Berlusconi a Renzi:«auguri di tutto cuore: lo stimo, con lui si può parlare perché non è comunista»
ll’Unità 15.2.14
Renzi, governo lampo
Napolitano pronto ad affidare l’incarico
di Vladimiro Frulletti
«Guarda qua la borsa. Sale. Forse è la prima volta che accade di fronte alla caduta di un governo». Matteo Renzi si chiude a Palazzo Vecchio per la sua prima giornata da premier indicato. Arriva in treno da Pontassieve e va nel suo ufficio, nella sala di Clemente VII, per le ultime trattative su squadra e programma. Intanto coi suoi collaboratori legge come un segno un buon segno l’andamento dei mercati finanziari: Piazza Affari in crescita e lo spread Btp/Bund sotto i 200 punti. Del resto il vuoto politico durerà poco. In questo Renzi e Napolitano viaggiano alla stessa velocità. Accettate le dimissioni «irrevocabili» di Letta e senza passaggio parlamentare, le consultazioni del Capo dello Stato finiranno già stasera con l’incontro col Pd. Delegazione, guidata dai capigruppo al Senato Zanda e alla Camera Roberto Speranza, non farà parte Renzi. Poi, già domani, se non stanotte, potrebbe esserci l’incarico. Un paio di giorni e il governo sarà fatto. Il giuramento nelle mani di Napolitano e a metà settimana il voto di fiducia in Senato e alla Camera. Il segretario del Pd, assicurano i suoi, non perderà tempo. L’obiettivo è essere operativo il prima possibile. Tanto, dicono, la squadra è quasi fatta. Renzi ieri c’ha lavorato per tutto il giorno fra telefonate e incontri: col tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, col sottosegretario Erasmo D’Angelis e soprattutto col fidatissimo («mio fratello maggiore» lo chiama) Graziano Delrio con cui passa oltre due ore.
Una full-immersion rotta da poche parentesi. Il pranzo con gli assessori Stefania Saccardi e Alessandro Petretto, e soprattutto le due feste (una di mattina, l’altra al pomeriggio ) di San Valentino nel salone dei 500 con le 1200 coppie fiorentine che hanno conquistato il traguardo dei 50 anni di matrimonio. L’occasione, oramai una delle ultime a disposizione, per salutare da sindaco i suoi concittadini. E infatti, incassando fra abbracci e baci parecchi auguri per il nuovo incarico e per non farsi «guastare il fegato vista la baraonda che troverà laggiù» come lo invita una signora, Renzi sembra anche un po’ emozionato.
Ma tolta la fascia tricolore si ributta sulla formazione del governo. Una squadra snella, tante facce nuove, parecchie donne e qualche sorpresa da tirare fuori all’ultimo momento, è la bussola che i renziani forniscono per comporre il puzzle. «Sarà un governo molto asciutto» garantisce Davide Faraone, deputato e responsabile welfare della segreteria Pd. Di certo dovrà contenere nei volti e nelle loro storie messaggi da inviare all’opinione pubblica di centrosinistra che non ha gradito la sua ascesa a Palazzo Chigi senza passare dalle urne. In questo direzione potrebbe andare ad esempio un nome come quello della 34enne Cecilia Strada presidente di Emergency e figlia di Gino il fondatore della Ong che cura malati in tutto il mondo. Un effetto a sorpresa che gli servirebbe anche per lanciare un ponte verso Sel che al momento non pare per nulla interessata a sostenerlo. Anzi Vendola, consapevole che alcuni dei suoi eletti vorrebbero dare la fiducia a Renzi, l’ha anche messo in guardia da tentativi di «cannibalismo politico» nei confronti dei suoi parlamentari. Gli altri nomi non politici che Renzi è pronto a schierare sono quelli di Lucrezia Reichlin (figlia di Alfredo e candidata alla vicepresidenza della Banca di Inghilterra ) e del Ceo di Luxottica Adriano Guerra (che Renzi aveva suggerito già a Letta). Ma dipende da loro. Se dicono sì, le caselle dell’economia e dello sviluppo economico saranno a posto. Per quanto riguarda il Pd la giovanissima Maria Elena Boschi avrà le riforme. Se Dario Franceschini va al ministero dell’Interno, i Rapporti col Parlamento finiranno o all’attuale vicepresidente della Camera Roberto Giachetti o a Paolo Gentiloni. Per Delrio è più probabile il ruolo di sottosegretario alla Presidenza. Questo vorrebbe dire che il «fratello minore» Luca Lotti rimarrà a gestire il partito (Renzi rimarrà segretario). E comunque grazie proprio alla stima di Lotti (costruita durante la fase di traghettamento del dopo Bersani), si aprirebbero le porte del ministero del lavoro per Guglielmo Epifani. Anche Lorenzo Guerini è in bilico fra partito e governo (affari regionali). Dovrebbe rimanere a fare il tesoriere Francesco Bonifazi. L’intenzione di Renzi infatti è di non lasciare sguarnito il partito.
il Fatto 15.2.14
Più giovane anche di Mussolini quando fu scelto dal re
CON I SUOI 39 ANNI compiuti l’11 gennaio Matteo Renzi si appresta a diventare il più giovane primo ministro dell’Unione europea. Renzi sarà l’unico premier tra i 27 della Ue a non avere ancora raggiunto la soglia dei 40 anni. Per trovare uno più giovane di Renzi bisogna spingersi fuori dei confini della Ue, nella lontana Islanda: lì il primo ministro è Sigmundur Gunnlaugsson, di tre mesi più piccolo del segretario del Pd. Ma Renzi sarà soprattutto il premier più giovane che l’Italia abbia mai avuto. Finora la palma apparteneva a Giovanni Goria (Dc), arrivato a Palazzo Chigi nel 1987 a 43 anni. Renzi è più giovane anche di Benito Mussolini quando fu incaricato da re Vittorio Emanuele III di formare il nuovo governo il 29 ottobre 1922: il Duce del fascismo aveva due mesi in più di Renzi oggi.
Corriere 15.2.14
La trattativa parallela con l’amico Verdini
L’asse
tra il segretario e Verdini e il modello «responsabili» Il timore di
Ncd: diventare ininfluente in caso di un appoggio al governo da destra
di Francesco Verderami
Renzi
va veloce. Così veloce che — mentre deve ancora nascere il Renzi 1 —
lui starebbe già lavorando al Renzi 2 per scaricare Alfano durante la
navigazione del governo. Letta ha sperimentato come il segretario del Pd
dica una cosa e poi ne faccia un’altra.
Per evitare che fra
qualche tempo il capo democratico dedichi al leader del Nuovo
centrodestra un hashtag del tipo #angelinostaisereno, Lupi ha indossato i
panni dell’investigatore, e raccogliendo una serie di indizi sarebbe
risalito all’origine dell’operazione che garantirebbe in prospettiva al
futuro premier una maggioranza alternativa. Solo che, ecco la sorpresa,
le tracce non porterebbero a Sel e ai transfughi cinquestelle. No:
imitando Cuadrado — fantasista della sua «Viola» — Renzi avrebbe fatto
finta di andare a sinistra, puntando invece sulla destra. Lì dove ad
attenderlo ci sarebbe Verdini, pezzo forte del mondo berlusconiano, che
dai tempi della trattativa sulla legge elettorale ha in testa
l’obiettivo di far fuori Ncd.
È noto il legame tra il sindaco di
Firenze e il concittadino di Forza Italia. I due — come raccontano
autorevoli dirigenti azzurri — «si scambiano ogni giorno messaggi quasi
fossero fidanzatini». E tra un sms e l’altro sarebbe stata elaborata
l’operazione che a Lupi ha ricordato la stagione in cui militava nel
Pdl, il brillante piano dei «responsabili» elaborato nel dicembre del
2010 proprio da Verdini, quel gruppo parlamentare che fu decisivo per
consentire a Berlusconi di restare a Palazzo Chigi, nonostante la
mozione di sfiducia di Fini. Sulla falsariga del vecchio schema, il
nuovo dovrebbe portare alla costituzione di una pattuglia di senatori
provenienti dalle file del centrodestra, una formazione da ingrossare
poco a poco fino al punto di rendere Ncd ininfluente all’occorrenza,
così da farne una «quantité négligeable» — come ama dire Berlusconi — ai
fini della maggioranza a Palazzo Madama.
Di impronte deve averne
trovate a sufficienza Lupi, se l’altro ieri ha prima scritto un sms
minaccioso a Renzi e poi ha chiamato al telefono Franceschini. «Ma no,
quella è una cosa che al limite aggiunge», si è sentito rispondere. È
stato allora che è sbottato: «Sapete che c’è? Il governo ve lo fate con
Verdini e Cosentino, e ... (omissis)». Non è dato sapere perché il
ministro ncd abbia citato l’ex coordinatore campano del Pdl, che — in
polemica con le nomine decise da Berlusconi nella sua regione — ha
benedetto la nascita di Forza Campania. C’entrano forse qualcosa i
senatori azzurri che fanno capo Cosentino, noto per i suoi legami con
Verdini? E come mai ieri — fulmine a ciel sereno — Maroni ha denunciato
il tentativo di scouting da parte del Pd nei confronti di parlamentari
della Lega? «Facciano pure, troveranno un muro di cemento armato».
Parlava a Renzi perché qualcun altro sentisse?
Una cosa è certa,
l’affaire responsabili ha scatenato il finimondo tra Pd e Ncd. «Matteo»
ha provato a derubricare il tema con «Angelino»: «Guarda che i contatti
con Forza Italia servono solo a tener bassa la tensione politica». Ma
ieri mattina il tema ha tenuto banco nella trattativa tra le due
delegazioni, e Delrio è andato a Firenze per riferirlo a Renzi. Alfano
fa sapere che «su programma e composizione della maggioranza» non
transige, e lo ribadirà oggi quando salirà dal capo dello Stato per le
consultazioni. Altro che fare presto: i tempi si allungheranno di una
settimana per la formazione del governo. Ncd deve già fronteggiare le
bordate di Berlusconi, che ha iniziato la campagna elettorale «contro di
noi invece di attaccare la sinistra», manca solo che debba fidarsi di
una promessa, mentre in Forza Italia c’è già chi fa avances a Renzi. Con
«il rischio — lo ammette l’azzurro Matteoli — che siccome nel partito
non abbiamo un luogo dove discutere, i nostri gruppi si possano dividere
sui singoli provvedimenti tra chi vota a favore e chi contro».
A
«Flipper», come viene chiamato Renzi nel Nuovo centrodestra, verrà
ribadita la necessità di un «patto alla tedesca», che per Alfano è più
importante della vertenza sulla lista dei ministri. E non c’è dubbio che
«molta attenzione» verrà posta sui dicasteri della Giustizia e delle
Comunicazioni, là dove con Enrico Letta sedeva Catricalà, amico di
Gianni Letta, garante degli equilibri tra il Cavaliere e il Pd ai tempi
delle larghe intese. Da chi sarà indicato come suo successore Ncd capirà
se (e fino a che punto) Renzi ha stipulato un patto con Forza Italia, o
se davvero — come sostiene il leader democrat — la liaison con Verdini
serve solo a «tenere bassa la tensione politica».
Non servono
acrobati per «uscire dalla palude», serve un’intesa e una strada
concordata, così da evitare di restare impantanati ai primi passi.
Perciò — nonostante Renzi volesse accelerare — occorreranno giorni per
trovare l’accordo di maggioranza: uno sarà scritto, e riguarderà il
governo; l’altro sarà tacito, semmai dovesse aprirsi la corsa al
Quirinale.
Francesco Verderami
il Fatto 15.2.14
L’abbraccio di Verdini per blindare il governo
Il senatore tratta con i “cosentiniani” per portare una pattuglia di fuorusciti Gal-Forza Italia a sostenere il progetto del rottamatore
di Fabrizio d’Esposito
Lo spregiudicato e il pregiudicato. “Matteo” e “Silvio”. Renzi e Berlusconi. Il Condannato non è affatto insensibile o disinteressato alla nascita del primo governo del Rottamatore. L’opposizione sarà “responsabile” e soprattutto ispirata da una dichiarazione d’amore dalla Sardegna, ancora una volta insieme a Cappellacci (i due ormai fanno coppia come Totò e Peppino): “Ho stima di Matteo Renzi, è persona intelligente, non è di scuola comunista”. E tra intelligenze non comuniste ci si intende.
Denis, la minaccia al Nuovo Centrodestra
Di mattina presto, ieri un esponente di primissimo piano di Forza Italia, un volto molto noto, è stato quasi tirato giù dal letto da un inferocito Maurizio Lupi, ministro uscente e ciellino di Ncd: “Stavolta Denis sta esagerando, ci vuole sfondare. Si è messo d’accordo con Cosentino e sta formando un nuovo gruppo al Senato con i dissidenti di Forza Campania. Ieri sera (giovedì, ndr) ha chiamato pure i senatori nostri. Ditegli di fermarsi o va a finire male”. Denis è ovviamente il berlusconiano Verdini, amico e concittadino di Renzi nonché banchiere fallito e plurinquisito. Da giovedì sera, Verdini con l’assenso di Berlusconi si è messo in moto per un’operazione a favore del futuro premier e per depotenziare Ncd: formare un altro gruppo al Senato con un po’ di forzisti dissidenti e qualche Ncd intimorito dal braccio di ferro in corso tra il partito di Alfano e “Matteo”. La faida di Nick e la paura di Alfano
Verdini si è inserito nelle faide interne di Forza Italia al sud. In Campania, dove i cosentiniani, nel senso di Nicola, contestano il coordinatore regionale azzurro, e in Puglia. Risultato: quattro senatori campani di FI oggi in prestito a Gal (Grandi autonomie e libertà) e sette azzurri di Palazzo Madama sarebbero pronti a dare il loro sostegno all’esecutivo renziano. Una sorta di governo mascherato Renzi-Berlusconi Verdini & Cosentino, sotto processo e sotto accusa per camorra. Ecco i nomi. Per Gal: Vincenzo D’Anna, Giovanni Mauro, Pietro Langella, Antonio Milo. Per Forza Italia: Luigi D’Ambrosio Lettieri, Ciro Falanga, Pietro Iurlaro, Pietro Liuzzi, Luigi Perrone, Lucio Tarquinio, Vittorio Zizza. Dice al Fatto D’Anna: “Noi siamo in attesa di una risposta da Berlusconi su Forza Italia in Campania. Se dovessimo andare alla rottura saremmo molti di più. Il governo? Mi creda ancora non abbiamo fatto valutazioni”. I senatori sono undici per il momento ma Verdini conta di ingrassare la nuova formazione con il passare delle ore. Del resto è uno specialista di queste trattative: si vedano quelle dopo la scissione di Fini nel biennio 2010-2011 e prima ancora quelle per far cadere Prodi nel 2008. Il chiodo fisso del banchiere è spezzare Ncd, renderla ininfluente per il nuovo governo. E tutti i mezzi sono leciti, come insegna il ventennio berlusconiano della Seconda Repubblica. In più, stavolta si tratta di dare una mano “Matteo”, con cui ha chiuso il patto delle riforme. Il rapporto tra i due è granitico. Non solo. A vigilare c’è anche il papà di Renzi, Tiziano, imprenditore e amico da anni di “Denis”.
Guardasigilli e tv Richieste forziste
Tutto però ha un prezzo e secondo un’altra fonte di Ncd, contattata da Verdini per questa operazione, Berlusconi avrebbe chiesto garanzie ben precise a Renzi: giustizia e televisioni. Conflitto d’interessi, tanto per cambiare. Per la prima, è stato riferito il non gradimento al leader del Pd su uno dei nomi più gettonati nel totoministri: il centrista Michele Vietti, vicepresidente del Csm. Per le tv sarebbe stata indicata una preferenza per la delega delle Comunicazioni alle Infrastrutture: il famigerato Antonio Catricalà, burosauro di matrice lettiana (lo Zio non il Nipote). Questa trattativa, spiega un esponente forzista, sarebbe nata a livello embrionale già quando B. incontrò Renzi al Nazareno. Non a caso, in quei giorni, con spirito vendicativo, l’allora premier Enrico Letta ripescò la minaccia di una legge sul conflitto d’interessi.
La rivincita del condannato
Con questo spirito manovriero, stasera il Condannato salirà al Quirinale per le consultazioni. Faccia a faccia, alle 18 e 30, con Napolitano, dopo l’onta della decadenza da senatore, nel novembre scorso per la condanna Mediaset. Ieri in Sardegna ha confidato a un amico: “Per me sarà una rivincita andare lì e guardare in faccia chi non ha mosso un dito per salvarmi e poi non mi ha dato la grazia”. In aggiunta ci sono anche le rivelazioni postume di Friedman sul complotto dell’estate 2011 per il governo Monti. Oggi ci sarà uno spettacolo nello spettacolo.
il Fatto 15.2.14
L’ipnosi collettiva del cinetico Matteo
di Pino Corrias
IMPRIGIONATI COME SIAMO in questo permanente set televisivo della politica full color ci siamo trasformati in spettatori immobili di un conturbante teatro digitale abitato da pupi e marionette che si muovono, parlano, minacciano, rassicurano per ragioni che ci sfuggono. Come negli album per bambini il solo senso che ci è concesso intuire, coincide con le figure che vediamo. Renzi che arriva in giacca, a piedi, da destra verso sinistra. Renzi che sparisce in Smart da sinistra a destra. Giornalisti che corrono. Anche loro a caccia di qualcosa, forse della vite che si è appena rotta negli ingranaggi di Letta, forse un bullone. Qualcuno ha capito perché il Corriere della Sera, di punto in bianco, ha illuminato le manovre di Napolitano per silurare il suo pupillo e poi abbandonarlo alle mandibole di Renzi e agli occhi micidiali della Boschi? C’era una qualche riforma che minacciava di peggiorare già oltre il suo proprio fallimento incorporato? È diminuito il pil? È aumentata l’aviaria? Capendo quasi nulla restiamo tutti ipnotizzati. Perché Renzi fa il suo spettacolo in diretta e questo ci affascina. Mentre il povero Letta è già dal primo giorno un repertorio. E questo ci deprime.
Repubblica 15.2.14
Ambizioso o sbruffone, il dilemma del leader
di Francesco Merlo
E’ la sua qualità migliore, la più pericolosa, la meno italiana perché l’ambizione esibita è peccato mortale nella patria dei falsi umili: «Ho ambizione smisurata, non lo smentisco». E sarà pure figlia di un complesso di inferiorità, un malessere, ma è la forza oscura che lo spinse a candidarsi sindaco, solo contro tutti, sbeffeggiato dal segretario della Cgil che gli disse: «A vincere sarà il mio uomo». Vinse Renzi e l’altro arrivò ultimo.
Ha detto Renzi giovedì in direzione: «Se non avessi rischiato, ora sarei al secondo mandato da presidente della Provincia». E certo, la frase «c’è un’ambizione smisurata che bisogna avere, la deve avere il segretario del Pd come l’ultimo delegato» esprime benissimo quella volontà di potenza che fece morire in manicomio un ambizioso ben più ambizioso di Renzi, che in fondo ancora non ci ha parlato di Superuomo. E però ditemi se quello che segue non è un Renzi nietzschiano: «Una volta, un pezzo grosso del mio partito mi disse: “Ciccio, a me hanno insegnato che a trentaquattro anni si rispetta la fila”. Disse proprio così: “si rispetta la fila”. Come al supermercato, quando tutti abbiamo da svuotare il carrello. Uno per volta, rispettando la fila. Solo che facendo così in politica non si svuota il carrello, si svuota l’entusiasmo. Decisi che non volevo (e ancora oggi non voglio) fare il pollo di batteria. Non volevo che gli altri decidessero i tempi. Non volevo stare alle loro regole, le regole di una generazione che ha già dato tutto quello che poteva dare». Come si vede, qui l’ambizione è la rottura degli argini stretti da parte di una personalità straripante, un ingorgo di pulsioni che dal cervello gli arrivarono alla bocca: «Rottamazione».
Si sa com’è andata: la volgarità dell’ambizione ostentata ha trasmesso un sapore autentico, Renzi è sembrato simpatico e sanguigno, con quegli incredibili pantaloni attillati e il giubbotto di pelle a chiodo in opposizione ideologica. La sua smania, la sua fame da lupo nel mondo della sinistra è diventata l’uscita collettiva dal soffocamento da nomenklatura, l’illusione dell’ossigeno tra gli odori stagnanti e irrespirabili, e ora la possibile catarsi dell’Italia che davvero non ne può più di ambizioni costrette a muoversi nell’ombra, malcelate sotto cumuli di ipocrisia, al riparo dal rapporto di verità con l’opinione pubblica. Via, diciamolo, sarebbe bello sentir dire a Romano Prodi: «Io vorrei fare il presidente della Repubblica, credo di avere le qualità adatte».
Insomma, l’ambizione esibita ha difetti vistosi che forse oggi servono all’Italia più dei meriti oscuri. Dunque non scandalizzatevi se ora vi elenco tutti i virtuosi vizi dell’ambizione con cui Renzi sta seppellendo la doppiezza clericale del Paese di cui Andreotti fu al tempo stesso lo statista e il diavolo. La sbruffoneria, innanzitutto: «Un uomo solo al comando è bellissimo». La presunzione, poi: «A trentotto anni sono pronto per fare tutto». E l’impudenza: «Se andiamo alle elezioni li asfaltiamo».
Ma non finisce qui, perché l’arroganza dello sfoggio d’ambizione, «vincere non è una parola fascista», e la spocchia verso il vecchio mondo della sinistra, «Fassina, chi?», seppellisce anche l’altra doppiezza, quella comunista, che ha fatto di D’Alema l’innocente al quale si può rimproverare tutto e il colpevole al quale non si può attribuire nulla. Certo, Renzi si fa le lampade, come si legge nella biografia autorizzata, e speriamo sia perché «l’ambizione - secondo Montaigne - non ha il pallore della pavida gentucola» e non perché, come ha sostenuto - ahinoi - Berlusconi, l’abbronzatura è la bellezza di Obama, il quale «ha vinto perché somiglia a me». Come si vede, si corrono seri rischi a frequentare apertamente l’ambizione che però, nascosta nei baffi o nella gobba, vale a dire relegata nel sottosuolo, nel doppio fondo, nel doppio stato, nella doppia vita e nella doppia identità, ha espresso l’impenetrabilità di quella lorda pozza che è stata la storia politica italiana del dopoguerra.
Ha confessato: «Non mi piace perdere neppure alla Playstation». E poiché la voce latina, “ambitio”,non rimanda a nessuna qualità dell’anima, ma al “girare attorno”, Renzi è movimentista, vale a dire tattica senza strategia, parole incendiarie e orizzonti vaghi, l’ambizione nomade che gli fa prendere il Comune parlando di Provincia, e quando divora il partito è già a Palazzo Chigi, e chissà dove lo porta in questo momento il cuore mentre tutti lo aspettiamo al governo. È questa “l’ambitio”: l’atto fisico del darsi in giro «per brigar gli onori». Anche il linguaggio del movimentismo è un girare attorno, di corsa: «fuochi d’artificio», «un rischio pazzesco», «mi gioco l’osso del collo», «rivolterò l’Italia come un calzino», parole grosse, come furono quelle dell’altro movimentista gradasso e ambizioso d’Italia, Bettino Craxi, purtroppo finito male perché, come aveva scritto nel 1916 Antonio Gramsci recensendo il Macbeth del grande Ruggero Ruggeri: «L’ambizione ha prodotto in lui questa sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi delitti». E andando più indietro fu apertamente ambizioso Giovanni Spadolini, primo presidente del Consiglio, narciso e inverecondo come Renzi, ma con in testa la grande idea di trasformare l’Italia - nientemeno - in un Paese laico. Anche Spadolini fu toscanaccio come lo è Matteo e non toscanuccio come Enrico Letta, nel senso che si impenna ma non piagnucola. Renzi, proprio come Spadolini che arrivava ai calci, maltratta con amore i suoi collaboratori: Dario Nardella, ora designato sindaco di Firenze; il fedele Luca Lotti, detto il Lampadina, letteralmente menato sul campo di calcio; Marco Agnoletti, il povero portavoce che lo sopporta con abnegazione. E Renzi è sboccato, batte i pugni, la sua ambizione è anche esuberanza fisica, gli è persino capitato di pestare letteralmente i piedi ai cronisti, come un La Russa qualsiasi: lo fece a David Allegranti, prima firma del Corriere fiorentino, che si era intrufolato dove non doveva stare. Il toscanaccio fa l’irascibile e il maligno e mai il carino come il toscanuccio, ti tira indifferentemente una schioppettata in fronte o una pugnalata alla schiena, sempre convinto, di nuovo come Macbeth, che a lui, solo a lui, in nome della grandiosità sarà comunque perdonato tutto, anche l’avere detto «grazie Enrico» subito dopo averlo assassinato.
L’ambizione senza la dissimulazione democristiana e comunista, dunque. Non quella fredda, geometrica e di testa degli arrampicatori di Stendhal, l’ambizione che mancò al maresciallo Grouchy che fece perdere la battaglia di Waterloo a Napoleone perché, scrisse il già renziano Stefan Zweig, «il momento decisivo, che così di rado si presenta nella vita dei mortali, si vendica con crudeltà di chi, eletto senza merito, non sa approfittare dell’occasione propizia».
Repubblica 15.2.14
L’entusiasmo dello stilista Roberto Cavalli: a Firenze ogni 500 anni nasce un grande uomo, lui è uno di questi
“Matteo è come un figlio, può ringiovanire l’Italia”
di Ilaria Ciuti
«Sono uno che si fida di sé più che degli altri». Ora però Roberto Cavalli è entusiasta di «Matteo». Il sindaco e lo stilista: ambedue fiorentini.
Cavalli, che ne dice che il suo sindaco diventi primo ministro?
«Gli ho mandato un sms alle due di notte: “Mio caro grande amico, complimenti, congratulazioni. Come ti sta urlando tutta l’Italia perché sta sperando. Ma l’amore, quello vero che porterà il tuo nome nei libri di storia deve ancora nascere. Te lo conquisterai dimostrando che la speranza era fondata”».
Complicità da fiorentini?
«No. È solo che a Firenze ogni 500 anni nasce un grande uomo. Matteo è uno di questi».
Perché Renzi le piace?
«E’ la nostra pedina per tornare a credere in qualcosa. Matteo può far sì che gli italiani aprano le finestre per vedere che il cielo non è grigio: è blu. Può ringiovanire l’Italia, chi ce l’ha un premier così giovane? Mi ci riconosco un po’ in questo ragazzo che potrebbe essere mio figlio e a cui penso si addica il mio motto: “L’eccesso è il mio successo”».
Già, alcuni lo accusano di ambizione smodata.
«Se non ci si sente ganzi non si ha successo. Quando conobbi Matteo gli mandai un sms: “Senti, è ambizione o missione?”. E lui mi rispose: “Senza l’una non c’è l’altra”».
Ma come vi siete conosciuti?
«A una cena. Non ho mai sentito un sindaco così giovane parlare di moda con tanta professionalità. Né un politico tanto indaffarato ma così gentile da venire a presentare il mio libro, Just Me. Lui lo ha letto, si è interessato a una storia che non parla solo di moda, ma di mio padre fucilato dai tedeschi, della Liberazione di Firenze, dei successi e le sconfitte della vita. Si ricorda tutto, ha una memoria che neanche Pico della Mirandola».
Convinto della staffetta, invece del voto, per Palazzo Chigi?
«Necessità. L’Italia ha fame e gli altri, da Bersani a Letta, dormivano. Non mi scandalizza neanche l’accordo con Berlusconi, di lì bisogna passare visto che ha ancora il 25%. Purchè sia un accordo piccolo, perché quando dai la mano a Berlusconi poi devi contarti le dita rimaste. Spero che Matteo l’abbia ritirata prima. Ma lui è intelligente».
Adesso cosa gli chiede?
«Un’Italia diversa. Che pensi agli italiani con lo spirito giovane che manca. Da vecchio socialista vorrei anche un’Italia più giusta. Io sono disposto a pagare molte più tasse se vengono spese bene. Non mi scandalizza che si tolga ai grandi capitali per dare di più a chi lavora anche per meno di mille euro al mese».
Repubblica 15.2.14
Tra tweet e turboleader la politica delle vecchie pastoie scopre il dogma della velocità
Da Moro a Matteo, il rischio di avere troppa fretta
di Filippo Ceccarelli
Festina lente, affrettati lentamente, motto attribuito da Svetonio all’imperatore Augusto, si è scoperto essere il nome di una delle associazioni che hanno sostenuto sul piano finanziario la rapidissima ascesa di Matteo Renzi.
Dunque velocità, ma anche ponderazione, entrambe indispensabili in ogni impresa. Molto prima del Sindaco e dei suoi più fidati consiglieri Alberto Bianchi e Marco Carrai, l’antica massima era stata scelta da Cosimo de ’Medici, che pure l’aveva inserita nel suo stemma sotto l’immagine di una tartaruga sul cui guscio si leva una vela gonfiata dal vento.
Ora, per la verità, Renzi appare assai più affrettato che prudente. «O la va o la spacca», «mi gioco l’osso del collo» e così via, spesso attraverso twitter o Facebook, tecnologia dell’immediatezza. E tuttavia, anche al netto di altri mezzi e messaggi quali Smart, maratone e Frecce rosse, pare evidente che da quando il giovane leader ha stravinto le primarie, l’intera vita pubblica ha preso a correre.
L’accordo per l’Italicum, la direzione del Pd, la crisi di governo, perfino quelle consultazioni che vengono assimilate a vecchi riti perditempo tipo vertici & caminetti, a loro volta propedeutici a quella che il dinamismo renziano ha identificato come il male assoluto di questa fase: «la palude».
Presto! Presto! dunque, anzi: «Adesso», come recitava il penultimo slogan dell’allora Rottamatore. Scriveva del resto già lunedì scorso Ilvo Diamanti che Renzi è «l’uomo dei tempi veloci» e «dei fatti veloci». La cauta e munita tartaruga di Cosimo, peraltro visibile in varie fogge sui soffitti e i pavimenti di Palazzo Vecchio, è rimasta un po’ indietro, magari col suo ciuffo di lattuga; ma intanto il vento soffia forte in faccia al promesso leader promesso, il quale che l’altro giorno così s’è descritto: «In piedi sull’onda».
Nella stagione dell’enfasi va da sé che la retorica è sempre dietro l’angolo; e quando non sono le strategie di comunicazione, è il prevedibile tributo al vincitore che con sospetta spontaneità seleziona gli omaggi, ed eccoti puntualmente il «cambio di passo», lo «sprint», lo «scatto», l’»anticipo», l’»accelerazione», il «sorpasso», le «tappe bruciate», l’»attimo fuggente», l’»adrenalina», il «velocifero», addirittura, e l’inesorabile «turbo-leader».
E pazienza se ieri il classico programma «dei cento giorni» era già diventato «dei sessanta». Più immaginario che pratico il rischio - non se ne adonti Renzi, non è colpa sua - sta piuttosto in un gorgoglio di chiacchiere, oltretutto nemmeno consapevoli di rimestare nel pentolone dell’archeo e tardo futurismo. Per cui - punto quarto del Manifesto del 1909 (!) - «noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità».
Occorre dunque resistere strenuamente al grottesco e dotarsi quindi per il futuro di una riserva di avveduto scetticismo. Ma in fin dei conti si può senza dubbio riconoscere a Renzi di essere assai più veloce e anche più svelto, senza virgolette, degli uomini politici che fin qui si sono messi alla prova e ai quali il gentile pubblico non pagante si è abituato, anche se quasi mai affezionato.
Non si intendono qui Moro, che del rinvio fece una religione, o Berlinguer, che pagò duramente i suoi ritardi, o Andreotti, che tutto sminuzzava fino a disperderlo nell’iperuranio delle non decisioni. Ma Renzi appare senz’altro più rapido anche di gente parecchio sveglia come Craxi, o Bossi, o lo stesso Berlusconi.
A occhio, tale dote deve aver a che fare con un salto anagrafico, o l’evoluzione della specie. In questo senso colpisce che l’esordio del personaggio è avvenuto in tv, anzi in un telequiz (dal profetico nome de «La ruota della fortuna»). Ha spiegato in proposito il demoscopo Alessandro Amadori, che pure ha sperimentato la medesima esperienza sul video: «Tutto lì avviene all’insegna della velocità e tu impari a essere un fulmine nelle risposte».
Altra cosa è ovviamente governare. Per giunta in un paese che vanta un indubbio primato d’improvvisazione - sempre ridicola, talvolta tragica - e nel quale i leader politici adorano presentarsi e ancor più farsi credere, specie in tv, i più risoluti, decisionisti e sbrigativi possibile - e qui il pensiero corre, il meno grato che si possa immaginare, al Cavaliere che si vantò di aver fatto approvare dal Consiglio dei ministri la Finanziaria 2008 in nove minuti, o al governo Monti che riformò le pensioni in un battibaleno, dimenticandosi però di circa 300 mila esodati.
Ora arriva Renzi con i suoi blitz, e pur senza nutrire alcuna nostalgia per le vecchie pastoie che non finivano mai, sembra lecito chiedersi quali vantaggi, ma anche quali guai possono venire da una politica che di colpo scopre la virtù salvifica del movimento e un po’ anche della fretta. Certo, chi va piano va sano e va lontano, ma anche a prescindere dagli arcani del fund raising, «festina lente» pare un ottimo programma, e l’alacre testuggine di Cosimo un animaletto perfino rassicurante.
Repubblica 15.2.14
L’amaca
di Michele Serra
Rileggere le dichiarazioni di fedeltà di Matteo Renzi all’“amico Enrico” è oggettivamente impressionante. Ci si può passare sopra — volendo — in considerazione del fatto che la scena del potere, da sempre, ha una intensità scespiriana (tradimenti, sangue, soluzioni ferali), e dunque non è uno spettacolo per educande. Ma sono, questi, tipici ragionamenti conservatori; quelli che finiscono, in genere, con la micidiale frase “è sempre stato così”, che taglia le gambe a ogni speranza o illusione di cambiamento.
Nella realtà, in fondo al cuore di tutte o quasi le persone di sinistra (definizione sempre più approssimativa, ma è per intenderci) sopravvive la speranza che i rapporti tra gli esseri umani, secondo l’antica definizione marxiana, possano diventare un giorno “più trasparenti”. E che la politica sia, di questo sogno di trasparenza, se non il primo motore almeno un veicolo. Tra le dichiarazioni rese da Renzi nell’ultimo paio di mesi e la sua prassi, per altro suffragata dal partito quasi al completo, c’è un contrasto così stridente che alla trasparenza tocca rinunciare prima ancora di cominciare.
La Stampa 15.2.14
Cartellino giallo
di Massimo Gramellini
«Se andassi mai al governo» disse un giorno Matteo Renzi quando già non pensava ad altro, «mi ricorderei di avere fatto l’arbitro di calcio. Sui campi di provincia, a di- ciotto anni, in mezzo a giocatori più grandi e grossi di me. Lì ho capito l’importanza di tirare fuori il primo cartellino giallo entro il ventesimo minuto. Solo se la afferri subito, la partita non ti sfuggirà di mano. Oggi la luna di miele di un presidente del Consiglio non dura più cento giorni, ma cento ore. Io presenterei i miei provvedimenti choc al pri- mo Consiglio dei ministri. Anzi, li leggerei in Parlamento al momento della fiducia: prendere o lasciare».
Ci siamo, anche se il modo ancor ci offende. Renzi si gioca il suo futuro, e forse un po’ del nostro, nelle prossi- me cento ore. Rottamare D’Alema, Bersani e Letta, in fondo, era la parte più facile del lavoro. Da lui adesso ci aspettiamo la rottamazione vera. Cartellino giallo al cle- ro laico e inamovibile degli alti burocrati di Stato, garanti di un immobilismo che ormai arricchisce soltanto loro. Cartellino giallo al cumulo tossico di spesa pubblica, in espansione inarrestabile da oltre mezzo secolo, come il suo specchio fedele: le tasse. Cartellino giallo alla piovra delle leggi e dei cavilli che ha trasformato i cittadini in sudditi. Ma anzitutto cartellino giallo, anzi rosso, alle fac- ce di un’altra, e bassa, stagione. Se nel nuovo governo trovassero posto gli stessi Alfano e gli stessi Lupi di quel- lo vecchio, persino qualche simpatizzante di Renzi co- mincerebbe a pensare che non c’era alcun bisogno di cambiare governo.
Corriere 15.2.14
Nardella studia da sindaco senza le primarie (e scivola sulle patate fritte)
di Fabrizio Roncone
Poi racconteremo anche la storia delle patatine fritte (certo finire su Dagospia per aver parlato incautamente di patatine fritte dev’essere piuttosto seccante).
Comunque adesso il problema più urgente per Dario Nardella — 38 anni, maestro di violino e già deputato dell’ordine dei renziani superiori — è trovare una risposta a questo interrogativo: meglio tornare a Palazzo Vecchio o entrare a Palazzo Chigi? Meglio fare il sindaco di Firenze o il ministro nel nuovo governo?
Dipendesse solo da me, pensa Nardella, sceglierei di fare il sindaco. Ho già fatto il vice di Matteo e conosco la macchina burocratica, conosco la città, conosco — soprattutto — i fiorentini.
Agli amici confida mordendosi il labbro (perché sa che certe cose si pensano ma non si dicono): «Tra l’altro, diciamoci la verità... è un’opportunità più unica che rara». Ne ha discusso con Renzi, e Renzi, in queste sue ultime ore da sindaco, ne sta discutendo con gli altri del cosiddetto «cantuccio magico» (risposta fiorentina al «tortello» di sapore bersaniano): Emilio Bonifazi, Luca Lotti, Maria Elena Boschi e Graziano Delrio, l’unico della compagnia a non essere toscano. Naturalmente, come sempre, alla fine deciderà lui, Renzi. Che però sembra aver già deciso di voler accontentare Nardella, imponendo un percorso politico piuttosto atipico, per non dire irrituale.
Nardella dovrebbe infatti dimettersi da parlamentare, in modo da poter tornare in giunta come «esterno» e acquisire, quindi, la delega di vicesindaco (l’attuale vice, Stefania Saccardi, verrebbe fatta traslocare nella giunta regionale). La «reggenza» durerà fino a maggio, quando ci saranno le elezioni: alle quali Nardella si presenterà — ecco un’altra possibile anomalia — come candidato sindaco senza dover superare l’esame delle primarie, che a sorpresa potrebbero essere abolite (ieri le invocava, sbigottito, Eugenio Giani, l’attuale presidente del consiglio comunale).
Nardella — sposato, con due figli — mette su una faccia furba: «Aspettiamo». Simpatico, spregiudicato, coraggioso come molti ex boy scout. «Con Matteo ci siamo conosciuti all’università, stesso corso di laurea in Giurisprudenza, siamo coetanei». Si ritrovarono nel 2004: il giovane presidente della Provincia che sta per diventare premier aveva bisogno di un giovane costituzionalista da tenersi al fianco.
Poi, vabbé, pochi giorni fa Nardella è stato bocciato al concorso per docenti in Diritto costituzionale. «Mi dispiace troppo. Comunque i commissari mica hanno detto che sono un ciuccio, eh?» (ciuccio, asino in dialetto napoletano: Nardella nacque a Torre del Greco, e arrivò a Firenze da adolescente). Uno molto sicuro di sé. Uno che a GQ Italia , tre mesi fa, disse: «Dobbiamo rottamare la politica del cacciavite di Enrico e sostituirla con la politica del martello pneumatico» (ed è chiaro, a questo punto, che Enrico Letta non legge GQ Italia ). Uno che in tivù ha sempre ripetuto: «Non dobbiamo far resuscitare le cariatidi del Pd» (concetto ormai superato dagli eventi).
Grazie alla tivù è diventato un volto abbastanza noto. Riconosciuto sul treno, disse al suo compagno di viaggio: «Oh, beh... sono soddisfazioni, no?».
Dipende da dove ti riconoscono.
Il sito Dagospia — e qui torniamo alla storia delle patatine fritte — racconta che giovedì mattina, alle 11, Nardella era seduto a un tavolino della Caffetteria di piazza di Pietra, a pochi passi da Montecitorio, con due amici. A un certo punto prende il telefonino e risoluto — «come un vero renziano» — passa subito all’azione.
«Mi devi mettere in contatto con... come si chiama? Il braccio destro di Farinetti... Ecco, lui. C’è un problema: non è possibile che sui banconi di Eataly ci siano tutte le patatine possibili e immaginabili e non le San Carlo, le uniche prodotte interamente in Italia!».
Pausa. E poi: «Se è un problema di prezzi, sentiamo quant’è l’offerta di tutti gli altri concorrenti e la San Carlo, a Farinetti, gli chiede la stessa cifra meno un euro».
Commento del sito: «Si può anticipare che il nuovo inno dell’Era Renziana sarà: “Patatina democratica la trionferà”».
Il Sole 15.2.14
Governo di legislatura? C'è molto scetticismo
di Stefano Folli
Nel suo inarrestabile incedere verso Palazzo Chigi Renzi è giunto ormai a pochi passi dal traguardo, ma finora non è riuscito a unire il Paese dietro di sé. È riuscito a unire, più o meno, la Direzione del Pd ma non l'opinione pubblica che ha bisogno di capire meglio cosa succede. Si avverte in giro una sottile diffidenza, tipica di quando c'è nell'aria l'odore dell'operazione di palazzo. Viceversa, il sindaco ha unito i mercati: Borsa gagliarda e operatori finanziari contenti del cambio, da cui si aspettano vigore, "sprint" e soprattutto tempi fulminei quando ci sarà da prendere decisioni.
Questo doppio registro (dubbi a livello popolare, soddisfazione fra gli investitori) è la fotografia dell'ambiguità in cui nasce il nuovo governo. Ma su questo, e del colpo di pugnale inferto a Enrico Letta, si è già scritto tutto. La solitudine del presidente del Consiglio, mentre saliva ieri al Quirinale per dimettersi, non ha bisogno di commenti. Il caso vuole che Letta esca di scena proprio quando torna il segno "più", sia pure assai risicato, accanto alle cifre della produzione industriale; e addirittura l'agenzia Moody's decide di migliorare la prospettiva dell'Italia. Pura coincidenza, certo.
Ma l'amarezza dell'uscente è giustificata. Del resto, Napoleone diceva di volere al suo fianco generali che fossero non solo bravi, ma soprattutto fortunati. E Renzi sta dimostrando di essere un generale fortunato, come dimostra l'esempio di Moody's. Un generale fortunato che spera di guadagnarsi i galloni del nuovo Napoleone, visto che l'ambizione non manca.
Per il momento sappiamo che il sindaco non perde un secondo né lo fa perdere all'Italia. Quando Napolitano avrà concluso le rapide consultazioni cominciate ieri e gli darà l'incarico (forse già stasera oppure domattina), c'è da scommettere che Renzi vorrà battere tutti i record nella presentazione dei ministri. Su quel terreno sarà giudicato per la prima volta: cioè sul valore e il profilo della squadra ministeriale. Subito dopo sarà valutato per la qualità del programma e degli impegni riformatori che esporrà davanti al Parlamento: perché non si è ancora capito con chiarezza se il premier che viene da Firenze sarà l'uomo della grande concretezza ovvero il re delle promesse generiche.
Questo aspetto va chiarito al più presto perché di giudici ce ne sono anche e soprattutto al di là dei confini. L'Unione europea guarda con simpatia all'uomo nuovo, benché rimpianga la competenza e la serietà di Letta. Ma il dinamismo renziano, un po' ruspante, incuriosisce e l'idea che l'Italia esca dal suo torpore è stimolante per tutti. In fondo anche Angela Merkel si è limitata ad auspicare che Roma chiuda in fretta la sua crisi di governo. Non proprio un'interferenza, come qualcuno ha voluto subito vedere.
In sostanza, c'è solo da attendere, ben sapendo che i tempi saranno brevi. Il clima politico in cui nasce il governo Renzi non è disteso né tanto meno sereno, come si è capito quando la Lega (dopo il M5S) ha deciso di non salire al Quirinale e ha mancato di rispetto al capo dello Stato. Peraltro un minimo di negoziato con i soci della coalizione, a cominciare dal gruppo di Alfano, il premier incaricato dovrà svolgerlo. E poi dovrà fare del suo meglio per dissipare la sottile e diffusa patina di diffidenza di cui si è detto.
La verità è che pochi, nel palazzo e nell'opinione pubblica, credono alla super-promessa fatta dal leader alla direzione del Pd e destinata a essere reiterata in Parlamento: l'impegno cioè a concludere la legislatura allargando l'orizzonte dell'esecutivo fino al 2018. È quello che tanti vogliono sentirsi dire e Renzi li ha accontentati. Ma queste promesse richiedono tali e tante circostanze favorevoli da non essere molto credibili. In fondo Renzi non è riuscito a essere coerente con quello che egli stesso diceva del governo Letta appena dieci giorni fa. Difficile credergli a scatola chiusa quando garantisce un governo di quattro anni.
Il Sole 15.2.14
La matassa sul tavolo di Renzi
Guido Gentili
Assieme ad un giudizio migliore, in termini di stabilità finanziaria, del l'agenzia di rating Moody's sull'Italia collocatrice di debito sui mercati, a Matteo Renzi il premier dimissionario Enrico Letta lascia un segno "+" davanti al numero relativo al Prodotto interno lordo (Pil) nel quarto trimestre 2013. Vuol dire che l'economia italiana è tornata per la prima volta a crescere dal giugno 2011, un dato positivo.
Ma bisogna fermarsi qui. Perché non sono le famose «luci in fondo al tunnel» a squarciare un buio fitto ma piuttosto un fiammifero appena acceso a testimoniare una speranza. Più 0,1%, ecco il numero. Al quale se ne accompagna un altro, inatteso e di segno opposto, che cifra a -1,9% (il governo prevedeva -1,7%) la decrescita finale del Pil per l'intero 2013 dopo il -2,5% del 2012.
Si certifica così che l'Italia ha chiuso un altro anno all'insegna della recessione e che è entrata nel 2014 con un effetto di trascinamento pari a zero: «ripresa acquisita nulla», sono le tre parole dell'Istat. Risultato (se si escludono Grecia, Finlandia e Norvegia) che è il peggiore nell'eurozona e in Europa. E con le prospettive di crescita per l'anno in corso sempre intorno al «più-zerovirgola-qualcosa» e sempre inferiori alle previsioni degli altri paesi europei più forti, a cominciare da Germania, Francia e Regno Unito.
Sono i numeri dello stallo (frutto di difficoltà oggettive ma anche, e soprattutto, di un pernicioso attendismo infiorettato da effetti-annuncio), che ha condotto in un vicolo cieco il Governo Letta. Il vicolo nel quale non vuole ora rimanere incastrato il presidente del Consiglio in pectore Renzi.
A Letta, che di Romano Prodi fu braccio destro a Palazzo Chigi nel 2006-2008, l'ex presidente della Commissione europea aveva suggerito una "sortita", ritenendo che avesse giocato troppo in difesa. Renzi in questo senso non ha bisogno di consigli, essendo un attaccante nato,rapido come pochi, e avendo spiegato alla direzione del Pd che ha in cantiere cambiamenti "radicali", alcuni dei quali da spendere subito (sui terreni della semplificazione, della revisione della spesa, della tassazione, del Jobs Act).
Da quel vicolo il "Rottamatore", atteso alla prova massima del decisionismo istituzionale nella "stanza dei bottoni", per stare ad un'immagine del 1962 del vecchio capo socialista Pietro Nenni, vuole insomma uscire a tutto gas e sfondando gli ostacoli in barba alla retorica del "cambio di passo", spesso rivelatosi un'astuta variante lessicale dell'immobilismo di fatto.
Che di una ricetta shock abbia bisogno la seconda potenza manifatturiera d'Europa, la cui base industriale si è ridotta dal 2007 di oltre il 20% in una crisi dove sono andati perduti 9 nove punti di Pil, non è una novità. E che l'economia reale, quella dove non tornano sul campo i conti di famiglie e imprese, continui ad essere un blocco ghiacciato dove non gira il credito, scendono consumi e investimenti, salgono le tasse e crescono solo disoccupazione e sfiducia è un dato acquisito. Che infine, sul fronte dell'export, il successo di molte aziende contribuisca a tenere alta la bandiera e a non far precipitare il sistema nel baratro ma non possa da solo tagliare il cappio della recessione è un'altra realtà.
Così stanno le cose. E bisogna essere chiari sul fatto che le grandi riforme attese portano a risultati di crescita nel tempo e che per riattivare la domanda interna, l'unica che può a breve far ripartire il Pil, serve tagliare in modo molto forte il cuneo fiscale che grava su lavoro e imprese e far ripartire anche gli investimenti pubblici. Viceversa, è altrettanto chiaro che se il Pil scende o sale in misura insufficiente, la tenuta dei saldi della finanza pubblica salterà o risulterà comunque sempre a rischio.
Il problema è come trovare risorse per finanziare la crescita. Giunto nella "stanza dei bottoni" e con una squadra di governo sperabilmente snella e innovativa, per cominciare Renzi dovrà sciogliere non un solo nodo, ma trovare il bandolo di una matassa aggrovigliatasi nel tempo. Avendo davanti un calendario europeo non in discesa: il riconoscimento della Commissione della "clausola degli investimenti" (vale circa lo 0,3% del deficit in rapporto al Pil) non appare realizzabile.
La Commissione aveva chiesto dettagli sulla spending review del governo Letta entro metà febbraio, ma il lavoro del Commissario Cottarelli sarà pronto alla fine del mese e necessita del via libera del governo (che nel frattempo sarà cambiato).
Ma non solo Renzi si troverà a fare i conti con quello che considera - non a torto- "l'anacronistico" tetto del 3% del deficit in rapporto al Pil e con la necessità di aprirsi un varco politico nuovo in Europa, atteso che la politica dell'austerità per l'austerità ha aggravato le già precarie condizioni dell'Italia. Si troverà sul tavolo anche 478 decreti da attuare frutto delle manovre Monti-Letta e le solite resistenze di una multitudine di apparati politico-amministrativi, centrali e periferici, che tanti bottoni spingono anche loro. Sarà una grande lotta.
Per forza. Renzi e il loro reggicoda!
il Fatto 15.2.14
Fine recessione
Il fattore C. di Renzi: il Pil torna a crescere
di Stefano Feltri
Qualche anno fa Edmondo Ber-selli introdusse nel dibattito politico l’imprescindibile elemento del “culo di Prodi”. Nel 2006 Romano Prodi vince le elezioni e ancora prima di arrivare a Palazzo Chigi i carabinieri arrestano Bernardo Provenzano, l’economia riparte e l’Italia vince i Mondiali di calcio. Matteo Renzi non è Prodi, ma un po’ di fattore C lo ha ereditato: il giorno in cui Enrico Letta lascia il governo al segretario del Pd a Roma smette di piovere, arriva la primavera e l’Istat annuncia che il Pil ha ricominciato a crescere, non succedeva da metà 2011, quando è scoppiata la crisi dello spread, prima della caduta di Silvio Berlusconi, prima di Mario Monti, prima di Letta.
Nel quarto e ultimo trimestre del 2013, il Pil italiano è aumentato dello 0,1 per cento rispetto ai tre mesi precedenti (quando la crescita era stata nulla). Certo, siamo ancora sotto dello 0,8 per cento rispetto al 2012, lontani dal 2007 pre-crisi. Ma c’è l’inversione di tendenza. L’Italia che Renzi eredita da Letta non è disastrosa: dietro il ritorno della crescita del Pil, c’è una piccola ripresa dell’economia reale. A dicembre l’indice della produzione industriale è calato dello 0,9 su novembre, ma se si guarda il trimestre ottobre-dicembre l’aumento è dello 0,7 sul trimestre precedente Poca roba, ma meglio di niente: anche perché il +5,6 dei beni intermedi lascia intravedere che le cose possono solo migliorare (macchine e impianti fanno +7,4, stanno ripartendo gli investimenti). Il traino delle esportazioni è meno forte di qualche mese fa (-1,9 per cento a dicembre su novembre), ma la domanda interna potrebbe cominciare a compensare.
Letta ha fatto molti annunci sulla disoccupazione, dato qualche incentivo e promesso molte riforme. Renzi dovrà rassegnarsi: la disoccupazione continuerà ad aumentare, ora siamo a 3 milioni e 229 mila persone in cerca di lavoro. E anche se il tasso di disoccupazione ha qualche oscillazione incoraggiante (-0,1 nell’ultimo mese), gli inattivi continuano ad aumentare, 46 mila in più in un anno. Tradotto: ci sono ancora persone che, non trovando lavoro, smettono di cercarlo in attesa di tempi migliori. Quando l’economia ripartirà, una parte degli inattivi comincerà a cercare un posto e l’effetto statistico sarà un aumento del tasso di disoccupazione (sale il numero di persone a caccia di un lavoro senza trovarlo). L’economia reale tende al miglioramento, la Borsa ieri ha chiuso in rialzo dell’1,53 per cento, lo spread ormai non lo guarda più nessuno (199 punti). Tutto sereno, quindi?
La droga monetaria delle banche centrali e la ripresa dell’economia mondiale non bastano a tonificare i conti pubblici: il debito a fine 2013, ha calcolato ieri Bankitalia, è arrivato a 2067,5 miliardi. E questo è noto. Il guaio per Renzi è che il governo Letta ha impostato una politica economica da 1,1 per cento, mentre sarà, se va bene, 0,5-0,7. Manca un altro 0,5 per cento di deficit che l’Europa ha chiesto di correggere, difficile poi tenere il conto delle coperture incerte di molte delle misure di Letta (acconti superiori al 100 per cento che vanno restituiti, clausole di salvaguardia pronte a scattare con aumenti della benzina o tagli di agevolazioni fiscali). Morale: anche Renzi dovrà affidarsi alle forbici del commissario alla spesa pubblica Carlo Cottarelli, sperando che siano indolori come lui ha promesso.
l’Unità 15.2.14
Pd, tensioni sul sì nella minoranza
di Maria Zegarelli
«Smettiamola di assecondare la tesi secondo cui le primarie lo avrebbero legittimato ad andare a Palazzo Chigi. Le primarie lo hanno legittimato a fare il segretario». Durissimo Massimo D’Alema l’altro ieri mattina quando è intervenuto alla riunione della minoranza poco prima dell’inizio della Direzione Pd che passerà alla storia del partito. E anche quella riunione (di cui poco si è raccontato) è in fondo un pezzo di quella pagina di storia scivolata via così velocemente tra i democrat che il contraccolpo arriva solo adesso. Un passaggio che ha visto D’Alema attaccare Renzi ma non per questo risparmiare Enrico Letta. «L’errore è stato quello di mandare avanti un governo Pd con ministri deboli e poco rappresentativi del Pd».
Senza appello, infine, il giudizio sul numero uno del Nazareno: «Si comporterà con il partito come si faceva con i territori occupati, ci piazzerà un suo generale». D’Alema ha contestato anche la decisione di votare «sì» al documento della segreteria e la pensano come lui, tra gli altri, Sesa Amici, Bruno Bossio, D’Amelio, Agostini. Chiedono che si mantenga una posizione critica, che non ci si consegni alla maggioranza in questo modo, con un voto che secondo molti sarà brutale. Ma l’ex premier trova un muro generazionale trasversale di fronte a lui. Matteo Orfini rivendica la necessità di essere parte attiva in un processo politico, «e non meri commentatori». Si può mantenere una propria autonomia, ragiona, senza dover nascondere a se stessi ciò che è davanti agli occhi di tutti: o si torna al voto o si apre una nuova fase che non può più essere Letta a guidare. «Qui non c’è nessun territorio occupato - risponde a D’Alema - qui c’è un segretario che è stato votato dalla nostra gente perché non voleva noi. E se va via il segretario non torna da noi, abbandona il Pd». Alla fine passa la linea di Gianni Cuperlo, dei Giovani turchi, di tanti bersaniani come Nico Stumpo, Alfredo D’Attore, Davide Zoggia. Danno l’ok anche Gugliemo Epifani e Cesare Damiano, quest’ultimo con molti dubbi, ma la strada è segnata e quindi l’ex ministro chiede almeno incisività sul programma di questo nuovo governo. «Non ostacolare ma neanche favorire», era stato invece il suggerimento di Bersani. Alla fine va come tutti abbiamo visto, con quel tentativo di Cuperlo di evitare il voto.
Stefano Fassina è preoccupato che adesso possa esserci una virata a destra sulle politiche economiche. «Fassina chi? Il vice di Saccomanni?», commenta lapidario Orfini. È una minoranza tormentata quella che ieri è tornata a confrontarsi alla Camera mentre il Quirinale avviava le consultazioni e il governo Renzi prende forma e si incastrano nomi dentro caselle.
C’è chi rimprovera a Cuperlo di essersi dimesso dalla Presidenza del partito, perché «oggi avremmo avuto un peso diverso con Renzi a Palazzo Chigi». Ed ecco un’altra discussione che si apre dalle 14 e va avanti fino a sera perché nella minoranza. Critici tra gli altri Donata Lenzi, Baruffi, Villecco-Calipari. Difendono il voto Davide Zoggia, Andrea Manciulli, Nico Stumpo. «Il governo Letta era troppo debole e le elezioni non erano praticabili. Non avevamo altra scelta», ragiona Manciulli. Silvia Velo non è pentita: «È stato giusto dare l’ok al segretario, ma adesso sta a noi chiedere una svolta nelle politiche economico-sociali e invertire le priorità». Cinque ore di discussione e alla fine le tensioni rientrano. È Guglielmo Epifani ad annunciare che la minoranza presenterà un documento sul programma di governo: «C'è bisogno di rendere esplicito il bisogno di cambiamento che corre per il Paese attraverso i contenuti. Non è in discussione il bisogno di un radicale mutamento delle politiche, ma di intercettare questo cambiamento con un profilo di programma».
Ma altri fronti sono aperti, perché Renzi intende aprire alla minoranza sia il governo che la segreteria. Gli ambasciatori hanno sondato le disponibilità di Orfini a un ministero, che ha rifiutato, e di Cuperlo («sarebbe perfetto alla Cultura» dice un fedelissimo del segretario), mentre sembra certa la riconferma di Andrea Orlando all’Ambiente. Aperta anche la partita dei sottosegretari, sarà questione di ore e poi la minoranza sarà chiamata a indicare i propri nomi. Più complicata la questione della presidenza del Pd: stavolta non andrà alla minoranza. Difficile mantenere gli equilibri interni sui ministeri, dodici sono pochissimi, forse ce ne sarà qualcuno in più, altro discorso sui sottosegretari, lì ci sono margini per tenere insieme il partito. La minoranza frena, «vediamo il programma», è il leit motiv, ma anche i ruoli che il premier intende riservargli. Posti simbolici ma di nessun peso non avrebbero senso. L’unico punto fermo per ora sembra il futuro reggente della segreteria: il partito quasi sicuramente sarà nelle mani di Lorenzo Guerini, nome che non dispiace alla minoranza, un uomo che in questi primi mesi al Nazareno ha cercato e ha sempre trovato una mediazione, il braccio destro del segretario che nei momenti di massima tensione è riuscito a smussare gli spigolosità caratteriali di Renzi. Quello stesso che l’altro giorno ha lavorato a quelle 26 righe che hanno cambiato la storia di Renzi e che sono state emendate con le richieste presentate da Matteo Orfini a nome della minoranza.
l’Unità 15.2.14
Civati sempre più anti-Renzi: «Nuovo gruppo con 12 senatori»
Pd, tensioni sul sì nella minoranza
Il deputato: «Penso a un Nuovo Centrosinistra»
Mineo: «Guardiamo a Sel e ai delusi del M5S»
di Andrea Carugati
Dopo due mesi di (quasi) silenzio dopo le primarie dell’8 dicembre, Pippo Civati sembra deciso a tornare a far rumore. Il successo di pubblico del suo no al governo Renzi giovedì in direzione (il suo intervento ha ottenuto più visualizzazioni di quello del segretario su Youdem) lo ha spinto ad alzare i toni. E così ieri sul blog è apparso un post dal titolo: «Quasi quasi fondo il Nuovo Centro Sinistra. Recupero una dozzina di senatori. Poi vado da Renzi e gli dico il contrario di quello che propongono Formigoni e Sacconi. Nuovo Centro Destra contro Nuovo Centro Sinistra». Segue una lista di temi di sinistra, dalle nozze gay alla legalizzazione delle droghe leggere. «E vediamo come va a finire...».
Sembra una provocazione, una delle battute che hanno reso celebre il deputato di Monza. Ma non lo è. È un’idea, ancora in embrione. «Non è una battuta, perché sicuramente noi il protagonismo dentro e fuori il Parlamento lo vorremmo. Quando ci saranno le trattative per questo patto per il governo ci va Renzi e Alfano o c’è anche una soggettività del Pd diversa? C'è ancora la sinistra in questo Paese?», ha detto Civati a Genova, durante un tour nel Nord a sostegno dei suoi candidati alle segreterie regionali. E ancora: «È tutto il giorno che incontro persone che mi chiedono di uscire dal Pd». «Scissione? Più che altro si stanno scindendo gli elettori», ha aggiunto Civati. «Noi governiamo il Paese con una maggioranza che non rappresenta nemmeno il 50% degli elettori. È una cosa enorme. Pensiamo di andare avanti così con un governo non di emergenza ma politico fino alla fine della legislatura? Al congresso del Pd nessuno aveva fatto una proposta di questo tipo».
Civati si schiera a difesa di Letta, definisce «ingeneroso» il trattamento ricevuto dal premier uscente, una «manovra da vecchia politica». E spiega: «Il problema non è cambiare Letta con Renzi. Il problema è fare un governo di legislatura con Alfano. E le ragioni della sinistra devono pesare almeno quanto quelle di Formigoni...». I numeri del Senato fanno riflettere. Con Civati si sono schierati alle primarie 7 senatori. Tra questi Laura Puppato, che in direzione ha votato con la maggioranza. Ne restano sei, tra cui Felice Casson, Walter Tocci e Corradino Mineo. Considerati i margini ristretti della maggioranza, anche una piccola pattuglia di dissidenti potrebbe rendere la vita del nuovo governo complicata. Soprattutto se non arriverà nessun soccorso da Sel e dal M5S. «Con Ncd non siamo d’accordo su quasi nulla», spiega Casson. «E in questi mesi gli scontri in Senato sono stati continui. Se il nuovo governo pensa di appiattirsi sull’asse con Ncd sarà un disastro». «Siamo gente responsabile, non abbiamo nessuna intenzione di fare la guerra al Pd e a Renzi», aggiunge l’ex pm. «Ma daremo battaglia sui contenuti, come abbiamo fatto su F35 e voto di scambio politico mafioso».
Mineo rincara: «Un governo sotto il ricatto di Alfano non conviene neppure a Renzi, forse fa comodo anche a lui che si coaguli un’area di sinistra che consenta al premier di riequilibrare il peso di Ncd. Un’area a cui potrebbero guardare anche i senatori di Sel e alcuni dissidenti del M5S». «Noi non vogliamo rompere o sabotare», aggiunge Mineo. «Ma serve una mossa per evitare una maggioranza fotocopia di quella di Letta, che sarebbe la fine del Pd».
Corriere 15.2.14
E Civati: c’è bisogno di un nuovo centrosinistra
«L’ipotesi di un nuovo centrosinistra non è una battuta o una provocazione. È tutto il giorno che incontro persone che mi chiedono di uscire dal Partito democratico. Dentro al Pd ci si sente un po’ male. Qualcuno mi ha chiesto se starei bene al governo: io ho risposto che sto già male così...». Chi parla è Pippo Civati (nella foto) . Copromotore del primo raduno alla stazione Leopolda di Firenze, successivamente si è distanziato da Matteo Renzi al punto da essere stato suo avversario alle primarie per la guida del partito che si sono svolte lo scorso dicembre. Civati parla a Genova per sostenere la candidatura di Stefano Gaggero alla segreteria regionale del Pd. Scissione, dunque? Lui osserva che «più che altro si stanno scindendo gli elettori. Io questa decisione l’ho presa guardando l’assetto politico e, peraltro, non mi risponde mai nessuno sulle questioni politiche mentre si butta sempre la discussione sul livello personale, se sia meglio Letta o Renzi. La questione invece è politica, è questa maggioranza e il fatto che queste intese oltre che essere “larghe” diventano “estese”. Cioé, si allungano, con soggetti come Alfano e Formigoni che ieri ne hanno già dette di tutti i colori». Per farla breve: «Non dovremmo proprio farlo un governo con questi signori». Quanto all’ipotesi di un nuovo centrosinistra, ha proseguito Civati, «non è una battuta o una provocazione: sicuramente noi vorremmo essere protagonisti dentro e fuori il Parlamento. Alfano si è inventato il Nuovo centrodestra, che mi sembra molto simile al vecchio... Mi domando: quando ci saranno le trattative per il nuovo governo, ci andranno Renzi e Alfano o c’è anche una soggettività diversa nel Pd? C’è ancora la sinistra in questo Paese?».
l’Unità 15.2.14
«Addio tessera». Disagio nei circoli Bologna invita i deputati a chiarire
Il segretario del Pd di Parma: «La nostra gente non accetta che non si sia andati al voto». In Emilia dubbi e preoccupazioni anche fra i renziani
di Gigi Marcucci
Un iscritto mi ha telefonato proprio stamattina per annunciarmi che avrebbe rinnovato la tessera: ma solo per restituirla un secondo dopo». Cecilia Alessandrini è già un’ottima incassatrice nonostante i suoi 35 anni. Segretaria del circolo Pd “Joyce Salvadori Lussu”, lo stesso a cui era iscritto Romano Prodi, ha già fronteggiato lo sgomento e la rabbia dei militanti dopo che l’ex premier fu affondato da 101 franchi tiratori mentre navigava alla volta del Quirinale. Meno di un anno dopo è costretta al secondo round con dubbi, perplessità, interrogativi di una base che può digerire anche brusche inversioni di rotta, ma in cambio chiede trasparenza e partecipazione.
La “staffetta”, come impropriamente viene definito l’avvicendamento tra Letta e Renzi, non convince. Perché si fa presto, a dire «primarie», spiega Cecilia, ma si è votato per un segretario e non per un premier. «E se si deve continuare così», aggiunge, «allora bisogna dire che le primarie del Pd sostituiscono le elezioni nazionali». Ottanta chilometri più a nord, Lorenzo Lavagetto, segretario del Pd di Parma, riassume i malumori intercettati nella giornata. «La nostra gente spera che la svolta possa rivelarsi positiva, ma ne sottolinea le incognite - spiega Lavagetto - non accetta che non si sia andati al voto e che un uomo del partito ne abbia silurato un altro dello stesso partito».
Il gigante rosso, il principale serbatoio di voti del Pd, è scosso dall’ennesimo terremoto ai vertici. «Dateci pure il mitico cambiamento», sembra dire la base del partito, «ma prima spiegatelo a noi e cercate di capirlo voi stessi». La base Pd è confusa per il siluramento del governo Letta. E c’è chi corre ai ripari. Come fa il segretario bolognese, Raffaele Donini, da sempre attento a preservare l’unità del partito o, quanto meno, a evitare dolorose lacerazioni nell’epidermide del partito. Al congresso il segretario ha votato Gianni Cuperlo ma è stato eletto attraverso un patto trasversale. Ora ha convocato i parlamentari bolognesi e organizza riunioni nei circoli per spiegare agli iscritti cosa stia succedendo. Ma senza cedere di un millimetro rispetto alla necessità della svolta: questa volta, insomma, la dirigenza bolognese non si farà interprete del disagio della base come accaduto la scorsa volta dopo l'affossamento di Romano Prodi e la nascita delle larghe intese. Choc peraltro sicuramente più forti rispetto a quello vissuto oggi. «Il turbamento di iscritti ed elettori? Passerà quando arriveranno le riforme radicali del nuovo governo», è il leit-motiv di queste ore. Lunedì mattina i parlamentari sono convocati nella sede della Federazione Pd per organizzare, come chiede Donini, un tour nei circoli. Del resto in via Rivani alla luce degli ultimi sviluppi si ricorda volentieri che martedì, cioè due giorni prima del “licenziamento” del premier Enrico Letta votato dalla direzione nazionale, il parlamentino del Pd di Bologna aveva approvato all'unanimità la relazione dello stesso segretario Donini che dichiarava chiusa la stagione dei governi «balneari». «La nascita del governo Renzi attesa in tempi brevissimi è una scelta che va spiegata e la spiegheremo - dice Doninini - mettendoci la faccia come abbiamo l’abitudine di fare a queste latitudini».
Il passaggio è complicato da gestire, come dimostra il dibattito sui social network. «Marilena spiegaci tu cosa sta succedendo e soprattutto cosa succederà perché in tanti si è frastornati», chiede ad esempio il capogruppo Pd in Provincia Gabriele Zaniboni alla deputata Marilena Fabbri. Risposta: «Si è compiuto il disegno Renzi». Ma, aggiunge poi Fabbri, «non con il mio voto e il mio consenso. Sono tra coloro che pensano che il rispetto anche in politica sia ancora un valore. Io sono stata minoranza al congresso e mi sento minoranza».
Molti i cuperliani che prendono le distanze dal sì in direzione al siluramento di Letta a favore di un governo guidato da Renzi. «Io non lo avrei fatto - dice per esempio, sempre via Facebook, il deputato modenese Davide Baruffi - perché la cosa poteva essere gestita e risolta in altro modo migliore. E non ho sentito un solo contenuto programmatico su cui misurare la discontinuità annunciata». Dubbi affiorano anche tra i renziani per la strada imboccata dal segretario Pd. «La mia preoccupazione è solo che, nel fuoco incrociato, nemico e soprattutto amico, la scelta si riveli un azzardo e che alla fine, venga meno l’unica figura realmente in grado di allargare il consenso del centrosinistra e creare lo spazio per governare questo Paese», scrive il presidente della direzione Pd di Bologna Piergiorgio Licciardello. «Se Renzi fallisce - avverte ancora Licciardello - torneremo nelle braccia della destra e ci rimarremo per chissà quando. Su questo vorrei riflettessero tutti quelli che oggi gridano alla tragedia e, magari, sognano un nuovo scisma a sinistra».
Repubblica 15.2.14
Il Partito democratico
Il voto anti-Letta agita il Pd
Bersani: lacerazione da evitare
E Civati riparla di scissione
I renziani contrattaccano: i risultati ci daranno ragione
di G. C.
In trincea. Roma - Un’altra volta il Pd è sotto botta. Persino i renziani commentano che la vittoria del segretario «non è di quelle da festeggiare» e che c’è «una grande consapevolezza del rischio». L’avventura del governo, la speranza del cambiamento sono avvenute in modo traumatico, con la sfiducia del partito pressoché all’unanimità al “suo” premier ed ex vice segretario Enrico Letta. Le caselle di posta di Matteo Renzi, dei leader anche della minoranza sono bombardate di mail di proteste, insulti, ironiche (“Posso avere un sottosegretariato?”), di sfida (“Alle prossime elezioni i 5Stelle arriveranno al 50%”), qualcuna di incoraggiamento (“Forza Matteo, che ce la fai!”).
La “comunità-partito” è lacerata e scossa. Tornano a soffiare i venti di scissione. Pippo Civati - che al governo Letta delle larghe intese non votò la fiducia - in direzione è stato, con pochissimi altri lealisti, contrario alla linea di Renzi di scaricare Letta. E ora sul suo blog annuncia: «Recupero una dozzina di senatori. Poi vado da Renzi e gli dico il contrario di quello che propongono Formigoni e Sacconi sui giornali. Nuovo centro destra contro Nuovo centro sinistra (anche sinistra e basta, che il centro è dappertutto)». Un’ipotesi, spiega poi, che non è affatto una provocazione: «È tutto il giorno che incontro persone che mi chiedono di uscire dal Pd. Dentro il Pd ci si sente un po’ male....».
Il giorno dopo lo showdown, in casa dem spuntano i rimorsi. E da Piacenza dove è in convalescenza, Pier Luigi Bersani fa sentire la sua voce: «Non doveva finire così. C’è stata una lacerazione nel partito che si doveva e si poteva evitare». Perplesso è l’ex segretario - che si dimise dopo il tradimento dei “101” che silurarono Prodi al Colle - anche sul documento votato: bisognava «fissare qualche paletto» per impegnare il governo Renzi su un cambiamento di programma. Molti i malumori. La minoranza dem si riunisce ed è uno sfogatoio. Già oggi dovrebbe essere pronto un dossier su alcune proposte programmatiche. Il timore è che i ministeri-chiave, che sono quelli economici - Economia, Sviluppo economico, Infrastrutture, Lavoro - possano avere una impronta di politica liberista. Guglielmo Epifani, il segretario-traghettatore, ex leader della Cgil, si preoccupa delle cose da dire al popolo dem per spiegare quello che è successo nelle ultime ore. «Per fare digerire quanto è accaduto, forse c’era bisogno che Renzi dicesse le tre, quattro cose con cui intende caratterizzare il suo governo di svolta e rilancio radicale», riflette a voce alta in Transatlantico alla Camera. Anche i renziani si riuniscono in capannelli a Montecitorio: c’è da affrontare la strategia di sostegno al segretario e premier in pectore. Ernesto Carbone, renziano della prima ora, ripete: «Matteo ha accettato il rischio, ha spiegato che la sua è una smisurata ambizione per il Pd e per il paese. Sappiamo tutti benissimo che ora Renzi e il partito devono rispondere con i fatti a chi dice che la maestra era un’altra, e cioè quella di andare a Palazzo Chigi dopo avere vinto le elezioni». Il primo rischio per Renzi è nella perdita di popolarità: un sondaggio lo dà in calo di tre punti.
E domani c’è l’election day delle primarie regionali. Sarà un banco di prova per la segreteria democratica. Anche se alcune sfide vedono il fronte renziano diviso. In Sicilia ad esempio, Giuseppe Lupo, renziano, appoggiato anche dal sindaco Leoluca Orlando, gareggia contro Fausto Raciti, cuperliano ma sostenuto da parte dei renziani. Il duello sarà ai gazebo, tra il popolo delle primarie, che sono stati allestiti malgrado il taglio di risorse di partito. Bisognerà vedere se ci sarà afflusso alle primarie regionali.
Repubblica 15.2.14
Dilemma incompatibilità segretario-premier
ROMA — C’è incompatibilità tra la carica di Presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico? Sembra essere questo il nuovo dilemma per Matteo Renzi, tra l’altro già sindaco di Firenze, carica che dovrà necessariamente lasciare in caso di salita a Palazzo Chigi. Lo statuto del Partito Democratico non parla di incompatibilità tra le cariche di premier e segretario, ma è vero che in caso Renzi dovesse diventare presidente del Consiglio allora la reggenza del partito potrebbe essere affidata a un suo fedelissimo, il portavoce del partito, Lorenzo Guerini. Il quale, però, sembra in lizza anche per il nuovo possibile governo Renzi (potrebbe diventare il prossimo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio).
Ma se ha votato e ha fatto votare tutti i suoi per Matteo Renzi!
Repubblica 15.2.14
L’intervista
“Non abbiamo firmato in bianco faremo pesare le idee della sinistra”
Cuperlo: io leale con Enrico, ma il suo governo era già finito
Ero tra gli ingenui convinti che le primarie non servivano a scegliere l’inquilino di Palazzo Chigi
Mi arrivano centinaia di messaggi critici per il sì in direzione: è doloroso se la tua gente non ti capisce
di Giovanna Casadio
«Votando l’ordine del giorno di Renzi non abbiamo firmato una cambiale in bianco. Né quella è stata la soluzione per un duello rusticano tra due leader, che ha lasciato il nostro mondo stranito e non risponde alla mia idea di cosa è un partito». Gianni Cuperlo, il leader della sinistra dem, spiega la scelta che ha portato anche la minoranza del Pd a scaricare Letta e a indicare Renzi come nuovo premier.
Cuperlo, non pensa che il Pd abbia liquidato il “suo” premier Letta in modo brutale?
«So bene che si è consumato un trauma. Ho sempre sostenuto Letta con lealtà assoluta. Quando mi sono candidato al congresso questa cosa mi è stato anche rimproverato. Dicevano che mentre Renzi lo criticava in libertà e Civati chiedeva la crisi e il superamento del governo, noi eravamo quelli che si caricavano sulle spalle tutto il peso. Ho sempre risposto che quello era il nostro governo e non andava attaccato per lucrare qualche voto in più».
E come siete arrivati a questo epilogo, a votargli contro?
«Dopo le primarie il rapporto tra il Pd e l’esecutivo non reggeva. Il punto non sono i voti in Parlamento. Quando si dice che alle spalle di Letta ci sono dieci mesi di fallimenti è dura sostenere che si aiuta Palazzo Chigi. Per settimane ho suggerito a Enrico di assumere una iniziativa di rilancio nel programma e nelle personalità da coinvolgere. E questo a fronte di un governo che perdeva pezzi e nel cuore di una crisi sociale drammatica. Abbiamo sempre detto che se Letta fosse riuscito a guidare la ripartenza, il Pd avrebbe dovuto appoggiarlo. Ma se quella condizione non ci fosse stata, allora toccava al leader democratico dire come uscire dalla crisi. Renzi lo ha fatto, parlando di un cambio radicale di governo e di guida».
Sta di fatto che la minoranza dem giovedì è diventata renzista?
«No. In queste ore ho ricevute centinaia di messaggi critici sul voto della nostra minoranza. Alcuni per me dolorosi, ma quando la tua gente non condivide una scelta, la devi ascoltare, devi riflettere e provare a dire le ragioni di una decisione».
Quali sono queste ragioni?
«Se vogliamo dirci la verità, il governo non c’era più da prima che giovedì il segretario togliesse la fiducia al premier. A quel punto i soli due scenari erano: nuove elezioni, col rischio di larghe intese all’infinito, oppure prendere atto della linea di Renzi e cioè “adesso provo io e lo faccio a nome del Pd”. Noi ci siamo fatti carico di questo. In direzione però, abbiamo anche detto che era un errore partire da chi avrà il compito di guidare il governo. Mentre il merito della svolta è rimasto sospeso. È legittimo pensare che io abbia sbagliato, ma la mia è stata una motivazione politica, non di potere: non c’entrano posti o affetti».
Quanto esce traumatizzato il Pd da questa vicenda?
«Non poco. Alla direzione del partito c’è chi ha detto: “Soltanto un ingenuo poteva pensare che a dicembre noi eleggevamo solo il segretario del partito”. Ecco, ero tra gli ingenui. Ho passato mesi a spiegare che le primarie non servivano a scegliere l’inquilino di Palazzo Chigi. È finita come vediamo. Ma su quel punto avevamo ragione noi. Non mi arrendo: a marzo terremo la convenzione di chi non pensa che quanto è accaduto in questi mesi sia il destino del più grande partito della sinistra italiana».
Vuol dire che si è pentito di avere appoggiato Renzi in questo passaggio?
«No. Naturalmente rifletto. Non sono un uomo politico che pensa di avere sempre ragione. Ho tentato fino all’ultimo, come altri, di evitare quel voto, sperando che Letta si dimettesse prima, visti anche i rapporti di forza dentro il Pd. E mi spiace che il confronto tra il segretario e il premier si sia spinto fino a mettere in discussione l’unità di fondo del primo partito italiano sulla frontiera strategica del governo del paese».
Quali dovrebbero essere i segnali di svolta radicale del governo Renzi?
«Daremo il nostro contributo programmatico. La svolta è sui contenuti, contro il rigorismo di Bruxelles, sulle priorità sociali, sugli investimenti pubblici, sulla correzione della legge elettorale, sulle strategie per l’occupazione e contro la povertà. Renzi dice di voler cambiare l’Italia, io voglio capire in quale direzione. Allora mi interessa sapere se a guidare la politica economica sarà un interprete del “mainstream” liberista con il culto dell’austerity e se le politiche sociali finiranno nella mani di chi legge i diritti civili come privilegi».
Lei entrerebbe nel governo se il leader dem glielo chiedesse?
«No, voglio ricostruire la sinistra».
Repubblica 15.2.14
La deputata dem Eleonora Cimbro: la minoranza vuole logorarlo, è un gioco cinico
“In un anno liquidati Bersani ed Enrico Matteo sarà la nostra terza vittima”
di Concetto Vecchio
«Non so davvero con quale coraggio mi presenterò nel mio circolo domenica».
Che succede?
«Sono tutti infuriati, disorientati, mi scrivono mail piene di delusione. Hanno ragione. Questa di Renzi è una scelta difficile da giustificare». La solitudine della deputata bersaniana Eleonora Cimbro, 35 anni, insegnante di lettere nella scuola media di Bollate («quella del video della ragazza picchiata postato su Facebook»), si manifesta in un divanetto del Transatlantico. Sospira: «Che cinismo! Alla fine tocca a noi peones metterci la faccia».
Il cinismo della sua corrente che liquida in quel modo Letta?
«Sono allibita, schifata per come l’hanno trattato, umanamente dico. Con quanta fretta poi hanno voluto sostituirlo: e adesso sono già tutti lì a trattare sui posti di sottogoverno, in una eterna partita di potere».
Perché non ha votato per la mozione Renzi?
«Ero ospite, senza diritto di voto. Quel che ho visto mi ha disgustata. Non giriamoci attorno: è stata la minoranza a innescare il cannibalismo interno».
Il Pd divora i suoi leader?
«In un anno abbiamo fatto fuori il segretario e il premier: Renzi rischia di essere il terzo cadavere».
Pensa che l’hanno scelto per logorarlo?
«Ho paura di sì».
Renzi l’ha delusa?
«Lui ha un passo che gli altri non riescono a tenere. Ma ha spiazzato i suoi stessi sostenitori: arriva a palazzo Chigi con una manovra di palazzo».
Ora è uguale agli altri?
«I suoi sostenitori mi scrivono: era un jolly per le elezioni, non lo volevamo così».
Letta non ha dimostrato di non crederci più?
«Ma andava sostenuto, noi parlamentari l’abbiamo visto solo in un paio di fugaci occasioni. Il Pd così gli ha trasmesso la sensazione di non sostenerlo. Perché ha prevalso il partito del non voto. Nessuno vuole tornare a casa».
Nemmeno lei?
«A me converrebbe stare qui fino al 2018, ho tre figli. Ma credo che tutto questo abbia poco a che vedere con il Paese reale. Penso alle madri di quegli alunni di Bollate, non sanno dove sbattere la testa perché i sussidi del welfare si sono assottigliati».
Lei si sente ancora della minoranza?
«Non lo so più. Ho sostenuto Cuperlo alle primarie, ma provo delusione. In Direzione m’è piaciuto Civati».
Passa con lui?
«È stato bravo, ha detto che c’era un’alternativa a Renzi. In generale quel che è accaduto mi fa riflettere sull’opportunità della mia funzione di parlamentare».
Che dubbi ha?
«Mi domando: “Cosa ci faccio qui se non riesco a risolvere i problemi? Quelli veri, della gente”».
l’Unità 15.2.14
Le forme della democrazia
di Michele Ciliberto
Per valutare quanto sta accadendo in questi giorni occorre partire da una costatazione di fatto: era diventato indispensabile girare pagina, cambiare passo, oltrepassare la linea d’ombra. Ora, come è naturale, molti ricordano le qualità e i talenti di Enrico Letta, ma il suo governo da tempo aveva esaurito la sua funzione, né appariva in grado di corrispondere ai problemi dell'Italia. Occorreva cambiare, ed è giusto averlo fatto.
Quello che colpisce è il modo con cui il cambiamento sta avvenendo, perché conferma un problema assai grave oggi nel nostro Paese ma diffuso anche altrove: la crisi sempre più profonda della democrazia rappresentativa. Il fatto che una crisi di governo venga aperta e chiusa nella Direzione di un partito è un evento sintomatico, così come è rivelatore che il presidente del Consiglio sfiduciato assista alla sua liquidazione politica in televisione dal suo studio di Palazzo Chigi. Si potrebbe replicare che quello che conta è la sostanza, il risultato. Ma sarebbe un errore di miopia istituzionale e politica, perché la democrazia è una «forma» e vive di forme senza le quali degenera e finisce. Ce lo ha insegnato Bobbio, di cui ricorre ora il decimo anniversario della morte, e prima di lui ce lo hanno spiegato Hans Kelsen e tutta la storia della prima metà del Novecento che delle forme ha fatto strame, con le conseguenze che conosciamo.
Alla crisi della democrazia rappresentativa corrisponde un forte successo, e una vasta enfasi, della democrazia diretta: è questa la novità della nostra vita politica, l’elemento che la caratterizza e la unifica sul piano strutturale, oltre le ovvie e naturali distinzioni partitiche. Da questo punto di vista non c’è differenza, sul piano morfologico, tra la Rete di Grillo e le «primarie» del Pd: si dà la parola al «popolo», il quale è la fonte diretta della sovranità. Quando il segretario del Pd dice che si sente vincolato al popolo delle primarie e agli impegni che ha preso con lui, è in questa logica che si muove, individuando qui la sorgente originaria del proprio potere, ciò da cui deriva la sua legittimità e cui si sente obbligato a dare conto.
È questo che non ha capito Enrico Letta, il quale si è mosso lungo un orizzonte assai più «tradizionale», direttamente connesso alla sua cultura politica. Non è, infatti, questione di temperamenti o di caratteri più o meno veloci, più o meno spregiudicati: non mi pare, poi, che il presidente del Consiglio dimissionario sia da considerarsi una «mammoletta». Alle origini è una differente visione della democrazia e, in modo specifico, della funzione e del ruolo della democrazia diretta. Se il segretario del Pd troverà sulla sua strada ostacoli è probabile che cambierà subito direzione ed è possibile che ricomincerà a parlare di elezioni, ma lo farà assumendo come referente delle sue decisioni il «popolo» delle primarie. Del resto il segretario del Pd diventerà presumibilmente presidente del Consiglio senza essere mai stato eletto in Parlamento. Si tratta, come si vede, di questioni delicate su cui occorre essere chiari perché coinvolge sia il ruolo del Parlamento che la funzione e il significato del partito: cosa diventano, l’uno e l’altro, quando si impone il paradigma della democrazia diretta al quale è intrinseca una concezione leaderistica e carismatica del «capo politico».
Vorrei sgombrare il campo da ogni equivoco: non penso che la democrazia diretta, in quanto tale, sia criticabile o da rifiutare. Ritengo, anzi, che le primarie siano uno strumento per ristabilire un nesso, dopo la crisi dei grandi partiti di massa, tra «governanti» e «governati». Mi chiedo però quali effetti esse abbiano dal punto di vista della concezione e della pratica di un moderno partito politico. Questo è il problema oggi sul tappeto, anzitutto per il Pd. Sul piano storico la democrazia diretta ha avuto esiti di carattere autoritario, perfino dispotico, quando non è stata capace di connettersi alle forme e alle strutture della democrazia «rappresentativa».Se la figura del «delegato» consuma e dissolve la figura del «rappresentante», si aprono problemi seri, a tutti i livelli, nella vita democratica di una Nazione oppure di un partito. Questa è la questione di fondo su cui siamo chiamati a riflettere dopo l’esperienza di questi mesi, ed essa riguarda anche il futuro e il destino del Pd e quindi dell’Italia.
Se vuole sopravvivere, la democrazia rappresentativa ha bisogno di riforme profonde, allo stesso modo lo strumento «partito» necessita di innovazioni radicali dopo la fine del modello novecentesco di partecipazione e organizzazione politica. E in entrambi i casi, è indispensabile l’apporto della democrazia diretta. Ma se essa prevalesse in modo incontrollato e senza limiti, entrerebbero in crisi, e si dissolverebbero, sia il Parlamento che il partito. Un partito non può risolversi nelle primarie e nella figura del leader che esse generano; come la democrazia non si risolve nella delega e nei suoi strumenti. Si tratta di connettere i due piani: il che vuol dire, nel caso del partito, che esso deve avere strutture, organismi, dirigenti che non si risolvono nella esperienza delle «primarie», allargando anche a questo livello, il principio, e il concetto, della sovranità. Altrimenti un partito si scioglie nella figura di un capo, di un leader che ne dispone come una sorta di strumento personale, con un passo indietro assai grande rispetto al funzionamento, e alle forme di partecipazione, anche dei vecchi partiti di massa di matrice democratica. Un passo indietro dal punto di vista della democrazia.
Non è un problema che riguarda solo il partito: concerne anche il rapporto tra «partito» e «governo». Storicamente, quando il governo ha assorbito il partito non è stato un bene né per l’uno né per l’altro. Se questo è vero, il segretario di un partito non può e non deve essere il proconsole del capo del governo. La democrazia vive di differenze, non di equivalenze o di astratte identità. Le vicende di questi giorni hanno messo sotto i nostri occhi, in modo perfino brutale, problemi delicati e importanti, che riguardano, oltre che il Pd, la vita democratica del nostro Paese. Vedremo come il segretario del Pd si confronterà con essi, se diventerà presidente del Consiglio. Le forme sono essenziali, ma conta altrettanto la sostanza : si tratta di vedere quale sarà il programma del nuovo governo. Se si concentrerà sul lavoro, sulla scuola, sulla cittadinanza agli immigrati, farà scelte importanti, e andrà appoggiato con forza e senza remore. Sono alcuni punti centrali della crisi italiana.
l’Unità 15.2.14
Perché lo strappo non convince
di Claudio Sardo
C’è differenza tra velocità e fretta. La fretta induce in errore. E spesso confonde. I modi con i quali la direzione del Pd ha posto fine al governo Letta e ha chiesto a Renzi di sostituirlo a Palazzo Chigi non sono piaciuti a tanti elettori democratici. Ed è difficile dare loro torto.
Le spiegazioni fornite sono state insufficienti, e dunque gli atti compiuti sono apparsi ancor più contraddittori con quanto dichiarato fino a pochi giorni prima. I drammi del Paese e i contenuti concreti della svolta politica sono sfumati all’orizzonte, tanto che a prevalere è stata solo la dinamica del potere. Infine, ma non ultimo, il trattamento riservato a Enrico Letta: ha commesso errori, certamente, ha avuto esitazioni e debolezze, ma ha guidato il Paese in un passaggio drammatico e ha retto l’urto eversivo di Berlusconi dopo la condanna penale. Non solo: nella nuova generazione Letta è la personalità più conosciuta e stimata in Europa. Che senso di comunità ha dato il Pd? Guai a sottovalutare questo aspetto, relegandolo al piano dei sentimenti (che si presume inferiore): se il Pd rinunciasse ad essere partito, anzi a ricostruire il partito dove il tessuto comunitario essenziale è ormai lacerato, diventerebbe un ring di leader solitari, condannati alla subalternità culturale. Anche una maggiore articolazione del voto in direzione, con più astensioni e voti contrari, avrebbe dato maggiore autenticità al travaglio, senza nulla togliere alla sfida decisiva che ora Renzi dovrà affrontare, né al sostegno che il Pd dovrà garantirgli. Ma preliminarmente ci sono vuoti politici che vanno colmati. È vero che Renzi esprime una forza (consenso, energia politica, capacità di rompere schemi logori) che nessun altro leader oggi possiede. È vero che la sua ambizione personale può diventare un’ambizione collettiva del Pd e un’opportunità per tutti. È vero che all’Italia serve uno shock, che la palude ci sta risucchiando, che i piccoli passi equivalgono ormai a un sostanziale immobilismo. Ma non basta un desiderio per realizzare un vero cambiamento. Ci vuole poco, purtroppo, a trasformare il volontarismo in avventurismo. Bisogna guardare in faccia all’Italia. E alle profonde fratture sociali che la crisi ha provocato. Bisogna parlare con linguaggio di verità. Non basteranno spot, slogan, trovate estemporanee. La narrazione non sarà mai il surrogato di una buona politica. Letta aveva presentato un programma. Dov’è il valore aggiunto che il Pd mette nel passaggio da Letta a Renzi? Ancora non è chiaro. Ma sarebbe inconcepibile non marcare un cambio di rotta rispetto alla linea dell’austerità europea, alle dottrine anti-espansive, alle inesistenti politiche industriali e del lavoro. Il presidente Napolitano ha appena pronunciato a Strasburgo un discorso molto impegnativo sulla svolta necessaria nell’Unione: Renzi giocherà tutta la sua forza in questa partita? Non vorremmo che qualcuno invece spingesse Renzi all’indietro, sul terreno degli anni Novanta, quando la cifra dell’innovazione a sinistra era l’assimilazione parziale delle ricette liberiste.
La scommessa di Renzi è legata al contenuto della svolta, non solo alla sua indubbia capacità di tenere la scena. Un nuovo keynesismo, con investimenti selettivi per l’innovazione. Più competitività, attraverso la ricerca, la scuola, il lavoro femminile e giovanile. Non avrebbe senso spendere il segretario del Pd in una legislatura priva di una maggioranza coerente, se fosse impossibile una correzione di rotta nelle politiche economiche e sociali. Per meno di questo, sarebbe stato meglio preservare il leader Pd per il progetto di alternativa da proporre alle prossime elezioni. Alcune delle obiezioni al brusco cambio a Palazzo Chigi affondano le radici nella politologia prevalente del ventennio: dottrine che detestano i partiti, che delegittimano il sistema parlamentare e che invocano il presidenzialismo di fatto dove la Costituzione non consente. Ma il problema non è affatto la legittimità della candidatura di Renzi. Il problema è se questa è sensata. Se l’azzardo è ragionevole oppure no. Il primo governo Letta era finito. A dargli il colpo di grazia sono stati i duri giudizi di Renzi («dieci mesi di fallimenti») e la scelta di Berlusconi come principale interlocutore delle riforme (colpendo così Alfano e la sua autonomia da Forza Italia). Ma poteva ugualmente essere Letta a fare il bis, se il Pd avesse scelto di continuare sul doppio binario (governo separato dalle riforme), che lo stesso Renzi aveva disegnato. Ora c’è da chiedersi che fine farà quello schema politico. La riforma elettorale è molto brutta: non possiamo che sperare in correzioni significative. La riforma del Senato ancora non esiste. Ma il vero interrogativo riguarda il rapporto con Berlusconi: sarà ancora l’interlocutore principe delle riforme, e dunque queste condurranno di nuovo verso il solito bipolarismo coatto? Perché se i contenuti e lo schema restano invariati, allora Alfano diventerà (persino suo malgrado) la longa manus di Berlusconi nel governo. E l’obiettivo del 2018 per la legislatura si ridurrà a una chimera.
Se Renzi, invece, dando priorità al governo dell’Italia, dovesse cambiare verso alle riforme puntando di nuovo sulla separazione della destra, allora potremmo anche avere una legge elettorale più europea (e non così simile al Porcellum). Tireremmo un sospiro di sollievo. Comunque, di questo il Pd non può non parlare. Renzi ha davanti a sé un’impresa difficilissima. Serve un partito: altrimenti con quali armi si combatterà per rianimare l’Italia? Purtroppo, il Pd paga il prezzo di un congresso ridotto a primarie tra leader. Non si può perdere l’allenamento a discutere del Paese.
Corriere 15.2.14
Andreatta: «Enrico tradito? Nel Pd istinti cannibalici»
«La politica va divisa dall’amicizia ma mi sarei aspettato più generosità»
di Francesco Alberti
BOLOGNA — Da amico di una vita e consigliere non se lo aspettava, «sono rimasto sorpreso», e non piacevolmente: non vuole parlare di tradimento «perché la politica va tenuta divisa dalla sfera amicale», ma confessa «un certo disagio sotto l’aspetto etico», oltre che una profonda preoccupazione per «gli istinti cannibalici che continuano ad agitare il Pd». Da professore ordinario di Scienza politica all’università di Bologna nutre più di un dubbio sul fatto che la presunta accelerazione impressa dall’avvicendamento tra Renzi e Letta «possa avere una ricaduta positiva sulle riforme», non solo «per la mancanza di una strategia alternativa a quella illustrata pochi giorni fa dallo stesso Letta», ma anche per il rischio che l’ascesa a Palazzo Chigi del leader pd poggi «su un corto circuito di aspettative, tra le quali la tendenza di questo Parlamento a vivacchiare è tra le prevalenti».
Filippo Andreatta, 45 anni, lo mette in chiaro subito: «Io ed Enrico Letta siamo amici, quindi il mio discorso è di parte». Amici sin dai tempi in cui il padre di Filippo, Beniamino Andreatta, uno dei più autorevoli economisti della prima Repubblica, big della Dc, maestro di Romano Prodi e padre de Il Mulino, prese sotto le sue ali il giovane Enrico e lo portò ad Arel, raffinato pensatoio che tante intuizioni politiche sfornò.
Professor Andreatta, parte della stampa estera definisce Renzi come «il giovane demolitore che va di fretta». Un po’ troppo, a suo parere?
«È indubbio che l’Italia abbia bisogno di riforme anche se con questo Parlamento è difficile. Mi auguro che l’energia cinetica di questo momento lo consenta, ma non ne sono sicuro».
Lei non se lo aspettava un cambio della guardia così repentino, vero?
«No, sono sincero. Credo che Enrico abbia alcune doti di cui sarà difficile fare a meno. Ne cito tre: la sua passione per l’Europa, che frequenta con assiduità e competenza da anni; l’abitudine a studiare i dossier, in particolare in materia economica, cosa molto apprezzata dai mercati; una pazienza certosina che era necessaria di fronte a un Parlamento frazionato».
Letta è stato scaricato in poche ore dal suo partito. Qualcuno parla di tradimento: un’esagerazione?
«La politica serve a risolvere i problemi. Gli aspetti personali vengono dopo. Certo, la lealtà è importante e alcuni passaggi di questa vicenda mi hanno sorpreso dal punto di vista etico. Mi sarei aspettato una maggiore generosità».
Scene da prima Repubblica?
«Direi di sì. D’altra parte il Pd in questi ultimi anni ha sacrificato 9 leader, tutti caduti per fuoco amico. È evidente che fatica a liberarsi da istinti cannibalici».
Vede una strategia dietro l’ascesa di Renzi?
«Per ora non vedo alternative. Ho il timore che si sia creato un corto circuito di aspettative: da un lato la nuova leadership che comprensibilmente vuole maggiore spazio e, dall’altro, un Parlamento con tutte le debolezze che conosciamo che intravede la speranza di una vita più lunga. Il paradosso è che il dinamismo di Renzi si sposa con la tendenza delle due Camere a vivacchiare».
Prima delle primarie di fine 2013, lei aveva consigliato a Letta di restarne fuori: si è pentito del consiglio?
«No, la mia analisi nasceva dal timore che il congresso del partito si scaricasse sulle istituzioni: cosa che purtroppo è avvenuta».
Pensava che Renzi e Letta potessero essere complementari?
«All’inizio sì. Enrico alla guida di un governo istituzionale, con un’agenda chiara e un orizzonte temporale limitato e Renzi con l’obiettivo della vittoria elettorale e un percorso riformatore».
Si è chiesto come mai il leader pd abbia fatto ciò che per settimane aveva sempre escluso di voler fare?
«Va chiesto a lui, le mie sarebbero solo ipotesi…».
Un consiglio all’amico Letta?
«È uscito con dignità da una situazione molto dura, in punta di piedi e senza creare problemi, confermandosi uomo delle istituzioni in un Paese dove ce ne sono pochi».
l’Unità 15.2.14
E l’Unità diede voce a movimenti e girotondi
di Antonio Padellaro
Forse, chissà, saremo in centomila, avevo scritto il giorno prima sull’Unità, tenendomi basso cosi da essere pronto quando al calar del sole la questura avrebbero comunicato, invariabilmente, un numero che sarebbe stato la metà della metà come il peso sulla luna della famosa canzone. Chi poteva immaginare che in quel tiepido sabato di fine estate - era il 14 settembre 2002 - la folla avrebbe occupato ogni centimetro quadrato di piazza San Giovanni a Roma, così come i viali che conducono al luogo simbolo (allora) della sinistra?
Un milione di persone, scrivemmo poi e quella cifra anche se troppo euforica testimoniava il felice sbalordimento di un’Italia che scopriva di essere forte, molto più forte del presidente-padrone di tutto, Silvio Berlusconi.
Non dimenticherò quel pomeriggio. Già risalendo a piedi lungo via Merulana c'era chi mi mostrava l'"Unità" sventolata con orgoglio come una bandiera. Alcuni volevano la mia firma sul giornale e in cuor mio mi domandavo che cosa avessi mai fatto per meritare tanto. Con Furio Colombo sedevamo da un anno e mezzo sulla tolda di via dei due Macelli e già avevamo conosciuto la passione dei lettori nelle feste de «l’Unità» (allora si chiamavano così) e il loro affetto che dal giornale si riverberava su chi lo dirigeva. Ci volevano bene anche se ci conoscevano da poco e mentre Furio aveva sentito quel calore nel suo lavoro di parlamentare per me abituato alle atmosfere rarefatte del "Corriere della sera" o dell'«Espresso», quelle strette di mano, quegli abbracci, quelle voci che ripetevano fiduciose: «Resistete», erano ossigeno puro, la sensazione straordinaria di sentirti utile non solo a te stesso o al tuo lavoro ma a qualcosa di più grande e di molto più prezioso. No, quel giorno in piazza non c'era una folla di borghesi-chic col superattico come assicurava l'informazione unica di quegli anni. Quelli che vedevo erano normali cittadini, persone reali con i problemi di tutti i giorni e una domanda irrisolta di giustizia.
Il giorno prima avevo scritto: «Sarebbe bello se i fustigatori dei costumi della sinistra scendessero dal pulpito e tornassero, per una volta, a fare i cronisti. Forse in quella folla scoprirebbero uomini e donne che, per esempio, hanno votato per la Casa delle Libertà». Lo aveva detto molto più autorevolmente Vittorio Foa che bisognava guardare anche al di là del mondo che aveva votato Berlusconi, e continuava ad appoggiarlo: «Noi dobbiamo darci da fare per aprire gli occhi alla gente, per fargli cambiare idea». Protestare per una situazione subìta come ingiusta e intollerabile, non è una scelta politica di destra o di sinistra. È una reazione umana, naturale, anche se difficile da comprendere nella logica di un mondo capovolto. Scendere in piazza per manifestare un'opposizione morale, prima ancora che politica, è un sacrosanto diritto sancito quasi un paio di secoli fa nella dichiarazione dei diritti dell'uomo.
Lo aveva detto Nanni Moretti qualche giorno prima: io sono un moderato, infatti voto Democratici di sinistra, ma essere moderati non significa essere passivi, rassegnati, abituati alle peggiori anomalie e anormalità italiane. Ricordiamolo, era il 2002 e il signor B. un anno prima aveva vinto le elezioni per la seconda volta promettendo da Vespa un altro grande miracolo economico ma omettendo di elencare nel famoso contratto con gli Italiani tutte le leggi vergogna che avrebbe fatto approvare per garantirsi l'impunità. Gli attacchi criminali contro i magistrati colpevoli di perseguire i suoi reati. Le violazioni della libertà di stampa e l’editto bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi colpevole di aver ospitato in trasmissione Marco Travaglio.
Fu quel giorno a San Giovanni una grande prova di opposizione ma anche una grande occasione perduta. Anche per l’effetto di quella piazza nei mesi a venire la sinistra avrebbe colto successi in serie nelle elezioni amministrative. Ma l’opposizione a Berlusconi, quella dei partiti e quella della società civile non solo non troveranno mai unità e composizione ma finiranno per scontrarsi disperdendo preziose energie e finendo per agevolare la sopravvivenza di colui che Moretti chiamerà il Caimano. Di questa diaspora fummo all'"Unità" testimoni diretti e non fu affatto facile spiegare ai lettori che ci chiedevano di «resistere» come mai questa nuova resistenza si fosse spaccata irrimediabilmente. Piazza San Giovanni fu organizzata in pochi giorni e pochissimi mezzi da Paolo Flores d'Arcais con l'aiuto dei Girotondi. All'inizio ci fu qualche tentativo di dialogo, i Ds pensarono di poter governare il dissenso ma per i movimenti l'inclinazione di una parte della sinistra all'inciucio con la destra costituì giustamente un ostacolo insormontabile. I Girotondi si dissolsero per loro beghe interne ma sulle ceneri di quella prima rivolta della gente comune contro la politica dei falsi rimborsi e delle chiacchiere inutili, dieci anni dopo Beppe Grillo avrebbe costruito la vittoria elettorale del M5S organizzando la protesta collettiva (con tutti i suoi eccessi) contro le caste di destra e di sinistra. Proprio la sinistra che quel sabato di settembre non volle ascoltare la voce che si alzava forte e chiara dalla piazza e che oggi deve fare i conti con l'emorragia dei propri voti che ha reso forte i suoi avversari grillini.
Ma la storia non si fa con le ipotesi. In me resta forte l'emozione nel ricordo di quegli anni difficili ma esaltanti. Resta l'orgoglio di aver diretto una testata storica a cui auguro cento anni ancora. Resta l’affetto per i compagni di tante battaglie, per una redazione straordinaria per generosità e impegno, da Pietro Spataro a Luca Landò che oggi guida il giornale, agli altri che mi hanno seguito nella nuova avventura del «Fatto». Resta la nostalgia per quel fiume di persone che così allegro e pieno di speranza non ho visto più.
La Stampa 15.2.14
Oltre 440mila lavoratori sono in cassa integrazione
I dati contenuti nel rapporto della Cgil di gennaio. Persi 311 milioni di euro
qui
l’Unità 15.2.14
«Rappresentanza per tutti» Ma in Cgil è alta tensione
Assemblea dei delegati a Milano, blitz di Cremaschi che scatena la rissa
La Fiom si dissocia, ma denuncia «comportamenti autoritari»
La Cgil intende estendere l’accordo del 10 gennaio alle categorie finora rimaste escluse
di Giuseppe Vespo
«La discontinuità» con il passato sui temi del lavoro sarà il metro di giudizio con cui la Cgil valuterà il prossimo esecutivo guidato da Matteo Renzi. «Se il lavoro sarà al centro», allora il giudizio potrà essere positivo. Susanna Camusso chiede al futuro premier un’inversione di rotta. Un appello lanciato dal palco milanese del teatro Franco Parenti, dove ieri si è tenuto un attivo dei delegati lombardi dei settori non aderenti a Confindustria. Tutti salvo la Fiom, che tuttavia rappresenta anche categorie che non si confrontano con l’associazione di Giorgio Squinzi.
La giornata era dedicata all’accordo su democrazia e rappresentanza firmato il dieci gennaio da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Ma ha preso subito una strana piega. Complice il blitz in sala di Giorgio Cremaschi, che si è risolto con momenti di tensione, scontri e tafferugli. L’ex dirigente della Fiom, oggi membro del direttivo Cgil, è arrivato al Franco Parenti insieme ad alcuni sindacalisti e ha distribuito volantini che ricordavano il decreto con cui il 14 febbraio Craxi aboliva la scala mobile. «L’accordo sulla rappresentanza è grave quanto quello di trenta anni fa».
Poi ha preteso di intervenire, poiché «a quest’assemblea non è stata invitata la Fiom, perché non ha firmato quell’accordo». È stato bloccato. Per alcuni momenti il Parenti si è acceso. Sono volate urla e insulti, calci e spintoni - qualcuno si è anche fatto male - fino a quando il servizio d’ordine ha portato fuori Cremaschi e compagni. «Volevamo che un nostro rappresentante potesse parlare e loro hanno reagito con violenza fisica. Presenteremo una denuncia in procura, e alla direzione nazionale del sedici porteremo una mozione di sfiducia della Camusso, perché non ha tutelato il diritto di ogni iscritto ad intervenire in assemblea».
Verso il congresso
Una critica, quest’ultima, condivisa anche dalla Fiom che tuttavia, visto che inizialmente le agenzie attribuivano il blitz al sindacato delle tute blu, ha precisato che quella di Cremaschi era un’iniziativa personale. «Noi siamo la Fiom, dissentiamo, non provochiamo». La leader della Cgil ha replicato definendo Cremaschi uno che «ha perso la capacità di ascoltare e confrontarsi con chi ha opinioni diverse». Nino Baseotto, segretario generale della Cgil in Lombardia, ha aggiunto: «Poteva entrare come rappresentante, non era il caso di pretendere di poter parlare per primo quando c’è una fila di delegati che aspettano. Ci sarebbe voluto un po’ più di rispetto». Del resto la giornata era dedicata a loro, ai delegati, e alla proposta che ha dato il titolo all’incontro: «Estendere gli accordi su democrazia e rappresentanza a tutti i luoghi di lavoro». Si tratta dell’insieme di regole, certificazioni e sanzioni, che serviranno da linee guida per i contratti e le relazioni industriali, e che dopo la firma del dieci gennaio sono state fortemente contestate dalla Fiom. Tanto che per le tute blu di Maurizio Landini, il mancato invito alla giornata di ieri sarebbe dovuto proprio alle critiche espresse nei confronti dell’intesa confederale.
«Non è così - ha replicato Baseotto, che ha collaborato ad organizzare l’incontro - Non è la prima volta che vengono tenuti confronti che non coinvolgono tutti. Per esempio, qualche tempo fa ce n’è stato uno al quale partecipavamo solo noi e la Fiom». Resta il fatto che l’accordo di gennaio è uno dei temi caldi che stanno facendo discutere il sindacato alle prese con il suo 17esimo congresso. Un appuntamento al quale la Cgil arriva con due documenti: quello maggioritario firmato da Susanna Camusso e Maurizio Landini («Il lavoro decide il futuro») e quello della minoranza rappresentata proprio da Giorgio Cremaschi («Il sindacato è un’altra cosa»). L’intervento di Camusso ha chiuso la mattinata, alla quale hanno preso parte altri dirigenti nazionali: Cestaro, Crogi, Dettori, Martini, Miceli, Nasso e Schiavella. La sindacalista ha spiegato il perché dell’importanza di un accordo che definisce regole chiare, che introduce sanzioni per chi non le rispetta, siano i sindacati o le imprese, che fa delle rsu «gli agenti della contrattazione in azienda. Un sindacato che ha paura della contrattazione e della capacità dei suoi rappresentanti di contrattare - ha concluso - è un sindacato che forse sta decidendo di fare altro nella vita».
Oggi a Bologna, un nuovo appuntamento: quello degli autoconvocati Cgil , con Landini e Rodotà (invitata anche Camusso) chiederanno il ritiro della firma dall'intesa sulla rappresentanza e una consultazione che coinvolga gli iscritti, esclusi i pensionati.
il Fatto 15.2.14
Cazzotti in Cgil, la Camusso imbavaglia Cremaschi
Calci, spintoni e un delegato all’ospedale: “chiederemo le dimissioni del segretario generale”. Oggi l’assemblea della base per Landini
di Salvatore Cannavò
In Cgil l’aria diventa sempre più irrespirabile. Dopo giorni di accuse, mancate scuse e ricorsi disciplinari, ieri sono volati anche i pugni. Anzi un’aggressione come se fosse stata “una carica della polizia”, denuncia Giorgio Cremaschi, leader della minoranza interna, quella della Rete 28 aprile che al congresso in corso ha presentato un documento alternativo. Nulla a che vedere con la Fiom, insomma. Però, il caso avvenuto al Teatro Parenti di Milano ha avuto un effetto traumatico per tanti dirigenti e militanti del sindacato di Susanna Camusso. Che, nelle parole di Cremaschi, viene definita “unfit”, cioè inadatta a guidare la Cgil. “Presenteremo una mozione di sfiducia al direttivo del 26 febbraio” dice ancora l’ex dirigente Fiom oggi iscritto al Sindacato dei pensionati, “a questo punto deve dimettersi”.
I fatti sono piuttosto inquietanti. Ieri mattina la Cgil lombarda aveva convocato un attivo di delegati delle categorie non industriali, quindi escludendo la Fiom, per discutere dell’estensione dell’accordo del 10 gennaio – lo stesso che ha provocato lo scontro tra Camusso e Landini – a tutti i lavoratori. Incontro interpretato dalla Fiom come una manovra per coagulare il consenso attorno al segretario generale e isolare il sindacato dei metalmeccanici. Tanto che la Fiom lombarda e quella milanese, nei giorni scorsi hanno protestato ripetutamente per la propria esclusione.
E in questa sala che Cremaschi e una quindicina di delegati della minoranza sono potuti entrare solo dopo una serie di spintoni e discussioni con il servizio d’ordine del sindacato. Una volta ascoltata la relazione del segretario della Filcams – la categoria del commercio, turismo e terziario – elogiativa dell’accordo considerato come molto utile per i propri rappresentati, Giorgio Cremaschi e un delegato milanese della Funzione pubblica, Nico Vox, si sono avvicinati alla presidenza per chiedere l’intervento di quest’ultimo. Dopo il “no” dal palco, racconta ancora Cremaschi, “è partita una carica, siamo stati spintonati e buttati giù dalle scale”. Vox è finito all’ospedale e poi si è recato al commissariato per sporgere denuncia. “Siamo stati aggrediti da una squadraccia” aggiunge il leader sindacale che denuncia la Cgil come un’organizzazione “che non garantisce le libertà fondamentali”.
Dal canto suo Susanna Camusso si è scusata. Non con gli aggrediti, però, bensì con i delegati sul palco “ai quali è stato mancato di rispetto, innanzitutto con l’affermazione che non c’era nessuna volontà di ascoltare le voci che partono dai loro luoghi di lavoro”. La Fiom milanese ha precisato di non aver avuto nulla a che fare con l’episodio e di voler condannare tutti gli episodi di violenza. Ma allo stesso tempo ha specificato di “non comprendere” come mai sia stato negato l’intervento a un dirigente nazionale” (in realtà era Vox che voleva intervenire) in una “logica censoria che dovrebbe essere estranea alla vita della Cgil”. L’episodio contribuisce ad alimentare la tensione. L’ assemblea di Milano era stata accusata nei giorni scorsi di essere solo un ritrovo della maggioranza della Cgil per “blindare” il segretario generale. A questa si contrappone l’assemblea autoconvocata che si terrà oggi al Palanord di Bologna dove, alla presenza di Landini, si schiererà il fronte opposto, coloro che vogliono il ritiro dell’accordo del 10 gennaio. A questa assemblea, dicono i promotori, “abbiamo invitato anche Susanna Camusso ma non abbiamo avuto risposta”.
Corriere 15.2.14
Giorgio Cremaschi:
«Mi hanno spinto per le scale e impedito di parlare. Sfiduceremo il segretario»
intervista di Alessandra Coppola
MILANO — Perché irrompere così? «No, usiamo le parole giuste — risponde Giorgio Cremaschi —: non è stata un’irruzione, né un blitz. Abbiamo fatto una presenza, com’è nel nostro diritto, per far sentire una voce diversa. Il sindacato deve essere aperto anche alla minoranza».
Eccolo qui il ciclone Cremaschi, un po’ affaticato, il cartello verde fosforescente s’è arrotolato, la giacca stropicciata. Ma pur sempre pugnace. Storico esponente della Fiom — «Mi dice storico perché ho 66 anni...», si schermisce —, un passaggio in Rifondazione Comunista, oggi iscritto allo Spi Cgil di Brescia, il sindacato pensionati, nonché membro del direttivo nazionale. È sua la prima firma al «documento alternativo» (la mozione di minoranza) che sarà presentata al prossimo congresso Cgil a maggio: 3 per cento dei consensi. Eppure questa sua linea dura e pura contro l’accordo sulla rappresentanza all’interno dei metalmeccanici sta conquistando terreno, in alcune assemblee ha superato il trenta per cento.
Un ritorno alla ribalta in una stagione difficilissima per il sindacato. Per le ragioni esterne ed evidenti della crisi, della chiusura delle aziende, della perdita dei posti. Ma anche per questioni prettamente interne, che distraggono dal dibattito sulle regole e sul lavoro e accendono le luci sullo scontro tra il leader della Fiom Maurizio Landini e il segretario generale Susanna Camusso, sulle logiche congressuali, sulle relazioni (complesse) con la nuova dirigenza del Pd. In questo scenario, il più dissidente tra i dissidenti è lui, da decenni oppositore di Camusso («Con lei ho solo è sempre litigato — metteva in chiaro in un’intervista — siamo su posizioni opposte, lei riformista io radicale»). In contrasto, spesso, pure con Landini.
Una «presenza» quanto meno vivace all’attivo della Cgil di ieri.
«Siamo stati aggrediti con una violenza senza precedenti — continua Cremaschi —. Siamo stati spinti giù per le scale, insultati con attacchi personali, minacciati, una brutalità mai vista. Abbiamo intenzione di agire in tutte le sedi...».
Eppure gli organizzatori ribadiscono che vi avrebbero lasciati parlare, dopo gli altri delegati (anche se qualcuno ha confessato di temere un suo discorso fiume in stile Fidel Castro).
«La realtà è che ci hanno impedito di parlare. Già all’ingresso hanno fatto delle resistenze e ci hanno fatto togliere alcuni cartelli che dicevano “no all’accordo”. Con il nostro delegato della Funzione pubblica, Nico Vox, ci siamo poi avvicinati al palco e abbiamo chiesto di poter intervenire. Tra dieci, dodici, relazioni favorevoli, avrebbero potuto anche tollerarne una contraria! Siamo stati invece subito circondati dal servizio d’ordine. Uno dei delegati che presiedeva l’attivo dal palco ha detto pubblicamente: “Non è questa la sede per intervenire”. Quindi siamo stati aggrediti brutalmente e spinti fuori. Un’assemblea assurda di coloro che sono per il sì a un accordo autoritario che sta distruggendo il sindacato».
Tra i dissidenti c’era anche qualche metalmeccanico, lei è stato un importante dirigente Fiom, al principio sembrava che intervenisse a nome della categoria...
«Non è così: noi ci siamo presentati come la minoranza congressuale della Cgil, sostenitori del documento “Il sindacato è un’altra cosa”».
Che ha il tre per cento, ma tra i metalmeccanici guadagna consensi: rischia di entrare in competizione con il segretario Maurizio Landini...
«Abbiamo avuto posizioni diverse, non ho visto bene i suoi colloqui con il segretario del Pd Matteo Renzi, del quale continuo a pensare tutto il male possibile. Ma dopo il 10 gennaio (la firma dell’accordo sulla rappresentanza dei tre sindacati confederali con Confindustria, contestata da Landini, ndr ) nei fatti siamo molto vicini».
E sempre più lontani da Camusso, in maniera sempre più evidente, forse irreparabile: c’è il rischio di una scissione?
«Al direttivo della Cgil del prossimo 26 febbraio presenterò una mozione di sfiducia nei confronti del segretario generale (non si contano molti precedenti, ndr ). Al sindacato serve un cambiamento radicale. La presenza istituzionale, burocratica della Cgil non corrisponde alla sua funzione reale. È un colosso con i piedi d’argilla. Mi auguro anche nella Cisl analoghe contestazioni dal basso nei confronti del segretario generale Raffaele Bonanni. Detto questo, per farci andare via, devono cacciarci: non saremo noi ad andarcene».
Repubblica 15.2.14
Il segretario Fiom: incomprensibile non far parlare un dirigente
Landini: “No alla violenza ma questa non è democrazia c’è una deriva autoritaria”
intervista di Roberto Mania
Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, parla di «deriva autoritaria della Cgil». Ha appena inviato a Susanna Camusso l’ultima lettera, dai toni aspri, di un lungo carteggio per provare a fissare un incontro, che invece non ci sarà, per discutere del contestato accordo sulla rappresentanza sindacale. È un muro contro muro senza precedenti. La Fiom da una parte, il resto della Cgil dall’altra.
Landini, ma cosa sta succedendo nella Cgil? Ora si arriva addirittura alle mani durante una riunione tra dirigenti. Perché?
«Premesso che qualsiasi forma di violenza non appartiene né alla cultura né alla storia della Fiom, penso che siamo dentro una evidente crisi democratica della Cgil. Bisogna uscire da questa idea di una gestione autoritaria dell’organizzazione. La Cgil, come ha sempre fatto nella sua storia, deve affrontare senza nascondersi la questione del dissenso, e come questo abbia diritto a manifestarsi all’interno del sindacato. Ciascuno deve poter esprimere il proprio punto di vista e i lavoratori il diritto di dire la loro sugli accordi che li riguardano direttamente. Bisogna farlo in maniera trasparente perché la democrazia è l’unico sistema che consente di contare le teste senza romperle».
A Milano si è scatenata una rissa con contusi e esposti alla magistratura. Il rischio è che prima o poi qualche testa si rompa.
«Bisogna dirla tutta: a Milano è stata promossa una iniziativa dalla confederazione e dalle altre categorie con un vizio d’origine, cioè l’esclusione della Fiom».
Lo hanno fatto - almeno così hanno spiegato - perché sarebbe stato «irrispettoso» nei vostri confronti, unici ad essere contrari all’intesa sulla rappresentanza firmata con la Confindustria, perché l’obiettivo dell’iniziativa era quello di estendere l’accordo a tutti i settori. Non è una giustificazione sufficiente?
«A parte il fatto che in Cgil è ancora aperta la discussione sulla validità di quell’accordo, vorrei far notare che la controparte della Fiom non è solo la Confindustria: c’è la Confapi, gli artigiani, le cooperative. È davvero la prima volta che accade un fatto del genere. Non si possono escludere le categorie da una iniziativa in base a quello che pensano. Questo è fuori dalla storia della Cgil».
Lei, insomma, dà ragione a Giorgio Cremaschi?
«Vorrei intanto dire che Cremaschi non è più un dirigente della Fiom, è iscritto ai pensionati. Èperò un dirigente nazionale della Cgil, membro del Comitato direttivo. In più è il primo firmatario del documento congressuale alternativo. Dunque trovo non comprensibile che a un dirigente nazionale venga impedito di parlare».
La Camusso ha detto che Cremaschi non aveva alcuna intenzione di ascoltare gli altri. E che aveva come obiettivo quello di apparire in televisione.
«Credo, tanto più che la Camusso era presente, che l’abc della democrazia sia quello di consentire a tutti di esprimersi. Questo non vuol dire che giustifico eventuali strumentalizzazioni o atti di violenza. Io e la Fiom lì non c’eravamo».
Lo scontro è scoppiato a causa dell’accordo sulla rappresentanza. La Camusso ha annunciato che proporrà al direttivo di consultare gli iscritti alla Cgil. Non è questo ciò che chiedeva la Fiom? Perché continua la polemica?
«Da quel che si capisce si profila questa situazione: si svolgeranno le assemblee unitarie Cgil, Cisl e Uil nei luoghi di lavoro. In questi casi è previsto che illustri l’accordo un delegato per le tre sigle. Ma non è prevista l’illustrazione delle ragioni contrarie. Poi a votare saranno solo gli iscritti della Cgil. Perché, allora, le assemblee unitarie? E poi: perché su un accordo che riguarda essenzialmente noi metalmeccanici devono votare i pensionati, i dipendenti pubblici, quelli della scuola e del commercio? Questa non è democrazia».
Corriere 15.2.14
Nel confronto interno alla Cgil i muscoli non prevalgano sulla ragione
di Antonella Baccaro
Quello che è successo ieri al Teatro Parenti di Milano, dove si teneva un attivo regionale della Cgil che aveva lo scopo di discutere come estendere alle categorie che non afferiscono alla Confindustria gli accordi sulla rappresentanza del 2011 e 2013 siglati dall’associazione datoriale e dai sindacati, attiene alla democrazia e ai diritti delle minoranze. Perché Giorgio Cremaschi, animatore della protesta che ieri ha interrotto l’attivo e che è finita in rissa, con tanto di contuso portato in ospedale, è l’anima dell’area d’opposizione «Rete 28 Aprile» e al congresso che si celebrerà a maggio è presentatore dell’unica tesi, intitolata «Il Sindacato è un’altra cosa», opposta a quella del segretario, Susanna Camusso.
Cremaschi, già noto esponente della Fiom (metalmeccanici), ora dello Spi Cgil (pensionati) e membro del direttivo della Cgil ha spiegato così la sua irruzione in compagnia di una decina di persone che si sono qualificate come appartenenti alla Fiom: «A questa assemblea non è stata invitata la Fiom, è un’assemblea assurda di coloro che sono per il sì (all’accordo sulla rappresentanza, ndr )», ha detto, aggiungendo di volere ottenere che un delegato Fiom intervenisse.
Peccato che la Fiom lombarda abbia smentito di aver accompagnato Cremaschi nella protesta del Teatro Parenti: «A quanto ci risulta — ha precisato in un volantino — tra i protagonisti dell’irruzione vi erano esponenti di altre e diverse categorie Cgil». Insomma, un pasticcio. E poco importa che la Fiom lombarda, pur smentendo il blitz, rivendichi che in un attivo di delegati Cgil possano intervenire militanti e dirigenti come Cremaschi, che è componente del direttivo Cgil nazionale.
Il punto è che ieri a Milano un gruppo di categorie avevano deciso di incontrarsi per verificare la possibilità di ottenere l’estensione dell’accordo sulla rappresentanza, accordo che invece si applica ai metalmeccanici, ragione per cui il segretario della Fiom, Maurizio Landini, sta effettuando una protesta che, per quanto dura, finora si è tenuta nelle sedi appropriate. Cremaschi ieri ha indossato una casacca non sua e ha fatto irruzione probabilmente pensando che il fatto di essere minoranza dia diritto a esprimersi in qualsiasi sede, a qualsiasi titolo, in qualsiasi modo. Ma siamo sicuri che fare sindacato non sia «un’altra cosa?».
il Fatto 15.2.14
Jaki, l’erede di Gianni Agnelli insulta i giovani senza lavoro
di Marco Polombi
È un bene che sia toccato a John Elkann rinverdire i fasti da gaffeur di Tommaso Padoa-Schioppa (“bamboccioni”) ed Elsa Fornero (choosy, schizzosi). È un bene perché si può fare i conti con gli Agnelli come sono e non come vorrebbero che fossero quelli li trattano come “la famiglia reale di Villar Perosa”. Se Fortebraccio, per dire, irrideva la “faccia da vacanziere” di Gianni Agnelli, definendolo “la fotocopia d’un vero signore”, l’attuale giovin signore della Fiat può ben definirsi “la fotocopia d’un vero imprenditore”.
Classe 1976, figlio di Margherita Agnelli e del giornalista Alain Elkann, si diploma a Parigi, motivo per cui l’italiano sembra sempre la sua seconda lingua, laurea in ingegneria gestionale a Torino, fa la sua gavetta alla maniera degli Agnelli: qualche giro di giostra in posizioni di basso livello in una delle fabbriche di famiglia o degli amici di famiglia. Poi, per solo merito, si passa direttamente da operaio o venditore a presidente della Fiat, della holding di famiglia Exor e di altre cosette.
È chiaro che a uomini che hanno realizzato così tanto nella vita, succeda di incorrere in giudizi ingenerosi verso i comuni mortali. E così, ieri, il buon Elkann - trovandosi di fronte gli studenti delle superiori della provincia di Sondrio - s’è lasciato andare al giusto disprezzo dell’uomo che s’è fatto da sé. Disoccupazione giovanile? “Ci sono tantissimi lavori da fare, c’è tantissima domanda di lavoro, ma manca l’offerta. Certo, io sono stato fortunato ad avere molte opportunità, ma quando le ho viste ho saputo anche coglierle”. E infatti quando, dopo la morte di Giovannino Agnelli, suo nonno Gianni gli ha offerto l’ingresso nel cda della Fiat, lui ha risposto prontamente “sì”. Ecco come si prendono le opportunità e invece molti ragazzi “non colgono le tante opportunità che ci sono perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione”. Finito? Macché. John vuole dire proprio tutto quello che ha nel cuore: “Le opportunità esistono più oggi che una volta e sono enormi”. Va detto che qualcuno tra i presenti ha equivocato. Uno studente che sta ultimando il corso da elettricista ha buttato lì: ma un posticino in Fiat? A quel punto il povero Elkann ha capito l’errore: “Finisci bene e poi ci risentiamo” (non risulta, però, che abbia lasciato recapiti). Un altro, tapino, gli ha chiesto: “Perché, nonostante la sua posizione, lei continua a lavorare?”. Dimostrandosi proprio quel tipo privo di ambizioni che John detesta: “Lavoro perché ho un grande desiderio di fare, di partecipare. Questa è la motivazione principale che mi permette anche di fare una vita interessante. Sicuramente è più interessante essere impegnato, fare delle cose piuttosto che vivere in vacanza tutto il tempo”. Controreplica: “Non sono proprio d’accordo”.
La cosa, in verità, non è piaciuta. Un tizio, per dire, s’è intrufolato nella pagina “Wikipedia” di John Elkann aggiungendo queste pacate righe alla biografia del nostro: “È un figlio di papà e grandissimo paraculo, nato nella bambagia e si permette pure di fare lo splendido dicendo che i giovani italiani sono degli sfaticati”. Su Twitter pure non è che sia andata meglio: “Ecco, un altro che le canne non le passa”, il commento della Sora Cesira; “e nel CV di #Elkann alla voce esperienza lavoro soprammobile di Marchionne” (scrive un certo Voar Livre); “Segnalo a Elkann che i miei due figli ingegneri sarebbero restati a casa, ma stanno in Svizzera dove per fortuna non ci sono imprenditori come lui” (Ferruccio Staffetta).
I politici, persino in area renziana, approfittano per azzannare la preda preziosa: “Le parole del presidente Fiat arrivano del tutto inaspettate, nel momento in cui l’azienda decide di spostare la sede legale e fiscale all'estero - mette a verbale il deputato Pd Michele Anzaldi - Nel momento in cui la disoccupazione giovanile tocca la cifra record del 40 per cento, non si capisce come si possa sostenere che i giovani non trovano lavoro perché non lo cercano”.
La tesi del giovane Elkann, peraltro, è particolarmente bizzarra alla luce della politica occupazionale delle aziende che controlla: negli stabilimenti Fiat italiani ormai sono più i dipendenti in Cassa integrazione che quelli al lavoro, La Stampa e la Rizzoli-Corriere della Sera vanno avanti coi prepensionamenti pagati coi soldi pubblici e i contratti di solidarietà. Esattamente, in quale comparto John Elkann sta riscontrando questa penuria di offerta di lavoro che ha denunciato oggi? Forse ha ragione Diego Della Valle, la sua nemesi: “Lo conosco da bambino. Credo sia un ragazzo giovanissimo che ricopre un ruolo che non ha l’esperienza di poter ricoprire e che lo porta anche a fare degli errori. Ma mi costa fatica discutere con un ragazzo che potrebbe essere mio figlio. Purtroppo oggi in quella famiglia c’è lui e bisogna parlare con lui”.
Corriere 15.2.14
Il filosofo marxista: «Minacciato, non vado a CasaPound»
Diego Fusaro attaccato da sinistra dopo l’annuncio di una sua conferenza nel centro sociale di destra
di Luca Mastrantonio
Dopo le polemiche, gli insulti e le minacce, il giovane marxista Diego Fusaro rinuncia al suo intervento a CasaPound, a Roma, previsto per il 21 febbraio prossimo: «Intendo non partecipare più all’incontro — racconta al Corriere della Sera via telefono, con tono fermo e contrariato — perché non ci sono le basi per un dialogo sereno. Non si tratta di paura fisica, anche se comunque tolgo apprensione a chi mi sta vicino, ma non voglio essere il pretesto per tafferugli tra sedicenti fascisti e sedicenti comunisti. Non voglio che il mio nome sia legato a pestaggi o scontri che non siano di idee».
Nato a Torino nel 1983, Fusaro, ricercatore in Storia della Filosofia, è tra i giovani pensatori italiani più in vista; oltre a libri accademici, ha scritto bestseller come Bentornato Marx! (Bompiani, 2009), ed è ospite fisso di varie trasmissioni televisive. La notizia della sua presenza a CasaPound era stata annunciata qualche giorno fa da un manifesto dove campeggiava il barbone di Marx, il nome dell’altro relatore, Andriano Scianca, responsabile culturale di CasaPound, e il simbolo del centro sociale, una tartaruga stilizzata.
Le reazioni, come spesso accade in questi casi, non si sono fatte attendere. Prima insulti su Facebook e al telefono, con numeri anonimi, «ma ho ricevuto anche attestati di solidarietà — precisa Fusaro — ci sono molte persone intelligenti sia a destra che a sinistra»; poi, attacchi più articolati ma molto poco dialettici. L’associazione comunista Antiper, «dove per altro in passato ho tenuto una conferenza», ricorda Fusaro che fa parte anche dell’associazione Bottega Partigiana, gli ha dedicato una lettera molto elaborata, che ci concludeva con un avvertimento: «Gli errori che vengono corretti in tempo si possono ed anzi si devono perdonare; invece, perseverare nell’errore non sarebbe perdonabile e credi, quello che stai facendo è un grandissimo errore, un errore di cui, se sei in buona fede, sicuramente ti pentirai quando sarà troppo tardi; se invece non sei in buona fede, allora non fare nessuna autocritica, vai pure avanti. Di nemici, sulla strada della trasformazione rivoluzionaria del mondo ne abbiamo e ne avremo tanti. Uno in più è male, ovviamente, ma non è poi la fine del mondo».
Il giornale comunista online contropiano.org è andato oltre: «Bisogna scegliersi anche i nemici, ormai (...) Persino Marx perse un intero anno della sua intelligenza per “sputtanare” un tale che era soltanto una spia da quattro soldi (“Herr Vogt”), per cui non era necessario alcun pensiero, ma soltanto un paio di bastonate».
Minacciare le bastonate è da fascisti, protesta Fusaro, che vorrebbe ridere con Ennio Flaiano, per il quale in Italia ci sono due categorie di fascisti: i fascisti e gli antifascisti; ma di ridere ha poca voglia, e spiega perché ha deciso di tirarsi indietro: «L’incontro è stato reso impraticabile dagli insulti e dalle minacce, ma soprattutto da un fraintendimento politico ormai troppo diffuso, per cui, se accetti il dialogo, di fatto aderisci alle idee dei tuoi interlocutori. Ma così si uccide Socrate! Un filosofo deve dialogare con tutti, anche con chi la pensa diversamente, per fargli cambiare idea, per criticare le sue idee».
Ecco di cosa avrebbe parlato Fusaro a CasaPound: «Oggi più che mai è necessaria, di Marx, la tensione verso l’emancipazione dalla reificazione capitalistica e dalla violenza dell’economia globale; Marx insegna a lottare per una comunità di individui liberi, uguali e fratelli. Il comunismo novecentesco è morto, ma sopravvive il comunismo ideale eterno, l’ideale di un’umanità libera ed emancipata, senza sfruttamenti né classismo né razzismo. Ecco, per esempio CasaPound sbaglia ad aver paura del meticciato: l’unica razza esistente è la razza umana. Ma questo, purtroppo, non glielo potrò dire di persona».
il Fatto 15.2.14
Metodo Cei fuori Dino Boffo Guerra di soldi e potere
Il portavoce dei vescovi e il capo del centro televisivo vaticano fanno cacciare il direttore di TV2000 contrario alla nuova strategia aziendale
di Carlo Tecce
Ormai ne resta il metodo. Anche l’ultimo incarico di Dino Boffo, 61 anni di Asolo, emanazione diretta di Camillo Ruini, il cardinale politico, non esiste più. La società editrice di TV2000, l’emittente dei vescovi italiani, l’ha licenziato con un comunicato di poche righe che cela la guerriglia interna: “Normale avvicendamento”. Non c’entra l’esecutore materiale, Giovanni Traverso, amministratore delegato. E neanche la strategia di comunicazione. Boffo rappresentava un’epoca rottamata e, soprattutto, era un ostacolo per un progetto televisivo per muovere decine di milioni di euro che adesso vanno a TV2000.
Quando lo scorso lo scorso dicembre, l’arcivescovo Piero Coccia ha confermato la nascita di una piattaforma unica fra TelePace e TelePadrePio, Boffo avrà capito che la direzione stava per scadere. Perché TV2000, che fa egregi ascolti pur sempre decimali (0,60%), viene finanziata con le donazioni dell’otto per mille. L’ultima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, carica di religiosa tensione, ha stanziato i tradizionali 37 milioni di euro, a volte sono 40, a volte meno. Ma quel denaro è un investimento prezioso. Senza quei soldi, TV2000 chiude. E senza quei soldi, la piattaforma annunciata da Coccia non può partire. Monsignor Coccia, però, è un personaggio marginale di questa vicenda. Il piano per smontare TV2000 e creare un network vaticano (e non più solo dei vescovi) appartiene a monsignor Domenico Pompili, storico portavoce Cei e, soprattutto, al sacerdote Dario Edoardo Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano. Secondo ricostruzioni ben dettagliate, questa settimana Boffo avrebbe incontrato Viganò e Pompili: nessuna trattativa, nessuna mediazione, non voleva lasciare TV2000 e neanche ridimensionare il segnale per favorire il Vaticano. TV2000 è determinante perché si nutre con i soldi dell’otto per mille che non possono andare alla Santa Sede: spettano ai Vescovi. La soluzione migliore e più semplice, pensata proprio da Viganò e Pompili, era quella di inglobare (o spegnere) TV2000. Sperando di poter contare su un sistema che non funziona più, il suo, Boffo non s’accorda con Viganò e Pompili. E ieri pomeriggio, senza preavviso, viene cacciato. Il giornalista di Asolo, che lasciò il quotidiano Avvenire dopo la campagna di stampa del Giornale, era un pezzo forte dei Vescovi italiani dal ‘94. Cronache, che non sono certo leggende, raccontano che Boffo (assieme a Ruini) fosse in grado di scegliere ministri, di condizionare la politica della Chiesa. L’ex direttore ha ricevuto la comunicazione ufficiale a casa. In redazione non c’era, e i colleghi hanno protestato con l’editore. Boffo non vuole commentare . Ma con i suoi amici, ieri il telefono era sempre occupato, s’è sfogato. Pensa di essere vittima di un’operazione clericale, e non tanto trasparente. Ma non vuole parlare prima di qualche giorno. Quando fu nominato a TV2000, Boffo scelse il motto “la tv che non fa male”. Non fu preveggente. Dalla Santa Sede fanno notare che non fosse proprio in sintonia con la politica di papa Francesco e ricordano anche l’episodio di un presunto esorcismo. Il sito di TV2000 pubblicò immagini che furono definite esclusive, “ecco il vade retro Satana di sua Santità”, ma il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, smentì seccamente. E Boffo fu costretto a chiedere scusa.
Di questa operazione televisiva, però, sembra che Francesco ne sappia poco o quasi nulla. Anche se il successore di Boffo dovrebbe essere un sacerdote argentino che lavorava a Canal 21, l’emittente sudamericana già in rapporti di collaborazione col Centro televisivo vaticano di Viganò. Chiosa di Alessandro Sallusti su Twitter: “Secondo l’agenzia Agi, hanno licenziato Boffo. Se vero, che metodo è?”
Repubblica 15.2.14
I cattolici sollevano il caso. Il viceministro alle Pari opportunità Guerra censura l’iniziativa
“Opuscoli ai prof ispirati dalla lobby gay” bufera sull’ufficio anti discriminazioni
di Vladimiro Polchi
«I rapporti omosessuali sono naturali». «Il sesso non si fa solo per avere bambini». È quanto si legge in un opuscolo intitolato “Educare alla diversità a scuola”, targato dipartimento Pari opportunità e Unar. Un testo che, ancor prima di arrivare tra le mani degli insegnanti, ha innescato un fuoco di polemiche: in prima fila “Avvenire” (quotidiano della Cei) e sette senatori del Nuovo centrodestra, che ne chiedono il ritiro. Non solo. Dietro l’opuscolo si consuma una rottura istituzionale, col viceministro Maria Cecilia Guerra che “sfiducia” il capo dell’Unar. Un passo indietro. L’istituto Beck (istituto di terapia cognitivo- comportamentale), in base a un contratto con l’Unar del dicembre 2012, ha prodotto un kit per docenti delle scuole pubbliche dei tre gradi, contro tutte le discriminazioni «basate su orientamento sessuale e identità di genere». In sostanza, si tratta di «uno strumento didattico non ancora distribuito nelle scuole - precisa Marco De Giorgi, direttore dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) - in cui si sostiene tra l’altro che il livello di omofobia cresce con l’avanzare dell’età, l’abbassamento del livello culturale e l’aumento della religiosità. Di tutte le religioni, senza distinzione». Non stupisce allora la reazione del fronte cattolico. «L’Unar - scrivono nell’interpellanza i senatori Ncd - ha elaborato opuscoli contro l’omofobia avvalendosi dell’istituto Beck, nel cui sito sono contenuti pesanti giudizi sulla religione cattolica». Rincara la dose Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione, anche lui del Nuovo centrodestra: «Mi sembra ci sia molta confusione, dato che il ministero dell’Istruzione non sa niente di quanto viene deciso dall’Unar, che invece produce materiale per le scuole, con un’impronta culturale a senso unico».
Ma c’è di più. Sul caso si scatena una fuga di notizie. «L’Unar ha autorizzato la diffusione di questo materiale il 4 febbraio 2014 - dichiara il viceministro al Lavoro con delega alle Pari opportunità, Maria Cecilia Guerra - senza che il direttore, Marco De Giorgi, me ne desse alcuna informazione, né che io fossi a conoscenza degli esiti della ricerca». Per questo la Guerra ieri ha inviato «una formale nota di demerito» a De Giorgi. Ma ora gli opuscoli che fine faranno? «Verranno certamente distribuiti agli insegnanti - risponde il viceministro - ma solo dopo essere stati rivisti da Miur e Pari opportunità».
Corriere 15.2.14
Bullismo
Quell’incapacità di essere consapevoli
di Paolo Di Stefano
Qualche giorno fa, è uscita una delle ormai numerose notizie di (ordinario o straordinario) bullismo. Rimini. Un ragazzino di 15 anni, probabilmente con un lieve difetto di dentizione, era stato preso di mira dai suoi compagni, che lo chiamavano «il sorcio». Umiliato, deriso, sbeffeggiato soprattutto su Facebook, dove volavano di continuo frasi ingiuriose: «Hai i dentoni, sorcio!» e altro. Un’insistenza tale che il ragazzo non ha più retto alla pressione: dunque, ha parlato con mamma e papà, i quali hanno denunciato i bulli, prima di far le valigie e lasciare non solo l’istituto scolastico, ma addirittura la città. Nessun genitore avrebbe mai, in passato, imposto al figlio di abbandonare la scuola per una goliardata, un soprannome offensivo o altro. Tanto meno avrebbero deciso di cambiare aria loro stessi. I professori avevano il compito (il dovere) di tenere a freno quel che, sotto i loro occhi, appariva inaccettabile o nocivo per l’equilibrio individuale e collettivo. Oggi, siccome l’onda nefasta del bullismo passa per lo più per i social network, non si può certo chiedere agli insegnanti di controllare a 360 gradi la «buona condotta» degli alunni. C’è una vita parallela di relazioni sane e malsane, di soprusi, oltraggi, sottomissioni, soggezioni, schiavitù silenziose. È la «vita» che si agita nell’area impalpabile di Facebook, Twitter, Ask (il social network frequentato soprattutto da adolescenti, compresa Amnesia, la quattordicenne suicida di Cittadella) eccetera. Lì ogni mezza frase non è mai confidenziale, ma trova la fatale esaltazione del mezzo diventando un proclama coram populo . Ebbene, i ragazzi di Rimini, a un certo punto, si sono ritrovati davanti alle forze dell’ordine, denunciati dalla famiglia del compagno ingiuriato: «Ci dispiace moltissimo — hanno detto in lacrime — non abbiamo capito la gravità...». La stessa frase, più o meno, che gli studenti di Finale Ligure hanno inviato per sms appena scoppiato il pandemonio che avevano (quanto involontariamente?) provocato: «Scusa, abbiamo esagerato, volevamo solo scherzare come le altre volte». Succede ogni tanto che il mondo parallelo finisce per confliggere con quello reale, e allora al risveglio cruento segue l’espressione stralunata e incredula dell’inconsapevolezza. Come se nello spazio virtuale le regole di civiltà non fossero quelle della vita quotidiana, dove il rispetto dell’altro, la gentilezza, la delicatezza, la sensibilità sono (o almeno dovrebbero essere) alla base dei rapporti umani. Il risveglio brutale e il conseguente stato di vertigine (dove sono? cosa ho fatto?) ci dicono quanto sia pericoloso, per la coscienza e per la personalità di un giovane, lo iato profondo tra la vita digitale, dove tutto sembra concesso specialmente se al riparo da un nickname , e la normale quotidianità sociale, fatta di doveri, divieti e senso di responsabilità.
il Fatto 15.2.14
Beni comuni
Musei, Roma non è Londra. Purtroppo
di Tomaso Montanari
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.
I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal.
Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”.
Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.
Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso. Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”. E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.
il Fatto 15.2.14
I due Marò
La versione di Miavaldi
PUBBLICATI come un lungo post sul sito del collettivo di scrittori Wu Ming, gli articoli di Matteo Miavaldi, giornalista di China Files, stabilmente collocato in India fino all’anno scorso, sono diventati un libro. “I due marò, tutto quello che non vi hanno detto”, ha utilizzato solo la tecnica del giornalismo investigativo e quella delle fonti ufficiali. Eppure è l’unico libro in circolazione a fornire una informazione diversa da quella ufficiale sul caso che sta tormentando la diplomazia italiana. Miavaldi riesce ad argomentare con precisione alcuni “contro-fatti”: i marò non erano sulla Enrica Lexie in missione militare o umanitaria ma solo come “contractor” pubblici, avallati dal ministero della Difesa, per proteggere navi mercantili. Per questo l’Italia non può vantare nessun riconoscimento internazionale. Si approfondiscono, poi, le dinamiche relative alle acque internazionali, che in realtà sono indiane, la situazione giudiziaria del paese, i riflessi politici e, soprattutto, si ricorda il fatto principale, puntualmente rimosso: la morte di Ajesh Binki (25 anni) e Valentine Jelastine (45), le vere vittime di questo pasticcio.
I DUE MARÒ di Matteo Miavaldi Edizioni Alegre pagg. 176© € 14,00
l’Unità 15.2.14
Europa, la sinistra si muova e tolga spazi ai nazionalismi
di Fausto Durante
Responsabile Segretariato Europa Cgil
Se c’è una speranza, per la ripresa della sinistra dalla sconfitta del 900, quella speranza si chiama Europa. Nella battaglia politica per imprimere un nuovo corso alla storia dell'integrazione europea, oggi bloccata, la sinistra può trovare risposte al trauma del 1989 e alla crisi che l'ha colpita. Crollato il Muro, la sinistra europea e mondiale non ha saputo sintonizzarsi con il mondo nuovo che prendeva forma e ha pensato che il suo compito fosse solo quello di temperare le politiche neoliberiste, attenuandone gli eccessi. Idea che la crisi-mostro scatenata dalla voracità del turbocapitalismo della finanza e dell'economia di carta, ha dimostrato essere una velleità illusoria. Mentre, invece, le energie avrebbero dovuto essere messe al servizio di un processo di ricostruzione culturale dei valori della nuova sinistra.
Il disorientamento è stato fatale e ha portato alla sempre maggiore ininfluenza dei partiti di ispirazione socialista, socialdemocratica, progressista; oltre che all'appannamento del ruolo dei sindacati. Tuttavia, il bisogno di sinistra resta inalterato, anzi oggi è più grande. Il mondo rimane segnato da profonde ingiustizie, da crescenti disuguaglianze, da una spaventosa concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi, da grandi distorsioni nella distribuzione del reddito. Il lavoro, che è cambiato nel senso che non è più centrato sull'operaio- massa o sulla forma di contratto a tempo pieno e indeterminato, ha bisogno sì di essere reinterpretato, ma soprattutto ha bisogno di difesa e di tutela. Sia il lavoro subordinato, sia il lavoro autonomo, sia le forme molteplici di prestazione che si nascondono sotto la coperta del lavoro cosiddetto flessibile, in realtà precario. Oggi anche i lavoratori tutelati da un contratto nazionale o aziendale, anche gli assunti a tempo pieno e indeterminato, pur lavorando non guadagnano abbastanza per vivere dignitosamente. La mobilità sociale si è fermata, stipendi e pensioni sono insufficienti, i diritti di cittadinanza sotto attacco. Questa è la tendenza diffusa ovunque, in Europa.
Ora, di fronte a tutto questo, possiamo dire che non c'è un compito per la sinistra? Che termini come uguaglianza, giustizia sociale e del lavoro, emancipazione dal bisogno e dallo sfruttamento, allargamento della partecipazione e della democrazia, sono destinati ad ammuffire sugli scaffali di una storia sconfitta? Semmai è vero il contrario! Così come si conferma che proprio le fasi di crisi più acuta possono aprire la strada verso cammini nuovi per la sinistra. E allora occorre declinare i termini di un'Europa diversa, non segnata da austerità e rigore ma da politiche economiche espansive e dalla difesa del suo modello, quel modello sociale europeo che ha prodotto welfare, benessere, contratti, protezioni sociali, invidiatici da tutti. E occorre concentrarsi sull'elaborazione di una teoria economica che abbia il messaggio liberatorio, la potenza unificante delle grandi idealità politiche che hanno orientato verso i valori della sinistra grandi masse di persone fino ad allora senza speranze. Masse che ci sono ancora nel mondo d'oggi.
Le idee da cui prendere le mosse non mancano. La Cgil ha presentato il suo «Piano del lavoro», il sindacato tedesco Dgb il «Nuovo piano Marshall per l'Europa». Ciò ha portato la Confederazione europea dei sindacati a rompere gli indugi e a presentare «Un nuovo corso per l'Europa», piano straordinario di investimenti fondato sul ribaltamento del paradigma fin qui seguito dalla Ue, con risorse derivanti da stanziamenti aggiuntivi dei singoli Stati, utilizzo dei fondi europei non spesi, tasse sulla ricchezza e sulle transazioni finanziarie, emissione di eurobond e projec tbond. A questo si è recentemente aggiunta la proposta di «New Deal for Europe», sostenuta in Italia dal Movimento federalista europeo e da una vasta rete di associazioni tra cui i sindacati confederali, per una politica industriale e di sviluppo in Europa, che punta–con lo strumento della Iniziativa dei cittadini europei – a un milione di firme per impegnare le istituzioni europee nella direzione di azioni concrete per lo sviluppo e la ripresa dell'occupazione.
L'elemento comune a queste proposte è la rottura con lo schema neoliberista dell'ossessione verso la disciplina di bilancio e i tagli della spesa, soprattutto per le politiche sociali e per la dimensione pubblica degli interventi su sanità, istruzione, pensioni. E, insieme, l’aspirazione ad una ripresa del percorso di integrazione, all'insegna dello spostamento di poteri verso il Parlamento europeo, della democratizzazione delle istituzioni, della trasparenza del processo decisionale. Passi necessari per provare, in un estremo tentativo, a far sì che le elezioni europee non si trasformino in una sconfitta amarissima per le forze di sinistra e di progresso, in quella annunciata ondata vandeana di istinti xenofobi, razzisti, antieuropei, neofascisti. È questa, qui e ora, la sfida che attende la sinistra, in Italia e in Europa.
l’Unità 15.2.14
Antisemitismo planetario
di Moni Ovadia
La realtà geografico-giuridica dello scacchiere Israle-Palestina, come viene percepita e affermata dal governo di estrema destra dello Stato d'Israele, non trova nessun riscontro né conferma in nessun altro governo dell'intero Pianeta. Tutti i Paesi della comunità internazionale, giudicano i territori al di là della «green line», illegalmente occupati e ritengono gli insediamenti creati, nel corso di quasi un cinquantennio dai governi israeliani in quelle terre, colonie prive di qualsiasi legittimità internazionale. Gli ultra zeloti del governo Netanyahu e in particolare, i parlamentari del partito ultrareligioso «Habayt ha yehudì», la Casa Ebraica, probabilmente pensano che il mondo sia governato da antisemiti.
Forse per questo hanno scatenato un’ignobile gazzarra contro il presidente del Parlamento europeo, il socialista Martin Schulz, classe 1955, noto amico di Israele, ospite della Knesset, solo per avere osato chiedere un chiarimento al riguardo di una drammatica realtà, ovvero l'impressionante differenza fra le forniture di acqua a disposizione dei coloni israeliani e quelle concesse ai palestinesi. Un supplemento di insulti, Schulz lo ha ricevuto anche per avere chiesto il chiarimento in tedesco. Ovviamente, nessuna obiezione viene fatta se i fortissimi aiuti forniti dal governo della Germania Federale a Israele, vengono fatti nella stessa lingua.
Questo episodio è una conferma del clima di isterica ostilità strumentale regnante nel governo Netanyahu nei confronti di chiunque o si esprimere anche solo perplessità sulla sua politica. Il segretario di Stato degli Usa, John Kerry, impegnato nelle trattative di pace nell'area, ha ripetutamente subito lo stesso trattamento: irrisioni e insulti. La verità è che a causa del suo governo, Israele è politicamente sempre più isolato.
Thomas L. Friedman autorevole columnist del New York Times segnala, in un suo recente editoriale, che nei fatti è ravvisabile l'affacciarsi di una terza Intifada dai caratteri inediti e la descrive così: «Questa terza Intifada, in realtà non è guidata dai palestinesi di Ramallah. È promossa dall'Unione Europea e da altri oppositori dell'occupazione israeliana del West Bank, in tutto il globo. A dispetto della sua origine sta diventando per i palestinesi uno strumento di pressione nei negoziati di pace con gli israeliani (...) John Kerry è stato recentemente denunciato da alcuni leader israeliani, per avere ammonito pubblicamente che se le trattative di pace falliscono, la campagna di boicottaggio e di delegittimazione di Israele diventerà sempre più forte. Ma Kerry ha ragione».
A quanto pare i tabù di impunità nei confronti dell'occupazione e della colonizzazione israeliana sono caduti. Di chi sarà la colpa? Dell'antisemitismo planetario?
il Fatto 15.2.14
Su Rai 3
Charlie Manson, la storia nera che non invecchia
di Patrizia Simonetti
Che sia il fumetto l’ultima frontiera del real crime? Stelle Nere, il nuovo programma della mezzanotte del sabato di Rai3 non offre in realtà nuove modalità narrative: l’autore e conduttore Marco Marra (La Storia siamo noi) somiglia a un Lucarelli calvo che racconta, pure lui, crimini efferati tra i più eclatanti a suon di flashback e interrogativi, manca solo che unisca le mani a specchio. Si muove però, e questa è la novità, all’interno di disegni, quelli di Chiara Fazi, entrando da porte e scendendo da scale tracciate a china, in una scenografia virtuale tra fumetti e ritagli di giornale. È così che dopo il delitto Casati Stampa e il caso Guerinoni, stasera tocca alla prima delle tre “black star” e in attesa di Marlon Brando e John Holmes ci racconta La storia di Charles Manson, guru-cantante e serial killer dall’infanzia difficile. Il piccolo Charles nasce infatti nel 1934 a Cincinnati da una turbolenta adolescente di nome Kathleen e deve il cognome a un suo fidanzato meteora dal quale non avrà nient’altro. Cresce in un’escalation di reati e detenzioni durante le quali impara a suonare la chitarra e si fa una cultura di magia nera, esoterismo e ipnotismo. Così quando a 33 anni esce di galera, è convinto di essere la reincarnazione di Gesù e Satana in un colpo solo, trova lavoro come predicatore hippy, fonda una setta, razzista ma animalista, che chiama The Family e tutti insieme se ne vanno allegramente a far danni in giro per la California su un pulmino nero.
E’ normale che dopo un po’ rapine, botte di acido e orge possono venire a noia e ci si lanci in qualcosa di nuovo, come la missione Helter Skelter suggeritagli, dirà, da quei quattro angeli dell’Apocalisse che si fanno chiamare Beatles. Non avendo sfondato nella musica nonostante l’aiuto dei Beach Boys, decide quindi di sfondare la villa a Cielo Alto del produttore della Columbia Terry Melcher, uno dei tanti che gli ha detto no, anche se adesso ci vivono i Polanski, e il 9 agosto del 1969 manda quattro dei suoi migliori adepti a massacrare a colpi di pistola e pugnale la moglie del regista Sharon Tate incinta di 8 mesi e cinque suoi amici. E siccome ci prendono gusto, al grido di “dai, facciamolo ancora!” e “vengo anch’io!” il giorno dopo si unisce pure lui alla brigata che va ad ammazzare a forchettate i coniugi LaBianca. Tradito da una sua seguace, Manson sconta l’ergastolo visto che un anno dopo la sua condanna a morte la California ha abolito la pena capitale.
Repubblica 15.2.14
Breivik in cella minaccia lo sciopero della fame “Voglio la paghetta e una Playstation nuova”
OSLO — Anders Behring Breivik, il 35enne norvegese di estrema destra autore del massacro di 77 persone a Utoja, ha minacciato lo sciopero della fame contro le sue condizioni di detenzione che paragona ad una «tortura». Tra le 12 richieste alle autorità carcerarie, la sostituzione della Playstation con il modello più aggiornato. Breivik chiede anche il raddoppio della paghetta settimanale di 36 euro che riceve come tutti gli altri detenuti.
il Fatto 15.2.14
La scelta del Belgio
L’eutanasia ai tempi di Erode
Chi conosce il vero dolore non si scandalizzerà
di Paolo Flores d’Arcais
La parola “eutanasia” viene spesso utilizzata come un’arma per negare il diritto di ciascuno di non essere torturato con sofferenze inenarrabili per il resto dei suoi giorni a causa di una malattia che lo abbia colpito. Il Foglio del sanfedista Giuliano Ferrara utilizzava ieri addirittura l’espressione “messi a morte” una quantità terroristica di volte, in riferimento a cittadini di cui deve però scrivere, quando esamina i casi concreti, “ha chiesto e ottenuto che”. Cittadini, dunque, che avevano semplicemente ottenuto di veder rispettata la loro libertà di non dover subire ulteriormente le mostruose sofferenze a cui si era ridotta la loro “vita”.
Perfino i condannati a morte per i delitti più efferati non possono più essere torturati prima dell’esecuzione, come avveniva invece tra grandi hurrà di popolo ancora tre secoli fa. Perché dovrebbe essere consentito nei confronti di chi è condannato a morte dal caso, dalla sciagura di una malattia? E chi altro può decidere se il dolore che vive sia insopportabile, sia tortura che ha reso la sua “vita” ormai l’opposto della vita, se non chi la prova nella carne e nel cervello? Chiedere che sia rispettata la propria volontà di non essere ulteriormente torturato, ed essere “messi a morte”, sono cose abissalmente distanti e anzi opposte, come capisce chiunque utilizzi il linguaggio per comunicare onestamente, anziché per prevaricare e schiacciare la volontà altrui al modo del despota totalitario immortalato da Orwell. Il terrorismo di chi usa “eutanasia” o locuzioni ancora più agghiaccianti (arrivando all’abiezione morale di richiamare le pratiche naziste, che di eu-thanatos, cioè “buona morte”, non avevano proprio nulla, visto che mai venivano invocate dalle vittime), per descrivere la richiesta di non essere più torturati, raggiunge il suo diapason quando si tratti di un bambino. La maggioranza delle persone che abbia ascoltato ieri i telegiornali o abbia scorso i titoli di alcuni “grandi” giornali “indipendenti” avrà pensato che il Parlamento belga sia in preda al disprezzo per i diritti e la vita dei minori. Eppure è vero esattamente il contrario.
La legge belga stabilisce che possa chiedere una morte liberatrice il bambino che sia costretto a “una sofferenza fisica costante e non sopportabile, che non può essere alleviata e che viene prodotta da una malattia grave e incurabile”. Il testo di legge prevede inoltre la duplice cautela di uno psicologo che stabilisca se il minore abbia preso in libertà la decisione, per la quale comunque è necessaria l’autorizzazione dei genitori. Dov’è dunque lo scandalo? Che cosa c’è in questa legge che non sia di alta civiltà, di umana pietas, di rispetto per chi soffre in forme che nessuno di noi riesce neppure a immaginare? Il “protocollo di Groningen”, con cui la possibilità dell’eutanasia pediatrica fu introdotto in Olanda, nacque perché i medici che della sofferenza di bambini senza speranza si prendevano cura davvero, portarono a conoscenza dell’opinione pubblica quali abissi di strazio potesse nascondersi dietro parole come “sofferenza”, che riusciamo a pronunciare tranquillamente (anche quando accompagnate da aggettivi come “inenarrabile”). L’Epidermolysis bullosa, ad esempio. Uno stato incurabile che progressivamente distrugge la pelle e auto-amputa le estremità. La pelle letteralmente viene via ogni volta che il bambino viene sfiorato, lasciando dolorosissime lacerazioni nel tessuto epiteliale. Gli strati più superficiali delle mucose della bocca e dell’esofago si staccano ogni volta che viene nutrito, funzione espletata per intubazione. A giorni alterni si devono cambiare le bende, staccarle dagli strati meno superficiali della pelle, strappare i tessuti di pelle appena riformatisi... Dopo molti anni sopravviene un letale cancro alla pelle.
Oggi un bambino (belga) può dire basta. Qualcuno ritiene che debba invece essere condannato a “vivere” queste o analoghe torture fino alla maggiore età? Davvero fino a questo punto può accecare l’ideologia o la religione?
il Fatto 14.2.14
Una legge che spaventa, una scelta terribile
di Marco Politi
Provoca un istintivo senso di spavento l’eutanasia estesa ai bambini di ogni età. Sgombriamo un equivoco. Nulla giustifica lo stereotipo eutanasia uguale progresso, opposizione uguale conservatorismo. Meno che mai l’eutanasia per i bambini è una vittoria progressista, mentre sarebbe reazionaria la ripugnanza di tante persone ispirate a visioni filosofiche e religiose le più diverse.
Certo, possono esserci casi drammatici che in quanto eccezionali tali devono rimanere. Ma la prima riflessione è che qui non si parla di accanimento terapeutico o di testamento biologico degli adulti. L’eutanasia in quanto tale non è una dolce morte, che allevia i mali. È un atto tragico con cui si spezza la propria vita. Un suicidio.
Le parole non mentono. Hanno una verità di fondo, che non si lascia falsificare. Suicidio significa “uccisione di se stesso”. Una decisione grave, un fatto grave. Una scelta, che rientra nella piena disponibilità – si potrebbe dire eroica – di ogni persona, che nella sua piena maturità decisionale, compie il salto nel buio. Una scelta da rispettare perché l’uomo o la donna a un certo punto della loro esistenza si sono trovati davanti al bivio senza scampo tra la vita o la morte.
Ogni burocratizzazione del suicidio-eutanasia, ogni tentativo di banalizzarlo nei binari di una serie di fredde procedure statali o di offerta di servizio da parte di un ente commerciale rischia di diventare una falsificazione dell’evento, che non dovrebbe mai diventare un evento normale. A questa riflessione se ne innesta un’altra. La società contemporanea non è di fatto una comunità solidale, dove tutti si “prendono cura dell’altro”, del debole, del sofferente. È una società frammentata, che produce isolamento, ed è un contesto in cui ogni momento dell’esistenza è fortemente caratterizzato dall’avere o non avere denaro. O dalla disponibilità di risorse dell’ente assistenziale pubblico. In questa società è forte la pressione a eliminare ciò che diventa costoso, irrisolvibile e in ultima analisi un peso per un piccolo nucleo familiare o per la collettività.
Ecco perché la banalizzazione dell’eutanasia rappresenta un pericolo crescente per i vecchi e i malati a oltranza, nei confronti dei quali prima o poi emerge la tentazione di disfarsene. È un discorso crudo ma vero. Ciò che è particolarmente pericoloso (e ripugnante) è la possibilità di manipolare il sofferente spingendolo ad augurarsi di “farla finita”. Tutti abbiamo avuto un genitore o un parente anziano e malato, che a un certo punto ha sussurrato “vorrei morire”. Ma tutti sappiamo che altra cosa è aiutarlo a prepararsi al trapasso con umanità, altra cosa è spingerlo a bere la pozione che apre la botola al vuoto.
La legge approvata in Belgio – quali che siano singoli casi estremi di incurabilità dolorosa – suscita spavento e ripugnanza perché credere giuridicamente che un bambino di otto, dieci, quindici anni sia pienamente padrone di sé al punto di desiderare la morte è profondamente falso. Nessun tipo di propaganda, per quanto a fini cosiddetti buoni, può rendere dritto lo storto. Papa Francesco, che suscita consenso perché parla da uomo e non da algido docente di una dottrina, parla di una cultura dello scarto che comincia con l’emarginazione del povero, continua con lo sfruttamento dei nuovi schiavi (scartati dai diritti concessi ai cittadini normali) e sfocia nella soppressione di chi non serve. Il bambino, che non è titolato a firmare un contratto per l’acquisto di una casa, in Belgio con una finzione inquietante viene giudicato idoneo a firmare un contratto di morte. Il Ventesimo secolo ha mandato in soffitta molte cose, che per secoli sono state “senso comune”. Ed era inevitabile. Ma questo non esime dalla necessità di avere delle tavole di valori, a cui ispirare la società contemporanea. La difesa del debole e il rispetto di chi è fragile sono valori, che spesso si riscontrano nelle giovani generazioni, e dunque degni di essere fondanti. La legge belga non va in questa direzione.
Corriere 15.2.14
Il vescovo che guida l’alleanza dei religiosi contro l’eutanasia
Fronte unico dai musulmani agli ebrei
di Ivo Caizzi
BRUXELLES — La Chiesa cattolica del Belgio ammette la sconfitta. Ma la prima legge al mondo che estende l’eutanasia ai bambini affetti da dolorose malattie terminali senza limiti di età, approvata definitivamente giovedì scorso dalla Camera belga, per l’arcivescovo di Bruxelles André-Joseph Léonard, presidente della Conferenza episcopale nazionale, è solo un battaglia nello scontro totale contro «il diritto di morire» ottenuto dai partiti laici. Già si sta preparando a contrastare l’attesa estensione dell’eutanasia ai malati di Alzheimer o con altri handicap mentali tali da rendere incapaci di intendere e di volere.
Leonard ha organizzato uno schieramento multireligioso, che si oppone ai socialisti del premier Elio Di Rupo, ai liberali e ai verdi, promotori della legge sulla «dolce morte» per i bambini incurabili e con sofferenze insopportabili. Lo compongono i leader dei musulmani, della comunità ebraica e delle Chiese protestanti, evangeliche, anglicana e ortodossa.
La larga maggioranza dei belgi, sia valloni francofoni, sia fiamminghi di origine olandese, è di fede cattolica. Ma i sondaggi indicano un consenso all’eutanasia (introdotta per gli adulti dal 2002) vicino al 70%, in quanto considerata tra le libertà personali. I media belgi sono apparsi sorpresi per le proteste arrivate dall’estero dopo il «sì» all’estensione ai bambini.
Alla vigilia del voto della Camera di giovedì scorso, Leonard aveva lanciato un veglia di preghiera nelle diocesi del Paese per sensibilizzare i cittadini. Ha anche elaborato uno specifico documento, dove elenca le ragioni del «no» dei cattolici.
Innanzitutto afferma che vari pediatri e infermieri indicano come «rarissimi» i bambini che chiedono l’eutanasia. Contesta che i minori siano ritenuti dalla legge belga «incapaci di prendere decisioni per la vita economica e affettiva, molto meno decisive rispetto all’eutanasia». I «dolori incontrollabili» e «l’enorme stress fisico e psichico delle persone che soffrono e si avvicinano alla morte» andrebbero affrontati con «palliativi efficaci e con sedativi adatti e progressivi».
Léonard fa capire che l’opposizione continuerà a oltranza perché quando diventa possibile «uccidere un essere umano innocente, è impossibile richiudere la porta che è stata aperta». I vescovi belgi temono che in futuro perfino i responsabili di minori con handicap mentali possano decidere l’addio alla vita al posto loro. Il passo legislativo successivo sarebbe «estendere l’eutanasia alle persone non sane di mente, che non hanno una coscienza chiara della loro identità».
In questi casi, come per i bambini, emerge la drammatica realtà dei genitori o delle persone che devono prendersene cura. «Come si è già verificato — ha spiegato Léonard —, molte persone anziane e potenzialmente soggette alla demenza saranno tentate di chiedere l’eutanasia per non diventare un peso» per i familiari. Potrebbero finire per incidere anche le «considerazioni economiche».
L’arcivescovo di Bruxelles respinge il principio del «diritto alla morte» come libertà individuale perché la sua diffusione può trasmettere «una preoccupante pressione» soprattutto «sulle persone più fragili». Ma, nonostante le proteste dei cattolici e delle altre religioni, la campagna elettorale in corso in Belgio fa ritenere a vari analisti che il prossimo governo considererà l’estensione dell’eutanasia a chi ha malattie mentali.
Corriere 15.2.14
Eutanasia e bambini, l’assurdità di una legge che scuote le coscienze
di Giovanni Belardelli
La legge belga che ha esteso ai bambini la pratica dell’eutanasia è di quelle che obbligano a fermarsi per riflettere, che interrogano nel profondo la nostra coscienza. Richiede anzitutto di andare oltre i titoli dei giornali che, per motivi di spazio, hanno scritto di eutanasia dei bambini; mentre la legge si applicherebbe soltanto ai minori che soffrono di una malattia incurabile allo stadio terminale, cui si aggiunga una sofferenza costante e insopportabile.
Quella legge insomma ci chiede di non fermarci alla prima impressione, di non scandalizzarci «in automatico» evocando paragoni grossolani (come il programma hitleriano per l’eliminazione dei bambini disabili). Di provare dunque a immaginare le indicibili sofferenze a cui il legislatore vorrebbe porre fine con la cura terribile e ultimativa della morte. Eppure, per quanto si considerino seriamente le ragioni di chi quella legge ha formulato e sostenuto, credo che vi siano gravi motivi per non essere d’accordo con ciò che contiene.
Un primo, evidente elemento di assurdità della nuova legge risiede nel fatto che l’eutanasia deve essere richiesta dal bambino stesso, a condizione che entrambi i genitori siano d’accordo. Per quanto si sia sostenuta la «impressionante maturità» dei minori allo stadio terminale della malattia, la loro piena consapevolezza resta molto difficile da ammettere. Supponendo che la legge non si applichi ai bambini molto piccoli (ma il testo comunque non contiene alcun limite d’età), è comunque assai arduo accettare che a un adolescente — cui sono vietate un’infinità di cose in considerazione della sua età — venga invece concessa la possibilità di decidere della propria morte.
Il fatto che alla legge fosse favorevole la maggioranza dell’opinione pubblica belga vuol dire, naturalmente, poco. Sia perché, se siamo contrari alla pena di morte, non possiamo certo diventare favorevoli solo perché la maggioranza è favorevole. Sia perché lascia sconcertati la motivazione che starebbe dietro il consenso di molti belgi, favorevoli all’eutanasia per i minori — come riferiva Ivo Caizzi ieri su questo giornale — in quanto vi vedrebbero un’ulteriore estensione delle libertà individuali. Comunque, per quanto minoritarie, le voci dissenzienti non erano affatto mancate: si erano pronunciati contro la legge sia i rappresentanti delle chiese cristiane e delle comunità religiose islamica ed ebraica, sia — da ultimo — un nutrito numero di pediatri, ciò che avrebbe dovuto suggerire di non procedere a colpi di maggioranza, cercando per giunta di bruciare i tempi del passaggio tra Senato e Camera. Se sono generalmente richieste procedure e maggioranze particolari per cambiare la Costituzione di un Paese, lo stesso dovrebbe valere di fronte ad argomenti particolarmente delicati sotto il profilo etico.
Ma la principale obiezione riguarda l’idea di Stato che è implicitamente contenuta nella legge belga. È discutibile, infatti, che la soluzione migliore per affrontare i pochi casi di cui potrà occuparsi (in Belgio, dove l’eutanasia per adulti è consentita dal 2006, finora vi è stato un solo caso relativo a un ragazzo di meno di 20 anni), fosse proprio quella di una legge. Lo Stato regola già un’infinità di ambiti della nostra esistenza; ma almeno quel terreno di passaggio, che sta tra la vita e la morte di un bambino nella condizione di malato terminale, dovrebbe essere lasciato alla straziata sollecitudine dei genitori e alla compassionevole cura di medici che ormai dispongono di molti modi per evitare l’accanimento terapeutico e la percezione del dolore.
il Fatto 15.2.14
Germania, soffiata a luci rosse costa il posto al ministro
Si è dimesso Friedrich, responsabile dell’agricoltura: aveva segnalato ai vertici del SPD che il deputato socialdemocratico Edathy era sotto inchiesta per pedopornografia
di Mattia Eccheli
Un ex ministro degli Interni è la prima vittima di un giallo politico giuridico dai contorni scabrosi. Hans-Peter Friedrich ha annunciato di aver offerto le dimissioni da responsabile dell’Agricoltura, dicastero al quale era stato nominato in dicembre, in seguito alle polemiche scatenate dal “caso Edathy”. Lo scorso ottobre, quando ancora era agli Interni, il 57enne esponente della Csu bavarese aveva informato Sigmar Gabriel, oggi vice-cancelliere e sempre segretario della Spd – partito con il quale erano cominciate le trattative per formare un governo – del coinvolgimento di Sebastian Edathy, 44 anni, giovane rampante del Partito Socialdemocratico, in un’inchiesta internazionale di carattere pedopornografico.
Nella dichiarazione pubblica di 120 secondi, Friedrich ha ribadito di essere convinto di aver agito “politicamente e giuridicamente in modo corretto”. Politicamente è possibile: avvisando la Spd dell'inchiesta ha evitato una maggiore esposizione di Edathy, la cui posizione era delicata. Giuridicamente è discutibile, tanto che la Procura di Berlino sta valutando se esistano gli estremi per aprire un fascicolo per “rivelazione di segreto d'ufficio”. Ancora nella mattinata di ieri, dopo che già giovedì Linke e Grüne e i liberali della Fdp avevano incalzato il ministro avanzando le prime richieste di dimissioni, Friedrich aveva fatto sapere che non era sua intenzione lasciare. Attorno alle 16, la retromarcia. Il silenzio di Angela Merkel è stato assordante. Anche se mezzora dopo la conferenza stampa dell’ex ministro, ha sentito la necessità di intervenire spiegando di aver accettato le dimissioni. Gli ha concesso l’onore delle armi parlando di un gesto di grande responsabilità politica, riconoscendogli la grande correttezza con la quale ha messo “gli interessi del Paese davanti ai propri”. Circa il nome del successore, la cancelliera ha detto di attendersi delle indicazioni dal presidente della Baviera, Horst Seehofer. In ottobre Friedrich aveva informato Gabriel , dell’inchiesta partita dal Canada. In novembre, ha confermato ieri il Procuratore capo di Hannover Jörg Fröhlich, il legale di Edathy si era informato presso diverse Procure e presso la polizia criminale circa possibili inchieste a carico del proprio assistito. Fröhlich (che in italiano vuol dire “allegro”) si è dichiarato preoccupato per la fuga di notizie. Le indagini sono andate avanti e lo scorso 8 febbraio, Edathy si è dimesso dal Bundestag, ufficialmente per ragioni di salute. Nelle stesse ore la perquisizione di casa e uffici.
Il procuratore ha spiegato che tra il 2005 e il 2010 l’uomo aveva effettuato nove ordini presso un'azienda canadese: sette consegne sono arrivate per posta e due sono state scaricate online per un totale di 31 tra film e gallerie fotografiche con giovani tra i 9 e i 13 anni senza vestiti. Secondo lo stesso Fröhlich si tratta di materiale che, dal punto di vista giuridico, è al limite della pornografia infantile. Edathy si sarebbe servito anche della rete del Bundestag. Le opposizioni hanno già chiesto di fare chiarezza direttamente al Bundestag. “Non escludiamo di istituire una commissione d’inchiesta”, ha dichiarato Bernd Reixinger, uno dei leader della sinistra di Die Linke. “Un’inchiesta è necessaria”, ha confermato Katrin Goering-Eckhardt, co-leader dei Verdi.
Repubblica 15.2.14
Scandalo pedofilia, trema la grosse Koalition
Si dimette un ministro: informò l’Spd dell’inchiesta su un deputato. Bufera sul vice della Merkel
di Andrea Tarquini
Berlino. Scoppia la prima crisi per il governo di grosse Koalition guidato da Angela Merkel, in carica dalla fine dell’anno scorso. Ed è una crisi brutta, che getta ombre cupe sull’immagine dell’esecutivo, perché il suo tema è un caso di indagine per possesso di pornografia pedofila. Il ministro dell’Agricoltura federale, Hans-Joachim Friedrich, si è dimesso ieri sera, pur non avendo personalmente nulla a che fare con pedofilia, pornografia illegale o simili. E tutti i media online dicono che di fatto è stata la cancelliera in persona a cacciarlo per salvare il governo e punire un gravissimo errore. Friedrich, membro di spicco della Csu bavarese, era però ministro dell’Interno nel precedente governo Merkel, quello formato da Cdu, Csu e liberali (Fdp). E in tale veste, aveva avvertito i vertici della Spd (socialdemocrazia) che sull’allora influente deputato socialdemocratico Sebastian Edathy era in corso un’indagine per possesso di materiale pedofilo pornografico online. L’avvertimento del ministro conservatore è venuto ai verticidella Spd, scrivono i media, proprio mentre erano in corso i negoziati tra il centrodestra di Angela Merkel e appunto la socialdemocrazia per formare la nuova maggioranza.
Dell’indagine su Edathy si è saputo nei giorni scorsi quando la polizia ha perquisito il suo ufficio e la sua abitazione sequestrando computer e dischetti con materiale pesantemente sospetto, e già allora lo shock dell’opinione pubblica e lo sgomento nelle file del partito socialdemocratico sono stato grandi. Ma la situazione è precipitata ieri quando si è appunto saputo che in ottobre Friedrich aveva informato i massimi vertici della Spd - tra cui è l'attuale vicecancelliere e superministro dell'Economia ed Energia Sigmar Gabriel e l'attuale ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier - dello scottante e pesante caso. L’indagine su Edathy ruota attorno a presunte ordinazioni online di foto di minorenni, anche se non è esattamente chiaro se e quanto in termini giuridici le immagini possano essere giudicate come pedopornografia. Edathy nega di aver mai posseduto materiale pedofilo e pornografico.
Ma al di là degli sviluppi giudiziari, il problema è stato sia la scelta di Friedrich, appunto allora ministro dell’Interno, di informare confidenzialmente i futuri partner di governo, sia il silenzio tenuto sul caso anche da loro. Il pesante sospetto di un atteggiamento quasi da omertà scelto dai due blocchi (centrodestra e spd) per non compromettere i negoziati sul nuovo governo e l’immagine della grosse Koalition, è diffuso e grave in un momento difficile per l’Europa intera. Friedrich ha affermato di aver voluto assumersi «una responsabilità politica indipendentemente da valutazioni legali», ma tutto indica – segnalano Spiegel online, il sito della Sueddeutsche e gli altri media digitali stasera - che l’intervento di Angela Merkel è stato decisivo per le sue dimissioni. E pessimisti e allarmisti non escludono che la testa di Friedrich sia solo la prima a cadere. Magari il prossimo a gettare la spugna sarà un leader spd, anche al massimo livello. E così il rischio di instabilità al vertice nella prima potenza del Continente si proietta su tutta l’Europa, nel difficile clima tra crisi economica e sociale e campagna elettorale.
il Fatto 15.2.14
Joanna, la seriel killer della porta accanto
Dennehy non ha avuto traumi infantili eppure in 14 giorni ha ammazzato tre uomini ferendone altri due. Voleva essere nota a tutti i costi
di Paul Peachey
Joanna Dennehy, 31 anni, è un personaggio unico nel panorama dei serial killer britannici. Non corrisponde al modello Myra Hindley o Rose West in qualche modo succubi di un partner che le dominava. Non è il classico serial killer che, ad omicidio compiuto, ritorna alla vita normale prima di uccidere la vittima successiva. E non lo faceva per denaro. Nell’arco di 14 giorni ha ucciso tre uomini e ne ha gravemente feriti altri due. Il suo comportamento sembra più quello dell’assassina presa d’improvviso da una furia cieca all’interno della quale ogni omicidio faceva scattare il successivo. Dopo aver assassinato la terza vittima telefonò ad una amica e si mise a canticchiare la canzone di Britney Spears: “Ooops... l’ho fatto di nuovo!!”. “Non si rendeva conto della stranezza del suo comportamento”, ha detto il prof. David Wilson, esperto di serial killer. “Non riusciva più a distinguere tra fantasia e realtà”. La storia della discesa agli inferi di Joanna, da bambina amata e cresciuta in una famiglia del tutto normale e affettuosa a feroce assassina, può essere raccontata ora che due dei suoi complici sono stati condannati per averla aiutata a liberarsi dei cadaveri.
UNA COSA è certa: Joanna, madre di due figli, era avida di notorietà. Quando vide in televisione un servizio sui suoi omicidi, iniziati il 19 marzo dell’anno passato - accoltellò il polacco Lukasz Slaboszewski, 31 anni, che aveva commesso il fatale errore di credere che Joanna fosse interessata a lui - fece salti di gioia. Dieci giorni dopo uccise John Chapman, 56 anni, nel suo appartamentino monocamera. Anche Chapman fu pugnalato al cuore e poi fotografato. Quello stesso giorno, Joanna Dennehy uccise Kevin Lee, 48 anni, suo padrone di casa e amante che pare fosse ossessionato da Joanna.
Come ultimo atto di crudeltà, Joanna lo rivestì di nero prima di gettare il corpo in una discarica come aveva fatto con gli altri due sventurati; tuttavia non era soddisfatta e voleva uccidere ancora. Insieme all’amico Gary Stretch, uno scassinatore fallito alto più di due metri, si recò in auto nella sua cittadina natale di Hereford. Lungo la strada si fermarono in casa di amici e Joanna disse candidamente: “Sono un’assassina. Ho ammazzato tre persone. Gary mi ha aiutato a liberarmi dei cadaveri e io non ho alcuna intenzione di smettere. Mi voglio divertire”. I due superstiti – che erano stati feriti gravemente – hanno testimoniato in tribunale contro Stretch e un altro amico di Joanna, Leslie Layton, condannati per occultamento di cadavere e intralcio alla giustizia. Quando hanno chiesto a John Rogers, sopravvissuto all’aggressione di Joanna, cosa avrebbe voluto chiederle, John ha risposto: “Perché? Perché lo hai fatto?”.
Joanna Dennehy era una bugiarda patologica. Raccontava a tutti di essere stata in prigione per aver ucciso il padre che abusava di lei, la qual cosa era assolutamente falsa. Il padre fa la guardia giurata ed è vivo e vegeto. I suoi dicono che Joanna ha avuto una infanzia felice, ma che da adolescente ha cominciato a bere e a fare uso di droghe. “Credo che la droga e l’ambiente che ha frequentato ha fatto scattare qualcosa di tremendo nella sua mente”, ha detto la sorella Maria.
Joanna se ne andò da casa a 15 anni e iniziò una turbolenta relazione con John Treanor che aveva cinque anni più di lei e dal quale ebbe due figli. Il rapporto contrassegnato da frequenti litigi e da violenze da parte di Joanna, finì quando Treanor se ne andò con i figli accusando Joanna di essere manesca, violenta e pericolosa per lui e per i figli. Dopo la rottura Joanna si trasferì a Peterborough dove andò ad abitare in un monolocale di proprietà di una delle sue vittime, Kevin Lee, facendo qualche lavoretto in cambio dell’appartamentino in cambio dell’affitto. Di Kevin divenne anche l’amante. Un anno prima dall’accesso di follia che la portò a diventare una serial killer, Joanna era stata ricoverata nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Peterborough dove le erano state diagnosticati una serie di disturbi psicotici e altri disordini mentali. Diceva di soffrire di depressione e di aver sempre avuto l’abitudine di provocarsi delle ferite. Sullo stomaco aveva profonde cicatrici che si era procurate ferendosi con un rasoio. Questa mania di fotografarsi nell’atto di uccidere evidentemente la faceva sentire importante e in questo modo era certa di poter diventare una persona famosa. La sentenza non è stata ancora pronunciata e verrà emessa insieme a quella contro i tre uomini che aveva convinto ad aiutarla. “Se è una psicopatica vuol dire che le piace essere al centro dell’attenzione”, ha detto il dottor Lundigran, criminologo e docente alla Anglia Ruskin University. “Una volta spente le luci della ribalta può anche darsi che decida di spiegare perché lo ha fatto, non fosse altro che per continuare a ricevere l’interesse dei media e dell’opinione pubblica”.
La Stampa 15.2.14
Dresda, i neonazi sepolti da una risata
Migliaia di persone comuni ricordano le vittime delle bombe alleate. Slogan di scherno contro i nostalgici
di Tonia Mastrobuoni
All’angolo della piazza dove in serata sono annunciate botte da orbi, il caffè ospita il solito miscuglio tranquillo di vecchietti che sorseggiano il tè e operai con la birra del dopolavoro. Ernst è all’ingresso con un boccale di pils in una mano e una sigaretta nell’altra.
«Sogno il momento che torneremo a ricordare questi giorni senza i nazisti e i centri sociali di mezzo. Il silenzio davanti alla Frauenkirche, le candele, le preghiere. Come facevo con i miei genitori, quando ero piccolo».
Siamo alla vigilia della commemorazione dei giorni che sconvolsero Dresda. Il carnevale del 1944, circa 2.400 tonnellate di bombe degli Alleati caddero sulla «Firenze sull’Elba» causando 25 mila morti e radendo al suolo l’80% degli edifici. Un’ecatombe che il romanziere americano Kurt Vonnegut denunciò in un capolavoro, «Mattatoio numero 5». La città che Canaletto aveva già immortalato come una delle perle del barocco europeo, non era stata rasa al suolo per ragioni militari, ma per quel «moral bombing» con cui Churchill aveva voluto punire un popolo che si era reso colpevole dei peggiori crimini di guerra a memoria d’uomo.
La sera prima delle cerimonie ufficiali, i neonazisti della zona si sono dati però appuntamento al «Theaterplatz» dove Ernst si sta gustando la birretta. Lo fanno da decenni. Anche quando c’era la Germania comunista: «Solo – spiega Ernst con un ghigno – che all’epoca, ufficialmente, non esistevano». Con rabbia spegne la sigaretta con la punta della scarpa, con forza, come per farla sparire nell’asfalto. Se ne va: «Non li voglio vedere», borbotta.
Manca un’ora all’arrivo delle teste rasate, ma nonostante il brevissimo preavviso con cui
il Comune ha concesso loro l’autorizzazione, ci sono già i primi contro-manifestanti con i loro cartelli. Nel giro di poco, la piazza davanti al teatro si riempie di un migliaio di persone; ci sono molti studenti, ma anche famiglie con bambini, gruppetti di anziani che cantano canzoni di chiesa ma anche qualche ragazzo incappucciato con mazze ben visibili che spuntano dallo zainetto. Alle sei e qualche minuto, l’arrivo delle teste rasate è annunciato dalle urla che cominciano a invadere tutta la piazza, dal coro unanime «nazis raus», via i nazisti, che contagia tutti. Ma dalla rabbia, dai frequenti cori, persino in italiano, come «siamo tutti antifascisti», si passa con incredibile facilità al riso: qualcuno grida «fate come il Führer, suicidatevi», un gruppo canta «Stalingrado, che meraviglia, nonno nazi sei morto là», un altro «avete perso la guerra».
Loro, le teste rasate, sono qualche decina, all’inizio. Diventeranno un centinaio nel corso della serata. Sono arrivati su un camioncino con gli altoparlanti, con patetici cartelli che ricordano le «vittime del terrore degli Alleati». Siccome la piazza è piena di dresdeniani che intonano
un coro dopo l’altro – c’è anche un signore con la barba bianca che con voce baritonale scandisce versi di Hölderlin – i nazi sono costretti a rifugiarsi sul ponte sull’Elba. Assieme a loro sono arrivate una trentina di camionette e tanti poliziotti che dividono i due fronti. Dai sorrisi sotto i caschi verso i manifestanti, è ovvio con chi stanno.
Per molti, lunghissimi minuti, non succede nulla. A un certo punto, un microfono gracchia. Le prime parole del proclama, però, sono coperte da una selva di fischi e un boato immenso. E nel frastuono che segue, non si sente più nulla, solo qualche frammento farneticante «onoriamo i martiri di Norimberga» e idiozie simili. Improvvisamente escono dalle casse mezze scassate le note, surreali, di un valzer. Poi, lunghi brani wagneriani. Il camioncino comincia a muoversi, con le teste rasate che lo seguono, circondate da tre file di poliziotti che li proteggono dai manifestanti – alcuni hanno cominciato a lanciare oggetti, pietre, bottiglie. Vengono immediatamente allontanati, per un po’ il clima è teso, volano schiaffoni e manganellate.
La serata, poi, continua all’insegna di una comica caccia all’inseguimento dei neonazisti marcianti, con alcuni episodi di tensione ma con la polizia sempre vigile, finché alcuni anti-nazisti bloccano persino le rotaie della stazione centrale. Ma il tono predominante continua ad essere lo scherno, si ride di continuo, li invitano in versi a buttarsi al fiume. A metà corteo, le neo camicie brune vogliono fermarsi per un minuto di silenzio. Un capetto dà ordini militari. Ma i dresdeniani attorno rovinano la solennità del momento: partono pernacchie, fischi, urla «siete dei perdenti».
Il giorno dopo, sono attese le commemorazioni ufficiali, la sindaca Helma Orosz cercherà di mantenere quel complicato equilibrio su cui i dresdeniani funamboleggiano da 70 anni, tra il ricordo dei morti e quello della responsabilità del più feroce regime del Novecento, lei ricorderà i campi di concentramento e i bombardamenti nazisti di Coventry. Ma già la mattina, sui quotidiani, i dresdeniani ed Ernst possono gioire di una novità importante. Per la prima volta da anni, i neonazisti hanno rinunciato al corteo del giorno dell’anniversario, umiliati dal trattamento del giorno prima. Una risata li ha seppelliti.
La Stampa 15.2.14
Il no danese al kosher scatena l’ira di Israele
Copenhagen: «Lede i diritti delle bestie». Il rabbino David Lau «Affronto alla nostra religione»
Stop alla macellazione ebraica. La replica: in Europa c’è antisemitismo
Polonia, Svezia, Olanda e Svizzera hanno già bandito la macellazione ebraica (e musulmana)
di Maurizio Molinari
La Danimarca proibisce la macellazione rituale ebraica della carne e Israele reagisce parlando di «antisemitismo dilagante in Europa» anche perché tale vicenda coincide con «l’ostilità nei confronti degli ebrei nella vita pubblica in Ungheria».
Sono i notiziari radio del mattino, il più seguito mezzo di informazione dagli israeliani, a dare la temperatura di quanto sta avvenendo. Tanto «Reshet Bet» che «Gaalei Zahal» aprono le edizioni del mattino parlando di «atmosfera antisemita in Europa». Il focus è sulla Danimarca perché il governo di Copenhagen ha deciso di mettere al bando, da lunedì, la «shechità» la macellazione rituale ebraica giudicandola «contraria ai diritti degli animali».
È il ministro dell’Agricoltura Dan Jorgensen a spiegare che «i diritti degli animali vengono prima della religione» e dunque la comunità ebraica locale 6000 anime non potrà avere la carne kosher, ovvero ritualmente consentita, fino a quando «la pratica non sarà modificata». Per Copenhagen è l’occasione di riaffermare il rispetto dei diritti degli animali dopo le polemiche seguite all’uccisione di un cucciolo di giraffa nello zoo locale, ma Finn Schwarz, presidente della comunità ebraica danese, parla di «violazione dei diritti di una minoranza che non ha il potere politico per difendersi».
Menachem Margolin, presidente dell’Associazione ebraica europea, ha telefonato alla premier danese Helle Thorning-Schmidt per chiedere una marcia indietro. Si tratta di una vicenda assai più estesa della Danimarca: Polonia, Svezia, Olanda e Svizzera hanno già bandito, in forme differenti, la macellazione ebraica (e musulmana), mentre in Belgio sono state trasmesse pubblicità che paragonano le bestie uccise agli ebrei sterminati dai nazisti e altrove, dalla Germania alla Norvegia, il movimento anti-«shechità» prende piede.
«È un antisemitismo che mostra il suo vero volto e si rafforza dentro le istituzioni europee» afferma Eli Ben-Dahan, vice ministro degli Affari Religiosi parlando a nome del governo e Naftali Bennet, ministro dell’Economia e importante alleato del premier Netanyahu, preannuncia: «Ci batteremo ovunque a fianco delle comunità ebraiche affinché i loro diritti vengano rispettati». I contenuti della replica di Gerusalemme sono affidati a David Lau, rabbino capo di Israele: «Le pratiche della macellazione kosher sono fra le più umane, la decisione danese è un affronto alla religione ebraica».
La polemica è destinata a complicare il rapporto fra Europa e Israele perché si sovrappone alle posizioni presenti nell’Ue favorevoli al boicottaggio dei prodotti «made in Israel» provenienti dalla Cisgiordania. Ad accrescere il sospetto israeliano che qualcosa in Europa stia andando nel verso sbagliato è la frequenza di toni e termini antiebraici nella vita pubblica in Ungheria, al punto da spingere il ministero degli Esteri a convocare l’ambasciatore magiaro per esprimere «forte preoccupazione».
Repubblica 15.2.14
Si “risveglia” il Coniglio di giada la sonda diventa l’orgoglio cinese
Diretta tv no-stop: si apre l’era della robotica sentimentale
di Giampaolo Visetti
Pechino. Moribonda, defunta, anzi risorta. Più che una sonda spaziale, una creatura. Propaganda cinese: si apre l’era della robotica sentimentale. Questione di patriottismo, eufemismo per esorcizzare l’incubo del potere di Pechino: perdere globalmente la faccia. Per la festa delle lanterne, quando anche le ragazze potevano uscire nel buio per scoprire la luna, i cinesi sono stati così di nuovo con il fiato sospeso e con il naso all’insù. Non solo botti: a farli trepidare, previo martellamento dei media di Stato, è il destino di “Yutu”, rover popolare quanto Mulan, battezzato “Coniglio di giada” per elevare l’universo alla portata di un bambino.
Aveva toccato trionfalmente la luna il 14 dicembre, in un’apoteosi di retorica nazionalista. «L’epoca radiosa della Cina nello spazio - aveva scritto il Quotidiano del popolo - è cominciata dalla Baia degli arcobaleni». Il 2 gennaio il primo pisolino. Il 25 quello che era stato presentato come «l’ultimo respiro del Coniglio», dal nome del mitico animale che nella volta celeste preparava l’elisir dell’immortalità per la principessa Chang’e. Mercoledì il necrologio degli scienziati, in diretta tivù: «La sonda non è più operativa, la missione è fallita». Come se la Cina avesse perso la finale olimpica di ping-pong. L’anno del Cavallo, per il partito, non avrebbe potuto cominciare sotto auspici più nefasti. Miliardi buttati. Peggio, umiliazione insostenibile verso Washington e Mosca, ultimi concorrenti ad azzardare una simile missione: 37 anni fa. Infine il colpo di scena, quando il destino del “Coniglio di giada” era già consegnato a un imbarazzato silenzio politico di massa.
«Qui terra, c’è qualcuno lassù?», ha chiesto via radio Pei Zhaoyu, stremato portavoce del programma spaziale promosso dalla leadership rossa. «Bop», «bip» e la creatura rispose. «Fermi, ha ripreso conoscenza - ha gridato il professor Pei - possiamo salvarlo». Una scossa, nemmeno la Cina avesse demolito il basket Usa, proprio mentre il segretario di Stato John Kerry atterrava a Pechino. Tivù pubblica no-stop, assalto al web e raffica di lanci dell’agenzia Xinhua. Misteri dei cuori dell’Asia, capaci di battere a comando per una macchinetta a sei ruote da 140 chili, incaricata di verificare se la luna nasconde l’energia del futuro. Non solo emozioni da regime, però.
“Coniglio di Giada” è la prova generale della più larga egemonia della Cina, la sola potenza a potersi ancora permettere di offrire giocattoli all’universo. Dopo le prime due sonde, 2007 e 2010, deve aprire la strada alla quarta nel 2017 e ai primi astronauti di Pechino, nel 2025: toccherà a una compagna, 66 anni dopo Armstrong. Passaggio di consegne, i nuovi mandarini della Città Proibita non possono fallire. «Le comunicazioni sono normali - ha esultato il capo progettista Zhang Yuhua - restano problemi, ma il robot s’è risvegliato dal secondo sonnellino». Ad attaccare circuiti elettronici e pannelli solari, il gelo della notte lunare: due settimane di buio e 173 gradi sotto zero. E ora? Risurrezione o commiato? La Cina veglia, chi pagherebbe (a torto) per la pelle del suo “Coniglio” surgelato, assopito sulla luna, anche. «Buonanotte esseri umani», ha postato un internauta su
Weibo che da due mesi parla da sonda. In attesa dell’alba decisiva, il presidente Xi Jinping si rilassa: 9 milioni di euro per un Mao di Andy Warhol, due climbers russi in cima alla Shanghai Tower. È Pechino a essersi risvegliata su un altro pianeta.
Corriere 15.2.14
Cina, la maxi retata contro la città a luci rosse
Soffiate da parte di funzionari corrotti
In manette anche il capo della polizia
di Guido Santevecchi
PECHINO —L’operazione si chiama «Spazzare via il Giallo» ed è cominciata lunedì a Dongguan, la Città del Peccato nel profondo Sud cinese. Giallo è il colore della prostituzione in Cina. Seimilacinquecento poliziotti sono stati mandati in strada per una gigantesca retata contro il sesso a pagamento. Dongguan, nel Delta del Fiume delle Perle, è considerata la capitale del vizio: 300 mila prostitute e 800 mila «impiegati nell’indotto», tra sfruttatori, protettori, proprietari e dipendenti di saune, karaoke, finti negozi di barbiere e massaggi ai piedi, alberghi con stanze a ore. Significa che quasi un abitante su dieci di Dongguan lavora a luci rosse. Si calcola che producano il 30% dei profitti del «settore servizi».
Lunedì la retata ha portato all’arresto di 67 persone e alla chiusura di una dozzina di locali. L’aveva ordinata il segretario del partito comunista della provincia, Hu Chunhua, candidato ad entrare nel Comitato permanente del Politburo di Pechino. E qualcuno dice che con i contatti e l’abilità che ha dimostrato alla guida della città, il compagno Hu potrebbe succedere a Xi Jinping, tra nove anni.
I giornali cinesi hanno dato grande risalto all’operazione, che era stata preceduta da un’inchiesta mandata in onda dalla Cctv, la televisione di Stato. Ma subito sono cominciate le polemiche: anzitutto 67 arresti sono apparsi incredibilmente pochi vista la mobilitazione di 6.500 poliziotti e il numero dei locali adibiti a bordelli, valutato in non meno di duemila nella zona. Su Sina Weibo, versione cinese di Twitter, sono piovuti migliaia e migliaia di sospetti: ufficiali corrotti avrebbero avvisato i capi degli sfruttatori. Poco dopo, le autorità hanno annunciato che una decina di funzionari di polizia collusi sono stati sospesi. Ieri anche il capo della polizia e vice sindaco della città, Yan Xiaokang, è stato rimosso, cacciato per «negligenza».
Ma non è finita qui. Sulla Rete si è sollevata anche un’ondata di solidarietà per le prostitute di Dongguan. Gli hashtag «Siamo tutti cittadini di Dongguan» e «Dongguan tieni duro» sono diventati popolarissimi, con 200 mila contatti in poche ore. Poi sono intervenuti i sociologi, anche quelli dell’Accademia delle Scienze Sociali, rispettata organizzazione governativa. L’accademica Li Yinhe ha scritto sul suo blog che l’attacco a Dongguan è inutile: «Se anche la città fosse svuotata dalle prostitute, i clienti andrebbero a cercare le loro prede altrove». Secondo la dottoressa Li, l’industria del sesso potrebbe essere messa sotto controllo solo legalizzando la prostituzione, che è un reato amministrativo in Cina. Il sesso a pagamento è stato messo fuorilegge ai tempi di Mao: prostitute e clienti sorpresi sul fatto rischiano 15 giorni di detenzione e 5 mila yuan di multa (600 euro).
Altri hanno analizzato l’aspetto economico del business: il giro d’affari legato al sesso vale almeno 6 miliardi di euro l’anno a Dongguan (e si dice 120 miliardi in tutta la Repubblica popolare). A Dongguan questa industria è esplosa a partire dal 2009, quando la città nel Delta del Fiume delle Perle, polo industriale e commerciale, è stata travolta dalla crisi finanziaria e dalla concorrenza degli altri grandi centri della provincia cantonese. Alberghi improvvisamente vuoti, migliaia di operai e operaie senza lavoro. La città si è riciclata dedicandosi all’industria del sesso.
Così il caso di Dongguan, Città del Peccato, si è trasformato in un dibattito economico, sociale, politico. Qualcuno sostiene che per il segretario locale del partito, Hu Chunhua, l’offensiva contro la prostituzione si sia trasformata in una battaglia per il suo futuro di leader nazionale. Corre voce che l’inchiesta della tv di Stato che lo ha spinto ad agire sia stata ordinata da molto in alto, a Pechino. Quasi una trappola, visto che le retate a Dongguan sono ricorrenti da anni e che dopo le «brillanti operazioni» con qualche povera prostituta ammanettata ed esibita di fronte alle telecamere, tutto riprende come prima.
Intanto l’operazione «Spazzare via il Giallo» va avanti, si è allargata a tutto il Guangdong ed è arrivata al Nord, dove ieri 4.200 poliziotti hanno setacciato le saune di Harbin, capitale dello Heilongjiang.
L’agenzia di stampa cinese Xinhua riferisce che durerà tre mesi, gli arresti sono arrivati a 950, i locali controllati a 20 mila. E il Quotidiano del Popolo è passato al contrattacco contro chi simpatizza con le prostitute e vuole depenalizzare il loro lavoro: «Blasfemia contro la civilizzazione».
Corriere 15.2.14
Quei Centri di rieducazione in Cina smascherati dalla stampa di Pechino
di Guido Santevecchi
Due mesi dopo l’annuncio della fine dei «laojiao», i campi cinesi di «rieducazione attraverso il lavoro», si scopre quello che si era temuto: sono stati sostituiti da nuove strutture con nomi diversi. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso, spaventare e punire con la privazione della libertà, senza processo, il popolo delle petizioni, la povera gente che subisce un torto dalle autorità locali e si rivolge al governo centrale per chiedere giustizia: un diritto che discende dalle dinastie imperiali della Cina. Ora, nella provincia centrale dello Henan, si chiamano «centri per il rimprovero e l’educazione per chi ha presentato petizioni anomale». Questa è la brutta notizia. Ma ce ne sono due buone: il trucco è stato rivelato dalla stampa di Pechino, rilanciato dall’agenzia ufficiale «Xinhua» e dal Quotidiano del Popolo; e il governo ha assicurato che l’ordine di chiudere i nuovi «laojiao» è stato già eseguito.
I primi a denunciare i nuovi centri di rieducazione sono stati i blogger, la voce della classe media cinese. Il caso è stato sposato dalla stampa, che pure è controllata strettamente dal partito comunista. Ieri il Quotidiano del Popolo ha raccontato il caso di una donna di 69 anni detenuta da una settimana per aver cercato di presentare una «petizione anomala». Sono stati intervistati degli avvocati dei diritti civili che hanno spiegato come le condizioni di detenzione nello Henan fossero anche più penose di prima: «Rieducazione e ammonimenti 24 ore su 24». Sono stati individuati centri di detenzione di questo tipo in diverse città, Nanyang, Zhumadian, Dengzhou, Xinxiang. Nel giro di poche ore la risposta del governo centrale annunciata dalla «Xinhua»: «Sono stati inviati sul posto commissioni d’inchiesta e investigatori in incognito, i colpevoli dei maltrattamenti saranno puniti e le strutture subito chiuse».
C’è da credere che i «laojiao» con nomi nuovi siano diffusi in molte altre province dell’impero. Ma è comunque un segnale confortante che l’abuso sia stato denunciato dalla gente e rilanciato dai giornali. È il segno che una società civile sta nascendo anche in Cina. Una nuova lunga marcia è cominciata.
Corriere 15.2.14
Quelle visite di solidarietà in Siria
L’internazionale nera con Assad
Gli italiani: «Combattono anche per noi contro il terrorismo»
di Davide Frattini
GERUSALEMME — «Qualcuno propone di prendere dei falafel. In fondo la vita continua». Così finisce il racconto della prima giornata a Damasco per il gruppo di italiani che ha deciso di visitare la Siria proprio nei giorni di un possibile bombardamento americano. È il 30 agosto dell’anno scorso, resteranno nel Paese per quasi due settimane.
Il viaggio è stato organizzato dal Fronte europeo per la Siria, tra i partecipanti c’è Giovanni Feola che dell’organizzazione è il responsabile a Roma ed è stato candidato per Casa Pound alle elezioni amministrative nella capitale. Un altro italiano, Matteo Caponetti, coordina le azioni del movimento anche all’estero: è tra gli attivisti dell’associazione Zenit, che sul suo sito esalta lo scrittore francese Robert Brasillach e «la gioia di essere fascista fino alla morte» o Corneliu Codreanu con le sue Guardie di ferro rumene «perché ha incarnato la lotta per il suo popolo racchiudendo in sé un amore incondizionato per la propria terra».
Adesso è Bashar Assad il paladino della difesa nazionalista scelto dalla destra radicale. «Nessuno può toccare la Siria. In Siria combattono anche per voi. In Siria un intero popolo sta difendendo la sua sovranità contro il terrorismo e la propaganda dei media», recita il manifesto del Fronte. Sono le stesse parole usate dal presidente e dal governo di Damasco fin dall’inizio della rivolta quasi tre anni fa. Così la filiale greca del movimento parla dell’intervento di America, Turchia, Israele e di «mercenari arabi che vogliono scatenare la pulizia etnica delle minoranze».
Proclami che non danno retta alle denunce delle organizzazioni umanitarie: il massacro dei manifestanti disarmati e l’uso della fame (civili intrappolati senza cibo) come arma di guerra. Le accuse dell’Onu: il regime ha commesso crimini di guerra. Il rapporto sull’uso delle armi chimiche. Per il Fronte la versione dei fatti è solo quella di Bashar. Alla fine di gennaio nella capitale siriana è arrivata dal Belgio una delegazione che ha incontrato «la giovane patriota Anan Tello», ha «il compito di diffondere la verità sugli attacchi terroristici».
Feola ripete che il movimento non è politico, non vuol sentir parlare di «internazionale nera»: «L’iniziativa è nata in modo spontaneo su Internet, ha messo in contatto persone interessate alla cosiddetta primavera araba con i siriani che risiedono da molti anni in Italia. Raccogliamo fondi per aiutare la popolazione in difficoltà». Eppure alla manifestazione di solidarietà organizzata a Roma il 15 marzo dell’anno scorso ha partecipato il gruppo Rinascita nazionale polacca, che l’Anti-Defamation League considera di matrice nazista. Ai convegni ospitati da Casa Pound per «contro-informare» interviene Gabriele Adinolfi, ideologo dell’estrema destra e fondatore negli anni Settanta di Terza posizione. «Abbiamo invitato anche Fernando Rossi, ex senatore dei Comunisti italiani», spiega Feola. Antimperialismo e antisionismo affratellano in questo caso destra e sinistra radicale. «Per realizzare il proprio dominio sull’intero pianeta, la grande finanza ha bisogno di distruggere le nazioni, la loro sovranità, la loro cultura e la loro forza militare ed economica», scrive Rossi in un commento intitolato «Grazie Siria!».
Anche senza essere affiliati al Fronte europeo, gruppi considerati neo-nazisti hanno visitato i palazzi del potere e incontrato i ministri del governo. Lo scorso giugno i polacchi di Falanga — promulgano l’idea di togliere la cittadinanza agli ebrei — hanno visto Faisal Mekdad, il viceministro degli Esteri e numero due della delegazione alla conferenza di Ginevra, i negoziati che non riescono a trovare una soluzione al conflitto.
La rivista Vice ha scritto che l’organizzazione greca Mavros Krinos (Giglio nero) sta inviando mercenari a Damasco per combattere a fianco delle milizie del regime, sostiene che la fazione fascista faccia parte del Fronte europeo. «È solo un tentativo di mistificare e intorpidire le nostre iniziative che sono solidali, culturali e politiche — replica Feola —. Accusano noi di essere mercenari per nascondere i 32 mila miliziani di 82 differenti nazionalità indottrinati dall’Islam fondamentalista. C’è chi vuole immaginare una trama nera sovversiva per screditarci».
l’Unità 15.2.14
Italiani da manicomio
Una storia aspra della nostra società «narrata» da un ospedale psichiatrico
Anticipiamo in questa pagina l’introduzione di Guido Crainz a «Ammalò di testa», uno studio sull’istituto di Teramo tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del 900 da oggi in libreria
di Guido Crainz
È un grande racconto del dolore, “Ammalò di Testa” di Annacarla Valeriano, e al tempo stesso una storia aspra della società italiana fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo. È un racconto della ferocia, anche. Ferocia della società contadina, in primo luogo, che qui ci appare ben lontana da quel luogo dell’accoglienza e dell’integrazione con cui è stata talora identificata: elemento certo presente, ma solo un aspetto della realtà. Ferocia, anche, di una parte della «scienza medica» del tempo e non solo di essa: l’influenza di Cesare Lombroso e della sua scuola, nel suo operare e nelle sue conseguenze, è illuminata qui di luce cruda. Ci si dimentica presto del punto specifico d’osservazione, il manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo (peraltro di sicura importanza nel panorama centro-meridionale). Lo sguardo si allarga immediatamente all’insieme dell’Italia rurale, alla sua realtà quotidiana: al suo essere anche luogo di marginalità diffusa e talora disperata, potenziale fucina di quelle «classi pericolose» che agitavano i sonni della borghesia del tempo. Una Italia rurale, va aggiunto, tumultuosamente invasa a più riprese dalle irruzioni della storia: emigrazione e grande guerra sono due temi centrali nel libro. Un libro attento anche alle deformate lenti con cui una parte non piccola della cultura nazionale guida il processo del «fare gli italiani». E attento, infine, alla durezza in sé di quel processo: di questo ci parlano le molte vittime della nostra modernizzazione che hanno lasciato la loro voce e i loro segni. Voci e segni giunti sino a noi grazie anche a un paradosso non nuovo per gli storici. I documenti che ci danno più emozioni, quelli che più ci sanno coinvolgere sono forse le lettere scritte dai ricoverati ai loro parenti o amici: lettere ad essi mai giunte per l’operare di controlli severi (feroci, appunto). Sottratte così agli occhi e agli affetti dei loro destinatari naturali, e grazie anche a questo conservate in un unico luogo, quasi tenute in serbo per noi: del resto è grazie a un’occhiuta censura militare che ci è giunta copiosa documentazione di quel che soldati e civili pensavano davvero della prima e della seconda guerra mondiale. Per un paradosso ancor più forte, va aggiunto, le bandiere delle prime sezioni socialiste e delle prime leghe operaie e contadine sono state involontariamente conservate alla storia grazie a quelle stesse squadre fasciste che le avevano razziate distruggendo sezioni e case del popolo: e le avevano poi fatte affluire aRoma in occasione della Mostra della rivoluzione fascista a eterno sfregio e umiliazione dei «sovversivi» vinti. Ritrovate mezzo secolo dopo fra gli appassiti reperti di quella Mostra e ancor oggi capaci dunque di testimoniare delle sofferenze ma anche delle speranze di quei «vinti»: più forti, molto più forti dei loro persecutori. Ritrovate da Carla Gobetti, che di Piero - morto in seguito a violenze fasciste - aveva sposato il figlio: giusta nemesi della storia, verrebbe da dire.
Per lo stesso paradosso, in fondo, sono giunte sino a noi moltissime lettere del dolore dell’istituto teramano. E sono state conservate integre – assieme a migliaia di cartelle cliniche e ad altro materiale ancora - grazie all’opera lungimirante e appassionata di chi è stato responsabile di quella struttura negli ultimi decenni, anche dopo la dismissione di essa. Una documentazione straordinaria, dunque, che Annacarla Valeriano ha saputo trattare con finezza e misura intrecciando le povere e al tempo stesso tragiche storie di vita con suggestioni e sguardi letterari ma anche con l’esame attento di referti clinici e di dibattiti psichiatrici (o pseudo psichiatrici, come talora ci pare). Collocando tutto questo, infine, nei contesti istituzionali in cui il Sant’Antonio Abate si inseriva e nella stessa durezza del vivere che regnava al suo interno: quasi speculare a quel mondo da cui la follia aiutava a fuggire; quello stesso mondo che decretava l’internamento dei suoi figli più deboli, più sfortunati o più indocili. Esprimeva bene quest’ultimo sentire un trattato di fine Ottocento pubblicato proprio in Abruzzo: quando un soggetto «è stravagante o libertino, ineducato in sé, screanzato in famiglia, scostumato in società, allora costui non è normale, ma è anormale, un anacronismo, un individuo primitivo, un pazzo o un delinquente».
Sono panorami di indicibile miseria a balzarci di continuo agli occhi, dalla poverissima alimentazione ai disagi di un precario abitare; sono quelle paure, credenze e pratiche magiche su cui Ernesto De Martino ha scritto saggi memorabili; e sono, infine, comportamenti insofferenti di regole inique, di brutalità codificate, di «normali» sopraffazioni, in primo luogo all’interno delle famiglie. In primissimo luogo nei confronti delle donne, contro di esse: alla costruzione della «pazzia femminile» e alla demonizzazione e umiliazione delle donne sono dedicate alcune fra le pagine più intense del libro. Attento e quasi «implacabile» poi nel metterci sotto gli occhi le dinamiche concrete con cui quelle resistenze, quei rifiuti, quelle sofferenze, in ultima istanza quei sussulti di dignità venivano emarginati, puniti, isolati ed espulsi dal «consorzio civile». Nel costringerci a rivisitare di continuo i confini fra normalità e devianza, e nel suggerirci talora quasi un rovesciamento di quel rapporto. Si vedano appunto le pagine dedicate alle «pazze morali» e al variegatissimo universo delle isteriche, così come viene «costruito» dalle cartelle cliniche: il lunghissimo elenco degli aggettivi utilizzati per definirle racconta da sé un’intera storia.
In questo quotidiano orizzonte di mondi chiusi irrompe la storia del Novecento: in primo luogo con quella grande emigrazione che segna l’avvio della nostra «globalizzazione forzata». Non ci trova certo impreparati la «ricostruzione del disagio» che viene qui proposta, con le sue tinte forti e talora i suoi chiaroscuri. Con il suo muoversi dalle ansie e dalle paure della vigilia sino al duro impatto con l’ignoto: con il diventar reale ma al tempo stesso quasi inconoscibile di quell’ignoto, fonte continua di smarrimenti, rifiuti, deformazioni che si dispongono su di un amplissimo ventaglio. Non ci stupisce neppure la profondità dei processi di disgregazione o le ansie, talora devastanti, che attraversano i luoghi e le famiglie da cui le partenze hanno avuto avvio: nel loro carattere estremo le storie qui raccolte evocano ancora una volta realtà e spaesamenti più generali. E a inculture più generali rinvia quella parte della «scienza medica» che vede nel disagio mentale non l’intossicato frutto di quel viaggio verso l’ignoto, o del muoversi in un mondo sconosciuto, ma la causa di esso. Che sostiene cioè con parole crude che la follia è causa, non conseguenza del migrare.
Non c’è tregua, poi, nella nostra storia: al trauma della grande emigrazione subentra presto quello della grande guerra. I nodi posti qui al centro sono da tempo costitutivi di una storiografia di grandissimo spessore: i nomi di Paul Fussell e di Eric J. Leed sono i primi a venire in mente anche ai non specialisti, assieme alle ricerche sull’Italia di Mario Isnenghi, di Antonio Gibelli e di moltissimi altri. Ricerche che hanno contribuito da tempo a sfatare da noi il mito di una «quarta guerra di indipendenza» unanimemente condivisa: iniziarono a infrangerlo nel 1967 e nel 1968 I vinti di Caporetto di Isnenghi e Plotone di esecuzione di Alberto Monticone e di Enzo Forcella, che gettava fasci di luce sulle dimensioni sin lì rimosse delle diserzioni e dei processi di guerra. Più ancora: la Apologia della paura di Forcella che apre il volume ci conduce direttamente anche a queste pagine. Non un’apologia della follia, certo, ma un’indagine insistita e articolata del suo multiforme manifestarsi; delle sue valenze, delle sue cause, delle sue intense sofferenze, delle sue implicazioni. Una rivisitazione, anche, delle importanti riflessioni che quel grande trauma innescò nella stessa psichiatria; o del permanere, in vecchie o nuove forme, delle precedenti chiusure. Per non parlare naturalmente dell’esasperarsi di insensibilità e disumanità antiche. Comenel caso dell’emigrazione, inoltre, è analizzata anche la «pazzia» che investe e fa vacillare coloro che restano. Ed è preso in esame poi il lungo protrarsi delle conseguenze di quel trauma: negli ex soldati, nei civili, nei profughi. Una piccola spia, in questo caso, di un dramma che nel secondo conflitto mondiale avrà un’enorme dilatazione europea, connessa alle vicende belliche prima, e al drastico modificarsi dei confini poi. Una delle più rimosse ombre dell’Europa, per dirla con Marc Mazower.
Repubblica 15.2.14
La grande guerra e l’arco da spezzare
di Guido Ceronetti
Mai ci fu in Europa e Vicino Oriente una così frenetica fame di patria come nei primi vent’anni del secolo scorso. Al centro, gli anni del grande ottenebramento della ragione, la Grande Guerra 1914-1918. Quattro grandi imperi a pezzi: austro-ungarico, tedesco, russo, turco, e dopo la corsa al riarmo quella allo smembramento dell’enorme Bue squartato. Come il miele dal leone ucciso da Sansone, da tanto sangue vennero fuori le nuove patrie, e le annessioni operate dai vincitori ingrandirono, a spese dei vinti, le vecchie patrie.
All’Italia, dopo l’impresa libica, l’appetito di farsi potenza neoimperiale era enormemente cresciuto. Non fu l’idealismo dei puri irredentisti a determinare l’entrata in guerra nel 1915: i governi e i padroni italiani lasciavano predicare i D’Annunzio, i Corridoni, i Mussolini, conducendo nell’ombra vispe trattative segrete per vedere quale dei due campi avrebbe concesso di più. “Prendi il fucile - e portalo alla frontiera”: sì, ma quale? Un mese appena prima che i fanti si mettessero in marcia coi muli, i cannoni e tutto il resto, il patto di Londra (26 aprile 1915) persuase l’ambigua penisola ad abbandonare la Triplice che la legava agli imperi centrali e a scegliere, come volevano gli interventisti, l’alleanza occidentale. Il re d’Italia intascava col Trentino l’Alto Adige (la regione del Sudtirolo) fino al Brennero, la Venezia Giulia, coste e entroterra dàlmate, il Dodecànneso, una base sul Bosforo...
Non avendo ottenuto proprio tutto, l’indottrinamento scolastico fascista accompagnò sempre il ricordo della Vittoria con l’aggettivo mutilata. Fiume, prima negata, fu presa e governata, Dio sa come, dai legionari di D’Annunzio (tra cui c’era, mi pare, un grande scrittore come Giovanni Comisso). Ma pigliavi il battello ad Ancona e sbarcavi a Zara senza uscire dai confini italiani. (Durò poco).
Cuore e mente dell’irredentismo era Trieste, città spirituale e soggetta agli influssi sottili, austriaca da secoli, cantata da Scipio Slataper nel mirabile poema in prosa Mio Carso. E Scipio, che morì sul Podgora come soldato italiano, scriveva alla moglie fiorentina di sentirsi “slavo, tedesco e italiano”, la triplice essenza della triestinità, speziata di ebraismo del Nord e del Sud e fin dagli inizi stregata dalla psicanalisi di Freud e Weiss. Ma tutto il grande impero dei possessi asburgici era scosso da una colossale crisi identitaria: fu questa la causa prima della sconfitta. Non si va molto avanti, nel capire quei giorni, solo analizzando le vicende e gli esiti militari. La volontà di avere di essere patria fu uno dei succedanei del nichilismo della “morte di Dio”.
L’annessione del Sud-Tirolo fu madre di grane separatiste e di nuovi traumi identitari, e l’elaborazione di un modello regionale bilingue ha richiesto più di un secolo. Battisti rivendicava l’italianità del Trentino - allora poverissimo - ma poneva il nuovo confine a Ora. Ma ricordo due momenti curiosi. Goethe, arrivando a Bressanone, fa cominciare di là, dove l’italiano c’è ben poco, il suo viaggio in Italia; e io, molti anni fa, passeggiando in Trentino, mi sentii dire, da uno del posto che arava: - Qui, dove una volta comandava nostra madre l’Austria... - e non voleva saperne della sua ormai inevitabile cittadinanza italiana.
Giuseppe Rensi, il pensatore dell’Assurdo, avrebbe potuto citare tra le assurdità storiche, quella del regime fascista di voler imporre a una provincia germanofona il monolinguismo italofono. Sradicare lingue è matricidio. Oggi c’è il bilinguismo riparatore. Analogamente, l’Austria-Ungheria trapiantava sloveno nell’Istria venetofona e nel Carso triestino, ma a Budapest e a Praga il tedesco non aveva corso che tra i vertici culturali e padronali. Kafka, Rilke, Werfel furono bilingui.
Il “grande Sventratore” Marcello Piacentini - come scrisse Antonio Cederna - fece a Bolzano, tra il 1926 e il 1928, opera del regime, l’Arco della Vittoria, inutile offesa di conquistatori per trattato a dei vinti che dieci anni prima avevamo di fronte sulla riva opposta del Piave. Mio Dio, quale vittoria? Nel 1918 l’Europa in guerra crepava di fame e di spagnola, e il soldato del Kaiser Eric Maria Remarque scriveva nel suo prodigioso romanzo: “Ero un soldato, adesso non sono altro che sofferenza”. Ecco, sofferenza è il risultato finale di tutta quella somma di eventi e combattimenti, ci fu pianto per tutti. Fu quella la vittoria: fatalità tragica e l’eccesso di dolore, su tutti i fronti, in tutte le case... Non è un’occasione meravigliosa, il centenario della follia del 1914, perché l’Italia cancelli l’Arco di Piacentini, lo demolisca con un atto intrepido, facendo un dono riparatore, e l’amicizia italo-austriaca non rimanga soltanto uno scambio turistico ma sia fatta di tutto quel che rimane di midollo patriottico autentico nelle nostre vecchie nazioni?
Un’eredità simbolica, di linguaggio simbolico immediatamente comprensibile da tutti, è il lascito della Quattordici-Diciotto. Ma certo l’Arco di Bolzano non è Redipuglia: è un simbolo che si giustifica soltanto scomparendo, e può sparire facendo appello a dei residui d’anima che mi costringo a ritenere, nel nostro e nell’altro popolo, incolumi. Un vero europeismo non è nato ancora, ma un gesto così significativo, il 4 novembre di quest’anno, gli darebbe una memorabile spinta in avanti. La marcia di Radezky e il Va’ pensiero verdiano in una piazza ribattezzata col nome di Alex Langer, l’uomo di Vipiteno, messaggero di pace, che si appese a un ulivo, durante l’assedio di Sarajevo, nell’ultima guerra balcanica. Vienna, volendo ricambiare meravigliosamente l’atto di giustizia italiano a Bolzano, potrebbe riabilitare la memoria di Cesare Battisti - sacra ad una Italia diversa, non idiotizzata dai luoghi comuni delle sue classi dirigenti - martire e vittima anche lui, anima di giusto, di un sogno generatore di una grigia, luttuosa pace.
Repubblica 15.2.14
L’opera di uno studioso inglese dimostra che oggi anche gli eredi della tradizione analitica ricorrono alla narrazione
Un metodo italiano che per decenni avevano avversato
Lezione di filosofia
Per capire le idee è necessario raccontarne la storia
di Maurizio Ferraris
Si è da poco conclusa, da Einaudi, grazie alla cura e alle integrazioni di Gianluca Garelli, la traduzione dei quattro volumi della
Nuova storia della filosofia occidentale di Anthony Kenny. Che cosa può spingere una persona sana di mente e verosimilmente non bisognosa di denaro (è un baronetto) a impegnarsi a scrivere 1600 pagine su ventisei secoli per raccontare una epopea controversa, che ha inizio sulle coste della Turchia e si conclude (per il momento) con la globalizzazione? Di certo, e lasciando da parte gli errori o le asserzioni controverse, inevitabili in una trattazione così estesa, l’idea di scrivere da soli una storia della filosofia è qualcosa di molto diverso dallo scrivere una monografia su un filosofo o un periodo, attività che è generalmente segno di encomiabile prudenza. È il progetto, intrinsecamente venato di megalomania, di trovare un filo conduttore che da Talete porti a Zizek, cimentandosi in un genere narrativo unico al mondo per almeno quattro motivi.
Il primo è l’eterogeneità degli oggetti. Una storia della letteratura italiana (oggetto teoricamente importante) comprende, del tutto ovviamente, gli autori che hanno scritto in italiano. Una storia della fisica (oggetto teoricamente meno importante, perché si può fare fisica senza conoscerne la storia, ma solo lo stato attuale che la ricapitola) contiene le teorie sulla natura. Una storia dell’aritmetica tutte le teorie sui numeri. Ma una storia della filosofia contiene autori compresi in tutte e tre queste storie, oltre che in molte altre, e manifesta la perversa tendenza a privilegiare coloro che hanno sviluppato teorie sbagliate: è altamente probabile che se la teoria dei vortici di Descartes si fosse rivelata vera, e la teoria della gravitazione universale di Newton fosse stata falsa, si parlerebbe molto meno del cogito, e Descartes lo si insegnerebbe nell’ora di scienze.
Il secondo è il ruolo canonizzante rivestito dalla narrazione, che rimedia alla eterogeneità degli oggetti e dei problemi. L’identità della filosofia viene da una genealogia, cioè, scriveva Rorty, da un racconto che parla di papà Parmenide, del probo zio Kant, e da Derrida, il fratello cattivo. Non uno di questi autori (e dei moltissimi altri membri della famiglia) ha condiviso interamente oggetti, concetti e metodi dei suoi predecessori. Questa eterogeneità spiega alcune strategie correnti nelle dispute tra filosofi. Invece di dimostrare che un argomento è sbagliato (cosa possibile solo in ambiti molto circoscritti) si dice che l’interlocutore non fa filosofia, ma qualcos’altro: letteratura, sociologia, politica, teologia. O che si merita uno spazio minimo nel romanzo, come quando Jaspers scrive di Rickert che sarebbe stato una nota a piè di pagina di Weber. O che è un personaggio mal caratterizzato, come suggerisce il “forse geniale” con cui Lukács definì un filosofo, Emil Lask, che ebbe il torto di andare in guerra e di morirci prima di scrivere un sistema.
Il terzo è il ruolo propriamente filosofico rivestito dal racconto, che è capace di attualizzare dottrine remotissime, basti pensare che si discute ancora, in piena serietà, delle teorie di Platone e di Aristotele. In effetti, nella storia della filosofia si trovano quasi tutte le risposte agli attuali problemi della filosofia, ed è da questo punto di vista estremamente significativo che proprio un rappresentante della tradizione filosofica inglese, legata alla filosofia analitica, ossia a un metodo che mette in primo piano l’analisi concettuale, proponga una storia della filosofia, per quanto molto attenta ai concetti. Il problema, ovviamente, è che nella storia della filosofia non ci sono solo tutte le risposte giuste, ma anche tutte le risposte sbagliate, perché non c’è teoria assurda o insensata che non sia stata sostenuta da un filosofo, magari illustre. Già Bacone si era lamentato di questa circostanza: sugli scaffali si affastellano migliaia di libri pieni di dottrine in gran parte oscure o erronee. Bisognerebbe scrivere un libro che risparmi la lettura di tutte le credenze false o approssimative e trasmetta solo le dottrine vere. Questo proposito non gli impedì di accumulare a sua volta errori o assurdità puntigliosamente enumerati da Joseph de Maistre nell’Esame della filosofia di Bacone – concludendo che il Lord Cancelliere scriveva per abitudine meccanica e per esercitare le dita.
Ultimo punto, ma non meno importante, il racconto della filosofia non è una pacifica successione di patriarchi biblici (Abraham genuit Isaac, Isaac autem genuit Iacob…), bensì un movimentato romanzo di famiglia. Con colpi di scena e dispute infinite sulle eredità, buoni e cattivi, avventurieri, furfanti, santi (letteralmente). Per via di queste caratteristiche, ridurre i filosofi alle loro teorie è far loro un grave torto, soprattutto se si considera che ci sono filosofi, come Agostino, Rousseau o Nietzsche, i cui libri più belli sono le autobiografie. Ma anche in filosofi la cui vita è di gran lunga meno romantica e romanzesca (difficile trovare il patetico in Meinong, al massimo ci colpisce la sua semicecità, così come ci sorprende l’epilessia nel pacatissimo e laborioso Helmholtz) resta che il loro pensiero trova le proprie motivazioni di fondo nel confronto con il racconto famigliare che li ha preceduti.
Attenzione! Non sto dicendo che questo romanzo sia un racconto di invenzione, visto che i suoi personaggi non sono, generalmente, entità fittizie, sebbene possano crearne, come nel caso di “Kripkenstein”, nome con cui si designa la personalissima lettura di Wittgenstein data da Samuel Kripke. Sto dicendo che sono proprio i personaggi e le loro dispute a fare emergere gli oggetti della filosofia, come aveva visto molto bene Aristotele, che per introdurre un tema problematico come la filosofia prima (quella che molto più tardi sarà chiamata “metafisica”) inizia esponendo le dottrine dei suoi predecessori. Quanto dire che l’oggetto di cui sta trattando è ciò di cui hanno parlato Anassimene, Eraclito, Democrito… Senza quei personaggi la trama sarebbe stata diversa, o non ci sarebbe stata. La controprova può venirci da un possibile esperimento mentale: quanto cambierebbe l’oggetto della filosofia se si seguisse una strategia oulipiana, per esempio scrivendo una storia selettiva in cui sono riportati solo i filosofi che incominciano per A (Aristotele, Anselmo, Adorno…) o per Z (più difficile ma anche possibile: Zenone, Zabarella, Zermelo…) o per H (facilissimo)?
Repubblica 15.2.14
Quel pensiero critico che vogliono abolire da scuola e università
di Roberto Esposito
Il piccolo, ma agguerrito, mondo della filosofia italiana – quella che con qualche ridondanza si denomina “teoretica” – è in comprensibile fermento. In base ad una recente normativa tale materia è stata eliminata dalle tabelle disciplinari di vari corsi di laurea, come quelli di Pedagogia e di Scienze dell’Educazione, con la singolare motivazione che si tratta di una disciplina troppo specialistica. E che dunque dove si educano gli educatori non c’è alcun bisogno di essa. Ma c’è di peggio. Sta prendendo corpo il progetto, già sperimentato in alcuni licei, di abbreviare il ciclo delle scuole secondarie a quattro anni, con la conseguente riduzione dell’insegnamento della filosofia a due. L’idea, del resto, non è nuova. Già alla fine degli anni Settanta si pensò di cancellare lo studio della filosofia dalle scuole, sostituendola con le scienze umane. Ci volle la ribellione dei professori di filosofia dei licei – molti dei quali preparati e motivati – per scongiurare simile, sconcertante, trovata.
Che tali progetti siano solo disegni degli staff di funzionari del Ministero dell’Istruzione può essere. Sta di fatto che segnalano, ancora una volta, la spaventosa carenza culturale di coloro che sono preposti all’organizzazione della cultura in Italia. L’intenzione di ridurre il rilievo della filosofia, schiacciandola ai margini dei programmi scolastici e universitari, è la punta di un attacco generalizzato al sapere umanistico in Italia. Ma in essa c’è qualcosa di ancora più grave. Si vuole così occludere lo spazio dove si forma lo spirito critico. Indebolire ogni resistenza a un diffuso realismo in base a cui, qui o altrove, non c’è da prefigurare nulla di diverso da quello che abbiamo sotto gli occhi.
Tale progetto è sbagliato per più di un motivo. Intanto perché la filosofia, oltre che indispensabile di per sé, lo è nei confronti degli altri saperi. Non perché, come a volte si dice, li collega in un unico orizzonte, ma, al contrario, perché definisce le loro differenze, misura la tensione che passa tra i vari linguaggi. In quanto sapere critico, la filosofia impedisce la sovrapposizione di questioni eterogenee, delinea i confini dentro i quali esse assumono significato. Ma il suo ruolo non si esaurisce in una procedura metodologica. Tutt’altro che chiusa su di sé, essa è sempre aperta al mondo – alle sue potenzialità e ai suoi conflitti. Tale è la sua funzione. La capacità, e anche il desiderio, di aprire un confronto, in qualche caso uno scontro, rispetto a ciò che esiste a favore di una diversa disposizione delle cose.
In questo senso la filosofia – anche e forse soprattutto quella che si definisce “teoretica” – ha sempre un’anima politica. Non, certo, nel senso di fornire prescrizioni o indicazioni su cosa fare o come agire. Ma perché è situata lungo il confine tra il reale e l’immaginario, il necessario e il possibile, il presente e il futuro. Perciò essa è sempre in rapporto con la storia. Non parlo solo della storia della filosofia – pure indispensabile. Ma della storia nella filosofia. Il pensiero non solo ha, ma è storia, perché consapevole del nostro limite. Di quanto abbiamo, ma anche di quanto ci manca, dell’assenza che taglia ogni presenza, della scissione che attraverso ogni unità.
È un’idea, questa, che congiunge tutti i grandi pensatori, da Platone a Hegel e oltre. Il motivo per il quale, nonostante l’apparente inutilità che spesso le viene rinfacciata, si continua a praticare filosofia sta proprio nella coscienza che il suo compito è inesauribile. Che restano sempre spazi inediti da aprire, vie nuove da imboccare, opzioni diverse da sondare. Quando si è supposto che così non fosse, che la verità era stata raggiunta e il percorso compiuto, allora la filosofia è stata messa a tacere e i filosofi sono stati banditi dalla città. Con i risultati che sappiamo.
La Stampa 15.2.14
Martin Scosese
“I giovani devono sapere quanto è fragile la libertà”
Il suo documentario sulla New York Review of books “Un modo per raccontare 50 anni di storia americana”
intervista di Fulvia Caprara
Nell’era dell’informazione digitale e dei social network, il regista più vitale del momento, Martin Scorsese, classe 1942, dirige (insieme a David Tedeschi) un documentario che ricostruisce l’avventura appassionante della celebre «New York Review of Books», palestra dove scrittori, giornalisti, storici e poeti si sono allenati, a partire dal 1963, in uno sport oggi poco frequentato come il dibattito delle idee. Nata durante lo sciopero che bloccò per settimane le più importanti testate americane, il «New York Times» in testa, la rivista divenne presto il palcoscenico prestigioso delle gesta dei più importanti intellettuali e pensatori democratici Usa. Per affrontare l’impresa di un film sul potere delle parole, sull’importanza del confronto tra opinioni diverse, sul giornalismo inteso come indagine sottopelle della società e del suo modo di evolversi, ci voleva il coraggio, ma soprattutto l’amore per il cinema, che il regista del Lupo di Wall Street non perde mai l’occasione di dimostrare: «Mi hanno mandato una lettera in cui mi chiedevano se potevo essere interessato a raccontare questa storia, ne abbiamo discusso, sapevo che mi avrebbe preso molto tempo... ma il soggetto era attraente e ho sentito subito una grande energia che mi spingeva a realizzarlo. Si trattava di usare testi come immagini, soprattutto bisognava sceglierne alcuni in mezzo a una mole immensa».
Il risultato, Untitled New York Review of books in cartellone ieri alla Berlinale, con richiesta di embargo sulle critiche perchè si tratta, ripete anche Scorsese, di un «work in progress», è una straordinaria carrellata di fatti e di opinioni, commentata dal fondatore Bob Silvers e dai collaboratori, fissi e non, della rivista. La prima scena ritrae la protesta di Zuccotti Park analizzata da Michael Greenberg, poi si va indietro nel tempo, dalla guerra in Vietnam al femminismo, dalla primavera di Praga alla fine del comunismo, dall’impegno anti-razzista alla caduta del Muro di Berlino.
Parlano, tra i tanti, Mary McCarthy, Germaine Greer, Gore Vidal, Susan Sontag, Norman Mailer, Noam Chomsky, James Baldwin, si vedono immagini di Martin Luther King e di Andy Warhol. Si ride, si pensa, si partecipa. E, alla fine, davanti alla platea dell’«Haus der Berliner Festspiele», nella parte ovest della città, lontano dal cuore della kermesse, Martin Scorsese, accolto come una rockstar soprattutto dai giovanissimi
(nessun divo, tra i tanti passati sul tappeto rosso della 64a Berlinale oggi in chiusura, è stato salutato con tanto calore) svela qualcosa di più sull’architettura dell’impresa.
Nel film scorrono passaggi e momenti cruciali di 50 anni di storia, non ha mai avuto alcun timore nell’affrontare un materiale tanto ampio?
«No, sapevo fin dall’inizio che avrei avuto a che fare con un archivio immenso, e la cosa eccitante era proprio confrontarmi con questa materia. La grande sfida stava nel mettere insieme pezzi del passato con il presente, personaggi di allora e di oggi, nell’arco di anni fondamentali per la storia e l’evoluzione della società in cui viviamo».
Perché era importante per lei fare questo documentario?
«L’ho realizzato pensando molto alle nuove generazioni, che sanno poco e niente di quello che è accaduto in passato, per aiutarle a scegliere le cose in cui credere e soprattutto a capire quanto può essere fragile la libertà in cui sono abituate a vivere. Un concetto di cui non hanno idea».
Che cosa le ha regalato questa esperienza?
«Io stesso, facendo il flm, ho imparato tantissimo. L’intento era anche quello di raccontare la Storia mettendo a confronto diversi punti di vista e immergendo il pubblico, a poco a poco, in questo dibattito. Un tipo di lavoro che, oggi, si può fare molto di rado».
Tra i tanti temi toccati dallo storico magazine, c’è n’è stato uno che l’ha colpita e interessata più di altri?
«Sì, la guerra in Vietnam. In quel periodo avevo poco più di vent’anni e venivo da un ambiente molto differente da quello in cui si faceva la “New York Review of books”. Abitavo nell’East Side e per me, allora, il West Side era come un altro pianeta. In più ero cresciuto in un quartiere che era più o meno come un piccolo paese siciliano, dominato da un modo di pensare molto conservatore. Per questo, all’epoca, ero particolarmente interessato al modo, tanto diverso, con cui quella rivista affrontava l’argomento».
Corriere 15.2.14
La bellezza delle formule
Per il cervello sono opere d’arte
La matematica attiva le stesse aree di dipinti e sinfonie
di Anna Meldolesi
La matematica è straordinariamente potente. Combinando pochi simboli riesce a racchiudere la complessità del mondo e a descrivere il funzionamento della natura. Per lo stesso motivo la matematica può essere bella, bellissima, abbagliante. Per chi le sa capire certe equazioni rappresentano un’esperienza emozionale che non ha nulla da invidiare ai capolavori dell’arte. Farsi rapire da Mozart, perdersi con lo sguardo nella Cappella Sistina, restare stregati dall’ E=mc quadro di Einstein. Non ci credete? Un gruppo di ricercatori dell’University College London ha chiesto a quindici matematici di esprimere un giudizio estetico su sessanta equazioni. Poi Semir Zeki e colleghi hanno osservato le reazioni che queste formule erano in grado di suscitare nel cervello dei soggetti sperimentali, utilizzando una tecnica chiamata risonanza magnetica funzionale. I risultati, pubblicati sulla rivista Frontiers in Human Neuroscience , dimostrano che le belle equazioni attivano una parte specifica del cervello emozionale (corteccia orbitofrontale mediale), la stessa che viene accesa dalla grande pittura e dalla grande musica. Più la formula è considerata bella e più intensamente si attiva quest’area.
La più bella tra le belle è risultata una formula che pochi ricordano, l’identità di Eulero. Afferma che una costante elevata con un particolare esponente e sommata a uno dà come risultato zero. Se non riuscite a coglierne il fascino non preoccupatevi, è del tutto normale. Quando i ricercatori britannici hanno ripetuto la prova con delle persone digiune di matematica, la maggior parte di loro ha detto di non provare alcuna emozione. Per i matematici comunque si tratta di una combinazione irresistibile, perché lega cinque costanti fondamentali con tre operazioni aritmetiche basilari. La semplicità è spesso il segreto della bellezza, anche nelle equazioni. Il teorema di Pitagora, ad esempio, ha tutti i numeri per piacere. Il record della bruttezza, invece, è andato a una serie (assai complicata) formulata dall’indiano Ramanujan.
Per molti la matematica è fredda, in alcuni scatena un fastidioso senso di inadeguatezza, qualcuno di fronte a un foglio riempito di calcoli prova una specie di fobia. Secondo uno studio americano pubblicato su Plos One la matematica attiva in chi ne ha paura delle sensazioni di vero e proprio dolore. Ma per i più fortunati, quelli che li hanno studiati bene, i numeri sono piuttosto una fonte di piacere. Non si trovano agli antipodi dell’arte come vorrebbe il cliché, ma lì a fianco e forse un po’ al di sopra. Lo spirito della matematica può essere rintracciato solo nella poesia, sosteneva Bertrand Russell, e già Platone giudicava la bellezza matematica superiore alle altre. La bellezza non è mai facile da definire e nel caso della matematica è ancora più ineffabile. Non ci sono le ombre di Caravaggio e i colori di Van Gogh, non ci sono armonie musicali, anche se non è raro che i più dotati riescano a «vedere» e «sentire» i numeri. In linea di principio il matematico partecipa a un gioco in cui è lui stesso a inventare le regole, mentre per il fisico le regole sono fornite dalla natura. Ma come ha notato il padre della meccanica quantistica, Paul Dirac, alla fine dei conti le regole preferite dai matematici sono le stesse scelte dalla natura.
Il fatto che nell’uomo esista un senso estetico per le equazioni, insomma, rivela un legame affascinante ed enigmatico tra l’organizzazione del nostro cervello e il funzionamento del mondo in cui ci siamo evoluti.
Corriere 15.2.14
La memoria salvata dei grandi latini
Così l’Occidente ritrovò le sue radiciUna nuova «Storia» di Laurens spiega la riscoperta dei capolavori
di Armando Torno
Esce in questi giorni, presso la prestigiosa casa editrice parigina Les Belles Lettres, una Histoire critique de la littérature latine di Pierre Laurens. Professore alla Sorbona e corrispondente dell’Istituto, studioso di fama internazionale, ha curato tra l’altro opere quali l’Africa di Petrarca o il Commento al Simposio di Platone di Marsilio Ficino; l’ultimo suo saggio, uscito in edizione rinnovata nel 2012, L’Abeille dans l’ambre, L’Ape nell’ambra , evoca l’avventura dell’epigramma dall’epoca alessandrina alla fine del Rinascimento. Ora Laurens, che ha anche curato testi dell’Antologia greca , scrive quella storia della letteratura latina che mancava. «Critica» è da intendere in senso lato: fa vivere il patrimonio lasciatoci da Roma attraverso il lavoro degli scopritori, dei curatori, degli interpreti che hanno condizionato il nostro modo di leggere la grande cultura che nacque o si incontrò nella città di Romolo. Abbiamo incontrato Pierre Laurens, in occasione dell’uscita dell’opera.
Professore, ci può confidare qualcosa di questo suo lavoro?
«Non ho scritto una storia tradizionale o filologica della letteratura latina. Ce ne sono già, e molto buone: basti pensare a quelle di Ettore Paratore o di Gian Biagio Conte in Italia, o a quelle di Jean Bayet o di Pierre Grimal in Francia. Si potrebbe dire che tutto è stato messo a norma: le biografie, l’elenco e il contenuto delle opere, le periodizzazioni, le conquiste, le influenze. Io racconto invece la storia delle appropriazioni».
Che cosa intende dire?
«Semplicemente cerco di ricostruire l’idea che a poco a poco si è formata di un certo autore e della sua opera».
Potrebbe fare un esempio?
«Comincerei dicendo che la perdita delle opere di taluni autori è stata enorme. Prenda Tito Livio: dei 142 libri che scrisse, ne sono giunti a noi 35. Ma Dante conosceva soltanto i primi 10 (ecco l’influenza nella Monarchia ), giacché la terza decade la scoprì Petrarca ad Avignone. Questo grande poeta fu il primo a riunire quasi quanto noi conosciamo dello storico romano, come ha dimostrato Giuseppe Billanovich in un articolo esemplare del Warburg Institute. Ma la terza decade è quella che tratta delle guerre puniche e, in questa vicinanza, nascono la Vita di Scipione e l’Africa . Più tardi sarà Machiavelli a riflettere su tale materia».
Certo Livio non è il solo...
«Assolutamente no. Prenda un altro caso clamoroso, reso noto anche da un celebre film di Fellini: nel Medioevo non si conosceva la Cena di Trimalcione , giacché erano noti soltanto due episodi del Satyricon di Petronio Arbitro. Sarà Poggio Bracciolini, vissuto tra il 1380 e il 1459, a portare una prima parte della Cena dall’Inghilterra. Tutta la Cena , come la leggiamo noi, si conoscerà soltanto nel secolo XVII, ovvero al tempo di Pascal e di Galileo».
Una parte della letteratura latina è quindi venuta alla luce lentamente...
«Molta è anche scomparsa. Se dovessimo utilizzare dei numeri per tentare un bilancio quantitativo, dovremmo dire che abbiamo identificato di essa 772 autori, di questi 144 sono quelli conservati (è il 20 per 100), di 352 ci restano soltanto frammenti, ma 276 non sono altro che nomi. Facciamo un confronto con la letteratura francese: è come se noi avessimo una strofa della Chanson de Roland , se di Racine si fosse perso tutto (mi riferisco a Varius) e così pure di Lamartine (penso a Gallus). Interi generi sono andati smarriti e di essi è magari sopravvissuta una riga sospetta»
Noi comunque abbiamo un’idea...
«Certo, ma c’è voluto un lavoro gigantesco per colmare le grandi lacune e per ristabilire le prospettive; insomma, per avere un’idea generale. I secoli hanno conosciuto uno sforzo eroico per ricostruire questa letteratura vicina geograficamente, ma delle cui opere ci sfuggono molte ragioni. Senza le testimonianze lasciate da poligrafi, storici, grammatici, la polvere di testi che ci offre cenni e semplici profili della prima epopea latina (Ennio), dei primi procedimenti brancolanti della storia (gli annalisti), della prima elegia (Gallus), delle tragedie perdute di Varius o di Ovidio sarebbe materia insignificante».
Quindi nel suo libro...
«...ho cercato di capire come un testo è arrivato a noi, non solo come i filologi hanno lavorato. Non a caso, nel sottotitolo, ho scritto “Da Virgilio a Huysmans” e non “Da Omero a Erasmo”. Insomma, dopo il prezioso contributo dei filologi è cominciata una critica che si è quasi appropriata del tesoro e ha consentito all’umanità di assimilarlo o, pensando a Petronio, di digerirlo. Huysmans è uno scrittore ma quel che lascia, appunto, di Virgilio diventa quasi tendenza per una generazione: basta rileggere il giudizio che fa proferire in À rebours a Des Esseintes per rendersene conto. Non sopporta “colui che gli insegnanti chiamano il cigno di Mantova” e in particolare la sua Eneide , a causa dei “pastorelli infiocchettati”, degli “esametri di latta” eccetera. E Hugo? Una sua allegoria, che si trova in un saggio su Shakespeare del 1864, propone una gradazione di lune decrescenti che gravitano attorno a un loro sole. Scrive: “Virgilio, luna di Omero; Racine, luna di Virgilio; Chénier, luna di Racine, e così di seguito sino a zero”».
Qualche autore riabilitato o di nuovo giudicato dopo secoli?
«Ne ricordo tre significativi. Innanzitutto Tacito. Boccaccio conosceva le Storie e la seconda parte degli Annali (la prima sarà nota all’inizio del XVI secolo). I giudizi su di lui nel Cinquecento si fanno sempre più attenti e precisi. Montaigne, tra gli altri, dirà che è “un vivaio del discorso etico e politico”. Poi Giovenale, per troppo tempo deprezzato a profitto di Orazio. Hugo segnala l’epopea di certe sue satire. Infine Claudiano, morto nel 404 della nostra era: sarà l’Ottocento, nel periodo cosiddetto decadente, a metterlo in una giusta luce».
La sua ricostruzione non è soltanto legata agli autori...
«Certo. Non ho dimenticato che la letteratura latina è stata intesa come un modello e in taluni momenti della storia l’antichità venne assimilata a bellezza, patria ideale, saggezza; con i valori che si scoprirono si desiderò costruire un mondo nuovo. Fu il sogno dell’Umanesimo. Da qui nasce anche un discorso morale che oltrepassa la cerchia degli specialisti. È la vera ricchezza dell’Occidente. E gli scrittori sono diventati i custodi o, a seconda dei casi, gli esattori di questo patrimonio».
Ma non tutti i latini sono stati accolti...
«...con il sorriso. Non si contano le resistenze per l’ateismo di Lucrezio, per l’impudicizia di Ovidio o per le trivialità di Marziale. Il dibattito che si sviluppa nei secoli fa da testimone e illumina le questioni. A questa vicenda hanno collaborato filosofi e filologi, editori, traduttori e interpreti, critici e scrittori. Dirò alla fine che Virgilio appare come il più stabile. Nonostante Huysmans».
Corriere 15.2.14
Ecco chi salvò davvero i tesori di Montecassino
di Antonio Carioti
Settant’anni fa, il 15 febbraio 1944, l’abbazia di Montecassino venne rasa al suolo dai bombardieri alleati. Morirono duecento civili per un’azione brutale e inutile: i tedeschi non si trovavano nel monastero, anche se erano appostati nelle vicinanze, e poi tra le macerie resistettero altri tre mesi. Per fortuna si salvarono i tesori che stavano da sempre nell’abbazia o vi erano stati portati durante la guerra: al momento dell’attacco aereo il tutto era al sicuro in Vaticano. Ma c’è da sfatare la versione secondo cui il merito va alla divisione tedesca «Hermann Göring». Il libro I misteri dell’Abbazia. La verità sul tesoro di Montecassino di Francesco Bianchini e Benedetta Gentile, in uscita per Le Lettere (prefazione di Francesco Perfetti, pp. 196, e 14), dimostra che le cose andarono diversamente, a partire da un documento custodito all’Imperial War Museum di Londra. In realtà Julius Schlegel e Maximilien Becker, ufficiali della «Göring», volevano trasportare quadri, codici, reliquie e gioielli in Germania, ma il convoglio venne bloccato dal generale Frido von Senger und Etterlin (nella foto) , colto militare tedesco ostile al nazismo e fervente cattolico. Fu lui che fece trasportare i tesori in Vaticano. Sempre a proposito del monastero distrutto, c’è poi il quesito a cui cerca di rispondere Nando Tasciotti nel saggio Montecassino 1944 (Castelvecchi,
pp. 327, € 19,50). Furono solo i comandi militari alleati a decidere l’attacco o ci fu un avallo politico? Difficilmente Winston Churchill, molto reticente in seguito su questo tema, poteva non essere consapevole dello scempio imminente. Il leader britannico seguiva da vicino il fronte italiano: venti ore prima dell’azione, rivela Tasciotti, chiese perché non era ancora scattata l’offensiva di cui il bombardamento era parte integrante. Se non è una prova, è un bell’indizio.