mercoledì 4 dicembre 2013

il Fatto  4.12.13
30 morti ogni mille partenze

Migranti, vittime senza volto ma con un numero: 623 mila dal ‘98
di Alessandro Oppes

Madrid  Il flusso è continuo, inarrestabile. E quando si interrompe è solo perché le carrette del mare alla deriva, gestite dalle mafie del traffico di esseri umani, trasformano il Mediterraneo in un cimitero a cielo aperto. Sempre più immigrati, sempre più alto il numero di vittime. Secondo una ricerca del Migration Policy Centre dell'Istituto universitario europeo di Firenze, gli sbarchi lungo le coste meridionali del continente sono stati 623mila nel corso degli ultimi 15 anni, con una media di oltre 40mila migranti illegali l'anno. Ma soprattutto, è andata drammaticamente in crescendo la percentuale di vittime: più di 30 morti durante la traversata ogni mille persone che si imbarcano, a partire dal 2007, mentre fino al 2001 la cifra era inferiore al 10 per mille.
Un bilancio fallimentare per la “fortezza Europa” che, oltre a rivelarsi tutt'altro che inespugnabile, non riesce a evitare che i viaggi della disperazione assumano i contorni di una tragedia permanente. Secondo i dati aggiornati alla metà dello scorso mese di ottobre, le persone morte in mare dal 1988 sono 19.372, di cui 2.350 solo nel corso del 2011, cifra scesa a 590 lo scorso anno, mentre nel 2013 sono già circa 700.
CIFRE CHE CONDUCONO a una conclusione inequivocabile: la rotta marittima verso l'Europa è diventata “la più pericolosa al mondo”. Non solo per le condizioni estremamente precarie in cui sono costretti a viaggire i migranti, stipati su imbarcazioni insicure e sovraccariche (ora, soprattutto dal Nordafrica verso la Spagna, si tentano spesso impossibili traversate anche a bordo di piccoli canotti gonfiabili), ma anche per la sorveglianza sempre più rigida da parte dei paesi Ue, che costringe i migranti a scegliere rotte più lunghe e a più alto rischio. Lo si vede anche dai grafici che corredano lo studio del Migration Policy Centre: fino al 2007, il principale paese di destinazione era la Spagna (relativamente prossima al continente africano), ora è l'Italia, più lontana e difficile da raggiungere.
Una svolta spiegabile, in parte, con gli accordi bilaterali conclusi dal governo Zapatero con Senegal, Mauritania e Marocco per frenare i flussi migratori all'origine. E con i controlli sempre più severi per bloccare l'accesso a Ceuta e Melilla. Ora, con il dispositivo di vigilanza Eurosur entrato in funzione due giorni fa, l'Europa si propone di lottare contro l'immigrazione clandestina e “salvare i profughi che fuggono via mare”. Proposito tutto da verificare, dopo i fallimenti degli ultimi anni.

La Stampa 4.12.13
Roma, disoccupati assaltano sede Pd
Cinquanta persone in commissariato
I manifestanti: «Volevamo far sentire la nostra voce»

qui

Repubblica 4.12.13
Pippo Civati
“Se vinco io il governo avrà vita breve ma temo un patto tra ex Dc ed ex Ds”
Pippo Civati, deputato eletto nel collegio di Monza e Brianza, classe 1975, è uno dei tre candidati alle primarie per la segreteria del Pd
“È sbagliato pensare che io sia solo il candidato dei social network, ho visto migliaia di persone in questi mesi“
“Da segretario aprirei subito una indagine interna per stanare i 101 franchi tiratori e porterei a Prodi la tessera 2014”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA — Vincitore morale del confronto tv su Sky, la parola chiave #vinceCivati in testa alla classifica Twitter degli argomenti più seguiti, al candidato alla segreteria del Pd Pippo Civati tocca adesso il compito di confermarsi ai seggi delle primarie domenica. Dimostrare cioè che il suo non è solo un successo virtuale. «Ma io incontro gente in carne e ossa da mesi. Ho cominciato in estate, ho continuato in autunno. Ho appena finito un incontro in Val di Susa. Lì non c’è niente di virtuale». Se diventasse segretario correrebbe subito da Romano Prodi a Bologna. «Gli porto la tessera numero uno del Partito democratico per il 2014». E poi? «Apro un’indagine interna per stanare i 101 franchi tiratori».
Lei è contro la Tav?
«Sono critico da sempre. Con gli argomenti dell’economista Roberto Perotti, con quelli del Pd locale. Vale a dire senza violenze, senza provocazioni. L’opera in Val di Susa è sproporzionata rispetto alle vere esigenze».
È il candidato dei social network, perfetto per Twitter con un linguaggio secco adatto ai 140 caratteri. Ma domenica si vota nei gazebo.
«L’immagine del candidato di Internet è sbagliata. Ho visto migliaia di persone negli ultimi quattro mesi. E alle mie iniziative ho incontrato la gente del Pd e i delusi del Pd. Anche in Val di Susa ho parlato con Eleonora e Donatella. La prima non ci votava più ma stava pensando di tornare, la seconda aveva fatto lo sforzo l’ultima volta promettendo a se stessa di non farlo più. Io mi sento come loro. Mi accompagna l’insofferenza per la politica e dentro ci finisce anche il Pd. Ma si può cambiare. Basta mettersi dalla parte dell’elettore enon del dirigente o del parlamentare.Io faccio così».
Renzi vuole passare dalla segreteria per arrivare a Palazzo Chigi. Cuperlo pensa di fare solo in segretario. E lei?
«Se dovessi vincere le primarie non ci sarebbe un automatismo.Non mi sentirei già in corsa per la premiership. Ma se vincessi cambierebbe il mondo e tutte le porte si aprirebbero. Sicuramente il governo Letta non avrebbe vita lunga. Io penso che anche Renzi voti per me nel segreto dell’urna perché sono l’unico che punta a mandarea casa le larghe intese».
Non sembra che Renzi voglia allungare la vita a Letta.
«Lui dice “tra un po’ tocca a me”. Ma tra un po’ non esiste in politica».
E il Pd?
«Bisogna ricostruire un centrosinistra tenendo insieme Sel e l’area Rodotà».
L’area Rodotà?
«È quell’area psicologica che sta tra Sel, il Pd e i 5 stelle. Da lì si può ripartire per creare una proposta politica. Poi, ci sono i giovani. Dobbiamo recuperare quel voto. A loro ho dedicato tutta la mia campagna».
Ha visto che per Cuperlo si sono schierati i pensionati della Cgil?
«Ho visto. Roba burocratica, come burocratica è stata tutta la campagna di Cuperlo, a cominciare dallo slogan se vinco faccio solo il segretario che vuol dire tutto e niente. Ho chiesto ai nipoti di chiedere ai nonni di votare per me. Forse ci scappa anche un invito a pranzo... Non capisco a cosa serva il sostegno della Spi Cgil quando hai già Carla Cantone in lista. Siamo passati dalla cinghia di trasmissione alla newsletter di trasmissione».
Cuperlo teme un patto democristiano tra Letta e Renzi.
«Io temo un patto neocentrista tra democristiani a cui partecipano appassionatamente anche quelli che vengono dai Ds».
Per la legge elettorale dobbiamo attendere la Consulta.
«Attendiamo. Ma un gruppo dirigente completamente rinnovato, dopo l’8, porta in aula il Mattarellum. Bisogna forzare e se non c’è l’accordo saranno gli altri a dirti di no. Sarà Grillo a giustificare il suo rifiuto».
Cosa fa il giorno dopo la vittoria?
«Vado da Romano Prodi e gli consegno la tessera numero del Pd. Aspetterò al freddo perché non sarà facile convincerlo».
Questa storia dei 101 traditori non è diventata una fissazione?
«Io posso dire che nessuno dei 101 sta con me. E se vinco chiederò di avviare subito un’indagine interna su di loro».
Addirittura.
«Sono dalla parte degli eretici e non degli inquisitori ma ci vorrebbe una discussione aperta tra di noi, vorrei capire come il gruppo parlamentare ha vissuto quei giorni. Sarebbe una prova di maturità per il Pd».
Non è acqua passata?
«Mica tanto. Tutte le sere mi chiedono di parlare di Prodi e dei 101».

La Stampa 4.12.13
Le altre scelte
Cuperlo punta sulla segreteria itinerante, Civati su Barca
di Francesca Schianchi


«Se vincerò io, nella mia segreteria ci sarà un membro distaccato a Bruxelles, perché l’agenda europea è un pezzo dell’agenda italiana, e una volta al mese riunirò a Bruxelles la segreteria», annuncia Gianni Cuperlo. «La mia sarebbe una segreteria itinerante: non la riunirei sempre a Roma, ma in diverse città d’Italia, nei luoghi della difficoltà, della crisi». Se domenica i gazebo eleggeranno leader del Pd lui, nella sua squadra ci sarà «un numero paritario di uomini e donne», impegno già preso anche da Matteo Renzi, «e una miscela di rinnovamento ed esperienza, con anche alcune figure provenienti da mondi esterni al Pd: iscritti al partito, ma appartenenti a movimenti e associazioni». L’identikit è tracciato. E i nomi? Nessuno di ufficiale. «Io sono scaramantico, meglio non farli», sorride un suo sostenitore, il deputato napoletano Enzo Amendola. Ma nei corridoi di Montecitorio qualche ipotesi già si azzarda: ad esempio, potrebbero trovare spazio in una sua squadra due giovani deputati della corrente dei «turchi», 61 anni in due, Valentina Paris e Fausto Raciti, che è pure il responsabile dei «giovani». Oppure, sempre in quota «rinnovamento», potrebbe essere preso in considerazione Enzo Lattuca, capolista a Cesena, il parlamentare più giovane di questa legislatura. Buone probabilità vengono date anche al fiorentino Patrizio Mecacci, responsabile del comitato elettorale. Se invece a vincere sarà Pippo Civati («tanto vinco io», ripete lui sicuro), uno dei nomi è già certo, lo ha annunciato lui venerdì a Sky: Maria Carmela Lanzetta, già sindaco anti ‘ndrangheta di Monasterace. Ma ci sono altre personalità che vorrebbe portare in una eventuale squadra, mixando esperienza e nuove leve: l’ex ministro Fabrizio Barca, il senatore Walter Tocci, ma anche il giovane assessore provinciale di Reggio Emilia Mirko Tutino e una delle leader del movimento OccupyPd, Elly Schlein.

Repubblica 4.12.13
“Risultati subito o Pd spazzato via”
Renzi pensa già al test delle europee lite con Cuperlo sul presidenzialismo
E il sindaco vuol azzerare i rimborsi ai consiglieri regionali
Matteo Renzi


ROMA — Per riguadagnare terreno, martella contro il gran favorito del voto di domenica prossima. Cuperlo alzo zero contro Renzi. «Leggo dichiarazioni del sindaco di Firenze sinceramente un po’ a vanvera sulla legge elettorale e sull’elezione del premier». Non entra «nelle sue disquisizioni» ma per il candidato alla segreteria del Pd Renzi «disegna un sistema presidenziale che nasconde dietro l’ipotesi del sindaco d’Italia. A quel disegno dico no». Perché «già qualcun altro ha provato in questo paese, in questi anni, a costruirsi un sistema simile». Chiaro il riferimento a Berlusconi. E’ la dura risposta al sindaco di Firenze che insiste su una legge elettorale disegnata sul modello di quella in vigore nei Comuni. E che poi avverte: «O noi, come Pd da fulcro del governo, riusciamo a far sì che Letta riesca a fare le cose che servono agli italiani o alle prossime elezioni Grillo e Berlusconi ci fanno un bel panino e ci portano via». Poi, nel corso di “Porta a porta”, annuncia che azzererà i contributi ai gruppi politici regionali: «Le loro indennità costano più di quelle dei deputati, 965 milioni all’anno. Per me, nel 2014 i rimborsi diventanozero».Però Cuperlo invita a stare attenti «alla demagogia e all’antipolitica che serpeggia: sono il primo a dire che serve ridurre il numero dei parlamentari e bisogna arrivare al monocameralismo. Ma non ci sto all’iconoclastia contro le istituzioni». Il rush finale delle primarie si gioca dunque con Cuperlo all’attacco, ma anche bersaglio di una polemica per il sostegno che ha ricevuto dallo Spi-Cgil: una lettera ai pensionati del sindacato per invitarli a votare a favore del candidato che viene dai Ds. Lo Spi rivendica l’endorsement, «la lettera è rivolta ai dirigenti del Pd che parteciperanno alle primarie», e si sorprende che ne sia nato un caso, «nessuno scandalo: la scelta della segretaria Carla Cantone era nota da tempo». Cuperlo si dichiara «onorato» del sostegno dei pensionati della Cgil, Renzi ironizza: «Contenti loro... Io la Cgil in piazza l’ho sempre avuta, e comunque anche lì c’è chi mi vota». Ma riuscirà a “separare” il Pd dalla Cgil? «Il sindacato — è la risposta — fa un altro lavoro». Renzi torna sulla battaglia delle cifre sull’affluenza per domenica prossima. «Se vota meno di un milione e mezzo di persone è una sconfitta, un brutto segnale. Se votano due milioni è un bel risultato». Detto questo, «va bene il calcolo sui vo-ti, ma non vorrei che qualcuno dicesse che hanno votato “solo” un milione e mezzo o due milioni di persone». Si sente la vittoria in tasca? «No. Chi lo dice vuol fregarmi, vogliono allontanare la gente dalle urne. Decidono i cittadini».
Come ripete poi ai simpatizzanti che lo accolgono al Teatro Olimpico di Roma con i cartelli “Tutti con Renzi”, «a me — scherza — può bastare il 50 per centopiù uno». E continua a giurare di non puntare alla poltrona di Letta («se fosse davvero il mio obiettivo, avrei giocato un’altra partita e non mi sarei candidato a segretario del Pd»). Pippo Civati invece spara dritto sul governo, visto che «Renzi un giorno lo contesta e l’altro lo appoggia». Il terzo “incomodo” nella corsa alla segreteria perciò dà lo sfratto all’esecutivo, con la seguente tabella di marcia:«Novanta giorni per fare le riforme, poi scioglimento ed elezioni anticipate, in modo di avere un nuovo governo già in sella per il semestre europeo di presidenza italiana». Civati sa che è una scommessa difficile, per cui con lealtà si dice pronto «se perdo le primarie a rispettare la linea del nuovo segretario sul governo».
(u.r.)

La Stampa 4.12.13
Renzi: “Il mio non sarà il Pd della Cgil”
Il sindacato dei pensionati chiede ai suoi di votare Cuperlo
Che incalza il sindaco: “Troppi attacchi al governo”
Sale la preoccupazione per la partecipazione al voto: sarà un flop sotto il milione e mezzo
di Francesca Schianchi


ROMA Dagli studi di «Porta a porta», Matteo Renzi invoca un «patto alla tedesca» entro gennaio, un «programma dettagliato» di quello che il governo intende fare nel 2014. Dall’Abruzzo, dove si trova per promuovere la sua candidatura, Gianni Cuperlo sospira: «Ma cosa sono quelle di oggi se non minacce a Letta?
Non ho controllato se oggi sia un giorno pari o uno dispari, ma tanto ormai Renzi non alterna nemmeno più i giorni. Ormai le 0% 20% 40% minacce arrivano quotidianamente...».
A cinque giorni dalle primarie che, domenica, eleggeranno il quinto segretario del Pd, i tre candidati in gara, Renzi, Cuperlo e Pippo Civati, mentre girano l’Italia in lungo e in largo per convincere gli ultimi indecisi, si inviano a distanza rimproveri e frecciatine. A partire dal rapporto col governo, la questione fondamentale che il neo leader dovrà affrontare a partire dalla settimana prossima, a cui si avvicina con dichiarato ottimismo il premier Enrico Letta: «Chiunque sia il segretario del Pd lavoreremo bene insieme per fare del 2014 l’anno delle riforme», dice.
Così, se Matteo Renzi in una full immersion romana tra tv ed evento pubblico al Teatro Olimpico si prefigge che entro le elezioni europee del prossimo anno una nuova legge elettorale sia passata almeno in una Camera, come pure il superamento del bicameralismo perfetto, se chiede che si possa ridiscutere il vincolo europeo del 3% tra debito e Pil perché «l’Europa non è il Vangelo» e torna sulla questione di un traino Pd al governo («non dico che Alfano non conta niente: dico che va bene collaborare, ma partendo da rapporti di forza che non sono quelli che hanno caratterizzato questi ultimi mesi in cui sembrava che il Pd fosse a ri-
morchio», a cui poche ore dopo risponde il vicepremier: «Renzi è nervoso perché noi del centrodestra siamo avanti nei sondaggi»), da Avezzano Cuperlo gli ricorda che quello degli ultimatum «è lo stesso metodo usato da Berlusconi, da Brunetta e Gasparri» e gli chiede se «noi il governo lo vogliamo aiutare o lo vogliamo fare cadere». Ultimi giorni di campagna elettorale, in attesa di gazebo che tutti prevedono meno affollati del solito: «Secondo me vota molta meno gente delle altre volte. Ma se ce la mettiamo tutta possiamo raggiungere i due milioni», incoraggia il sindaco di Firenze, mentre Civati – ieri in Piemonte, impegnato in alcu-
ne iniziative dopo un pranzo con Zagrebelsky mette in guardia che «se voterà meno di un milione e mezzo di persone sarà una tragedia».
E un fuocherello di polemica si accende anche su una lettera, resa nota ieri dal quotidiano «Europa», inviata dallo SpiCgil a suoi dirigenti iscritti al Pd invitandoli a votare Cuperlo: «Non commento, mi sembra meglio», taglia corto il rottamatore, «il Pd fa il Pd e il sindacato il sindacato. Ad ognuno il suo mestiere». «Nessuno scandalo: l’impegno di Carla Cantone a favore della candidatura di Cuperlo è noto», scrivono dal sindacato. Dal comitato Cuperlo, il coordinatore Patrizio Mecacci fa sapere che è un «orgoglio» il sostegno dei pensionati Cgil: «Noi – la chiosa maliziosa preferiamo il sostegno dei lavoratori ai tanti endorsement di personaggi che non rappresentano chi lotta ogni giorno per difendere il lavoro e l’impresa».

Corriere 4.12.13
Dall’affluenza al «tasso di infedeltà», i numeri che agitano la corsa del sindaco
di Renato Benedetto


MILANO — Una previsione che è quasi un sillogismo, un-due-tre e via: Matteo Renzi ha vinto tra gli iscritti; il sindaco è più forte tra i non tesserati; la sua vittoria finale sarà maggiore che nei circoli. Queste le proiezioni che circolano mentre si avvicinano le primarie dell’8 dicembre. Troppo semplice, si dirà: nessun bookmaker pagherebbe troppo il successo del sindaco. Più fruttuoso allora puntare a indovinare il risultato: capire in che misura e come. Sull’exploit del favorito, infatti, incombono diverse questioni.
La prima è l’affluenza: indice di buona salute del Pd e misura di legittimazione del segretario. «Se vota meno di un milione e mezzo di persone è una sconfitta. Se votano 2 milioni è un bel risultato», continua a dire Renzi. È atteso un calo. Il trend è in costante discesa: «Dai 4,3 milioni nel 2005 alle primarie vinte da Prodi si è arrivati ai 3,6 milioni di Veltroni e ai 3,1 milioni di Bersani nel 2009 e 2012», dice Fulvio Venturino, dell’ateneo di Cagliari, coordinatore con Luciano Fasano, dell’Università di Milano, di Candidate & Leader Selection (gruppo di studio della Società italiana di Scienza politica che da diversi anni effettua analisi e rilevazioni sulle primarie). E la discesa continuerà, l’elenco dei motivi è lungo: «Sono primarie di partito; si viene dal caos tessere e il Pd non ha dato grande immagine di sé; non siamo in campagna elettorale come nel 2012». E, cattivo presagio, i dati in picchiata arrivano anche dalla prima linea dei militanti: 300 mila voti nei circoli contro il mezzo milione del 2009. La previsione è quindi che ai gazebo si presentino intorno ai 2 milioni o meno (1,8 milioni).
Poi, al di là dell’affluenza , vincere non basta: bisognerà superare la metà delle preferenze. Altrimenti i primi due candidati andranno al ballottaggio nell’assemblea nazionale: qui siedono i 1.000 delegati eletti l’8 dicembre (in misura proporzionale ai voti dei tre candidati), 100 tra senatori, deputati ed europarlamentari, i 20 della commissione congresso e i segretari regionali. Il quorum sarebbe quindi a 571 e sono possibili accordi tra secondo e terzo classificato. Ma, per le proiezioni di C&LS, il sindaco supererà la soglia: prenderà tra il 58%, nel peggiore dei casi, e il 68%. «In tutte le scorse primarie la proporzione tra iscritti e non iscritti è sempre stata la stessa: un tesserato ogni 4 elettori delle primarie, i “selettori”», indica Venturino. Ipotizzando 1,8 milioni ai gazebo, quindi, gli iscritti saranno 450 mila: «Renzi può contare sulla metà di questi, in base al risultato del voto dei circoli (45,3%, più l’endorsement di Pittella)». Un anno fa Renzi fu sconfitto da Bersani: 36% a 45% al primo turno. Ma se tra gli iscritti fu una batosta (20% contro 74%), tra i non iscritti la spuntò il sindaco (41% contro 38%). «E oggi non affronta il leader del Pd ma personaggi meno noti, e con un partito che, anche per opportunismo, ha in parte cominciato ad appoggiarlo. Tra i non iscritti prevediamo che raggiunga il 75%». Più di un milione di elettori che, con oltre 200 mila preferenze tra gli iscritti, lo farebbero balzare al 68%. «Ma, anche con una performance bassa tra i non iscritti come il 60%, il risultato finale non va sotto il 58%».
I nodi, però, non sono ancora sciolti del tutto. Perché alle primarie, a differenza delle Politiche, conta anche chi ha perso. Si vota il segretario, certo, non il candidato premier: questa sarà battaglia del dopo congresso. Intanto ci si può chiedere: i sostenitori degli sconfitti, voterebbero il vincitore in caso di elezioni? Il tasso di «infedeltà» è in aumento: sempre più «quote consistenti di supporter dei candidati sconfitti tenderebbero successivamente a rifugiarsi nell’astensionismo o nella defezione (il voto per uno schieramento concorrente)», nota Fasano (ricerca condotta con Mariano Cavataio). E questo «anche tra iscritti e veterani», tradizionalmente fedelissimi. Gli «infedeli» erano, tra i non iscritti, il 6,1% nel 2007, sono lievitati al 11,3% nel 2013 (il 55,4 è certo di votare comunque il vincitore). Tra gli iscritti: si passa dal 2,6% al 5,7%. La conquista di partito ed elettori dovrà andare in scena anche dopo le primarie.

Repubblica 4.12.13
Perché le Primarie non bastano
di Barbara Spinelli


MANCANO pochi giorni alle primarie del Pd, ed ecco che nella sinistra tedesca si comincia a correre molto più rapidamente, più spavaldamente che in Italia. In gioco non è più soltanto la designazione del leader: pratica che s’è estesa in Europa, tranne nella destra italiana, senza però fermare il degrado dei partiti.
Nelle prossime settimane, i 475mila iscritti del partito socialdemocratico (Spd) voteranno sul programma di governo che i propri dirigenti hanno concordato con Angela Merkel, e il 14 dicembre emetteranno la loro sentenza: sì o no alla Grande Coalizione, sì o no alle singole politiche, sì o no a un’alleanza diversa da quella promessa in campagna elettorale. La sentenza sarà accolta se voteranno almeno 95.000 militanti (il 20% dei consultati).
Le nostre primarie sbiadiscono, di fronte a un salto di qualità che con vigore rimette al centro gli iscritti. La crisi dei partiti è riconosciuta, la loro personalizzazione è giudicata calamitosa. È sulla sostanza delle politiche che si vota, non su leader più o meno promettenti. È come se i socialdemocratici dicessero: sappiamo che c’è stato tradimento, che il piano negoziato con la Merkel non è quello che volevamo realizzare con i Verdi (giustamente Guido Rossi lo chiama piano non della Grande Coalizione ma della Grande Stagnazione.
C’è il salario minimo, ma nessun progresso sull’Europa). Ma non ci appelleremo alla Necessità — dicono i vertici Spd — non celebreremo la Stabilità come valore assoluto. Potete dire no, siamo davanti a un bivio e non a un vuoto di alternative. Nel mare della Necessità, voi iscritti avete una libertà, e una responsabilità, che per anni vi avevamo negato.
Questa libertà, l’economista Amartya Sen la chiama capacitazione, empowerment. Specie in tempi di malessere economico e democratico, occorre dare ai cittadini il senso di avere un potere, tale da influenzare la politica: «La capacitazione è una sorta di libertà: la libertà sostanziale (...) di mettere in atto più stili di vita alternativi».
La socialdemocrazia sa perfettamente i rischi: fiuta il sì della base, manon può esserne del tutto certa. La democrazia rappresentativa che vuol salvare potrebbe guastarsi ancor più. Se ha deciso di correre pericoli così vasti è perché ben maggiore gli è apparso il pericolo della stasi, delle cerchie partitiche sempre più lontane dalla base. Il voto sulla Grande Coalizione è un atto di consapevolezza, un conosci te stesso al contempo umile e astuto: se patteggiamo con chi abbiamo avversato senza consultare la base rischiamo il tracollo, l’illegittimità democratica. Accadde nella Grande Coalizione del 2005-2009: 23% di voti in meno, subito dopo. Non si violano impunemente i patti con l’elettore.
Dunque si torna alla prima fonte di legittimità che sono gli iscritti, troppo a lungo esautorati, dando loro nuovi diritti-poteri ma anche nuova voglia di far politica, di governare. Dice Sigmar Gabriel, presidente Spd: «L’intera responsabilità è nelle mani del singolo iscritto». Il partito deve rispondere alla base di quel che fa, e viceversa. Da promettenti che erano, i capi si fanno rispondenti.
Per questo le vicende tedesche sono così importanti per le nostre primarie. Dice Pippo Civati, pensando alla Spd: «Da noi abbiamo un partito ben diverso, che non si fa mai vivo con i suoi elettori». Il Pd declina, mentre Grillo sale. Non basta incoronare il capo, se non si sa bene cosa farà.
Non ammettere la crisi dei partiti, e in genere della democrazia rappresentativa, è la via più sicura per svilire ambedue. Come partito hai un potere dilatato al centro, più danaroso, ma in cambio immoli la fiducia degli elettori e le periferie. Lo spiega con nitida crudezza il politologo Piero Ignazi: il partito diventa un «cartello elettorale statocentrico» — parte dello Stato, non più controparte — ma perde legittimità scansando la società (Forza senza legittimità, Laterza 12). La forza persuasiva di ricostruttori come Fabrizio Barca (il suo candidato è Civati) nasce da analisi simili.
Adottare il conosci te stesso è colmo di insidie, non ignote alla Spd. Nella democrazia rappresentativa entrano elementi di democrazia diretta, e secondo alcuni la Costituzione ne soffre. Lo sostiene il giurista Christoph Degenhart, sul giornale Handelsblatt, e non è il solo: se gli iscritti possono disfare le politiche dei propri capi e parlamentari, cade un principio nodale della Carta: quello che vieta, in Germania e Italia, il vincolo di mandato. Barca ricorda tuttavia i dissensi tra i padri costituenti. Per Ruggero Grieco, l’esclusione di vincoli favoriva «il sorgere del malcostume politico».
Secondo Degenhart, il referendum prefigura un mandato imperativo, assente nella Carta: la base detterebbe legge ai rappresentanti. Non solo: anche il principio del popolo sovrano verrebbe eluso (art. 1 della nostra Costituzione. In Germania l’art. 20 include il «diritto alla resistenza» se la Carta è violata). Non sarebbe il popolo a decidere, ma infime sue porzioni. «La maggioranza vota i rappresentanti della politica, una minoranza vota sui contenuti» (Jasper von Altenbockum, Frankfurter Allgemeine 23-11).
A queste obiezioni, Gabriel replica segnalando il degrado della democrazia rappresentativa: il popolo sovrano non ha votato la Grande Coalizione (danoi non ha eletto le Larghe Intese). Consultare i militanti è forse l’unico modo per frenare la dilagante ripugnanza — in Germania si chiama Basta-Politik —per la politica e i partiti. Incostituzionale è escludere i corpi intermedi fra popolo e Stato (o governo): la vera sovranità apparterrà a ristrette élite di tecnici o parlamentari definiti Saggi. La Carta prescrive infine partiti democratici: anche quest’ordine va rispettato. «Il referendum farà scuola in Europa», aggiunge Gabriel.
L’ascesa del M5S è frutto di un deterioramento oligarchico della rappresentanza specialmente acuto. Accentuato da un Porcellum cui l’oligarca s’aggrappa. Immerso nella Basta-politik, Grillo esige come correttivo innestidi democrazia diretta e deliberativa. Poco chiaro resta l’orizzonte che propone, e se le ambiguità di una democrazia più referendaria siano percepite. Tutto dipende da come vengono poste le domande, nel nuovo ordinamento. Prendiamo il referendum sull’Europa, voluto o sognato da 5 Stelle. È un’uscita benefica dalla crisi della rappresentanza se i cittadini sono messi davanti a precisi propositi alternativi (nel caso della Grosse Koalition: salario minimo per tutti a partire dal 2017; età pensionabile che scende in alcuni casi da 65 a 63 anni). Non è benefica se la scelta è fra euro o non euro: sarebbe cadere da un guaio a un altro, dall’illusione tecnocratica a quella nazionalista, i cui disastri son noti.
Ben altra prospettiva se il referendum di M5S contenesse la domanda essenziale: «Visto che l’austerità europea non ha legittimità democratica, siete favorevoli o no a un’altra Europa,che mantenendo la moneta unica scelga come fondamento la solidarietà, gestisca insieme i debiti, abbia una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, aumenti il bilancio comune per finanziare una collettiva ripresa ecosostenibile, si dia una vera costituzione democratica, non partecipi più supinamente a guerre esterne?». È la linea di Tsipras in Grecia, in vista delle elezioni europee di maggio, e in Italia di Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo. Allora sì varrebbe la pena indire un referendum: non solo in Italia ma nell’Unione. Non è la strada di 5 Stelle, ma quel che resta delle sinistre potrebbe imboccarla.
Grillo a parte, solo la sinistra riconosce, quando vuole, la forza ormai illegittima dei partiti. In Italia le destre sono mute, e altrove seguono arrancando. Enorme è la sua responsabilità, se mancherà l’occasione di reinventare sia la democrazia, sia l’Europa.

l’Unità 4.12.13
Quei cattolici alle origini della Seconda Repubblica
di Stefano Ceccanti


LA LEGA DEMOCRATICA (1975-1987), È STATA UN’ESPERIENZA DI GRANDE SEMINAGIONE: per questo merita il lavoro di ricostruzione storica di Lorenzo Biondi («Dalla Democrazia Cristiana all’Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica», Viella, Roma, 2013). Come ricorda l’autore, da essa provengono i due presidenti del Consiglio cattolici della seconda fase della Repubblica (Prodi e Letta), due dei dodici estensori del Manifesto del Pd (Scoppola e Tonini) e altri due di area (Rognoni e Mattarella).
Il passaggio recente più vicino, precedente alla fondazione della Lega, è il cartello dei cattolici per il No al referendum sul divorzio. Tuttavia gli elementi di rottura tra le due esperienze sembrano superiori a quelli di continuità. Il nucleo che passa dal No alla Lega è decisamente più moderato soprattutto nell’analisi ecclesiale e in parte anche in quella politica (non considera né negativa per il passato né del tutto chiusa l’interlocuzione con i settori di sinistra della Dc), viceversa gli altri settori del No che non aderiscono alla Lega sono già orientati nell’area del cosiddetto dissenso ecclesiale e su scelte politiche più radicali. Per inciso il libro, nel caso dei referendum sull’aborto, sembra segnalare una sorta di ricomposizione, eccettuata l’area del cosiddetto dissenso: in realtà essa fu più apparente che reale.
Sotto l’apparente unità di voto, la Lega Democratica e l’associazionismo cattolico democratico fecero di fatto campagna soprattutto contro il referendum radicale che intendeva passare dalla depenalizzazione alla liberalizzazione, con una vicinanza obiettiva ai settori più moderati che difendevano la legge; viceversa i settori di cultura più intransigente fecero campagna soprattutto a favore del referendum del Movimento per la Vita, quasi equiparando chi difendeva la legge ai radicali che la volevano snaturare.
La nascita della Lega è quasi simultanea all’elezione di Zaccagnini a segretario della Dc e questa prima fase è segnata dalla prevalente «sintonia». Anche la necessità degli accordi di solidarietà nazionale col Pci potenzia il ruolo elaborativo della Lega, in particolare di Scoppola, che vi vede la possibilità di dare una più solida base comune rispetto all’esperienza troppo breve dell’unità antifascista rottasi nella primavera del 1947, base che un domani possa consentire un’alternanza non traumatica. Tutto cambia però dopo le elezioni del 1979 e il congresso Dc del preambolo. Inizia una seconda fase molto confusa in cui si sommano stimoli diversi: Scoppola comincia a riflettere sul cambiamento delle regole elettorali e istituzionali, disperando sulle potenzialità di rinnovamento dei partiti; Ardigò si sposta più sulle policies relative al welfare e su una spinta movimentista che faccia della Lega un soggetto autonomo. Una divaricazione che, sotto la segreteria De Mita, porta alcuni a candidarsi in Parlamento nella Dc (ma Scoppola lascerà nel 1987 dopo una sola legislatura sempre meno convinto della riformabilità interna) e gli altri a spingere per una diffusione molto larga della Lega come associazione che si rivela velleitaria. Sia negli uni che negli altri resta una forte diffidenza per il nuovo corso socialista, però il gruppo si divide su due scelte molto significative di policy in cui il Psi gioca un ruolo decisivo: l’installazione degli euromissili e il taglio della scala mobile, con Scoppola favorevole insieme ai settori di matrice più liberale e morotea, e Ardigò e i settori più movimentisti contrari.
Mentre il primo sistema dei partiti della Repubblica frana, la Lega come tale chiude, ma i suoi vari esponenti si ritrovano in molti passaggi successivi sul versante del centrosinistra. In particolare la rivista «Appunti di cultura e di politica» sarà per un decennio, intorno a Scoppola, il perno di larga parte dell’innovazione elettorale e istituzionale che passerà per i referendum elettorali; i settori più movimentisti si spenderanno soprattutto nella Rete, con una divisione marcata specie sulla legittimità e l’opportunità del primo intervento nel Golfo, per poi ricongiungersi nel Partito democratico. Si tratta quindi più di un’area politico-culturale unita dalla collocazione a sinistra nel sistema bipolare, da una distinzione marcata tra scelte rigorose personali e ruolo limitato della legge, ma profondamente articolata quanto a modalità di concepire una moderna cultura di governo, non a caso con esiti diversi in molti passaggi chiave. Forse il Pd senza di essa non ci sarebbe stato, almeno con l’ampiezza di prospettive che, nonostante tutto, vediamo ancora aperte col voto di domenica.

il Fatto  4.12.13
Pesaro. Pedofilia, prete condannato

Due anni e sei mesi di reclusione per abusi sessuali su minori e atti osceni in luogo pubblico. Il Gup di Pesaro ha condannato con rito abbreviato don Giangiacomo Ruggeri, ex portavoce del Vescovo di Fano. In un video della polizia, Ruggeri era stato ripreso in spiaggia con una 13enne. Ansa

Repubblica 4.12.13
La primavera della Chiesa
di Enzo Bianchi

priore di Bose

Papa Francesco ci ha donato senza troppe dilazioni l’esortazione post-sinodale secondo i voti dei padri del Sinodo sulla nuova evangelizzazione (ottobre 2012), al quale ho partecipato come esperto chiamato da Benedetto XVI. L’evangelizzazione vi è presentata nell’ottica della gioia cristiana, perché il Vangelo è sempre un gioioso annuncio.
Nel testo vi sono sì echi delle proposizioni del Sinodo, ma i contenuti rispondono soprattutto alla visione di papa Francesco, alla sua lettura dell’attuale situazione della chiesa nel mondo.
Innanzitutto è riaffermato ancora una volta il primato del perdono di Dio, che non si deve meritare ma solo accogliere come un dono, affinché noi uomini e donne — operatori di male anche se non lo vogliamo — possiamo alzare il capo e ricominciare con speranza la sequela del Signore. Se davvero il cristianesimo è “un andare di inizio in inizio per inizi che non hanno fine” (Gregorio di Nissa), allora la vita cristiana è gioiosa, sa sperare anche nella disperazione. Qui papa Francesco si fa “servitore della gioia dei credenti” (Paolo VI) e riesce a ridare forza alla fede come convinzione, a ridare slancio alla corsa del Vangelo nel mondo.
Ma il vescovo di Roma pone anche dei limiti alla sua esortazione: è rivolta a tutta la chiesa, ma non pretende di essere esaustiva. Per questo rinuncia a trattare in modo specifico molti temi che abbisognano di approfondimento da parte delle singole chiese. Non a caso, nelle note appaiono — dato inconsueto per un documento papale — testi di alcune conferenze episcopali. La voce del Papa non esaurisce quelle dei vescovi né le copre: già questo è un principio di decentralizzazione.
Il Papa passa poi a delineare la riforma della chiesa e a indicare la modalità, lo stile della sua testimonianza nel mondo. Tra i tanti temi, i punti più decisivi sono la conversione del papato, la gerarchia delle verità, il senso dei limiti ecclesiali e la mondanità. Certo, grande spazio prende il tema della povertà della chiesa e della sua azione per i poveri del mondo, i primi clienti di diritto della parola di Dio.
La “conversione del papato” (sic)sta nello spazio della conversione richiesta a tutta la chiesa. Se il papa invita tutti — vescovi, preti e fedeli — a convertirsi ripudiando ogni forma di idolatria per tornare al Vangelo, l’appello riguarda anche il papato come forma di esercizio del servizio petrino.
Giovanni Paolo II, nell’enciclica sull’unità dei cristiani (Ut unum sint,1995), aveva avuto l’audacia di mettere in discussione la forma dell’esercizio del ministero petrino, invitando ortodossi e protestanti a dare suggerimenti per una maggiore fedeltà al Vangelo e all’intenzione del Signore nell’esercizio del vescovo di Roma. L’allora cardinale Joseph Ratzinger a questo proposito aveva anche detto che le chiese ortodosse non avrebbero dovuto accettare una forma del ministero petrino diversa da quella esercitata nel primo millennio. Poi però un forte silenzio è sceso su questo invito di Giovanni Paolo II. Papa Francesco sa che il cammino della riconciliazione tra le chiese non può ignorare che la forma attuale dell’esercizio del papato costituisce per ortodossi e protestanti un ostacolo decisivo… Occorre l’audacia di ascoltare tutti insieme il Vangelo e la grande Tradizione, occorre non avere paura.
Ma è significativo che il Papa riprenda un altro tema conciliare, quello della gerarchia delle verità. Egli invita, tanto per le verità di fede quanto per gli insegnamenti della chiesa e per la morale, a non appiattire tutto, ma a riconoscere ciò che è primario, fondamentale, e ciò che invece è derivato; ciò che è essenziale e ciò che lascia possibile la libertà di aderirvi o meno. Non basta l’ossessione dell’ortodossia per essere conformi al pensiero di Gesù Cristo. Le espressioni della fede devono essere plurali perché “multicolorata è la sapienza di Dio” (Ef 3,10), avverte l’Apostolo.
E infine il Papa — ormai l’abbiamo capito — ama snidare gli ipocriti, ovvero quei cristiani che amano la mondanità travestita da atteggiamenti spirituali. Sono religiosissimi all’apparenza ma non si preoccupano dei poveri cristiani loro affidati. Pensano di essere solidali con l’umanità attraverso la loro “presenza” a cene e ricevimenti o immergendosi in un funzionalismo manageriale, il cui beneficiario non è la chiesa dei fedeli ma l’istituzione ecclesiastica. Parole dure come quelle di Gesù agli uomini religiosi del suo tempo!
Per papa Francesco la mondanità è l’assetto ingiusto di questo mondo, le sue strutture di schiavitù, violenza e menzogna, i poteri invisibili e occulti che Paolo chiama árchontes, “potenti di questo mondo” (1 Cor 2,6.8). Per questo ricorda che anche la potestà di chi è ministro nella chiesa va inscritta solo nello spazio della funzione, non della dignità e della santità, perché la dignità viene dal battesimo e appartiene a tutti i cristiani, come anche la chiamata alla santità.
Ho evidenziato solo alcuni punti dell’esortazione che appaiono inediti e autonomi rispetto alle voci del Sinodo del 2012: sono il pensiero e il progetto di Francesco, attualmente vescovo di Roma. È chiaro che questo inizio di pontificato, le parole e i gesti di questo Papa e infine questa esortazione fanno gioire molti cattolici e non solo. C’è grande gioia e attesa, c’è un clima di primavera a volte esaltante e meravigliato. Non ho mai peccato di papolatria, ma non posso non riconoscere che anch’io partecipo a questa gioia ecclesiale. E tuttavia, senza voler fare “il profeta di sventura” (e me ne guardo bene, memore dell’ammonimento di Giovanni XXIII all’apertura del concilio), vorrei ricordare solo ciò che uno sguardo cristiano sa prevedere.
Se davvero con papa Francesco si imbocca una riforma evangelica della chiesa, non si deve cadere in un facile ottimismo o in un’atmosfera da canto di “vittoria”. Perché più la chiesa si fa conforme al suo Signore, più conosce fatica, sofferenza e finanche lacerazioni: c’è una necessitas passionis della chiesa che è dovuta a quella che è stata la necessitas passionis del suo Signore Gesù Cristo. Quel che è avvenuto per Gesù, avverrà per la chiesa e per ogni comunità cristiana, se è conforme al suo Signore, perché le potenze mondane messe al muro dalla “logica della croce” (1 Cor 1,18) si scateneranno e questo causerà un “urto” con il mondo, quella realtà che Francesco chiama mondanità. La conversione di ciascuno, e ancor più quella della chiesa, comporta tutto questo. La chiesa è sempre tentata di arrendersi al mondo, non mostrando più la differenza cristiana, svuotando la croce, annacquando il Vangelo, piegandosi alle richieste mondane; oppure è tentata di affrontare il mondo con intransigenza e di munirsi delle stesse armi della mondanità: presenza gridata, volontà di contare e di contarsi, atteggiamento da gruppo di pressione. In particolare sarà sempre difficile realizzare “una chiesa povera, di poveri e per i poveri”, una chiesa che non conti sui potenti di questo mondo.
Dunque l’entusiasmo per papa Francesco è grande e non va spento, ma occorre restare vigilanti e soprattutto essere consapevoli che, se il Papa non è aiutato dai vescovi, dai presbiteri e dal popolo, non riuscirà a fare nessuna riforma. Le riforme hanno bisogno della conversione e del sostegno del popolo di Dio, non possono essere compito di uno solo. Papa Francesco avrà contro soprattutto il vento delle potenze avverse, perché dovrà faticosamente intrecciare le riforme ecclesiali con il principio sinodale. E come ogni profeta sarà più ascoltato — come è avvenuto per il Battista e per Gesù — da quelli che si riconoscono peccatori, “pubblicani e prostitute” (cf. Mt 21,2; Lc 7,34; 15,1), “samaritani e stranieri” (cf. Lc 17,38; Gv 4,39-40), piuttosto che da quelli di casa sua.
Mi diceva Hans Urs von Balthasar: «La chiesa ha conosciuto poche primavere, sempre interrotte da gelate repentine». Apprestiamo tutto perché questa primavera sbocci e dia i suoi frutti.

La Stampa 4.12.13
“Ipocrita e marxista”
L’America dei Tea Party contro Papa Francesco
Il conservatore Limbaugh: la Chiesa fattura miliardi e parla di povertà
Nel documento presentato a novembre, Bergoglio ha chiesto “maggiore inclusione sociale dei poveri” e ha condannato “il consumismo sfrenato”
di Paolo Mastrolilli

qui

La Stampa 4.12.13
Indulto subito, poi la riforma
di Vladimiro Zagrebelsky


Le condizioni di detenzione in carcere in Italia, a causa principalmente del sovraffollamento, sono inumane e degradanti per gran parte degli oltre 60.000 detenuti (molti dei quali nemmeno condannati definitivamente). La situazione in Italia è grave. Basterà ricordare quanti detenuti si suicidano in carcere. Lo ha detto la Corte europea dei diritti dell’uomo. Da tempo lo dice forte e chiaro il Presidente della Repubblica. Lo hanno detto le due ultime ministre della Giustizia. Lo ha ribadito recentemente la Corte Costituzionale.
Nessuna discussione è più possibile sull’esistenza e sulla gravità del fenomeno in Italia. Le misure negli scorsi anni assunte hanno avuto effetti limitati. Ma la natura della violazione che commette l’Italia impone di eliminarla, non di ridurla. Già troppo tempo è passato. Il Presidente della Repubblica nel suo recente messaggio al Parlamento ha detto che la situazione carceraria rappresenta un «inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro Paese ha legato i suoi destini». Tollerare il perdurare di questa situazione significa abbandonare quei valori e isolare l’Italia.
Tutti dicono che occorrono riforme che affrontino il problema alla radice. E’ vero, ma elusivo poiché serve a occultare il rifiuto delle misure urgenti, che sole sono in grado di eliminare il problema. Ecco allora presentarsi ineludibile la necessità di rimedi straordinari. Senza attendere le riforme di sistema, se mai verranno.
Un provvedimento d’indulto produrrebbe subito la scarcerazione dei detenuti che sono comunque prossimi alla liberazione per aver già scontato una parte spesso rilevante della pena e dei condannati a pene brevi. Solo l’indulto risolve – certo temporaneamente, ma efficacemente il problema del sovraffollamento.
Un’amnistia potrebbe essere opportuna o addirittura necessaria, ma come conseguenza delle auspicabili riforme del diritto penale sostanziale (es. leggi penali in materia di stupefacenti, con almeno la riduzione di certe pene). Un’amnistia dunque mirata e selettiva, a seguito e insieme alle riforme penali, quando verranno.
L’indulto invece è prioritario e, nella scelta delle pene da estinguere, andrebbe finalizzato al solo scopo della riduzione del numero dei detenuti. Occorrerebbe cioè prendere in considerazione i reati per cui vi sono ora in carcere gran numero di detenuti.
Certo in luogo dell’indulto sarebbe meglio teoricamente una riforma che utilizzi un istituto come la liberazione anticipata, valutata e applicata caso per caso dal giudice. Ma ora non si tratta di scarcerare chi «se lo merita», ma di scarcerare subito chi no “si merita” di essere trattato in modo inumano. In ogni caso, stupisce in questa situazione la sordità del Parlamento e, non ostante la diversità delle originarie radici ideali, quella della quasi totalità delle forze politiche, omologatesi e resesi indistinguibili.

Repubblica 4.12.13
Sedata per partorire, così l’Italia abbandonò Ale
Dai tribunali dei minori ai ministeri, tutti i no alle richieste di aiutarla a riportare a casa la bimba
di Fabio Tonacci


CHIANCIANO — In questo paese avvolto nel gelo della campagna toscana, c’è una donna in guerra con la Gran Bretagna. Una donna malata, che sa di esserlo con la stessa consapevolezza con cui è convinta di essere stata violentata nei suoi diritti di madre. Vive a Chianciano da quando è tornata in Italia. Prende le medicine per cercare di sedare il suo demone, quel disturbo bipolare che le ha già fatto perdere l’affidamento delle prime due figlie, affidate a sua madre Antonia. Abita qui, in un appartamento anonimo a cinquemila chilometri dalla Court of Protection che il 23 agosto di un anno fa ordinò ai medici dell’ospedale psichiatrico di Chelmsford di farle un cesareo forzato. E che ventiquattrore dopo il parto, le ha strappato la neonata dalle mani. Ora non sa nemmeno più dove sia la sua piccola, a cui per vezzo ha dato quattro nomi. Scoraggiata, disorientata, a voltesconnessa. E arrabbiata con i tanti “Ponzio Pilato” che ha incontrato da quando ha chiesto aiuto.
Perché il caso della 35enne Alessandra Pacchieri, che oltre Manica ha sollevato un polverone di polemiche che in Italia rischia di passare sotto silenzio, è anche una storia di rimbalzi giudiziari, di fax finiti nel nulla, di ministeri italiani sordi, di Tribunali dei Minorenni che non si pronunciano o si pronunciano a metà. Come fa quello di Roma, che prima definisce tutta la vicenda «contraria ai diritti fondamentali che tutelano i minori». E poi archivia.
La situazione precipita il primo febbraio di quest’anno, quando il giudice Roderick Newton della Court of Chelmsford, pur definendo «unusual» il taglio cesareo forzato, decide per l’adottabilità della bambina. Bastava leggerla, quella sentenza, per capire dove stava andando a parare la storia. «È evidente — scrive Newton — che Alessandra attualmente stia molto bene e addirittura ha testimoniato davanti a me. Mi sembrava lucida, si esprimeva in modo chiaro in un inglese ottimo. Si rende conto che c’è la possibilità che Rose (nome di fantasia, ndr) non torni da lei, ha suggerito di farla rimanere in una casa famiglia per un anno. E comunque vuole che viva in Italia». Nonostante questo, gliela tolgono.
A quel punto i legali della donna, Stefano Oliva e Luana Izzo, depositano il 15 febbraio un’istanza urgente al Tribunale dei Minorenni di Firenze per conto dell’americana Indra Armstrong, sorella del padre di una delle figlie di Alessandra, che è disposta a prenderle in affidamento tutte e tre. Passano tre mesi prima che il tribunale si dichiari incompetente, perché «la bambina non ha mai risieduto stabilmente in Italia». Nel frattempo però, a marzo, la contea di Essex ha già rigettato la richiesta. «I servizi sociali inglesi — sostiene la Izzo — non hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di darla al padre biologico, che pure si era detto disponibile». La palla rotola a Roma al Tribunale dei Minorenni competente per gli italiani all’estero. I magistrati prendono tempo, studianole carte. Il 9 maggio gli avvocati informano il consolato italiano a Londra, chiedendo di intervenire per «verificare l’abuso di diritto nei confronti di due cittadine italiane». Nessuna risposta. Ci riprovano il 24 maggio, inviando una memoria questa volta anche al ministero della Giustizia e a quello degli Esteri. Qualcuno risponde, una settimana dopo. «Non rientra nella nostra competenza giurisdizionale perché la bambina è sempre stata in Inghilterra,suggeriamo di proseguire le vie legali in Gran Bretagna», scrive un funzionario del ministero della Giustizia. Dagli altri, silenzio.
E si arriva al 27 settembre di quest’anno, quando il Tribunale di Roma archivia il caso di Alessandra ( procedimento 1026/2013). Ma nella motivazione, inviata anche al Consolato italiano, si legge: «Il distacco immediato alla nascita della bambina dal genitore si pone in insanabile contrasto con le regole fondamentali che tutelano i diritti del minore in materia adozionale». Aggiungendo altre parole pesantissime: «La decisione giudiziale (della corte britannica, ndr) non può essere riconosciuta per contrarietà ai principi richiamati che costituiscono parte integrante dell’ordine pubblico interno e internazionale». Ma il caso viene archiviato per il solito «difetto di giurisdizione».
La macchina burocratica messa in moto da Londra per togliere Rose ad Alessandra non ha mai trovato un ostacolo degno di questo nome. Lei la vorrebbe riportare in Italia, anche se è consapevole di non poterla accudire. «Chiedo al nostro governo di fare chiarezza su quanto accaduto», dice il sindaco di Chiusi Stefano Scaramelli. Ed ha ragione. Qualcuno deve spiegare il perché di quest’inerzia delle autorità italiane. Il Consolato sapeva, i ministeri erano informati. Ma nessuno si è mosso. Perché?

Repubblica 4.12.13
In Gran Bretagna monta la polemica
Il presidente della Family Division avoca a sé il fascicolo: togliere una figlia alla madre è una misura troppo drastica
“Ditemi perché quella bambina è stata rubata” anche l’Alta corte inglese censura la decisione
di Enrico Franceschini


LONDRA — «Spiegatemi perché le avete rubato il bebè alla nascita». È il titolone a tutta prima pagina del Daily Mail di ieri, che attribuisce queste parole, nella sostanza se non proprio nella forma, al più alto magistrato britannico in materia di diritto di famiglia. Così il processo sull’adozione della bambina italiana nata in Inghilterra, ma portata via alla madre dai servizi sociali britannici subito dopo un parto cesareo, ha cambiato tribunale. Dopo il rilievo dato alla vicenda dai media sia in Gran Bretagna che in Italia, sir James Munby, presidente della Family Division dell’High Court di Londra, la corte di più alto livello esistente in questo paese sul diritto di famiglia, ha avocato il caso a sé, chiedendo di sapere perché la neonata è stata tolta alla propria mamma, Alessandra Pacchieri, l’italiana 35 anni sofferente di bipolarismo al centro della controversa vicenda. Il giudice ha quindi di fatto estromesso il tribunale dell’Essex, la contea vicina alla capitale in cui si è svolto finora il procedimento, deliberando che ogni successiva mossa sul destino della bimba dovrà essere discussa davanti a lui.
Il Daily Mail sottolinea che sir Munby, da quando ha assunto l’incarico di presidente di questo super-tribunale di famiglia nel gennaio scorso, ha fatto numerose dichiarazioni a favore dell’esigenza di dare maggiore pubblicità alle udienze su casi di questo genere. Per esempio ha affermato che i processi devono svolgersi in pubblico, che l’identità dei funzionari dei servizi sociali coinvolti in questi casi deve essere resa nota e che i familiari coinvolti hanno diritto a parlarne pubblicamente. In particolare, in settembre, ha detto che, da quando è stata abolita la pena di morte, la decisione di togliere un figlio alla madre in modo definitivo è «la più drastica che un giudice possa prendere». Segnali che fanno ritenere possibile una svolta nel caso, possibilmente favorevole ad Alessandra Pacchieri o perlomeno a dare maggior voce aisuoi diritti di madre.
Sulla vicenda è intervenuta anche Shami Chakrabati, presidente di Liberty, una della più note associazioni britanniche per i diritti civili e per la difesa delle donne: «A prima vista questa sembra una storia di fantascienza, non degna di una democrazia come la nostra», ha osservato. «Separare una madre dal proprio neonato è un atto da incubo, coloro che ne sono responsabili faranno fatica a difenderlo davanti alle corti di giustizia e di decenza». Parere analogo da parte di Bipolar Uk, una associazione di beneficenza che aiuta le persone sofferenti dello stesso disturbo della Pacchieri: «Un cesareo forzato e la separazione di una madre e di un figlio sono a nostra avviso un caso senza precedenti. I servizi sociali dovrebbero fare ogni sforzo possibile per consultarsi con la famiglia prima di prendere una decisione del genere».

Repubblica 4.12.13
Ombre cinesi
Chinatown Vivere e morire per 50 centesimi
di Riccardo Staglianò



Dopo la tragedia di Prato viaggio nella comunità immigrata più atipica e meno integrata. Solo lavoro e nessun diritto. Complici gli italiani
In dieci in un soppalco, senza riscaldamento e turni disumani
Dopo la tragedia di Prato, viaggio nella comunità invisibile che accetta la “schiavitù”
per pagare il debito contratto nel proprio paese. Così la terra promessa diventa una trappola mortale.
Con la connivenza di tutti: dagli imprenditori cinesi ai nostri connazionali che affittano i capannoni
Ultimo anello, i clienti Felici di comprare a pochi euro Ma c’è chi trova la via d’uscita E diventa un “padrone” giusto

Il monumento all’incomunicabilità era il gran tazebao di via Pistoiese. Nel cuore della Chinatown pratese un muro ricoperto di annunci in ideogrammi. Si capivano solo i numeri di telefono. Annunci di lavoro, bici vendesi, una stanza da dividere. Ma poteva esserci scritto qualsiasi altra cosa e nello spread tra comprensione e pregiudizio le persone si allontanano. Fino alla clamorosa fiaccolata di ieri sera. Quando, per la prima volta, la comunità ha mostrato le foto dei suoi morti. Un piccolo passo per uscire dall’invisibilità. Sì, perché dei cinesi non si sa niente. Ci servono il caffè, ci vendono cianfrusaglie. Hanno inventato la religione del low cost prima che diventasse marketing. Da una parte commiseriamo le loro vite 24 ore su 24, sette giorni su 7. Dall’altra ci fanno paura, per una capacità di lavoro preternaturale, inconcepibile, da prima rivoluzione industriale. Però poi buongiorno e buonasera. Paghiamo pochi euro per un caricatore dell’iPhone che costerebbe sei volte tanto e siamo contenti. Fino a quando le contraddizioni di questo sistema esplodono, letteralmente prendono fuoco in un capannone pratese come tanti, e sette persone muoiono bruciate all’alba di una domenica come tante, dopo una notte passata verosimilmente a cucire.
Più che esseri umani, con nomi e storie individuali, ombre cinesi. Sempre più minacciose con la crisi che morde più feroce che mai. I nemici ideali, per dirla con Carl Schmitt, per ridefinire la nostra identità ammaccata. Se Prato muore la colpa deve essere di qualcuno. Ci sono tanti cinesi, che sgobbano da mattina a sera. Il sillogismo è fatto.
Peccato che sia un sillogismo, appiccicato sugli immigrati ben oltre la provincia toscana, sbagliato.Per capire quello che è successo bisogna andare all’origine di questa storia e di queste storie. I cinesi sono immigrati anomali. Si mettono in proprio più degli altri. E a Prato sono riusciti in un’impresa che non poteva non avere conseguenze sulla psiche cittadina. «È l’unico luogo dove, in una sola generazione, sono diventati “ditte finali” e non solo terzisti per conto di italiani» spiega Antonella Ceccagno, docente di sociologia dei Paesi asiatici a Bologna che su incarico delle giunte precedenti li ha studiati. «Qui c’era il tessile. Loro hanno portato il pronto moda. Ma il contributo che hanno dato alla ricchezza locale non è stata sufficiente a compensare la crisi del tessile». Su cui si è innestata quella globale e ne ha fatto le spese la sinistra che da sessant’anni governava la città. «A quella economica è seguita una perdita di legittimità. E la coalizione di destra ha vinto in chiave anti-cinese». Non senza paradossi. Come il sindaco Roberto Cenni, imprenditore della moda, che mentre denunciava i cinesi locali andava a delocalizzare in Cina. O l’assessore alla sicurezza Aldo Milone che, lamentandosi in pubblico dell’invasione immobiliare orientale, in privato vendeva loro una villetta.
Le ipocrisie della politica non cancellano tuttavia i problemi. Se, fino a ieri, nessuno è andato a riconoscere i morti è perché i loro stessi parenti potrebbero essere clandestini e non hanno intenzione di autodenunciarsi. È lo stesso motivo per cui molti evitano l’ospedale gratis e preferiscono farsi curare, pagando, da medici fidati. Invisibilità su cui allignano le leggende. Come quella nera, tragicamente smentita, che non muoiono mai. La verità è che intanto sono in media molto più giovani degli italiani e quando cominciano ad avere problemi seri tornano in Cina. Perché «la foglia non deve cadere lontano dall’albero» e per farsi curare da qualcuno che capisce bene la loro lingua. Chi proprio volesse verificare l’offensiva inconsistenza del mito, può farsi un giro ai cimiteri di Milano e di Brescia. Venire qui è costato loro tutto ciò che avevano, anzi di più. Se non hai nessuno in Italia paghi uno “she tou”, una testa di serpente, il trafficante che ti trova i contatti con un potenziale padrone. Ma anche se hai un parente che chiede espressamente te, succede che si faccia pagare per la cortesia. Solo i fortunatissimi partono da zero. Tutti gli altri da meno 12 a meno 18 mila euro, l’equivalente di un anno o più di salari mancati, per ripagare il debito. Questo per spiegare i turni disumani. Poi, finalmente “liberti”, inizia l’accumulazione originaria. In dieci in un soppalco, senza riscaldamento, risparmiando su tutto. Il cursus honorum di privazioni finisce generalmente col matrimonio, il giorno più ricco della vita, dove parenti e conoscenti consegnano le buste rosse piene di contanti. Vengono da lì i 50, 100, 150 mila euro cash che le banche non avrebbero mai concesso e che diventano la proposta che i proprietari di immobili italiani non possono rifiutare. Non sono, come si tende a romanzare, i soldi delle triadi. Ma il frutto del “guanxi”, quel sistema creditizio premoderno, clanico, basato sui prestiti reciproci, e che funziona sul presupposto che il 90% dei cinesi d’Italia vengono tutti dalla stessa regione, lo Zhejiang, e sono tutti in qualche modo legati da pochi gradi di separazione. Chi sgarra, e non restituisce il favore quando serve, diventa un “herein”, una persona nera, ostracizzata per sempre.
Può non piacere, ma funziona. Al punto che in un convegno recente a Prato intitolato provocatoriamente “Per fortuna vendo ai pratesi” spiegava come questo mutuo soccorso fosse anti-ciclico, non risentisse della mancanza di liquidità della crisi globale. Anzi, alla locale Unicoop i cinesi, ufficialmente il 7% della popolazione (16 mila persone, ma si stima che con gli irregolari siano almeno il doppio) consumassero il 25% dei prodotti per l’infanzia. E da quando il supermercato impiega commessi che conoscono il mandarino, come succede da sempre nella vicina Farmacia Etrusca o alle Poste della Chinatown, gli affari vanno benissimo. Per gli italiani, grazie ai cinesi. Dove si ferma la politica arriva il commercio. Però la prima resta essenziale. «A Campi Bisenzio e a San Donnino, dove i problemi di convivenza si sono presentati prima che a Prato, adesso conviviamo pacificamente» racconta Wang Dongbo, presidente fiorentino di Associna, l’associazione delle seconde generazioni. Un percorso lungo, culminato nel 2008 con la nomina del primo assessore cinese, una laureata in chimica, ai rapporti con la comunità orientale. «Lì tendenzialmente non si trovano più dormitori come quello bruciato in via Toscana. A Prato però gli affitti per gli stranieri costano di più. E i trasporti pubblici da e per il Macrolotto sono praticamente inesistenti. Su questo l’amministrazione potrebbe impegnarsi. Le colpe? Sono di tutti. Dei cinesi che non rispettano la sicurezza, ma anche degli italiani che ci lucrano, sia come affitti che come costi di produzione. E anche di noi consumatori che non disdegniamo risparmi assurdi». Rincara la dose la sinologa Ceccagno: «Queste condizioni di lavoro sono funzionali al sistema della moda. Se non fosse così le avrebbero già risolte».
Il sindaco e il suo assessore alla sicurezza hanno già annunciato raid a tappeto. «Difficile immagirum che miglioreranno i rapporti» osserva mestamente Luciano Luongo, appassionato professore di italiano all’Istituto Datini che da anni cerca di migliorare la comprensione reciproca. «Le regole vanno rispettate, ovvio, ma anche da parte dei pratesi che affittano loro i capannoni a 8-12 mila euro al mese e poi fingono di ignorare l’uso che se ne fa». I problemi sono complessi, quella economica è solo la buccia e la polpa culturale non si cambia in un giorno. Ne è convinto anche Massimo Luconi, regista pratese autore di “L’occupazione cinese” che Rai Storia ha appena mandato in onda: «Ho visto fabbriche in condizioni pessime e altre esemplari, gestite da giovani cinesi forse più ligi di quanto non lo sarebbero gli italiani. Se ne esce solo insieme, non c’è alternativa». Magari facendo il primo passo. Anni fa Alexia, una ventenne cinese di Prato, aveva un’agenzia immobiliare tra due negozi italiani: «Mai una volta che uno dei titolari mi dicesse buongiorno. Tantomeno come stavo. Ed ero solo una ragazzina». Oggi lavora in banca e si è sposata con un italiano, un ex assessore. Dei cinesi non si sa niente, ma se si chiede gentilmente ti rispondono. A volte anche affermativamente a proposte di matrimonio.

Repubblica 4.12.13
Daniele Cologna è studioso di cinese e fondatore dell’agenzia di ricerca sociale
“Il far west del tessile, un mostro creato da noi italiani”
di Zita Dazzi


Daniele Cologna, ricercatore di cinese presso l’università dell’Insubria e fondatore dell’agenzia di ricerca sociale Codici, la situazione di Prato è unica o in Italia ci sono altri casi simili?
«A Prato c’è un’altissima concentrazione di cittadini cinesi, ma lì, i connotati di questa presenza sono singolari perché è solo in questa area che l’impresa cinese ha un carattere manufatturiero. Altrove, e penso a Milano, i cinesi sono 50mila, una delle principali comunità migranti, e si dedicano nell’80 per cento dei casi al terziario. Hanno bar, ristoranti, tintorie, edicole, negozi di estetica o di alimentari, fanno i parrucchieri, i calzolai. Ma sempre più raramente lavorano nei laboratori clandestini».
Come mai a Prato i cinesi, invece di essere nel terziario, sono operai tessili e vivono in una condizione di semi schiavitù?
«Il contesto pratese è l’unico in Italia dove le imprese controllate da cinesi hanno un controllo di filiera, cioè occupano diverse posizioni gerarchiche nel processo di produzione del pronto moda. È un’anomalia che si basa sullo sfruttamento di una manodopera ricattabile, vittima di un sistema di un mercato impazzito».
Però sono i titolari cinesi a sfruttare i connazionali, o no?
«A Prato si verifica un modo tipicamente italiano di relegare il lavoratore in fondo alla scala sociale e dell’economia: per stare dentro a un mercato concorrenziale, si produce con l’imperativo di comprimere i tempi e i costi per conservare un margine di profitto e mantenere gli impegni presi sugli ordini. I cinesi hanno saputo risalire la filiera produttiva, sono titolari delle ditte, ma lavorano per conto terzi per gli italiani, che sono doppiamente conniventi».
Cioè?
«Sono gli italiani a dettare tempi e prezzi capestro per gli ordini — 20mila capi in pochi giorni a 50 centesimi al pezzo — e sono italiani quelli che affittano i capannoni. E pur sapendo benissimo quel che avviene in quei luoghi, se ne fregano delle condizioni di vita e di lavoro degli inquilini cinesi».
Perché accettano di lavorare senza nessuna sicurezza?
«Chi lavora a queste condizioni — sia i dipendenti che i titolari cinesi — lo fa perché non ha alternative. Chi emigra in Italia accumula un debito con i parenti in patria di 25mila euro e deve restituirli a qualunque costo. Non stanno lì perché i loro capi cinesi li schiavizzano, ma perché il mercato del lavoro italiano li ricatta. Le condizioni di sfruttamento della manodopera che vediamo a Prato in Cina sopravvivono solo nelle zone della produzione intensiva per l’export. I migranti cinesi si adattano a queste condizioni di vita, perché questo è quello che l’Italia è in grado di offrire: il mostro l’abbiamo messo in piedi noi. Ma, appena riescono, si emancipano dal far west del settore manufatturiero, privo di regole».
E cosa fanno?
«Appena hanno ripagato il debito per il viaggio dalla Cina, cominciano l’accumulazione primaria di capitale per andare avanti nel progetto migratorio, che in genere non prevede un ritorno in patria. Nessun cinese accetta di stare a Prato tutta la vita a morire davanti a una macchina da cucire. Come si è visto a Milano — dove ormai sono padroni nel settore servizi e commercio — i cinesi hanno capacità imprenditoriale e flessibilità mentale che permette loro di scappare a gambe levate dalla “vitaccia” della manifattura».

Repubblica 4.12.13
Yuan supera l’euro: è la seconda valuta del mondo
Negli scambi commerciali insegue il dollaro ed è preferita anche dalla Germania
di Giampaolo Visetti


PECHINO — Non solo esportazioni, consumi energetici e crescita del Pil: a un passo dall’essere la prima economia del mondo, la Cina scala anche la vetta della finanza e lancia la sua moneta al secondo posto globale per transazioni finanziarie. Lo yuan in ottobre ha scavalcato l’euro ed è diventata la seconda valuta più utilizzata, dietro il dollaro, nei contratti finanziari legati al commercio internazionale. Un sorpasso storico, tra Cina ed Europa, che sembra sancire un passaggio di consegne politico nei nuovi equilibri mondiali, oltre che rispecchiare uno spostamento reale della ricchezza da Occidente verso Oriente. Il dato emerge dai rilevamenti della Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication) l’ente che controlla i sisteni di scambio di dati tra banche e isituzioni finanziarie, secondo i quali in ottobre lo yuan, che Mao Zedong aveva ribattezzato renminbi, ossia «moneta del popolo», ha raggiunto quota 8,66% di lettere di credito e incassi, rispetto allo 6,64% dell’euro. Rispetto al gennaio del 2012, quando lo yuan era fermo all’1,89%, il «grande balzo in avanti» della divisa cinese è stato prodigioso e conferma il boom dei consumi interni della Cina, ma pure la crescita economica dell’intera regione asiatica, dove il renminbi si candida a soppiantare lo yen e a diventare la moneta comune delle potenze in crescita, unica alternativa al dollaro. Secondo la Swift, in un solo mese lo yuan ha superato sia lo yen, fermo all’1,36% delle transazioni, che l’euro, proprio grazie al contratti finanziari chiusi, oltre che dalla Cina, da Hong Kong, Singapore, Germania e Australia. Oltre che flusso delle merci e salute dell’industria, il dato rivela che Pechino ha deciso di accelerare la circolazione internazionale dello yuan, in vista di una sua piena convertibilità. A fine settembre a Shanghai è stata inaugurata la prima zonadi libero scambio: 1434 le società finora registrate, solo 38 quelle straniere, ma in lista d’attesa ce ne sono oltre 6 mila. L’obiettivo del governo cinese, oltre che attrarre investimenti in concorrenza con Hong Kong, è proprio quello di accreditare e sperimentare la libera circolazione dello yuan. Nella classifica delle transazioni finanziarie il dollaro rimane saldamente in testa: in gennaio però era all’84,96% del totale, mentre in ottobre è calato all’81,8%. In arretramento anche l’euro, ad inizio anno posizionato al 7,87%, mentre le altre valute sono sempre più marginali. Gli scambi finanziari storicamente anticipano le tendenze delle monete più usate anche negli altri tipi di pagamenti e il sorpasso del yuan sull’euro accredita la previsione dei mercati, che già scommettono in un mondo «bivalutario», diviso tra renminbi e dollaro, perfetta riproduzione del confronto politico tra Cina e Usa. Per ora però, negli scambi in contanti, l’euro resta saldamente al secondo posto e anzi si avvicina al dollaro grazie alla forza dell’export tedesco. Nella somma dei pagamenti mondiali, in ottobre l’euro ha toccato quota 34,69%, rispetto al 29,73% del gennaio 2012, quando la Ue era scossa dalla crisi del debito. Ora l’euro tallona il dollaro, sceso al 38,12% degli scambi, rispetto al 44,04% di quasi due anni fa. Nella classifica degli scambi globali cash lo yuan è ancora marginale: si piazza al 12° posto e nonostante una crescita dello 0,25% in due anni non va oltre lo 0,84%.

Repubblica 4.12.13
Il volo dello yuan
di Alberto Bisin


ORA è ufficiale: lo yuan ha superato l’euro in termini di utilizzo sui mercati finanziari globali internazionali.
La moneta più utilizzata è naturalmente il dollaro, che conta per più dell’80%, ma lo yuan sta crescendo abbastanza rapidamente, sostituendo l’euro e lo yen giapponese.
Per quanto non abbia particolare immediata rilevanza economica in sé, la crescita di importanza dello yuan è naturalmente un simbolo dello spostamento di baricentro della produzione e degli scambi nel mondo, uno dei grandi trend economici di questo periodo che ha ovvie ed importanti ramificazioni sul futuro dell’economia globale. In particolare la redistribuzione della produzione per settori nel mondo, chiamarla globalizzazione è riduttivo, favorisce quelle economie che risultano più pronte ad un rapido adattamento e a una efficace riconversione industriale e nei servizi. Adattamento e riconversione sono fenomeni complessi che comportano costi sociali rilevanti, che molte economie sviluppate stanno sperimentando ormai da anni (ben prima della crisi). Per affrontarli in modo rapido ed efficace sono necessari mercati finanziari ben funzionanti e sistemi di protezione dei lavoratori in un contesto di flessibilità del mercato del lavoro. Nel medio-lungo termine, su questo si giocherà la competizione tra Stati Uniti, area euro, e Giappone. Il fatto che solo la Germania tra i Paesi occidentali appaia come uno dei maggiori utilizzatori dello yuan (gli altri sono, abbastanza naturalmente, Hong Kong, Singapore, e Australia) è probabilmente segno che essa ha maggiore coscienza rispetto agli altri Paesi europei di questi fenomeni, e di quanto transazioni in yuan aggiungano alla attrattività e competitività di beni e servizi venduti in Cina.
Al di là della simbologia e del lungo periodo, il recente accresciuto utilizzo dello yuan negli scambi finanziari è dovuto in larga parte al fatto che la banca centrale della Repubblica Popolare Cinese ha deciso di limitare lo stretto controllo che tendenzialmente teneva sul tasso di cambio e sul tasso di interesse associato ad operazioni di indebitamento in yuan. Il governatore della banca centrale ha dichiarato esplicitamente il 20 novembre scorso che non è più interesse della banca accrescere le proprie riserve valutarie in dollaro, euro e yen. In realtà è ormai tempo che lo yuan si apprezza sul dollaro: circa il 2,3% lo scorso anno. La tendenza a lasciare la determinazione del cambio dello yuan al mercato, se mantenuta dalle autorità cinesi, avrebbe implicazioni importanti per l’economia globale. Essa comporterebbe da un lato un rallentamento di quella componente della crescita dell’economia cinese drogata dalla esportazioni che ha finito per danneggiare l’economia cinese stessa distorcendone struttura e composizione. D’altro canto, essa porterebbe ad una maggiore rilevanza del sistema finanziario cinese, forse anche inducendolo a una maggior efficienza ed indipendenza dalla politica, di cui esso fortemente abbisogna.
I recenti accordi tra Cina e Regno Unito per avviare meccanismi di scambio diretto tra lo yuan e la sterlina, così come gli accordi tra la banca centrale cinese e la Bce per una linea bilaterale di currency swap (e i simili accordi che le autorità cinesi hanno concordato con Singapore e precedentemente con l’Australia) vanno tutti nella stessa direzione, quella di stabilire lo yuan come una delle monete rilevanti negli scambi finanziari e commerciali globali, accettando di conseguenza maggiore trasparenza ed indipendenza dei mercati finanziari cinesi.
Non solo simbologia quindi, ma anche una rilevante transizione verso mercati finanziari globali più efficienti e trasparenti. Un cambiamento essenzialmente positivo non solo per la Cina (gli Stati Uniti lo richiedevano da anni ormai), a saperne approfittare.

Repubblica 4.12.13
La rabbia della vedova di Arafat “Verità sulla morte di mio marito”
La Francia nega l’avvelenamento, ma Suha non ci sta
di Anais Ginori


Suha, 27 anni, sposò in segreto Arafat, 61, nel ’90: lui fino ad allora non aveva voluto una donna per la vita. La scelta non piacque all’Anp

PARIGI — «Mio marito mi ha insegnato a battermi e andrò fino in fondo a questa storia». Nel giorno in cui i periti della procura di Nanterre consegnano un rapporto che smentisce in parte la tesi dell’avvelenamento di Yasser Arafat, la vedova Suha si mostra più determinata che mai. «Voglio la verità per poter finalmente chiudere una ferita aperta nel mio cuore e in quello di mia figlia» racconta, seduta nello studio legale dell’avvocato francese Pierre-Olivier Sur. E’ arrivata da Malta, dove vive, per seguire gli ultimi sviluppi legali di questo giallo internazionale che ha già portato a riesumare, un anno fa, la salma dell’ex leader palestinese.
Le conclusioni dei periti francesi l’hanno delusa?
«Le analisi rilevano la presenza di polonio 210 e di piombo 210 in dosi abnormi, ma la collegano a una contaminazione ambientale successiva alla morte».
Il rapporto degli esperti svizzeri, presentato qualche settimana fa, era più convincente?
«Concludeva che il polonio 210 presente nella salma di mio marito poteva effettivamente aver provocato la morte. Sono questioni tecniche, non ho gli strumenti per capire tutto. Mi sembra importante sottolineare che ci sono contraddizioni anche tra gli scienziati».
Esiste anche un terzo rapporto di esperti russi che converge però con le conclusioni francesi.
«Non ne ho notizia».
Non l’ha letto?
«E’ stato commissionato dall’Autorità nazionale palestinese e a me non è mai stato mostrato».
Crede che nel 2004 ci fu un complotto dentro alla Muqata?
«Per il momento non voglio ac-cusare nessuno. Ho sporto denuncia contro ignoti. Ma so che in quel momento molti avevano interesse a togliere di mezzo mio marito».
Perché non ha chiesto un’autopsia subito dopo la morte?
«Non ne ho avuto il tempo. Perla religione musulmana il corpo deve essere subito inumato. Certo avevo già dei sospetti. I dottori francesi hanno detto che mio marito è morto di emorragia cerebrale in seguito a un’infezione intestinale. Eppure non aveva avuto febbre».
Ha visto la cartella clinica?
«Una parte è ancora classificata dalle autorità francesi. Ma i miei avvocati sono pronti, se necessario, a chiedere il dossier. E’ una vicenda che non riguarda solo la mia famiglia. Ci sono implicazioni politiche che non devono esseretaciute».
Teme pressioni sui magistrati?
«Ho fiducia nella giustizia francese. I magistrati hanno ottenuto la riesumazione della salma e l’analisi dei prelievi. E gliene sono grata. Ora chiederemo un confrontotra esperti».
Come sarebbe avvenuto l’avvelenamento?
«Mio marito si è sentito male dopo cena. Possiamo solo fare ipotesi. Dovete ricordarvi che allora non si conosceva neppure l’esistenza dell’avvelenamento al polonio. E’ solo nel 2006, con l’assassinio di Alexandre Litvinenko, che si è scoperta questa tecnica micidiale».
Lei però ha aspettato fino al 2012 per presentare denuncia.
«Perché solo nel 2011 il giornalista diAl Jazeera, Clayton Swisher, mi ha fatto riflettere su alcune analogie con l’affaire Litvinenko. A lui ho consegnato alcuni degli effetti personali che mio marito aveva in ospedale. Sono stati esaminati da un laboratorio svizzero. Vedendo i risultati, ho capito che i miei sospetti erano fondati».
Non potrebbe accettare che suo marito sia morto di cause naturali all’età di 75 anni, dopo una vita vissuta intensamente?
«Ci sono troppe stranezze. Anche per Napoleone è riapparsa la tesi dell’avvelenamento cento anni dopo la morte. Sono convinta che riuscirò a dimostrare che l’assassinio di mio marito è uno dei più grandi casi criminali del secolo».

il Fatto 4.12.13
“Crisi e miraggio europeo più forti del patto con Putin”
di Roberta Zunini


Se si vede l'Europa attraverso il modello polacco-lituano, capiamo perché la maggior parte dei cittadini ucraini vuole aderire nell'Unione”. Matteo Cazzulani, analista di politica energetica e portavoce di Euromaidan ( maidan in ucraino significa piazza) Italia, che promuove l'ingresso dell'Ucraina nell'Unione, sintetizza così il motivo principale della protesta. La crisi economica e sociale è molto più dolorosa e insopportabile dei manganelli e delle temperature polari delle notti, per un popolo che aveva sperato di migliorare il tenore di vita entrando in Europa, e ottenere le libertà civili dell’Occidente.
MA QUESTA CRISI è stata sottovalutata da chi sta giocando sulla pelle dei 46 milioni di ucraini. Né il presidente Yanuchovich né il presidente russo Putin, avevano previsto che gli ucraini sarebbero scesi nuovamente in piazza, dopo lo scoramento, per non dire annichilimento psicologico, derivato dal fallimento della rivoluzione arancione. “Non si aspettavano una sollevazione così tenace. Così come l'Occidente, in particolare l'Europa, con cui l'Ucraina avrebbe dovuto firmare l'accordo di associazione, non si aspettava un niet. Anche se i vertici europei sapevano che per arrivare alla firma sarebbe stato fondamentale uno stanziamento di fondi - perché l'Ucraina è scivolata nella povertà più nera, dovuta soprattutto al prezzo altissimo del gas russo e all'aumento esponenziale del costo della vita - non ha fatto nulla”. Secondo Cazzulani, la popolazione guarda alla Polonia e alla Lituania, dove la situazione economica è migliorata anche grazie all'entrata in Europa 9 anni fa, come l'unica chance per riprendersi. “Ma gli ucraini vogliono entrare in Europa anche perché si sentono culturalmente più vicini a noi che alla Russia, a cui Yanukovich, a fronte della diminuzione del prezzo del gas, mai applicata, ha già ceduto nel 2010 parte della sovranità ucraina, permettendo alla flotta dell'ex Urss di restare a Sebastopoli fino al 2037”.
GLI UCRAINI hanno anche l'esempio della Bielorussia di Lukashenko e non vogliono finire nella stessa situazione: intrappolati tra un dittatore feroce e la Russia. “Lukashenko, che voleva mantenere l'indipendenza dall'Europa e dalla Russia, per essere l'unico signore incontrastato di Minsk, è stato fagocitato. Un esempio di cosa significhi è il passaggio di proprietà della compagnia energetica nazionale bielorussa a Mosca. L'obiettivo di Putin ora è far entrare Kiev nell'unione doganale Euroasiatica per questioni di mercato e per ottenere il prima possibile la proprietà anche dei gasdotti ucraini. Così l'impero russo verrà ricostituito non con i missili ma con l'egemonia in ambito energetico: oltre al gas, Putin avrebbe sotto di sé la gestione delle infrastrutture che portato il combustibile in Europa”.
Il suo vero obiettivo è condannare l'Europa a dipendere solo dalla Russia per quanto riguarda l'energia. Perciò, secondo Cazzulani, è vitale per l'Europa far entrare l'Ucraina che porterebbe in dote il suo patrimonio agricolo, il granaio d'Europa e l'acqua, l'oro blu di questo secolo, ricambiando con l'acquisto di prodotti made in Italy. “Gli ucraini vanno pazzi per l'Italia e, oltre a badanti e baby sitter, ci sono tanti loro studenti nelle nostre università”, dice l'analista, nella speranza che almeno l'Europa abolirà la necessità dei visti per l'Europa, come ha fatto la Russia, che ci vede più lungo di noi.

Corriere 4.12.13
L’Europa e l’Ucraina, riflettere prima di agire
risponde Sergio Romano


Abbiamo assistito in questi giorni alla contesa tra Europa e Russia volta ad accaparrarsi l’Ucraina. Mentre capisco perfettamente le ragioni di Putin, tra le quali emergono i legami storici tra i due Stati ed il sogno di ricomporre la vecchia Urss, mi sfuggono i vantaggi che l’accoglimento di questo paese porterebbero all’Unione Europea. Mi pare che finora ogni allargamento verso i Balcani e oltre, abbia prodotto più che vantaggi, esborsi di danaro e affievolimento dell’identità dell’Europa in quanto sono apparsi sempre più evidenti disparità socio-economiche tra i paesi che ne fanno parte. Fra gli squilibri che ne sono derivati basti pensare ai massicci spostamenti di attività produttive in luoghi dove è consentito lo sfruttamento del lavoro e dove le tutele sindacali sono inesistenti. In senso opposto si sono verificati massicci e incontrollati spostamenti di popolazioni che proprio in questi giorni hanno messo in allarme Cameron. Vale la pena imbarcare anche la non solida Ucraina?
Giorgio Coccagna

Caro Coccagna,
L’ allargamento dell’Unione europea ad alcuni Paesi dell’area balcanica rispondeva ai nostri interessi. Sapevamo che il processo d’integrazione sarebbe stato faticoso e avrebbe comportato costi non indifferenti. Ma sapevamo altresì che alcuni di quei Paesi, senza il nostro aiuto, sarebbero stati altrettante bombe a orologeria, destinate a scoppiare non appena i malumori popolari avessero toccato il livello di guardia. E sapevamo che i torbidi sociali e l’instabilità politica di quelle regioni avrebbero finito per gravare comunque, indirettamente, sui nostri bilanci.
Il caso dell’Ucraina è alquanto diverso. Potevamo assisterla nella fase del suo passaggio alla democrazia e concludere accordi di comune interesse, ma sapevamo che apparteneva a una diversa aerea politico-economica; e la Commissione di Bruxelles, all’epoca della presidenza Prodi, sembrava escludere l’ipotesi dell’adesione. Beninteso, se l’Ucraina avesse manifestato l’intenzione di associarsi all’Ue, avremmo esaminato la richiesta di buon animo, ma avremmo fatto capire a Kiev che l’associazione non sarebbe stata la prima tappa di un percorso verso l’integrazione. Poi, improvvisamente, la situazione si è ribaltata. A Vilnius, negli scorsi giorni, la Commissione, sostenuta da alcuni Paesi, si è comportata come se l’Ue avesse il diritto di associare a sé l’Ucraina. Il presidente della Commissione ha lasciato intendere che la Russia pretendeva usare un diritto di veto, e il presidente ucraino Janukovic è stato trattato come un povero burattino nelle mani dello zar moscovita. Credo che questo sia avvenuto perché alcuni Paesi dell’Ue, fra cui la Polonia, hanno interesse a portare l’Ucraina nell’orbita occidentale. È già accaduto nel 2004 quando l’ex presidente polacco Aleksandr Kwasniewski faceva frequenti viaggi a Kiev per tastare il polso della rivoluzione; è nuovamente accaduto con diverse modalità negli scorsi giorni.
Questa linea «improvvida» (come l’avrebbe definita Amintore Fanfani) ha avuto un effetto immediato e una possibile conseguenza futura. In primo luogo ha obiettivamente sollecitato una parte della società ucraina a scendere in piazza contro il suo presidente. In secondo luogo ha creato l’aspettativa che l’Ue, dopo la fase dell’associazione, sia pronta ad accogliere l’Ucraina fra i suoi membri. Siamo davvero sicuri che questo sia possibile e desiderabile? Se abbiamo qualche dubbio converrebbe smetterla d’interferire nella politica interna dell’Ucraina contribuendo a riempire le sue piazze.

Repubblica 4.12.13
Yasmina Khadra si candida per mandare a casa il presidente Bouteflika
La sfida dell’ex ufficiale, autore di successo sotto lo pseudonimo della moglie
Lo scrittore contro i generali “Così cambierò la mia Algeria”
di Vanna Vannuccini


I giovani e le donne mi sosterranno: chiedono solo di essere protagonisti del loro destino
La gente ha lottato ed è stata tradita: la voglia di scappare e la rassegnazione sono il frutto della delusione

Dove finisce la realtà e dove comincia il romanzo? Nei libri dello scrittore algerino Mohammed Moulessehoul, 58 anni, non è mai stato facile rispondere a questa domanda. A cominciare dal nome: il mondo lo conosce sotto uno pseudonimo, Yasmina Khadra, gelsomino verde. È il nome della moglie, che scelse negli anni della guerra civile, lui era allora un alto ufficiale dell’esercito e i suoi romanzi svelavano le ombre della società algerina: l’intreccio perverso di potere e corruzione, e quell’amalgama di impotenza, pressione e miseria che avrebbe finito per sfociare nella violenza, nel terrorismo, in orrori senza fine. I suoi libri sono stati tradotti in tutto il mondo e diventati spesso film di successo.
Lo scrittore vive e lavora a Parigi, dove dirige l’Istituto di Cultura algerino, ma ora ha deciso di candidarsi alle elezioni presidenziali che si terranno in Algeria in primavera. A gennaio tornerà nella patria che aveva lasciato nel 2000. Con una missione, cambiare l’Algeria: un paese ancora traumatizzato da una guerra civile durata per tutti gli anni ‘90, dove il 30% dei giovani è senza lavoro nonostante le ingenti risorse di gas e petrolio, il problema degli alloggi è catastrofico, un algerino su quattro è analfabeta e dove, 50 anni dopo la guerra per l’indipendenza che fece un milione di morti, il disinteresse dalla politica è tale che alle elezioni l’assenza dalle urne è ormai più significativa dei risultati. Di tutto questo parliamo con Khadra.
Ci vuole coraggio a candidarsi in un paese dove la gente non va a votare e i giovani sperano solo di imbarcarsi per l’Europa. Perché lo ha fatto?
«Sento il bisogno di fare qualcosa per il mio paese. Siamo diversi dagli animali perché ci rendiamo utili agli altri. Avrei sostenuto qualcun altro, se chi speravo si fosse candidato. Ho deciso di farlo io perché gli algerini mi conoscono, sanno che sono una persona integra e disinteressata e che conosco profondamente il paese. In Algeria ho visto la gente morire, non stavo nei salotti».
Riuscirà a trasmettere il messaggio in un paese dove la comunicazione politica passa solo attraverso il Fronte di Liberazione nazionale e non ci sono spazi sociali dove raggiungere i giovani?
«I giovani e le donne mi sosterranno. Se alle persone si dà la possibilità di fare qualcosa di concreto e la loro azione porta risultati non resteranno indifferenti. E’ in gioco il loro destino. Gli algerini hanno bisogno di un senso di cittadinanza, di diventare attori del proprio destino. Il paese è traumatizzato e fragile, devastato dalla corruzione e provato da orrori che hanno lasciato il segno, l’élite è sorda ai bisogni del popolo che è abbandonato a se stesso. Gli algerini avevano creduto, lottato e sono stati traditi. La rassegnazione, perfino la violenza sonostate prodotte dal disgusto per quello che la gente vede intorno a sé».
Da dove cominciare?
«Dalle scuole che producono ragazzi perduti, dalle università spesso in mano a incompetenti, dalla giustizia metastasizzata dalla corruzione. Bisogna rendere la scuola viva e interessante, aprirla alle arti, allo sport, aprire al mondo una gioventù che oggi è ostaggio del malessere. Ci vuole intelletto e cuore. E ci sono ancora tante persone in Algeria pronte a questa sfida».
L’arabizzazione decisa negli anni 80 ha avuto delle responsabilità sulla decadenza della scuola?
«Gli algerini sono arabi e berberi e arabizzare l’insegnamento era giusto: sbagliato fu il modo in cui si operò. Non si formarono gli insegnanti, si reclutarono in fretta e furia da altri paesi arabi insegnanti più interessati all’ideologia che alle materie scolastiche. Il seme dell’integralismo religioso fu gettato così».
Ma oggi, gli islamisti sono ancora un pericolo, l’influenza di Al Qaeda è cresciuta?
«Gli algerini sono musulmani e credenti, come lo sono anch’io,ma il fondamentalismo è il peggior nemico della religione. Negli anni ‘90 l’Algeria fu completamente abbandonata dal mondo, nemmeno le compagnie aeree atterravano più: l’Occidente miope credeva che le atrocità che venivano commesse da noi fossero beghe nostre, che non avrebbero superato i nostri confini. C’è voluto l’11 settembre per fargli capire che non era così. Oggi è possibile cauterizzare le ferite se chi va al potere non vuole punire ma capire e sanare le divisioni».
Abdelaziz Bouteflika, presidente da 14 anni e in cattive condizioni di salute non ha ancora deciso se si ricandiderà. Ma anche se dovesse rinunciare, il Fronte di Liberazione Nazionale presenterà un sostituto che prevedibilmente verrà eletto. Così sono sempre andate le cose in Algeria dall’indipendenza a oggi. Quante chance può avere YasminaKhadra?
«C’è una rete di persone che stanno lavorando per me. Andrò se vedrò che gli algerini mi vogliono. La mia candidatura servirà almeno a portare aria nuova».
Un profumo di gelsomino.

La Stampa 4.12.13
New York, animalisti chiedono lo status di persona giuridica per gli scimpanzè
Sono animali cognitivamente avanzati e auto-consapevoli
che il loro mantenimento in cattività equivale alla schiavitù

qui

il Fatto  4.12.13
Cervelli diversi tra uomo e donna: la foto conferma
di   Caterina Soffici


L’annosa questione è stata infine risolta. Un gruppo di ricercatori ha svelato il mistero dei misteri: la differenza tra uomini e donne. Ci hanno versato sopra fiumi di inchiostro, sul perché le donne non sanno leggere le cartine geografiche e gli uomini non chiedono mai le indicazioni stradale. Lo psicologo John Gray ha fatto fortuna scrivendo Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, best-seller da 6 milioni di copie. Ora l’arcano è svelato da un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania che ha trovato la spiegazione scientifica del perché uomini e donne pensano e agiscono diversamente. L’The Independent ci apre addirittura l’edizione di ieri. Ora sappiamo con certezza che a influenzare il comportamento e le scelte diverse di uomini e donne sono le connessioni dei neuroni nel cervello. Nell’uomo sotto attive quelle della parte frontale e posteriore nello stesso emisfero che regolano le percezioni e le azioni coordinate. Nella donna invece, sono più attivi i legami tra i due emisferi, perciò hanno più sviluppato il pensiero logico (emisfero destro) e l’intuizione (sinistro).
La ricerca ha coinvolto 949 volontari tra gli 8 e i 22 anni, 521 donne e 428 uomini e ha confermato che le differenze iniziano a emergere con l’adolescenza, tra i 14 e i 17 anni e aumentano sempre più dopo i 18. Storia di ormoni. Quando entrano in circolo anche il cervello inizia a lavorare in modo diverso.
I volontari si sono sottoposti a un esame con uno scanner che ha messo in evidenza il percorso delle connessioni: le immagini non lasciano dubbi. Secoli di luoghi comuni confermati da una semplice foto del cervello in azione. Se le donne si ricordano maggiormente un volto, hanno più facilità relazionale, chiacchierano di più e hanno il 6° senso, il motivo è scientifico. Con buona pace di una parte del pensiero femminista che ha sempre sostenuto l’uguaglianza biologica, non è solo un fatto di condizionamenti sociali. È il cervello che funziona diversamente.

Repubblica 4.12.1
Cervello. Quel ping pong tra i neuroni che rende diversi uomini e donne
Dotati di una maggiore percezione degli spazi e capacità sportive i primi, intuitive e multitasking le seconde
Usa fotografa per la prima volta le strade seguite dagli impulsi cerebrali di maschi e femmine
di Elena Dusi


Nel ping pong dei pensieri che ci corrono in testa, uomini e donne giocano su due tavoli diversi. I maschi ragionano in lungo, le donne in largo. Nei primi le idee rimbalzano avanti e indietro, nelle seconde a destra e sinistra. Per gli esperti di architettura cerebrale, questa asimmetria si traduce in una differenza fra i due sessi, ma anche in una complementarietà, con i pregi dell’uno che compensano i difetti dell’altro. Alla maggiore capacità maschile di percepire lo spazio e coordinare al suo interno i movimenti del corpo fa da contraltare l’innata dote femminile di intuire, collegare e svolgere più compiti insieme. Lo stereotipo dell’uomo specializzato nel parcheggiare l’auto o leggere una cartina e della donna abile nel multitasking viene oggi confermato da uno studio che osserva come sono strutturati i fasci di fibre nervose nell’intero cervello di maschi e femmine.
Gli impulsi cerebrali — spiega la ricerca su Pnas— seguono due autostrade diverse nei due sessi. Fra i maschi sono molto potenti i collegamenti fra parte anteriore e posteriore del cervello. Fra le donne invece è la comunicazione fra i due emisferi a essere privilegiata. Tradotto in termini di attitudini, i maschi hanno un collegamento diretto fra le percezioni (collocate nella zona frontale) e i movimenti che coinvolgono i muscoli (gestiti dalla parte anteriore della corteccia cerebrale) e sfruttano una rapidità maggiore nel processare le informazioni. Gli impulsi elettrici nel cervello maschile viaggiano soprattutto da una parte all’altra dello stesso emisfero, esattamente il contrario delle donne, specializzate nel “saltare i ponti” fra parte destra e sinistra del cervello. Questo vuol dire, aggiunge la ricerca di un team dell’università della Pennsylvania, capacità di unire le doti di analisi (emisfero sinistro) al ben noto, secondo alcuni addirittura diabolico, intuito femminile. O di ricordare volti e nomi di persone incontrate in situazioni inusuali: compito per cui serve integrare dati immagazzinati in zone diverse del cervello.
Le differenze fra ragazzi e ragazze, come gli altri tratti sessuali, emergono intorno ai 14 anni e si approfondiscono durante l’adolescenza. Queste informazioni già note all’aneddotica sono state per la prima volta tradotte in spettacolari immagini grazie al metodo della “connettomica”. Una tecnica speciale di risonanza magnetica permette di visualizzare l’intero cervello e il percorso seguito dagli impulsi elettrici. Queste traiettorie dei pensieri sono tutt’altro che casuali: seguono autostrade ben precise, legate alle attitudini di ciascuno di noi e nitidamente visibili nelle immagini ottenute con la risonanza magnetica. «Oltre alle differenze, ciò che colpisce è la complementarietà fra doti femminili e maschili» commenta la coordinatrice dello studio Ragini Verma, che insegna radiologia all’università della Pennsylvania e ha guidato la navigazione all’interno del cervello di 949 giovani fra gli 8 e i 22 anni. «Possiamo finalmente dire di aver osservato le basi neurologiche delle diverse attitudini di uomini e donne». Per Ruben Gur, psichiatra dello stesso ateneo, «le differenze contribuiscono alla sopravvivenza della specie. La specializzazione contribuisce infatti all’adattabilità e aumenta il ventaglio dei comportamenti».

Repubblica 4.12.13
Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging research unit del San Raffaele
“Ma per avere alcune qualità ci si può sempre allenare”
intervista di E. D.


Diversi fin nell’architettura. «Le differenze che notiamo nei comportamenti e nelle attitudini nascono proprio da una diversa organizzazione dei fasci nervosi all’interno del cervello» spiega Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging researchunit del San Raffaele a Milano.
Anche il vostro gruppo ha studiato le differenze fra uomini e donne. Vi sorprendono i risultati di oggi?
«No, lo avevano già dimostrato vari test comportamentali: i maschi sono più bravi nei compiti procedurali e motori, nei processi visivi e spaziali, mentre il punto forte delle donne sono multitasking, attenzione e memoria».
Questa architettura del cervello è fissa o può essere alterata dedicandosi a determinate attività?
«Il cervello resta un organo plastico, specialmente in età giovane. Dedicarsi con assiduità a determinate attività, sia motorie che intellettive, può far aumentare il volume dell’area cerebrale dedicata e far crescere il numero dei neuroni».
Lo studio del connettoma che vediamo nella ricerca di oggi ci dà più informazioni rispetto ai metodi usati nel passato?
«Gli studi tradizionali osservavano singole aree del cervello. Lo studio del connettoma ci permette di guardare l’organo nel suo complesso, e di mettere in evidenza il percorso degli impulsi nervosi».
In società complesse come quelle attuali le qualità femminili appaiono forse leggermente più utili?
«In effetti. Gli uomini ci battono in procedura, ma nelle attività della vita quotidiana le donne hanno spesso maggiore controllo».
(e.d.)

The Independent 3.12.13
The hardwired difference between male and female brains could explain why men are 'better at map reading'
by Steve Connor

qui


The Independent 3.12.13
With science once again highlighting differences between male and female brains, is it time to reconsider the value of stereotypes?
I’m both a feminist and a female stereotype – so I know that we’re wired differently
by Grace Dent

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dal sito dell’Università della Pensilvania:
Penn Medicine 2.13.13
Brain Connectivity Study Reveals Striking Differences Between Men and Women
Penn Medicine Brain Imaging Study Helps Explain Different Cognitive Strengths in Men and Women

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Corriere 4.12.13
La rivincita del pensiero selvatico sulle idee che disprezzano la carne
Diogene contro Platone in un saggio del filosofo Sloterdijk
di Giulio Giorello


Quando Platone disse che l’uomo non era altro che «un animale bipede implume», Diogene di Sinope (413-323 a.C.) gli portò un pollo spennato: «Ecco l’uomo platonico!». Così racconta un altro Diogene (Laerzio, III secolo d.C.) nelle sue Vite dei filosofi . Platone non gradì, e definì sprezzantemente Diogene «un Socrate impazzito». E sappiamo come l’autore della Repubblica r accomandasse la segregazione dei folli che potevano anche venir uccisi dopo qualche anno se si ostinavano... a non rinsavire.
Nella sua Critica della ragion cinica (1983), che oggi appare in una rinnovata edizione italiana a cura di Andrea Ermano e Mario Perniola (Raffaello Cortina) il filosofo tedesco Peter Sloterdijk dispiega agli occhi del lettore i tanti modi in cui irrisione e irriverenza ci hanno «salvato la pelle dai più diversi tentativi di renderci migliori». Però, usare il corpo come un’idea per disfare altre idee può avere conseguenze sgradevoli se non pericolose, soprattutto perché quelli che vogliono «migliorare» i propri simili sono sempre all’erta.
L’hanno provato sulla loro pelle le ragazze che nell’odierna Russia si sono servite delle loro nude carni per ridicolizzare insieme Chiesa e Stato, e hanno subito le condanne morali delle autorità ortodosse e quelle fisiche dei tribunali di Vladimir Putin. Al quale è mancata la souplesse di Alessandro il Grande, che, volendo conoscere Diogene e avendolo infine incontrato, si sentì chiedere da questi di non frapporsi tra lui e il sole, «poiché così gli faceva ombra»; e il re si era fatto garbatamente da parte!
Un po’ «selvatico» Diogene doveva esserlo per davvero, se è vero che (come ci informa l’autore delle Vite ) amava «lodare quelli che pur volendo sposarsi non lo facevano, quelli che pur volendo educare i figli se ne astenevano, quelli che, preparandosi a entrare al servizio dei principi, se ne tenevano alla larga». Diogene era uno di quei filosofi che si riunivano in un ginnasio fuori di Atene, detto Cinosarge (ovvero «il cane agile»), luogo sacro a Ercole. E come è plasticamente mostrato da una scultura antica dal significativo nome di Hercules mingens , anche questi emuli del mitico eroe non disdegnavano nemmeno di fare in pubblico i loro bisogni. La scuola dei cinici doveva, nel volgere di qualche secolo, sparire dalla scena. Ma la coraggiosa difesa dei diritti della fisicità, contro le norme astratte di qualsiasi dottrina che disprezza la carne, non è finita con loro. Una variegata corrente di pensiero, che include Montaigne, Voltaire, Nietzsche, Feyerabend e molti altri, ci dice Sloterdijk, ha nelle forme più diverse esercitato l’arte di «pisciare contro il vento dell’idealismo», riabilitando il gesto, lo scherno, l’ironia contro qualunque seriosità filosofica; e per questo — aggiungo io — quei personaggi sono stati spesso malvisti dagli storici ufficiali della filosofia, che appena potevano li cancellavano dai loro manuali.
Ma quello che gli accademici talvolta fanno male, lo fanno meglio quei «prìncipi», cioè i politici che qualsiasi Diogene si rifiuta di servire, al prezzo oggi dell’emarginazione. Come nota Sloterdijk: «Uno di questi giorni Diogene darà magari le dimissioni; forse si leggerà accanto all’entrata dell’aula che il corso del docente X è sospeso a tempo indeterminato. E poi lo troveranno nei pressi di un bidone delle immondizie. Alticcio, ridacchiante, con la mente turbata...». Chissà se prima o poi non capiterà nell’università del nostro Paese, tra tagli alla ricerca e autorità che dichiarano che con la cultura non si mangia? D’altra parte già i gerarchi di Hitler la detestavano. E Sloterdijk riporta nel volume una fotografia del 1934 in cui il capo nazista passa in rassegna una parata di mutilati di guerra, in sedia a rotelle, che lo salutano «festosamente». Chissà cosa ne avrebbe detto il filosofo Martin Heidegger? Ritengo che si possa sostituire al partito nazista qualsiasi altro nuovo padrone, che incanta le «masse» con questa o quella tecnica di persuasione.
Infatti, anche la ragione cinica può venir rovesciata nel suo opposto. Nel linguaggio di tutti i giorni cinismo oggi vuol dire «astuzie diplomatiche, disinnesco dei concetti morali, verità mandata in ferie», come dichiarava un politico britannico. Per eludere questa trappola l’odierno erede di Diogene deve esercitare lo stesso tipo di critica che a suo tempo Kant utilizzava contro le illusioni della metafisica, pur sapendo che è sempre presente il rischio di produrre nuove metafisiche, magari peggiori delle vecchie.
Come ha sottolineato Mario Perniola nella premessa di questa edizione, sono in gioco la nostra libertà e la nostra serenità. Sloterdijk cita la protesta dell’Ivan Karamazov di Dostoevskij: «Nel mio povero intelletto terrestre ed euclideo, io so soltanto che il dolore esiste».
Ma noi disponiamo oggi di un’audace astronomia che esplora i cieli e di una fisica che utilizza le geometrie non euclidee per capire lo spazio e il tempo.

Corriere 4.12.13
Il mandato imperativo corre sul filo dei telefonini
di Guido Ceronetti


Il più che bravo avvertitore Giovanni Sartori, in un fondo del «Corriere» («Una violazione macroscopica» del 6 novembre scorso) ci ricordava che, costituzionalmente (art. 67), nessun parlamentare può essere vincolato da un mandato imperativo; in quanto rappresentante del popolo non può essere eterodiretto, la sua decisione dovrebbe essere personale. Sartori piglia a esempio i grillini, resi spettrali e sfatti dalla passività nei confronti di un capo isterico che li comanda dall’Occulto. In verità è dal 1945 che abbiamo un’idea molto pallida di ciò che sia rigetto vero di guide totalitarie. Anche il partito di Berlusconi è tenuto insieme (o lo è stato finora) da un via via meno lucido mandato imperativo. E gli sventurati Democratici, racemi di vendemmie totalitarie del secolo XX (eterodiretti vaticani, arcieterodiretti di Cremlino) brancicano in cerca di un solido, riposante mandato imperativo. Tutti insieme formano una scolorita uniforme palude di homines ad servire parati (Tiberio sui suoi senatori). Tutti insieme incarnano l’unica faccia di una disrealtà che corrisponde a una somma di appiattimenti mentali dove non c’è traccia di autonomie personali. Vedi come il loro linguaggio, caro Sartori, non è che un’interminabile sequenza di luoghi comuni, bene regolati dai bischeri del Pensiero Unico.
Il contributo dei cellulari alla dipendenza degli eletti andrebbe analizzato. Il cellulare è un formidabile produttore di dipendenza. Nessuno di noi gli si accosta e ne usa senza pericolo per la sua autonomia. Quel che è comodo asservisce e, peggio, estende l’asservimento. Figurati un parlamentare! Avrà sempre in quel segnalino tascabile un temibile controllo permanente. Sempre più il loro voto è frutto di giudizio coatto e ricatti in ogni luogo e momento. Per poco che significhi il loro voto, saperlo così scorticato di ogni autonomia sgomenta alquanto.
Una pattuglietta di Radicali nel legislativo non mi dispiacerebbe, ma fino a che punto il loro mandato sarebbe sciolto dalla incontrastata volontà di Marco Pannella? Cosa succederebbe al deputato radicale che si rifiutasse, per scrupoli di coscienza, dì votare per l’Amnistia perseguita dal grande Digiunatore?
Nel film di Spielberg su Lincoln era ben rappresentato il dramma personale di ciascun eletto di fronte a un voto di immensa portata storica come quello per il Tredicesimo Emendamento (la parità di diritti tra liberi e schiavi) voluto dal Presidente. Nessuna voce dall’Occulto Tecnologico li pungolava, quegli uomini in guerra e dalla passione civile violenta, la sola a determinarne il voto. La coscienza e l’ossessione del mandato autonomo di rappresentare il popolo li sbatteva come il vento delle Rocciose — catarsi finale, anche per noi spettatori che sentiamo i nostri valori civili ignobilmente calpestati, altissima. Perché la libertà è sempre qualcosa di terribile: ha i piedi dentro il Tragico eterno, nella vicenda eterna di Antigone e del luterano alla Dieta «non posso altrimenti».
Meglio guardare da un’altra parte, che fare la mosca in quelle aule di schiuma. E tuttavia la Rappresentanza in sé, dacché esiste, risente dei graffi dell’unghia tragica. Anche in un voto farsesco e asservito si manifesta qualcosa che influirà sui destini, ci saranno conseguenze per molti milioni di vite.

Corriere 4.12.13
Gli scritti di Simone Weil oltre la tragedia del conflitto mondiale
L’onore perduto d’Europa
di Arturo Colombo


Il libro di Simone Weil, «Una costituente per l’Europa», viene dibattuto oggi alle 18 a Milano all’Ambrosianeum di via delle Ore 3 dai curatori del volume con Giovanni Cominelli, Roberta De Monticelli e Marco Garzonio

C hi conosce Simone Weil, classe 1909, sa che fra il novembre del 1942 e l’aprile del ‘43 si trasferisce dagli Stati Uniti a Londra: e in quel così breve periodo, che prelude alla sua fine repentina (va negli Stati Uniti e muore, infatti, nell’agosto del ‘43), lascia una serie straordinaria di scritti politici, pubblicati adesso nel volume Una costituente per l’Europa , a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito (Castelvecchi, pp. 380, € 22). Hanno ragione i curatori a chiarire subito che la Weil, «militante di sinistra, operaia in fabbrica, esule e resistente delusa», è stata in grado con questi «scritti londinesi» di dare la misura della sua capacità, quasi incredibile (anche per l’età così giovane), di lasciarci una serie sorprendente di riflessioni sulla politica, la religione, la filosofia.
Il suo desiderio più vivo era di riuscire a combattere, anche con le armi, contro Hitler, il nazismo e ogni forma di potere totalitario. Ma non poteva farlo per le precarie condizioni di salute; e così il contributo più significativo della Weil è affidato a queste pagine, che non offrono solo una diagnosi, lucida e impietosa, della realtà contemporanea, ma diventano un’occasione preziosa per comprendere l’esigenza di quella «costituente per l’Europa», che neppure oggi noi siamo stati capaci di realizzare. Con fermo realismo — a proposito del saggio intitolato Riflessioni sulla rivolta — la Weil non esita a sottolineare che «l’Europa non ha perso solo la libertà, ma anche l’onore e la fede».
Di conseguenza, non basta «smantellare l’organizzazione del nemico»: quello che per la Weil costituisce «una necessità urgente, vitale» è impegnarsi a dare vita a «un certo tipo di unità europea», che sia in grado di «coinvolgere», insieme ai francesi, anche gli altri Stati del nostro continente, dagli spagnoli agli italiani, e «persino quei tedeschi la cui coscienza è stata sinceramente scossa dall’hitlerismo». Il rischio, anzi «l’orrore», è continuare a vivere nell’oppressione, questa specie di malattia mortale, che tutti può investire e travolgere, mentre occorre prendere atto e convincerci — insiste la Weil — che «tutti gli esseri umani sono assolutamente identici» e quindi tutti hanno gli stessi obblighi verso gli identici «bisogni terrestri dell’anima e del corpo», compreso il bisogno «di obbedienza consentita e di libertà».
Possono esserci proposte anche discutibili in queste pagine (come la soppressione dei partiti politici, considerati pericolose macchine per fabbricare consenso); ma la lucidità con cui la giovane Simone Weil osserva, giudica e condanna quei drammatici anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, nasconde una tale carica liberal, da rendere le sue osservazioni un patrimonio indispensabile per chi, ancor oggi, non rinuncia a battersi per contribuire a rendere il mondo meno angusto e meno ingiusto.

Corriere 4.12.13
Asor Rosa, Esposito, Galli della Loggia
Umanesimo a rischio: tre studiosi lanciano l’allarme sul «Mulino»
di Antonio Carioti


Non capita tutti i giorni che Ernesto Galli della Loggia e Alberto Asor Rosa firmino lo stesso testo. Ma nel forte intervento a favore della cultura umanistica, sottoscritto anche da Roberto Esposito, che la rivista «il Mulino» pubblica sul fascicolo in uscita domani, i due noti studiosi, molto distanti sul piano politico, mostrano di nutrire le stesse apprensioni per la sorte dell’istruzione italiana e della stessa identità nazionale. L’allarme nasce dal «ripudio dell’umanesimo» e dalla «crescente tecnicizzazione» dell’insegnamento, che configurano una «rimozione del passato» destinata — secondo Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia — a compromettere in prospettiva il futuro dell’Italia, ma con gravi ripercussioni già nell’immediato. Se si trascura la dimensione storica, per esempio, «la rovina del patrimonio artistico e paesistico» non può stupire. D’altronde un tratto essenziale delle materie umanistiche consiste nel loro nesso con le diverse tradizioni nazionali e la loro evoluzione nel tempo. Al contrario le discipline scientifiche, osservano i tre autori, «sono dovunque le medesime» e tendono a esprimersi su scala globale «in una medesima lingua: l’inglese». Se a queste ultime viene assegnata una priorità assoluta, i lineamenti specifici di una cultura rischiano di affievolirsi fino alla cancellazione. A ciò si aggiunge la dequalificazione degli studi umanistici nell’università di massa, con discipline che si frantumano e moltiplicano all’infinito, il carico didattico che si riduce «a misure spesso ridicole», l’adozione di criteri meramente quantitativi in sede di valutazione dei docenti o aspiranti tali. Ormai, denuncia l’appello, dilaga incontrastata una visione aziendalistica dell’università, per cui il merito viene inteso solo «come prestazione in vista di un utile». E più in generale si delinea un panorama tale da far temere, si legge nell’appello, «la disintegrazione dei saperi dell’uomo così come sono stati elaborati in secoli di storia italiana e non solo». Le ricadute, per i tre studiosi, sono devastanti anche sul terreno politico, perché l’emarginazione dell’umanesimo indebolisce «lo sguardo critico sulla realtà» e depaupera le risorse necessarie per elaborare alternative a un modello sociale fondato sulla «omologazione ai parametri globalizzati dell’attuale idolatria ideologica del mercato». Così finisce per venir meno, nonostante tutta la retorica spesa circa l’esigenza dell’«apertura all’altro», anche la capacità di confrontarsi con le diversità linguistiche, religiose, antropologiche sullo scenario mondiale. Questi problemi di portata generale, oggetto di un intenso dibattito anche all’estero (l’appello cita le posizioni della filosofa americana Martha Nussbaum, che il prossimo 14 dicembre terrà l’annuale Lettura del Mulino), si presentano poi in forma particolarmente acuta nel nostro Paese. Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia invitano a riflettere sul fatto che per lunghissimo tempo l’identità italiana, in assenza di uno Stato unitario, è vissuta nella condivisione della cultura storica, letteraria e filosofica: da Dante a Manzoni, da Machiavelli a Vico. Quel patrimonio, concludono, «fino ad oggi ha rappresentato una premessa indispensabile per ogni impegno politico». E appare evidente come il suo declino, che sta assumendo i tratti di un vero e proprio abbandono, minacci da vicino le basi stesse della coesione nazionale. La rivista diretta da Michele Salvati lancia insomma con questo appello un autentico grido di dolore, peraltro in controtendenza rispetto alle molte voci che lamentano invece lo scarso rilievo riservato nel nostro Paese alla cultura scientifica e alla ricerca, spesso addossando la responsabilità più remota proprio alla tradizione idealistica di cui Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia rivendicano l’originalità e il valore. Ci sono tutti i presupposti per aprire una discussione forse polemica, ma certamente utile. Perché il peggior nemico della cultura, umanistica o scientifica che sia, resta sempre l’indifferenza.

Repubblica 4.12.13
Tornano in una nuova edizione i capolavori del romanziere tedesco
Lo scrittore e il fantasma
I deliri di Hoffmann che ispirarono Freud
di Franco Marcoaldi


«Non vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e il poeta in fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno specchio opaco». Così il narratore si rivolge al lettore mentre gli sta narrando la terribile vicenda di Nathanael, il protagonista della novella di E. T. A. Hoffmann,
L’uomo della sabbia, su cui Freud concentrerà la sua attenzione per elaborare la teoria del “perturbante”: quel sentimento angoscioso che ci prende di fronte a una situazione che percepiamo al medesimo tempo come estranea e familiare.
Sin da bambino, Nathanael ha dovuto convivere con immagini sinistre, con la visione di personaggi luciferini che hanno irrimediabilmente alterato la sua psiche. Anche se l’amata Claire, donna ironica e ragionevole, contraddice quel suo teatro fantasmatico e affaccia un’ipotesi per certi versi ancora più inquietante: quelle apparizioni atroci che lo turbano non sono esterne, ma albergano nella sua anima. Ed è contro quel diabolico nemico interiore che noi uomini dobbiamo lottare strenuamente con la forza della ragione, se non vogliamoinoltrarci in un cammino rovinoso.
L’uomo della sabbia apre la celebre raccolta dei Notturni (1816-1817), facendo da coda ideale al non meno famoso romanzo Gli elisir del diavolo, scritto negli anni immediatamente precedenti (1815-1816): volumi, entrambi, che escono ora in una splendida edizione della casa editrice L’Orma per le sapienti cure di Matteo Galli e Luca Crescenzi.
È l’ennesimo miracolo della piccola editoria italiana di qualità, che a fronte di una drammatica crisi economica e dell’ulteriore calo dei lettori, continua a perseguire ambiziosissimi progetti: in questo caso la pubblicazione – sotto la direzione dello stesso Matteo Galli – dell’opera omnia di Hoffmann, autore tanto geniale quanto inafferrabile.
Nato a Königsberg nel 1776 e morto di tabe dorsale nel 1822, il Nostro vive la sua breve esistenza a rotta di collo: magistrato in svariate città tedesche e polacche nel pieno dell’epoca napoleonica, compositore, capocomico, disegnatore, direttore di teatro e d’orchestra, grande consumatore di alcol e facile agli innamoramenti, appassionato studioso della neonata psichiatria, critico teatrale, Hoffmann esordisce in letteratura relativamente tardi, a trentatré anni. Ma da lì in avanti è un fiume in piena. E il tumulto della scrittura sembra riflettere il tumulto della vita: anche sulla pagina scritta, infatti, le diverse esperienze, conoscenze e influenze convivono simultaneamente.
Di primo acchito si dovrebbe parlare di lui come di un romantico a tutto tondo, ma si farebbe torto a quel persistente razionalismo scettico presente nel suo pensiero (come dimostra la postura di Claire). Il notturno, l’inesplicabile e il fantastico rappresentano per certo il suo mood preponderante, ma la dimensione onirica e spettrale – come indicano le parole del narratore de L’uomo della sabbia– può trovare linfa vitale anche nella realtà più ordinaria.
Se poi dalle novelle si passa ai romanzi, la questione si complica ulteriormente: difficile, se non impossibile, rintracciare un’unica matrice. Perché se è vero cheGli elisir del diavolo prende le mosse dalla tradizione del romanzo gotico, dalla tentazione in cui cade il monaco Medardus che beve, e non dovrebbe, l’inebriante elisir conservato tra le preziose reliquie di Sant’Antonio a lui affidate, da lì in avanti succede di tutto: tra “sante allucinazioni”, amori febbrili e loschi omicidi.
Così, le iniziali pagine devozionali lasciano il campo a espliciti rimandi al romanzo libertino, con il diavolo intento a confondere tra loro perdizioni erotiche e ascensioni mistiche, mentre acuminate riflessioni sulla dissociazione psichica si intrecciano con altrettanto accurate disamine sull’arte; e continui rinvii al romanzo d’avventura preludono al finale, che ritorna «sull’aspirazione alle cose sante e ultraterrene». Senza dimenticare mai il basso continuo su cui giustamente insiste Luca Crescenzi: quel timbro ironico e carnascialesco che ci rammenta come tutto, al fondo, si riduca a una folle recita. Del resto, che cosa fa il cappuccino Medardus, se non cambiare ininterrottamente maschera e dunque identità? All’inizio era un monaco e poi lo ritroviamo nei panni di un conte, di un uomo di mondo «dedito unicamente alle scienze e alle arti», di un oscuro nobile polacco. Come gli rammenta Belcampo – l’esuberante parrucchiere che lo invita ad abbandonarsi festosamente alla follia, «vera signora degli intelletti su questa Terra» – il contrassegno della modernità è l’eclettismo, la simultaneità delle forme, l’ininterrotta metamorfosi. Con tutti i rischi che ne conseguono, perché il diavolo ha campo libero una volta che si è smarrito il baricentro esistenziale: «il mio io era diviso in cento parti. Ciascuna aveva, nel suo affaccendarsi, una propria coscienza della vita, e la testa inviava invano ordini alle membra che, come vassalli infedeli, non intendevano riunirsi sotto il suo comando».
A tratti il lettore può anche rimanere frastornato di fronte ai mille fili di un racconto che – nella geometrica perfezione del congegno narrativo – rovescia di continuo punti di vista, tempi e prospettive. Tanto più visto che, accanto alle mille, successive metamorfosi di Medardus, ci sono da mettere in conto anche quelle dei suoi sosia, alter ego, Doppelgänger.
Attraverso i quali si manifestano il Nemico, il diavolo, ilrevenant,che accompagnano l’uomo nel suo sfiancante viaggio sulle montagne russe: tra realtà e allucinazione, terra e cielo, peccato e virtù, spirito e carne, Bene e Male.
Così, giunti alla fine, non si fa fatica a capire perché, davanti a questo picaro dell’anima, l’imperturbabile Goethe storcesse il naso. Mentre, per contro, in Medardus e più in generale nell’opera notturna di Hoffmann, emergono in piena evidenza i tanti motivi di fascinazione da parte di Baudelaire, Gogol’, Dostoevskij. Frugando con straordinario acume nei meandri della psiche, l’autore degli Elisir del diavolo prefigura addirittura le inquietudini di quell’età dell’ansia che culmina nel Novecento. E leggendo le memorie di Medardus, che davanti al proprio io «divenuto un crudele giocattolo di un caso capriccioso, e confusosi con l’immagine di altri, nuotava senza requie nel mare degli avvenimenti», viene alla mente Musil quando parla dell’io come di un “delirio dei molti”. O l’eteronimo Pessoa, abitato –comenoto – da “una sola moltitudine”.

Di E. T. A. Hoffmann l’editore L’Orma ripropone Gli elisir del diavolo (pagg. 384, euro 25) e Notturni(pagg. 404, euro 25)

Repubblica 4.12.13
“I diritti oggi”. A Stefano Rodotà il Premio Napoli


NAPOLI — Con il suoIl diritto di avere diritti(Laterza) Stefano Rodotà ha vinto il Premio Napoli 2013 e, nell’ambito delle celebrazioni del riconoscimento, terrà oggi alle ore 18 nel capoluogo campano, presso la Sala dei Baroni del Maschio Angioino, una lectio magistralis dal titolo “Dignità e solidarietà”. Rodotà ha ottenuto il premio in quanto «interprete più acuto delle trasformazioni del diritto in età globale ma anche il più insofferente verso le derive censitarie e neofeudali che a esse si accompagnano». Gli altri vincitori della rassegna sono Gian Luigi Beccaria e Fabio Pusterla. La serata di premiazione si terrà il 13 dicembre presso il Teatro San Ferdinando; Antonio Gnoli converserà con i vincitori.

Repubblica 4.12.13
Da domani una sezione di YouTube dedicata al grande autore e attore
Eduardo online Apre il canale con teatro e archivi di De Filippo
di Ernesto Assente


ROMA Il teatro e le opere di Eduardo De Filippo si apprestano a vivere una nuova giovinezza, tutta in digitale. You Tube lancia un canale interamente dedicato all’opera di Eduardo, con materiali originali, ma anche interviste, contributi, approfondimenti, tutto quello che, insomma, può servire ad offrire un quadro completo ed esauriente dello straordinario lavoro creativo di De Filippo, e un eccellente modo per celebrare il trentennale della sua scomparsa, che cade nel 2014. «Sono convinto che questa nuova modalità di proporre il suo lavoro possa avvicinare i giovani di oggi al suo teatro e alla sua figura», dice il figlio Luca De Filippo, che ha collaborato alla realizzazione del canale in prima persona, assieme a Alex Ponti di Digital Studio & Dvd, «Sono emozionato al pensiero che l’opera di mio padre trovi oggi una diffusione strutturata sul web e sono molto curioso di vedere come andrà quest’esperienza».
Ne è convinto anche Alex Ponti, che da molti anni lavora proprio con Luca De Filippo alla gestione dei contenuti filmati di Eduardo: «L’idea del canale mi è venuta proprio perché ho realizzato negli anni 33 dvd con le opere di De Filippo assieme a Luca, che conosco da quando eravamo bambini. L’idea era quella di arrivare, attraverso un mezzo nuovo, a valorizzare il lavoro di Eduardo in un mercato in continua evoluzione e poterlo offrire per la prima volta anche a un pubblico internazionale, perché a differenza dei dvd le opere su YouTube saranno sottotitolate in inglese. Oltretutto una volta al mese offriremo un lavoro teatrale da vedere liberamente e sarà un’ulteriore occasione per avvicinare nuovo pubblico».
Il canale attinge all’opera completa dell’autore e attore partenopeo: dalle Commedie di Eduardo De Filippo (6 atti unici in bianco e nero, 2 atti unici a colori, 26 commedie e 1 sceneggiato televisivo in 6 puntate) alle 8 Commedie di Eduardo Scarpetta dirette dallo stesso De Filippo. Ad inaugurare la programmazione sarà Natale in casa Cupiello,che da domani sarà accessibile sul nuovo canale You-Tube, nell’edizione televisiva a colori del 1977.
Il tutto sarà diviso in quattro sezioni. La prima ospiterà le commedie, una per ogni mese, in versione integrale e restaurata perYouTube. Le prime due commedie in calendario sono appunto Natale in casa Cupiello e Filumena Marturano che andrà on line all’inizio dell’anno prossimo. Entrambe saranno presentate con sottotitoli in inglese e in italiano, per consentire la visualizzazione anche agli utenti non italiani, nona caso Eduardo è oggetto di passione e di studio in molti paesi stranieri. La seconda sezione osserva una modalità tipica della rete: sarà dedicata a spezzoni tematici tratti dalle commedie, organizzata in una specie di “playlist” teatrale che verrà aggiornata settimanalmente. Il terzo comparto del canale sarà dedicato a “Gli attori di Eduardo”, un omaggio a grandi professionisti del palcoscenico che hanno recitato al fianco dell’attore come Lina Sastri o Monica Vitti. Infine “Dentro il teatro di Eduardo” ospiterà i contributi speciali: interviste, brevi documentari, e letture dedicate ad Eduardo De Filippo e al suo teatro.
«Abbiamo cominciato a lavorare circa 5 mesi fa», ricorda Federica Tremolada di YouTube, «mentre preparavamo il lancio dei film a pagamento. Quello del canale dedicato a De Filippo è un altro modo per mostrare le possibilità di YouTube nel valorizzare i contenuti, proporli in maniera nuova, e garantire il controllo a chi ha i diritti. E poi ci permette di dare corpo a una componente che noi riteniamo fondamentale per YouTube: combinare la tecnologia con la cultura».