso abbiamo conosciuto. Ma non sarà mai
una nuova stagione se non tornerà con una decente legge elettorale, un
consapevole principio di rappresentanza e la decisione responsabile della
politica.
l’Unità 13.2.14
“Ragazzi normali”
Violentano la compagna Fermati quattro alunni
di Adriana Comaschi
Quattro studenti, tutti tra i 15 e i 16 anni, affidati ad altrettante comunità per minori su
decisione del giudice, allontanati da casa e soprattutto da scuola dove -
questa è l’accusa, pesantissima - si sarebbero resi colpevoli di una violenza
sessuale di gruppo ai danni di una compagna di classe. Consumata nei bagni
dell’istituto, tra una lezione e l’altra. L’ultima, drammatica storia di violenza
su una minorenne arriva dalle aule dell’istituto alberghiero Migliorini di
Finale Ligure, in provincia di Savona. Un istituto apprezzato, ora scosso da
quanto denunciato da una sua studentessa o meglio ex studentessa: la ragazzina
ha abbandonato la scuola, fa sapere il legale che la segue, denunciando anche
che avrebbe ricevuto molti sms minacciosi e pieni di insulti da altri ex
compagni. Parla poi di molestie precedenti, non denunciate per pudore. I fatti
contestati dal giudice risalgono al 31 gennaio scorso, la magistratura si è
mossa dunque in fretta, la misura cautelare disposta dal Gip Giuliana Tondina
della Procura dei Minori di Genova è stata eseguita lunedì. E solo allora forse
i ragazzi coinvolti si sono resi conto di quanto veniva loro contestato.
Ragazzi “normali”
Ragazzi ancora una volta di
famiglie “normali”, senza insomma criticità o disagi particolari, e non è la
prima volta che episodi di cronaca nerissima coinvolgono studenti “qualunque”,
quelli di cui tutti direbbero - e magari dicono - che no, non è possibile, «non
farebbero mai una cosa del genere». In questo caso secondo l’accusa a fine
gennaio, in un giorno come un altro, avrebbero costretto una coetanea,
compagna, che dunque ben conoscevano, a subire diversi atti sessuali. Figure
familiari che in un attimo varcano un confine da cui non c’è ritorno, e si
trasformano in aguzzini, più o meno consapevoli di commettere un reato.
Uno di loro avrebbe preso
sottobraccio la ragazzina, e portata verso gli spogliatoi della palestra, nei bagni.
Gli altri tre li avrebbero seguito assistendo alla violenza, a cui avrebbe
messo fine l’arrivo dell’insegnante che in quel momento aveva la responsabilità
della classe e che passando di lì ha sentito rumori strani, sospetti. La
ragazzina non ha aspettato per confidarsi con i genitori, e subito la famiglia
ha presentato denuncia ai carabinieri di Finale Ligure. I militari allora hanno
ascoltato come testimone anche l’insegnante e compiuto un sopralluogo a scuola.
Quindi hanno girato il rapporto ai giudici minorili competenti, che hanno
disposto l’audizione della quindicenne con l’ausilio di uno psicologo.
Valutati questi elementi, il gip
ha deciso di fermare i quattro studenti coinvolti. Niente carcere per loro, in
considerazione del fatto che sono incensurati. Il giudice insomma non ha scelto
la strada più pesante, ma ha comunque agito, e in fretta, con misure cautelari,
il quadro indiziario a carico dei giovanissimi sembra dunque essere considerato
solido. I carabinieri che con il capitano Michele Morelli del comando di
Albernga seguono le indagini sul caso si sono mossi con discrezione. I quattro
studenti sono stati chiamati in caserma con le loro famiglie, che si sono
trovate faccia a faccia con la gravità delle accuse e dei possibili
provvedimenti, l’imputazione di violenza sessuale di gruppo è punibile con
diversi anni di reclusione.
L’allontanamento
Lunedì poi i quattro studenti sono
stati prelevati nelle loro abitazioni e accompagnati in diverse comunità, a
Genova e La Spezia, fino a Massa Carrara e Alessandria. Nei prossimi giorni
saranno ascoltati dal Gip, anche loro con il supporto di uno psicologo oltre
che con l’assistenza di un legale, non si esclude che vengano chiamati altri
testimoni. Intanto i quattro sono stati sospesi da scuola, un allontanamento
temporaneo mentre si aspettano i prossimi passi della magistratura. Il preside,
Luca Barberis, ha smentito di aver sminuito in alcun modo la vicenda, la
collaborazione con gli inquirenti è stata piena. Le lezioni continuano, il
collegio docenti si è riunito in questi giorni, ma quanto successo non può che interrogare tutti.
Repubblica 13.2.14
Melita Cavallo, presidente del Tribunale dei Minori di Roma
“In gruppo perdono il senso del limite così giustificano le loro violenze”
intervista di Maria Elena Vincenzi
Roma - «Il problema è che oggi i
giovani non hanno limite, non sono in grado di fermarsi e basta nulla per
arrivare alla violenza. È sufficiente pensare agli episodi di bullismo: non ci
si ferma più, anzi spesso c’è chi rinforza, chi aizza, chi rincara la dose».
Melita Cavallo, è presidente del Tribunale dei Minori di Roma, e da anni si
occupa dei giovanissimi.
Presidente, spesso accade che
anche quando vengono arrestati, gli adolescenti non capiscano che hanno fatto
qualcosa di grave.
«Non credo che non sappiano cosa
sia un reato, lo sanno eccome. Il problema è che quando sono insieme non si
rendono conto, non capiscono che avere avuto un ruolo, anche se marginale, è
comunque avere partecipato. Sa quante volte nella mia carriera mi è capitato di
sentirmi dire: “Ma io ho fatto solo quello”? Come se fosse una parte e non il
tutto. E per questo non si sentono colpevoli».
E spesso poi accade che le
famiglie o la comunità in cui vivono li giustifichino.
«Il processo penale per i minori
è studiato per questo. Per metterli di fronte alle proprie responsabilità, alle
conseguenze di ciò che il reato ha prodotto sulla vittima. È tagliato sulla
personalità del ragazzo per ottenerne il cambiamento ».
Magari non bisognerebbe arrivare in
un’aula di tribunale per capirlo.
«Certo. Ma purtroppo è saltato il
rispetto dell’altro. È saltato negli adulti, figuriamoci nei minori che sono
fragili, oggi più che mai. E le famiglie in questo hanno una grandissima
responsabilità perché poco regolative. Voglio però aggiungere che ci sono
comunque tanti minori che hanno le idee ben chiare e si comportano bene».
Quanta e quale pensa che sia la
responsabilità del mondo esterno oltre che dei genitori?
«Tanta. È la società che è così.
Poi c’è la televisione e, soprattutto, ci sono internet, facebook».
Sembra che i ragazzi ormai vivano
in un’altra dimensione, scollegati dalla realtà.
«Questi mezzi sono utilissimi
perché permettono di mantenere il contatto con il mondo esterno. Ma anche in
questo serve un limite. Quando li ascolto mi rendo conto che spesso, anche
nelle famiglie semplici, i ragazzi hanno il computer in camera e ne fanno l’uso
che vogliono. Sono su internet giorno e notte. E questo non va bene. Torniamo
sempre allo stesso discorso: ci vorrebbe un limite che spesso non c’è».
Corriere 13.2.14
Pedofilia, papa Francesco più severo della giustizia italiana
di M. Antonietta Calabrò
ROMA — «Ridotto allo stato laicale», cioè «spretato». Non più prete, senza possibilità di celebrare la Messa, o amministrare i sacramenti, e tanto meno essere parroco, a contatto con i fedeli ed i ragazzi. «Spretato» con sentenza canonica definitiva dell’ex Sant’Uffizio, che è arrivata prima ancora della sentenza definitiva di condanna penale italiana, per pedofilia. E’ l’ultimo caso che è accaduto nel nostro Paese, il 13 dicembre dell’anno scorso, a Marco Mangiacasale, un ormai ex prete della diocesi di Como già condannato nei primi due gradi del processo penale a 3 anni, 5 mesi e 20 giorni di carcere per abusi sessuali su 4 ragazze minorenni. L’ex parroco e poi economo della parrocchia di San Giuliano, con una sentenza firmata dal Papa argentino e dal Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, monsignor Gerhard Ludwig Mueller, non è più sacerdote.
Il provvedimento, giunto dopo l’indagine (Investigatio praevia ) del delegato all’inchiesta, il reverendo Andrea Stabellini come vicario giudiziale, equivale per un prete al massimo della pena applicabile secondo il diritto canonico. E’ l’ultimo clamoroso esempio di come il Vaticano stia incrementando l’opera pulizia per estirpare la piaga degli abusi sessuali su minori, con Papa Francesco. Del resto, a meno di un mese dall’elezione, il 5 aprile 2013, ricevendo in udienza per la prima volta Muller (che diventerà cardinale al prossimo Concistoro del 22 febbraio 2014), il Pontefice era stato chiaro: tolleranza zero contro la pedofilia nel clero e protezione dei minori e continuità assoluta con l’azione del suo predecessore Benedetto XVI. Tra il 2011 e il 2012 Benedetto XVI, al termine di processi canonici per pedofilia, ha ridotto allo stato laicale ben 400 preti e molti vescovi non lo sono più (soprattutto in Australia, Irlanda e Stati Uniti) per non essere intervenuti in modo efficace contro un fenomeno così odioso. Nonostante questo il Comitato Onu per i diritti dei bambini di Ginevra, la scorsa settimana ha pubblicato un durissimo rapporto contro la Santa Sede. Il 31 gennaio 2014 Papa Francesco ha elevato un nuovo monito. Sempre rivolto all’assemblea plenaria della Congregazione per la dottrina della Fede ha detto: «Pensate al bene dei bambini e dei giovani che nella comunità cristiana devono essere sempre protetti e sostenuti nella loro crescita umana e spirituale». E ai membri dell’ex Sant’Uffizio, il Pontefice ha prospettato il prossimo collegamento del loro Dicastero con la specifica Commissione per la protezione dei fanciulli che, ha affermato Bergoglio, «vorrei che sia esemplare per tutti coloro che intendono promuovere il bene dei bambini». Si tratta della Commissione istituita dal Papa ( e la cui composizione, struttura e poteri sarà resa nota nelle prossime settimane) che è è stata annunciata il 5 dicembre 2013 dal cardinale di Boston Sean Patrick O’Malley, membro del gruppo degli otto porporati (il cosiddetto G8) e campione della lotta contro gli abusi nella sua diocesi.
Ieri, intanto, la Corte d’appello di Palermo ha condannato padre Aldo Nuvola a un anno di reclusione per atti sessuali a pagamento con un minore. Nuvola era già stato arrestato alcuni mesi fa e sospeso a divinis (senza poter esercitare il proprio ministero) per un’altra accusa di induzione alla prostituzione minorile. Anche per lui è aperta la procedura per la riduzione allo stato laicale.
Corriere 13.2.14
Il teatro Valle non sarà fondazione
Il prefetto boccia la richiesta degli occupanti. Il Comune: non cambia nulla
di Laura Martellini
ROMA — Avevano sperato in una via d’uscita, gli occupanti e i giuristi da Stefano Rodotà a Ugo Mattei, corsi in appoggio di una «Fondazione Bene Comune» che restituisse lo status di teatranti agli abusivi del Teatro Valle. Uno dei più antichi palcoscenici della Capitale, gioiello settecentesco ricco di storia e di cimeli, occupato il 14 giugno 2011 da giovani attori e artisti al grido «Difendiamo la cultura», quando il Comune stava per allestirvi una prima stagione che colmasse il vuoto lasciato dall’Eti.
Ieri la Prefettura di Roma ha messo un freno alla «lucida follia», come viene definita nel sito, dicendo no ad un riconoscimento giuridico alla Fondazione Teatro Valle per «carenza dei presupposti richiesti dalla legge». A Palazzo Valentini si sono fatti alcune domande che in un procedimento amministrativo non possono restare senza risposta. Figurarsi se si tratta di un palcoscenico da centinaia di spettatori a sera: chi sono i referenti, chi l’interlocutore? Quale la sede legale? Si può non tener conto del fatto che a carico di alcuni occupanti è aperta un’inchiesta giudiziaria? Si può ignorare che manca la certificazione sulla sicurezza? Che il vento non fosse favorevole per quelli del Valle s’era capito nei giorni scorsi, quando la Digos era andata a bussare alle porte della sala. Gli agenti non erano riusciti ad entrare, ma avevano fatto arrivare le loro ragioni a chi stava in ascolto dietro la vetrata: cinque indagati per occupazione abusiva di uno spazio pubblico, nessuna attestazione d’agibilità, assenza totale di quei permessi che a garanzia degli spettatori gravano su qualsiasi teatro, pubblico e privato.
«Se non fossimo in Italia si sarebbe già arrivati da un pezzo all’unica soluzione possibile: lo sgombero» hanno puntato il dito specialmente in questi ultimi mesi Agis, Siae, e altre associazioni dello spettacolo. E certo il passaggio di ieri fa scricchiolare molto la costruzione di un teatro nelle intenzioni di chi se l’è accaparrato libero da condizionamenti politici e in mano ai cittadini. Anche fossero gonfiate le cifre altissime pubblicizzate sul sito del Valle, 5.000 adesioni per la Fondazione e più di 150.000 euro raggiunti per dare corso ai principi egualitari raccolti nello Statuto, resta l’adesione nel tempo alla «causa» di nomi come Elio Germano, Fausto Paravidino, Emma Dante, Peter Brook, Fabrizio Gifuni e tanti altri. Giorni fa c’era Valeria Golino. Fra poco ospite il regista Otar Iosseliani. Il fuoco iniziale s’è affievolito, insomma, ma non spento, anche se ieri nessuno è intervenuto in difesa del Valle occupato e respinto.
Ora le indicazioni della Prefettura hanno il tono di una stretta finale a decidere per il Campidoglio e per il ministero (Bray è stato avvistato una sera in platea per la presentazione di un libro), rimasti finora alla finestra, nonostante le ripetute rassicurazioni. Rimuovere gli impedimenti e riavviare l’iter amministrativo succede in altri casi, qui si rischierebbe l’avvitamento. Allora? «Per noi non cambia nulla — ha commentato Flavia Barca, assessore alla Cultura di Roma Capitale —, nel senso che proseguono il dialogo e la riflessione che stavamo costruendo. Una Fondazione non avrebbe autorizzato la presenza degli occupanti. A breve avremo un appuntamento con il sindaco e nei prossimi giorni dichiareremo le intenzioni di Roma Capitale». L’ex sindaco Alemanno, sotto la cui amministrazione aveva avuto avvio l’inchiesta, ha definito «giusta la decisione del Prefetto di bocciare una Fondazione basata sull’illegalità. Non si può costituire una Fondazione utilizzando come bene strumentale un teatro pubblico occupato ormai da troppo tempo da persone prive di ogni legittimazione sociale e culturale. Il prossimo passo è riconsegnare il Teatro a Roma Capitale perché lo possa gestire per il bene comune di tutti i cittadini romani». «Quando ci fu l’occupazione — ha invece ricordato il coordinatore nazionale di Cantiere democratico, Stefano Pedica — molti parlamentari aderirono all’iniziativa di salvare il teatro Valle, e in parecchi sottoscrissero la nascita della Fondazione. Promuoverò una raccolta di firme tra tutti parlamentari e invierò al prefetto una nuova richiesta per tenere vivo uno dei luoghi simbolo della cultura romana».
Corriere 13.2.14
Un patrimonio si sbriciola in silenzio
Castelli, mura del Seicento e monumenti Il patrimonio italiano si sta sbriciolando
Dalle fortificazioni di Palmanova ai bassorilievi della Galleria Umberto I a Napol
di Gian Antonio Stella
Non sono venute giù, fermandoci il fiato, solo le mura di Volterra. La verità è che da settimane, un giorno dopo l’altro, vengono giù pezzi della nostra storia. Castelli medievali, antichi palazzi gentilizi, muraglioni, archi… Colpa dell’acqua? Sicuro: erano decenni che non pioveva tanto. Ma è troppo comodo maledire il cielo.
Troppo comodo scaricare sugli Dei altre responsabilità: l’incuria, la sciatteria, il disinteresse per la sana manutenzione quotidiana che nessuno gioca in campagna elettorale.
Gli ultimi a schiantarsi al suolo, rischiando di ferire i passanti, sono stati due pezzi del bassorilievo di uno degli archi dell’elegante (e ammaccata) Galleria Umberto I di Napoli, in faccia al teatro San Carlo. Uno di quegli archi sotto i quali, in una scena indimenticabile del film di Ettore Scola «Maccheroni», Marcello Mastroianni faceva conoscere a Jack Lemmon i piaceri irresistibili di un gigantesco babà con panna.
Più o meno nelle stesse ore, crollavano a Palmanova venti metri del «rivellino», una delle cinte fortificate della magnifica «città stellata» friulana. Una ferita. Tanto più che, dopo decenni di abbandono che avevano consentito agli sterpi di impossessarsi delle mura e agli alberi di affondare in profondità le loro radici tra i mattoni, la meravigliosa fortezza veneziana del 1593 edificata contro i turchi nella piana friulana all’incrocio tra l’antica via Julia Augusta e la Strada Ungheresca, è finalmente al centro d’un piano di recupero. Un’iniziativa bellissima basata, in mancanza di soldi, sulla generosità della Protezione civile, del Corpo forestale e dei volontari che da qualche tempo si sono messi d’impegno a ripulire le mura più antiche. «Non è un caso se lo smottamento ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel piano di pulizia della vegetazione infestante», ha spiegato Francesco Martines, il sindaco cui va il merito di avere avviato il recupero: «Gli alberi e i fichi selvatici con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali, i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto...».
In queste prime settimane del 2014, spiega, a Palmanova sono già precipitati 610 millimetri di pioggia, corrispondenti a 7 tonnellate d’acqua per ettaro. Un diluvio. Proprio la tenuta delle parti delle mura già restaurate, però, dimostra come siano determinanti le opere di manutenzione troppo spesso trascurate: «È necessario un piano di salvaguardia che impegni anche lo Stato, proprio in vista del percorso di candidatura Unesco, un riconoscimento per il quale ci stiamo spendendo molto tutti e che richiederà — come prevede la commissione di Parigi — la definizione di un piano di gestione per la conservazione del bene. Non vorrei che Palmanova diventasse un’altra Pompei...».
Un richiamo scontato. Dallo schianto della Scuola dei Gladiatori non c’è stata pace. Come spiega il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale, Antonio Irlando, in attesa che parta operativamente l’agognato piano di recupero, «crolli diffusi di intonaci decorati e parti di murature si susseguono quotidianamente in molte domus. Da tempo spieghiamo che per ogni crollo reso noto ve ne sono almeno nove, uno per ogni regione in cui è suddivisa Pompei, di cui non si ha notizia».
E se è vero, come ha scritto il New York Times , che «i crolli a Pompei sono diventati una metafora dell’instabilità politica e dell’incapacità dell’Italia di prendersi cura del suo patrimonio culturale», ogni pietra che si stacca dai nostri monumenti aggiunge nuovi elementi allo sconcerto che gli stranieri provano davanti all’inadeguatezza di chi ci amministra. Risuona nelle orecchie l’accusa del Guardian : «L’abbondanza di siti archeologici e culturali porta l’Italia all’indifferenza. La conservazione non si classifica tra le priorità di un Paese costellato di acquedotti, anfiteatri e altri siti di grande rilievo culturale».
Che sia costosissimo, e di questi tempi forse al di fuori della nostra portata, un gigantesco piano di recupero di ogni singolo tesoro che abbiamo, dalle Gualchiere di Remole al castello normanno di Maddaloni, dalla rocca di Sutera agli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo, è vero. Ma certo l’elenco dei lutti culturali che hanno colpito il nostro patrimonio nelle ultime settimane e negli ultimi giorni è impressionante.
A Pozzuoli, racconta sul Corriere del Mezzogiorno Antonio Cangiano, è rovinato al suolo vicino a una stazione della ferrovia Cumana un grande frammento murario del complesso dello stadio di Antonino Pio che un tempo ospitava gli Eusebeia, giochi ginnici quinquennali sull’uso di Olimpia. A Stigliano, in provincia di Matera, è venuta giù l’ultima facciata del castello medievale danneggiata nel Seicento da un violento terremoto.
A Frinco, in provincia di Asti, è smottata verso le case una parte del maniero che da secoli domina il paese, dando ragione ai timori del sindaco che qualche settimana fa aveva denunciato il rischio di una frana pericolosa. A Roma è crollato un contrafforte di una torre delle Mura Aureliane, già colpite da un cedimento simile, non lontano, nel 2001. A San Vito Chietino un gruppo di famiglie è rimasto isolato dallo sbriciolarsi di un tratto delle mura di cinta di un castello risalente all’anno Mille. A Subiaco il maltempo ha fatto crollare parte del tetto della Rocca Abbaziale, meglio nota come la Rocca dei Borgia. A Spoleto sono venute giù due capriate e parti della copertura del complesso dell’anfiteatro. E altre mura antiche hanno ceduto, sotto le piogge di questi giorni, a Vignola, in provincia di Modena. Per non dire dei crolli nei centri storici di Taranto o alla Vucciria di Renato Guttuso, nel cuore di Palermo.
Troppi traumi, in pochi giorni. Troppi. L’unica speranza è che almeno questi aiutino i ministri, i governatori, i sindaci e tutti i cittadini a capire che, nell’attesa di faraonici e costosissimi megaprogetti di recupero, che mai potranno accontentare tutti, l’immobilismo è un suicidio. E che un minimo di decorosa manutenzione quotidiana, porti o non porti voti, è un dovere verso noi stessi e verso quei tesori di cui siamo, forse immeritatamente, i custodi.
Gian Antonio Stella
Repubblica 13.2.14
Le elezioni europee e i trattati da rifare
di Luciano Gallino
l’Unità 13.2.14
Caso marò, schiaffo Onu all’Italia
di Umberto De Giovannangeli
Si complica ogni giorno di più il
caso dei marò, con Italia e India sempre più contrapposte su tempi e modi con
cui potranno essere giudicati Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Stavolta
però a riaccendere le polemiche sul versante italiano è stata la sortita del
segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che ha raffreddato le speranze
di Roma per un ricorso agli organismi giurisdizionali dell’Onu, come il
Tribunale per il diritto del mare. «È una questione bilaterale» tra Italia e
India che non coinvolge le Nazioni Unite, ha affermato il suo portavoce, Martin
Nesirsky.
Scontro totale
Parole che hanno scatenato una
bufera a Montecitorio e Palazzo Madama, tanto che c’è chi ha chiesto di
sospendere l’esame per il rifinanziamento del decreto missioni. La ministra
degli Esteri, Emma Bonino, che nella notte ha avuto un colloquio telefonico con
il numero uno del Palazzo di Vetro, parlerà oggi in Aula al Senato per chiarire
la posizione del governo. Intanto, Ban ha ricevuto ieri il Rappresentante
italiano presso le Nazioni Unite, ambasciatore Cardi, che aveva richiesto
urgentemente un colloquio su istruzione della ministra degli Esteri. «Il nostro
ambasciatore», si legge in una nota della Farnesina, «ha espresso la
preoccupazione del governo italiano - condivisa pubblicamente dall’Alto
rappresentante dell`Unione Europea Ashton e dal segretario generale della Nato,
Rasmussen - in merito alle ripercussioni negative che l`applicazione della
legge antiterrorismo nei confronti dei duemarò»trattenuti in India,
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, «potrebbe avere sulla lotta alla
pirateria ed al terrorismo internazionale ». «Il segretario generale ha
prestato grande attenzione a quanto illustrato dal nostro Rappresentante
permanente », si precisa nella nota.
Pressing diplomatico
«In queste ore si terrà a New York
una riunione di coordinamento dell'Ue a 28 in relazione alla decisione indiana
di sottoporre i due fucilieri italiani» Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
«al Sua Act», precisa la Farnesina nella nota di ieri sera, sottolineando che
la riunione è stata «promossa a seguito di un colloquio telefonico tra la
ministro Bonino e il suo omologo Venizelos, presidente di turno dell’Unione
Europea».
A Roma, le Commissioni Esteri e
Difesa del Senato hanno chiesto «un immediato chiarimento al governo», perchè
la ministra proprio martedì aveva «sostenuto in sede parlamentare di aver
acquisito le convergenze necessarie per internazionalizzare il caso». Si chiede
che il governo chiarisca quali iniziative intenda prendere «in sede di Nazioni
Unite per sostenere la posizione italiana e gli ulteriori passi che intende
intraprendere in sede europea e multilaterale». Il presidente della Commissione
Esteri del Senato, Pierferdinando Casini, ha chiesto di sospendere l’esame del
decreto missioni finchè il Governo non venga a riferire in Aula.
«Noi non potremmo che vedere
intrinsecamente legate le vicende di questo pronunciamento giudiziario, con il
nostro impegno internazionale. È indispensabile che si riconosca il carattere
internazionale del problema. Quindi questa azione va portata avanti con
determinazione ». Così il ministro della Difesa Mario Mauro ieri mattina a L’Ariache
Tirasu La7 sulla vicenda dei due marò. «Sul caso dei marò, il governo - aveva
premesso Mauro - hai impostato due azioni chiare: una è
l’internazionalizzazione del caso, quindi il braccio di ferro fosse anche con
le Nazioni Unite va vinto per questo. Non si può pensare che questa questione
sia una questione solo tra Italia e India, per una semplice ragione. Si tratta
di due militari che sono impegnati in una missione, che è si una missione
nazionale, ma che risponde a una esigenza di una collettività globale, che è
quella di porre un argine alla pirateria e al terrorismo». «Noi paghiamo un
prezzo altissimo nel rapporto con la comunità internazionale. Il Senato fa bene
oggi (ieri per chi legge, ndr) a prendere posizione chiedendo che
temporaneamente si sospenda il tema del finanziamento delle missioni
internazionali fino a quando il Governo non si sarà pronunciato su questo. È un
fatto necessario» ha anche spiegato Mauro. Intanto, in vista dell'udienza del
18 febbraio in cui la Corte Suprema di New Delhi deciderà se i due fucilieri di
Marina possono essere incriminati in base alla legge anti-terrorismo, l’inviato
speciale del governo, Staffan De Mistura, è rientrato in Italia per consultazioni
urgenti. Già domenica, però, tornerà in India. L’altro ieri De Mistura aveva
spiegato che il suo viaggio era dovuto al fatto che «l’udienza in Corte Suprema
del 18 febbraio è della massima importanza per il futuro dei nostri fucilieri
di Marina». Ma New Delhi ha insistito che intende applicare le leggi indiane:
«È un caso unico» perché non ci sono precedenti né in India né in Italia, ha
osservato il portavoce del ministero degli Esteri, Syed Akbaruddin.
«Comprendiamo», ha continuato, «che questo processo è qualcosa di cui i nostri
amici italiani non sono contenti. Siamo pronti a spiegare loro la situazione,
ma il diritto nazionale prevarrà nei nostri tribunali fino a quando le nostre
autorità lo riterranno opportuno».
Il segretario generale della Nato,
Anders Fogh Rasmussen, si è schierato dalla parte dell’Italia nella vicenda dei
due marò, sostenendo che le accuse di terrorismo nei loro confronti avranno «negative
implicazioni» nella lotta alla pirateria. «Sono personalmente preoccupato per
la situazione dei due marinai italiani», ha detto Rasmussen nel corso di una
conferenza stampa a Bruxelles. «Sono anche preoccupato dall’ipotesi che possano
essere processati per terrorismo. Questo potrebbe avere delle negative
implicazioni nella lotta internazionale contro la pirateria, una battaglia che
è tutta nel nostro interesse».
Repubblica Fatto 13.2.14
Eutanasia anche sui bambini la legge shock che spacca il Belgio
Cristiani, ebrei e musulmani lanciano un appello per il “no”
di Andrea Bonanni
14
l’Unità 13.2.14
Marine Le Pen sempre più su
Pronto a votarla un francese su 3
di Virginia Lori
Continua a macinare consensi nei
sondaggi la francese Marine Le Pen, sempre più in corsa per l’Eliseo. Sotto la
sua guida il Fronte Nazionale, il partito di estrema destra «sdoganato » dalle
accuse di xenofobia, punta ad essere il maggiore partito di Francia. Lo
conferma l’ultimo sondaggio, quello fornito da Tns Sofres: più di un francese su
3, precisamente il 34%, aderisce «alle idee del Fronte nazionale». Un vero
picco positivo per l’estrema destra francese che ha registrato un aumento
costante di consensi. Si è partiti dal 22% del 2011 ereditato dal padre,
Jean-Marie Le Pen che del Fronte Nazionale è stato il fondatore. È bastato un
anno e nel 2012 Marine ha portato i consensi al 31%, passando al 32% lo scorso
anno, il 2013. Il sondaggio spiega così questi consensi in crescita: per il 56%
degli intervistati la leadership di Marine Le Pen starebbe nella sua capacità
di «comprendere i problemi quotidiani dei francesi», mentre il40%degli
interpellati le riconosce «idee nuove per risolverli».
Il Fronte Nazionale di Marine Le
Pen sarebbe un alleato essenziale per le prossime elezioni europee per Lega
Nord, intenzionata a formare un «fronte per un’altra Europa» con i più
significativi movimenti euroscettici, quindi oltre al francese Fronte
Nazionale, l’olandese Pvv. Lo ha assicurato ieri, il segretario federale del
Carroccio, Matteo Salvini. Vi sarebbe, assicura, «un percorso comune anti-euro
che credo sia più ampio di quanto si pensi». «Marine Le Pen e Geert Wilders, i
leader dei due movimenti politici - assicura - non sono assolutamente i mostri
di cui si parla, anzi. I mostri, soprattutto in Europa sono altri. La nostra
“macro-battaglia” è per costruire un’altra Europa ». «Abbiamo alcune posizioni
differenti, masiamo vicini soprattutto sul fronte della difesa delle autonomie,
del territorio e sulla tutela della religione » ha assicurato Salvini. Il
fronte degli «euroscettici» dovrebbe basarsi su «no all’euro, ai vincoli di
Bruxelles, all’immigrazione e agire contro la disoccupazione». L’ambizione è
conquistare un quarto dei seggi a Strasburgo.
La stessa Marine Le Pen si dice
ottimista. «Penso che saremo al potere entro il decennio» afferma convinta. Lo
fa cercando di mettersi alle spalle le caratteristiche più xenofobe e
estremiste del suo Fronte Nazionale. Per sdemonizzarlo lo presenta come un
movimento più in sintonia con il Tea party degli Stati Uniti, o l’Ukip di Nigel
Farage in Gran Bretagna.
l’Unità 13.2.14
Spagna, la legge contro l’aborto supera il primo esame
di Sonia Renzini
A niente sono valse le proteste
dei giorni scorsi in Spagna contro il progetto di legge di riforma dell’aborto
del ministro della Giustizia Alberto Ruiz Gallardòn che restringe le
possibilità di ricorrervi. Non sono servite le migliaia di donne scese in
piazza a Madrid al grido di «Decido io», né i presidi e le assemblee pubbliche
davanti alle ambasciate spagnole nelle altre città europee. E neppure
l’impressione sempre più netta, e confermata dagli ultimi sondaggi, che la
maggioranza del Paese (fino all’80%), compresi i cattolici praticanti, ritenga
non necessario il provvedimento.
La mozione socialista che chiedeva la revoca della riforma
della legge sull’aborto è stata bocciata con una votazione a scrutinio segreto
dal Parlamento spagnolo dove il partito popolare del premier Mariano Rajoy
dispone di una solida maggioranza: 183 voti contrari su 151 favorevoli, 6 gli
astenuti. Deluse le opposizioni che fino all’ultimo hanno sperato in una
spaccatura della maggioranza parlamentare prodotta dal voto segreto.
È vero che l’iter per il varo
definitivo non è concluso, il disegno di legge deve ancora approdare al
Congresso per la decisione di merito e non sono escluse modifiche, richieste
dagli stessi esponenti del Partito popolare.
Ma è altrettanto certo che questo
primo sì incassato dal governo spagnolo segna indiscutibilmente un passo in
avanti a favore del fronte conservatore. Il disegno di legge, contestatissimo
da subito e accusato di riportare il paese 10 anni indietro nella lotta per i
diritti delle donne, non ha mancato di provocare screzi nella stessa
maggioranza conservatrice, tanto che la vicepresidente della Camera Cecilia
Villalobos ha chiesto al partito di lasciare libertà di voto. Sostenuto dalla
comunità cattolica era stato approvato dall’esecutivo a dicembre in quello che
è stato interpretato da molti come il tentativo di assecondare la parte più
conservatrice del partito.
Passo indietro
Nel nuovo testo si limita la
possibilità di ricorrere all’aborto entro la 14ma settima e solo in caso di
stupro confermato dalla polizia o in caso di rischio certificato per la salute
della madre. Una cesura netta rispetto alla legge in vigore - approvata nel
2010 - che prevede l’aborto su richiesta e il diritto di abortire fino a 22
settimane se la salute della madre è in pericolo o se il feto presenta gravi
malformazioni: una legge che secondo i suoi fautori ha portato nel 2012 alla
riduzione di 6mila casi di aborto rispetto all’anno precedente. «Le donne
spagnole saranno ancora una volta divise in due gruppi, quelle che possono
viaggiare in un paese vicino e sottoporsi a un aborto sicuro e quelle che non
possono », ha detto la vice segretaria del partito socialista Elena Valenciano.
«Non ci fermeremo fino a quando la legge non sarà cancellata», ha detto il
leader socialista Alfredo Perez Rubalcaba, sostenuto dal senatore Joan Saura
del partito verde catalano Icv secondo cui si tratta di «una legge per la
sofferenza delle donne, non per i loro diritti».Adifendere a spada tratta la
riforma è il suo promotore, il ministro della Giustizia Alberto Ruiz-Gallardon,
convinto della necessità di bilanciare i diritti delle donne con quelli dei
bambini ancora non nati: «L’aborto non è un diritto fondamentale, la nostra
riforma non è contro le donne, ma a favore della loro tutela».
Corriere 13.2.14
Passaporti agli eredi degli ebrei cacciati da Isabella
La legge che Madrid vuole approvare per riparare al crimine del 1492 scatena l’assalto ai consolati in Israele
di D. F.
GERUSALEMME — La legge non è ancora stata approvata, sono passati 522 anni, le origini potrebbero essere difficili da provare, il ladino ormai lo parlano solo gli anziani. Eppure le incertezze non hanno attenuato la frenesia degli israeliani per quello che il quotidiano Yedioth Ahronoth ha chiamato «il sogno spagnolo».
Venerdì scorso il governo di Madrid ha annunciato la bozza del progetto: offre la possibilità di ottenere la cittadinanza a chi possa dimostrare di discendere dagli ebrei espulsi nel 1492 dalla regina Isabella e da re Ferdinando. «Vogliamo riparare a uno dei più grandi errori storici commessi dal nostro Paese — ha proclamato Alberto Ruiz-Gallardón, il ministro della Giustizia — e abbiamo aperto la porta che permetterà a questi uomini e donne di ridiventare quello che non hanno mai smesso di essere: cittadini della Spagna. La proposta riflette la realtà di una società pluralista». Il testo della legge precisa che la cittadinanza può essere ottenuta da persone di origine sefardita che abbiano «un legame speciale» con la Spagna, indipendentemente dalla religione, l’ideologia, il credo. La formulazione fa ipotizzare che anche i discendenti dei cosiddetti «marranos», ebrei costretti nel 1492 a convertirsi al cattolicesimo, siano idonei.
I giornali israeliani hanno pubblicato nel fine settimana una lista di 5.200 cognomi che potrebbero rientrare nei criteri previsti dalla norma. Da allora i centralini dell’ambasciata e del consolato continuano a ricevere telefonate per avere informazioni. Quello che attira è la possibilità di ottenere un passaporto europeo senza rinunciare a quello israeliano, come invece è previsto dalla legge attuale (oltre all’obbligo di risiedere in Spagna da almeno due anni).
L’economia spagnola ha ricominciato a muoversi, ma quello 0,3 per cento in più per il Pil nell’ultimo trimestre 2013 resta lontano dalla crescita del 3,4 per cento del Prodotto interno lordo israeliano. Così le motivazioni sono più sentimentali, un ritorno alle radici. Come per Mordechai Ben-Abir, nato Marcus Cabalero, che a 88 anni non ha rinunciato alla speranza: «Ottenere quel documento ha consumato la mia vita — racconta a Yedioth —. Sono tornato all’università sei anni fa, ho dedicato la tesi di dottorato alla scoperta delle mie origini e sono in grado di poter provare scientificamente il mio legame con la Spagna fino a 1200 anni indietro».
Chi non vuole fare lo sforzo di Mordechai deve presentare un certificato della Federazione delle comunità ebraiche di Spagna o di un rabbinato riconosciuto ufficialmente che dimostri la discendenza. Parlare il ladino aiuta, così come il cognome. In Israele vivono 2-3 milioni dei 3 milioni e mezzo di ebrei sefarditi sparsi per il mondo dopo l’espulsione. La modella Natalie Dadon vede l’opportunità spagnola come un investimento per il futuro: «Non si sa mai che cosa potrebbe succedere, meglio avere il documento nel cassetto». Il comico Nadav Abekasis ironizza sul doppio passaporto che molti ebrei ashkenaziti, di origine europea, già posseggono: «Finalmente abbiamo l’eguaglianza, adesso anche gli israeliani che arrivano dal Nord-Africa avranno un posto dove fuggire quando scoppia la prossima guerra».
La Stampa 13.2.14
Berlino
Tanja: lo Stato non mi protegge
Ho lasciato i neonazisti. Vivo baraccata
qui
La Stampa 13.2.14
Parigi
“Ho detto addio alle Femen setta di fanatici
qui
La Stampa 13.2.14
Ungheria, giro di vite contro contadini stranieri e artisti
Orban promette 5 anni di carcere a chi compra terreni e non ha il passaporto magiaro
E continua l’epurazione dei non allineati nelle istituzioni culturali
di Tonia Mastrobuoni
qui
il Fatto 13.2.14
Ucraina, ucciso giudice ragazzino Paese nel caos
Freddato con due colpi alla schiena il magistrato che aveva disposto gli arresti per i manifestanti di Kiev
di Roberta Zunini
Kiev - Due colpi di pistola alla schiena mentre stava rientrando a casa in tarda serata nella città di Kremenchuk, 300 chilometri a sud-est di Kiev, in quella che di fatto è già l’area russofona. Non ha visto in faccia i suoi assassini Oleksandr Lobodenko, un giudice di 34 anni che la settimana scorsa aveva condannato alcuni dimostranti alla carcerazione preventiva di due mesi per “incitamento alla violenza di massa”. Non è trascorsa nemmeno una settimana da quando la ministra della Giustizia ucraina in quota Yanukovich aveva avvisato di possibili atti terroristici. Ma chi siano i terroristi dipende dai punti di vista. Per il presidente e il suo governo sono ovviamente quegli ucraini che da più di due mesi resistono, e talvolta vengono uccisi a colpi di pistola (finora 6) a Maidan e nei palazzi pubblici occupati (non solo di Kiev ma anche di altre città come Leopoli, dove sono già al lavoro con le amministrazioni comunali i cosiddetti comitati del popolo costituiti da semplici cittadini) allo scopo dirimanere indipendenti dalla Russia, ottenere elezioni presidenziali anticipate e la revisione della Costituzione. Per i partiti di opposizione e per circa la metà dell’opinione pubblica milioni di persone – invece il terrore viene elargito e praticato dallo Stato attraverso le forze antisommossa, i teppisti titusk assoldati dal ministero dell’Interno e la magistratura. Prova ne sarebbero le sparizioni, i pestaggi e le torture nei confronti di attivisti e giornalisti scomodi come la reporter investigativa Tetiana Chornovil, che a Natale fu picchiata a sangue. Il processo contro ignoti si è concluso in una sola seduta con la derubricazione del reato da tentato omicidio a teppismo stradale. Un altro fatto avvenuto quasi in concomitanza con l’assassinio del giudice dimostrerebbe la parzialità della magistratura. Si tratta dell’assoluzione e reintegro, grazie alla recente introduzione della legge sull’amnistia (parziale), di Oleksandr Popov e Volodimir Sivkovich, rispettivamente capo dell’amministrazione comunale di Kiev e vice presidente del Consiglio nazionale di Sicurezza e Difesa, sospesi dallo stesso Yanukovich per aver ordinato lo sgombero violento degli studenti che stavano facendo un sit-in pacifico a favore dell’associazione all’Unione Europea, nel novembre scorso. “Da questa sentenza assolutoria risulta evidente che il potere sta preparando una prova di forza contro i manifestanti antigovernativi. Reintegrandoli ha dimostrato di proteggerli anche se violano la Costituzione e brutalizzano i cittadini pacifici anziché proteggerli”, ha commentato con una nota il maggiore partito di opposizione, Patria, di Yulia Tymoshenko. Il partito Udar dell’ex pugile Vitali Klitschko ha chiesto la liberazione immediata dei manifestanti “vittime di giustizia arbitraria”, dopo aver ha denunciato che “la procura ha chiesto 15 anni di reclusione per un uomo che trasportava pneumatici nel bagagliaio della sua auto, mentre Popov e Sivkovich sono amnistiati”. Centinaia di pneumatici sono stati usati per realizzare le barricate di Piazza Maidan. Chi abbia davvero ucciso il giudice probabilmente non si saprà mai ma, di sicuro, questo omicidio fa gioco al governo. Ora tutti attendono con il fiato sospeso l’ultimatum del 17. Il procuratore di Kiev ha invitato i manifestanti a lasciare gli edifici occupati entro questa data. Se non lo faranno, le forze dell’ordine saranno autorizzate a procedere con ogni mezzo, ammesso dalla legge. Ma qui la legge non è uguale per tutti
Repubblica 13.2.14
Svizzera
Quella piccola grande potenza spina nel fianco dell’Europa
Il referendum contro l’immigrazione riporta l’attenzione sulla Repubblica elvetica, con
la sua forza economica e il tradizionale orgoglio per lo splendido isolamento
di Lucio Caracciolo
Gli Stati, come i pugili, sono classificati per
categorie di peso. Sul ring della politica internazionale, la Svizzera è fuori
quota. Più precisamente, come stabilì l’allora segretario generale delle
Nazioni Unite, Kofi Annan, è un paese che “combatte in una categoria superiore”
rispetto a quanto indicato dalla bilancia, spesso truccata, che determina il
rango di un pugile o di uno Stato.
La Confederazione cambia infatti di valore a seconda
dell’unità di misura adottata: con appena 8 milioni di abitanti (di cui quasi
un quarto stranieri) in 41 mila chilometri quadrati, è il novantaduesimo Stato
per popolazione e il centotrentaduesimo per superficie. Ma è nel club delle
venti massime economie planetarie ed è soprattutto la settima piazza
finanziaria, con la quinta moneta al mondo quanto a volume di transazioni – il
franco svizzero, simbolo di stabilità per antonomasia. È la cassaforte
riservata di mezzo mondo (almeno di quello ricco),storicamente fondata sul
segreto del cliente, ma che con l’esplosione della crisi finanziaria globale e
la necessità per gli Stati di recuperare quote di evasione fiscale si trova
sotto schiaffo, bollata con lo stigma della “lista nera” da paesi che spesso
coltivano serenamente i propri capitali anonimi. Di qui il braccio di ferro
negoziale con l’Italia, che verte sul destino di quei 160 miliardi di euro di
provenienza nostrana che secondo Roma sono impropriamente custoditi da banche
elvetiche.
Non solo banche, però. La Svizzera schiera grandi
aziende globali, coltiva la fama di produttore di qualità (al di là della
cioccolata e degli orologi), esibisce tecnologie avanzate e università di
punta, come i politecnici di Losanna e Zurigo. Sotto il profilo geopolitico,
giocando la carta della neutralità e del pragmatismo, Berna è spesso al centro
delle grandi partite internazionali senza troppo apparire, così evitando di
esporsi alle conseguenze della sovraesposizione di potenza di cui soffrono quei
pesi massimi che non riescono a trattenersi dall’esibire i muscoli.
Insomma, la Svizzera conta. Per questo l’effetto del
referendum con cui il 9 febbraio il 50,3% dei suoi elettori ha approvato la
volutamente vaga proposta di contingentare l’immigrazione ha suscitato un’onda
d’urto intimorositernazionale. Specialmente europea. Perché questo piccolo
grande paese incastonato nel cuore dell’Unione Europea, cui rifiuta
orgogliosamente di aderire, ha di fatto ancorato la sua moneta all’euro e
sviluppa oltre due terzi del suo commercio con i paesi comunitari. Sicché
limitare la libertà di circolazione delle persone significa rimettere in
discussione l’insieme degli accordi e delle prassi che connettono in materie
diverse e in variabile misura la Svizzera all’Unione Europea e ai suoi
Statimembri.
Il voto del 9 febbraio non è dunque solo politica
interna elvetica, è soprattutto politica europea. Tocca infatti alle diplomazie
comunitarie e a quella svizzera sciogliere i nodi del paradosso prodotto da un
voto che risponde alla paura dell’invasione straniera – riflesso profondo che
di tanto in tanto riemerge in superficie – colpendo di fatto gli materiali di
chi si è schierato a favore dell’iniziativa promossa dalla destra anti-europea
di Christoph Blocher, blandamente osteggiata dai “poteri forti” e dallo stesso
governo di Berna. L’ex presidente della Banca nazionale svizzera e attuale
numero due di BlackRock, Philipp Hildebrand, ha colto perfettamente sul Financial
Times i termini del dilemma: «Un paese situato nel cuore dell’Europa ora
affronta una dura scelta. Vuole continuare a godere della prosperità che deriva
da un’economia profondamente integrata in Europa e accettare la parziale
perdita di sovranità politica che ne scaturisce? O preferisce ridiventare
padrone assoluto di se stesso, scontando l’abbassamento della qualità della
vita conseguente al progressivo distacco dai mercati europei?». In parole
povere: la Svizzera può tornare isola o restare giocatore globale. Non le due
cose insieme.
La scelta investe la stessa unità nazionale, in un
paese multiculturale che almeno a partire dalla prima guerra mondiale entra in
tensione lungo le linee di faglia linguistiche – francofonia versus
germanofonia, con gli italofoni vicini alla seconda famiglia – ogni qualvolta
le acque europee si agitano. Il 9 febbraio abbiamo ritrovato la Romandia più
aperta e tollerante versus i tedescofoni dei cantoni “forestali” e i ticinesi
italofobi, dell’“inforestierimento” e del dumping sociale alimentato dalla
manodopera poco qualificata proveniente da sud.
Dopo le prime reazioni a caldo con relative
contromosse dei Ventotto sui dossier negoziali euro-svizzeri e le minacce
nemmeno troppo velate di ben più aspre rappresaglie, anche le cancellerie
europee dovranno scegliere un percorso, che presumiamo come sempre
cacofointeressinico (ognuno per sé nessuno per tutti), con Bruxelles impegnata
in un pallido quanto futile esercizio di regia. Il rapporto con Berna in questa
partita apertissima – il governo svizzero ha tre anni di tempo per fissare le
quote migratorie – sarà un interessante rivelatore di come i membri dell’Unione
ne immaginano il futuro. Sotto la pressione di elettorati sempre più scettici
quando non fobici nei confronti di “Bruxelles” e insofferenti per “gli
stranieri che vengono a rubarci il lavoro”, vedremo probabilmente il fronte
nordico, imperniato su Londra, impegnarsi nello smantellamento dei vincoli
comunitari. Obiettivo: trasformare l’Ue in un’area di libero scambio. Dove
l’aggettivo “libero” non ha valenza universale, visto che non si applicherebbe
pienamente ai movimenti delle persone. Resta da stabilire come Germania,
Francia, Italia, Spagna e Polonia, pesi massimi e medio massimi dell’Unione,
vorranno o meno contrastare il riduzionismo britannico-scandinavo.
Non ci stupiremmo se un giorno gli storici
stabiliranno che il referendum svizzero ha segnato l’avvio del percorso verso
un’altra Europa – o non-Europa – che avrà poco in comune con l’Unione Europea
come la conosciamo oggi e nulla con quella sognata dai padri fondatori.
Repubblica 13.2.14
La problematica convivenza tra diverse componenti linguistiche
L’identità difficile di un Paese unico
di Orazio Martinetti
Parlare
di “identità”, per il caso svizzero, è facile e difficile ad un tempo. Facile
se risaliamo all’età medievale, al mito di Guglielmo Tell, il Robin Hood alpino
che si ribella al balivo inviato dagli Asburgo, uccidendolo con un dardo;
difficile se consideriamo lo sviluppo storico della Lega confederata o Corpus
Helveticum, sia in età moderna, sia negli ultimi due secoli, in particolare
dopo il varo della Costituzione del 1848, la carta fondante della Svizzera
moderna, liberale e repubblicana.
Dall’esterno parve più agevole
identificare i tratti specifici degli svizzeri. Già nel ’500 Machiavelli e
Guicciardini intuirono che nel cuore delle Alpi si era andata formando una
comunità di montanari diversa da tutte le altre, non tanto nei costumi quanto
nel modo di governarsi: gestione oculata delle (scarse) risorse naturali, forme
di democrazia diretta, difesa armata. Rousseau, “citoyen de Genève”, rimase
colpito dalla semplicità e frugalità di quei rustici che, per fortuna loro,
erano rimasti immuni dai vizi della vita urbana. Diderot e d’Alembert,
addirittura, ne esaltarono l’indole scrivendo della “felicità di essere
svizzeri” (espressione poi ripresa da vari autori in tempi recenti). Le corti
europee, invece, ostentarono sufficienza, se non disprezzo. Gli svizzeri erano
in fondo dei semplici vaccari (“Kuhschweizer”), gente rozza e avvezza
unicamente all’uso delle armi.
Caduto l’antico regime, e con
esso le monarchie assolute, l’immagine della Confederazione, nel frattempo
diventata Stato federale, subì una drastica revisione, almeno tra le classi
colte. Pian piano si scopriva che il paese s’era dato un insieme di istituzioni
e regole di condotta che potevano fungere da modello: democrazia semi-diretta,
impianto governativo di tipo federale, ovvero preminenza del potere decentrato,
neutralità in politica estera, esercito di milizia (ogni cittadino maschio è
anche soldato). Si diffuse così l’idea che la Svizzera non fosse uno stato come
gli altri, bensì un “Sonderfall”, un’eccezione, un caso particolare nel
panorama europeo. La sua neutralità integrale l’ha salvata dalle dittature e
dalle catastrofi belliche che hanno insanguinato la prima metà del Novecento; e
successivamente le ha concesso di seguire con distacco, nel secondo dopoguerra,
la costituzione del Mercato comune europeo. Nel frattempo, tuttavia, la
fisionomia della Svizzera mutava, non più un’arcadia incontaminata ma un
arcipelago di centri urbaniin rapida espansione, trainati da un’economia che
faceva dell’alta tecnologia e dell’intermediazione bancaria i suoi punti di
forza. Fabbriche e imponenti opere del genio civile (gallerie, dighe, linee
ferroviarie, autostrade) attiravano sul suolo elvetico migliaia di
“Gastarbeiter”, provenienti soprattutto dalle regioni povere dell’area
mediterranea.
Vista dall’interno, invece,
l’identità non è mai apparsa nettamente definita. Le vicende endogene,
soprattutto in epoca contemporanea, offrono un paesaggio costellato
d’incomprensioni e fratture, di attriti tra la maggioranza tedescofona (che
oggi compone il 66% della popolazione) e le altre minoranze linguistiche: più
consistente e combattiva quella romanda, più ridotta ma non meno orgogliosa
quella svizzero-italiana (Ticino e valli italofone dei Grigioni).
All’Esposizione universale di
Siviglia del 1992 fece scalpore il motto “Sviza no existe” utilizzato per
pubblicizzare il Padiglione rossocrociato. Anche il saggista Alain Pichard
giunse alla conclusione che «la Romandie n’existe pas», la Romandia non
esiste. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. La crisi più seria, che
condusse il paese sull’orlo della dissoluzione, si verificò alla vigilia della
prima guerra mondiale, con gli svizzeri francesi schierati, idealmente, accanto
alla Francia e ai suoi alleati, e i cantoni germanofoni sedotti dalla potenza
militare degli imperi centrali. La successiva ascesa, negli anni Venti e
Trenta, dei regimi totalitari provvide a colmare il fossato e a cementare la
coesione nazionale.
Un altro banco di prova lacerante
furono le iniziative xenofobe promosse dall’Azione nazionale alla fine degli
anni ’60: anche qui le spaccature furono profonde, perché le campagne
prendevano di mira non soltanto gli immigrati (perlopiù italiani), ma i valori
a cui si rifacevano le singole stirpi minoritarie, quella italofona e quella
romancia in particolare.
Siamo dunque di fronte a un
paradosso, ad un’identità che si afferma attraverso la sua negazione? Nella
realtà elvetica è proprio questo che avviene, un’identità come costruzione
sociale sempre in fieri, sempre in cantiere, frutto d’innumerevoli mediazioni
tra maggioranze e minoranze, tra autoctoni e stranieri, tra città e campagna,
tra il globale e il locale; un «composto chimico instabile» che a volte produce
reazioni esplosive, com’è successo lo scorso 9 febbraio.
Svizzera
di Francis Scott Fitzgerald
La Svizzera era un’isola, bagnata su un lato dai rimbombi di tuono intorno a Gorizia e sull’altro lato dalle cateratte lungo la Somme e l’Aisne. Per una volta sembrava che nei cantoni ci fossero più stranieri degni di nota che ammalati, ma per scoprirlo ci voleva intuito: gli uomini che sussurravano nei dimessi caffè di Berna e di Ginevra potevano anche essere venditori di diamanti o commercianti in viaggio d’affari. Comunque non erano passati inosservati i lunghi convogli di uomini ciechi o con una gamba, o addirittura ridotti moribondi. Nelle birrerie e nelle vetrine spiccavano i vivaci manifesti che mostravano gli svizzeri in difesa delle loro frontiere nel 1914: con coinvolgente ferocia, giovani e vecchi scrutavano dalle cime dei monti i fantasmi dei francesi e dei tedeschi; lo scopo era rassicurare i cuori svizzeri di aver presoparte alla contagiosa gloria di quei tempi.
Corriere 13.2.14
L’Europa e la Svizzera post referendum
Prove di una Guerra che non scoppierà
di Franco Venturini
Alle prese con una crisi economico-finanziaria che non è finita, scossa da gravi disagi sociali che nelle urne di maggio rischiano di tradursi in voti antieuropei, impegnata sul fronte esterno a recuperare una Ucraina tornata in bilico, l’Europa non aveva certo bisogno di ricevere una pugnalata dagli elettori svizzeri. E ora che così è stato con il referendum di domenica sul ripristino delle quote per gli immigrati, non si sa se considerare più esplosiva la rabbia di Bruxelles o l’imbarazzo di Berna.
L’ultimo capitolo di questa saga tra ex amici ha avuto luogo ieri: dopo aver bloccato i negoziati per l’inserimento della Svizzera nel mercato europeo dell’elettricità, gli europei hanno deciso di congelare anche la trattativa per un trattato istituzionale globale con la Confederazione. Ed è assai probabile che la burocrazia europea stia passando in rassegna l’insieme degli accordi bilaterali conclusi con Berna, per vedere cosa può essere sospeso a titolo di monito. Sempre che non si arrivi all’arma atomica che José Manuel Barroso ha teoricamente a disposizione: il blocco di tutti gli accordi. Evento in realtà improbabile, tanto più che il messaggio della rabbia europea è comunque già arrivato in Svizzera: attenti — vi è simbolicamente scritto — se voi vi rimangiate la libertà di circolazione sappiate che per noi essa va di pari passo con altri pilastri europei come il movimento dei capitali. Capito, gentili banche elvetiche?
Sull’altro fronte, quello svizzero, c’è per Berna il dovere politico di rispettare il risicato verdetto degli elettori, e una nuova legge sull’immigrazione sarà pronta entro giugno per entrare in vigore alla fine dell’anno. In parallelo con intense consultazioni, e con i migliori intenti per la collaborazione futura con la Ue. Insomma, l’Europa agita il bastone ma è improbabile che abbia davvero l’intenzione di mandare all’aria le sue relazioni con la Svizzera. La Svizzera si dà un contegno mentre rivendica l’obbligo di rispettare il verdetto delle urne, ma c’è da giurare che farà di tutto per salvaguardare un insieme di rapporti che è nel suo interesse. Sarà una drôle de guerre , e durerà almeno quanto quella del ‘39-40.
il Fatto 13.2.14
La scommessa di Obama sull’isola che non c’è
Cuba: Il vecchio regime non è molto cambiato
Ma l’economia globale impone agli Usa di abbattere anche gli ultimi tabù rimasti
di Maurizio Chierici
Nell’isola che non c’è gli Stati Uniti di Obama giocano la grande
scommessa. Non c’è per l’agonia del socialismo reale. Ormai non c’è perché si è
rotto lo specchio nel quale si affacciavano ideologie travolte dalla storia.
Vecchie verità parziali mentre le terze generazioni fanno i conti con la realtà
di qua e di là dal mare: il 63 per cento dei cubani della Florida ripete
d’essere “stanco di divisione ed embargo”.
Rompendo un interminabile tabù, l’organizzazione che riunisce gli Stati
Americani (Oea) per la prima volta si è riunita all’Avana dove le regole non
sono cambiate. Partito unico con una sola voce che rimbalza dai giornali alla
tv. Dei diritti violati non parlano mai. Malgrado le aperture (cubani liberi di
girare il mondo, venti voli al giorno Mia-mi, California, New York) le dissidenze
sono punite come negli anni di Mosca. Se Dilma Rousseff e Cristina Kirchner
hanno abbracciato ciò che resta di Fidel, la visita di Peña Nieto, presidente
liberista del Messico, fa capire quale strada si sta per aprire. Peña Nieto ha privatizzato
lo storico petrolio di Stato ed è arrivato all’Avana per sollecitare una
collaborazione economica non prevista dall’embargo Usa: non importa se Città
del Messico è legata a Washington nel mercato comune del Nafta. Colpo di testa
o disobbedienza pilotata in previsione di cosa? Anche l’Unione europea annuncia
una collaborazione non occasionale: continua e programmata.
il Fatto 13.2.14
Stati Uniti. Aumenta il salario minimo
Dieci dollari e dieci centesimi l’ora: sarà questo il nuovo salario minimo per tutti i lavoratori che lavorano nelle aziende sotto contratto nell’Amministrazione federale. L’ha annunciato Barack Obama, che di questa misura ha fatto una battaglia personale. LaPresse
Repubblica 13.2.14
“Bugiardo”, la Knesset contesta Schulz
Gaza e colonie, il presidente del Parlamento europeo aveva criticato Israele
di Fabio Scuto
Gerusalemme - Contestazione
per il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, durante il suo
intervento al Parlamento israeliano. Schulz ha detto alla Knesset che l’Unione
europea dovrebbe sempre stare al fianco di Israele, in un discorso che ha
toccato l’importanza di ricordare l’Olocausto, e la sua prospettiva personale
dei crimini della Germania durante la seconda guerra mondiale. Ma le sue
osservazioni sulle condizioni di vita dei palestinesi hanno provocato una dura
reazione da parte dei 12 deputati di Bayit Yehudi (Focolare ebraico), il
partito religioso-nazionalista, e di qualche parlamentare del Likud. Il loro
leader Naftali Bennett - ministro del governo Netanyahu - ha successivamente
spiegato alla Radio israeliana che «non poteva sopportare oltre le bugie di
Shulz» sulle condizioni di vita dei palestinesi, e il suo uso della parola
«assedio» per definire il blocco della Striscia di Gaza. «Chiedo al primo
ministro una correzione immediata in nome dell’onore dello Stato di Israele»,
ha proseguito Bennett, «e non voglio accettare un sermone sulla falsa moralità
diretta a Israele nel Parlamento israeliano e sicuramente non in lingua
tedesca».
Nel suo discorso Schulz aveva
affermato che «un palestinese ha accesso a 17 metri cubi di acqua al giorno
contro i 70 di un israeliano»; aveva poi aggiunto però per chiarezza: «Non ho
controllato questi dati e chiedo a voi se siano corretti», e aveva definito
«dannoso il blocco» che Israele ha imposto a Gaza. Il presidente ha cercato poi
di minimizzare le urla rivolte contro di lui - Vergognati! Bugiardo! - e
scandite anche dai deputati del Likud del premier Benjamin Netanyahu. «A
confronto con quel che accade nel Parlamento europeo», ha detto all’uscita
della Knesset, «sono cose accettabili».
La contestazione alla Knesset ha
finito così per cancellare un’importante dichiarazione che Shulz aveva fatto in
mattinata a proposito della decisione della Ue di non importare più in Europa
prodotti che vengano dagli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata.
L’Unione europea - aveva spiegato Shultz - non ha intenzione di approvare una
risoluzione per il boicottaggio di Israele, in caso di fallimento dei negoziati
di pace. Sarà una decisione che spetterà ai singoli Paesi della Ue e non
dell’Unione. «Nel Parlamento europeo di sicuro non c’è», aveva precisato, «una
maggioranza a favore di un potenziale boicottaggio, e se devo dire la mia
opinione personale penso che sia una soluzione buona a nulla».
La polemica in questi giorni in
Israele è rovente, la destra, il partito dei coloni, il Likud del premier
Netanyahu sentono forte la pressione di Usa e Ue per uno sviluppo positivo
della trattativa di pace con i palestinesi. Il continuo annuncio di nuove case
nelle zone oggetto del negoziato non aiuta. E oggi ci sarà una nuova
manifestazione del movimento dei coloni alla quale hanno annunciato la loro
presenza ben 6 ministri del governo Netanyahu, per spingere il premier a
rompere gli indugi sulla “famosa” collina E1 - in Cisgiordania lungo la strada
per il Mar Morto - e avviare la costruzione delle 1.200 case finora bloccate
dalle pressioni degli Stati Uniti. Se accadrà sarà il colpo finale al
negoziato. È in questa atmosfera che Netanyahu si accinge a fine mese a
incontrare il presidente Obama.
Corriere 13.2.14
Schulz parla alla Knesset. I deputati lo contestano
«Palestinesi senz’acqua». Netanyahu critica la sua parzialità
di Davide Frattini
GERUSALEMME — «Un giovane palestinese mi ha chiesto perché abbia diritto a 17 litri d’acqua al giorno, quando gli israeliani possono consumarne 70. Mi ha commosso e adesso giro a voi la sua domanda». La risposta di Naftali Bennett e dei suoi deputati è stata alzarsi in piedi e lasciare l’aula della Knesset dove Martin Schulz stava parlando. La visita e il discorso del presidente dell’Europarlamento avrebbero dovuto rattoppare i buchi diplomatici nelle relazioni tra Israele e l’Unione Europea. Lo strappo è invece diventato ancora più grande.
Il premier Benjamin Netanyahu ha scelto di non criticare la protesta del suo ministro dell’Economia e leader del partito ultra-nazionalista Focolare ebraico. Le parole di rammarico sono state indirizzate a Schulz: «Ha dato retta a una sola fonte e purtroppo sta diventando il vizio degli europei. Ha ammesso di non aver controllato i dati. È quello che succede sempre: ascoltano, non verificano, lanciano accuse».
Bennett ha considerato inaccettabili anche la denuncia contro le nuove costruzioni nelle colonie in Cisgiordania e le critiche al blocco della Striscia di Gaza. «Non sono disposto a ricevere lezioni basate su falsità. Soprattutto in tedesco». Alla cena ufficiale Yuli Edelstein, il presidente della Knesset, ha continuato a polemizzare con Schulz. «Le dichiarazioni inesatte che vengono pronunciate ogni giorno contro di noi contribuiscono a delegittimare Israele».
Andreas Michaelis, l’ambasciatore tedesco, ha definito irrispettosa la provocazione di Bennett, che ha lasciato capire: l’Olocausto toglie il diritto a Schulz di attaccare lo Stato ebraico. «Il presidente dell’Europarlamento è un sostenitore di Israele — ha ribadito l’ambasciatore — ed è sempre aperto al dialogo».
Nel discorso Schulz ha citato Willy Brandt («La pace non è tutto, ma senza la pace tutto è niente») e lo ha definito «il premio Nobel che combatté i nazisti tedeschi e si inginocchiò davanti al memoriale che commemora gli ebrei sterminati». A sorpresa ha ricordato anche Ariel Sharon. «Disse una frase per cui lo ammiro: “È impossibile avere uno Stato ebraico democratico e allo stesso tempo controllare tutta la Grande Israele. Se insistiamo nell’inseguire interamente un sogno, rischiamo di perderlo del tutto”».
Il partito di Bennett rappresenta i coloni che stanno ancora inseguendo quel sogno e sono contrari a un accordo di pace con i palestinesi: le terre conquistate nella Guerra dei 6 giorni devono secondo loro restare israeliane. Gli americani — rivela il telegiornale del Canale 10 — temono che Bennett e altri oltranzisti nel Likud, la formazione del premier Netanyahu, riescano a compromettere i negoziati condotti da John Kerry, il segretario di Stato americano. Dan Shapiro, ambasciatore Usa a Tel Aviv, ha ricevuto istruzioni di incontrare i rappresentati delle fazioni più estremiste.
Schulz ha visitato anche Ramallah e nel discorso ha elogiato il presidente palestinese Abu Mazen. Agli israeliani ha promesso che l’Unione Europea non metterà in atto un boicottaggio economico, se le trattative dovessero saltare. È quello che teme Yair Lapid, il ministro delle Finanze, ed è quello che temono i manager e gli imprenditori israeliani.
Il rischio di sanzioni o di perdere investimenti dall’Europa sta cominciando a preoccupare anche Netanyahu che vuole rispondere con una campagna globale di pubbliche relazioni.
Repubblica 13.2.14
L’iniziativa
Da Grossman a Noa lettera degli artisti per sostenere Kerry
GERUSALEMME — Un gruppo di artisti israeliani - con scrittori come David Grossman e cantanti come Noa - si è schierato a sostegno del segretario di Stato americano John Kerry, con una lettera in cui lo invita a proseguire i suoi sforzi per giungere ad un accordo di pace nella regione. Kerry è oggetto da mesi in Israele di una feroce campagna, che arriva all’insulto personale e comprende persino attacchi da parte dei ministri di Netanyahu. «Condurre negoziati tra Israele e palestinesi è un compito difficile ma il suo paziente approccio di cooperazione con entrambe le parti fa avanzare una sostenibile soluzione al conflitto », scrive il gruppo, secondo quanto riportava ieriYedioth Ahronoth.
Negli ultimi 8 mesi la trattativa non ha fatto un solo passo avanti significativo mentre la “finestra” del negoziato di pace si sta per chiudere.
La Stampa 13.2.14
Quei tremila beduini dimenticati: “Fu Sharon a deciderne il destino”
David Landau, direttore di “Haaretz”, in una biografia dell’ex premier Ariel Sharon descrive come fu lui a decidere nel 1972 lo spostamento di una tribù beduina per consentire alle manovre di svolgersi
L’Operazione “Oz” costò ai beduini almeno 28 morti
di Maurizio Molinari
qui
Corriere 13.2.14
Homs e lo spettro di un’altra Srebrenica
di Lorenzo Cremonesi
Cosa avverrà degli uomini di Homs? Non si rischia che i mediatori dell’Onu si rendano complici di una Srebrenica siriana? Il fantasma del massacro di quasi venti anni fa in Bosnia domina la seconda tornata dei negoziati di Ginevra tra esponenti dell’opposizione siriana e i rappresentanti del regime di Assad. Il pericolo è infatti che l’unico e scarno risultato raggiunto finora da questi difficili colloqui, iniziati tre settimane fa e mirati ad una soluzione per la guerra civile siriana grazie alla mediazione delle Nazioni Unite, si riveli una colpevole copertura dell’ennesimo crimine di guerra. Le immagini e i racconti che giungono nelle ultime ore dalle rovine fumanti della città assediata da oltre 22 mesi dai soldati lealisti non sono affatto rassicuranti. Centinaia di profughi infagottati, con i bambini in braccio, vecchi e feriti trascinati su barelle di fortuna, valige fatte di coperte per cercare di salvare le ultime, povere cose, raggiungono a stento i gipponi con i vessilli azzurri dell’Onu e quelli della Mezza Luna Rossa. In maggioranza sono donne con i figli piccoli. Si guardano attorno smarriti, terrorizzati dai cecchini mentre percorrono strade ingombre di macerie fiancheggiate da palazzi sventrati e condotte dell’acqua secche da tempo. Lasciano i quartieri controllati dalla guerriglia ribelle. Sono affamati, emaciati, malati. Ad attenderli dall’altra parte non ci sono però i funzionari internazionali, bensì le truppe scelte di Bashar. Le quali recensiscono i profughi, requisiscono le carte d’identità. E trattengono tutti gli uomini considerati «in grado di maneggiare un fucile». Quanti i sequestrati? Il numero è difficile da precisare. Sembra che dall’inizio dell’evacuazione venerdì scorso siano partire circa 1.400 persone, probabilmente meno della metà di quelle ancora nei quartieri circondati. Impossibile invece stimare il numero dei guerriglieri, qualcuno parla di una sessantina. Secondo i funzionari dell’agenzia Onu per i rifugiati, sarebbero stati arrestati 366 uomini in età compresa tra i 15 e 55 anni. A detta del governatore di Homs, il lealista Talal Barazi, di questi «111 sono stati rilasciati». «Chi è in regola è libero di andare dove vuole», osserva Barazi. Ma è proprio questo il punto? Chi decide le regole? Dal campo dei ribelli si alzano già accuse di violenze e torture. E inevitabile torna il parallelo con i circa 8.000 bosniaci massacrati dalle milizie serbe nel luglio 1995. Anche allora dalla massa di profughi di Srebrenica vennero selezionati gli uomini, compresi anziani e ragazzini. Doveva essere un «controllo», vennero invece uccisi. L’Unprofor, la forza di protezione Onu, avrebbe dovuto garantirli. Ma, con le spalle al muro, non fece nulla. E la comunità internazionale divenne corresponsabile del crimine.
Repubblica 13.2.14
Turchia, così Erdogan controlla i giornalisti
Sul web gli ordini impartiti dal premier. Un direttore: “Tutti noi abbiamo paura”
di Marco Ansaldo
«L’onore del giornalismo è stato calpestato. Ogni
giorno ci cade addosso una pioggia di direttive. Si può scrivere quello che si
vuole? Tutti hanno paura. È risaputo che chiunque lavori nei media affronta
queste situazioni. Un giorno si saprà che tutti sono nella mia situazione».
È una confessione vera e propria quella di Fatih
Altayli, uno dei più importanti direttori di media turchi, prima a Sabah, poi
volto noto della tv, oggi al quotidiano
Haberturk.
Seguire le sue parole, lunedì sera alla Cnn-Turk, è
stato uno shock per molti nel Paese. Un Paese dove la libertà di stampa appare
ora un’emergenza assoluta. Un tema sul quale l’Europa, di cui la Turchia aspira
a far parte, potrebbe incidere fortemente rispetto ad argomenti meno decisivi.
Tre giorni fa, su Internet, sono uscite le
registrazioni degli ordini distribuiti per telefono dal premier Tayyip Erdogan
a direttori di giornali e tv. Quali? Ad esempio, cambiare una notizia sullo
schermo. Oppure, togliere un articolo sgradito. Le risposte dei direttori di
molti grandi giornali sono state spesso sempre uguali: «Sì, signore!». «Sarà
fatto subito, signore!».
E la paura si diffonde. Da qualche tempo, in Turchia,
i giornalisti vengono licenziati a grappoli. Gli ultimi, per l’appunto, sono
tre reporter del quotidiano Haberturk, cacciati dopo una chiamata del
“sultano” per avere pubblicato una notizia critica verso il governo. Altre
registrazioni emerse sulla rete hanno permesso di ascoltare due dirigenti di un
giornale mentre si preparano a modificare i risultati di un sondaggio, a
vantaggio del partito islamico.
Non tutti, però, stanno zitti. «Fosse successo in Inghilterra
o in qualsiasi altra democrazia - dice Yavuz Baydar, ex garante dei lettori
(poi licenziato) - il premier si sarebbe immediatamente dimesso. Ma qui no:
Erdogan va avanti come se niente fosse. E così i direttori dei media ». I media
turchi stanno diventando «come la Pravda» sovietica, avverte Devlet Bahceli,
capo del Partito di azione nazionalista, la seconda compagine di opposizione. E
la socialdemocratica Emine Ulker Tarhan commenta: «La Turchia è diventata un
Paese nel quale titoli dei giornali e programmi tv possono essere cambiati con
una telefonata ».
Come sono finite in rete le telefonate del premier?
Probabilmente per iniziativa dei magi-strati, rimossi nelle ultime settimane da
Erdogan per le loro inchieste sulla corruzione del governo. Dopo la rivolta di
Gezi Park lo scorso giugno, costata 5 morti nelle dimostrazioni contro il pugno
di ferro adottato dal premier, la piazza si è virtualmente riunita in Internet.
Strumento odiato da Erdogan, e contro il quale il Parlamento di Ankara
(composto a maggioranza da deputati del partito islamico che guida un
governo monocolore) la scorsa settimana ha votato una legge-bavaglio, dopo che
lo stesso premier aveva già denunciato Twitter e Facebook come «la più grande
minaccia alla società».
Ieri l’uomo forte del Paese ha reagito con la consueta
asprezza: «Nessuno può darci lezioni»,ha tuonato in Parlamento. E all’emittente
araba Al Jazeera ha dichiarato: «La Turchia è molto più libera di
praticamente tutti i Paesi UE». Il 30 marzo ci saranno elezioni amministrative.
Ad Ankara, però, cominciano a contare come un voto dirimente sul governo
conservatore islamico.
l’Unità 13.2.14
Caccia agli islamici. A Bangui è pulizia etnica
La denuncia di Amnesty, migliaia di persone in fuga
La presidente annuncia guerra alle milizie cristiane che seminano il terrore: «Le fermerò»
di Roberto Arduini
Una tragedia quasi senza
testimoni. È questa la situazione nella Repubblica Centrafricana, martoriata da
oltre un anno dalla violenze tra cristiani e musulmani. Già peggiorata agli
inizi di dicembre, in queste ultime settimane si è fatta davvero drammatica.
Sono le ong internazionali a denunciarlo, spiegando che è ormai in corso una
vera e propria «pulizia etnica». Nonostante l’intervento della Francia, di una
forza africana dei Paesi confinanti e del prossimo coinvolgimento anche
dell’Unione europea, intere zone del Paese sono abbandonate a se stesse. E
presto arriverà la stagione delle piogge.
Da quando il presidente François
Bozizé è stato rovesciato dal «Seleka», una coalizione eterogenea a maggioranza
musulmana, la guerra tra fazioni religiose divide in due il Paese. E la
possibilità è davvero concreta, visto che il segretario generale dell’Onu Ban
Ki-Moon ha avvertito che «è un rischio da tenere in seria considerazione ». «Nessuno
accetterà una partizione dell’Africa Centrale», ha detto il ministro della
Difesa francese Jean-Yves Le Drian, giunta ieri a Bangui per la sua terza
visita nel Paese dall’inizio, il 5 dicembre, dell’operazione Sangaris, la
missione militare francese. Sia la Francia sia l’Onu in questa fase accusano i
combattenti cristiani anti-Balaka di alimentare violenze e impunità. Imiliziani
inizialmente si erano presentati come un movimento nato per proteggere i civili
dagli attacchi dei ribelli Seleka, che avevano destituito il presidente
lasciando l’esercito in frantumi. Nelle scorse settimane, però, hanno preso
parte a linciaggi di civili musulmani in un’ondata di violenza che ha spinto
decine di migliaia a fuggire verso il Ciad, Paese vicino dove la maggioranza
della popolazione è islamica.
«Andremo in guerra contro gli
anti- Balaka», ha annunciato il neo-presidente di transizione Catherine Samba
Panza. Ma il problema più grande è che le forze di pace sono schierate solo
nella capitale Bangui e nelle sue vicinanze. I musulmani accusano i peacekeeper
francesi e africani di non aver disarmato gli anti-Balaka, così come hanno
invece fatto per i ribelli Seleka. Nelle ultime settimane, Amnesty
International ha raccolto oltre 100 testimonianze dirette di attacchi su larga
scala compiuti dalle milizie anti-Balaka contro la popolazione civile musulmana
nelle città di Bouali Boyali, Boussembele, Bossemptele e Baoro. I peacekeeper
non sono stati dispiegati in queste aree, lasciando i civili senza protezione.
L’attacco più grave, riferisce Amnesty International, «è avvenuto il 18 gennaio
a Bossemptele e ha provocato almeno 100 vittime tra la popolazione musulmana,
tra le quali donne, anziani e un imam settantenne». Per scampare agli attacchi,
molti islamici hanno lasciato le proprie case, i pochi rimasti hanno cercato
riparo in chiese e moschee. Parigi ha finora dispiegato nella Repubblica
Centrafricana 1.600 militari, che lavorano insieme ai seimila caschi blu
africani. La missione europea dovrebbe essere composta da 500-600 soldati e
sarà dispiegata nell’aeroporto della capitale Bangui, dove si sono rifugiate
circa 100mila persone. L’ambasciatore francese all’Onu, Gérard Araud, ha detto
che in questo modo le truppe francesi potranno lasciare lo scalo e occuparsi
della sicurezza in altre parti di Bangui e fuori dalla città.
Esodo
Sono soprattutto il nord e l’ovest
le regioni coinvolte dalle violenze. «L’intera popolazione civile è
intrappolata da una violenza estrema e radicalizzata, e ogni giorno i civili
pagano il prezzo degli abusi commessi dai due principali gruppi armati»,
racconta Stefano Zannini, direttore del dipartimento per il supporto alle
operazioni di Medici Senza Frontiere (Msf). «Ormai ci sono più di 900mila
sfollati nel Paese, più del 20% della popolazione. Gli alti livelli di violenza
rendono molto difficile l’accesso alle cure mediche a causa dell’insicurezza,
non hanno accesso alle cure mediche e molti si nascondono nella boscaglia per
sfuggire alle violenze», continua Zannini. I combattimenti nelle città nord-occidentali
hanno costretto la popolazione musulmana ad andarsene. «Trentamila rifugiati
hanno già attraversato il confine verso il Ciad mentre 10.000 hanno raggiunto
il Camerun. A Bangui, le famiglie musulmane si stanno radunando in un campo
separato all’aeroporto, nella grande Moschea o in siti di sfollati isolati come
quello a PK12». La ong ha raddoppiato le proprie forze da dicembre scorso e ora
fornisce cure mediche gratuite a circa 400mila persone in 12 ospedali, 16
centri sanitari e 40 centri di salute. «Solo a M’Poko, il campo sfollati
dell’aeroporto della capitale, hanno trovato riparo più di 100mila persone »,
conclude Zannini. E il Pam, il Programma alimentare mondiale, ha attivato un
ponte aereo tra Douala e Bangui per fornire cibo alla popolazione. Oltre un
milione di persone ha bisogno di assistenza alimentare. Quando, tra poco,
inizierà la stagione delle piogge, le condizioni sanitarie peggioreranno e il
nord del Paese sarà completamente isolato.
La Stampa 13.2.14
Niente amanti per i funzionari pubblici
Cina, chi sbaglia rischia il posto
di Ilaria Maria Sala
qui
Corriere 13.2.14
Pilastri di marmo restituiti ai cinesi dalla Norvegia
Diplomazia dell’Arte
di Marco Del Corona
Oggi i musei di tutto il mondo sembrano avviluppati in una tela globale che lega le loro collezioni al passato da cui provengono, le razzie e i mecenatismi che misero insieme i capolavori si trovano impigliati nelle speculazioni politiche dei Paesi che subirono le spoliazioni. Scheletri di dinosauri passano da New York alla Mongolia, statue khmer tornano a casa, istituzioni europee restituiscono reperti di tribù che si trovano alcuni oceani più in là, recriminazioni secolari si riaccendono.
È un trend globale, dove cozzano ambizioni nazionalistiche e stratificazioni di valori (estetici ma non solo). Si è aggiunto George Clooney, regista e interprete del film Monuments Men sui militari statunitensi a caccia d’opere d’arte saccheggiate dai nazisti. L’americano Clooney ha invitato Londra a restituire ad Atene i fregi del Partenone. I greci ringraziano. Altri no.
A questo panorama di potenziali traslochi, si aggiunge quanto sta accadendo sull’asse Cina-Norvegia. In autunno, torneranno a Pechino sette pilastri di marmo appartenuti al Palazzo d’estate distrutto nel 1860 dagli anglo-francesi durante la seconda guerra dell’oppio: erano conservati al museo Kode di Bergen, donati dall’avventuriero norvegese Johan Wilhelm Normann Munthe, a lungo residente in Cina tra fine Ottocento e primi del Novecento.
Come ricorda il New York Times , il rientro a Pechino dei pezzi è frutto di un accordo siglato in dicembre: da una parte il museo, dall’altra l’imprenditore-poeta Huang Nubo, lo stesso che aveva voluto acquisire enormi appezzamenti in Islanda. Huang versa al Kode oltre un milione e mezzo di dollari.
Vincono tutti: il museo avrà fondi; il governo cinese avanza nel risiko cultural-patriottico del rimpatrio del patrimonio trafugato dagli occidentali; la Norvegia può ammansire un po’ Pechino, che aveva fatto scontare a Oslo l’affronto del Nobel per la Pace assegnato nel 2010 al dissidente Liu Xiaobo. Mecenatismo diplomatico, diplomazia mecenatistica. L’arte come merce di scambio. E pure le star di Hollywood dicono la loro. Come avrebbe detto il presidente Mao: grande è il disordine sotto il cielo .
La Stampa 13.1.14
E il “mangiapreti” Craxi disse: non fate mancare i soldi ai preti
Veniva firmato trent’anni fa il nuovo Concordato che inventò l’otto per mille
Acquaviva: il premier pensava che le parrocchie avessero un ruolo positivo
di Marcello Sorgi
qui
La Stampa 13.2.14
Lsd per vincere la Guerra fredda
Il progetto americano nato dalla collaborazione con scienziati nazisti
Nell’arco di tre mesi vennero trasferiti negli Stati Uniti, evitando accuse e processi per la collaborazione con Hitler
di Maurizio Molinari
Oltre 1600 scienziati nazisti lavorarono per il governo degli Stati Uniti preparandosi a
combattere la «guerra totale» con l’Urss, e fra le armi che realizzarono ve ne era una a base di Lsd,per «portare scompiglio nell’Armata Rossa sul campo di battaglia» e «piegare le menti dei sovietici».
A rivelare l’episodio inedito della Guerra fredda è la giornalista americana Annie Jacobsen con il libro Operation Paperclip, nel quale descrive il programma segreto dell’intelligence Usa con cui vennero reclutati gli ex scienziati di Adolf Hitler. Il primo passo, nei giorni immediatamente successivi alla resa della Germania, fu la creazione da parte dell’Us Army di lavorare, nei laboratori militari e di intelligence, alla realizzazione di un nuovo tipo di armi. Washington era convinta che entro il 1952 vi sarebbe stata una «guerra totale» contro Camp King, un centro di detenzione nei pressi di Francoforte dove gli scienziati furono raccolti assieme alle famiglie.
UN LIBRO RIVELA
I chimici pensavano di usare la droga per creare scompiglio nell’Armata Rossa
Mosca, con l’impiego di ogni tipo di armamenti nucleare, chimico e batteriologico e dunque aveva bisogno degli scienziati a cui Hitler aveva affidato lo sviluppo dei gas più aggressivi, come il sarin. Fra loro c’erano Walter Schreiber, ex ministro della Sanità del Terzo Reich, e il suo ex vice Kurt Blome che aveva partecipato alla ricerca sulle armi batteriologiche. Dai laboratori militari nacquero così sostanze per la «guerra totale», incluso un allucinogeno basato sull’Lsd, considerato una «potenziale arma» perché prometteva di «far perdere il controllo ai soldati sovietici senza essere costretti a ucciderli». La Cia, formatasi dopo la fine del conflitto, mostrò un forte interesse per l’Lsd «militarizzato» immaginandone più usi, compreso quello di adoperarlo negli interrogatori dei sovietici detenuti per «fargli perdere il controllo» e «manipolarne le menti».
Nacque così un’altra operazione top secret, «Bluebird», che ipotizzava il ricorso all’Lsd «militare» a fini di controspionaggio ovvero per «fare il lavaggio del cervello alle spie sovietiche in maniera da cancellare ogni ricordo di conversazioni con agenti americani».
Repubblica 13.2.14
“La Gioconda deve ritornare a Roma” la battaglia di Clooney per le opere d’arte
Riportare in Grecia i marmi del Partenone, custoditi nel British Museum. E la Gioconda, il capolavoro di Leonardo, in Italia, da secoli al Louvre di Parigi. È l’appello di George Clooney, e di altre star di Hollywood, lanciato durante la presentazione di “Monuments Men” di cui l’attore è anche il regista oltre che interprete. Il film racconta la missione dell’unità speciale dell’esercito Usa inviata in Europa per salvare le opere d’arte trafugate dai nazisti.
Repubblica 13.2.14
La città delle donne
Storia di un villaggio che rinunciò ai maschi
Arriva in Italia “L’uomo seme”, il racconto di un’esperienza avvenuta in Francia a metà dell’Ottocento Che ripropone l’utopia letteraria di un mondo senza una sua parte
di Elena Stancanelli
Violette Ailhaud aveva sedici anni quando, nel 1851,
sparirono tutti i maschi dal suo villaggio. Un minuscolo paese nelle Alpes-de
Haute-Provence. Borgogna, Provenza: fu quella l’unica zona di Francia in cui
scoppiò la rivolta che avrebbe dovuto seguire il colpo di stato di Luigi
Napoleone. Parigi tacque, mentre contadini, artigiani, borghesi abitanti del
Midi - che non parlavano neanche il francese, ma una dialetto provenzale, un patois -
si armarono per combattere il tiranno. Formarono una sorta di guardia
nazionale, e scelsero come simbolo la farigoule, il timo, la pianta
aromatica che non smette di rifiorire. I repubblicani conquistarono e
tennero le città del sud della Francia per tutto il mese di dicembre, prima di
cedere alle truppe bonapartiste-monarchico-clericali. Che, una volta ottenuta
la vittoria, massacrarono, imprigionarono e deportarono tutti gli insorti con
efficentissima ferocia.
Gli uomini, dunque, sparirono. Le madri, le mogli, le
fidanzate li aspettarono a lungo, poi capirono che non sarebbero tornati. Da
quel momento avrebbero dovuto fare a meno di loro. Fecero un accordo.
«Sembravamo un gruppo di faraone impazzite. Le nostre idee volavano come
cavallette, si incrociavano con le ali aperte di tutti i colori: blu, rosse,
arancioni. Avevamo detto tutte la stessa cosa in mille modi diversi. Ma eravamo
d’accordo». Tra queste donne, c’è Violette. Molti anni dopo, quando nel 1925
morì, tra le carte del suo testamento trovarono una busta e la richiesta che
non fosse aperta prima dell’estate 1952. Alla data prevista, la maggiore dei
suoi discendenti di sesso femminile, Yveline, secondo le istruzioni entrò in
possesso del suo contenuto. Un manoscritto, poche decine di pagine scritte in patois,
un lessico semplice, metafore terrigne e un’enorme potenza icastica. Oltre alla
efficacia di una storia che sembra una parabola del vangelo.
L’homme semence è il titolo scelto dalla casa
editrice Parole, che lo ha pubblicato in Francia. Decine di migliaia di copie
vendute, ha ispirato spettacoli di teatro, danza, fumetti. C’è persino un
festival a Digne dedicato a L’homme semence.
Che somiglia a un racconto distopico, e invece è una
storia vera. Violette Ailhaud era una contadina e scriveva col coraggio e il
pianto, la vergogna e l’orgoglio di chi ha vissuto, non di chi sa. Non sa
niente, tranne quello che accade. «Piango quelle braccia perdute, fatte per
stringerci e rovesciare la pecora durante la tosatura. Piango quelle mani
falciate, fatte per accarezzarci e per tenere la falce per ore». Ripetizioni e
slanci lirici sono a carico dell’autrice, e sono conservati, giustamente, anche
nelle traduzione italiana che Monica Capuani cura per l’editore Playground, che
mantiene il titoloL’uomo seme.
Che cosa manca, quando mancano gli uomini? Qualcuno
che regga le pecore, certo. Abbracci. Ma a tutto c’è rimedio tranne che a una
cosa: il seme appunto. Almeno fin quando non avremo imparato a riprodurci in
maniera un po’ meno brutale. Il mondo senza uomini (o senza donne, senza
bambini, senza animali...) è un topos letterario. Per ragioni diverse, dalla
terra scompare di colpo una categoria di esseri viventi: disastri naturali,
epidemie, guerre fratricide, effetti nucleari mirati... Esiste addirittura un
batterio, tra i più diffusi per altro, che agisce in maniera selettiva
attaccando solo i maschi della specie. La “wolbachia” uccide, oppure trasforma
i maschi infettati in femmine. In Herland (1915), romanzo della
scrittrice femminista Charlotte Perkins Gilman, si racconta che
dell’eliminazione dei maschi fu responsabile l’eruzione di un vulcano. E
fu una benedizione. Da allora le donne vivono in pace, in una società
egualitaria, riproducendosi per partenogenesi, nella bellezza e
nell’intelligenza. E il sesso tra donne, secondo le abitanti di Herland,
sarebbe molto più soddisfacente e articolato.
Anche la scienza lo sostiene, scoperta che provocò una
reazione furibonda nel mondo accademico. Quando negli anni Sessanta uscirono i
risultati degli studi del dottor William Master e la sua collega Virginia
Johnson, fu un bel colpo per gli uomini venire a sapere che l’orgasmo femminile
vale dieci volte quello maschile, e che anche senza la loro preziosa anatomia
otteniamo grandissima soddisfazione. Ma se sul sesso non c’è niente da
eccepire, la partenogenesi umana sembra ancora un po’ lontana. Nonostante l’entusiasmo
suscitato dalla nascita di
Kaguya, nel 2004 in un laboratorio giapponese: la
prima topolina venuta al mondo con un patrimonio genetico interamente
femminile. La partenogenesi è un processo presente in natura e quindi, chissà
quando, applicabile anche agli esseri umani: si prende un ovulo femminile e
attraverso un processo chiamato “mitosi” si ottiene un embrione. Ovviamente
femminile, dal momento che il cromosoma Y non partecipa alla festa, e quindi in
grado di produrre soltanto esseri di sesso femminile.
Ma questo è il futuro. Quando nel 1851 spariscono i
maschi dal villaggio di Violette (uccisi dalla guerra) il patto tra le donne
non riguarda la manipolazione genetica. Il primo uomo che fosse capitato per
caso sulla collina, decidono invece, sarebbe stato di tutte. Fine del
matrimonio, della coppia, persino dell’amore: l’uomo è il seme, e il seme si divide.
Sera dopo sera le donne del villaggio si divertono a immaginare come sarà
quest’uomo. Come parlerà, riderà, dormirà e mangerà. Lo vestono e lo spogliano
mille volte, come fosse una bambola. Fin quando un giorno, dalla collina,
vedono finalmente salire un uomo...
Repubblica 13.2.14
Cinema vs poesia
Bertolucci Obrist e il mestiere dell’arte
Il regista e il critico si sono incontrati a Londra. Ecco cosa si sono detti tra Roland Barthes e Sergio Leone, ricordi e miti, la dolce vita e l’effetto Oscar
di Enrico Franceschini
Londra. La poesia, Roma,
Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Godard, Sergio Leone, la commedia
all’italiana, Marlon Brando, Roland Barthes, Novecento, Hollywood.
Tutta la vita di Bernardo Bertolucci, l’unico regista italiano ad aver vinto
l’Oscar per il miglior film in assoluto (non per il miglior “straniero”), in
due ore di dialogo a ruota libera con Hans Ulrich Obrist, direttore della
Serpentine Gallery, celebre museo di arte moderna, insieme alle domande di un
folto pubblico e di qualche giornalista all’Istituto Italiano di Cultura di
Londra. Una intervista “impossibile”, come la definisce la direttrice Caterina
Cardona, evocando quelle “impossibili” davvero che Giorgio Manganelli faceva
alla Rai nei primi anni ’70. Un’opportunità unica per ascoltare “l’ultimo
imperatore” del cinema italiano, a 72 anni sprizzante energia anche dalla sedia
a rotelle, con un occhio al futuro («farò un altro film, l’idea c’è, manca la
forma ma arriverà») e una montagna di ricordi dietro le spalle.
Obrist: Cominciamo
dall’inizio: lei non doveva diventare un poeta?
Bertolucci: Per il figlio di
un grande poeta era normale cominciare scrivendo poesie e così feci anch’io,
tra i 6 e i 18 anni. Ma mio padre Attilio era anche critico cinematografico
della Gazzetta di Parma e mi portava con sé a vedere le proiezioni. Da
bambino ne rimanevo incantato, mi ero perfino convinto di somigliare a John
Wayne. Poi a 16 anni ricevetti una cinepresa a 16 millimetri e girai il mio
primo film, La teleferica.
Da allora pensai meno alla poesia
e di più al cinema.
Obrist: Come fu il passaggio da
Parma a Roma?
Bertolucci: Avevo 12 anni
quando la mia famiglia si trasferì nella capitale e in principio non mi piacque
per niente. Mi sentivo in esilio. Le facce dei piccoli borghesi romani del
nostro quartiere mi sembravano infinitamente meno nobili di quelle dei
contadini emiliani delle mie origini, un pensiero che mi sono portato dietro
fino a quando ho girato Novecento, che è un film sulla contrapposizione
tra i contadini e le altre classi sociali.
Obrist: A un certo punto
nella sua vita entra una seconda figura paterna: Pasolini. Come vi conosceste?
Bertolucci: Il primo
incontro rischiò di finire male. È domenica, suonano alla porta di casa, apro e
vedo un bel giovane elegante che dice di avere un appuntamento con Attilio
Bertolucci. Lo faccio aspettare fuori, sveglio mio padre che riposava e gli
dico: c’è un tizio che ti cerca, ma secondo me è un ladro, chi vuoi che venga a
cercarti di domenica a quest’ora? E mio padre mi grida di correre ad aprirgli,
che quello è un grande poeta.
Obrist: Invece finiste
entrambi per fare cinema.
Bertolucci: Pier Paolo venne
a vivere da noi e ogni volta che scrivevo un poema andavo subito a farglielo
leggere. Diceva che dovevo raccoglierli in un libro. Ma finite le scuole andai
un mese a Parigi, lo passai tutto dentro la Cinémathèque e quando tornai ero
cambiato. “Ti piace il cinema?”, mi chiese Pier Paolo e risposi di sì. “Allora
farai il mio aiuto regista per Accattone”, che sarebbe stato il suo
primo film. Obiettai che non sapevo nulla del lavoro di regista. “Neanch’io”,
mi rispose tranquillo.
Obrist: Come furono i suoi
primianni ’60 a Roma?
Bertolucci: Roma era una
città molto più interessante di com’è oggi. Passavo quasi ogni sera fuori a
cena con Pier Paolo, Moravia ed Elsa Morante a discutere di tutto. Mio padre mi
rimproverava di non essermi laureato, io gli rispondevo: ho avuto la mia
educazione a Campo de’ fiori. Una fantastica educazione. Vorrei che i giovani
d’oggi potessero avere amici più vecchi e più saggi, ma che non ti trattano
dall’alto in basso, come ebbi io con loro tre.
Obrist: Quindi ha lavorato
con Sergio Leone: come andò?
Bertolucci: Io sono
cresciuto amando la Nouvelle Vague del cinema francese, Godard e Truffaut, al
punto di pensare di essere diventato francese anch’io. La prima volta che un
giornalista di un quotidiano romano venne a intervistarmi gli dissi che avremmo
dovuto parlare in francese. Perché mai, fece quello, e io: perché è il
linguaggio del cinema. Non amavo la commedia all’italiana, neanche la migliore,
nemmeno Monicelli e Risi, perché non erano interessati al linguaggio del
cinema. Mi piacevano Antonioni, Pasolini, Visconti, questo sì. E Sergio Leone.
Perché aveva qualcosa di diverso dagli altri. Dopo Il buono, il brutto, il
cattivo, mi chiamò e mi chiese: perché dici in giro che ti piacciono i
miei film? Perché, risposi, mi piace come giri il culo dei cavalli, so-lo tu e
John Ford fate vedere il culo, gli altri li riprendono sempre davanti o di
fianco. Allora, sentenziò lui, lavorerai con me. E così scrissi per lui,
insieme a Dario Argento, un po’ di C’era una volta il west e C’era una volta in
America, il suo film proustiano.
Obrist: È vero che Godard
non le disse se gli era piaciuto Il conformista?
Bertolucci: Godard era il
mio dio. Ma a quel tempo era diventato maoista, non andavamo d’accordo
politicamente, tanto che mi iscrissi al Pci quasi per ripicca, e cominciavano a
piacermi di meno anche i suoi film. Però aspettavo con trepidazione il suo
parere sul Conformista. Finalmente mi dà appuntamento a
Saint-Germain-des-Prés una sera alle 10, piove, è pieno di giovani con
l’impermeabile, ma Godard non arriva. Infine eccolo, sigaretta in bocca,
immancabili occhiali da sole. Mi porge un pezzetto di carta e scompare. Lo apro,
c’è una gran foto di Mao e una scritta: “Abbasso l’imperialismo e
l’individualismo”. Volevo una sua parola sul Conformista e mi diede uno slogan
maoista.
Obrist: Come scelse Marlon
Brando per il protagonista di Ultimo tango a Parigi?
Bertolucci: Prima proposi la
parte a Gian Maria Volonté, che rispose: non se ne parla nemmeno. Poi a
Jean-Paul Belmondo, che quasi mi cacciò via a calci dicendo: io non faccio film
porno. Quindi ad Alain Delon, che accettò a patto di fare lui il
produttore e dunque poter cambiare tutto. Poi una sera a Piazza Navona parlando
con Moravia, che mi aveva scritto qualche dialogo per il film, saltò fuori il
nome di Brando. Marlon venne a incontrarmi a Parigi, gli feci vedere lì Il
conformista e accettò, ma volle che io andassi a casa sua per un mese a
Los Angeles per parlare del film. Ci andai e parlammo della vita, di
letteratura, di tutto, tranne che del film. Ma intanto aveva detto di sì.
Obrist: Cos’è stato per lei Novecento?
Bertolucci: Un’esibizione di
megalomania: dopo il clamore di
Ultimo tango sentivo di
avere un grande potere e di poter fare quel che volevo. Pasolini diceva che il
successo è atroce: ma la mancanza di successo è ancora peggio. Passai un anno a
girarlo nella valle del Po, un anno duro e magnifico. Roland Barthes nel Piacere
del testo parla di un futuro in cui si mescoleranno tutti i generi, tragedia e
commedia, e questo era esattamente ciò che volevo io con Novecento.
Obrist: Che effetto le fece
l’Oscar per L’ultimo imperatore?
Bertolucci: Ad alcuni
l’Oscar fa un effetto mistico, ma per me fu pura gioia. E poi avevamo avuto
nove nomination e diventarono nove Oscar, ne vincemmo così tanti che persi la
premiazione di uno perché ero andato alla toilette.
Obrist: A proposito di
Oscar, pensa che La grande bellezza di Paolo Sorrentino lo vincerà? E
a lei è piaciuto?
Bertolucci: Sono quasi
sicuro che lo vincerà e lo voterò senz’altro. È un film di straordinaria
potenza. Ha dei momenti che mi piacciono meno, quando Sorrentino vuole
confrontarsi con
La dolce vita, un confronto
impossibile, anche perché Fellini aveva Mastroianni, un Marcello giovane e
bello, e Servillo, che pure è un grande attore, è un’altra cosa. Ma è un film
che la gente ama o odia, e pochi film suscitano sentimenti così contrapposti.
Repubblica 13.2.14
Così si salvano le carte del caso Sifar - De Lorenzo
di Simonetta Fiori
Tintinnio di sciabole. Bastano queste parole per
evocare “il piano Solo”, uno dei più discussi complotti dell’Italia del
dopoguerra. E per evocare una pagina di storia del giornalismo italiano: il
processo per diffamazione al direttore e all’inviato dell’Espresso- Eugenio
Scalfari e Lino Jannuzzi - che avevano denunciato il tentativo di golpe
preparato tre anni prima da Giovanni De Lorenzo, ex capo del Sifar e allora
comandante dei carabinieri, con la complicità del presidente della Repubblica
Antonio Segni. Un dibattimento ricco di colpi di scena, tra amnesie,
ritrattazioni, l’improvvisa retromarcia di Jannuzzi sul coinvolgimento del
Quirinale. Cominciato nel novembre del 1967, il processo si chiuse il primo
marzo del 1968 con una clamorosa condanna, nonostante il pubblico ministero
Vittorio Occorsio avesse chiesto il proscioglimento. Sedici mesi a Jannuzzi. E
diciassette mesi a Scalfari. La vicenda giudiziaria si sarebbe definitivamente chiusa
nel dicembre del 1972, con la remissione di querela da parte di De Lorenzo.
Intanto sia Scalfari che Jannuzzi erano stati eletti in Parlamento, entrambi
nel-le file del Psi di Pietro Nenni.
Finora gli studiosi ne hanno ricostruito i vari
passaggi limitandosi ai resoconti giornalistici. «Da oggi le carte processuali
saranno consultabili», dice Mimmo Franzinelli, che al piano Solo ha dedicato un
documentato volume (I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del
1964, Mondadori). L’iniziativa si deve alla sensibilità di Michele Di Sivo, lo
studioso dell’Archivio di Stato che ha salvato gli atti dal macero e si sta
battendo per creare nuovi spazi e profili professionali in grado di conservare
documenti giudiziari altrimenti condannati alla distruzione. «Non possiamo
permetterci di perdere queste come altre carte fondamentali per la storia
d’Italia della seconda metà del Novecento, tra stragi, corruzione, terrorismo
», dice Di Sivo. «Dopo circa 40 anni i fascicoli dei tribunali vengono buttati
via. E la digitalizzazione non consente di conservare i documenti originali».
Oggi pomeriggio, all’Archivio di Stato di Roma (ore
16,30, corso Rinascimento 40), saranno presentate le carte del processo contro
Scalfari e Jannuzzi, in particolare i documenti prodotti dall’istruttoria di
Occorsio, esponente della magistratura illuminata poi ucciso dai terroristi
neri. Carte rilevanti per le deposizioni di protagonisti della storia italiana,
da Andreotti a Parri. E per le testimonianze dei militari. «I generali Manes,
Gaspari e Zinza», spiega Franzinelli, «confermarono l’inchiesta giornalistica
sugli allestimenti militari di carattere eccezionale». All’incontro, che porta
lo stesso titolo dell’inchiesta dell’Espresso - Complotto al Quirinale - parteciperanno
Scalfari e l’attuale direttore del settimanale Bruno Manfellotto, Di Sivo e il
presidente del tribunale ordinario di Roma Mario Bresciano, la direttrice
generale degli Archivi Rossana Rummo e il direttore dell’Archivio di Stato
Eugenio Lo Sardo. È previsto anche l’intervento degli storici Miguel Gotor e
Franzinelli, che illustrerà le nuove carte americane “a carico” di Segni. Brani
dal processo saranno letti da Maddalena Crippa.
Il golpe strisciante di De Lorenzo rivelò quell’Italia
dei poteri occulti che ha continuato ad agire sotto traccia fino alla P2, e
anche oltre. Un paese “parallelo” che è una costante della storia nazionale.
«Non fu un golpe», scrive Scalfari in La sera andavamo in via Veneto. «Non
ci fu nessun concreto movimento né militare né di piazza, non si produsse
nessun atto specifico, nulla di nulla. Ci fu, semplicemente, un rumore di
sciabole. Ma fu sufficiente a mutare il corso della politica italiana».
il Fatto 13.2.14
A Milano il latino è vivo, anche sul web
di Gianni Barbacetto
Giancarlo Rossi è l’anima di “Sodalitas Latina”, un’associazione nata a
Milano che vuole diffondere l'amore per il latino e il suo uso come lingua
viva, con cui parlare di ogni argomento, dai classici al web. “Siamo contro
l’uso punitivo del latino”, racconta, “di cui nelle scuole si fa un
insegnamento grammaticale, astratto e scolastico. Per noi è invece una lingua
viva, che si apprende parlandola. Siamo in tanti a pensarla così, in tutta
Europa”. Gli amici della “Sodalitas” leggono Cicerone, ma discutono anche di
internet (“internexus”), di computer (“machina ordinatoria” o “computatrum”),
di facebook (“prosopobiblion”, con espressione mutuata dal greco).
Hanno iniziato, nel 1986, in tre: Giancarlo (Joannes Carolus), architetto,
Claudio (Claudius), ingegnere stoico sessantottino, e Stefano (Stephanus),
musicista cattolico conservatore. L’amore per la lingua latina ha superato le
divisioni ideologiche e politiche e li ha portati a far crescere un gruppo che
oggi è stato cooptato dal Circolo Filologico Milanese, la più antica
istituzione culturale della città, nata nel 1872, un anno prima del Corriere
della sera. Si ritrovano ogni due settimane nei bei saloni del Filologico e
leggono e discutono Erasmo da Rotterdam (titolo delle serate: “Miscellanea
interjectis Desiderii Erasmi Adagiis”). Stimati professionisti e giovani
studenti si ritrovano insieme, uniti nel rivendicare – e soprattutto praticare
– un uso del latino non punitivo e incartapecorito, ma divertente e intellettualmente
stimolante. Diremmo “glamour” o addirittura “cool”, se l’inglese come lingua
universale non fosse bandito, in quei bei saloni.
Parlando latino, non si sentono gli ultimi dei soldati giapponesi nella
foresta, assediati da un mondo che parla inglese. Intanto perché ormai il mondo
parla cinese e arabo, castigliano e russo. Ma anche perché sanno di essere in
tanti, in tutto il mondo, con centinaia di siti web (“interrete”) in cui si
comunica in latino.
C’è uno stato e c’è un’istituzione in cui il latino è (o dovrebbe essere)
la lingua ufficiale: lo Stato del Vaticano e la Chiesa cattolica. Facile allora schiacciare gli amici del latino su quella istituzione e quello
Stato. Anzi, identificarli come i passatisti che non hanno capito e accettato
la rivoluzione del Concilio Vaticano II che ha sostituito nella liturgia
cattolica il latino con le lingue “vive ”. Che i sopravvissuti amici del latino
siano dei lefevriani mascherati, tradizionalisti, nostalgici e anticonciliari?
Joannes Carolus lo nega con decisione. “Io credo che la Chiesa cattolica abbia
realizzato uno scambio tra liturgia e teologia: rivoluzioniamo la liturgia,
mettendo in soffitta il latino, per non rinnovare la teologia, restata
impermeabile alle sollecitazioni di chi tra i cattolici chiedeva la fine della
compromissione della Chiesa con il potere”. Hanno fatto finta di essere
diventati moderni perché non usano più il latino, lingua che i preti e i
cardinali non conoscono più, mentre invece non hanno rinnovato la teologia e
gli equilibri di potere.
“Gianfranco
Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha messo al vertice
della Pontificia accademia di latinità (Pontificia Academia Latinitatis) il
rettore dell’università di Bologna Ivano Dionigi”, sostiene Joannes Carolus,
“che è un nemico del latino e ha trasformato la rivista Latinitas in un
giornale scritto in più lingue”. Imperdonabile, per un vero amico del latino.
Repubblica 13.2.14Una macchina che superi l’Lhc, quattro volte più grande e capace di far scontrare le particelle con un’energia dieci volte superiore I fisici ne studiano la fattibilità: le sfide per i prossimi anni riguardano gli ostacoli tecnologici e la disponibilità di nuovi materiali
“Ecco il super-acceleratore” la sfida del Cern oltre il bosone
di Matthias Meili
In questomodo si aspettano nuove conoscenze sugli
ultimi segreti della materia. Lo scorso autunno il direttore del Cern, Rolf
Dieter Heuer, ha dichiarato che un nuovo acceleratore non sarebbe stato
costruito in nessun caso. La pole position indiscussa spettava all’acceleratore
lineare Ilc (International Linear Collider), che sarà costruito in Giappone: un
tunnel rettilineo di 31 chilometri, nel quale vengono sparati elettroni che
collidono al centro. Nel frattempo però l’opinione dei fisici europei è
cambiata.
La
discovery machine
Il nuovo strumento potrebbe essere usato sia come
acceleratore di elettroni che come acceleratore di protoni. Gli acceleratori di
protoni fungono da discovery machine, e con il loro aiuto è stata scoperta
anche la particella di Higgs. Ma certe proprietà della particella, ad esempio
la massa, non possono essere misurate con la necessaria precisione, a causa
della complessità delle collisioni di protoni. Questa precisione può essere
assicurata da un acceleratore di elettroni, poiché qui avvengono collisioni di
elettroni con l’energia desiderata.
In questi giorni all’Università di Ginevra si tiene un
meeting che prende spunto da uno studio preliminare della comunità dei fisici
europei: saranno discusse le sfide scientifiche e tecniche del nuovo
acceleratore. Allo stesso tempo è stato avviato uno studio di fattibilità per
analizzare fino al 2018 i principali problemi di questo mega-progetto. Per
lostudio sono previsti cinque anni perché difficoltà e ostacoli sono enormi,
per non parlare delle questioni socio-economiche. Vale la pena spendere
miliardi di franchi svizzeri (secondo le stime almeno 20)?
Il nuovo acceleratore circolare viene presentato con
il nome di Future Circular Collider(Fcc), “acceleratore circolare del
futuro”. Negli studi preliminari è stata approntata una road map con i dati
fondamentali. L’anello dovrebbe avere una circonferenza da 80 a 100 chilometri,
mentre l’acceleratore Lhc ha una circonferenza di 27 chilometri. Prendendo come
parametro l’energia di collisione, si avrebbe un miglioramento di dieci volte.
Nell’Fcc potrebbero essere raggiunti con i protoni valori fino a 100 TeV
(teraelettronvolt), mentre in futuro l’Lhc arriverà a 13-14 TeV. Poiché
l’energia di collisione determina la massa massimale delle particelle che
possono essere scoperte, questo valore è decisivo per i fisici.
Quale variante alla fine sarà costruita, e in che modo
sarà utilizzata non è chiaro. Le risposte dipenderanno dai risultati ottenuti
dall’Lhc nei prossimi anni. Tuttavia gli scienziati non vorrebbero aspettare a
lungo, perché una macchina così grande non nasce dall’oggi al domani. Ad
esempio, dalla prima idea alla messa in opera dell’Lhc nel 2008 passarono 25
anni. Oggi i fisici stimano che l’Lhc fornirà risultati fino, al massimo, al
2040, dopodiché i dati acquisiti non consentiranno più nessuna nuova
conoscenza.
Il problema dei materiali
«Il nuovo sistema potrebbe funzionare dieci anni come
acceleratore di elettroni, per realizzare la fisica di precisione di Higgs», dice
Jörg Wenninger, che lavorerà allo studio di fattibilità. Nel frattempo potrebbe
essere sviluppata la tecnologia per il nuovo acceleratore di protoni, poiché
certe componenti (come i magneti) non sono nemmeno allo stadio di prototipo. Se
fossero costruite con materiali superconduttori migliori, si potrebbe smontare
l’acceleratore di elettroni e installare nel tunnel la nuova discovery machine.
L’acceleratore di elettroni è tecnologicamente più
semplice, ma in questo caso il problema è il fabbisogno di energia. Le
particelle elementari che ruotano quasi alla velocità della luce irradieranno
una potenza elettrica di 100 megawatt. Ipotizzando che l’acceleratore lavori
con un’efficienza del 50 per cento, dovrebbero essere forniti 200 megawatt solo
per l’accelerazione degli elettroni. «Dobbiamo chiederci se i fisici possano
premettersi di consumare tanta energia, visto che ovunque la si risparmia»,
dice Wenninger.
«Un Fcc come acceleratore di elettroni sarebbe il
progetto concorrente dell’acceleratore lineare giapponese Ilc», continua.
Tuttavia, anche il progetto Ilc ristagna, il finanziamento non è assicurato, e
molti fisici europei sperano nella sede di Ginevra - tanto più che qui è
disponibile parte dell’infrastruttura necessaria. Ma anche la Cina sta pensando
a un nuovo acceleratore circolare. E benché la situazione finanziaria degli Usa
sia fosca, anche gli statunitensi vogliono fare il loro. Tutti gli scienziati
concordano solo sulla necessità, dati i costi, di costruire un solo impianto.
La Stampa 13.2.14
La fusione nucleare ora è più vicina Successo dei test in America
Per la prima volta prodotta una quantità di energia superiore a quella necessaria a innescare la reazione. È il passo in avanti atteso da decenni in tutto il mondo
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