l’Unità 6.11.13
Smuraglia, Anpi:
il 24 in piazza contro la modifica del 138
Il
presidente nazionale dell'Anpi Carlo Smuraglia invita tutti i cittadini
a mobilitarsi il 24 novembre, nelle piazze italiane, per opporsi alla
riforma dell'art. 138 della Costituzione.
Smuraglia denuncia: «Si
vuole togliere l'ultima parola ai cittadini su una norma di garanzia
costituzionale» e che «In una situazione di diffusa indifferenza, ci si
appresta a compiere uno strappo vero e proprio alla nostra
Costituzione».
«Fra poco più di un mese - conclude -, la Camera
voterà, in terza ed ultima lettura, le modifiche dell'art. 138 della
Costituzione; e se lo farà con una maggioranza che superi i 2/3 non ci
sarà la possibilità di promuovere un referendum».
l’Unità 6.11.13
Quattro ore di sciopero generale proclamate il 21 ottobre da Cgil, Cisl e Uil
Lo sciopero è pronto. L’Authority chiede garanzie
di Massimo Franchi
Nel
giorno in cui arriva il calendario completo degli scioperi generali
territoriali definiti, il garante bacchetta (su «un rischio paralisi nei
servizi pubblici») i sindacati, che rispondo prontamente.
La
gestione delle quattro ore di sciopero generale proclamate il 21 ottobre
da Cgil, Cisl e Uil è stata demandata ai livelli territoriali dei
sindacati. Così lungo la Penisola l’astensione dal lavoro e le
manifestazioni si concentrano tra il 12 e il 15 novembre, ma con
modalità spesso diverse da provincia a provincia. A metà mese poi si
riuniranno i direttivi unitari dei confederali per fare il punto sugli
esiti della mobilitazione e decidere altre eventuali forme di pressione.
I
primi a scioperare saranno i lavoratori di Cosenza l’11 novembre,
mentre per rimanere alle città più grandi a Roma si sciopererà il 13
novembre, a Milano il 15 novembre così come a Bologna, mentre tutta la
Toscana sciopererà il 13, l’intera Campania il 15. Il calendario non è
ancora completo, ma manca soprattutto la decisione ufficiale del settore
dei lavoratori pubblici che dovrebbe decidere di raddoppiare le ore di
sciopero portandole ad otto e dunque all’intera giornata.
Come
anticipato, ieri poi il presidente dell’Autorità di garanzia per gli
scioperi nei servizi pubblici, Roberto Alesse ha inviato una lettera ai
segretari nazionali di Cgil, Cisl e Uil, sottolineando il «rischio
paralisi nei servizi pubblici». L’oggetto del contendere è appunto
quello delle «adesioni, a livello territoriale o di categoria, che
estendono la durata dello sciopero a 8 ore, in contraddizione con quanto
indicato dalle Confederazioni, integrando, in tal modo, la violazione
della regola della rarefazione oggettiva (legge 146 del 1990 e
successive modificazioni)», visto che ciò «è permesso solo nel momento
di proclamazione dello sciopero». In più, continua Alesse, «lo sciopero
generale ha un effetto annuncio del tutto particolare e gli utenti hanno
diritto di conoscere in anticipo la durata dell’interruzione dei
servizi pubblici», «mentre nei comparti scuola e Regioni autonomie
locali, lo sciopero di durata inferiore all’intera giornata lavorativa
deve essere limitato ad una sola ora e può essere effettuato solo nella
prima o nell’ultima ora di lezione». La lettera si conclude ricordando
che «in caso di inottemperanza, la commissione deve procedere alla
valutazione del comportamento nei confronti dei soggetti sindacali che
si rendono responsabili delle richiamate violazioni».
Passano poche
ore e arriva la risposta unitaria di Cgil, Cisl e Uil. «Rassicuriamo il
presidente della Commissione di garanzia, stiamo verificando la presenza
di eventuali distonie, ma come sempre, anche in questa occasione
garantiremo il pieno rispetto dei servizi pubblici essenziali, così come
previsto dalla legge».
l’Unità 6.11.13
Congresso Pd,
ancora scontro sui tesserati dell’ultimo minuto
Cuperlo rilancia la
proposta di chiudere le iscrizioni. No di Renzi
Confronto televisivo tra gli sfidanti in campo la sera del 29 su Sky
di Simone Collini
ROMA
Ci sarà un confronto televisivo, prima delle primarie dell’8 dicembre, e
a trasmetterlo dovrebbe essere SkyTg24 la sera di venerdì 29 novembre. A
dare l’ok alla proposta del canale satellitare (si erano fatte avanti
anche Rai e tv private) sono stati tutti e quattro i candidati alla
segreteria del Pd, anche se alla sfida ai gazebo dovrebbero arrivare
soltanto i tre proclamati dalla convenzione del 24 novembre (lo statuto
del partito prevede che siano ammessi «i tre candidati che abbiano
ottenuto il consenso del maggior numero di iscritti purché abbiano
ottenuto almeno il 5% e, in ogni caso, quelli che abbiano ottenuto
almeno il 15% e la medesima percentuale in almeno cinque regioni»).
Già
alla fine del primo round, però, la partita appare chiaramente come una
corsa a due tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, che tra l’altro sono gli
unici due che rilanciano via Twitter lo slogan scelto dal Pd per queste
primarie: «#iovotoperché se ci proviamo insieme possiamo finalmente
#cambiareverso all’Italia», scrive il primo, «#iovotoperché dobbiamo
ridare valore alla parola SEGRETARIO e costruire un Pd
#BelloeDemocratico», scrive il secondo (tra l’altro al comitato Cuperlo
non è piaciuto il fatto che la parola «segretario» non compaia nella
campagna per le primarie, che servono proprio ad eleggere questa figura
del partito).
BATTAGLIA SUI NUMERI
Intanto però continua la
battaglia sui numeri. Chiusa la fase in cui si dovevano eleggere i
segretari di federazione, i comitati dei due candidati continuano a
intestarsi entrambi la vittoria e a sfornare cifre che vengono però
reciprocamente smentite. In attesa che venga fatta chiarezza oggi,
quando dopo aver riunito la segreteria Guglielmo Epifani incontrerà
insieme a Davide Zoggia la stampa per illustrare la lista degli eletti e
i prossimi passaggi congressuali, quel che è certo è che i nuovi
segretari provinciali sono vicini o a Cuperlo o a Renzi, uno è vicino a
Pippo Civati e nessuno a Gianni Pittella. Un equilibrio che
difficilmente muterà, quando da domani al 17 gli iscritti voteranno per
il segretario nazionale (lo statuto prevede infatti questo primo
passaggio, prima delle primarie aperte).
Il nervosismo tra i due
schieramenti sta crescendo e dopo la riunione di ieri sera della
commissione congressuale dovrà essere la segreteria, questa mattina, a
trovare il modo per riportare la calma attorno alle questioni del
conteggio dei segretari provinciali e dei tesseramenti contestati.
Epifani vuole togliere enfasi alla discussione sulle iscrizioni
gonfiate, e farà un appello a tutte le anime del partito, presenti in
segreteria, ad abbassare i toni. Non sarà però facile raggiungere
l’obiettivo, a giudicare dallo scambio di battute delle ultime
ventiquattr’ore. Il responsabile della campagna di Cuperlo, Patrizio
Mecacci, dice che non vuole fare «guerre sui numeri» però ribadisce che
tra i segretari di federazione sono nettamente di più quelli vicini al
deputato triestino: «Sono dati pubblici e si possono consultare». La
replica arriva per bocca del deputato renziano Francesco Bonifazi: «Se
davvero pensa che sia finita 49 a 35 dica quali sono i 49 e quali sono i
35, altrimenti taccia perché con questo atteggiamento sta soltanto
provando a rovinare il congresso».
Un’altra polemica innescata tra i
due schieramenti riguarda il ruolo degli iscritti, che «non sono una
nomenklatura chiusa» dice Mecacci. E Matteo Orfini: «Trovo
sbagliatissimo che Renzi dica chissenefrega tanto ci sono le primarie,
perché questo menefreghismo è rivolto a centinaia di migliaia di
militanti che consentono la vita del Pd». Polemica infondata per i
renziani, che replicano con David Ermini: «Chi ha mai detto chi se ne
frega? Matteo ha tenuto un comportamento assolutamente responsabile e
sereno e questo spirito prevarrà in tutto il percorso del congresso».
I
due sfidanti si tengono fuori da queste schermaglie. Cuperlo però
rilancia la proposta di non lasciare aperto il tesseramento fino
all’ultimo momento utile per votare il segretario. «Sono preoccupato
confessa dobbiamo avere a cuore gli iscritti e rinnovo l’appello a
fermare il tesseramento almeno il giorno 7 novembre per evitare questi
fenomeni». Renzi rimane però contrario.
I «fenomeni» a cui fa
riferimento lo sfidante del sindaco sono quelli di cui da giorni si
parla sui giornali, le denunce di tesseramenti gonfiati che stanno
provocando ricorsi su ricorsi indirizzati da ogni parte d’Italia alla
commissione congressuale e alla commissione dei garanti. Si tratta di
casi isolati, spiegano al Nazareno sottolineando che alla fine gli
iscritti non supereranno i 500 mila dello scorso anno e i votanti
saranno compresi tra i 300 e i 350 mila. Dal territorio però continuano
ad arrivare notizie di congressi revocati (come al Prenestino di Roma) o
contestati dai renziani (come a Cosenza) o dai cuperliani (come quello
di Asti, dove però i renziani insistono sul fatto che il boom di
iscritti albanesi è fisiologico in una città dove è presente una
comunità albanese di 7 mila persone che nella vita del partito «ha
sempre avuto un ruolo attivo»). Casi (insieme a quelli di Rovigo,
Ragusa, Crotone e altri) di cui si stanno per ora occupando le
commissioni di garanzia regionali, prima che la pratica passi al
nazionale.
Repubblica 6.11.13
Pd, allarme per il caos congressi
Sette segretari a rischio revoca
Epifani: così gli elettori scappano
E Bersani gela Letta: non ce la fa a rilanciare il Paese
di Giovanna Casadio
ROMA
— «Vediamo di mettere ordine nei tesseramenti gonfiati e nei primi
risultati dei circoli. Ma soprattutto non creiamo sfiducia negli
elettori». La preoccupazione di Epifani è che la base del partito, i
simpatizzanti, si allontanino dal Pd, piombato nel caos congressuale.
L’inquinamento delle tessere è uno scandalo e soprattutto getta
discredito in un partito già infragilito dalle larghe intese di governo e
dalle spartizioni correntizie. Perciò ieri sera la commissione per il
congresso ha discusso dei sette “casi” più inquietanti - tra cui
Cosenza, Siracusa, Asti - per intervenire là dove ci siano state
degenerazioni, anche annullando i congressi se occorre. E stamani la
segreteria convocata da Epifani tenterà appunto di mettere pace.
Ma
lo scontro tra Renzi e Cuperlo continua. Non solo su chi ha vinto e chi
ha perso nei primi risultati congressuali, cioè nelle federazioni
provinciali, ma anche sul tesseramento gonfiato. Il timore dei renziani è
che si accentui un trend negativo alle primarie dell’8 dicembre. Dal
2005 in poi - calcola Antonio Funiciello - gli elettori ai gazebo sono
andati diminuendo. Tuttavia è sullo stop ai tesseramenti che salgono le
tensioni. A proporre la sospensione è Gianni Cuperlo, lo sfidante del
sindaco “rottamatore” che è super favorito nella sfida per la
segreteria. «Non vogliofare polemiche sui dati, piuttosto sono
preoccupato del tesseramento. Dobbiamo avere a cuore gli iscritti, e
rinnovo l’appello a fermare il tesseramento almeno il 7 novembre per
evitare questi fenomeni», è la richiesta di Cuperlo. Niente da fare per
Renzi. E intanto l’ex segretario Bersani critica il governo: «Non fa
ripartire il paese, va bene per affrontare l’emergenza ma non ridà
fiducia». Insomma una svolta è necessaria e comunque (è quanto afferma
nel libro di Bruno Vespa) un esecutivo con i 5Stelle «non avrebbe fatto
meno strada».
Sul tesseramento, Ettore Rosato, renziano, avverte che
la decisione è stata presa nell’Assemblea del partito e non si può
stracciare: «Cuperlo mira a fossilizzare il congresso agli iscritti del
passato». Contrattacca Alfredo D’Attorre: «Non si capisce perché Renzi
si presti al gioco dei tesseramenti gonfiati, invece di accettare un alt
prima che si vada alla Convenzione». La Convenzione è il momento in cui
gli iscritti sceglieranno i tre candidati (in corsa ora sono in
quattro, con Pippo Civati e Gianni Pittella), che andranno alle primarie
dell’8 dicembre. Sarà quello il primo dato politico del congresso,
poiché gli sfidanti supereranno la prova con una percentualedi consensi
che fotograferà il loro gradimento nel corpo vivo del partito. O almeno
di quel che ne resta, se non si riescono a evitare gli inquinamenti dei
finti tesseramenti.
Anche sui neo segretari provinciali il
contenzioso è aperto. Irenziani dicono di avere vinto 47 a 38, dati non
definitivi. I cuperliani l’esatto contrario. «Non mi piace questo gioco,
perché le dinamiche territoriali sono diverse da quelle nazionali, ma
se proprio si vuole almeno non si bari», si sfoga Lorenzo Guerini, ex
sindaco di Lodi, renziano, che ricorda come a Lodi il segretario sia
unitario e così a Cremona e a Como. «Stanno provando a rovinarci il
congresso, ma non ci riusciranno», denuncia un altro renziano, Francesco
Bonifazi. Mentre i cuperliani Nico Stumpo, Matteo Orfini parlano di un
Renzi che «se ne frega dei militanti». Antonello Giacomelli rimbecca: «I
segretari dei circoli rispondono a dinamiche locali». E i candidati
alla segreteria il 29 novembre dovrebbero sfidarsi in tv, accettando
l’invito diSky.
La campagna per le primarie sarà comunque all’insegna
del risparmio. «Super low cost», la definisce Roberto Cuillo,
segnalando che il tetto è stato fissato in 250 mila euro. Lo slogan è
“Io voto perché”, già hashtag su twitter. Sia Renzi che Cuperlo
twittano. «Io voto perché se ci proviamo insieme possiamo finalmente
cambiare verso all’Italia» (Renzi); «Io voto perché dobbiamo ridare
valore alla parola segretario e costruire un Pd bello e democratico».
Sul web anche ironie perché il sindaco di Firenze ha lanciato in rete
l’appello a cambiare verso alle cose che non vanno. Ciascuno si
sbizzarrisce.
Corriere 6.11.13
Cuperlo-Renzi, un nuovo fronte
Sospetti sui cartelloni per le primarie
L’obiezione: la campagna non spiega che si vota il segretario e non il premier
di Monica Guerzoni
ROMA
— È scontro sempre più aspro tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo. Si
litiga sul numero di segretari provinciali conquistati, ci si azzuffa
sul tesseramento gonfiato e adesso si apre un nuovo fronte polemico:
perché la campagna del Pd per le primarie, presentata da Roberto Cuillo e
Antonio Funiciello, non dice che l’8 dicembre si va ai gazebo solo per
eleggere il nuovo segretario? Può sembrare una questione di lana caprina
e invece, per i sostenitori del candidato ex ds, il tema è tutto
politico. Cuperlo vi legge la conferma che Renzi stia correndo per
conquistare Palazzo Chigi, e oggi chiederà a Epifani di correggere il
tiro, di chiarire che i cittadini voteranno per il leader e non per il
futuro premier. I renziani non ci stanno e si appellano allo Statuto.
«Se non abbiamo fatto riferimento alla carica in gioco — spiega
Funiciello — è perché con le primarie scegliamo il segretario, che è
anche automaticamente il candidato alla presidenza del Consiglio». E
quindi no, se Cuperlo vuole che slogan e manifesti vengano ritoccati
dovrà vedersela con l’opposizione di Renzi...
Tra il sindaco e il
candidato dell’ala sinistra è braccio di ferro anche sul tesseramento.
Oggi Epifani annuncerà che hanno già votato 320 mila iscritti su circa
420 mila e, a colpi di dati, proverà a ridimensionare l’affaire della
compravendita di tessere: a Nardò si registra un boom del 500% e a
Crotone del 400%. Ma Gianni Cuperlo rilancia: «Io non mi arrendo. Con
tutta la passione e l’affetto che ho per il Pd faccio appello ai
candidati, perché riflettano sulla mia proposta di fermare il
tesseramento il 7 novembre, giorno di inizio dei congressi di circolo».
Per il giovane turco Matteo Orfini «Renzi sbaglia a dire “chissenefrega
tanto ci sono le primarie”» e il ministro Andrea Orlando propone una
moratoria delle iscrizioni: «Bisogna darsi una calmata».
Nel
rimpallo di sospetti e accuse, la segreteria del Pd è stata rinviata ad
oggi. Cuperlo chiede di annullare le assise ove venissero riscontrate
irregolarità e, su questo punto, anche i renziani sono d’accordo. Per
Funiciello il «tribunale» del Pd, presieduto da Luigi Berlinguer, in
programma venerdì, dovrà sanzionare con un intervento «molto severo» i
casi di degenerazione e, se necessario, «considerare l’ipotesi di
annullare i congressi». I candidati si accusano l’un l’altro, in un
braccio di ferro che nasconde la battaglia dei numeri. Chi ha
conquistato più segretari provinciali? Chi vincerà nei circoli? I
sostenitori di Cuperlo attaccano i renziani che avrebbero messo in giro
«dati falsi» e gli amici del sindaco ribaltano le accuse, smentendo il
pareggio e conteggiando in «una cinquantina» i segretari renziani,
contro la quarantina dell’avversario. «È finita 49 a 35», giura il
cuperliano Patrizio Mecacci. E il renziano Lorenzo Guerini si arrabbia:
«Almeno non si bari!». Toccherà a Epifani, in segreteria, dirimere la
querelle e provare a placare almeno un po’ le acque. Si parla di
contatti tra gli sfidanti per trovare un accordo, ma Cuperlo smentisce:
«Un ticket con Renzi? No, proprio no». E mentre si litiga nei circoli
per gli iscritti prezzolati, da Roma a Cosenza, Sky si aggiudica per il
29 novembre il primo confronto tv tra i quattro aspiranti segretari.
Corriere 6.11.13
Nella sezione rossa tra urla, minacce e insulti omofobi
La faida al circolo pd di Casalbertone
di Ernesto Menicucci
ROMA
— «Froci», «fascisti», «zozzi». Insulti, accuse, polemiche,
contestazioni. Benvenuti a Casalbertone, periferia est della Capitale,
zona popolare e universitaria, tra la Prenestina e la stazione
Tiburtina. Qui, dove la sinistra vince da sempre, si consuma una delle
lacerazioni più profonde del Pd nella corsa alle primarie. Renziani e
cuperliani? No, non qui. La «faida» è ancora più interna, tutta interna
ai «seguaci» del deputato triestino Gianni Cuperlo. Generazioni in
lotta, giovani iscritti contro militanti di lungo corso, il tutto mixato
e shakerato nel grande tritacarne di Facebook , strumento — quello sì —
trasversale e per tutte le età.
Finisce a male parole, a denunce di
frasi «omofobe» e «sessiste». Da una parte i sostenitori di Lionello
Cosentino, 60 anni, ex assessore regionale, ex senatore, «portato» dal
guru romano Goffredo Bettini. Dall’altra Tommaso Michea Giuntella, 30
anni, «bersaniano» doc (era uno dei quattro della famosa foto col pugno
chiuso), papà giornalista (Paolo, quirinalista del Tg1 scomparso qualche
anno fa), nonno (Vittorio Emanuele) reduce dai lager nazisti. Tutti e
due, ironia della sorte, voteranno alla fine per Gianni Cuperlo, contro
Matteo Renzi. Perché Casalbertone, che ha ospitato la prima sede romana
dell’Ulivo prodiano, è così: qui la sinistra è ancora sinistra, qui il
Pci-Pds-Ds-Pd ha maggioranze granitiche, che hanno prodotto oltre 15
anni di governo territoriale. Poi arrivano i congressi dei circoli, e
c’è un mondo che va in frantumi.
Il circolo Pd è dietro una
porticina nera, in ferro, su una via in salita intestata a Giuseppe
Pianell, generale dell’esercito, già ministro della Guerra del Regno
delle Due Sicilie durante lo sbarco dei Mille, poi comandante dell’unica
divisione italiana che, a Custoza, non arretrò di fronte agli
austriaci. Passato glorioso, targa sbagliata: Pianell morì nel 1892, e
non nel 1902 come c’è scritto per strada. La zona è di quelle «ad alta
tensione»: a cento metri c’è il circolo «Futurista» di CasaPound, il
secondo polo dei «fascisti del terzo millennio» (definizione loro), poco
più in là un paio di centri sociali, più la sezione del Pdl. Qualche
volta, finisce in rissa: l’ultima, con bastoni, pietre e fumogeni, è di
un anno e mezzo fa.
Anche stavolta vengono evocati «i fascisti», ma
il contesto è un altro. Domenica pomeriggio, 3 dicembre. Il circolo Pd
elegge il suo segretario e ad appoggiare i due principali candidati —
Carlotta Paoluzzi con Giuntella, Domenico Perna con Cosentino — arrivano
i big: Micaela Campana di qua, Michele Meta di là. Clima teso, elezione
all’ultimo voto. La spunta la Paoluzzi: 67 voti contro 63. Vittoria non
«piena», però: nei delegati, infatti, finisce 6 a 6. A sera, ci sono
ancora urla, concitazione. Ad una giornalista di youdem, renziana, viene
tolto il cellulare e impedito di fare riprese. I militanti tornano a
casa, sia i giovani che gli «storici», con l’adrenalina in corpo. Così
accendono il computer e si mettono sul grande «sfogatoio» di Fb. Tonino
Cuozzo, uno degli iscritti della prima ora, attacca: «I fascisti del Pd
hanno portato le truppe cammellate a votare Carlotta e Giuntella». Passa
mezz’ora, e i «Giovani democratici» del Tiburtino III (dove Veltroni,
con Benigni, lanciò la sua campagna nel 2008) replicano: «Diccelo tu
Tony per chi dovevamo vota’! Quanti soldi j’avete dato a quelli di
casapound per venire a votare in sezione? La foto con Berlinguer c’hai!
ma vergognati zozzo! Fascista tua madre!». Cuozzo, a quel punto, non ci
vede più: «Voi pure i froci che per un c... votano Carlotta miss de
sto... ma non passerete a Casalbertone mantenuti da mister frega la neo
eletta in parlamento ed assessore per spirito santo...». Una sequela
d’insulti di rara eleganza, con «bersagli» precisi: Simone Barbieri,
omosessuale, di Pd Rainbow; la Paoluzzi, la Campana ed un ex assessore
(Maria Muto) del Municipio.
I sostenitori di Giuntella salvano lo
screenshot con gli insulti, la polemica «monta» sulle agenzie: «Accuse
omofobe e sessiste», dice Giulia Tempesta, consigliere comunale. «Se
fosse vero, esprimerei la mia solidarietà», replica Cosentino. Ma i
supporter dell’ex senatore ribaltano le accuse: «Hanno cominciato gli
altri, mettendo su internet la foto di Meta e il commento: “I c...
stanno coi c...”». E ancora: «Il tesseramento è stato gonfiato: da 70
iscritti siamo diventati 150». Perché alla fine, le presunte «truppe
cammellate» di Casalbertone, sono qualche decina di unità.
La Stampa 6.11.13
Pd, caos senza fine
Adesso si dividono anche i garanti
di Maurizio Tropeano
qui
La Stampa 6.11.13
«Chi ha sbagliato esca allo scoperto»
4 domande a Salvatore Buglio
qui
il Fatto 6.11.13
Congresso
Tessere false, Cuperlo e Renzi ai ferri corti: “Qui salta tutto”
Il dalemiano vuole bloccare le iscrizioni, il sindaco si oppone
di Wanda Marra
Rinviata
la segreteria del partito da ieri a oggi per lo scontro interno.
Epifani non sa che pesci pigliare fra le pressioni dei due contendenti.
Contestazioni in tutta Italia, fra ricorsi e richieste di annullare le
votazioni locali. Intanto il Rottamatore imbarca anche l’ex governatore
calabrese Agazio Loiero
TESSERE E RICORSI, IL PD NON SA CHE PESCI PRENDERE
EPIFANI
RINVIA LA SEGRETERIA A STAMATTINA. DEVE METTERE D’ACCORDO CUPERLO CHE
VUOLE BLOCCARE LE ISCRIZIONI E I RENZIANI CHE SI OPPONGONO
Siamo
in un vicolo cieco. Come fai, fai male. E se alla fine salta tutto?”. Il
panico avanza, mentre i I candidati si scontrano a colpi di dati.
“Abbiamo vinto i congressi locali 49 a 35”, va dicendo Cuperlo. E Luca
Lotti, renziano, responsabile Enti locali: “Dati falsi, con noi abbiamo
contati una cinquantina di segretari”. Ma in realtà, lo scontro si
consuma sui pacchetti di tessere, lievitati in modo tutt’altro che
trasparente, sui ricorsi. Sui congressi da sospendere e le iscrizioni da
bloccare. Il candidato dalemian-bersaniano fa addirittura un appello:
“Il tesseramento si blocchi il 7 novembre”. Ma i renziani si oppongono:
“Non si cambiano le regole in corsa”. Ognuno pensa di difendere la
propria convenienza: i cuperliani hanno cercato di fermare l’avanzata di
Renzi, consegnandogli un partito ostile e bisogna vedere se ci sono
riusciti. Infatti, molti segretari locali sono stati votati da entrambe
le fazioni. Renzi da parte sua pensa che molti dei tesserati “onesti”
del-l’ultima ora sono i suoi, e non vuole recedere. Il 7 non è data
casuale. Da quel giorno gli iscritti cominceranno a votare il segretario
nazionale: le percentuali finali non sono secondarie, seppure l’ultima
parola è alle primarie.
“C’È MOLTO interesse a sporcare tutto, per
complicare i processi decisionali. Ma io sono convinto che al di là di
alcuni casi, il grosso è pulito”, dice il renziano in commissione
congresso, Lorenzo Guerini. Ieri era prevista la segreteria. Ma alle
17:36 le agenzie battono la notizia: riunione rinviata a stamattina,
causa “informativa” della Cancellieri (un renziano la definisce
“cerimonia funebre”. Strani lapsus). Spiegano dallo staff del segretario
che si parlerà “anche” del congresso, ma soprattutto della legge di
stabilità. Nella perfetta tradizione, nel non saper che fare, si
rimanda. Epifani è contrario a bloccare il tesseramento, ma propenso a
sospendere qualche congresso. Ma ha il peso, alla scadenza del suo
mandato, e con una segreteria spaccata, di imporre una linea? E allora,
dallo staff si dice che “tocca alla commissione congresso decidere”.
Commissione che s’è riunita ieri sera. E che ha deciso? “Niente, solo
adempimenti burocratici”, è la sintesi di chi c’era. La motivazione
ufficiale è che si aspetta che le commissioni locali (spesso più che
parti in causa, visto che tra i membri ci sono anche i candidati) -
convocate tra ieri e oggi - finiscano il loro lavoro. Se non riescono a
risolvere le controversie, si passa al nazionale. L’ultima parola
spetterebbe ai Garanti, che si incontrano venerdì: ma non è ancora
chiaro il loro vero perimetro di competenze. Il solito sistema di
scatole cinesi, per cui alla fine ognuno butta sugli altri la
responsabilità e nessuno decide. “Anche nella Dc di una volta il
tesseramento si chiudeva molto prima: perché i casi di inquinamento,
brogli e quant’altro ci sono sempre stati, e così si aveva il tempo di
risolverli. Noi prenderemo i provvedimenti necessari, ma non è con la
Commissione di garanzia che si risolve il problema politico”, spiega uno
dei componenti, Giovanni Bruno. Si racconta di decine e decine di
ricorsi. Molti mettono nel mirino proprio la regola di consentire il
tesseramento fino all’ultimo momento. “L’ha voluta l’ex responsabile
Organizzazione Nico Stumpo - raccontano in molti - un po’ perché gli
iscritti erano davvero pochi, un po’ per fare cassa”. E lui si difende:
“Io avevo detto che le regole non si dovevano cambiare. L’hanno voluto i
renziani. E allora, eccoci qui”.
il Fatto 6.11.13
Dentro il Circolo
Cinecittà: le truppe cammellate in fila, i militanti escono
di Enrico Fierro
Il
sorriso dolce di Enrico Berlinguer, il volto duro e bello di Gigi
Petroselli, il sindaco delle periferie di Roma. E poi lui, Palmiro
Togliatti, il Migliore, accanto al Che, poco più in basso una foto
triste di Aldo Moro. Per la serie c’era una volta la politica, quella
fatta di campi, divisioni, idee e passioni. Ora ci sono i congressi e le
sezioni del fu Pci, trasformato in Partito democratico, sono ridotte a
“votifici”. Sezione, pardon, circolo che fa più moderno, del Pd di Roma
Cinecittà, qui si vota per il segretario di Roma e per quello locale.
Tutto doveva concludersi già una settimana fa, ma tra ricorsi e accuse
reciproche di tessere gonfiate, è finito in caciara: voti annullati e
congresso da ripetere.
DALLA FEDERAZIONE del partito è arrivato un
garante, perché in questa Beirut della politica che è diventato il Pd
nessuno si fida più degli altri. Ivana della Portella, giornalista,
membro della segreteria regionale del partito, è iscritta qui e non
nasconde la meraviglia: “Quante facce nuove, quanta gente mai vista”.
C’è la fila per tesserarsi, ci si iscrive last-minute con venti euro,
così si ha diritto ad una copia di Europa, una de l’Unità, e soprattutto
si può votare. “Democratici e democratiche”, Fabiano Proietti, uno dei
candidati alla segreteria del circolo (rito cuperliano), tenta di
parlare. “Chiamace compagni”, gli fanno dalla sala. Intanto continua il
via vai di gente che vuole la tessera. Il garante suda freddo. Prima di
Fabiano interviene Salvatore Canalis. L’antropologia cambia di colpo.
Salvatore si avvicina ai cinquanta, si vede che ha militato nel partito
quando il circolo si chiamava sezione e fuori sventolava la bandiera
rossa dei comunisti. “È un rito, qui non si parla di politica, il voto è
la parte predominante di questo congresso”. Lo ascoltano in pochi.
“Hanno fatto le larghe intese, il governo, stanno facendo leggi di
stabilità e altro e noi non abbiamo avuto la possibilità di parlare con
un deputato. Una volta chiamavi in federazione e ti mandavano un
compagno onorevole. Oggi ti devi rivolgere a un capo corrente”.
QUALCUNO,
dei pochi ancora vogliosi di ascoltare le parole della politica, fa
cenno di sì con la testa. Ma intorno è tutto un via vai di tessere
rinnovate, schede per votare, file che si ingrossano. Fuori un signore
anziano traffica con una cartella gialla e si dà da fare col cellulare.
“Aò, devi venì a votà, c’è tempo fino alle nove de sera”. Il cronista
chiede spiegazioni al giovane segretario, contestato e attaccato da un
gruppo di iscritti per come ha condotto la prima fase di questo strano
congresso. Gianni Di Biase si era praticamente dichiarato vincitore
accampando il controllo di 155 voti su 270. “La verità è che qui il Pd
non è mai nato, c’è tanta rivalità tra ex comunisti ed ex della
Margherita”. Gli chiediamo dei voti, delle tessere all’ultimo minuto.
Minimizza. Ivana della Portella imbraccia il microfono e lancia
un’accusa durissima: “Il garante ha detto che ci sono intere famiglie
che stanno venendo a votare. Una di loro è venuta tutta intera, cinque
persone, compreso il nonno di 91 anni”. Giudizio lapidario di un anziano
iscritto: “È uno schifo”. Difficile dargli torto. Anche qui sono
all’opera i signori delle tessere? Certamente. Ma il problema non è
questo, è più grave. Basta saper leggere la delusione stampata sui volti
degli anziani militanti, uomini e donne che negli anni passati hanno
speso il loro tempo per la buona politica, si sono entusiasmati per le
parole di Berlinguer, commossi per la fine di Aldo Moro, mobilitati per
difendere la democrazia, il lavoro, i diritti. Questa gente oggi è
offesa dal partito ridotto in un labirinto di correnti. I loro compagni
dei circoli del Prenestino hanno gettato la spugna e revocato il
congresso. “Aspettavamo con ansia questo momento sperando in una vera
fase costituente. E invece non abbiamo mai visto una così totale assenza
di dibattito e una così prevaricante invasione di tutto il resto. Siamo
di fronte a un fenomeno di ‘ipertesseramento’ mosso da personali
interessi di potere”. Iscritti dell’ultimo minuto e capi-corrente. La
morte delle idee, degli entusiasmi e della buona politica.
il Fatto 6.11.13
Adesioni e sospetti
“Ma perché vi iscrivete solo ora?”
di Mario Natangelo
Come
mai vi iscrivete all’ultimo momento?” chiede un ragazzo in camicia
accogliendo i nuovi arrivati nella saletta del circolo Pd ‘Alberone’, a
Roma. L’ultimo momento è quello utile per tesserarsi e votare al
congresso: nelle sale interrate del circolo, infatti, i volontari stanno
sistemando sedie e microfoni. È già pomeriggio inoltrato ed entro sera
tutto deve essere pronto per la presentazione dei candidati e per il
voto. “Ma siete della zona? Perché altrimenti c’è il circolo di via La
Spezia” prova a dire, ma i nuovi tesserati restano, cercando di non
impacciare il passaggio di sedie verso la sala principale. C’è un viavai
tra iscritti storici e conoscenti che vengono per dare una mano o che
soltanto salutano per poi uscire di nuovo. Il ragazzo in camicia
rilascia delle dichiarazioni a una giornalista con telecamera al
seguito, poi indica il gruppetto di persone in fila davanti a una porta:
“Quelli credo che siano qui per tesserarsi”. La troupe plana sui nuovi
iscritti per qualche domanda: “E come mai si iscrive all’ultimo
momento?”. La fila per le nuove tessere scorre veloce: la breve attesa
la si passa nello stretto corridoio a scansare le domande della troupe
televisiva e, ancora, il trasporto delle sedie. Nello ‘stanzino delle
tessere’ c’è un volontario con un vecchio pc sulla cui tastiera batte
con i soli indici, borbottando che “c’è troppo da fare oggi per
occuparsi delle iscrizioni”. Ma qualcuno deve pur farlo. E in fretta.
Nome, cognome, data e luogo di nascita. Occupazione, codice fiscale e un
contributo per la causa: “Il minimo è 20 euro”. Si fa confusione tra le
schede compilate, per accelerare i tempi, in sincrono tra il volontario
al pc – un dito alla volta sulla tastiera – e il nuovo tesserato che
riempie una scheda con la penna. Tessera dopo tessera, inizia a
diradarsi il passaggio delle sedie in corridoio. La procedura si
conclude – finalmente – con la consegna di una scheda di carta infilata
in una bustina di plastica. La durata è annuale, la firma è del
‘Segretario Pier Luigi Bersani’: benvenuti nel nuovo Pd.
l’Unità 6.11.13
Bettini: «Il tesseramento va chiuso prima»
«Sarebbe
necessario, per evitare le truppe organizzate che alterano all'ultimo
momento i risultati, chiudere le iscrizioni qualche giorno prima dello
svolgimento dei congressi. Perché qui non parliamo di primarie aperte
agli elettori, che è giusto far partecipare al voto fino all'ultimo. Qui
parliamo di adesione al partito. E il segretario di un circolo ha il
sacrosanto diritto di capire almeno un pò chi sta iscrivendo; di
guardare in faccia e conoscere un nuovo membro della struttura che
dirige».
È quanto sostiene Goffredo Bettini in un intervento
pubblicato su Italia Lab, in cui parla dei congressi. Bettini spiega: «I
congressi dei circoli del Pd e le primarie degli iscritti per
l'elezione dei segretari di federazione sono un'ulteriore conferma delle
necessità di un rinnovamento radicale della forma partito. Non vi è
dubbio che rimane come risultato positivo la partecipazione di tante
energie sane, generose e intelligenti. Anche nell'esame più criticamente
spietato questo dato non va disperso. Tuttavia il peso del regime
correntizio, dei personalismi e delle divisioni sul potere è stato
grande». «Nella condizione attuale del partito spiega ancora l'esponente
del Partito democratico frutto in particolare di questi ultimi quattro
anni di gestione, anche le migliori intenzioni e i dirigenti più validi
rischiano di contaminarsi».
Repubblica 6.11.13
Bettini: Pd alla corda, così vincono le truppe cammellate che stravolgono i risultati
“Che follia questo tesseramento ma adesso non si può bloccare”
intervista di G. C.
ROMA
— «È una follia il tesseramento a ridosso dei congressi. Una cosa
sbagliata. Favorisce l’organizzazione di truppe cammellate, del tutto
estranee alla vita del Pd e dei suoi circoli, che stravolgono all’ultimo
momento il risultato». Goffredo Bettini, ex coordinatore della
segreteria di Veltroni e promotore di “Campo democratico”, lancia
l’allarme: «Il partito è arrivato alla corda».
Bettini, questa regola è stata un errore?
«Sono
fermamente convinto che gli elettori alle primarie aperte debbano
votare per il segretario nazionale aderendo al seggio, cioè fino
all’ultimo. Ma un’altra cosa sono le elezioni dei segretari di
federazione, dove è previsto che solo gli iscritti votino. Un segretario
in un circolo non può non conoscere chi aderisce alla struttura
politica che lui dirige. Altrimenti c’è la possibilità di forme di
inquinamento, di intrusione organizzata».
E quindi, lei cosa avrebbe voluto?
«Si
doveva fermare il tesseramento 4 o 5 giorni prima dell’inizio dei
congressi in modo da dare la possibilità di un minimo di valutazione
serena alle varie strutture territoriali, evitando i conflitti durante
la votazione e gli scontri che sono avvenuti. Alla fine tutto questo ha
dato un tono di discredito verso un passaggio che tuttavia ha messo in
moto le energie che ancora esistono nel Pd».
A questo punto occorre interrompere i tesseramenti?
«No.
Mai in corso d’opera si cambiano le regole, sarebbe una decisione
verticistica e oligarchica. E sprezzante delle persone che hanno
partecipato civilmente».
Quali irregolarità l’hanno più colpita?
«Ho
visto che ci sono state situazioni in cui l’ultimo giorno divoto gli
iscritti sono zompati da 100 a 350, 400: non è credibile, se non
attraverso uno sforzo organizzativo improprio. E questo votificio non è
accompagnato da una discussione politica. Ho letto lettere agli iscritti
dove erano indicati gli orari del voto e poi “...eventuale discussione
politica”. Ma un congresso è il momento essenziale della discussione».
Verso dove va il Pd?
«È
andato sempre più verso un partito-comitato elettorale, che è il
contrario di quello ci serve. Il nostro regime interno è insopportabile,
non solo in riferimento agliepisodi di tessere gonfiate che devono
essere individuati, denunciati e colpiti, ma anche nella sua vita
normale per le intercapedini correntizie che vanno stroncate».
Ma gli “inquinatori” chi sono, cuperliani o renziani?
«Cercare
il principale responsabile è un esercizio in cattiva fede. È l’insieme
del partito che nel corso degli ultimi anni è diventato questa roba qui:
un Pd in cui contano correnti e sempre meno le persone e gli iscritti.
Per questo ci vuole una rivoluzione dal basso e abbiamo proposto la
piattaforma di idee “Campo democratico”».
Chi ha vinto per ora nei circoli, Renzi o Cuperlo?
«Discussione
bizzarra. Si era deciso che i circoli fossero sganciati dalle
candidature nazionali. Infatti i candidati segretari locali hanno
raccolto in molte occasioni consensi trasversali. A Roma Cosentino ha
detto che voterà Cuperlo. Ma molti che lo hanno preferito, faranno poi
scelte diverse».
Chi vorrebbe vincesse?
«Non mi esprimo fino alla fine, compreso il giorno in cui andrò a votare. Vanificherei la mia battaglia».
l’Unità 6.11.13
Abolire gli iscritti? Al contrario bisogna dargli più diritti
di Pietro Folena
QUANDO
MI SONO ISCRITTO ALLA FGCI NON VENIVO DA UNA FAMIGLIA COMUNISTA, E I
MIEI FRATELLI ERANO PIÙ A SINISTRA DEL PCI -, HO CERCATO L’INDIRIZZO
SULL’ELENCO TELEFONICO E, COL CUORE IN GOLA, HO SUONATO AL CAMPANELLO.
Sono entrato in una comunità, una specie di famiglia, che ha
accompagnato una parte importante della mia vita. Ci emozionava il
Gramsci dell’Ordine Nuovo: «Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il
vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la
vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra
intelligenza».
La mia è l’esperienza di tante di tanti: che sentivano
e vivevano l’iscrizione come un atto importante della propria vita, una
scelta libera, di parte, impegnativa. Ancora con dolore lacerante ho
lasciato la tessera dei Ds quando è stata fatta la scelta del Pd; così
come la tessera del Pd, dopo anni vani di ricerca di strade nuove, l’ho
fatta non a cuor leggero, pensando che come oggi può succedere questo
debba diventare il nuovo grande partito della sinistra plurale.
Vedo
già gli specialisti della «modernità» e del «nuovismo» alzare le spalle.
Cose vecchie, ottocentesche. Michele Emiliano addirittura propone di
abolire gli iscritti! Certamente: aver permesso l’iscrizione fino al
momento della votazione, in un partito che elegge il suo segretario
facendo votare chiunque passi per strada, in cambio di due euro, è già
una scelta figlia della convinzione medesina che oggi esprime il
simpatico sindaco di Bari, e che ha dominato in questi anni. A guardare
la vergogna di alcuni spettacoli nelle ultime settimane, la voglia di
abolire il tesseramento, questo tesseramento viene.
Ma dopo, domando,
cos’è il Partito? Un tram affollato ai Congressi e deserto quando non
si vota? Un popolo di teledipendenti che devono osannare il leader più
«cool», scelto e appoggiato da gruppi economici ed editoriali che fanno e
disfano le scelte politiche? Un nuova Baronia mediatica, simile alle
vecchie baronie in cui si era servi, prima delle grandi rivoluzioni
democratiche che hanno aperto l’epoca contemporanea?
Come in altri
casi penso alla distruzione del diritto del lavoro, propugnata dai
tardo-blairiani nostrani, o all’orazione anti-pensionati e
anti-sindacati fatta dal maitre à penser della finanza virtuale Davide
Serra la modernità che si propugna è in realtà molto arcaica e
primitiva.
Non sarà che il problema è l’opposto? Quello di dare nuovo
senso, nuovo potere, nuovi diritti e anche nuovi doveri a chi si
iscrive al Partito, e quello di ricostruire una comunità di donne e
uomini che faccia propri valori di gratuità, di amicizia, di comunità,
e, perché no, di amore per l’Altro?
Si dice che bisogna fare come in
Gran Bretagna, dove non ci si iscrive al Labour Party. Il Partito
Laburista ha una struttura federale, che non prevede una forma di
iscrizione personale dei suoi sostenitori al partito federale, ma
l’adesione alle organizzazioni «affiliate»: i partiti laburisti locali,
uno per circoscrizione elettorale (constituency Labour parties), i
sindacati affiliati al partito, il Partito Parlamentare Laburista e le
associazioni socialiste, come la Fabian Society, che hanno il diritto di
inviare i propri rappresentanti ai congressi annuali del partito. Si
vuole proporre questo modello? Sarebbe un’ipotesi seria, ben diversa
dagli spettacoli visti in queste settimane, o dalla caricature del mondo
anglosassone che i liberisti de noantri ci propongono un giorno sì e
l’altro pure.
Ecco, vorrei che dalle polemiche di questi giorni
scaturisse non tanto una valanga di ricorsi sul tavolo di Luigi
Berlinguer, che guida i garanti del Pd, ma una seria riflessione
sull’allarme suonato in questi giorni, e sul bisogno di scrivere in modo
democratico e partecipato uno statuto degno del nome di questo partito.
E, se è lecito, rispettoso della storia della partecipazione e della
militanza politica di milioni di persone, che vengono dalle tante
famiglie della sinistra italiana.
l’Espresso 4.11.13
Ecco chi è Marco Carrai, il Gianni Letta di Matteo Renzi
È il suo “gemello”. E il suo contrario. Schivo. Riservato. Invisibile. Eppure sempre presente
Ritratto ravvicinato del Gran Consigliere del sindaco di Firenze
di Marco Damilano
qui
l’Unità 6.11.13
Nei vecchi congressi del Psi votava solo chi era iscritto da due anni...
di Valdo Spini
Caro
direttore, a proposito delle polemiche in atto a proposito del
congresso Pd e del relativo tesseramento, se può essere utile, ricordo
che nei vecchi congressi del Psi per potere votare occorreva essersi
iscritti per due anni consecutivi. Si poteva rinnovare la seconda
tessera anche al momento del voto in assemblea, ma si doveva avere
dimostrato il proprio interesse al partito avendone già chiesta e
ottenuta una nell’anno precedente. Credo che tutto avvenga perché si fa
una grande confusione tra congressi dipartito e primarie. Le seconde
possono e devono essere aperte, mentre i primi, i congressi, devono
avere tutte le garanzie del caso.
l’articolo 67 della nostra
Costituzione: «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»
Corriere 6.11.13
Il grillismo e la Costituzione
Una violazione macroscopica
di Giovanni Sartori
Beppe
Beppe Grillo è un formidabile attore e demagogo. Probabilmente anche
Masaniello lo era nella Napoli del suo tempo, del 1600. Ma Masaniello
non aveva l’elettricità (intendi: microfoni, televisioni, Internet e
bambini derivati). Masaniello arrivava a Napoli, Grillo arriva a tutta
l’Italia. Poteva essere fermato? Può ancora essere fermato?
L’Italia
pullula di giuristi e anche di giuristi davvero insigni. Eppure a
nessuno di loro è venuto in mente, a quanto pare, l’articolo 67 della
nostra Costituzione, per il quale «ogni membro del Parlamento
rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato». Questa disattenzione è spiegabile? Forse sì, perché le nostre
facoltà di Giurisprudenza si sono chiuse in un «formalismo» così
introverso da ignorare una norma inserita in tutte le costituzioni delle
liberal democrazie europee sin da quando fu stabilita dalla Rivoluzione
Francese.
Nelle nostre facoltà di Legge si insegna storia del
diritto italiano (come è giusto che sia) ma non si insegna storia del
costituzionalismo. Incredibile ma vero. Il risultato è che ai nostri
costituzionalisti sfugge che il divieto del mandato imperativo
istituisce la rappresentanza politica dei moderni. Perché la
rappresentanza esisteva anche nel Medioevo e nell’antichità, ma era
appunto una rappresentanza assoggettata al vincolo del mandato
imperativo, e quindi di delegati o ambasciatori che presentavano al
Sovrano le richieste dei loro mandanti. Il divieto del mandato
imperativo è dunque vitale per un sistema di democrazia rappresentativa.
Se togli questo divieto la uccidi. E il grillismo costituisce di fatto
una violazione macroscopica di questo principio.
Non c’è dubbio che
il grillismo sia un movimento politico; e, secondo la dottrina, un
movimento che riesce a fare eleggere suoi candidati al Parlamento, è un
partito politico. Ma questi eletti hanno titolo per entrare e votare in
Parlamento? Secondo l’articolo 67 della Costituzione, no. Perché gli
eletti del Movimento 5 Stelle sono appunto vincolati da un mandato
imperativo di agire, parlare e votare solo su istruzioni di Grillo e del
suo guru; una sudditanza che li obbliga, senza istruzioni, al silenzio o
alla inazione.
Come ne usciamo? L’articolo 67 sopracitato
suggerisce — mi pare — che questi eletti non possono essere accolti in
Parlamento senza prima sottoscrivere uno ad uno il loro ripudio del
mandato imperativo. So immaginare gli strilli e i «vaffa» dei grillini e
di chi li vota. Il che non toglie che i giuristi della Corte
costituzionale non possano ignorare il problema e nemmeno lo dovrebbe
ignorare, mi sembra, il presidente della Repubblica. Perché Scalfari ha
davvero ragione quando, su la Repubblica di domenica scorsa, dice di
temere, con il grillismo, il definitivo sfascio di un Paese già
sfasciatissimo.
Verrò ricoperto di «vaffa», ma poco male sarebbe un
male minore. Non posso invece dargli ragione sul rimedio del federalismo
europeo. È comprensibile che questa tesi sia cara a Barbara Spinelli,
figlia di un padre illustre che ne è stato grande animatore. Ma non si è
mai visto un sistema federale senza una lingua comune. Nemmeno l’India
fa eccezione, perché l’élite che la domina parla l’inglese. Ma vorrei
vedere un povero votante italiano al quale vengono sottoposti, per
l’elezione federale, candidati finlandesi (dei quali non saprebbe
nemmeno pronunziare il nome); e così per una diecina e passa di altri
Paesi che parlano per noi un linguaggio indecifrabile. Il federalismo di
Bossi per fortuna è morto; e potremmo senza danno (lo sussurro e basta)
sopprimere anche le Regioni.
Ma lo dico di sfuggita. Una scarica di «vaffa» alla volta.
Corriere 6.11.13
Amici e fidanzati assistenti
Le senatrici M5S accusate: «Serviva gente di fiducia»
di Emanuele Buzzi
MILANO
— «La mia assistente ha rinunciato al contratto stamattina, non vuole
dare spazio alle polemiche, continuerà a supportarmi come semplice
attivista. Ho un’altra persona che si occupa della mia comunicazione a
Lecce, per ora va bene così», taglia corto Barbara Lezzi, ma l’assemblea
sul caso Parentopoli ha lasciato il segno. Con lei, finita sulla
graticola dei colleghi pentastellati, c’è la senatrice campana Vilma
Moronese. Nel mirino la scelta di assumere come assistenti personali
rispettivamente la figlia del proprio compagno e il fidanzato stesso.
Stessa discussione, esiti per ora diversi. «Lui si è preso un anno di
aspettativa, quando scadrà non so cosa succederà. Al momento non saprei
scegliere qualcun altro che sappia darmi lo stesso contributo», spiega
Moronese. Tra i Cinque Stelle la tensione, però, dopo i toni drammatici
di lunedì, non si attenua. C’è chi come Mario Michele Giarrusso chiede
una riunione congiunta di deputati e senatori per trattare il caso, ma
la capogruppo a Palazzo Madama, Paola Taverna, si oppone. E anche Lezzi e
Moronese si difendono. «Non c’è nessun caso Parentopoli. Abbiamo
rispettato sia le regole del Senato sia il nostro codice di
comportamento (è stato messo in discussione il criterio di meritocrazia,
ndr )», attacca l’esponente pugliese. «I documenti sui nostri
collaboratori sono stati passati al vaglio di Palazzo Madama», conferma
Moronese. Secondo Lezzi «c’è una grossa incomprensione di fondo: i
curricula li avevamo chiesti per i dipendenti dei gruppi parlamentari —
quelli che curano gli aspetti tecnici — non per i nostri assistenti
personali». Qual è la differenza? «I nostri collaboratori devono essere
delle persone di fiducia, deleghiamo a loro cose estremamente personali
come password, mail, persino bancomat».
«Ho scelto il mio fidanzato
per via delle sue competenze — racconta la parlamentare campana —, si
occupa di ambiente ed è anche un attivista della prima ora come me,
candidato alle amministrative a Napoli». «Io invece volevo una persona
giovane e di valore. La figlia del mio compagno è laureata in Economia
ed è anche lei attivista», spiega invece la senatrice pugliese. Che
aggiunge: «Avrei potuto scegliere anche altre persone, ma qui entra in
gioco la fiducia, non si tratta solo di merito». Le polemiche con gli
altri senatori? «Si tratta di una posizione minoritaria, sono sempre gli
stessi 8-9», affermano. «Quando ho assunto il mio collaboratore abbiamo
deciso di mettere in Rete la notizia nei meet-up di Napoli e Caserta,
trovando l’appoggio della maggior parte degli attivisti — ricorda
Moronese —. Lui, dipendente che ha anche una piccola attività in proprio
nel settore della green economy, mi segue 24 ore al giorno. Tutti i
giorni. Perché nel weekend noi siamo impegnati sul territorio. Ce la
siamo presa come missione». Qualcuno, però, si è lamentato che ci sia
una sottile differenza tra fidanzati e mogli o mariti: «Sarebbe
opportuno fare questo tipo di distinzione quando si regolarizzeranno le
coppie di fatto», ribatte Lezzi, che in assemblea aveva parlato anche di
altri casi. E che puntualizza: «Tutti abbiamo assunto senza bandi
pubblici. Magari c’è chi ha scelto un amico o il vicino di casa. Davanti
a un caso del genere c’è la stessa considerazione che nel mio?”.
Corriere 6.11.13
Bersani: al Paese serve una scossa questo esecutivo non è adatto
Il
governo Letta non è idoneo ad affrontare i gravi problemi del Paese. È
quello che viene fuori dalle dichiarazioni di Pier Luigi Bersani
raccolte da Bruno Vespa per il libro Sale, zucchero e caffè. L’Italia
che ho vissuto da nonna Aida alla Terza Repubblica in uscita venerdì 8
novembre da Mondadori-Rai Eri. «Non ho date, (per la caduta del governo,
ndr ) — spiega l’ex segretario del Pd — ma il sistema politico non è a
posto, occorre una svolta radicale e, prima o poi, questo discorso dovrà
essere ripreso. Puoi dare la scossa da un lato o dall’altro, ma il
Paese ne ha bisogno per ripartire, per ritrovare la fiducia. Io non
credo che tale compito possa essere assolto dai governi di necessità,
buoni per affrontare un’emergenza ma non per sanare una ferita come
quella che abbiamo davanti». Allo scetticismo di Vespa su quanta strada
avrebbe fatto un eventuale governo appoggiato da Grillo, risponde:
«Certamente non meno di quella che sta facendo il governo di larghe
intese. Ma se avesse fatto meno strada, avrebbe dato comunque un senso
alla politica. Quello che ci rovina è il distacco dalla società. Il
governo deve essere innovatore, se vogliamo ritrovare un po’ di fiducia.
Sono i conservatori, semmai, che devono assumersi la responsabilità di
farlo saltare». E ancora, sul suo tentativo, dopo il voto di febbraio,
di formare una maggioranza con i 5 Stelle: «Io volevo smascherare
l’impotenza grillina. O questi si chiariscono su quale mestiere vogliono
fare, o devono pagare un prezzo. Se le trattative di governo con loro
si fossero svolte con un presidente della Repubblica eletto che avesse
avuto sul tavolo la pistola dello scioglimento delle Camere, il quadro e
le conclusioni sarebbero state diverse. Con Prodi? Anche con Marini
avrei fatto assolutamente lo stesso tentativo».
l’Unità 6.11.13
Luigi Guerra: «Una classe di soli migranti rischia di essere ghetto»
Per il pedagogista dell’Alma Mater «il caso bolognese è inaccettabile, la lingua non si impara così
Scuola e docenti sono senza colpe e vanno aiutati. Soprattutto servono fondi»
di Adriana Comaschi
È
o no una classe ghetto, una prima media composta da una ventina di
ragazzini di dieci diverse nazionalità, senza nessun compagno italiano?
Il preside di Scienze della Formazione dell’ateneo bolognese, Luigi
Guerra, traccia una linea netta: «Lo è sicuramente. Ma non ne hanno
colpa aggiunge subito la scuola, né gli insegnanti».
Da due giorni
Bologna si interroga e si spacca sulla «sperimentazione» in corso alle
scuole Besta, prima periferia di Bologna in zona Fiera, in un quartiere
tra i più multietnici della città. E infatti, queste medie hanno una
certa esperienza in fatto di integrazione. Anche per questo, la
segnalazione dei genitori del Consiglio di istituto è arrivata come un
fulmine a ciel sereno, scatenando dibattiti sui social network e
agitando la politica: Pdl e Lega invitano a fare di questa classe «un
modello», Sel e alcuni esponenti Pd la bocciano, la Regione promette di
«vigilare». Guerra, secondo il preside della scuola non c’è
discriminazione perché la classe è aperta, «ponte» verso altre dopo
alcuni mesi, non appena gli alunni stranieri avranno imparato un minimo
di italiano. Che ne pensa?
«Voglio essere cauto, seguo la vicenda da
lontano. Ma voglio anche dire con chiarezza che dal punto di vista
pedagogico si tratta di un’esperienza del tutto inaccettabile. Chiarito
ciò, vanno trovate delle altre soluzioni, insieme. Intendo dire che
vanno trovati soprattutto investimenti, per permettere interventi più
adeguati. Non si tratta insomma di tirare le pietre addosso ai docenti,
ma di capire invece quali potrebbero essere le alternative. Altrimenti
finiranno in un cul de sac, senza sapere come agire».
Si paventa l’effetto ghetto, in casi simili, è così?
«Certo,
e si rischierebbe anche in classi con 15 alunni stranieri e 8 italiani.
Classi con soli migranti poi non le accetto, su questo non c’è “se” né
“ma”. Non si può mettere però sotto accusa i docenti, una soluzione in
situazioni del genere non se la possono inventare le Besta da sole, il
problema non può essere affrontato dal solo Collegio docenti che si
ritrova questi ragazzi iscritti (ad agosto, dopo il ricongiungimento
familiari, ndr) senza sapere come distribuirli. Sono altri i livelli che
devono farsi carico dell’integrazione».
Per l’Ufficio scolastico
regionale non ci sono «né ghetti né irregolarità», il dirigente anzi
«ripeterebbe l’esperienza, se darà buoni risultati».
«Attenzione, è
la proposta della cosiddetta mozione Cota, presentata dalla Lega anni
fa: creare classi separate per stranieri, per dare loro una prima
alfabetizzazione. La mia risposta però è no. Quanto successo alle Besta
non può essere venduta come un’esperienza pilota».
Non è così insomma
che alunni da poco in Italia possono superare il gap della lingua? In
fondo è questa la ‘carta’ giocata dai sostenitori delle classi
separate... «Deve essere chiaro che questi ragazzini non impareranno
affatto l’italiano interagendo solo con gli insegnanti. Se questo è lo
scopo, non è centrato».
Corriere 6.11.13
L’addio di Ovadia che divide gli ebrei milanesi
L’artista: censurato, me ne vado
di Gian Guido Vecchi
ROMA
— Per capire il clima basterebbe il commento di Walker Meghnagi,
presidente della comunità ebraica di Milano, «non mi pare una grande
perdita, non credo che nessuno piangerà dopo queste parole incoscienti e
pericolose». Moni Ovadia ha deciso di lasciare la comunità, cui era
iscritto «per rispetto dei miei genitori», accusandola d’essere
diventata «l’ufficio di propaganda» del governo israeliano. Intervistato
dal Fatto quotidiano , ieri, ha parlato di «un veto» che «qualcuno» tra
gli organizzatori avrebbe posto alla sua presenza nel festival di
cultura ebraica Jewish and the city, che si è svolto a Milano dal 28
settembre all’1 ottobre. E questo «per le mie posizioni critiche del
governo Netanyahu».
Parole durissime, quelle del grande attore e
drammaturgo, che parla degli insulti («traditore», «nemico del popolo
ebraico») ricevuti sul suo sito «in gran parte da ebrei», persone che
«diventano i peggiori nazionalisti» perché «qualcuno ha sostituito la
Torah con Israele». Ai vertici della comunità, tra l’altro guidata da
una «grande coalizione», le reazioni sono altrettanto dure. E arrivano,
sul sito Moked , anche da esponenti della sinistra come Daniele Nahum,
consigliere della comunità: «L’intervista è piena di falsità, suona come
una ripicca per il mancato ingaggio al festival. Noi rappresentiamo
l’ebraismo milanese e non siamo l’agenzia di nessuno». Ovadia, tra
l’altro, parla della «mancata presa di posizione» dei vertici alle frasi
di Berlusconi (su Mussolini che «fece anche cose buone») nel giorno in
cui si inaugurava il memoriale della Shoah alla stazione Centrale. Il
presidente Meghnagi respinge l’accusa al mittente, «condannai quelle
parole in un’intervista al Corriere». Ma intanto Ovadia rivela che anche
Gad Lerner lasciò la comunità milanese in quell’occasione: «Non
trovarono le parole necessarie a stigmatizzare quello sproloquio. Quella
scelta era l’unico strumento che avevo per esprimere, con discrezione,
la mia delusione: sono rimasto iscritto nella bellissima comunità di
Casale Monferrato». Ma il problema denunciato da Ovadia esiste? «In
quella forma così esasperata riguarda lui, c’è gente che esulta perché
se ne è andato ed è un atteggiamento greve e autolesionista: si
misconosce il grandissimo merito che ha avuto nella diffusione della
cultura ebraica», dice Lerner.
Il regista Ruggero Gabbai,
consigliere pd a Milano, premette: «Come ebreo di sinistra, non potrei
immaginare di vivere in diaspora senza Israele, per noi è un’ancora di
salvezza». Salvo aggiungere: «Temo che sia vera la storia degli insulti.
Posso non essere d’accordo con le sue idee, ma Israele è una società
pluralista e l’ebraismo ha sempre insegnato il confronto di idee: quella
di Moni sarebbe una perdita grave». Più severo Guido Vitale, direttore
di Pagine Ebraiche : «Non mi pare che nel mondo ebraico italiano manchi
il confronto, quelli che se ne vanno sbattendo la porta hanno sempre
torto. E non abbiamo bisogno di un nuovo Grillo, anche se più colto».
Emanuele Fiano, già presidente degli ebrei milanesi e ora deputato del
Pd, lancia un appello: «Chiedo a Moni di riconsiderare la sua decisione.
E vorrei una comunità capace di accogliere il dissenso».
l’Unità 6.11.13
La ricetta per i Beni Culturali
Riduzione delle direzioni e risorse ottimizzate
La relazione presentata dalla commissione presieduta dal giurista D’Alberti è stata accolta con favore dal ministro Bray
di Luca Del Fra
ROMA
«UN’OTTIMA RELAZIONE»: PACATO COME SEMPRE NEL TONO DI VOCE, IL MINISTRO
PER I BENI, LE ATTIVITÀ CULTURALI E IL TURISMO MASSIMO BRAY non ha
nascosto la sua soddisfazione ieri mattina durante la presentazione del
lavoro della Commissione per la Riforma del dicastero da lui retto.
È
stata una conferenza stampa particolare, senza che ai giornalisti fosse
fornito il testo della relazione ma solo dopo, via mail, un asciutto
comunicato, mentre alcuni relatori che facevano parte della Commissione
hanno illustrato a modo loro il contenuto delle proposte per rilanciare
il Mibact: «Un lavoro di 2 mesi, con 29 audizioni, tra le quali quelle
di molte associazioni, dei sindacati e anche del coordinamento dei
precari e 8 riunioni ha spiegato il presidente della Commissione
D’Alberti -. Abbiamo trovato grandi professionalità all’interno del
ministero, ma anche dei limiti nella struttura centrale per la
sovrapposizione di competenze e inefficienze».
Giurista e professore
universitario considerato molto vicino a Salvatore Settis, D’Alberti è
in certo senso il padre della Relazione e ha infatti spiegato come le
direzioni generali e regionali possano scendere da 29 a 24, di cui circa
una decina delle centrali dotate di maggiori poteri.
Il tutto in
obbedienza alla Spending review e dunque al taglio di alcuni cospicui
stipendi di direttore generale, ma anche con l’intenzione di rendere più
efficiente la macchina ministeriale, e puntando anche sull’innovazione e
sul personale e la sua formazione (che lascia perplessi considerando
l’alta età media dei dipendenti), per cui verrebbero create due nuove
direzioni generali, cui se ne aggiungerebbe un’altra per il bilancio.
«Un’apposita direzione, dovrebbe poi occuparsi della tutela di tutto il
patrimonio culturale e paesaggistico, che significa ha continuato
D’Alberti anche valorizzazione. Si dovrebbero aggiungere una direzione
per Archivi e Biblioteche, una che gestisca gli istituti periferici e i
musei, una per lo Spettacolo e una o due per il Turismo. Accanto a
queste ci sono le direzioni regionali, attualmente 17 ma che
scenderebbero a 14».
Il che comporterebbe sia l’abolizione della
direzione alla valorizzazione, voluta dall’allora ministro Bondi per
Mario Resca e che tante polemiche ha causato, sia l’accorpamento di
cinema e spettacolo dal vivo e infine una nuova sistemazione dei beni
culturali e del paesaggio. Buona parte dei suggerimenti contenuti nella
relazione potranno diventare operativi grazie a un semplice decreto
legge, mentre per la riduzione delle direzioni regionali, che implica un
intervento legislativo probabilmente verrà presentato un emendamento
alla Legge di stabilità.
Paolo Baratta, presidente di Biennale e
membro della commissione ha ricordato come la Relazione si muova in
direzione della riforma della pubblica amministrazione «vigente in
Italia dal ’93, quindi da vent’anni. Pur imperfetta questa Relazione,
segna comunque un passaggio importante». E di questo si è detto convinto
anche il ministro Bray, perché: «Tornare a mettere al centro del Mibact
la tutela del patrimonio culturale come conoscenza e capacità di
promuovere la cultura, non è compito solo del ministero ma del paese,
perché è sul patrimonio che si può costruire un futuro differente».
Più
delicate la situazione del Segretariato generale, potentissimo ufficio
di coordinamento del Mibact, sulla cui sopravvivenza futura la Relazione
lascia molti margini di dubbio, così come sulla creazione di una nuova
ma non precisata Unità di controllo alle strette dipendenze del
ministro.
I tempi sono stretti, il 31 dicembre scadono i termini per
l’attuazione della Spending review, e a giorni Bray ha annunciato che
presenterà la proposta di riforma in consiglio dei ministri. Non
mancheranno scontri e polemiche, come peraltro già avvenuto durante le
audizioni: tra gli argomenti caldi, la scorporazione dei musei dalle
sovrintendenze in direzione di una maggiore autonomia è un abbandono? da
realizzare però con il contratto per i dipendenti bloccato, nonché la
maggior forza data alle direzioni generali centrali con il mantenimento
delle direzioni regionali che, pur ridotte nel numero, appaiono un
«instrumentum regni» irrinunciabile.
Corriere 6.11.13
Più autonomia alle biblioteche, digitalizzazione e legami stretti con il turismo
Scuole e musei sponsorizzati, la riforma di Bray
di Paolo Conti
ROMA
— Il ministero dei Beni culturali si ripensa e guarda al futuro
partendo dal nostro straordinario passato. Dice il ministro Massimo
Bray: «Tornare a mettere al centro la tutela del patrimonio culturale
come conoscenza e capacità di promuovere la cultura non è compito solo
del ministero ma del Paese perché è sul patrimonio, con uno stretto
collegamento con lo sviluppo del turismo, che si può costruire un futuro
differente. Non vedo altre prospettive per i troppi giovani che
progettano di costruire il loro futuro lontano da qui...»
Bray ha
esposto ieri mattina il risultato del lavoro della Commissione per la
riforma presieduta dal giurista Marco D’Alberti. Due mesi di analisi,
una trentina di audizioni. Ed ecco il piano che entusiasma Bray il quale
conta «molto presto» di sottoporlo al capo del governo Enrico Letta
(per avviarlo non occorre una legge ma solo un decreto del presidente
del Consiglio) insieme al decreto Turismo.
Passano da 29 a 24 le
direzioni generali del ministero: quelle regionali scenderebbero da 17 a
14. Tre le nuove direzioni centrali proiettate verso l’innovazione. La
prima per i sistemi informativi e la digitalizzazione del patrimonio;
una seconda per il personale, quindi per la formazione di
professionalità adeguate alle scommesse della contemporaneità; una terza
per appalti e contratti, anch’essa con visioni innovative: dovrebbe
definire l’ambito delle «convenzioni da stipularsi con i privati per una
più efficace valorizzazione di istituti e luoghi di cultura». Bray ha
escluso il varo di nuovi codici, per esempio, sull’affitto o l’uso di
parti di musei o di luoghi culturali (alla base delle lunghe e note
polemiche, per esempio, sui ricevimenti a pagamento nei luoghi d’arte
organizzati dai privati). Ci sarà un Comitato che affronterà il tema in
termini generali: troppo diverse tra loro le realtà locali per un solo
strumento operativo.
Poi un’unica struttura centrale per la tutela e
valorizzazione del patrimonio e del paesaggio, per snellire il lavoro.
Un’altra per archivi e biblioteche. Una sola (ora sono due) per le
attività dello spettacolo. Infine una per il turismo, finalmente
collegato in modo strutturale e organizzativo all’universo del
patrimonio. Infatti le direzioni regionali dei Beni culturali avrebbero
compiti di raccordo con gli enti territoriali anche in materia di
turismo.
Soprintendenze, musei, archivi e biblioteche avrebbero
maggiore autonomia gestionale e organizzativa anche in materia di orari
di apertura e di prezzi dei biglietti. Per Paolo Baratta, presidente
della Biennale di Venezia e membro della commissione, questa autonomia
dovrebbe «consentire di svolgere le funzioni di tutela ma anche il ruolo
di centri vivi di ricerca e conoscenza capaci, in particolare, di
contrattare interventi di privati come supporti e interlocutori, certo
non sostituti delle responsabilità pubbliche che non possono essere
abdicate». Ribadendo così la centralità della tutela da parte dello
Stato.
Tra i grandi progetti (questo sostenuto soprattutto al
professor Tomaso Montanari, uno dei membri della commissione) la
creazione di una Scuola Nazionale per il Patrimonio, che assicuri nuove
leve con elevata formazione specialistica.
Sul rapporto
pubblico-privato la commissione suggerisce di chiarire la disciplina
degli appalti dei lavori («ora oscura e frammentata»), di dare più
spazio a forme di project financing per la ristrutturazione e
innovazione di musei, di assicurare maggiore snellezza alle procedure
per le sponsorizzazioni. Infine sul turismo, soprattutto in vista
dell’Expo 2015, Bray immagina «percorsi di senso e di significato» per
chi arriverà in Italia e che non si riducano alla sola Lombardia ma si
estendano per tutto il Paese .
l’Unità 6.11.13
Venezia, addio ai giganti del mare
Ma dall’anno prossimo
di S. G.
Le
grandi navi da crociera non funesteranno più il delicato equilibrio di
Venezia. È la decisione scaturita dall’incontro di ieri a Palazzo Chigi
tra il premier Enrico Letta, i ministri Lupi, Orlando, Bray, il
presidente della Regione Veneto Zaia, il sindaco di Venezia Orsoni e il
presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, Costa. Alla riunione si è
arrivati da posizioni contrapposte e si è usciti con la decisione di
vietare il transito delle navi da crociera di stazza superiore a 96mila
tonnellate dirette o in partenza da Venezia per il canale di Giudecca,
attuando così il decreto Clini-Passera, e di prevedere una nuova via di
accesso alla Stazione marittima nel canale Contorta Sant’Angelo, come
diramazione del Canale Malamocco-Marghera.
Lo stop ai giganti del
mare arriverà dal primo novembre 2014. Da allora dovrà essere
«definitivamente precluso il transito delle navi crocieristiche
superiori a 96mila tonnellate di stazza lorda». In particolare, «dal
primo gennaio 2014 dovrà essere vietato il passaggio nello stesso Canale
dei traghetti, con conseguente riduzione del 25% dei transiti davanti a
San Marco e del 50% delle emissioni inquinanti; dal primo gennaio 2014
dovrà essere ridotto fino al 20% (sul 2012) il numero delle navi da
crociera di stazza superiore alle 40mila tonnellate abilitate a
transitare per il Canale della Giudecca». Dovrà essere poi assicurata
«una riduzione dello stazionamento giornaliero massimo (non superiore a 5
navi di stazza superiore a 40mila tonnellate) e una contrazione dei
passaggi residui nelle ore centrali della giornata». «Si è discusso
molto e si è trovato l’accordo su una graduale riduzione del transito
delle navi dal canale della Giudecca e da San Marco spiega Zaia -. Si
lavorerà da subito anche alla soluzione alternativa del canale
Contorta-Sant’Angelo». «Per la prima volta il Governo è intervenuto
sulla questione delle grandi navi da crociera, già questo è un punto
rilevante dice il sindaco Orsoni -. Oggi si è invertita la tendenza al
gigantismo in Laguna». Di diverso avviso l’Associazione CruiseVenice: «È
assurdo il limite alle navi superiori alle 96mila tonnellate e la
perdita di 180 toccate/anno. Un limite irrazionale che poteva essere
portato almeno a 110mila tonnellate e che finirà per mettere in
ginocchio il porto di Venezia e ne segnerà la fine».
Repubblica Roma 5.11.13
Atac, una donna guida la protesta
"Ma voglio diventare psichiatra"
Micaela Quintavalle, 33 anni, è la capofila della mobilitazione contro gli straordinari imposti dall'azienda
"Ho sempre combattuto in azienda, ma questa battaglia è nata all'improvviso"
qui
l’Unità 6.11.13
Nel bus con la pasionaria: «Ce la faremo»
di Marco Bucciantini
Micaela
ha la mani grandi per afferrare l’enorme volante o per palpare un
addome. Fa questo e quello, tranviera e candidata dottoressa. Lei è la
pasionaria dell’Atac, non è iscritta al sindacato ma è sindacalista per
indole, per esuberanza e per frasario e si spaventa un po’ (e un po’ le
piace) questo ruolo “importante” trovato per strada ma non per caso:
intervenne all’assemblea dei sindacati, ci mise cuore e voce. Da allora
raccoglie e organizza un po’ di rabbia e la porta all’azienda: eccoci
qua, su Facebook il gruppo spontaneo ha radunato oltre 3mila delusi, c’è
qualcosa che non torna. «I diritti più semplici, come riscuotere un
premio di produzione previsto e guadagnato, o l’avere vetture che magari
non vanno in fumo (con queste mani e con l’estintore ho spento un
incendio, l’altro giorno). Magari anche i bagni al capolinea perché la
sosta fra una corsa e l’altra è di tre minuti, se scappa un “bisogno”
tocca andare al bar e si perde tempo». Il tempo perso, in questo
mestiere, è come la palla di neve che diventa valanga. Si accumula,
s’ingrandisce dell’irritazione dei passeggeri, che usano l’autista come
un pugile usa il sacco: per sfogarsi. «Vedono una donna ma non si fanno
scrupoli: l’altra sera un tizio mi ha chiesto se ero in ritardo perché
mi ero fermata a fare i...». Capito, capito.
Il 780 è un downtown
train che allaccia la Magliana a Piazza Venezia. Un giro lungo, la
tabella di marcia obbliga la corsa dentro due ore (un’ora l’andata,
un’ora il ritorno). Tre giri, un turno. Tre giri (e il rabbocco di
strada per il rimessaggio) fanno 120 chilometri al giorno, 700 la
settimana: quasi 40mila l’anno. È la vita da autista di questa donna che
viaggia a doppio senso: «Faccio la tranviera, faccio la dottoressa».
Cose distanti, passioni costrette a coabitare: lavorare per studiare.
Micaela Quintavalle è al quarto anno di Medicina, alla Sapienza, e fa
pratica al Policlinico. «Ho 33 anni, prima di guidare facevo la
cameriera, rispondevo nei call center, davo ripetizioni di Latino. Avevo
questa passione per le moto e per la guida, l’ho messa a profitto. Così
ho trovato la serenità e i soldi per studiare. E con gli esami sono in
regola, marcio spedita con la media del 29...». Il bus, invece, marcia a
ostacoli, faticoso, grande, grosso, non trova mai spazio per accostare
quando c’è da far salire (o scendere) la gente, perché c’è sempre quella
macchina che ha invaso il posto, c’è sempre quel tizio in doppia fila,
con le quattro frecce accese, con la sua emergenza, con il suo piccolo
grande alibi per dimenticare il senso civico. Un bus che galleggia in
mezzo alla strada ingombra, intasa: anche la piccola regola violata può
diventare una valanga. In questa ricerca sulla cittadinanza c’è una resa
clamorosa: alla prima fermata verso piazza Venezia si popolano i
sedili. Alla seconda il corridoio s’affolla. Alla terza manca l’aria, la
capienza indicata dalla targa (20 posti a sedere, 70 in piedi) è già
raggiunta, alla quarta da terra guardano dentro con gli occhi delusi,
indecisi se salire o aspettare la corsa successiva. Nei tratti del
centro si viaggia così, stretti stretti, e il piede di Micaela
dev’essere gentile, la frenata ben distribuita. La resa, allora: il bus è
pieno e la macchina che oblitera il biglietto ha schioccato solo una
volta per l’azione di un signore sbarbato, gli occhiali rettangolari e
lo zaino sulle spalle. Due ragazze tengono i loro biglietti in mano,
ansiose, si guardano attorno, cercano (ma non sperano) una divisa da
controllore, e aspettano di capire se possono risparmiare il ticket per
il prossimi giro. «Quando si vede il controllore alla fermata, pronto a
salire, il bus si svuota. È una scena comica».
Esistono gli
abbonamenti settimanali, mensili, annuali, esistono le esenzioni. Esiste
la frode fiscale compiuta perché minima, un euro e mezzo, ché siamo
indulgenti con i nostri peccati, li vediamo cuccioli, magari teneri,
come il barboncino che sale a bordo assieme alla signora appesantita,
rimasta indietro nella cura di sé. Un bus è anche un osservatorio ampio
di stili e disagi, «questo mi piace, visto che vorrei specializzarmi in
psichiatria...», scherza Quintavalle. Torniamo ai biglietti: nei mezzi
sottoterra è più difficile eludere. Sui mezzi di superficie, la
percentuale di evasione è dell’80%. Il conto totale per l’Atac è di
milioni di euro l’anno. Quando si tira la riga di un bilancio, va tenuto
presente anche questo.
È buio per le strade di Roma, il traffico si
scioglie, il bus si distende e chiude il suo giro da 15 km/h, grossomodo
la velocità della carrozza a cavalli, due secoli fa. Qualcuno lascia lì
un complimento, finalmente: «Voi donne guidate meglio». Micaela cita un
libro di Céline, Il dottor Semmelweis, che fu la tesi di laurea in
Medicina dello scrittore. Racconta l’eroica e triste vicenda dello
scienziato ungherese: scoprì le cause della febbre puerperale,
l’infezione che uccideva le partorienti dell’800. Rivoluzionario,
osteggiato, screditato, internato. Un genio morto al manicomio. Ne
parliamo, mentre il bus borbotta e piano piano si zittisce.
Repubblica Roma 6.11.13
Micaela, leader della protesta “L’azienda calpesta i nostri diritti”
intervista di Giulia Cerasi
«GLI
autisti hanno bisogno di urlare il loro disagio che va avanti da troppo
tempo». Ha 33 anni, è bionda e il suo obiettivo è diventare psichiatra.
«Ma finché sarò in azienda continuerò a battermi per i diritti dei
lavoratori». Micaela Quintavalle è la leader della protesta dei
conducenti Atac che da lunedì si rifiutano di fare i turni straordinari.
Perché questa contestazione?
«C’è
forte carenza di autisti e noi siamo costretti a fare turni
straordinari perché le assunzioni sono bloccate. Ma ora siamo stanchi,
vogliamo far capire all’azienda cosa significa se noi ci fermiamo».
In che condizioni lavorate?
«Dopo
sei ore ordinarie ne facciamo altre 2-3 di straordinari per coprire
turni che altrimenti rimarrebbero scoperti. Poi c’è il problema delle
ferie estive, solo 10 giorni imposti dall’azienda. Senza contare che
siamo i capri espiatori dell’ira dei passeggeri».
Come è nata la protesta?
«È
da luglio che aspettiamo un premio di produzione di 300 euro: ho visto
padri piangere perché avevano fatto promesse ai figli senza poterle
mantenere. Allora ho deciso di fare un gruppo segreto su Facebook che in
pochi giorni è arrivato a oltre 3mila iscritti».
Poi?
«Nelle
assemblee ho rilanciato l’idea del blocco degli straordinari, con
adesioni impensate nonostante non sia stato organizzato dai sindacati.
In questi anni non si sono mai occupati dei nostri interessi».
Quali sono le vostre richieste?
«Più diritti professionali, ricevere i soldi che ci spettano e il rispetto delle regole».
l’Unità 6.11.13
Profondo Atac
La crisi dei trasporti fa tremare Marino
di Jolanda Bufalini
I SINDACATI: IL SINDACO RISPETTI GLI IMPEGNI «GLI AUTISTI SONO IN PRIMA LINEA, SU DI LORO SI SCARICA LA RABBIA DEI CITTADINI»
Un
altro giorno di tregenda per le strade di Roma: anche ieri la protesta
spontanea degli autisti che rifiutano gli straordinari ha ridotto di
circa il 12 per cento il servizio pubblico nella fascia fra le 11e 30 e
le 12 e 30. Disagio che si aggiunge ai disagi ordinari di bus bloccati
nel traffico, di corse che saltano, di attese alle fermate che, quando
va bene, superano i venti minuti, di porte che non si aprono, di
impianti di riscaldamento che vanno «a tutta callara» oppure, al
contrario, trasformano il viaggio in un soggiorno in ghiacciaia. I
sindacati Cgil, Cisl, Uil denunciano una situazione insostenibile e
rischiosa e, con il sit in di oggi, chiamano direttamente in causa il
sindaco Ignazio Marino. Sembra troppo lontano il tempo della campagna
elettorale, quando lo sfidante di Alemanno candidato denunciava buste
paga alla mano le ferie non godute, il monte ore straordinari pazzesco.
Fra
allora e ora c’è di mezzo il buco lasciato da Alemanno di 867 milioni e
c’è il bilancio da profondo rosso dell’Atac, una massa debitoria che
supera i 700 milioni. Ma c’è pure l’annuncio che il Campidoglio, per far
quadrare i conti 2013, taglia al sistema dei trasporti cittadino quasi
60 milioni di euro. Racconta Lionello Cosentino (prossimo segretario del
Pd romano con il 46% circa dei consensi alle primarie), reduce dal
congresso dell’Atac: «Sugli autisti si scarica il malcontento dei
cittadini, da loro ho sentito una richiesta di miglioramento del
servizio pubblico». Invece quel taglio deciso dalla giunta capitolina
con il coltello alla gola si aggiunge a quelli «delle due ultime
finanziarie che hanno massacrato i comuni su trasporto e sociale».
È
una situazione che l’assesore Guido Improta definiva, a luglio, «a
rischio per la stessa continuità aziendale», insomma si è sull’orlo
della bancarotta e, infatti, anche le banche hanno stretto i cordoni
della borsa. Però, dicono i sindacati, nella situazione che si è creata
ad Atac c’è un’aggravante che la nuova giunta non può scaricare su
altri: «Trasparenza, merito, curricula, discontinuità», scandisce
Alessandro Capitani (Filt Cgil), «nulla di tutto questo è avvenuto».
L’«AGGRAVANTE» DEI DIRIGENTI
L’aggravante
è che molti dirigenti che hanno portato l’azienda al collasso sono
rimasti, niente discontinuità. Altri sono andati via ma «pagati
profumatamente». I casi sono due sostiene il sindacalista «o quei
dirigenti erano bravi e, allora, non si capisce perché sono stati
mandati via, oppure non lo erano, e allora ci voleva un’azione di
responsabilità nei loro confronti». «Le assemblee negli impianti
racconta Capitani sono infuocate, ed è normale con 70 giorni di ferie
pro capite non godute». Ma non basta: «Nell’accordo che abbiamo firmato
il 30 novembre 2011 si prevedeva il taglio delle elargizioni ad
personam, non sono pochi circa 2 milioni e mezzo di euro annui» ma
soprattutto sono un segnale di iniquità verso chi è in prima linea a
prendersi gli improperi di utenti furibondi per il degrado del servizio e
che, unici in Italia, «non hanno avuto scatti di anzianità in ossequio
alla spending review». L’accordo del 2011 prevedeva anche il risparmio
di 80 milioni di euro su appalti e consulenze: «Non è stato fatto
nulla», rincara Capitani. Nemmeno l’Agenzia unica comunale e regionale,
perorata dallo stesso assessore Improta, nemmeno l’amministratore unico
annunciato da Marino in campagna elettorale.
In azienda non negano le
inefficienze ma sottolineano che solo una parte di responsabilità è
loro quando, in Italia, il taglio al fondo dei trasporti ha prodotto un
miliardo e mezzo di deficit nella spesa corrente. E qualche passo si sta
facendo, «sono state cancellate venti caselle dirigenziali». È vero che
parentopoli ha squilibrato il personale a favore degli amministrativi
ma la verità è che «dal 2008 non ci sono state grandi assunzioni e il
personale andato in pensione non è stato sostituito». Ci sono «250
amministrativi in più», chiosa Capitani, «a fronte di un 12% in meno fra
autisti, verificatori, meccanici, macchinisti». «Ci stiamo provando a
spostare gli amministrativi», dicono in azienda, «ma non possiamo
mandarli a guidare gli autobus».
Sullo sfondo c’è la preoccupazione
di un nuovo taglio ai chilometri che Atac deve servire. E, soprattutto,
lo spettro di una privatizzazione in condizioni disastrose.
il Fatto 6.11.13
“Grand Tour Cavour”, portaerei per pubblicità
L’ammiraglia della flotta sta per partire per Paesi arabi e Africa
Missione: diffondere i prodotti del Belpaese in nuovi mercati
di Alessio Schiesari
Una
fiera galleggiante del Made in Italy a bordo di quattro navi militari
del valore complessivo di oltre 4 miliardi di euro. Questo è il progetto
della campagna navale “il sistema Paese in movimento”, che prenderà il
via il 12 novembre e sosterà in venti Paesi, circumnavigando la Penisola
Araba e l’Africa. Sulle navi da guerra saranno allestiti gli stand
promozionali di aziende pubbliche e private (Finmeccanica, Expo 2015,
Pirelli, Piaggio Aereo, Beretta, Blackshape, FederlegnoArredo, Elt,
Intermarine, Mermec Group, Mbda, Sitael). Prendiamo l’esempio di
Federlegno: sulla portarei Cavour è prevista l’esposizione “‘Il cuore
dell’abitare italiano/La nostra passione è la tua casa’ che occuperà una
superficie di 150 metri quadrati”. Secondo il ministro Mauro “una
straordinaria vetrina del sistema Paese”. Se è straordinaria per il
Paese, figurarsi per le aziende partecipanti, tanto più che la fiera
galleggiante sarà finanziata anche a spese dei contribuenti.
Secondo
la Difesa, le aziende si accolleranno i 13 milioni necessari per il
funzionamento della nave, mentre solo i 7 milioni per il personale
saranno a carico dal ministero. I conti però non tornano. Ogni giorno di
navigazione della sola Cavour costa 200 mila euro che, moltiplicati per
i 147 giorni di viaggio, diventano quasi 30 milioni. A questi vanno
aggiunte le spese per la revisione di fine viaggio, che costringerà ogni
nave a sostare in porto per un anno e mezzo.
Anche i 7 milioni
calcolati per pagare i militari sembrano pochi. L’equipaggio base delle
quattro navi è di almeno 800 effettivi. Dividendo i 7 milioni per 147
giorni di navigazione, ne uscirebbe una paga di 60 euro lordi al giorno,
indennità comprese. Inoltre, né la Difesa né le aziende hanno voluto
specificare se gli spazi espositivi siano stati assegnati attraverso una
gara pubblica.
Dal suo varo nel 2004 la portaerei Cavour non è mai
stata impegnata in operazioni militari nonostante sia costata 3,5
miliardi di euro.
SECONDO LA DIFESA, l’investimento sarebbe stato
ripagato dalle ricadute sul commercio: “Sta suscitando l’interesse di
molti Paesi intenzionati a rivolgersi all’industria italiana per dotarsi
di navi simili”, aveva dichiarato il capo di Stato maggiore della
Marina, Sergio Biraghi, il giorno dell’inaugurazione. Da allora, nessuno
si è rivolto all’Italia per acquistare una portaerei. L’occasione buona
sembrava essere il terremoto di Haiti del 2010, fino ad oggi unica
missione della Cavour. La portaerei venne impiegata per portare
assistenza alla popolazione, anche se la stessa operazione fatta con
aerei cargo sarebbe stata più economica e veloce. La scelta ricadde
sulla portaerei perché, dopo la sosta umanitaria, era in programma una
missione commerciale in Brasile. Lula voleva rinnovare la flotta, o
almeno così credeva Fincantieri. Dopo tre anni, della commessa
brasiliana non c’è traccia.
Negli anni seguenti va anche peggio: la
portaerei è utilizzata come museo galleggiante per esporre i cimeli del
Conte di Cavour; per un war game in cui si simula uno scontro “tra un
Paese sotto un regime autoritario sospettato di violare i diritti e uno
Stato democratico” (dichiarazione dell’ammiraglio Filippo Maria Foffi) e
per testare, con Max Biaggi alla guida, nuovi pneumatici da moto
Pirelli.
Repubblica 6.11.13
Europa
Lettere smarrite
di Barbara Spinelli
SONO d’accordo con l’auspicio espresso domenica da Eugenio Scalfari: che l’Europa federale nasca, e la moneta unica si salvi.
In
caso contrario avremo, al posto dell’Unione, tanti staterelli senza
lode ma non senza infamia, non amici ma più che mai vassalli della
potenza Usa. Torneremo alla casella di partenza: vinti dai nostri
nazionalismi come nelle guerre mondiali del ’900.
Sono meno d’accordo
con il giudizio severo sui movimenti di protesta che ovunque nascono
contro l’Europa come oggi è fatta, e ho un’opinione assai meno
perentoria su 5 Stelle. Chi ascolti Grillo con cura sarà certo colpito
dalle sue incongruenze; specie quando indulge alla xenofobia,
procacciatrice di voti. Ma non s’imbatterà nel nazionalismo, né in vero
antieuropeismo. Populismo è un’ingiuriosa parola acchiappatutto che non
spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è sotterfugio
autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in uno dei
migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio
(Micromega 4-13). Serve a confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il
suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa). Letta fa la stessa
confusione, nell’intervista alla Stampa di venerdì.
Qualche giorno
fa Grillo ha detto sulla crisi dell’Unione cose sensate, che nessun
nazionalista direbbe: un’Europa che si dotasse di strumenti finanziari
(tra cui gli eurobond), e che mettesse in comune i debiti, potrebbe far
molto per superare le difficoltà e salvare se stessa. Purtroppo c’è nel
M5S chi propugna l’uscita dell’Italia dall’Euro, fantasticando di
rimettere sul trono i re nazionali. Questo significa che Grillo esita a
compiere scelte forti, quasi fosse già stanco all’idea di divenire un
leader che educhi, unifichi. Non significa che i 5 Stelle siano
assimilabili a Marine Le Pen, o ai neo-nazisti in Grecia e Ungheria.
Anche se il protezionismo mentale li tenta, è difficile immaginare che
un movimento nato dalla congiunzione di iniziative cittadine del tutto
estranee al nazionalismo sfoci in destra estrema.
La questione di
fondo è dunque un’altra. Non il nome interessa sapere, ma perché in
Europa cresca un’umanità così infelice, disgustata. Chiamarla populista o
reazionaria è fermarsi alle soglie del perché. La domanda sulle radici
del grido è elusa. E la risposta è inservibile, se proteste e proposte
tra loro tanto dissimili vengono espulse come grumo compatto che intasa
chissà quale progresso.
Bollare un intrico di sdegni e rifiuti vuol
dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni cronici. Non basta
dirla per farla, alla maniera performativa dei governi attuali. Vuol
dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e conservazione
sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati
dell’Unione. Anche qui vale la pena andare oltre le parole: se si
esclude la Francia, Federazione non è più vocabolo tabù. Molti oggi
l’invocano. Ma senza che al verbo seguano atti concreti: la messa in
comune dei debiti, una crescita alimentata da eurobond e da risorse
europee ben più consistenti di quelle odierne. E ancora: un Parlamento
europeo con nuovi poteri, e una Costituzione comune che sia espressione
dei cittadini. Un’Europa che sia per loro un rifugio in tempi di
angoscia, e non il guscio che protegge un’endogamica oligarchia di
potenti che si blindano a vicenda.
L’Europa così com’è non è
minacciata dalla rabbia (di destra e sinistra) dei propri cittadini. È
minacciata da governi restii a delegare sovranità nazionali non solo
finte ma usurpate, visto che sovrani in democrazia sono i popoli. La
crisi del 2007-2008 la tormenta smisuratamente a causa di tali storture.
Un’austerità che accentua povertà e disuguaglianze, un Patto di
stabilità (Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha potuto discutere:
l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. È la miseria
greca; sono gli occhi che spiano il debole, come nei Salmi. È la
corruzione dei governi, che si ciba di disuguaglianze e di falsa
stabilità.
Il caso delle sinistre radicali in Grecia è esemplare. Il
Syriza, una coalizione di movimenti cittadini egruppi di sinistra, fu
bollato come antieuropeo e populista, nelle due elezioni del
maggio-giugno 2012. Le cancellerie europee si mobilitarono, dipingendo
Syriza come orco da abbattere. Berlino minacciò di chiudere i rubinetti
degli aiuti. Ma né Syriza né Alexis Tsipras che lo guida sono
antieuropei. Chiedono un’altra Europa, sì, e questo atterrisce
l’establishment.
Il 20 settembre, presentando il proprio programma al
Kreisky Forum di Vienna, Tsipras ha sorpreso chi l’aveva infangato. Ha
detto che l’architettura dell’euro e i piani di salvataggio hanno
sfasciato l’Unione, invece di bendarne le ferite. Ha ricordato la crisi
del ’29, i dogmi neoliberisti con cui fu gestita. Proprio come accade
oggi, «i governi negarono l’architettura aberrante dei loro disegni,
insistendo sull’austerità e sul mero rilancio dell’export». Ne risultò
miseria, «e l’ascesa del fascismo in Sud Europa, del nazismo in Europa
centrale e del nord». È il motivo per cui l’Unione va fatta da capo.
Riprendendo le idee dei sindacati tedeschi, Syriza propone un Piano
Marshall per l’Europa, un’autentica unione bancaria, un debito pubblico
gestito centralmente dalla Banca centrale europea, e un massiccio
programma di investimenti pubblici lanciato dall’Unione.
Ma Tsipras
dice qualcosa di più: c’è un nesso che va denunciato, tra la crisi
europea e le corrotte democrazie di Atene e di tanti Paesi del Sud. «La
nostra cleptocrazia ha stretto una solida alleanza con le élite
europee», e il connubio si nutre di menzogne sulle colpe greche o
italiane, sui salari troppo alti e lo Stato troppo soccorrevole. Le
menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle
spalle dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente».
È
un’alleanza che non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha
adottato, negli anni ’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della
popolazione è rimasta così senza rappresentanza: smarrita, dismessa,
punita da manovre recessive che paiono esercitazioni militari. È questa
parte (una maggioranza, se contiamo anche gli astensionisti) che
protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale ritorno alle
monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece un’altra
Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il
dopoguerra e la fine degli anni ’70. Questo dice Tsipras. Cose simili,
anche se più caoticamente, dice Grillo.
Se nulla si muove l’Europa
sarà non più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi
da élite di consanguinei –che campano di favori personali fatti e
ricevuti senza che dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che
annunciano una ripresa smentita dai fatti – l’edificio somiglia sempre
più all’Ufficio delle Lettere morte custodito da Bartleby lo scrivano,
nel racconto di Herman Melville.
È sfogliando e gettando al macero
migliaia di lettere spedite e mai recapitate che Bartleby matura il suo
impallidito rifiuto, che a un certo punto lo indurrà a rispondere
«Preferirei di no», con cadaverica tranquillità, a qualsiasi ordine o
domanda. Ecco, l’Europa è oggi quell’Ufficio che ha trasformato il suo
impiegato in un infelice: «Lettere morte! (...) Talvolta dalle pieghe
del foglio il pallido impiegato estrae un anello: e il dito cui era
destinato forse già imputridisce nella tomba; una banconota inviata con
la più tempestiva delle carità: e colui che ne avrebbe ricevuto
giovamento ormai non mangia più, non soffre più la fame; un perdono per
coloro che morirono nello scoraggiamento; una speranza per quelli che
morirono senza sperare; buone notizie per quelli che morirono soffocati
da non alleviate calamità. Messaggere di vita, queste lettere
precipitano nella morte. O Bartleby! O umanità!».
l’Unità 6.11.13
Il fragile Mediterraneo che si fa spiare da lontano
di Umberto De Giovannangeli
IL
MEDITERRANEO NON È SOLO IL «MARE DELLA MORTE», DEI BOAT PEOPLE
AFFONDATI. IL «MARE NOSTRUM» È ANCHE UN «MARE DI SPIE». SPIE MADE IN
ENGLAND E USA. È quanto emerge dall’inchiesta pubblicata da l’Espresso, a
firma Nicky Hager e Stefania Maurizi. A Cipro, rivela l’Espresso, opera
una base segreta per spiare tutte le comunicazioni che attraversano il
Mediterraneo, creata dai servizi segreti britannici e gestita in accordo
con quelli americani. Il ruolo della base cipriota assume particolare
importanza alla luce del primato inglese nella sorveglianza dei cavi
sottomarini in fibra ottica, dove oggi corrono tutte le comunicazioni,
che si tratti di colloqui telefonici, email o traffico di dati Internet.
I dossier di Edward Snowden, la «talpa» che ha portato alla luce il
Datagate, hanno permesso alla Sueddeutsche Zeitung di rivelare che gli
007 di Sua Maestà controllano ben 14 cavi sottomarini a fibra ottica: le
arterie fondamentali che uniscono America ed Europa con Asia e Africa.
Nella lista delle autostrade sottomarine spiate dai britannici figurano
tre cavi che, come ha rivelato l’Espresso in collaborazione con
Suddeutsche Zeitung, hanno snodi in Italia e raccolgono le comunicazioni
in entrata e uscita dal nostro Paese. Non è chiaro puntualizzano gli
autori dell’inchiesta, se «Telecom Italia Sparkle», sia informata o
collabori in qualche modo con il Gchq (Government Comunication
Headquarters), l’agenzia britannica che conduce i programmi di
intercettazione elettronica nelle intercettazioni di massa. Ottenere
intelligence dai cavi sottomarini, di norma, richiede la cooperazione
delle aziende di telecomunicazione. In Inghilterra, ad esempio, il Gchq
ha avuto una relazione di lunga data con la «British Telecom», che ha
consentito di progettare le infrastrutture a vantaggio degli
intercettatori.
Una cosa è certa: nel Datagate, Londra ha avuto un
ruolo attivo, e non solo di copertura politica dell’alleato americano.
Una conferma viene da Berlino. Il Regno Unito avrebbe svolto attività di
spionaggio nei confronti del governo tedesco da una centrale collocata
sul tetto della sua ambasciata a Berlino. Lo scrive il quotidiano The
Independent, citando nuove rivelazioni di Snowden. Nei giorni scorsi era
emerso che anche dalla rappresentanza diplomatica usa veniva svolta una
profonda attività di sorveglianza. Secondo i documenti, lo spionaggio
condotto dall’ambasciata britannica si sarebbe concentrato sul Bundestag
e gli uffici della cancelliera Angela Merkel. Dopo le rivelazioni del
quotidiano londinese, l’ambasciatore britannico a Berlino, Simon
McDonald, «è stato invitato per una discussione su iniziativa del
ministro degli Esteri Guido Westerwelle», ha reso noto un portavoce del
ministero degli Esteri tedesco.
Chiarezza: è quanto richiesto a più
riprese anche dal premier italiano, Enrico Letta. Una chiarezza tutta da
determinare. Il giornalista statunitense che custodisce i file della
talpa Edward Snowen, Gleen Greenwald, ha rivelato, sempre a l’Espresso
che «la Nsa porta avanti molte attività spionistiche anche sui governi
europei, incluso quello italiano». Ma non sarebbe la sola. A quanto
pare, a monitorare informazioni private del Belpaese sarebbe anche la
Gran Bretagna. L’Italia, infatti, sarebbe coinvolta non solo nel sistema
«Prism» gestito dagli Usa ma anche, in qualità di «vittima», in un
programma parallelo e convergente denominato «Tempora» che farebbe
invece capo all’intelligence britannica. Quest’ultima così avrebbe
intercettato il traffico di telefonate, mail e internet trasferito
tramite cavi di fibre ottiche e fatto arrivare poi le informazioni più
importanti all’ente americano. «Il Grande fratello» parla anche british.
E dal cuore del Mediterraneo, intercettava comunicazioni che
riguardavano anche vicende particolarmente «calde», come l’atteggiamento
di vari Paesi euromediterranei, tra cui l’Italia, nelle settimane che
precedettero le operazioni di guerra contro al Libia di Muammar
Gheddafi. Di come l’Italia si sia tenuta fuori da «Tempora», la rete di
spionaggio di massa, telefonico e internet, messo in piedi da Francia,
Spagna, Svezia e Germania, con la supervisione dei servizi britannici,
ha parlato con Adnkronos il vice presidente del Copasir, Giuseppe
Esposito. «Il nostro Comparto Intelligence, coordinato dal Dis di
Giampiero Massolo dice ha assicurato che l’Italia non ha partecipato a
questa pesca “a strascico”. Questo risulta anche dagli accertamenti del
Copasir».
Ma risulta anche che i servizi italiani erano stati
«sondati» dagli 007 di Sua Maestà. Sullo sfondo di questa «spy story»
non c’è solo il violato diritto alla riservatezza. Ma ci sono anche
interessi corposi, petroliferi, che riguardano le grandi corporation che
operano nel Mediterraneo. Tra queste, Bp ed Eni. Una ragione in più per
esigere chiarezza.
l’Unità 6.11.13
Protesta in cella. Spedita in Siberia Pussy Riot ribelle
La leader del gruppo condannato per una canzone anti-Putin aveva denunciato di aver subito minacce
Trasferita in un campo di lavoro a 4500 km da Mosca
Il marito: «È una punizione»
di Roberto Arduini
«Abbiam
fatto a brandelli le corde di catrame con unghie spezzate e
sanguinanti; abbiamo pulito le porte, lavato i pavimenti, lucidato le
rotaie splendenti», scriveva oltre un secolo fa Oscar Wilde nella
Ballata del carcere di Reading descrivendo le disumane condizioni in cui
erano costretti a vivere i detenuti. Era il 1897, ma la situazione
sembra la stessa di quella descritta in Russia da Nadezhda
Tolokonnikova, una delle Pussy Riot condannate a due anni di prigione
per una preghiera anti Putin.
«Le mani sono piene di piaghe e buchi
fatti dagli aghi; il tavolo è coperto di sangue, ma dobbiamo continuare a
cucire», era la denuncia di Nadia sulla vita quotidiana nella colonia
correttiva numero 14 in Mordovia, a circa 400 km da Mosca. Di lei da ben
due settimane si erano perse le tracce. Ora il marito Pyotr Verzilov,
in un messaggio su Twitter ha fatto sapere che la leader delle Pussy
Riot sarebbe destinata a un campo di lavoro in Siberia, nella regione di
Krasnoiarsk. Si tratterebbe della colonia penale n° 50, nella città di
Nizhny Ihash, lungo il percorso della Transiberiana, a quattro fusi
orari di differenza con la capitale. «Essenzialmente ha aggiunto
Verzilov è stata trasferita a 4.500 chilometri dalla Russia centrale,
nel cuore della Siberia, come punizione per l’eco che ha avuto la sua
lettera», in cui denunciava soprusi e violazioni dei diritti umani nella
colonia penale.
Insieme alle compagne della band, Maria Alekhina ed
Ekaterina Samutsevich, ad agosto 2012 Nadia Tolokonnikova era stata
condannata a due anni di carcere con l’accusa di teppismo e incitamento
all’odio religioso per aver cantato a febbraio 2012 una «preghiera punk»
di 40 secondi contro il presidente Vladimir Putin nella cattedrale di
Cristo Salvatore a Mosca. Nel processo d’appello Samutsevich fu
scarcerata, ma il ricorso di Nadia è stato bocciato, nonostante il fatto
che la donna sia madre di una bambina di 5 anni.
SENZA TRACCE
Tolokonnikova
il 23 settembre aveva cominciato uno sciopero della fame per denunciare
le condizioni di lavoro forzato nel carcere e per le costanti
intimidazioni che erano arrivate dall’amministrazione del carcere.
Ricoverata il 30 settembre in ospedale, il giorno successivo aveva
interrotto la protesta, dopo la promessa che sarebbe stata trasferita.
Il 18 ottobre scorso, riportata in colonia penale, aveva ripreso lo
sciopero della fame perché gli impegni presi dalle autorità erano stati
disattesi. Nella stessa giornata era arrivato l’annuncio del
trasferimento. «Non sentiamo Nadezhda da molti giorni», aveva scritto il
marito su Twitter giorni fa. «Crediamo che i servizi della prigione
abbiano scelto questo metodo particolare per punirla», aggiungeva,
denunciando il fatto che alle sue richieste l’amministrazione carceraria
non aveva voluto rispondere. Il 21 ottobre si era saputo che i
secondini avevano fatta salire Nadia su un treno. Il 24 ottobre un altro
passeggero ha riferito che il convoglio era giunto a Chelyabinsk tra le
montagne degli Urali.
«I legali della difesa di Tolokonnikova e i
membri della ong per i diritti umani stanno cercando Nadezhda nelle
strutture di Chelyabinsk», aveva detto Verzilov a Interfax. «Secondo le
mie fonti Nadia è stata messa nella cella 190 del penitenziario numero 1
nel centro di Chelyabinsk il 24 ottobre», aveva riferito il marito. Un
avvocato
della Tolokonnikova aveva visitato il carcere per verificare
l’informazione. «Stamani, membri della Commissione dell’ombusdman della
regione di Chelyabinsk hanno ispezionato il penitenziario numero 1,
dove attendevano di trovare Nadezhda, ma non ne hanno trovato traccia»
ha spiegato Verzilov. Poi finalmente, la certezza che Nadia è in viaggio
in Siberia, verso la colonia penale n° 50, nella città di Nizhny Ihash,
a 300 km dal capoluogo Krasnojarsk. Il Servizio penitenziario federale
ha dichiarato che, secondo le regole, la famiglia della donna verrà
informata entro 10 giorni dal suo arrivo. Ma ci potrebbero volere anche
settimane. Certo se non si può dire che sarà un miglioramento: negli
anni dello stalinismo, Krasnojarsk era sede di molti gulag, la città
fino agli Novanta era conosciuta in Russia come «città proibita», per le
sue fabbriche di armi e plutonio. La temperatura media a gennaio è di
-20 °C, ma può scendere fino a -56 gradi sotto zero.
l’Unità 6.11.13
Missione low cost, l’India alla conquista di Marte
Tecnologia tutta indiana La rivincita dell’Asia dove vive il 40% degli scienziati del mondo
Decollato alle 14,38 locali il razzo per il pianeta rosso, costo dell’operazione: 73 milioni di dollari
di Pietro Greco
La
Mars Orbiter Mission, chiamata familiarmente «Mangalyaan», è iniziata
ieri con pieno successo alle 14,38 ore locali presso l’Indian Space
Research Organisation’s Satish Dhawan Space Centre di Sriharikota.
Stiamo
parlando del centro spaziale che si trova sulle coste orientali del
subcontinente indiano che affacciano sul Mare del Bengala. L’astronave
punta decisa su Marte, dove conta di arrivare per il 21 settembre del
2014 dopo aver viaggiato per 200 milioni di chilometri.
Ma non ha
fatto in tempo a partire, che Mangalyaan ha già battuto un paio di
record. Con un costo di appena 73 milioni di dollari, è la missione
interplanetaria più economica della storia. Per fare altrettanto gli
americani o gli europei spendono anche dieci volte tanto. Inoltre, dopo
il fallimento di un tentativo esperito dalla Cina nel 2011 (l’astronave
era montata su un missile russo) e del tentativo fatto dal Giappone nel
1998, l’India è il primo paese asiatico il quarto in assoluto, dopo Usa,
Urss/ Russia ed Europa a inviare una sonda verso il pianeta rosso.
Gli
obiettivi scientifici, dicono i critici, sono modesti: misurare con
buona accuratezza la presenza di metano nella tenue atmosfera del
pianeta rosso. Ma questi analisti pelosi non tengono in considerazione
che l’obiettivo principale era (ed è ancora) verificare se l’India è
capace di progettare, avviare e portare a termine una missione
interplanetaria completamente da sola. Tutto indiano è, infatti, il
razzo che ha portato fuori dall’orbita terrestre la sonda. Tutta indiana
è la sonda. Tutti indiani gli strumenti scientifici a bordo.
Inoltre
i cinquecento scienziati e i tecnici spaziali indiani che dal centro
Isro (Indian Space Research Organisation) di Bangalore seguono
Mangalyaan ricordano che nel 2008 la missione Chandrayaan, inviata con
pochi mezzi sulla Luna, è sta la prima a dimostrare in maniera
inoppugnabile che c’è acqua sul nostro satellite naturale.
Ma, a
prescindere dal fatto che la Mars Orbiter Mission riuscirà davvero ad
agganciare l’orbita marziana e a misurare la presenza di metano
nell’atmosfera del pianeta, la navicella ha già restituito qualcosa alla
più grande democrazia del mondo che l’ha voluta e finanziata, sfidando
le critiche di chi sostiene che il Paese è ancora troppo povero per
potersi permettere il lusso di un programma spaziale autoctono così
ambizioso.
UN GRANDE PAESE
Mangalyaan che sfreccia nello spazio è
la dimostrazione che un Paese grande si sta affermando come un grande
Paese. Che l’India sta uscendo definitivamente dal novero dei Paesi in
via di sviluppo e che è una potenza emergente. Capace di schierare
centinaia di migliaia di scienziati (tra cui molti matematici e
informatici, tra i più bravi al mondo) e di portare avanti, in proprio,
magari in austerità, programmi tecno-scientifici di valore assoluto. Non
c’è dubbio che i programmi spaziali hanno un interesse anche militare. E
che l’India è una potenza nucleare che vuole mostrare i muscoli ai suoi
vicini (Pakistan, Cina). Ma è anche vero che Mangalyaan è qualcosa di
più. È il grido d’orgoglio di un Paese che si appresta a diventare il
più popoloso del mondo.
È anche un investimento nel futuro. Perché,
contrariamente a quanto dicono i critici, le spese in progetti
scientifici e di alta tecnologia hanno quasi sempre una ricaduta enorme.
E non solo in termini psicologici. Ma anche in termini economici. Sono
motori dell’innovazione.
Ma Mangalyaan non appartiene solo all’India.
È la sonda di un intero continente. Il più grande e, oggi, più dinamico
del pianeta: l’Asia. È la plastica dimostrazione che è lì, in Oriente,
che si sta costruendo il futuro in maniera più rapida ed efficace che in
ogni altra parte del mondo. D’altra parte è già lì, in Asia, che
risiede la maggioranza degli scienziati del mondo (il 40%). Ed lì, di
qui a qualche anno, che risiederà la maggioranza assoluta dei
ricercatori.
Ciò non toglie che Mangalyaan segni una novità nella
speciale competizione tra i due giganti asiatici, l’India e la Cina. Il
paese di Confucio negli ultimi decenni è sempre arrivato prima del Paese
che ha dato i natali a Buddha. I cinesi crescono di più e da più tempo
in economia. Sono arrivati prima sulla Luna. Sono arrivati primi nello
spazio, primi sulla Luna, primi a mandare un loro uomo nello spazio (gli
indiani non ci sono ancora riusciti). Con Mangalyaan è la prima volta
che l’India batte la Cina nella competizione spaziale. E questo vorrà
pur significare qualcosa, dicono gli occhi lucidi per l’orgoglio a New
Delhi.
l’Unità 6.11.13
Restituitemi casa mia
«Noi palestinesi, un popolo di espropriati»
Suad Amiry racconta il nuovo romanzo «Golda ha dormito qui» e dice: siamo invisibili come gli indiani d’America
La domanda è che cosa possiamo fare ora, nel presente, per farci «vedere» per essere un popolo che ha una Terra
intervista di Umberto De Giovannangeli
ROMA
LA CASA COME METAFORA STRUGGENTE DI UNA IDENTITÀ NEGATA. ORGOGLIO,
DOLORE, SPERANZA. SONO I SENTIMENTI CHE PERMEANO «GOLDA HA DORMITO QUI»
(FELTRINELLI), l’ultima produzione letterariaria di Suad Amiry, la più
conosciuta tra le scrittrici palestinesi conteporanee. In Italia per
presentare il suo libro, l’Unità l’ha intervistata.
Cosa significa vivere e pensarsi come un «popolo di espropriati»?
«È
esattamente il tema principale di questo nuovo libro. Perché poche
persone sono consapevoli del fatto che i palestinesi che vivono in
Palestina sono considerati “assenti” dagli israeliani. Quando si parla
di palestinesi rifugiati, generalmente si pensa o si fa riferimento a
persone sparse per il mondo, mentre in realtà sono tutti a Gaza o in
Cisgiordania, nei territori occupati, parliamo di milioni di persone che
pure se fisicamente presenti in Palestina, sono considerati da Israele
“assenti”. Sappiamo che questo fatto dell’essere “invisibili” agli occhi
degli occupanti, è un meccanismo tipico della colonizzazione che non è
caratteristico solamente del caso d’Israele nei confronti della
Palestina, ma è tipico di tutti gli Stati colonizzatori. È il caso, ad
esempio, del territorio americano, in cui gli americani dichiaravano di
non aver visto, di non aver preso consapevolezza della presenza degli
“indiani” d’America; è lo stesso è avvenuto in Algeria, nei Paesi arabi
sotto la Francia. Tutto questo non è un fatto casuale, bensì
scientificamente pianificato. Tornando a noi, è dal primo giorno, dalla
prima dichiarazione che Israele ha sancito che il popolo palestinese non
esisteva, benché ci fossero sui Territori in quel momento più di un
milione di persone. E questo è un processo che continua, che non
riguarda solo il 1948, ma che continua ancora oggi sempre con questa
logica dell’alibi della non espropriazione a fronte di un popolo che,
secondo loro, non esiste. Emblematico di questo modo di viversi, è
quanto ebbe a dire Golda Meir (la Golda del titolo, ndr), riguardo la
Palestina e il popolo ebraico: “Un popolo senza terra, per una terra
senza popolo”».
Nel libro la casa è un po’ come un ancoraggio
materiale e, al tempo stesso, spirituale, alla propria identità
personale, familiare, nazionale. Nel libro, c’è un passaggio in cui
Huda, una delle protagoniste del romanzo, «non potè fare a meno di
ripensare al funzionario israeliano che l’aveva interrogata solo qualche
settimana prima». Il funzionario le si rivolge così: «Smettila di
vivere nel passato. È il vostro problema. Voi arabi continuate a vivere
nel passato». E ancora: «Svegliati, siamo nel 2011, non nel 1948. Khalas
Huda, khalas, è tutto finito». È così? Si può immaginare un futuro
rimanendo prigionieri del passato? «Questo paragrafo è molto indicativo
di questo fatto curioso, cioè che i palestinesi non hanno, secondo
Israele, il permesso di ricordare quello che è successo 65 anni fa. Ma
d’altro canto, Israele si riallaccia a quello che è successo in questa
terra, la Palestina, duemila anni fa. È proprio una questione di “doppio
standard”: noi dovremmo dimenticare, mentre loro tendono a giustificare
la loro presenza lì proprio dalla storia e dalla memoria. Io ho scritto
questo libro non solo per parlare di questa ferita non cicatrizzata, ma
anche per dichiarare che per fare pace, perché ci possa essere pace fra
Israele e Palestina, è necessario che Israele prenda atto della nostra
identità, e di questa nostra memoria, che è una memoria recente. La casa
di cui parlo nel libro, è la casa di mio padre, non è la casa di otto
generazioni fa, quindi è parte integrante della mia identità. Non è
pensabile una pace che possa prescindere dal riconoscimento di questa
nostra identità, dal riconoscimento, reciproco, dell’altro da sé. La
soluzione dei “due Stati”, è una soluzione che prevede l’accettazione di
moltissimo dolore, e per lenirlo almeno in parte, è necessario comunque
questa forma di riconoscimento della nostra identità. Possiamo
accettare tutto il doloro che fa parte di questa soluzione, ma non
possiamo prescindere dal riconoscimento di questa nostra identità. È
sempre necessario mettersi nei panni dell’altro. Quando si parla di un
“popolo espropriato” delle proprie case, della propria terra, si parla
sempre del ‘48, ma questi sono fatti che continuano ancora oggi,
quotidianamente, negli insediamenti, a Gerusalemme, in tutti i
Territori. La mia domanda, che è una domanda molto concreta, non un mero
esercizio intellettuale, è: che cosa possiamo fare ora, nel presente,
per fermare questa espropriazione che continua tutti i giorni».
Una
risposta la dà Hudna. Nel difendere la casa da cui era stata scacciata
la sua famiglia, Hudna preferisce testardamente la cella alla condanna
di non poter rientrare nella casa dei genitori. È una sfida o un segno
di sconfitta?
«Ne romanzo mi focalizzo su quattro personaggi, tra cui
ci sono io stessa e la mia famosa suocera, Umm Salim (protagonista del
libro Sharon e mia suocera, Feltrinelli, 2003, ndr). Ognuno di noi fa i
conti con la perdita in modo diverso. Per quanto mi riguarda, io non
vado a vedere la casa della mia famiglia, perché per me è una emozione
troppo forte che preferisco non affrontare. L’altro personaggio, Andoni,
che è un architetto, un intellettuale, decide di adottare le vie
legali, e prova attraverso un tribunale israeliano di riprendere
possesso della sua casa. Huda è una persona di “pancia”, e quindi
gestisce e reagisce a questa perdita in maniera molto viscerale,
istintiva. I mezzi diversi che i vari personaggi e persone scelgono di
usare, sono un modo per fare i conti con questa perdita. Mia sorella che
è una psicanalista, dice, per l’appunto, che se hai paura di qualche
cosa, bisogna affrontarla, guardarla in faccia. Huda ha sposato questo
tipo di atteggiamento. E lo ha fatto anche perché ha visto suo padre che
piangeva ripensando a quella casa da cui era stato scacciato, il
ricordo del cane che abbaiava. Huda è stata così segnata dall’esperienza
traumatica del padre, che dice se io non posso tornare in questa casa,
nessuno potrà abitarla in pace».
il Fatto 6.11.13
Il “Gigante buono” d’America che vuole risollevare la Grande Mela
Oggi i risultati dell’elezione per il sindaco di New York
De Blasio super favorito rappresenta la nuova speranza “bianco-nera”
di Furio Colombo
Eccolo
il nuovo sindaco di New York, un imponente uomo bianco (“il gigante
buono”) che stringe da un lato una sottile donna nera che quasi senti
scricchiolare sotto l'abbraccio e dall'altra due figli adolescenti un
po’ da cinema, che lo guardano adoranti, e che hanno fatto accanitamente
campagna elettorale per lui. Intorno, a perdita d'occhio, la folla di
New York. Da tempo tutti predicono che i cittadini andranno a votare in
massa e voteranno per lui, per come ride, per le cose che dice (“a me
importano gli ospedali, la scuola pubblica, i quartieri abbandonati, la
gente sola”), per la moglie che era leader del fronte delle donne
lesbiche nere d'America e spiega: “Poi mi sono innamorata di lui, e
l'amore è l'amore”.
E PER I DUE ragazzini, Dante e Chiara – lui con
la pettinatura afro degli anni ‘60 – che gli sono sempre stati accanto
mostly for fun (perché il papà li fa ridere) e la campagna elettorale
“wasreally cool”, che è il massimo degli elogi che puoi avere dai figli,
oggi, in America.
Quanto agli elettori, i newyorchesi camminano in
fretta, percorrendo le strade e le avenue, e hai sempre l'impressione
che tutti si dirigano a un grande incontro con qualcosa che cambia la
vita, fervidi, intensi, non proprio allegri ma su di giri, come qualcuno
(ma sono milioni, tutti per la strada) che ha un compito e non può
tardare. A giudicare da persone, traffico, auto, negozi e ristoranti, la
ripresa è alla grande. Ma, prima ancora di ascoltare uno dei
comizi-marea di Bill De Blasio, una cosa la sai, una cosa che in queste
elezioni conterà moltissimo: la spaccatura fra alto e basso della vita,
fra prezzi e sopravvivenza, fra impegno e premio, fra fatica e compenso,
si è fatta, con la ripresa, molto più grande. Obama cerca di gettare il
suo ponte (le cure mediche gratuite per tutti), ma in tanti, potenti e
pieni di risorse, la lavorano ad allontanare le sponde e non sei sicuro
che il presidente nero di tutti i bianchi e di tutti i neri riesca a
farcela.
E ALLORA si presenta, a New York, proprio vicino a Wall
Street, l'uomo bianco che parla ai neri, che era americano e diventa
italiano, che ha i figli afro e la moglie nera e poeta, che gli stanno
intorno e non lo lasciano mai. I sondaggi si sono rivelati esatti.
Dicono che il 60% dei cittadini di New York daranno lo stesso voto che
la famiglia dà a Bill. Perché New York è bella e ingiusta, è troppo alta
(il suo orgoglio), ma anche troppo bassa (il suo dramma), è troppo
ricca (appartamenti da 30 milioni di dollari) e troppo povera (molti
adesso lavorano, ma non hanno una casa, perché non c'è per loro alcun
affitto possibile), ha scuole da premio Nobel e scuole della violenza. E
puoi ancora, mentre discutono a Washington, essere cacciato da un
ospedale se non versi, al momento del ricovero, dollari 500.000.
I
ragazzini afro di Bill De Blasio, il gigante buono, fanno notare che ci
sono fiori e sculture lungo i 10 chilometri della Park Avenue, il centro
del centro della più bella città del mondo (parole loro). Ma non ci
sono fiori, ma solo erbacce nei giardini del Bronx o a Queens, ad Harlem
o Staten Island. E pochi anche a Brooklyn, benché Brooklyn insegua da
tempo Manhattan nell'esibire il benessere.
Ma c'è un complice per
Bill De Blasio, un altro nuovo, e anche lui misterioso cittadino della
Grande Mela: è Banksy, il “writer” di graffiti cercato più dai
galleristi che dalla polizia, perché ciò che dipinge sui muri la notte
viene stimato dagli esperti d'arte milioni di dollari. Si può dire che i
due siano arrivati insieme a una improvvisa e improbabile celebrità,
tutti e due per strade che, secondo i prudenti e i giudiziosi, non
avrebbero dovuto portare lontano. Banksy vale almeno quanto Basquiat, il
grande artista nero scoperto da Andy Warhol negli anni Ottanta. Come
Basquiat è in fuga, ma lascia tracce grandissime. C'è chi tenta di
imbiancarle e chi mette subito un cancello davanti al graffito per
impedire che sia asportato (è successo a Londra, provocando una rivolta
di quartiere). Tutti si chiedono chi sia Banksy, e vorrebbero ciò che
disegna sui muri. Tutti si chiedono chi sia De Blasio e lo voteranno.
Come
tutti, non so dire di più di Banksy. Ma qualcosa di insolito, una vera
sorpresa, sappiamo del nuovo sindaco. Sappiamo che, nel certificato di
nascita, risulta chiamarsi Warren Wilhelm jr. C'è un nome più IvyLeague
di così, adatto a una promettente carriera e buona accoglienza a New
York?
CON UN GESTO bizzarro come la segretezza di Banksy, Warren
Wilhelm cambia subito nome, da ragazzino. Lo rifiuta appena il padre
lascia la famiglia. Chi resta è la madre, e i nonni di Benevento. E lui
si chiamerà come loro, de Blasio (concedendosi il de minuscolo, “riesce
bene nei biglietti da visita”) Ma il tempo del matrimonio segna l'altra
svolta insolita. Una giovane donna nera, poetessa e leader lesbica,
afferma che quel che conta è l'amore, e lei si è innamorata del gigante
“italiano”. E quei figli teenager svelti, afro e simpatici, che si
chiamano Dante e Chiara, sono un buon simbolo per New York, Conta 426
etnie e per questo, con il multiculturalismo che tanti temono o
disprezzano, è diventata New York. Anche per chi non sa chi è Dante e
chi è Chiara, Bill de Blasio è già un modello, specialmente per quelli
della lunga marcia dal basso. È una bella giornata oggi a New York. Su
un muro di Brooklyn c'è un nuovo Banksy (Graham Avenue, angolo Cook
Street) un'ombra che i grandi galleristi del mondo già si contendono. A
City Hall (il Municipio) sta arrivando Bill de Blasio, con Chirlane
McCray, la poetessa nera, con Dante e con Chiara, insieme ai tantissimi
newyorchesi che l'hanno votato. E che vogliono tutto.
La Stampa 6.11.13
Nella Brooklyn di de Blasio il ghetto è diventato radical chic
Da quartiere di immigrati a zona trendy che contende il fascino a Manhattan
di Paolo Mastrolilli
qui
Repubblica 6.11.13
Il sindaco rosso che espugna la città dei ricchi
di Federico Rampini
COMUNISTA. Sandinista.
Istigatore
della lotta di classe. Marito di un’ex-lesbica. Papà di due adolescenti
così orgogliosi della loro identità afro-italoamericana, da sembrare i
nipotini di Jimi Hendrix e Angela Davis. Gliele hanno dette tutte a Bill
de Blasio. Contro di lui hanno usato la sua giovinezza marxista, i
viaggi in Urss, Cuba e Nicaragua. La famiglia multietnica e atipica. Di
certo colui che si è candidato a guidare una mega-azienda come New York
City (8,6 milioni di abitanti, 300.000 dipendenti municipali, 70
miliardi di budget annuo) non ha fatto la carriera del top manager. Come
ex Public Advocate, difensore dei cittadini contro abusi e disservizi
dell’amministrazione locale, il suo profilo è a metà strada fra il
magistrato e il politico di professione. È una storia lontana anni luce
dall’imprenditore miliardario Michael Bloomberg (quest’ultimo peraltro
un self-made man, non l’erede dinastico di fortune altrui).
Con la
sua piattaforma radicale, all’insegna della lotta alle diseguaglianze,
De Blasio ha voluto sfidare il dogma per cui un democratico vince solo
facendo campagna al centro: fu quello il teorema di Bill Clinton, in
parte seguito da Barack Obama, anche se i tentativi di intese bipartisan
dell’attuale presidente sono stati regolarmente respinti da una destra
oltranzista.
La rivoluzione de Blasio si misura per contrasto. Perchè
New York, pur essendo una città solidamente democratica (vota sempre a
sinistra nelle elezioni presidenziali e congressuali), da 20 anni non
eleggeva un sindaco progressista? Prima ci furono i due mandati di
Rudolph Giuliani, repubblicano, poi i tre mandati di Michael Bloomberg,
indipendente. Due grandi sindaci, che hanno impresso il loro segno
nellarinascita di questa metropoli. Pur molto diversi tra loro, Giuliani
e Bloomberg hanno proposto lo stesso contratto sociale alla città. Un
equilibrio fatto di ordine pubblico (“tolleranza zero” verso la
criminalità grande o piccola; crollo degli omicidi dai 2.245 del 1990 ai
418 dell’annoscorso), liberismo economico, atteggiamento “liberal” sui
temi valoriali. Bloomberg piaceva a sinistra perché favorevole ai
matrimoni gay,impegnato nel salutismo e nella difesa dell’ambiente
(verde pubblico, piste ciclabili, aree pedonali, campagne contro il
junk-food), attivo nella promozione della cultura (nuovi poli
universitari e museali), coraggiosamente mobilitato contro la lobby
delle armi. Ma Bloomberg non ha mai detto o fatto nulla che potesse
disturbare i poteri forti del capitalismo, da Wall Street ai grandi
costruttori edili. Il risultato è una metropoli tornata a risplendere,
con un rinnovamento urbanistico stupefacente: 40.000 nuovi grattacieli,
un ritmo di trasformazione più consono alle megalopoli delle nazioni
emergenti. E 50.000 senzatetto, molti dei quali non sono disoccupati
bensì lavoratori dipendenti dal reddito insufficiente per pagare un
canone di affitto.
Dopo vent’anni di quel contratto sociale, la
Grande Mela racchiude tutto il meglio e il peggio del modello americano.
Nei suoi “boroughs” (Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten
Island) abitano ben 400.000 milionari, la più fantastica concentrazione
di ricchezze del pianeta. Ma il 48,5% dei residenti vivono sotto la
soglia della povertà (fissata a 30.000 dollari di reddito annuo per una
famiglia di quattro persone) o nell’area della “quasi-povertà” che per
il costo della vita locale si misura sotto i 46.000 dollari a nucleo
familiare.
De Blasio vuole un contratto sociale diverso. Nel suo
programma c’è la costruzione di 200.000 alloggi popolari per contrastare
la “gentrification” che sta trasformando perfino Harlem e Brooklyn in
quartieri alto-borghesi. Asilinido e dopo-scuola per tutti. Un sostegno
alla scuola pubblica contro i costosissimi istituti privati. Un salario
“vitale” obbligatorio di 11,75 dollari l’ora, contro un minimo attuale
di soli 7,25. Il tutto finanziato con un aumento delle imposte sui
ricchi, compresa ovviamente la tassa sulla casa. Poiché già oggi New
York contende a San Francisco la palma della città a più alta pressione
fiscale degli Stati Uniti, la destra agita lo spettro di… Gerard
Depardieu. Cioè una fuga dei ricchi che impoverirebbe tutti. Ma se la
Grande Mela e la Silicon Valley californiana sono diventate quel che
sono oggi, non è in virtù di un’attrattiva fiscale. La loro forza sta
nell’essere dei formidabili bacini di talenti umani, sta nelle “sinergie
culturali” che offrono un habitat favorevole all’innovazione. Sembrano
averlo capito quei ceti medio- alti che hanno accolto con simpatia la
sfida di de Blasio, convinti che un nuovo patto sociale è indispensabile
per uscire da questa crisi. New York è un laboratorio multietnico unico
al mondo: solo 33% dei residenti sono bianchi, il 29% ispanici, 23%
afroamericani, 13% asiatici. È un caso estremo e tuttavia indica la
direzione verso la quale si evolve l’America intera. A questa
trasformazione si può rispondere, come il Tea Party, con una rivolta
anti- Stato che è anche una psicosi da fortino assediato della minoranza
bianca. De Blasio è certo che un’altra risposta è quella vincente.
Repubblica 11.6.13
“Dio non benedica l’America” L’ultima battaglia di atei e laici
La preghiera più amata finisce davanti alla Corte suprema
di Vittorio Zucconi
C’È
un’America stanca di benedizioni, che vuole espellere Dio dalle stanze
del potere politico, ammesso che ci sia mai davvero entrato. Un’America
laica, atea, laicista, non cristiana che chiede alla Corte Suprema di
proibire il canto di quell’inno mistico che invoca, dai campi di
baseball alle aule del Congresso, la “benedizione divina”.
La nenia
composta un secolo fa da Irving Berlin che deputati e senatori, credenti
o atei, intonano sotto la cupola del Campidoglio, la canzone dolce e
melensa che i tifosi di baseball come i bambini sui campi sportivi
cantano per chiedere che “God Bless America”, che Dio benedica l’America
violerebbe la Costituzione, secondo i querelanti che hanno ottenuto
udienza dalla massima Corte. E la decisione dei nove “Supremes”, come
scherzosamente sono soprannominati i nove sommi magistrati ricordando un
famoso trio canoro femminile degli anni ‘60, che ha accettato fra
decine di migliaia di casi di discutere e di deliberare sull’inno,
dimostra che la questione esiste ed è aperta.
La formula che chiude
questo pezzo musicale, divenuto da tempo il “secondo inno” ufficioso
degli Stati Uniti dietro al formale “Star Spangled Banner”, la bandiera a
stelle e strisce, è ormai molto più del refrain musicato dal grande
Irving Berlin nelle trincee della Grande Guerra e poi da lui riadattato
nel ‘39, alla vigilia del Secondo Conflitto. L’idea che Dio possa
“benedire l’America”, che per essa abbia un occhio di riguardo, è la
conclusione inevitabile dei discorsi presidenziali sullo Stato
dell’Unione. Un atto di fede. Ed è l’invocazione, tragicamente
disperata, che deputati e senatori nel panico spontaneamente cantarono,
insieme con milioni di americani, sui gradini del Campidoglio, nel
pomeriggio dell’11 settembre 2001. Nel giorno in cui Dio, o almeno il
loro Dio, era parso scordarsi della “sua” America.
Ed è proprio
quello che due donne, due abitanti di Greece, cittadina di 14 mila
persone nel nord dello Stato di New York, non vogliono più sentire.
Susan Galloway e Linda Stephens, una di religione ebraica, l’altra atea,
avevano fatto causa al consiglio comunale che da dieci anni apriva le
riunioni con la benedizione di un pastore cristiano e con il canto
dell’inno. Dopo avere vinto e perso processi, ricorsi e appelli, le due
donne si sono rivolte alla Corte Suprema per stabilire, una volta per
tutte, se quella giaculatoria violi la separazione fra Stato e Chiesa
che la Costituzione sancisce quando vieta a ogni organismo legislativo
di fare norme che privilegino e stabiliscano culti.
La controversia
sulla laicità obbligatoria dello Stato esiste e continua da 222 anni, da
quando il Primo Emendamento della Costituzione proibì la creazione di
una “religione di Stato” e più tardi — ma non nella lettera della Carta —
Thomas Jefferson e James Madison affermarono il principio della
separazione fra Stato e Chiesa. Una paratia stagna, secondo le
intenzioni dei Padri Fondatori che i laici, gli atei, i non cristiani
hanno visto con paura farsi negli anni sempre più porosa.
Senza mai
una decisione formale, una sentenza, una legge, il Dio cristiano è
entrato nelle parole, se non necessariamente nell’anima, di generazioni
di leader po-litici, non passando mai dalla porta principale della
Costituzione, sbarrata, ma dalle finestre socchiuse dell’opportunismo
politico. Fu, un po’ a sorpresa, Ronald Reagan a raccontare nel suo
discorso d’addio gli Usa come «lacittà luminosa sulla collina»,
un’espressione ripresa dal Vangelo secondo Matteo per descrivere il
Regno di Dio. E dopo una certa trascuratezza da parte di Bill Clinton,
distratto da cure più umane, il misticismo rientrò prepotentemente con
George W Bush: «L’America è la terra prescelta e prediletta dal Signore»
proclamò in un discorso elettorale del 2000.
Ben prima della
benedizione formale di Bush jr, il canto si era diffuso nella
quotidianità della vita politica e collettiva, anche oltre la “Cintura
della Bibbia”, la catena di stati fondamentalisti del Sud. La
benedizione di Dio è invocata dagli spettatori del baseball, esausti
alla fine del settimo inning quando ancora ne mancano due. E’ intonata
prima della partite di football e nelle aule di scuole private, da
giocatori, insegnanti, alunni, costringendo spesso i non credenti o i
seguaci di altre divinità a restare seduti o a bocca chiusa, con
imbarazzo.
Nessuno vuole, neppure le due implacabili signore della
cittadini di Greece che questa dolce nenia, perfetta per i momenti di
commozione postuma nei luoghi di massacri a fucilate e tragedie, sia
bandita. Alle minoranze laiche o atee, ai non cristiani che vedono in
quel Dio benedicente un Dio che loro non riconoscono, preme evitare che
il salmo composto da Berlin, ebreo, soltanto per invocare la pace,
diventi il sotto inno degli Stati Uniti.
Ma sono minoranza. I sei
uomini e le tre donne della Corte Suprema lo sanno, come lo sa Barack
Obama, sempre attento ai profumi del vento politico, che già si è
espresso per mantenere l’invocazione nelle aule del Parlamento delle
assemblee che lo desiderino. Lo sanno naturalmente anche i devoti e i
mistici, già accampati come sempre nei momenti delle sentenze storiche,
davanti al palazzo della Corte Suprema. Nella loro veglia, intonano il
“God Bless America”.
il Fatto 6.11.13
“God bless America” è uno spot per Dio?
di Angela Vitaliano
New
York I LORO NOMI non sono famosi come quello di Bill de Blasio ma,
oggi, mentre la città saluta il suo nuovo sindaco, Linda Stephens e
Susan Galloway, aspetteranno con ansia un’altra decisione che riguarda
il futuro della cittadina di Greece, nello Stato di New York. Le due
donne, un’ ebrea e un’atea, hanno fatto causa al comune per protesta
contro la “tradizione” ormai consolidata di aprire i lavori del
consiglio comunale con una preghiera che, peraltro, per undici anni è
stata improntata alla fede cristiana.
Oggi a decidere se la
“procedura” che viene messa in atto anche al Congresso e in altri luoghi
istituzionali, sia legale o violi le norme di separazione fra lo Stato e
la Chiesa, sarà la Corte Suprema che dovrà confermare o rigettare la
decisione della corte d’appello federale dello Stato di New York che ha
già stabilito che la procedura della città di Greece “ha violato la
Costituzione, rappresentando un sostegno di fatto del comune alla
religione”.
Se la Corte Suprema dovesse confermare l’orientamento
espresso dalla Corte d’appello, si aprirebbe la stagione per una vera e
propria “rivoluzione” dei rituali istituzionali che potrebbe toccare
persino la famosissima “God bless America” recitata alla fine di ogni
discorso politico da candidati e presidenti di qualsiasi orientamento.
Già
nel 1983 la Corte Suprema era intervenuta in un caso simile relativo al
Nebraska e aveva mantenuto il diritto di preghiera ad apertura dei
lavori istituzionali il che può far pensare ad una decisione simile. Le
due donne e i loro legali, tuttavia, la pensano diversamente e sperano
che oggi la sentenza possa dargli ragione.
il Fatto 6.11.13
Il passato che torna
Attori e poeti, la lista nera dei nemici dei golpisti argentini
di Alessandro Oppes
Madrid
Le liste nere degli anni della Guerra Sporca di Videla e soci erano
conservate in due casseforti, due armadi e alcuni scaffali negli
scantinati del Edificio Cóndor, sede della Fuerza Aérea argentina. A
rivelarne l'esistenza, quando manca un mese al 30° anniversario della
fine della dittatura, è stato il ministro della Difesa del governo di
Cristina Kirchner, Agustín Rossi, che ha definito “di enorme valore
storico” le 1500 cartelle d'archivio in cui sono contenuti, tra l'altro,
280 resoconti ufficiali e “segreti” delle riunioni delle giunte
militari succedutesi a Buenos Aires tra il 24 marzo 1976, giorno del
pronunciamiento contro la presidente costituzionale Isabelita Perón,
fino al 10 dicembre ‘83.
In quelle carte - rimaste intatte nonostante
il capo dell'ultima giunta golpista, Reynaldo Bignone, avesse ordinato
la distruzione di tutti i documenti compromettenti - ci sono gli elenchi
di centinaia di personalità del mondo della cultura considerate come
pericolose dal regime: musicisti e cantanti come Mercedes Sosa, Víctor
Heredia, Marilina Ross e Horacio Guarany, gli scrittori Julio Cortázar,
Rogelio García Lupo e María Elena Walsh, gli attori Héctor Alterio,
Federico Luppi, Haydee Padilla e Norma Aleandro. Ma ci sono anche
numerosi altri elementi di interesse. A partire dai piani di governo a
lunga scadenza elaborati dalla giunta, che prevedeva un periodo
fondativo sino agli anni 90 e una fase successiva identificata come
“nuova repubblica ” con la quale si sarebbero dovuti mantenere al potere
almeno sino al 2000.
Non mancano, poi, le istruzioni sul tipo di
spiegazioni che si sarebbero dovute fornire agli organismi
internazionali sul tema dei desaparecidos. I documenti provano anche che
la giunta puntava a far fallire il lodo arbitrale nella contesa
territoriale con il Cile sul Canale del Beagle. E in effetti, nel 1978
si arrivò sull'orlo della guerra, prima che partisse la mediazione
vaticana voluta da papa Giovanni Paolo II.
Repubblica 6.11.13
Argentina, trovate le “liste nere” di Videla
Da uno scantinato dell’Aeronautica i dossier su 300 nemici della giunta, da Cortázar a Sosa
di Omero Ciai
C’È
anche la lettera che Hebe de Bonafini, una delle leader delle “Madri di
Plaza de Mayo”, scrisse per sollecitare informazioni sui suoi due figli
scomparsi nei lager della dittatura. Ci sono i report delle “liste
nere” sugli artisti e gli intellettuali, come lo scrittore Julio
Cortázar e la cantante Mercedes Sosa, considerati pericolosi dai
militari. I programmi per governare fino al Duemila e, perfino, le
istruzioni su come controbattere alle accuse degli organismi
internazionali dei diritti umani sui “desaparecidos”. È un piccolo
tesoro di documenti inediti e segreti sulla giunta militare (1976-83)
quello ritrovato la settimana scorsa negli scantinati dell’edificio
Condor, il palazzo dell’Aeronautica militare a Buenos Aires. Soprattutto
perché è la prima volta, ad oltre trent’anni dai fatti, che vengono
rinvenuti, e consegnati al potere politico dai militari, archivi
originali del periodo della dittatura.
Alla fine del 1983, prima
della caduta del regime, l’ultimo dittatore militare, Reynaldo Bignone,
ordinò la distruzione di tutti i documenti che riguardavano gli anni
della dittatura per nascondere le azioni illegali e gli omicidi commessi
nel timore che, con il ritorno della democrazia, i generali
responsabili rischiassero di essere giudicati. Tanto che, ancora oggi,
il numero delle persone torturate e uccise nel corso della “Guerra
sporca” organizzata dai militari contro gli oppositori politici è
ignoto, non esiste alcun registro degli arresti, degli interrogatori,
delle condanne a morte illegali, e solo calcoli per approssimazione
fissano in circa 30mila i “desaparecidos”.
Gli archivi segreti
ritrovati sono più di 1500 e vanno dal 24 marzo 1976, il giorno del
golpe, al 10 dicembre 1983 quando, con l’inizio della presidenza di Raul
Alfonsin, venne ristabilita la democrazia. Nelle “liste nere” ci sono
oltre trecento nomi di intellettuali fra i quali scrittori, come
Cortázar, il famoso autore di Rayuela(Il gioco del mondo), che all’epoca
viveva da tempo a Parigi; cantanti come Mercedes Sosa che venne prima
censurata, poi imprigionata ed infine nel 1979 costretta all’esilio dai
militari; ma anche attori come Hector Alterio, pianisti come Osvaldo
Pugliese, e giornalisti.
Tutto il materiale è ordinato in modo sia
cronologico che tematico e ci sono anche gli atti di numerose riunioni
della Giunta militare. Dai documenti risulta anche evidente che i
militari pensavano di governare almeno fino alle soglie del Duemila
(caddero invece dopo la guerra persa contro la Gran Bretagna per le
isole Falkland/ Malvinas), ed avevano diviso il loro regime in due
parti: quella fondativa che arrivava fino all’inizio degli anni Novanta e
quella della “Nuova Repubblica”.
«Un’ottima notizia che potrà
accedere un po’ di luce», è stato il commento di Estela de Carlotto,
presidente delle “Abuelas”. Fra le carte ci sono infatti anche
annotazioni e appunti che riguardano casi oscuri nella storia della
dittatura. Uno in particolare è il dossier sulla vendita di “Papel
Prensa”, la cartiera argentina, che in quegli anni passò, per volontà
dei militari, dai proprietari, la famiglia Gravier, ad alcune aziende
editoriali (La Nacion e Clarin). Vicenda sulla quale ancora oggi indaga
la magistratura.
Al di là del loro valore storico, il ministro della
Difesa argentino, Agustin Rossi, che ha rivelato il ritrovamento, spera
che gli archivi segreti possano essere utili nelle cause giudiziarie.
Dal 2006 quando l’Argentina ha cancellato le leggi sull’impunità e
l’amnistia a favore dei militari responsabili di violazioni dei diritti
umani sono state già emesse un centinaio di sentenze contro criminali
del regime militare ma molte altri processi sono ancora in corso.
La Stampa 6.11.13
Pakistan
“Sono Nabila, la bambina sopravvissuta ai droni-killer”
di Maurizio Molinari
qui
Repubblica 6.11.13
Inquinamento Il cielo nero sopra Pechino
Una bambina di otto anni si è ammalata di cancro ai polmoni e lotta per la vita
“Ha respirato per troppo tempo polveri sottili”, dice il suo medico
E ora anche la Cina scopre i danni all’ambiente causati dallo sviluppo selvaggio
di Giampaolo Visetti
PECHINO
La Cina aggiunge un altro record alla prodigiosa serie dei primati
bruciati negli ultimi trent’anni, ma questa volta nessuno inorgoglisce.
Al contrario, i cinesi inorridiscono e per la prima volta, anche nelle
metropoli-missile della crescita economica, si consolida l’opinione che
se il prezzo della libertà di shopping è la vita, non ne vale la pena.
La notizia, a sorpresa, è stata diffusa ieri in primo piano sia dalla
Xinhua,l’agenzia ufficiale, che dalla Cctv, la tivù di Stato controllata
dalla censura del partito comunista. Una bambina di 8 anni si è
ammalata di cancro ai polmoni a causa dello smog e lotta per non morire
nel reparto oncologico dell’ospedale di Nanchino. Il medico che tenta di
salvarla, il dottor Jie Fengdong, si è mostrato sconvolto alle
telecamere. «Per troppo tempo — ha detto — ha respirato polveri sottili e
sostanze tossiche prodotte da automobili e industrie. Il tumore ha
colpito un solo polmone, ma gli effetti sono impressionanti. Se non
verranno adottate misure rapide per depurare l’aria, la medicina non
potrà fermare una strage».Secondo i dati dell’Accademia delle scienze di
Pechino, si tratta dell’essere umano più giovane mai aggredito da un
cancro all’apparato respiratorio. Fino ad oggi l’età media delle vittime
di questo genere di morte delle cellule è di 70 anni. La bambina cinese
si è scoperta improvvisamente vecchia per un errore fatale: la sua
famiglia abita lungo una strada super-trafficata di una città
industriale dello Jiangsu, la regione costiera subito a nord di
Shanghai. Uscendo di casa per giocare e per andare a scuola, la piccola
in pochi anni ha inalato una concentrazione di pm 2,5, le
microparticelle emesse dai gas di scarico, troppo alta per essere
tollerata.
La storia di questa tragedia sta colpendo l’intera
popolazione e in poche ore il web, rigidamente controllato dal partito, è
stato intasato da migliaia di reazioni di gente sotto shock. I cinesi
temono che se il governo ha concesso la diffusione di una simile
notizia, consapevole di far scattare l’allarme, è perché la realtà è
assai peggiore di quanto i dati ufficiali non ammettano e nuovi leader
hanno paura di essere travolti dall’esigenza popolare di una vita
sostenibile. A spaventare è però anche la consapevolezza di essere ormai
tutti sulla stessa barca: gli operai che lavorano nelle fabbriche senza
depuratori, i contadini che coltivano terreni tossici, i residenti nei
villaggi costretti a bere acqua inquinata e le centinaia di milioni di
abitanti nelle metropoli, dove lo smog cancella il sole per mesi. Il 21
ottobre un altro record aveva scosso la nazione, facendo il giro del
mondo: Harbin, capoluogo della Manciuria noto in passato per il lindore
dei suoi ghiacci invernali, è stata la prima città della storia chiusa
per eccesso di smog. Nel primo giorno di accensione dei riscaldamenti,
le particelle di carbone rendevano invisibile perfino la porta di casa e
gli automobilisti non riuscivano a vedere i semafori. Un anno fa
l’agonia di Pechino era tale che le autorità, dopo che nei negozi
risultavano esaurite garze per la bocca e maschere anti-gas, si spinsero
fino a vietare di cuocere carne alla griglia per le strade.
Ieri,
mentre il dramma della bambina di Nanchino si trasformava in problema
politico anche per una super-potenza fondata sull’autoritarismo, il
governo centrale è stato costretto a istituire «una squadra di
scienziati» con una missione senza precedenti: studiare un sistema
capace di evitare che le telecamere di sorveglianza attive ad ogni
angolo del Paese vengano oscurate dall’inquinamento. Lo smog, da killer
collettivo, per i nuovi leader rossi ormai può mutare in minaccia
diretta alla sicurezza nazionale, favorendo un attacco terroristico. «Se
la visibilità scende sotto i tre metri — ha rivelato l’ingegner Kong
Zilong, esperto di tecnologia della videosorveglianza — anche la più
sofisticata delle telecamere a raggi infrarossi risulta inutile.
Possiamo vedere nel buio e nella nebbia, ma lo smog è troppo solido,
riflette le riprese e impone l’uso di un radar». L’attacco kamikaze del
28 ottobre in piazza Tienanmen, alla vigilia di un plenum decisivo del
comitato centrale del partito, fa salire la tensione oltre il
ragionevole.
Inconsuete isterie anche tra i vertici del potere
confermano però che l’emergenza inquinamento, assieme a un livello di
corruzione che gli stessi funzionari definiscono «disperato», ha
superato il limite che anche una popolazione rassegnata, a cui è vietato
esprimersi liberamente, può sopportare prima di ribellarsi. In dieci
anni a Pechino i decessi per tumore ai polmoni sono aumentati del 56% e
un cancro su cinque è polmonare. La stessa patologia è pure la più
diffusa in Asia, l’inquinamento cinese in due giorni raggiunge la vetta
del monte Fuji, in Giappone e nelle metropoli della Cina, solo nel 2012,
i morti da smog sono stati oltre 8.500. L’Organizzazione mondiale della
sanità avverte che nel 2010 le vittime globali del-l’inquinamento hanno
superato quota 1,2 milioni e che il cancro ai polmoni uccide 223 mila
persone all’anno. Cifre che ai cinesi non servono più, per consolarsi.
Domenica l’edizione inglese del Quotidiano del popolo, rompendo un
ventennale silenzio, ha raccontato che mentre il governo è impegnato
nella «grande urbanizzazione», per creare una classe media di
consumatori, milioni di neourbanizzati sono già in fuga dalle città. I
giovani cinesi non vogliono far crescere l’unico figlio concesso dallo
Stato in un ambiente che minaccia di ucciderlo. I colletti bianchi
cominciano a temere davvero di morire prima di essere diventati ricchi e
chiedono di essere trasferiti nei centri di seconda e terza fascia: «Ci
saranno meno opportunità di carriera — ha detto al giornale il manager
di una banca pubblica — ma almeno si può respirare in pace». In Cina
simili dichiarazioni non sono ovvie, come in apparenza suonano in
Occidente, e in queste ore sommano pericolosamente la lotta della
bambina colpita di cancro ai polmoni ad un altro scandalo. Sulla Rete,
nonostante una censura maniacale, cominciano ad apparire i nomi di
milionari e alti dirigenti del partito che per fuggire dalla nuvola nera
che avvolge il Paese si trasferiscono all’estero, o nelle regioni del
Sud. Qualcuno sposta solo la famiglia, altri delocalizzano l’azienda,
altri vendono tutto e se ne vanno, almeno nei più rischiosi mesi
invernali. Inghilterra, Spagna, Nuova Zelanda, ma anche Indonesia,
oppure Hainan, l’isola tropicale che Pechino cerca di trasformare nei
“Caraibi dell’Oriente”. La nomenclatura cinese, asfissiata la nazione,
gestirebbe i suoi affari da lontano, comprandosi un cielo azzurro, oltre
che esportando i capitali accumulati prima di finire nel mirino dei
clan vincitori dell’ultimo congresso del partito. L’esercito dei censori
del governo non riesce più a cancellare tutti rumours sui privilegi
anti-smog delle autorità: dagli speciali depuratori in casa e ufficio
agli alimenti biologici importati dall’estero, fino alle ville in
montagna per disintossicarsi nei weekend. Psicosi che contagia anche la
crescente comunità degli stranieri che, per fare soldi, lasciano Europa e
Usa per scommettere sulla Cina. Il dato è del ministero degli Interni
di Pechino: fino a due anni fa prevalevano i visti-famiglia, ora gli
individuali, mentre coniugi e figli rientrano nelle nazioni di origine.
Sabato, quando si aprirà il terzo plenum del partito, che si annuncia
concentrato sulle non rinviabili riforme economiche, il cataclisma
ambientale che sconvolge la Cina non figura nell’ordine del giorno.
L’impatto sociale di smog e inquinamento, secondo la logica, potrebbe
anzi disturbare i piani di «storica riconversione dalla produzione al
consumo» fatti trapelare dai vertici. La logica però, quando le dosi di
veleno nell’aria sono «40 volte superiori a quanto un essere umano può
sopportare», non funziona più nemmeno dentro la Città Proibita. A
salvare la Cina, e con lei il resto del mondo, potrebbero non essere i
tecnocrati eredi di Mao, ma una bambina di 8 anni dello Jiangsu che
aveva il vizio di respirare troppo quando usciva di casa. Ai primi, i
cinesi non credono più: nella seconda, commossi per il suo sacrificio,
da ieri confidano.
La Stampa 6.11.13
Gerhard Schröder: “L’austerità è un’ideologia
Così l’Europa rischia la fine”
L’ex Cancelliere: giusto sforare il Patto di stabilità se si fanno le riforme
intervista di Tonia Mastrobuoni
qui
l’Unità 6.11.13
Albert Camus ancora straniero
A cent’anni dalla nascita lo scrittore rimane scomodo
La Francia non gli ha riservato nessuna celebrazione degna del suo spessore
Il suo nichilismo
non dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con dignità
di Anna Tito
CHI È
Nato in Algeria, partigiano, morì in un incidente d’auto
Fra
i più noti e celebrati autori francesi, scrittore, drammaturgo,
filosofo francese, Albert Camus (1913 1960) nacque a Mondovì, in
Algeria, da una famiglia di «pieds noirs». Iniziò l’attività
giornalistica per «Alger républicain», sulle cui colonne denunciò le
condizioni di miseria in cui viveva la popolazione in Cabilia, per poi
trasferirsi in Francia nel 1940 e prendere parte alla Resistenza. Amico
di Sartre, se ne distaccò nel 1952 quando pubblicò «L’uomo in rivolta».
Vinse nel 1957 il Nobel. Tra le sue opere: «Lo straniero» (1942),
«Caligola» (1944), «Il mito di Sisifo» (1951), «La peste» (1947), «La
caduta» (1956), «Il primo uomo» (1994), romanzo postumo autobiografico.
Sempre combatté la violenza colonialista e si schierò in favore della
libertà del popolo algerino.
STUPISCE CHE, A CENT’ANNI DALLA
NASCITA, IL 7 NOVEMBRE 1913, e a cinquanta e più dalla scomparsa,
avvenuta il 4 gennaio del 1960 nella Facel Vega guidata dall’amico ed
editore Michel Gallimard tragico epilogo di una «vita governata
dall’assurdo», per dirla con Albert Camus stesso, poiché prevedeva di
rientrare a Parigi in treno la gloria dell’autore Principe dell’Assurdo,
per l’appunto, lo scrittore più tradotto al’estero, rimanga poco
riconosciuta e in qualche maniera elemento di disturbo in patria, eppure
inalterata. Una spiegazione la diede forse Eugenio Montale, a proposito
del fascino di Camus che risiede in una geniale, apparente
contraddizione, poiché «il suo nichilismo non esclude la speranza, non
dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con
dignità». Alcuna esposizione degna di questo nome è mai stata
organizzata dalla Bibliothèque Nationale de France, che pure ne ha
dedicate a Jean-Paul Sartre, a Donatien de Sade, a Antonin Artaud, Boris
Vian, Casanova, per dirne soltanto alcune degli ultimi anni.
Rimane
tuttora scomodo, l’autore di Lo straniero e di L’uomo in rivolta. È in
corso, fino al 4 gennaio nella Cité du Livre di Aix-en-Provence, la
retrospettiva Albert Camus, citoyen du monde: vi si trovano manoscritti,
copie con dedica, ritagli di stampa, fotografie. Nessun elemento che
possa creare qualche fastidio, e coabitano sotto vetro la guerra fredda e
la guerra d’Algeria, entrambe ricordate in poche frasi. Prevista nel
2009, l’esposizione iniziale, dal titolo Albert Camus. Uno straniero che
ci assomiglia, che doveva tenersi nell’ambito del progetto
Marseille-Provence 2013 e inizialmente affidata allo storico della
guerra d’Algeria Benjamin Stora, ha fatto storcere il naso ai nostalgici
dell’Algeria francese, ben quarantamila sui centoquarantamila abitanti
della cittadina provenzale. Su pressione del sindaco «matrona locale
della destra popolare» la ministra socialista della cultura, Aurélie
Filippetti ha dovuto pertanto ritirare i fondi previsti per la mostra
evocando le arcinote ristrettezze di bilancio.
LA RIVALITÀ CON SARTRE
E
ancora, nel 2010, in occasione del cinquantenario della scomparsa, una
«carovana Camus» avrebbe dovuto attraversare l’Algeria per presentarne
l’opera, ma il progetto non ha avuto seguito, anche perché ostacolato
dagli ambienti conservatori algerini, preoccupati che la memoria dello
scrittore potesse far risorgere qualche movimento antinazionalista.
Insomma, la guerra d’Algeria permane una ferita eternamente aperta per
la memoria dello scrittore, che nel gennaio del 1956, allorché redasse
La tregua civile, per il settimanale L’Express, non si limitò a scrivere
l’articolo, ma si recò ad Algeri, per proporre una tregua civile
appunto, ovvero che si evitasse la morte dei civili in ambedue i campi.
Tenne una conferenza nella casbah, con gli ultrà francesi che urlavano
«Camus al muro!» Era ben consapevole del fatto che, se si fosse
costruita un’Algeria con un partito unico e una religione di Stato, le
prime vittime sarebbero state gli algerini. Quando vediamo quanto
accaduto in seguito, non possiamo dargli del tutto torto.
Eppure
Albert Camus è onnipresente, perché «ha vinto», secondo i giornali
d’Oltralpe, e non si contano le opere inediti e non che affollano gli
scaffali delle librerie. Appare più un pensatore del nostro tempo di
quanto lo sia stato del suo: sono crollate le grandi ideologie e abbiamo
assistito al rinnegamento dei maîtres-à-penser. È l’antimodello, non
intende fare il filosofo, e respinge qualsiasi prêt-à-penser, non
propone alcuna certezza religiosa o ideologica. Se Jean-Paul Sartre dà
delle risposte, Camus pone degli interrogativi. Il primo vuole costruire
un sistema di pensiero, mentre il secondo afferma «mi interessa sapere
come ci si deve comportare». Si presenta come l’anti-Sartre, in
controtendenza alla propria epoca affascinata dalla filosofia della
storia e dalla violenza che ha costretto l’uomo a subire; esalta la
rivolta della coscienza di fronte al determinismo storico che alimenta i
totalitarismi; si «autopresenta» come l’uomo della tragedia.
Fu fra i
primi a lanciare l’allarme, da subito, per le drammatiche conseguenze
dello sganciamento della bomba atomica su Hisroshima e Nagasaki: «La
civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie», e
«dinanzi alle terrificanti prospettive che si aprono per l’umanità, ci
convinciamo sempre di più che quella per la pace è l’unica battaglia che
valga la pena di combattere».
Prese parte alle feste, ai balli, alle
bevute che animavamo la Parigi del dopoguerra a Saint Germain-des-Prés,
ma sempre sentendosi estraneo, in quanto mediterraneo, e non avendo
frequentato frequentato l’Ecole Normale. Si era impegnato attivamente
nel movimento della Resistenza di Combat, vide i suoi amici furono
deportati e arrestati, alcuni di questi non tornarono mai. Perciò non
voleva venire decorato della medaglia della Resistenza. E allorché gli
fu conferita, suo malgrado, chiese «Chi mi ha denunciato?».
«Non l’ha
certo rubato», ironizzò secondo i detrattori -Jean-Paul Sartre quando
Camus ricevette il Premio Nobel, dileggiando così il suo classicismo, la
sua supposta frivolezza politica, quell’«umanesimo testardo, ristretto e
puro», che poi evocò nella sua celebre orazione funebre. Ancora oggi la
gloria di Camus rimane senza eguali, ha raggiunto il mito: una
silhouette alla Humphrey Bogart, la passione per le donne, per il
teatro, per il gioco del calcio, per il sole. Eccolo anche in procinto
di venire trasferito, dal cimitero di Lourmarin, dove riposa in un
paesaggio sublime,a suo tempo su iniziativa di Nicolas Sarkozy politique
oblige, nella gelida cripta del Pantheon dei grandi uomini.
Con
L’uomo in rivolta, nel 1951, smontò un tabù: all’epoca, era vietato
criticare l’Unione Sovietica, quando tutti erano al corrente
dell’esistenza dei gulag. Si diceva che si taceva per una buona causa.
Lui decise di parlare, e ciò non piacque. E racconta la figlia
Catherine: «Trovai mio padre seduto nel salotto, con la testa china. Gli
chiesi: sei triste papà? Lui alzò la testa e guardandomi dritto negli
occhi mi rispose: “No, sono solo”. Non l’ho mai dimenticato. Non sapevo
come spiegargli che con me, che avevo allora sei anni, non sarebbe mai
stato solo».
Repubblica 6.11.13
Generazione orizzontale
“Mio figlio, questo sconosciuto” autoritratto di un papà disperato
Preferiscono la tv alla natura, vivono in un mondo dove tutto rimane acceso comprano più di ciò che gli serve
I ragazzi di oggi visti da un genitore tra humour, senso di impotenza e tenerezza
È il nuovo libro di Michele Serra
Il silenzio dei padri di fronte ai figli sdraiati sul divano
di Massimo Recalcati
Freud
dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva:
il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i
migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come
dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei
propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della
genitorialità. Tutt’altro. E’ da queste due notizie che trae linfaGli
sdraiati, il nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la
sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema
della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è
perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle
pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre
nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può
esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola
di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che
chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto
del bene e del male, della vita e della morte?
Il padre di cui ci
parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la
paradossale “fragilità materna”, la schizofrenica incarnazione
dell’autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella
a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento
interno, abitato, come quello di tutti — come ricordava giustamente
Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta — , da reazionari
che invocano il ristabilimento repressivo dell’ordine. Questo nuovo
padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua
potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione
repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un
amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina
d’autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la
mattina nei loro letti anziché unirsi ai “vecchi”. «Non si era mai visto
prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono». Una mutazione
antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri
figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta
a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati,avvolti nelle loro felpe e
circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti
post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che
preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano
le bandiere dell’Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento
autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento,
tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso». Eccoli i
consumisti perfetti, «il sogno di ogni gerarca o funzionario della
presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha
bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo
nutre, l’illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può
fumare, compri più di quanto lo soddisfa».
Non si era mai visto
niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo,
precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, «è l’evoluzione
della specie», come commenta suo figlio.
GliSdraiati è un libro
tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo
in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia
lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come
quando descrive l’orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza
commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della
casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la
scoperta dell’abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il
tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive
stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che
«contiene il suo addio agli anni dell’innocenza», o come quando, ancora,
osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio
oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli
dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino infondo.
La giovinezza si
palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la
Bibbia descrive soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un
campo. Nell’età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo
incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del
loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una
delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad
avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il
corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza
pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con
pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo
corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che
è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra
facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola.
Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. In Pastorale americana di
Philip Roth l’impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa
spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo
religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo
modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli
sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell’opposizione
ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta.
Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo
padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile,
qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie
generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta —
in una atmosfera oniroide alla Blade Runner — come uno scontro epico tra
la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.
Il
condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la
sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza,
guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente
escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo.
Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il
passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover
vincere la guerra perché è «la bellezza che deve vincere la guerra. La
natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi
giovani dovete vincere la guerra». Il segreto più grande nel rapporto
tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche
quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del
proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da
una generazione all’altra. E non dispererei che le portulache che sono
state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del
mare — «la cura del mondo è una abitudine che si eredita», scrive Serra —
possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo
spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile.
IL LIBRO Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli pagg. 108 euro 12)
l’Unità 6.11.13
Nuove rivelazioni da Monaco
Anche uno Chagall sconosciuto nel «tesoro di Hitler»
C’è
anche un dipinto sconosciuto di Marc Chagall tra i quadri del «tesoro
di Hitler» ritrovati in un appartamento di Monaco, un’opera giudicata
«di valore storico e artistico particolarmente alto». Lo ha reso noto
Meike Hoffmann, lo storico dell’arte che sta collaborando con la polizia
tedesca nelle indagini sui capolavori trafugati dai nazisti e rimasti
nascosti per oltre mezzo secolo. Il quadro di Chagall, una scena
allegorica, è datato intorno al 1920. Tra i capolavori non conosciuti,
anche un’opera di Otto Dix, un raro autoritratto dell’artista dipinto
nel 1919, nonchè opere di Picasso e Matisse. Hoffmann ha tenuto ieri una
conferenza stampa alla procura generale di Augusta, mostrando
diapositive dei dipinti, ritrovati a casa dell’eccentrico anziano:
Cornelius Gurlitt, figlio di Hildebrand, un noto gallerista dell’epoca
nazista. Il procuratore di Augusta, Reinhard Nemetz, ha fornito i numeri
esatti delle opere: 1.285 dipinti senza cornice, 121 dipinti
incorniciati, schizzi e stampe, alcune risalenti al XVI secolo.
Hildebrand Gurlitt era stato uno degli esperti d’arte a cui i nazisti
affidarono il compito di vendere il tesoro: opere trafugate ai
collezionisti ebrei, a volte comprate a prezzi irrisori da ebrei in fuga
che così pagavano il prezzo della loro libertà o sequestrato agli
artisti dell’avanguardia considerati «degenerati». Le opere, che molti
pensavano fossero andate distrutte, sono state ritrovate all’interno di
un dimesso appartamento di Monaco di Baviera, in stanze in disordine e
polverose, in mezzo a scatole di cibo andato a male. Gurlitt figlio li
ha tenuti nascosti per anni, vendendone uno ogni tanto. Cornelius era
stato però fermato dalla polizia finanziaria tedesca nel 2011 e scoperto
in possesso di un’ingente somma in contanti; e da lì è cominciata
l’indagine.
Repubblica 6.11.13
Tesoro di Hitler ecco i capolavori di Chagall e Dix mai visti prima
Opere completamente ignote di giganti dell’arte emergono tra le 1500 tele trafugate dai nazisti scoperte a Monaco
Ci sono Matisse, Courbet e persino un Canaletto. Ma è polemica: perché il ritrovamento è stato tenuto segreto?
di Andrea Tarquini
BERLINO
Ci sono capolavori eccezionali, e in parte finora sconosciuti al mondo,
nel “tesoro di Hitler” ritrovato a Monaco nella casa d’un trafficante
d’arte figlio d’un complice di Goebbels. Centoventuno quadri
incorniciati e 1285 senza cornice, tutti ben conservati. Ma la
collezione straordinaria non sarà resa pubblica dalle autorità, che di
fatto, finché dureranno le indagini, la confiscano un’altra volta.
Guardiamo i massimi capolavori, tra i pochi dipinti illustrati ieri
dalla magistratura: ecco i due cavalieri sulla spiaggia di Max
Libermann, che sfuggì alle persecuzioni antisemite lasciando la
Germania. Ecco la fanciulla con capretta di Gustave Courbet. E ancora,
un autoritratto di Otto Dix che si dipinge mentre fuma la pipa, finora
sconosciuto. O la donna seduta attribuita a Henri Matisse, o una scena
allegorica opera di Marc Chagall, anch’essa finora non catalogata tra le
sue opere. Per non parlare di uno schizzo del Canaletto o persino di
opere di Dürer. «Tutte opere assolutamente autentiche, lo certifico», ha
detto l’esperta d’Arte dottoressa Meike Hoffmann, della Freie
Universität di Berlino, aggiungendo: «Vedere un simile tesoro suscita
meraviglia, stupore: è una gioia indescrivibile».
Arte confiscata,
cioè rubata dai nazisti ai legittimi proprietari ebrei, all’inizio delle
persecuzioni che poi portarono alla Shoah. Finita in mano a mercanti
senza scrupoli che per conto di Goebbels vendevano quei quadri ovunque
nel mondo: il Reich quasi in bancarotta aveva fame di contanti. Arte
nascosta per decenni dai figli dei mercanti, e oggi custodita dalla
Dogana in un luogo segreto.
L’incredibile vicenda della scoperta del “tesoro di Hitler”, notava ieri mattina la prudente
Frankfurter
Allgemeine, acquista sempre più il volto di un evento mostruoso. Non si
aspettino, pubblico e critici d’arte del mondo intero, di vedere presto
immagini di tutti i capolavori, a parte i pochi, di valore forse
inestimabile, magari oltre il miliardo delle prime dichiarazioni
ufficiali, mostrati ieri. È stato un susseguirsi di sorprese
sconcertanti, una dopo l’altra, la conferenza stampa tenuta ieri ad
Augsburg (l’antica Augusta) dal procuratore Reinhard Nemetz. Maappunto
il tesoro sarà mostrato solo dopo la fine delle indagini, perché «vale
il segreto fiscale in un’indagine di presunta evasione». Il garantismo a
protezione d’una famiglia di spacciatori d’arte al servizio prima dei
nazisti poi di se stessi sembra far premio su ogni accordo
internazionale.
Secondo: il blitz dei doganieri a casa di Cornelius
Gurlitt, lo ammettono solo ora, «non fu un caso». Avvenne nel febbraio
2012, perché Gurlitt scoperto a bordo d’un intercity Zurigo-Monaco con
9000 euro in tasca fu subito ritenuto sospetto. Ma in uno Stato di
diritto ciò non basta per legittimare una perquisizione. I veri sospetti
su Gurlitt nacquero dalla sua vendita all’asta, nell’autunno 2011
presso la casa d’incanto Lemperz, di un quadro, Il domatore di leoni, di
Max Beckmann. Inchiesta lenta, perquisizione solo dopo che magari
Gurlitt aveva venduto altro ancora. Già, ma il silenzio totale sul caso
dal febbraio 2012 a domenica, fino allo scoop diFocus, la dice
tristemente lunga sull’idea che élites e magistratura di qui hanno del
dovere d’informare l’opinione pubblica mondiale.
Per decenni, dopo la
disfatta nazista dell’8 maggio 1945, dice Julia Voss della
Frankfurter,mercanti d’arte senza scrupoli come i Gurlitt hanno
continuato a vivere di vendite d’arte rubata e di menzogne. Solo adesso
decenni di menzogne prima di papà Hildebrand poi sue investono
Cornelius. Ma non lo travolgono: «Non c’è pericolo di fuga, quindi non
c’è motivo di arrestarlo, c’è solo un’indagine fiscale, ora non ci serve
nemmeno sapere dove si trovi». Spaventosamente comodo, un bel colpo di
spugna sul passato. Sulla Notte dei Cristalli, sulla Shoah e
sull’occupazione di quasi tuttal’Europa oppressa, ma anche derubata dei
suoi tesori.
Nemetz e il suo team sono impassibili, qua e là un no
comment devia le domande imbarazzanti. Non importa che Gurlitt fosse in
possesso non solo di “arte degenerata” bensì anche di opere molto più
antiche, da incisioni di Canaletto a quadri di Dürer. Non pesa nemmeno
il sospetto che Gurlitt possa aver avuto altri nascondigli, a casa a
Salisburgo o dalla sorella in Svizzera. «Non abbiamo finora ritenuto di
contattare le autorità austriache ed elvetiche», ha precisato il
procuratore.
Repubblica 6.11.13
L’edizione in audiolibro di “Se questo è un uomo”
Primo Levi
Quel capolavoro che ha rischiato di non essere creduto
di Roberto Saviano
Il
mio rapporto personale con Se questo è un uomo è un rapporto viscerale.
Se questo è un uomo è uno di quei libri da cui, una volta che ci entri
dentro, non ne esci più. Non sei più uguale e non è semplicemente perché
ti rende più giusto o migliore, ma perché ti cambia. Cambia il tuo modo
di sentire, di vedere, ti costringe ad avere un’altra mente e un’altra
sensibilità. È un cataclisma che non ha mai smesso di muoversi e
attraversarmi.
Il mio rapporto con Se questo è un uomo è talmente
stretto che mi sembra quasi che Levi sia per me un maestro conosciuto,
che mi giudica in maniera severa e sa confortarmi quando subisco
ingiustizie.
Si tratta di un rapporto carnale. Mi stupisco ogni volta
di incontrare qualcuno che non abbia letto il libro. Mi stupisco quando
ne racconto un episodio, e chi mi ascolta non ne ha mai sentito
parlare: mi sembra incredibile. Le pagine sono divenute carne propria,
conosciute riga per riga tanto che mi sembra impossibile che si possa
vivere senza aver lettoSe questo è un uomo; non una semplice seppur
grande testimonianza – ci sono splendidi libri di testimonianze –, ma un
capolavoro della letteratura. Un libro sull’uomo, le sue immonde azioni
e le sue eroiche resistenze. Levi è un grande scrittore che usa la
potenza della parola per raccontare e fare memoria. Ma non gli interessa
solo costruire la bella pagina, riesce piuttosto a coniugare gli
strumenti dell’uomo colto con la necessità di comunicare quello che è
stato.
Se questo è un uomo è sicuramente il libro che più di ogni
altro ha determinato la mia visione della letteratura. Cito la risposta
che Philip Roth dà quando gli si chiede quale sia stato per lui il libro
più importante. Roth risponde Primo Levi. Risponde Se questo è un uomo
perché, dice, dopo averlo letto non vieni semplicemente a sapere che è
esistito l’orrore di Auschwitz, no. Dopo averlo letto non puoi più dire
di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di
quello che è successo, ma sei lì e hai la certezza che la tua vita non
possa più andare avanti senza metabolizzare quella esperienza.
È la
potenza della letteratura: non veicola semplicemente informazioni,
benché necessarie e importanti, ma ti dà più vita o ti toglie vita.Se
questo è un uomo è il manifesto di questa potenza.
E poi c’è la
scrittura, e quella di Primo Levi è un modello. È innanzitutto la
scrittura di un chimico. Il dettaglio e il meccanismo in cui quel
dettaglio è contemplato, non sono per lui una quinta del racconto, ma
l’oggetto vero del racconto stesso. Primo Levi non fa un libro sul campo
di concentramento ma un libro sull’uomo. Sull’uomo in quelle
particolari condizioni, travolto da tutto ciò che accade. Descrive il
suo uomo da chimico e da filosofo, ne fa sistema. In questo è
sicuramente uno degli scrittori più creativi in assoluto.
Può
sembrare un’esagerazione o una provocazione, ma mi piace parlare di
Primo Levi come creativo, perché arriva a raccontare il lager attraverso
diverse strade: da come si conserva una scodella a come si conserva la
dignità, da come Dante possa salvarti la vita se ti ricordi i suoi versi
al momento giusto, a come il latino possa servire a comunicare con un
prete che non parla la tua lingua. La sua versatilità letteraria è
quindi infinita. Ci sono diversi registri nelle sue pagine: c’è quello
naturalista, quello positivista, persino quello fantastico, quello
teologico. Insomma Levi è un mondo e stare in questo mondo mi ha fatto
sentire a mio agio. La sua scrittura del resto mi ha profondamente
influenzato: in molti casi ho cercato di aderire alla sua tecnica
narrativa a metà tra il reportage e la scelta di mettere dentro le sue
pagine molto di sé. Il suo modo di affrontare il dettaglio e allo stesso
tempo la descrizione dei grandi meccanismi che hanno portato quel
dettaglio ad accadere, a verificarsi.
Primo Levi ha saputo mediare
tra una timidezza fuori dal comune e l’ossessione quasi militante per la
memoria. In quegli anni, Levi, mettendo a dura prova la sua naturale
ritrosia e la diffidenza della società intellettuale, spesso scelse la
televisione per condividere queste storie perché l’obiettivo era far
conoscere. Io devo molta della mia formazione a Primo Levi, del mio modo
di essere scrittore spurio, bastardo, quasi figlio di un dio minore che
decide di dare spazio alle telecamere e al web perché l’obiettivo è far
conoscere, l’obiettivo è mettere a disposizione del maggior numero di
persone possibile ciò che accade in terre dimenticate. Di cui ci si
ricorda solo quando muoiono innocenti.
E poi c’è l’incubo ricorrente,
quello di tornare a casa, di voler raccontare e non essere creduto: il
tema dei temi. Anche in questo Levi mi ha molto aiutato, come ti aiuta
un terapeuta, un amico, una madre, una persona che ti ama. Un aiuto
vero, “tecnico” e carnale insieme. Perché chi scrive di mafia è spesso
non creduto e soprattutto è spesso malvisto. Mostra una ferita e,
facendolo, immediatamente assurge a un ruolo di coraggio, e chi ha
coraggio talvolta è insopportabile alla vista. Allo stesso tempo ti
senti smarrito: ti domandi come sia possibile che non vengano viste
dinamiche tanto palesi e che raccontare, scegliere di raccontare, di
fare bene il proprio lavoro, ti porti a essere bersaglio delle critiche
più aspre, spesso scorrette, subdole. Tutto ciò ti toglie punti di
riferimento, ti lascia smarrito. Poi comprendi che molti di coloro che
ti insultano con la bava alla bocca lo fanno perché hai visibilità e
allora pensi a quanto sei stato ingenuo a pensare che gli addetti ai
lavori – o come spesso li definisco “ai livori” – non si sarebbero
fermati a guardare il dito. Ti scopri assolutamente inadeguato a
interpretare il mondo, se pensavi che a interessare potessero essere le
tue storie e non chi le racconta. Se davvero pensavi che il tuo racconto
avrebbe solo portato ad approfondire dei temi cruciali e non ad
attaccare chi ne parla. Ma poi pensi a chi ha vissuto l’inferno in terra
e per molto tempo non è stato creduto. Se questo è un uomo non fu
immediatamente recepito come un libro di verità. Lo si considerò un po’
esagerato, inattuale, in un tempo in cui si stava ricostruendo il paese
materialmente ma anche e forse soprattutto moralmente. Ma Se questo è un
uomo era avvertito come esagerato e inattuale perché disturbava.
Il
non essere creduto di cui scrive nelle sue pagine Levi – per esempio nel
sogno del ritorno a casa: mentre si sta a tavola e si mangia molto, a
un certo punto inizia a raccontare quello che è successo e le persone
sedute invece di ascoltare si alzano, motteggiano, scherzano e non ci
credono affatto – è il pensiero con cui apre il libro nei versi messi in
esergo. Versi che sembrano quasi un’accusa, un monito. Su questo Levi è
severissimo: che tu possa essere maledetto, che la tua vita possa
andare in malora se non racconti tutto ciò che ho descritto, perché non
raccontandolo staresti negando. Questa è l’accusa di un uomo che pone la
memoria di ciò che è stato al centro di tutto, come motivo di vita. Il
non essere creduti di fronte alla tragedia, l’essere colpevolmente
fraintesi, è come essere condannati a morte, è come perdere la propria
dignità.
Levi insegna ad avere fiducia nella parola e quindi ti
insegna a difenderla, a starci dentro e sopportare. Come se la parola
stessa, alla fine di tutto, fosse la ricompensa naturale, la cosa di cui
più ritenersi soddisfatti. L’unica ricompensa è la parola.
Repubblica 6.11.13
Un rapporto scientifico su come si moriva con il gas
Pubblicata la relazione in cui lo scrittore nel ’45 svelò l’orrore di Auschwitz
di Massimo Novelli
«Attraverso
i documenti fotografici e le oramai numerose relazioni fornite da
ex-internati nei diversi Campi di concentramento creati dai tedeschi per
l’annientamento degli Ebrei d’Europa, forse non v’è più alcuno che
ignori ancora che cosa siano stati quei luoghi di sterminio e quali
nefandezze vi siano state compiute». Allo scopo «di far meglio conoscere
gli orrori», però, «crediamo utile rendere pubblica in Italia una
relazione, che abbiamo presentata al Governo dell’U.R.S.S., su richiesta
del Comando Russo del Campo di concentramento di Kattowitz per Italiani
ex prigionieri». Comincia così ilRapporto sulla organizzazione
igienicosanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz
(Auschwitz- Alta Slesia),che Primo Levi e il medico Leonardo De
Benedetti, compagno di prigionia, scrissero dopo la liberazione nei
primi mesi del 1945, e pubblicarono il 24 novembre del 1946 sul numero
47 della rivista scientifica torinese Minerva Medica.Ritenuto un
avantesto diSe questo è un uomo, il primo libro di Levi uscito nel 1947
da De Silva su interessamento di Franco Antonicelli, ilRapporto venne
poi accantonato. Soltanto diversi anni dopo, nel 1991, se ne ritornò a
parlare in due convegni, dove Alberto Cavaglion lo presentò al pubblico.
Nel 1997 fu inserito da Marco Belpoliti nelle opere di Levi edite da
Einaudi.
Per iniziativa del Centro internazionale di studi Primo Levi
di Torino e della medesima Einaudi, che ne ha stampate 400 copie per
sostenere l’ente culturale, ora la relazione sui lager nazisti vede la
luce in una versione autonoma. IlRapporto, pubblicato con una
postfazione di Fabio Levi, direttore del centro studi, viene presentato
oggi a Torino, alle 17.30, al Museo nazionale del Cinema.
Composto in
qualche decina di pagine da un “medico-chirurgo” e da un “chimico”, la
definizione scelta allora da Levi, il testo del 1945 si presenta,
sottolinea Fabio Levi, con una «intonazione impersonale e
generalizzante». Ma proprio per i toni scarni, oggettivi, con cui
vengono raccontati lo sterminio, le malattie degli internati e il
funzionamento delle camere a gas, testimoniato più esplicitamente che
inSe questo è un uomo,conserva una grande efficacia. Basta un frammento
per rendersene conto: «Entrate tutte le persone nella camera a gas, le
porte venivano chiuse (esse erano a tenuta d’aria) e veniva lanciata,
attraverso le valvole del soffitto, una preparazione chimica in forma di
povere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di
latta; queste portavano un’etichetta con la scritta “Zyclon B”».
Eppure
quando Levi, ritornato a Torino, ne consegnò una copia all’Ufficio
storico del Comitato di Liberazione, ilRapporto venne archiviato tra i
documenti sulle generiche «atrocità fasciste». Dello sterminio, nota
Fabio Levi, non si seppe cogliere al tempo «né la specificità né la
reale dimensione».
La Stampa 6.11.13
Primo Levi la grammatica del genocidio
Anteponendo l’identità ebraica all’esperienza partigiana ha anticipato la scoperta storiografica della Shoah
di Anna Bravo
qui
La Stampa 6.11.13
Schrödinger, il fisico seduttore che mise il gatto in scatola
Una biografia dello scienziato Nobel nel 1933
Passionale e dongiovanni ideò un esperimento mentale che scosse le basi della meccanica quantistica
di Piero Bianucci
qui
magistrato, catto-comunista “marxista ratzingereiano”. Con Tronti e Vacca
Corriere 6.11.13
Pietro Barcellona pensatore inquieto
di Emanuele Severtino
In
occasione dei funerali di Pietro Barcellona, il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio di cordoglio che
tra l’altro diceva: «La sua forte ed originale intelligenza e cifra
culturale, la sua serietà di studioso, la sua passione politica ricca di
valenze utopiche ne hanno fatto un protagonista di rilievo della vita
culturale italiana e della dialettica di posizioni ideali caratteristica
della sinistra, e segnatamente del Partito comunista italiano».
Pietro
è morto la sera del 6 settembre scorso: aveva 77 anni. Membro del
Consiglio superiore della magistratura e deputato del Partito comunista
italiano, aveva diretto, succedendo a Pietro Ingrao, il Centro per la
riforma dello Stato, quel Centro che, ha detto Napolitano nel suo
messaggio, era stato la sua «casa». E sin da giovanissimo era stato
professore ordinario di Diritto privato e di Filosofia del diritto in
diverse università. Napolitano ricorda la «particolare sensibilità e
mitezza umana» di Pietro; io ricordo anche il suo energico spirito
ironico e la sua penetrante intelligenza. Un esempio ben visibile, lo
scorso anno, un suo formidabile intervento alla trasmissione televisiva
Otto e mezzo .
A fine maggio mi aveva scritto di essere ricoverato
in ospedale in seguito ad un intervento d’urgenza. Sperava di essere in
via di guarigione e che nel frattempo io avessi ricevuto Parolepotere —
il suo penultimo libro, bellissimo (Castelvecchi, pagine 184, e 22).
«Come sai — mi diceva affettuosamente — ci tengo molto alla tua
opinione. Ti allego un testo, che ho preparato sulla base della
relazione del convegno dello scorso anno, in cui ancora una volta mi
confronto con il tuo pensiero. Spero tu possa gradirlo». Questo testo
(da lui intitolato Severino: gli abitatori del tempo ), è uscito nello
scorso agosto col titolo L’Occidente tra libertà e tecnica (Saletta
dell’Uva, pagine 63, e 10). Il suo ultimo libro.
In esso, Pietro non
sviluppa soltanto quanto egli aveva detto in quel convegno, che
l’Università di Venezia mi aveva dedicato, ma anche la «lunga e intensa
conversazione» che in quel periodo avevamo avuto a casa mia a Brescia.
«Ho sempre vissuto i nostri incontri — scrive — come una decisiva messa
alla prova della mia capacità di contenere le domande sulle cose ultime
della nostra esistenza».
Eppure mi sembra che in queste sue ultime
pagine egli sia riuscito a liberarsi — sia pure sul piano psicologico,
emozionale (al quale egli dava però molta importanza) —
dall’inquietudine che le mie pagine gli procuravano, come anche Cacciari
ha recentemente ricordato illustrando la complessità delle prospettive
culturali del nostro comune amico.
Mi riferisco alla sua
«conversione» al cristianesimo. La quale non ha per niente intaccato, ma
anzi rafforzato la sua critica al capitalismo e allo scientismo. E
infatti, in un articolo sull’«Unità» lo scorso anno, aveva scritto che
«solo il discorso di Cristo si può opporre al “nichilismo biologico”
dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della
condizione umana» — lo scientismo, come l’individualismo della società
capitalistica. E proprio il suo ultimo libro è tutto volto a sostenere
che, nonostante le differenze, il mio discorso filosofico può essere
ricondotto al nichilismo e al determinismo fatalistico delle
neuroscienze, ossia a quella dimensione sulla quale Cristo gli era
apparso indubitabilmente vittorioso.
Non è questo il luogo dove
prolungare la nostra discussione. Anzi, mi è caro pensare che, con
queste sue convinzioni, Pietro si fosse un po’ liberato
dall’inquietudine, peraltro fecondissima, che lo aveva sempre
accompagnato — mentre l’Immenso che lui non sospettava stava
attendendolo; come attende ogni uomo.
La Stampa 6.11.13
Edward Munch in mostra a Genova
Un anarchico in rivolta contro il passato
Il curatore Marc Restellini: “Stupefacente l’audacia nello sperimentare tecniche e supporti”
di Francesco Poli
qui
La Stampa 6.11.13
Non solo angoscia nei suoi dipinti
120 opere tra incisioni e tele ripercorrono la carriera e la vita del genio norvegese a 150 anni dalla nascita
di Fiorella Minervino
qui
Corriere 6.11.13
Munch
Sussurri e grida
Non solo tormento, ma intimi ritratti, quiete e vedute I temi a lui più cari
di Francesca Montorfano
Nella
sua vita Edvard Munch ha prodotto un impressionante numero di opere,
centinaia e centinaia di dipinti, migliaia di lavori grafici. Eppure a
legarsi indissolubilmente al suo nome, a dargli notorietà planetaria, è
stato un capolavoro in particolare, quell’«Urlo» assurto a emblema
dell’angoscia del mondo, ma poco rappresentativo dell’insieme della sua
arte, cliché troppo facile, troppo scontato, che cela la dimensione più
profonda, più autenticamente all’avanguardia del suo messaggio.
Sicuramente
la vita del grande pittore norvegese è stata segnata da sofferenze, da
lutti e tragedie, la perdita della madre a soli cinque anni, l’agonia
della sorella consumata dalla tubercolosi, le proprie ossessioni, a cui
si aggiungeranno le suggestioni culturali della letteratura nordica
dell’epoca, i drammi di Ibsen e di Strindberg, la filosofia
esistenzialista di Kierkegaard, le nuove ricerche psicoanalitiche di
Freud che indagheranno le pulsioni più oscure dell’uomo. «La malattia,
la follia e la morte sono gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia
culla», scriverà. Eppure la sua arte è andata oltre, è stata molto di
più, anche quiete e silenzio, anche limpide vedute norvegesi e paesaggi
al chiaro di luna, anche case rosse e giardini o ritratti colti nella
loro essenza più intima.
«I miei quadri sono i miei diari», amava
dire. E così oggi a celebrarne i 150 anni dalla nascita, a raccontarne
un volto forse meno noto, ma certo più sfaccettato, più vero, è
l’importante rassegna di Genova, curata da Marc Restellini, direttore
della Pinacothèque de Paris. «È un’insolita autobiografia per immagini
quella che ci accoglierà nelle sale di Palazzo Ducale, un percorso che
toccherà tutti i temi più cari all’artista, mettendone in luce la
capacità di rivoluzionare ogni forma espressiva, di rompere con ogni
convenzione o movimento artistico, segnando il passaggio da un
naturalismo ancora impressionista a una pittura nuova, audace, che saprà
dar vita alla realtà interiore dell’uomo, aprendo la strada
all’espressionismo e ai nuovi traguardi del Novecento», spiega
Restellini.
«Pittore, ma soprattutto grande sperimentatore, Munch ha
voluto confrontarsi anche con la litografia, la xilografia,
l’illustrazione e il collage, superando i confini tra tecniche e
supporti. Autentico innovatore, è stato tra i primi a intuire le
possibilità della fotografia e del cinema nell’arte, trasferendo le
proprie ricerche alle incisioni e ai dipinti, inserendovi foto e
fotogrammi di film muti, mostrando un’attenzione nuova anche alla resa
del movimento». Le opere in mostra, quasi tutte provenienti da
collezioni private, sono tra le più «sentite, amate e sofferte»
dell’artista. Quelle che aveva sottoposto per mesi alla sua famosa «cura
da cavallo», alla pioggia, alla neve e al gelo degli inverni norvegesi e
che avevano superato la prova, dimostrando come anche le intemperie
facessero parte del processo creativo, ne fossero anzi la fase finale.
A
lungo la pittura di Munch è stata incompresa. A Parigi, dove si reca
nel 1885 e guarda con interesse a Gauguin, a Van Gogh o
Toulouse-Lautrec, la sua prima mostra si rivela un insuccesso. E così
quella berlinese del 1892, che scandalizza a tal punto l’opinione
pubblica per i colori contrastati e irreali, le allusioni erotiche, le
figure dai lineamenti stravolti dall’angoscia, da venir chiusa dopo una
settimana. Bisognerà aspettare i primi anni del Novecento perché la sua
opera venga accettata, anche se la fama, le committenze e i
riconoscimenti sempre più prestigiosi non gli eviteranno un ricovero in
una clinica per malattie nervose e lunghi anni di solitudine nella
tenuta di Ekely, dove si ritira, prendendo le distanze dal mondo, ma
continuando a dipingere e a sperimentare, a rielaborare in un numero
infinito di varianti quelle inquietudini, quelle passioni impossibili
che sono state il leit-motiv della sua vita.
A parlare di Munch
saranno così «The Sick Child» («La bambina malata»), inesausta immagine
della memoria e matrice stessa della sua arte, «Bathing Boys», con i
primi, sofferti turbamenti della pubertà, o «Jealousy II», con la sua
livida atmosfera, ma soprattutto quelle sue figure femminili sensuali e
provocanti, angeli e demoni insieme, che rivelano tutta l’impotenza
dell’uomo in bilico tra pulsione sessuale e distruzione, la «Madonna»
del 1896 con il mistero del concepimento e della nascita e il suo
opposto, quel «Vampire II» assetato di sangue. Ma altre ancora sono le
tessere che andranno a completare il mosaico. Quelle opere dove la sua
tavolozza si fa più chiara e luminosa, dove gli incubi appaiono lontani,
i paesaggi con la cascata, il sereno ritratto di Inger, le decorazioni
per la casa di Max Linde, le tre fanciulle sul ponte.
Corriere 6.11.13
Le mie tele esposte a sole e neve giusto che soffrano come me
Che tensione in quelle crepe che la caseina provoca nella pittura
di Francesca Bonazzoli
Ormai
non desidero nulla. L’unico mio interesse è da tempo la pittura. Ho
reciso i legami con la vita e l’arte è la mia sola esperienza. Dipingo
quadri perché è quello che mi è stato chiesto. Nietzsche ha scritto che
l’artista non è che uno strumento di Dio, come l’archetto nelle mani di
un violinista. Il mio compito è dunque quello di essere uno strumento
efficiente e malleabile nelle mani del grande Artista. In cambio delle
tele che dipingo mi è stato chiesto di rinunciare alla vita, all’amore e
alla gioia. Ne proverò solo lo struggente desiderio, ma non potrò mai
viverle: questo è il patto che Dio ha stretto con me. Ma non è una serie
di quadri che sono stato chiamato a dipingere; piuttosto, la richiesta
riguarda il come li dipingerò. Per essere l’archetto di Dio dovrò
cercare i suoni più adatti affinché la Sua creazione si compia.
Anni
fa avevo appena finito di dipingere La bambina malata, un quadro dove
avevo rievocato dalla memoria tutto il dolore per la morte di mia
sorella Sophie, e sono certo che difficilmente un altro pittore ha
provato fino all’ultima goccia il dolore del proprio soggetto come è
successo a me. Fu allora che presi un coltello e cominciai a ferire la
tela. Grattai via il colore che avevo steso, volevo arrivare a graffiare
la tela fino a renderla uguale al mio cuore. Ho inflitto alla tela le
stesse torture che Dio infligge a me. Avevo solo quattordici anni quando
vidi la mia amata sorella cominciare a deperire, diventare ogni giorno
più pallida e stanca fino a che, una mattina, la trovai morta.
Tubercolosi: la stessa malattia che aveva portato via anche mia madre,
quando avevo cinque anni. Io chiamo il nostro tempo l’«epoca dei
cuscini» perché in ogni casa si trovano bambini malati, sorretti da
bianchi cuscini. Ognuno di noi ha avuto un padre, una madre o un
fratellino malato di tubercolosi. E cosa fa questa malattia? Come un
insetto scava profonde caverne dentro i polmoni, li smangia poco per
volta e i malati, con la tosse, ne tirano fuori il sangue. E chi
permette che così tanti bambini rimangano esposti, inermi, a questo
sterminio? Se è Dio colui che ci ha dato il sole, il sorriso e la gioia
perché non dovrebbe essere lo stesso Dio che ci ha dato la tubercolosi?
Ecco, io ho capito che dovevo fare lo stesso con le Sue pitture. Io
lascio le tele che dipingo accatastate l’una sull’altra nello studio,
lascio che chiunque le calpesti; le butto fuori, inermi, all’aria
aperta, sotto il sole o sotto la neve, la pioggia, gli escrementi di
uccelli. Gli insetti le mangiano e le bucano per scavarci una tana come
la tubercolosi nei polmoni. Io penso con sadismo che questo trattamento
possa fare loro del bene. Un buon quadro deve sopportare molte cose.
Come noi. E spero che queste tele, sballottate qua e là, siano come un
veliero in avaria che finalmente, dopo trent’anni di vita vagabonda, con
metà dell’attrezzatura strappata dai marosi, raggiunge una qualche
specie di porto. Quando sono insoddisfatto di un lavoro, lo lascio per
settimane fuori, esposto alle intemperie perché così Dio fa con me. Dio
non ci ha forse dato le tempeste nei mari, la siccità e i ghiacciai
eterni, il dolore, la gelosia, la solitudine di chi ama? Un po’ di sole,
di sporco, di pioggia e qualche buco non possono che far del bene alle
mie tele. La superficie liscia della pittura a olio mi irrita, così come
il colore lucido delle vernici. Non è un’esistenza patinata quella che
io vivo. Molti collezionisti, anche i più intelligenti, mi rimandano
indietro i quadri dicendo che hanno dei buchi o che sono sporchi. Altri,
addirittura, li verniciano per proteggerli dalla patina del tempo. Io
inorridisco e se è per questo non vorrei nemmeno mai separarmi dalle mie
tele: sono pezzi della mia carne, non della mia psiche. Siccome io sono
l’archetto di Dio e attraverso l’attrito dei miei crini tesi sulle
corde di budello Lui produce la Sua musica, quei quadri sono realizzati
tendendo la mia carne come il violinista gira la vite dell’archetto per
tirare i crini. Senza paura e malattia, la mia vita sarebbe una barca
senza remi e io devo essere fedele a questo dolore, come il musicista
allo spartito del compositore. Per ottenere le Sue immagini dolorose,
asciutte e opache, ho provato anche con la caseina: quando si asciuga,
sulla superficie della tela si crea una tensione così forte che il
colore si fessura in mille crepe. Ho provato con l’olio molto diluito
nella trementina e ho ottenuto un pigmento così liquefatto che
sgocciolava lungo la tela, senza controllo, proprio come l’angoscia.
Altre volte ho spruzzato il colore direttamente sulla tela.
Mi sono
anche fatto aiutare da un anestesista e da un chirurgo per trovare un
legante con cui mescolare i pigmenti in modo da renderli simili alla mia
devastazione. Ho eliminato l’imprimitura e alla fine, dopo mille
violenze, ho capito che l’aiuto mi sarebbe venuto abbandonandomi alla
Natura. Sarebbe giunto direttamente dalla pioggia, dal sole, dalla neve,
dal ghiaccio, dalle tempeste, dallo sterco degli uccelli, dai buchi
degli insetti. Dalla stessa violenza degli elementi cui noi uomini siamo
sottoposti. Attraverso l’intimo intreccio tra artista e Natura: è così
che Dio fa suonare il suo archetto.
Corriere 6.11.13
«Noi, il popolo che rende poetica la solitudine»
di Roberta Scorranese
«Curioso:
è stato un italiano a rivelarmi uno degli aspetti più interessanti
dello spirito norvegese». Già: nel 1988, guardando in tv un documentario
sulla Norvegia firmato da Giorgio Manganelli, Siri Nergaard (docente
della lingua di Oslo all’università di Firenze e ormai da 25 anni in
Italia), rimase colpita da un’osservazione dello scrittore. «Lui parlò
di noi come di un popolo alla continua, costante, ricerca della
solitudine. Non di paura, dunque, ma di amore per la solitudine, come se
avessimo il dono di riconoscere valore in questo stato d’animo spesso
demonizzato dalla cultura mediterranea».
Che fosse questo uno dei
tratti più sottili e impenetrabili di Munch e della cultura scandinava
in generale? Che fosse questo l’istinto che condusse il pittore a
realizzare quell’«urlo che attraversava la natura» udito all’improvviso,
in tutta la sua forza? «Riflettiamo — afferma Nergaard —: il mio Paese
incarna una profonda concezione dell’uguaglianza. Derivante dalle
convinzioni protestanti: siamo tutti uguali davanti a Dio, quindi siamo
tutti uguali davanti all’assoluto, alle grandi domande. Poi però ci sono
queste scelte individuali, molto soggettive, come, appunto, l’Urlo».
Più vicino allo svedese Bergman (specie quello di «Persona»), dunque,
che a Ibsen (drammaturgo in cui l’interazione sociale è molto
importante, in cui i personaggi si rapportano continuamente con
l’alterità). «Anche scendendo nel dettaglio pratico — ricorda Nergaard —
in Norvegia e nei Paesi del nord la ricerca di una casa isolata, al
mare o in montagna, è una prassi comune. La solitudine non è vista come
una cosa negativa, ma un’occasione: per stare da soli davanti
all’immenso e non guardarlo con gli altri».
Si spiega così un altro
aspetto importantissimo nella poetica munchiana e, dunque, anche dei
suoi compatrioti: l’amore per i viaggi, per l’allontanarsi come medicina
contro l’immobilismo e il terrore di restare inchiodati in un posto,
costretti in uno spazio (i suoi problemi psichici hanno spesso indotto
il pittore a sottoporsi a cure drastiche). Forse è anche per questa
propensione alla ricerca interiore, a un silenzio velato di pudore che
il Paese è rimasto attonito davanti alla tragedia di Oslo, quando, il 22
luglio 2011, Anders Breivik compì due feroci attentati contro civili.
«Non
si era mai vista una cosa simile nel nostro Paese — dice Nergaard —: è
stato come perdere l’innocenza. Non è un linguaggio che ci appartiene:
la nostra è una cultura in fondo semplice, rigorosa, fatta di silenzi,
come le nostre pianure. Scoprire che siamo capaci di parlare questa
lingua è stato un trauma». Come se in un Paese attentissimo all’aspetto
sociale (la Norvegia è il miglior posto al mondo dove essere madri,
stando al Mothers’ Index di Save the Children e possiede un ramificato
sistema di tutela dei minori) si fosse scoperto un baco.
«Noi siamo
come le nostre terre: poco popolate ma gelose di un equilibrio segreto —
continua la professoressa —. A tal proposito è molto importante il
nostro rapporto con la natura: anche qui siamo senza mediazioni di
fronte a essa. Caratteristica che si ritrova in autori contemporanei
come il premio Nobel Hamsun o in Tarjei Vesaas».
E, ancora una
volta, è un autore italiano che Nergaard cita quando pensa alle
influenze di Munch sulla cultura mediterranea: «Mi ricorda Gianni Celati
— conclude — con queste pianure infinite, questo rapporto stretto con
gli elementi e una certa solitudine popolata , come se fossimo soli, sì,
ma sempre in compagnia di un mondo nascosto».
Corriere 6.11.13
Il nostro «urlo» e quel parapetto che ci sostiene
di Giovanni Montanaro
La
storia la racconta Munch. È il 1892, si fa sera, il pittore cammina con
degli amici su un ponte di Oslo. Il tramonto è rosso, luminoso.
Chiacchierano, scherzano, organizzano una bevuta. Poi gli succede
qualcosa, una vertigine. È stanco, si appoggia al parapetto. Vede fuoco,
sulle case e nell’acqua, e sangue, che piove dalle nuvole. E,
soprattutto, sente; improvviso, sonoro, un urlo. Munch ne è sconvolto,
cerca di raccontare quel boato; ne fa una figura umana, le dà un
confine, anima e ossa di pasta gialla, ma lo sfondo viene spazzato dal
suono, diventa onda che propaga. Tutto è urlo. Non è solo un’immagine,
per lui. È una presenza costante, un’ossessione; riprende quel soggetto
quattro volte, ne fa decine di litografie. Quel che si può dipingere,
raccontare, dire, ha un volto, si può combattere.
Che quel fantasma
sia diventato un’icona del Novecento, è ovvio. Che sia andato da Andy
Warhol a Homer Simpson, dalle magliette ai gadget, è un’altra forma di
esorcismo. L’abisso lo tappa solo il gioco, l’ironia. È che ognuno ha il
suo urlo, e spesso ha anche quello di qualcun altro, e qualche volta
non l’ha sentito in tempo. Ma quell’immagine ha dentro tutto, non solo i
destini singoli: ci sono le maschere a gas delle guerre e i lutti che
ci portiamo da soli negli autobus, le notti in cui ci ha svegliato il
terremoto e quelle in cui l’ansia non fa dormire, i disastri nucleari e
la violenza di cui non pensavamo di essere capaci, gli amori che si
rompono, i dolori che straripano, il vuoto che lasciano spesso i
ricordi, i bambini che vogliamo proteggere.
Ma siamo vivi. E così è
giusto farne un portachiavi o incollare su un poster la faccia di un
amico. No, non ci fa paura, la paura. E, per essere onesti, se si
osserva bene quella bocca spalancata, quelle mani che fanno da cassa
armonica, viene da pensare che un urlo così forte noi non l’abbiamo mai
fatto. E se è accaduto, una volta o due nella vita, ce ne siamo pentiti,
o, anzi, per una volta ci siamo sfogati. Ma, anche se non l’abbiamo mai
fatto, quell’urlo ce l’abbiamo dentro, risale per la gola, si ferma
dietro le labbra, tante volte sembra l’unica cosa sensata da dire.
Eppure, poi, non esce. Perché? Nella tela di Munch, l’unica cosa dritta,
che il suono non storce, è il parapetto del ponte, lì dove il pittore
si è appoggiato; se non ci fosse stato quello, sarebbe caduto. Sì, ci
viene spesso voglia di urlare, mollare tutto, ma poi sappiamo che, da
qualche parte, c’è qualcosa, qualcuno, c’è il nostro parapetto.
Repubblica 6.11.13
Munch
La vera arte di dipingere l’abisso (e basta Urlo)
Al Palazzo Ducale di Genova 80 opere del pittore norvegese a 150 anni dalla nascita
Lo scopo è di presentare un aspetto inedito e più intimo del maestro con lavori poco noti
di Lea Mattarella
GENOVA
«L’uomo che vi presentiamo oggi non è quello che credete». È con questa
affermazione del curatore Marc Restellini che va visitata la mostra
Edvard Munchaperta a Genova a Palazzo Ducale da oggi al 27 aprile 2014.
Una
frase che rivela l’anima di questa esposizione: presentare un aspetto
inedito e più intimo del pittore norvegese, icona di una pittura vissuta
nel segno del dolore, dell’angoscia, dell’Urlo, interprete di un’«arte
che si nutre del sangue dell’artista», per dirla con le sue parole.
Questa rassegna si presenta proprio come “Anti-urlo”, come già era stata
quella curata da Restellini alla Pinacoteque de Paris nel 2009. Mira a
rompere quel processo di identificazione avvenuto nel corso del tempo
tra Munch e il suo quadro più celebre. Tra le 80 opere raccolte in
quest’occasione l’Urlo non c’è, se non nella versione che ne dà Andy
Warhol, protagonista di una piccola mostra nella mostra. E il visitatore
è pregato di distrarsi da quella figura che grida sul ponte coprendosi
le orecchie con le mani, per un viaggio alla scoperta di dipinti e
lavori grafici di Munch, in gran parte poco conosciuti al pubblico
perché conservati in collezioni private. Un esempio è quello
dell’inedita raccolta Linde, l’oculista che ospitò il tormentato pittore
a Lubecca nel 1904.
Questo Munch segreto e autentico ci viene
raccontato in otto sezioni che attraversano la sua storia pittorica che è
anche storia esistenziale («i miei quadri sono i miei diari»). Ne
emerge un pittore profondamente innovativo, capace di sperimentare
tecniche e soluzioni formali sempre differenti, pur nella continuità di
temi che spesso sono una vera e propria ossessione. Sono innumerevoli le
versioni che realizza delle sue opere più celebri. Le dipinge, le
disegna, le incide. «Se riprendo più volte un tema – ha detto – è per
calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un
unico dipinto. Ogni versione rappresenta un contributo al sentimento
della mia impressione». Nascono così i fantasmi che popolano i suoi
quadri, gli spettri di una psiche difficile da governare che ha uno
stretto legame con i personaggi letterari di Strindberg e di Ibsen e, se
vogliamo riconoscergli uno sguardo sul futuro, con il mondo nordico di
Ingmar Bergman.
«Nella mia casa d’infanzia – ha scritto Munch –
abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di
allora... Così vissi coi morti». Ed ecco nelle prime sale i suoi esordi
da pittore, quando esce da quell’abitazione in cui erano scomparsi la
mamma e la sorellina di tisi, un fratello per annegamento e dove una
delle sorelle soffriva di crisi psichiche, per dipingere il paesaggio.
Inizialmente lo fa in maniera naturalistica ma, quasi immediatamente,
gli è chiaro che deve abbandonare la pittura oggettiva per far entrare
nel quadro prepotentemente la soggettività del suo vedere e del suo
sentire. «Scrivi la tua vita», era stata l’esortazione dello scrittore
anarchico Hans Jaeger, animatore della bohème di Christiana (l’attuale
Oslo), città dove Munch si era trasferito con la sua famiglia nel 1864,
un anno dopo la nascita. Legato a questo mondo di artisti e letterati
Munch inizia così la sua vertiginosa discesa dentro se stesso. E
dalGiardino con casa rossa,dai dipinti influenzati dall’impressionismo,
grazie a due soggiorni in Francia nel 1889 e nel 1892, si giunge alla
sala che raccoglie le “Incisioni dell’anima”. E va ricordato che la
grafica era un’espressione fondamentale per Munch che a volte viveva il
quadro come una preparazione alle sue stampe.
L’Autoritratto del 1895
è già una dichiarazione di poetica: Munch si scruta, si indaga, si
mette a nudo. «La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché
non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia
culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere».
Tutta la sua pittura va letta quindi in chiave esistenzialista. Ecco le
Madonne,
iVampiri. Sono la sua lettura del femminile: figure che succhiano il
sangue, il cui abbraccio è una morsa che risucchia l’uomo in un nulla
senza scampo. Una di questeMadonne, Jaeger l’aveva appesa nella sua
cella del carcere quando fu arrestato per la spudoratezza del suo
romanzo autobiografico. È un’opera che mette in scena la profondità del
rapporto tra il piacere e il dolore, tra la vita e la morte. «La donna
che offre se stessa e raggiunge la bellezza dolorosa di una madonna –
Tutta la mistica dell’evoluzione concentrata in un solo essere – La
donna nella sua multilateralità è un mistero per l’uomo – La donna che è
una e contemporaneamente è una santa e una puttana, una creatura
infelice e abbandonata». Questo era il suo pensiero, la sua idea della
donna e dell’eros che lo attraeva e lo spaventava. Sempre con quel
chiodo fisso che il suo patrimonio genetico fosse minato da malattia e
morte e quindi senza la possibilità di unirsi per sempre a qualcuno per
creare una discendenza. La tragica fine della sua relazione con Tulla
Larsen con un colpo di pistola che gli causa la parziale perdita di un
dito è la metafora dell’impossibilità di Munch di completarsi con
l’altro da sé. Le sue Madonne sono circondate da spermatozoi e da
embrioni che hanno già la morte stampata sul corpo ancora in formazione.
Nelle sale dedicate all’universo femminile c’è un mondo di attrazione,
gelosia, chiome «come pioggia di sangue versato a torrenti
sull’insensato che cerca la divina sventura di essere amato».
Ma la
mostra ci conduce anche alla scoperta della natura vista con gli occhi
di chi la considerava «un mezzo e non un fine», luoghi in cui può
capitare, magari solo per un attimo, anche di essere felici. La natura è
mezzo anche pittorico. Munch appendeva i suoi quadri agli alberi, li
lasciava nella neve, diceva che il colore aveva bisogno di sole, di
sporco, di pioggia. Così li faceva partecipare al corso della vita, li
vedeva invecchiare come fossero persone. Ci sono anche le sue
fotografie, scatti sfuocati, senza centro, un’ulteriore indagine per
arrivare alla verità. Lui le chiamava “fotografie fatali”. E poi ci sono
i suoi superbi ritratti che scavano l’anima del personaggio. «La
seconda condizione per un ritratto è che esso non somigli al modello, la
prima è che l’arte è arte».
Repubblica 6.11.13
Il teatro dell’anima all’incrocio dei secoli
Strindberg e Ibsen, Kierkegaard e Nietzsche: così sì è formato un grande artista
di Franco Marcoaldi
Come
una mela tagliata a metà, la vita di Edvard Munch si divide tra gli
ultimi quarant’anni dell’Ottocento e i primi quaranta del Novecento
(1863-1944). Dei due secoli in cui vive, l’artista condensa in sé lo
spirito in modo esemplare: nasce naturalista, salvo incrociare ben
presto il simbolismo; segue le tracce impressioniste, per farsi
poiantesignano del modernismo espressionista.
Certo, le tragiche
vicende familiari offrono un timbro indelebile alla sua arte: a cinque
anni Edvard perde la madre e a dodici la sorella maggiore Sophie
(variamente raffigurata in celebri quadri), mentre un’altra sorella
(Lara) è affetta da una grave depressione. Lui stesso, del resto, grande
consumatore di alcol e soggetto a reiterati stati di allucinazione,
conosce la malattia mentale e la paranoia, al punto che nel 1908 è
costretto a una degenza di otto mesi nella clinica psichiatrica del
dottor Jacobsen, a Copenaghen.
Eppure, il cliché dell’artista
maledetto non gli si attaglia. Munch, tanto per dirne una, è quanto mai
accorto nel rapporto con i mercanti e gestisce con oculatezza il suo
patrimonio artistico. Così, se è vero che la sua vita può sembrare
quella di un uomo braccato, affetto da misoginia e capace di collere
inaudite che lo spingono a rotture improvvise e a successivi, lunghi
periodi di isolamento, è altrettanto vero che Edvard viaggerà molto e
conoscerà molte persone. Forse, allora, bisognerebbe provare a
rovesciare la prospettiva: riconoscendo che se la cifra principale della
sua arte resta quella dell’inquietudine, dell’angoscia, del
fantasmatico, essa risulta tanto più efficace perché il “teatro
dell’anima” a cui dà vita nasce sì da un’esperienza soggettiva e
incarnata, ma si incrocia in modo quanto mai fertile con la temperie
culturale circostante. Il poeta danese Emanuel Goldstein apprezza la sua
opera e lo introduce al simbolismo, mentre Edvard familiarizza con il
pensiero di Swedenborg e Schopenahuer. L’amico Hans Jaeger gli fa
conoscere l’opera di Kierkegaard; e sempre per restare in ambito
filosofico, nel 1905 dipingerà un famoso ritratto di Nietzsche, al cui
pensiero è fortemente interessato quel Frederick Delius,compositore
inglese, che il pittore norvegese aveva frequentato con profitto nel
soggiorno parigino del 1896. «Si è detto che bisognerebbe comporre
musica sulla pittura di Munch per interpretarla adeguatamente»,
riconosce Strindberg in un breve e fulminante scritto pubblicato in
occasione della mostra tenuta alla galleria Art Noveau di Parigi.
E
giusto a proposito di Strindberg, come dimenticare la fertilissima
collaborazione di Munch con la grande drammaturgia nordica? Con il nuovo
teatro da camera di Max Reinhardt, fondatore del Berliner Kammerspiele?
Non si tratta soltanto di pur importanti scenografie, a partire da
quella per gli Spettri di Ibsen. Il riflesso pittorico di un’idea
teatrale volta a favorire l’intimità con lo spettatore è immediatamente
riscontrabile in altrettante tele raccolte in spazi chiusi ritmati da
una precisa drammaturgia (basti, per tutti, il celebreLa morte nella
camera della malata). Senza contare, via via che passano gli anni, l’uso
deformante del grandangolo fotografico e l’avvicinamento al cinema,
nella convinzione di dover imprimere alla propria pittura un ulteriore
cambio di passo, in direzione di un dinamismo talmente irruente da
spingere il soggetto fuori dalla tela. A contatto diretto con
l’osservatore.
Se si mettono assieme tutti questi elementi, e si
aggiunge poi la pratica del quadro “non finito”, il ritorno ossessivo
sullo stesso soggetto, il confronto con i nuovi media (radio, cinema,
riviste illustrate, cartoline postali), si finisce per riconoscere nella
lunga battaglia interiore di Munch, nello sfiancante corpo a corpo
intrapreso con la propria anima, un’eco quanto mai significativa del più
generale tragitto artistico, letterario e filosofico otto-
novecentesco.