giovedì 17 ottobre 2013

il Fatto 17.10.13
Costituzione, voto il 23
“Gasparri censura Fo”

Colpo di mano rinviato, di una settimana. La maggioranza che dà l’assalto alla Carta voleva chiudere in Senato ieri, votando in seconda lettura il ddl costituzionale 813-b, che stravolge l’articolo 138 e affida a 42 parlamentari il potere di riscrivere metà delle norme. Nella conferenza dei capigruppo i partiti di governo avevano chiesto il contigentamento dei tempi. Espediente per aggirare l’ostruzionismo in aula dei 50 senatori di Cinque Stelle e dei 7 di Sel, iscrittisi tutti a parlare con discorsi da 20 minuti ciascuno. Ma il presidente del Senato Pietro Grasso ha ascoltato l’opposizione, fissando il voto sul ddl per mercoledì prossimo. “Erano disposti a votare anche all’alba, pur di chiudere” racconta Loredana De Petris (Sel). In aula, discussione sino a sera inoltrata. Marton (M5S) ha provato a far sentire dal microfono una dichiarazione di Dario Fo contro la riforma, registrata con il telefonino. Gasparri l’ha bloccato: “Non è permesso dal regolamento”. Matron ha comunque letto le parole di Fo, che (tra l’altro) afferma: “Abbiamo sempre detto che la nostra è la Costituzione più bella del Mondo ed ecco che all'improvviso qualcuno vuole cambiarla perché, dicono, in quel testo ci sono delle incongruenze e degli errori e, guarda caso, sono gli stessi che hanno voluto e imposto le leggi ad personam”. Un altro M5S, Vito Petrocelli, ha citato un discorso di Napolitano del 2008: “Sono convinto che ripercorrere la strada di una riscrittura della seconda parte della Carta sarebbe velleitario e dannoso”. L’attuale ddl vuole riscrivere quasi tutta la seconda parte.

l’Unità 17.10.13
Redditi e lavoro la svolta non c’è
di Rinaldo Gianola


Miracoli non se ne vedono, c’è solo qualche effetto speciale. In un Paese che viene da sei anni di recessione, con i conti strozzati da manovre e da vincoli europei, e un governo retto da una maggioranza improbabile che si prepara all’ultima rissa scatenata da un pezzo del Pdl, la legge di Stabilità non poteva forse essere diversa da quella messa in campo da Enrico Letta.
Eppure, proprio perchè l’Italia delle famiglie, del lavoro, delle imprese è stremata da una lunga crisi, viene da sacrifici enormi e spesso ingiusti, c’era una grande, attesa, anche una forte speranza, forse un’illusione, che proprio questo strano governo potesse dare un segnale di svolta, imprimere un’accelerazione a quei timidi segni di ripresa che per le nostre debolezze strutturali rischiamo di perdere. Le legittime, comprensibili aspettative degli italiani devono però tenere conto delle compatibilità politiche ed economiche. E qui arrivano i guai. Nelle proposte del presidente del Consiglio c’è dentro poco che possa far parlare di un cambiamento, di una spinta alla ripresa, che possa dare davvero una mano a chi sta peggio. Si sentono i messaggi, i rimproveri di Bruxelles, i diktat della Merkel. Siamo tutti contenti perchè rispetteremo i vincoli europei, perchè il tetto del 3% non sarà sfondato. Ma non può bastare. Non basta certo nelle condizioni in cui siamo. È vero: non si tocca la sanità ed è un miracolo rispetto a quanto accaduto negli ultimi anni, la pressione fiscale tende a scendere di un punto nel prossimo triennio, c’è un flebile allentamento del patto di stabilità dei comuni che dovrebbe liberare qualche risorsa da investire. E poi? E poi, diciamo la verità, si vede poco o nulla.
Non ci sono brindisi e cotillon perchè soldi non ce ne sono e questo lo sapevamo. Si potevano andare a cercare con una patrimoniale, come suggeriscono anche formidabili miliardari americani. Invece niente, per carità. Ma quelli che hanno patito in questi anni gli effetti più duri della recessione non vedono la luce in fondo al tunnel. Lavoratori e pensionati hanno perso potere di acquisto, il reddito medio delle famiglie è tornato indietro di un paio di decenni, i consumi sono in caduta verticale da anni, abbiamo smarrito per strada un quarto della produzione industriale, un terzo dei giovani in età di lavoro non trova occupazione e di fronte a questo tsunami bisognerebbe forse lanciare gridolini di gioia per i 10 miliardi e passa destinati a ridurre il cuneo fiscale? Non ci siamo, soprattutto è sembrato che il governo, forse proprio per la sua inusuale composizione politica, volesse accontentare un pò tutti senza però avere in mano un vero tesoro da spendere. C’è un’impostazione un pò democristiana: vogliamoci bene, abbiate pazienza perchè siamo in crisi e ne usciremo insieme, sembra voler dire il governo. Ma non è così.
Ci volevano scelte più decise. Ad esempio quei 10 miliardi del cuneo in tre anni, divisi tra lavoro e imprese, che si concretizzano in un possibile “premio” di 14 euro al mese per i lavoratori dipendenti (e se poi qualcuno s’arrabbia? Difficile stare buoni confrontando questo sgravio con certe vergognose retribuzioni di conduttori tv e liquidazioni miliardarie di top manager) perchè non sono stati tutti messi da una sola parte per avere effetti più sensibili? Ci sarebbero state polemiche e proteste, ma almeno sarebbe stata una scelta chiara, più coraggiosa. Perchè invece del cuneo, non mettere tutti i fondi in un piano del lavoro pluriennale? Sarebbe stata una novità sostanziale, avrebbe avuto, crediamo, anche un effetto sensibile sull’opinione pubblica. Non convince, poi, l’ennesimo blocco dei contratti dei dipendenti pubblici, con annessa riduzione delle spese per straordinari, che impoverisce la buste paga di quasi 3 milioni di lavoratori. I sacrifici dei dipendenti pubblici sarebbero più giustificati e comprensibili se fossero almeno accompagnati da interventi severi sugli sprechi, le consulenze e altre spese improduttive. Altrimenti è solo una persecuzione contro una categoria di lavoratori su cui si scatena l’offensiva di professori privilegiati.
C’è da sperare che il parlamento possa metterci tutto l’impegno possibile per riequilibrare gli interventi della legge di stabilità nel segno di una maggior giustizia sociale, di una più forte equità. Ma può essere davvero questo parlamento, con questa inconsueta maggioranza, a suonare la sveglia, a dare una mano, a cambiare le sorti di un paese debole e stremato?

La Stampa 17.10.13
Camusso: “Troppi annunci e risultati sotto le aspettative”
intervista di Roberto Giovannini

qui

l’Unità 17.10.13
Retribuzioni più leggere per 2,8 milioni di lavoratori
di M. Fr.


Sono senz’altro i più colpiti dalla legge di stabilità. E non si possono neanche aggrappare alle bozze non definitive, perché i provvedimenti che li riguardano sono fra i pochi ad essere certi. Dal 2014 (e fino al 2017) i 2,8 milioni di dipendenti pubblici avranno le buste paga più leggere di 20-30 euro al mese a causa del prolungamento del blocco contrattuale, al tetto fissato sull’indennità di vacanza contrattuale (risparmio di 350 milioni l’anno) e alla riduzione del 10 per cento del lavoro straordinario (risparmio di 67 milioni nel 2014).
L’articolo 11 della manovra si intitola «Razionalizzazione della spesa nel pubblico impiego» ed è chiarissimo anche nel contenuto. Al primo comma «estende il blocco della contrattazione sino al 31 dicembre 2014». Il ministro Giampiero D’Alia ha buon gioco a ricordare come «il blocco dei contratti non è una novità, abbiamo dato copertura legislativa a una norma regolamentare già approvata al Consiglio dei ministri di agosto. Abbiamo ereditato il blocco contrattuale dal precedente Governo ha proseguito D’Alia noi abbiamo modificato le modalità del blocco della contrattazione aprendola per la parte giuridica già dal 2014 e stiamo lavorando per fare una trattativa seria con i sindacati». Ma altrettanto facile è la replica dei sindacati: «Non basta affermare come fa il ministro D’Alia, che il blocco del 2014 era stato deciso in Consiglio dei ministri ad agosto spiegano in una nota unitaria Fp Cgil, Cisl Fp, Uil Flp e Uilpa Prevedere il pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2016-2017, ovvero un parziale recupero dell'inflazione, vuol dire di fatto allungare il blocco di altri 4 anni. Lo sappiamo noi come lo sa il ministro. Piuttosto apra subito il tavolo sul rinnovo contrattuale come dice di voler fare e come abbiamo chiesto nella nostra piattaforma unitaria. È quello lo strumento per migliorare i servizi, individuare la spesa improduttiva e recuperare le risorse per le retribuzioni dei lavoratori».
L’altra norma che riguarda il pubblico impiego è una ulteriore sforbiciata ai limiti sul turnover. «Ad eccezione dei corpi di polizia, forze armate e vigili del fuoco», i nuovi limiti sono i seguenti: se per il 2014 si conferma quota 20 per cento, nel 2015 si scende dal 50 al 40%. Se nel 2016 era previsto il ritorno al 100%, quota che invece si riavrà solo nel 2018 con tappe intermedie al 60% nel 2016 e dell’80 per cento nel 2017. Anche in questo senso il ministro D’Alia cerca di parare il colpo: «Il turn over per il 2014 e il 2015 era già stato ridimensionato, semmai c'è una riduzione sul 2016, che sarà comunque oggetto di confronto parlamentare, ma che non pregiudicherà le procedure previste nel dl 101 sul superamento del precariato e l'utilizzo dei vincitori dei concorsi». M. FR.

il Fatto 17.10.13
Manovrina, quelli che pagano
Non è vero che la legge di stabilità è senza tagli e senza nuove tasse
Il conto arriva a statali, pensionati, risparmiatori e proprietari di immobili (prima casa inclusa)
di Stefano Feltri e Marco Palombi


Se avete una pensione superiore a 3 mila euro, avete investito i risparmi di una vita per comprare un appartamento che affittate nel centro di una grande città, sul conto titoli c’è qualche euro, e magari vostro figlio è un dipendente pubblico, allora per voi non vale lo slogan con cui Enrico Letta ha presentato la legge di Stabilità 2014: “Niente tasse e niente tagli”. Vediamo chi sarà a pagare il conto della manovra che per il 2014 vale 11,6 miliardi di euro.
CUNEO E TASSE. D’accordo, ci sarà l’intervento sul cuneo fiscale, per i lavoratori nel 2014 vale 1,5 miliardi di euro: sono esclusi dalla riduzione delle tasse in busta paga quelli con un reddito sopra ai 55 mila euro, per gli altri il beneficio si dovrebbe aggirare tra i 100 e i 185 euro all’anno. Meglio di niente. Basta poco a mangiare la mancia fiscale: tra gli interventi di copertura c’è una riduzione delle detrazioni che vale 500 milioni di euro. Finora si poteva detrarre dall’Irpef l’imposta sul reddito delle persone fisiche, il 19 per cento di varie spese, come quelle mediche (visite, medicinali, interventi), le rette universitarie e gli interessi dei mutui sulla prima casa. Lo sconto fiscale scenderà, già per il 2013, dal 19 al 18, e poi andrà al 17. Niente di drammatico, ma si somma a una serie di altri balzelli molto poco progressivi (cioè che colpiscono ugualmente redditi bassi e redditi alti): la patrimoniale sul conto titoli passa dallo 0,15 per cento allo 0,2. E compare una bizzarra imposta di bollo da 16 euro per le comunicazioni trasmesse on line alla Pubblica amministrazione.
CARA CASA. Avete esultato per l’abolizione dell’Imu sulla prima casa? Attenzione: in teoria quella per il 2013 non si pagherà (anche se ci sono dubbi sulle coperture per la prima rata da 2 miliardi ed è misteriosa quella per la seconda da altri 2,4).
Dal 2014 cambia l’approccio: non una patrimoniale sull’immobile, come l’Imu, ma una imposta legata ai servizi erogati dal Comune. La Trise, scomposta in due parti: Tari (che poi diventerà Tarip) è legata ai rifiuti prodotti, la Tasi ai servizi indivisibili, come strade e illuminazione stradale, e dovrebbe avere come aliquota base l’1 per mille.
Non è chiaro, però, quale sarà il conto finale, i Comuni possono decidere di spalmare parte del-l’onere delle prime case sulle seconde. Ma le simulazioni del Sole 24 Ore sono interessanti: prendendo un appartamento da 100 metri quadri in una zona residenziale. Se è un’abitazione principale, nel 2012 il proprietario pagava nel 2012 737 euro tra Tares e Imu, nel 2013 grazie all’azzeramento dell’Imu il fisco chiederà 390 euro e nel 2014 535. Se per sventura avete una casa affittata, invece, il conto del 2014 sarà di 2.388 euro contro i 2.141 del 2012 e i 2.070 del 2013. Insomma, il prossimo anno pagherete 300 euro in più di quest’anno (se la casa è sfitta quasi 200).
PENSIONI. Sulle pensioni il governo Letta si esercita in una sorta di paso doble. Da un lato stanzia alcune milioni di euro per risarcire i cosiddetti pensionati “d’oro” – sopra i 90 mila euro – dopo che la Corte costituzionale ha bocciato il contributo di solidarietà inventato dagli esecutivi Berlusconi e Monti. Dall’altro istituisce una nuova tassazione ad hoc per le pensioni alte: il prelievo sarà del 5 per cento tra i 100 e i 150 mila euro, del 10 fino a 200 mila e del 15 oltre questa soglia. Perché la Consulta non dovrebbe bocciarlo ancora? Secondo il sottosegretario Carlo Dell’Aringa: “Stavolta facciamo apparire il contributo non tanto in una natura tributaria, che ci era stata criticata, quanto nella sua natura di contributo di solidarietà”. Scettico il montiano Giuliano Cazzola: “È uguale alla legge che hanno già bocciato”. Intanto i soldi si incassano: poi si vede. Viene anche prorogato per i prossimi tre anni il blocco del-l’adeguamento all’inflazione per le pensioni oltre i 3.000 euro al mese, mentre dai 1.500 euro lordi in su l’indicizzazione viene confermata parziale. Va anche citato un altro dei tagli proposti da Enrico Letta: basta con l’assegno di accompagnamento per quei disabili che hanno oltre 65 anni e dichiarano un reddito di 40 mila euro lordi (70 mila se coniugati). Questo tipo di interventi è quasi una tradizione nelle ultime Finanziarie: dal 2010 i governi provano in vari modi a tagliare le provvidenze per la disabilità, anche se poi in genere ci ripensano.
STATALI. Anche nel 2014 i contratti pubblici saranno bloccati e pure senza la cosiddetta indennità di vacanza. È il quinto anno consecutivo che succede. “L’avevamo già deciso ad agosto”, ha sostenuto il ministro competente Gianpiero D’Alia. È tanto vero che quei soldi erano già a bilancio per l’anno prossimo e non figurano tra le coperture del decreto. Che significa per uno statale non vedersi rinnovato il contratto dal biennio 2008-2009? Questi i conti del sindacato Usb, che anche su questo tema ha indotto uno sciopero generale per domani: uno stipendio che nel 2009 era di 23.907 euro lordi, in cinque anni - calcolando un’inflazione al 2,5 per cento - ha lasciato per strada 9.259 euro in tutto e oltre tremila euro di stipendio annuo lordo. Soldi che non torneranno mai più nelle tasche dei lavoratori: quel taglio si aggraverà con gli anni pesando sui successivi scatti di stipendio e sui contributi pensionistici versati. Lo si capisce anche dai numeri ufficiali: a stare alle tabelle (e previsioni) Istat, l’effetto di cinque anni di stipendio bloccato è una perdita cumulata di potere d’acquisto fino a 9 punti percentuali. Basti guardare ai risparmi per lo Stato cumulati nel quinquennio: secondo Aran ammontano a 11,5 miliardi. Questo, peraltro, in un lasso di tempo in cui il personale della P. A. continua a diminuire: per effetto del blocco del turn over – parzialmente prorogato anche dalla manovra del governo Letta – si può calcolare che tra il 2007 e il 2017 sarà calato di 460mila unità circa (siamo già ora a trecentomila).
A questo si aggiunge il taglio del 10% sugli straordinari e la rateizzazione del tfr per chi va in pensione: mancano i licenziamenti di massa per essere in piena “cura greca”.

l’Unità 17.10.13
Sindacati e Confindustria delusi
«Lo sciopero non è escluso»
Reazioni negative nei confronti del governo
Cgil: «Bisognava intervenire sulle rendite finanziarie»
«La manovra resta nel solco delle precedenti e non tocca le ingiustizie»
«Paghi di più chi in questi anni ha continuato a guadagnare»
Squinzi: «È mancato il coraggio»
di Massimo Franchi


ROMA Mobilitazione senza escludere lo sciopero generale, da parte sindacale. Critiche forti senza escludere scontri col governo, da parte delle associazioni di imprese. Il giorno dopo il varo della legge di stabilità le parti sociali picchiano duro. Con accenti diversi, ma con il minino comune della «forte delusione».
Cgil, Cisl e Uil si vedranno nei prossimi giorni per mettere a punto una posizione comune. Molto difficile che decidano per uno sciopero generale, molto più probabile che si limitino ad un presidio durante il lungo cammino parlamentare. Perché l’obiettivo principale è quello di modificare «fortemente» il contenuto della manovra nei passaggi fra Camera e Senato. Con l’attività di lobby che è già partita ieri.
Susanna Camusso non esclude «lo sciopero generale», ma specifica che «è giusto discuterne con Cisl e Uil». Per il segretario della Cgil «il governo ha promesso che avrebbe agito per il lavoro, ma l’intervento è assolutamente insufficiente a determinare il cambiamento necessario. Il governo non lo ha fatto perché non ha il coraggio di una scelta: far pagare di più chi in questi anni ha continuato a guadagnare e ha pagato molto meno di quanto hanno guadagnato lavoratori e pensionati. Bisognava spiega fare delle scelte sulle rendite finanziarie, sui patrimoni, sulla spesa pubblica in particolare per quanto riguarda le consulenze. La manovra rimane nel solco di quelle precedenti con qualche cattiveria in meno rispetto alle ultime, ma senza toccare il differenziale di ingiustizie. Se le leggi di stabilità le fa la Ragioneria dello Stato e non il governo è l’amara chiosa qualche problema c’è, c’è qualche problema per noi ma anche per la democrazia e i poteri del Paese».
I giudizi più duri vengono però da Luigi Angeletti. Il leader Uil precisa che «lo sciopero è una cosa che valuteremo nei prossimi giorni», ma attacca a testa bassa: «La vera questione è far comprendere che questa legge di stabilità ha avuto il solo effetto di stabilizzare il governo, ma gli effetti sull’economia sono vicini allo zero. Si era detto che il problema dell’Italia è la bassa crescita e che per superare questo impasse bisognava agire soprattutto sulle tasse sul lavoro come leva per far crescere l’economia, i consumi interni e quindi l’occupazione aggiunge da questo punto di vista la scelta del governo è stata quasi una finzione. Le uniche cose reali saranno il numero di disoccupati e quello dei giovani che troveranno sempre meno lavoro».
La posizione più sfumata è quella della Cisl. Raffaele Bonanni già mercoledì sera aveva commentato in modo «positivo» «l’inversione di tendenza, il taglio delle tasse sui lavoratori». Ieri invece nelle sue parole prevalevano gli aspetti negativi. «È ancora un segnale troppo debole. I lavoratori ed i pensionati giustamente vogliono di più. Il governo Letta deve avere più coraggio e noi come sindacato ci mobiliteremo. O si sconfigge il partito della spesa pubblica improduttiva o le tasse non si abbasseranno mai».
IMPRESE CRITICHE
Passando al fronte delle imprese, Confindustria aveva chiesto in esplicito un taglio del cuneo fiscale di dieci miliardi. È stata accontentata. Ma la cifra è spalmata su ben tre anni.
«Le misure previste dal governo ha spiegato da Bologna il presidente Giorgio Squinzi non sono sufficienti per farci ritrovare la crescita: ci vuole più coraggio. I passi sarebbero anche nella direzione giusta ma ancora una volta non sono sufficienti per farci ritrovare la crescita. Spero si possa intervenire ulteriormente e fare qualcosa di più». Il problema, secondo Squinzi, è che la manovra «non incide realmente sul costo del lavoro» e ricorda che come Confindustria «avevamo indicato come priorità assoluta il cuneo fiscale». Quindi aggiunge: «Io non sono il premier di questo Paese, ma semplicemente vorrei dire che ci vuole più coraggio perché mantenendo lo status quo, anche se ci sono passi nella direzione giusta che possiamo pure valutare positivamente, non si cambiano l’andamento economico né la visione del futuro del Paese».
Molto critici anche le piccole e medie imprese riunite in Rete Imprese Italia. In una nota la sigla che riunisce Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti attacca così: «La legge di stabilità è insufficiente per affrontare la difficile situazione del Paese e risvegliare le energie per intercettare e sviluppare i pur debolissimi segnali di ripresa. Dalle anticipazioni appare un provvedimento che si caratterizza per la modesta entità degli importi e la polverizzazione degli interventi».

il Fatto 17.10.13
La grande delusione
Sindacati e Confindustria all’opposizione
di Salvatore Cannavò


Nel sindacato e in Confindustria la delusione per la legge di Stabilità è grande. Se la Cisl ha offerto una sponda al governo individuando elementi di “discontinuità” nella manovra, nel loro insieme le parti sociali non gradiscono la pochezza dei provvedimenti e la loro evidente insufficienza.
Secondo Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, si tratta “della smentita delle infinite promesse fatte in questi mesi dai ministri”. In particolare, dice che “è una legge che aggredisce nuovamente il lavoro pubblico”. Le misure sul blocco del turnover e, soprattutto, lo stop alla contrattazione per tutto il 2014, rappresentano un macigno per il sindacato. Ancora più duro Luigi Angeletti: “Il governo – dice il segretario della Uil – aveva detto basta ai tagli lineari, ma cosa c’è di più lineare di bloccare la contrattazione?”. Angeletti ha in mente la carne viva del mondo del lavoro dove il pubblico impiego ha dato un contributo non indifferente alle politiche di austerità degli ultimi anni. Secondo le analisi Aran-Sole 24 Ore, il blocco della contrattazione nel biennio 2013-‘14 produrrà un risparmio di 5 miliardi che salgono a 11,5 se si comprende tutto il periodo del blocco dei contratti, cioè dal 2010. A farsi sentire è la riduzione del personale che, dal 2006 a oggi, si è ridotto di circa 280 mila unità. Riduzione che salirà a mezzo milione entro il 2018. Su queste basi si spiega anche la reazione della Cisl che chiede al governo un segnale molto più forte “contro il partito della spesa pubblica”.
LA DELUSIONE È EVIDENTE anche sul fronte confindustriale. Giorgio Squinzi ha parlato di “assenza di coraggio” da parte del governo anche se ha ammesso che “ci sono dei passi nella direzione giusta”. Ma sulla riduzione del cuneo fiscale la distanza tra le richieste di Confindustria – 10 miliardi subito – e la proposta del governo – 2,5 miliardi da dividere tra lavoratori e imprese – è sconfortante.
A parte Angeletti, che ha subito parlato di sciopero, le parti sociali si dispongono per ora a una operazione di pressione sul Parlamento per ottenere quello che dal governo non è venuto. Ci saranno degli incontri nei prossimi giorni e sicuramente ci saranno iniziative comuni.
Modificare la natura della manovra, però, non sarà facile. Per quanto il consueto “assalto alla diligenza” dei conti pubblici sia una pratica in cui deputati e senatori eccellono, appare difficile che i saldi fissati dal ministro Saccomanni e già inviati a Bruxelles possano mutare. Il paradosso in cui si trovano sindacati e Confindustria è che proprio quando l’accordo tra le parti sociali si fa più solido il peso politico da loro acquisito nei confronti del governo sembra minimo.
Enrico Letta esalta in pubblico la “concertazione”, ma in privato a Cgil, Cisl e Uil ha concesso un incontro di due ore, nel suo studio, in cui si è discusso quasi solo di scenari politici. Sul fronte sindacale si fa notare che la concertazione cui pensa l’esecutivo è quella che ha portato il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato a convocare le parti sociali via Twitter. Senza nessun seguito. Pesa, certamente, la mancanza di risorse. Dopo anni e anni di rigore le richieste di imprese e lavoratori, pur non enormi, sono eccessive per la cassa di Enrico Letta. Ma c’è anche una spiegazione più politica. Se la Cgil, per difendere i pensionati, deve fare leva sul ministro del Welfare Enrico Giovannini, come è avvenuto l’altra sera, vuol dire che i rapporti con il presidente del Consiglio non sono buoni. E in generale nel Pd non ci sono sponde adeguate. Quel partito è in una fase di transizione, si avvicina il ciclone Renzi e i punti di riferimento sembrano essere saltati. Al gruppo dirigente della Cgil, ad esempio, non è sfuggita la sottolineatura fatta da Rosy Bindi, l’altra sera nella trasmissione tv Otto e mezzo: “Letta resista alla tentazione di trasformare le larghe intese in un’operazione politica”.
IL SOSPETTO che dietro l’asse Letta-Alfano avanzi l’ipotesi di una “nuova Dc”, cioè un progetto moderato e riformista allo stesso tempo, circola seriamente. Il problema, sul piano sindacale, si complica se si pensa che a tifare per un tale esito c’è anche il secondo sindacato italiano, la Cisl.
Il sindacato quindi si prepara a una fase di agitazione, ma al momento non appare probabile uno sciopero generale. Che invece è stato proclamato dai sindacati di base per venerdì 18 ottobre. Uno sciopero ad alzo zero contro il governo e “il patto di Stabilità” con corteo nazionale al mattino per le vie di Roma e, poi, con un collegamento diretto, tramite accampata notturna in piazza San Giovanni, con la manifestazione antagonista del 19 ottobre.

il Fatto 17.10.13
Fassina contro le scelte di Letta


DA IERI POMERIGGIO circolano voci di dimissioni del viceministro dell’Economia Stefano Fassina, Pd. Voci non confermate, ma molto plausibili alla luce del durissimo intervento che Fassina ha pubblicato sul suo blog ospitato dall’Huffington Post. All’indomani dell’approvazione della manovra, Fassina pare contestarne l’impianto di fondo: basta con la “retorica degli sprechi”, la spesa pubblica va distribuita meglio, non tagliata (la manovra promette invece tagli da 16 miliardi affidati al commissario Carlo Cottarelli ). Non si deve ridurre il potere d’acquisto delle famiglie – cosa che invece è successa con l’aumento dell’Iva – e, scrive Fassina andando contro il dogma di Letta, ”l'inseguimento della crescita via export, perseguita attraverso la riduzione del costo del lavoro (riduzione del cuneo fiscale oltre che il contenimento delle retribuzioni nette), non può funzionare”. E la riduzione del cuneo fiscale, cioè le tasse su dipendenti e imprese nella busta paga, è la cosa cui Letta tiene di più. Se Fassina non si dimetterà, di sicuro avrà rapporti un po’ più complessi con Letta (al momento in visita a Washington) e con il suo diretto superiore, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni.

il Fatto 17.10.13
Il giorno degli sciacalli
Pubblichiamo un brano del primo capitolo del libro di Damilano in uscita oggi
Il lettiano disse: “Salta Prodi, Napolitano avrà il bis e darà l’incarico a Enrico”
di Marco Damilano


La carica dei 101 suona tenero e disneyano, ma questi non sono simpatici cuccioli dalmata, è stato il giorno degli sciacalli al riparo del voto segreto (...) Nei mesi successivi solo una parlamentare ha sollevato la questione nell’assemblea del partito: la deputata Sandra Zampa, portavoce di Prodi. E solo un giovane deputato di Forlì, Marco Di Maio, ha formalmente chiesto con una lettera al segretario Epifani l’apertura di un’inchiesta interna. La reazione? Nessuna risposta. Sono stati i dalemiani, i giovani turchi, i franceschiniani, i fioroniani, i veltroniani, i renziani? Impossibile inseguire le voci e le complicate geografie correntizie del partito (...) Nessuno dei 101 ha sentito nei mesi successivi il bisogno di assumersi pubblicamente la responsabilità del suo gesto, di spiegarlo di fronte ai suoi elettori (...).
“NON ESISTONO i traditori: è un concetto integralista che non condivido. Ed è vergognoso fare una distinzione nelle votazioni tra Marini e Prodi. Quando si è scelto Prodi, al di là delle ovazioni e delle alzate di mano, avrei voluto discutere con quale maggioranza si andava ad eleggerlo, visto che Scelta civica non ci stava e il M5S non si sarebbe spostato da Rodotà. Avremmo potuto votare Rodotà forse, ma nel frattempo la valanga era partita”, ha detto la deputata calabrese Enza Bruno Bossio, dalemiana, in un’assemblea dei deputati Pd qualche settimana dopo il voto per il Quirinale. Ma certo, figuriamoci, non esistono i Traditori, nel girone infernale del Pd. Ci sono però i Dubbiosi. Gli Scettici. I politicamente Lucidi. Come il senatore Nicola Latorre, già braccio destro di D’Alema, due ore dopo il misfatto, uscendo dal teatro Capranica dimostrava una serenità invidiabile e idee molto chiare: “Che succede ora? Che saremo nelle condizioni di completare il lavoro iniziato in questi giorni eleggendo un nuovo presidente della Repubblica... ”. Una deputata, la romana Fabrizia Giuliani, dalemiana, è stata sentita dire all’ingresso in aula: “Se Prodi per caso non dovesse farcela, cambia tutto”. Come lei un’altra dalemiana, la romana Micaela Campana. Un deputato della corrente di Letta, il campano Guglielmo Vaccaro, è stato ancora più preciso. Incontrando alcuni colleghi il 19 aprile in Transatlantico prima del voto si lasciò andare a una previsione: “Come finisce? Stasera salta Prodi, sarà rieletto Napolitano che incaricherà Letta di fare il nuovo governo”. Nel girone dei Delusi la più delusa di tutti in quella giornata era la dalemiana Anna Finocchiaro, prima stoppata nella corsa verso il Colle dall’attacco di Renzi, poi bloccata mentre stava per parlare per candidare il suo leader D’Alema. Ma delusi, molto delusi erano anche i mariniani (...). E gli uomini di Dario Franceschini. Nel girone degli Speranzosi, almeno in apparenza, si agitavano i sostenitori di Stefano Rodotà. I deputati più giovani, più a sinistra, più spostati su posizioni vicine al Movimento 5 Stelle, che preferivano votare il giurista laico rispetto al cattolico Prodi, ma anche i parlamentari dalemiani. Alla quarta votazione Rodotà aveva raccolto 213 voti, 51 in più del previsto: uno su due, la metà dei 101 aveva votato per lui (...) alla quinta votazione scese a 210, due voti in meno della somma 5 Stelle-Sel che era tornato a sostenerlo, 217 nell’ultimo scrutinio. Insomma, Rodotà fu usato per eliminare Prodi. Nel girone degli Ostili c’erano i gruppi regionali: gli emiliani spingevano per Prodi, i toscani al contrario volevano frenarlo, temevano che con la sua elezione si sarebbe rafforzato eccessivamente Renzi, il suo king maker, preoccupazione che tormentava il presidente della Regione Enrico Rossi. Per fermare o rallentare la corsa di Prodi (e di Renzi) i toscani si riunirono e si consultarono. Il segretario regionale Andrea Manciulli, il numero due della corrente di Dario Franceschini, il pratese Antonello Giacomelli, il fedelissimo di Manciulli Luca Sani, deputato di Grosseto, poi nominato presidente della Commissione Agricoltura della Camera, la deputata di Campiglia Marittima Silvia Velo, bersaniana, che prima delle votazioni confidò ai colleghi, compresi alcuni deputati e senatori leghisti, che lei non avrebbe mai votato per Prodi. E dire che era appena stata nominata vice-presidente del gruppo Pd. Sicuramente ci avrà ripensato e nel segreto dell’urna si sarà allineata alle direttive del partito.
COME i parlamentari del Sud fedeli a D’Alema: il deputato pugliese Michele Bordo, che comunicò la sua ostilità ai suoi capicorrente, poi promosso presidente della Commissione Politiche europee, oppure il molisano Danilo Leva, nominato in seguito responsabile Giustizia del Pd. Tutti si sono sfogati prima del voto sulla scelta di Prodi. Tutti, poi, non c’è nessun motivo di dubitarne e nessuna prova del contrario, avranno certamente obbedito alla linea ufficiale. Ci sono poi quelli che in seguito non hanno dimostrato particolare dispiacere per l’affondamento del Professore per motivi personali (...) Però il senatore bolognese Gian Carlo Sangalli, noto disistimatore della famiglia Prodi (qualcuno dice che il voto per Vittorio Prodi porta la sua firma), di certo non si è messo in lutto. Anche lui ha replicato ai sospetti: “La mia è stata perfetta disciplina di partito”. (...) “Prodi chi? ”, rideva in Transatlantico già il giorno dopo Michele Anzaldi, deputato di prima nomina in quota Renzi, a lungo portavoce di Francesco Rutelli negli anni degli scontri più duri con il Professore.

Chi ha sbagliato più forte  di Marco Damilano 265 pp., Laterza, 15 euro

La Stampa 17.10.13
Prodi o D’Alema al Colle?
Il Pd aveva pronte le schede per il duello. Un libro racconta vent’anni di guerre a sinistra
di Fabio Martini

qui

Repubblica 17.10.13
L’intervista al regista del “Caimano” nell’anticipazione del nuovo libro di Marco Damilano
Moretti e gli errori della sinistra
“Dal ’94 al tradimento dei 101 così è stato tenuto in vita Silvio”
di Marco Damilano


«IPRIMI tre girotondi a Roma furono intorno al Palazzo di Giustizia, poi alla Rai, poi al ministero della Pubblica Istruzione. Giustizia uguale per tutti, contro il monopolio dell’informazione, scuola pubblica: erano temi che riguardavano tutti, non solamente una parte dell’elettorato. Manifestazioni non di parte, ma dalla parte di tutti i cittadini. Ancora oggi sono fiero quando penso che nelle nostre manifestazioni siamo riusciti a coinvolgere anche una parte degli elettori del centrodestra. Il «Corriere della Sera » scriveva che non si governa con le manifestazioni, ci accusavano di avere una mentalità minoritaria. Non capivano: noi non volevamo affatto stare per sempre all’opposizione, non ci sentivamo per niente realizzati in quel ruolo. Nel 1996 ero felice per la vittoria del centrosinistra e mi piaceva il governo Prodi, finalmente un ceto politico di cui non vergognarsi. Volete sconfiggere Berlusconi per via giudiziaria, ci hanno ripetuto per anni, lo ripetono anche ora. Noi, in realtà, volevamo che la legge fosse uguale per tutti e che non si facessero leggi apposta per evitare processi a uno solo. I girotondi li facevamo per ricordare, anche a noi stessi, che ci stavamo ormai abituando a considerare normali cose che in una democrazia non sono affatto normali: per esempio che un uomo possa essere proprietario di tre reti televisive e in più che possa fare politica, e in più che possa diventare capo del governo» (...) Più volte Berlusconi è rientrato in gioco grazie alla sinistra, per esempio nell’ottobre del 1998. Non sono d’accordo con chi sostiene che ci sia stato un complotto di D’Alema e di Marini. Il responsabile della caduta del governo Prodi fu Bertinotti. Il gesto dissennato di Rifondazione comunista ha fatto perdere molti anni a questo Paese. In quel periodo Berlusconi era percepito come perdente anche dal centrodestra, che timidamente stava cercando un altro leader. Prodi aveva una sua credibilità e il governo non era impopolare. Se Rifondazione non avesse fatto cadere quel governo, l’Ulivo avrebbe governato per dieci anni con Prodi e dal 2006 con Veltroni. Se invece si fosse andati a votare subito dopo la caduta di Prodi, l’Ulivo avrebbe vinto da solo, senza Rifondazione» (...) L’unica volta che nel periodo dei girotondi ho parlato con D’Alema fu alla manifestazione della Cgil al Circo Massimo, un mese dopo piazza Navona. Sul grande palco quadrato c’erano molte persone, naturalmente molti politici. D’Alema mi dava le spalle, improvvisamente si voltò e senza nemmeno dire buongiorno, come continuando un discorso interrotto un minuto prima, mi corresse: «No, guarda, ti sbagli, nel ‘98 non si poteva andare a votare». Mi spiegò che non si potevano fare le elezioni perché c’era la guerra in Kosovo e la legge di bilancio da approvare. Mi raccontò che furono proprio Veltroni e Mussi a bussare alla sua porta chiedendogli di fare il presidente del Consiglio. Molti lo hanno criticato per delle scemenze, ma i suoi errori sono tutti politici, tutti visibili, tutti mai riconosciuti. Non era tra gli elettori per il presidente della Repubblica lo scorso aprile, ma non credo sia stato triste il giorno in cui i 101 non hanno votato per Prodi».
«In questi anni ai vertici del Pd ci sono stati personalismi senza personalità e soprattutto una grande confusione. Dopo le elezioni del 2013 pochi avevano già deciso che dopo quei risultati il governo con il Pdl fosse l’unico possibile, erano pochi ma sono stati decisivi. Gli altri, Bersani per primo, erano confusi. Poi sono arrivati i 101 elettori che nel segreto hanno votato contro Prodi, che sembra avere l’unico torto di averli fatti vincere due volte. E qui non è una questione politica o generazionale: alcuni di questi campioni hanno trent’anni, altri sessanta, alcuni sono moderati, altri più di sinistra, no, quello che mi interessa è il peso specifico umano di quei 101, che è vicino allo zero. Il governo Letta, per come è stato messo insieme, sembra la realizzazione dei peggiori luoghi comuni e pregiudizi del Movimento 5 Stelle sul Partito democratico. Mi sembra che sia vissuto dai più come qualcosa di transitorio. L’elettorato e i militanti si sono messi in letargo per tornare in tempi abbastanza rapidi al voto». (...) «C’è stata nel 1994 — con un monopolista televisivo che si candidava a guidare il governo — una straordinaria rottura delle regole democratiche. Per fronteggiare questo fatto straordinario c’era bisogno da parte della sinistra di una risposta straordinaria, anche sul piano simbolico. Non c’è stata nemmeno una risposta ordinaria, semplice, piccola. E invece traccheggiare, sottovalutare il conflitto di interessi, ritenersi più furbi dell’avversario, assuefarsi lentamente a una costante, incredibile anomalia per un paese democratico. Il centrosinistra in questi anni si è lasciato convincere che anche solo parlare di Berlusconi significava «spaventare i moderati» e «fare autogol». Ormai, anche il solo fatto di esistere, per la sinistra è diventato un autogol. La vera vittoria di Berlusconi è stata di far sentire chi continua giustamente a parlare di conflitto di interessi, come una persona triste che dice cose ovvie, banali, meste».
«Chi vincerà? Ci vuole un cambiamento di costume, culturale. Vincerà chi capisce che il gioco è cambiato e che bisogna farne uno completamente nuovo. Ci volevano altri strumenti per contrastare Berlusconi, un altro tipo di persone, un altro modo di fare politica. Un’altra solidità, un altro rigore. Un’altra integrità».

il Fatto 17.10.13
Le schegge di fango della dossierite Il Pd nel pantano
La “crocifissione” mediatica di Bersani, gli inviti a indagare su renzi
E intanto il partito perde peso
di Wanda Marra


A Largo del Nazareno, uno chiuso in una stanza, l’altra in un’altra, Stefano Di Traglia, ex portavoce di Pier Luigi Bersani e Chiara Geloni, direttrice di Youdem, correggono le bozze del libro-bomba che stanno scrivendo sulle consultazioni dell’ex segretario democratico, quelle che portarono allo sfaldamento del Pd, durante il voto per il presidente della Repubblica, alla rielezione di Napolitano e al governo di larghe intese. Si chiama Giorni bugiardi, esce il 6 novembre. Si annunciano retroscena e rivelazioni. I due, che sentivano di avere già in tasca un posto a Palazzo Chigi insieme al loro capo, assomigliano agli ultimi dei giapponesi. E tra l’altro, i contratti di entrambi con il Pd sono in scadenza a dicembre. I due in prima linea da sempre contro l’ex Rottamatore sono i primi a cui si chiedono informazioni quando viene tirata in ballo qualche vicenda opaca che lo riguarda.
Ieri Repubblica riportava l’sms arrivato a alcuni giornalisti: “Libero e il Giornale stanno facendo nero Renzi, rispolverando tutte le menzogne che lo riguardano (e non è finita, ricordate il caso Lusi?). In altri tempi, avreste chiesto con editoriali, pezzi, corsivi, eccetera eccetera spiegazioni di tutto questo. Pretendere trasparenza e verità soprattutto da chi dice di volere candidarsi premier, credo sia un dovere”. Il riferimento è all’indagine sulle spese sostenute da Renzi quando era presidente della Provincia - uscite in prima battuta sul Fatto .
Ma insomma i dossier esistono? E chi ce l’ha? Nel libro si allude a fatti sconosciuti che lo riguardano? “Veramente no, noi non abbiamo dossier. E comunque neanche l’sms si riferiva alla vita privata di Matteo, come qualcuno ha detto e scritto in questi giorni - si schernisce la Geloni -ma a queste questioni”. Bisogna seguire i soldi? “Sì, i soldi. E comunque, l’unico dossier che è uscito finora è stato quello sugli stipendi dei dipendenti del Pd”. Quello in cui si diceva che lei guadagnava 6000 euro al mese. Cifra che fece scattare l’indignazione di molti.
PER QUEL DOSSIER molti accusarono Lino Paganelli, che all’epoca dei fatti (era marzo) era diventato renziano da pochi mesi e per questo caduto in disgrazia. Non certo un clima sereno: “Quando c’è un congresso, c’è sempre il rischio che le cose degenerino”, spiega la Geloni. “Però, basta con questo clima”.
Adesso qualche sostenitore del sindaco di Firenze accusa Di Traglia di essere l’autore del messaggio. “Ma quale messaggio! Smettiamola, pensiamo alla politica”, dice lui. E poi ricorda: “Sono settimane che di Bersani si parla solo a proposito della stanza, dello stipendio, dell’inchiesta sul conto”. L’inchiesta è quella tirata fuori dal Fatto, secondo cui ci sarebbe un conto intestato a Bersani e a Zoia Veronesi, sul quale sarebbero confluiti alcuni dei soldi dei contributi privati al partito. Nervi a fior di pelle.
Sembra di essere tornati a un anno fa, quando tra i sostenitori di Bersani contro Renzi alle primarie si faceva a gara a offrire spunti di ricerca, di indagini, di possibili inchieste. Era la fase della grande paura, il momento in cui l’establishment del partito era schierato compatto contro il sindaco di Firenze. E i fiorentini erano i più attivi di tutti. Ora i fiorentini si descrivono “talmente disorganizzati e sparpagliati da non essere in grado di produrre dossier”. Qualcuno, a Roma, suggerisce che forse qualcosa c’è sulle spese per la campagna elettorale di Renzi. O qualcuno fa battute a sfondo sentimentale. Schegge di fango impazzite. E la grande paura di perdere per sempre. Anzi di aver già perso. I renziani ostentano superiorità. Non poco rabbiosa. “Sono minchiate infantili di gente che non è cresciuta”, punta il dito Angelo Rughetti. E c’è chi arriva a ipotizzare che il veleno sia stato ritirato fuori dal-l’armadio dove era stato riposto l’anno scorso perché i sostenitori di Cuperlo sperano in una bassa partecipazione. Metodi democratici.

Repubblica 17.10.13
Legge elettorale, la paura del Pd “Il superporcellum della Consulta”
Il fronte proporzionalista punta sulla Corte costituzionale
di Goffredo De Marchis


«Più la politica rallenta la riforma elettorale, tanto più la Consulta sentirà la responsabilità di pronunciarsi con chiarezza sul Porcellum ». Anna Finocchiaro nega di avere accesso a indiscrezioni della Corte. Il suo è solo un ragionamento, una constatazione, un’analisi. Che prende le mosse dallo stallo certificato sulla clausola di salvaguardia, ovvero quella legge voluta con forza da Giorgio Napolitano per non mandaregli italiani a votare di nuovo con le liste bloccate. La riforma che sta a cuore più di tutte le altre al Quirinale è la cancellazione della legge Calderoli. A questo traguardo, il presidente della Repubblica ha legato il suo sì alla riconferma.
L’attesa per la decisione della Corte costituzionale assume in queste ore i contorni dell’incertezza. Prima, tutti erano convinti che i giudici della Consulta avrebbero respinto il ricorso negando i rilievi costituzionali sul sistema di voto. Molti costituzionalisti considerano scontata la decisione della Consulta. Dicono che il ricorso inviato dalla Cassazione è scritto male (i giuristi amano denigrarsi tra di loro) e che i margini d’intervento non esistono. La verità è che i ricorsi sono più di uno. Il Tar della Lombardia ha inviato il suo e demolisce il premio di maggioranza della legge regionale. Può essere esteso alla norma nazionale, capace di proiettare al 55 per cento dei seggi una coalizione che prende solo il 29 per cento dei voti per la Camera, come è accaduto il 25 febbraio? «Un intervento sul premio di maggioranza diventa ineludibile», spiega uno dei saggi scelti dal governo e dal Colle. Ed è proprio quell’intervento che può far saltare il banco del bipolarismo.
Nelle file del Pd si addensano i sospetti che i manovratori dell’inciucio siano in azione. E che preparino il brindisi per l’ammissione del ricorso. Dopo dicembre, laConsulta potrebbe prendersi tre o quattro mesi per indicare i punti incostituzionali del Porcellum. Un tempo troppo breve per comporre quello che non è stato composto in anni e legislature di sterili discussioni. Con un tratto di penna sul premio, del Porcellum rimarrebbe così solo il proporzionale. Una soluzione che piace a molti, a cominciare da Silvio Berlusconi. «È il gioco dell’oca. L’ho già visto uguale identico tante volte», sorride l’autore della legge elettorale Roberto Calderoli in un corridoio del Senato. Ma può anche andare peggio.
Finocchiaro è convinta che il Pd debba avviare un’offensiva nei confronti del Pdl per arrivare al doppio turno di coalizione, la proposta formulata da Luciano Violante. «Si può fare. Lo spazio c’è, al di là delle dichiarazioni di facciata del Pdl», dice la presidente della commissione Affari costituzionali. Al primo turno si presentano i partiti coalizzati. Se nessuno raggiunge una soglia minima tra il 40 e il 45 per cento, i primi due schieramenti vanno al ballottaggio. La sera del voto si sa chi va Palazzo Chigi e chi governa. Il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello però scuote la testa, «il centrodestra non regge il doppio turno di collegio e nemmeno quello di coalizione».
Solo un’intesa tra Enrico Letta e Angelino Alfano può allontanare lo spettro del proporzionale. Il premier, prima di partire per Washington, ha lasciato al suo principale consigliere Francesco Sanna una raccomandazione. «Dobbiamo accelerare sulla legge elettorale ». Alfano, in questi giorni, però lo ha avvertito: «Io sono favorevole al doppio turno. Ma se Berlusconi vuole far precipitare la situazione punterà tutto sul super- Porcellum».
È una prospettiva che spaventa il Pd, schierato ufficialmente a difesa del bipolarismo. Epifani è netto: «Mai più il proporzionale». Ma il più preoccupato è Matteo Renzi. Tutto il potenziale di una sua candidatura alla premiership, verrebbe sterilizzato da un sistema di voto non maggioritario. Tra i renziani si guarda con grande diffidenza alle mosse dei compagni di partito. «Vogliono ripetere la Grande coalizione all’infinito ». Per questo il costituzionalista Stefano Ceccanti dice: «Saltiamo la fase transitoria e approviamo in fretta il doppio turno di coalizione alla Camera». Per questo Renzi cercherà di fare lo sgambetto ai proporzionalisti presentando la sua riforma elettorale a metà novembre. Pochi giorni prima del terremoto-Consulta.

l’Unità 17.10.13
I parlamentari 5 stelle snobbano Grillo: non venire
Saltato l’incontro di domani con il leader e Casaleggio
Critiche nel sondaggio interno. Spaccati i deputati
È nato «Gap», il gruppo dei fuoriusciti con Adele Gambaro
Zaccagnini: siamo contro il grillismo
di Andrea Carugati


ROMA C’era una volta il popolo dei grillini che in torpedone raggiungeva il Caro leader in un resort nelle campagne romane. Era l’inizio di aprile, qualche dissenso in seno ai Cinquestelle si era già manifestato, ma la «gita in stile scuola media» (il copyright è di un parlamentare M5S) alla fine si era conclusa con il solito Beppe sorridente che ammansiva le sue pecorelle.
Quel film però non si ripeterà. L’appuntamento alle porte della Capitale, previsto per domani, è saltato. E pensare che erano stati proprio i parlamentari, riuniti giovedì scorso, a chiedere al Capo di incontrarsi. Il motivo era semplice: due senatori avevano proposto di abolire il reato di immigrazione clandestina, e la proposta era passata con i voti di Pd e Sel. Il giorno dopo, Grillo e Casaleggio avevano sconfessato i loro eletti, spiegando che «con proposte del genere prendiamo percentuali da prefisso telefonico». Apriti cielo. La truppa si era surriscaldata, persino fedelissimi come il giovane Luigi Di Maio avevano difeso il lavoro dei colleghi. E Beppe era finito in minoranza, per la prima volta, come il Cavaliere.
L’incontro chiarificatore però è saltato. Come mai? Martedì sera tra i deputati riuniti in assemblea si erano levate molte voci per dire che no, «venerdì abbiamo altri impegni», «dobbiamo stare nei nostri collegi». Problemi. Complicazioni. Che dimostrano come il vecchio Beppe non sia più l’Oracolo da consultare trepidanti. Una volta lo avrebbero seguito ovunque. Ora, dopo 8 mesi in Parlamento, i «ragazzi» sono cresciuti. E sono sempre più insofferenti al padre-padrone. Discorso che vale anche per Casaleggio, più temuto che realmente amato dalla truppa. «C’ho un convegno nella mia città», è stato uno dei motivi più ricorrenti.
Allora è partita l’idea di fare un sondaggio interno, pare su proposta del nuovo capogruppo Alessio Villarosa «Lo volete fare o no l’incontro venerdì? E con quali modalità?». Ieri a mezzogiorno 46 deputati avevano votato per posticipare l'incontro con i due leader (contro i 44 che hanno continuato a insistere per venerdì). Una cifra che va molto oltre la pattuglia dei dissidenti “storici” e segnala un malessere profondo. E anche una contraddizione. Solo una settimana i grillini avevano sbertucciato i loro colleghi dei “partiti” per la fretta di partire da Roma il giovedì il pomeriggio. «Una repubblica dei trolley, ironizzavano. Stavolta l’hanno fatto loro. Valigie pronte di giovedì, e pazienza per Beppe.
Ma non c’era solo la data a creare problemi. La maggioranza, almeno 55 su un centinaio, non voleva l’ennesima gita fuori porta. «Vengano loro in Parlamento». Solo in 26 sentivano la fregola di tornare in un posto come Tragliata, vicino a Fiumicino, dove si erano visti in aprile, tra prati all’inglese e piscine vuote in attesa dell’estate. Stesse percentuali per l’opzione logistica: solo una ventina ha scelto il torpedone.
LA FURIA DEI CAPI
Quando i due capi hanno saputo del sondaggio, si sono infuriati. Telefoni roventi, domande senza risposta. Una rabbia che è montata al punto da cancellare l’incontro, rinviato a data da destinarsi. Spiegano fonti M5S che Grillo e Casaleggio «hanno giudicato una leggerezza fare un sondaggio, ben sapendo che sarebbe finito alla stampa». Ma forse è il contenuto di quel dossier che li ha delusi: la truppa non è più quella di una volta. La ferita del reato di clandestinità resta aperta: forse si risolverà con una consultazione dei militanti in Rete. Grillo però, dopo aver letto alcuni sondaggi, resta convinto della sua idea: «Quell’emendamento è stato un errore, ma i nostri due erano in buona fede».
Ieri Beppe ha lanciato dal blog l’ennesimo proclama bellico per cercare di ricompattare il gruppo. «Il “populista” Movimento 5 Stelle parteciperà alle elezioni europee per vincerle. Sarà una crociata. In alto i cuori». Nel post Grillo si iscrive al vasto fronte di movimenti populisti ed euroscettici e preannuncia un forte risultato di questi raggruppamenti in chiave anti-Bce. «Se i popoli europei ne hanno pieni i cosiddetti e vogliono costruire un’Europa migliore, gente come Letta deve fare le valige subito dopo le elezioni europee».
Ieri intanto i fuoriusciti, le senatrici Gambaro (espulsa), Anitori e De Pin e il deputato Adriano Zaccagnini, hanno dato vita all’embrione di un nuovo gruppo, che si chiama «Gap». Sta per «Gruppo di azione popolare», ma il riferimento nell’acronimo alle brigate partigiane è tutt’altro che casuale. «Un pezzo della base è con noi, ci hanno contattato da tutta Italia» spiega Adele Gambaro. Mentre Zaccagnini osserva: «Rapporti col movimento? Quando ci riferiamo a forze sane pensiamo anche ai parlamentari 5 stelle che in maniera professionale e competente fanno il loro lavoro. Mentre le promesse del M5S sono state disattese e vanificate in un progetto di marketing». «Quelli che fanno certe operazioni badando solo al consenso dei sondaggi sono sciacalli politici che mirano al potere», aggiunge. «Ci opponiamo al berlusconismo e alle derive post berlusconiane come il grillismo che fomentano gli istinti».
E Gambaro ricorda: «Mi hanno mandata via solo perché ho espresso la mia opinione. È una cosa molto grave che va contro la Costituzione che dicono di difendere». «Rimaniamo all’opposizione», spiegano i “gappisti”. Per ora non si annunciano nuovi arrivi dal M5S.

il Fatto 17.10.13
Salta il summit con Grillo
Il vertice dopo lo scontro sull’immigrazione era in agenda per domani
I deputati non gradiscono tempi e modi e i leader annullano tutto
di Paola Zanca


Volevano convincerli a “sporcarsi le mani”, entrare nel palazzo e magari restarci un paio di giorni, il minimo per capire come ci si muove là dentro. Invece, la rivolta contro la gita fuori porta, ha prodotto un solo risultato: niente incontro, per la gioia di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che di confrontarsi con i “loro” eletti non hanno avuto mai granché voglia. Tutta colpa dei deputati, che hanno voluto alzare il tiro e hanno osato discutere delle modalità con cui era stato convocato il vertice: martedì pomeriggio, con una mail, si precettavano gli eletti per venerdì, intera giornata, destinazione segreta. Un agriturismo fuori Roma, come l’ultima volta, dove trovare la serenità necessaria per rimettere in ordine le regole base del Movimento, dopo che due senatori si erano permessi di presentare un emendamento per l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, subito scomunicati via blog. Martedì sera, in assemblea, i deputati si sono messi a discutere della mail. Infastiditi per essere stati avvertiti con meno di 72 ore di anticipo. C’è chi ha già preso appuntamenti sul territorio e non vorrebbe disdire, c’è chi è in partenza per gli Stati Uniti, chi ricorda che il prossimo weekend si vota in Trentino Alto Adige e bisogna battere palmo a palmo tutta la Regione. E poi c’è un diffuso malcontento per la scelta della scampagnata. Sanno che lì finirà tutto a tarallucci e vino, che non è il posto adatto per spiegare le dinamiche di aula e commissioni, qualcuno è perfino perplesso: “Perché dobbiamo tirar fuori dei soldi quando qui è pieno di sale gratis? ” (la gita di Tragliata costò 20 euro a testa, ndr). E ancora la località segreta, il viaggio in pullman come deportati, l’inseguimento dei giornalisti.
NO, COSÌ NO. Una proposta sul tavolo è quella di vedersi in settimana, di sera. Altri pensano a un albergo in città. Ma tutti sono concordi: il confronto deve essere lungo, bisogna avere tempo per discutere e dobbiamo essere tutti presenti. Alla fine si decide di aprire un doodle, un calendario on line per capire chi è libero venerdì, chi è d’accordo con la gita, chi vuole muoversi con un mezzo proprio. Vince la linea di chi vuole rimanere a Roma e di chi chiede a Grillo e Casaleggio di rimandare l’appuntamento a data da destinarsi. L’Huffington Post pubblica i risultati del sondaggio: 46 per il rinvio, 44 no. E solo in 26 accettano la scampagnata e il viaggio “bendato” in autobus. Tempo un paio d’ore e su WhatsApp arriva il messaggio definitivo: “A causa delle enormi difficoltà organizzative, l’incontro è annullato”. Raccontano che a Milano e a Genova i malumori siano stati presi con un certo fastidio: “Sono loro che volevano incontrarci, se hanno da fare, pazienza”. Ma tutto sommato, al di là dell’irritazione per la rivolta contro la gita, pare che Grillo fosse addirittura sollevato per essersi evitato la sfacchinata.
LA NOTIZIA esplode e manda in tilt le stanze dei Cinque Stelle a Montecitorio e a Palazzo Madama. Alessio Villa-rosa, capogruppo M5S alla Camera, sbotta davanti alle agenzie: “C’è una legge di Stabilità tremenda – dice – e i giornali scriveranno di noi per il mancato incontro. Sai che ti dico? Mi viene voglia di gettare la scrivania dalla finestra”. I senatori, che da tempo chiedono un confronto con i due leader, continuano a sperare che l’appuntamento venga rifissato a breve. Dice Maurizio Buccarella, protagonista della querelle sulla clandestinità: “Sono stato sempre favorevole a un incontro con Beppe Grillo. È un bene che venga informato di quello che facciamo in Parlamento”. Andrea Cioffi, cofirmatario dell’emendamento incriminato scuote la testa: “Vinceremo”. Ma ormai sono quasi tutti convinti: chissà quando li rivedremo.

il Fatto 17.10.13
Nella testa del leader
Adrenalina e buio, l’altalena dell’ex comico permaloso
di Ferruccio Sansa


Una luce accesa a tarda notte. Erano gli ultimi giorni di febbraio, la brace delle elezioni era calda, e la finestra della casa rosa di Beppe Grillo era sempre illuminata. Soltanto chi lo conosce bene immagina che cosa stava passando per la sua testa: l’eccitazione forse oscillava tra entusiasmo e vertigine. Quasi panico.
Del resto Grillo è così: uomo torrenziale, senza filtri, capace di slanci e improvvisi incupimenti. Già, lui lo sapeva benissimo, niente da quel momento sarebbe più stato come prima. Ormai si poteva soltanto vincere o perdere, non più tornare indietro. E non bastavano nemmeno la casa, la famiglia per trovare un rifugio al vortice che lui aveva provocato.
Lo aveva capito già nel 2012 con la vittoria di Federico Pizzarotti. A Grillo sfuggì: “Il governo? No, noi dobbiamo avere un ruolo di testimonianza. Dobbiamo essere la spina nel fianco. Non dobbiamo contaminarci”. Una frase rivelatrice di uno stato d’animo profondo: la paura che il giocattolo potesse sfuggirgli di mano, diranno i critici.
Per gli amici è il contrario: il timore di finire invischiati nella gelatina del potere.
Forse nemmeno Grillo aveva immaginato di vincere. Era cominciato con gli spettacoli degli anni 90, in giro per l’Italia parlando di corruzione, di finanza malata, di ambiente. Chissà se ci credeva davvero, sostengono i soliti maligni. Di sicuro per strada ha convinto tante persone. E anche se stesso.
“Sono sicuro, possiamo cambiare le cose”, diceva prendendoti sotto braccio, perché Grillo è così, ha bisogno della vicinanza, del contatto con le persone. È capace di ascoltare più di tanti politici consumati e soprattutto ha un fiuto insuperabile nell’intuire l’umore della gente. E, però, è anche un solitario, con una scorza che solo la moglie, il fratello e il nipote, gli amici di una vita riescono a penetrare.
Picchi di adrenalina e poi momenti di cupezza, come l’attore che s’avvampa sul palco e poi si trova solo a fine dello spettacolo. Nella testa di Grillo l’irruenza, così poco politica, si alterna con il timore di essere fregato, con una cautela quasi diffidente. Molto ligure.
Raramente è successo che il carattere di una persona si riflettesse così nitidamente nelle vicende di un movimento. Che il leader e il partito si somigliassero tanto.
Dal marzo scorso niente è più come prima. Grillo si esalta, ma è al contempo oppresso. Come quel giorno che anni fa davanti al Parlamento incrociò per caso Ignazio La Russa, entusiasta, pronto ad abbracciarlo. E Grillo, preso da un fastidio epidermico quasi scappò.
Insieme riguardoso - quasi intimidito - e scanzonato quando arriva la convocazione di Napolitano e lui sale al Colle ma come impiccato nella cravatta durante la conferenza stampa. Forse poteva andare diversamente. Non un’alleanza con il Pd, quello non gli è mai passato per la testa e Bersani non gliel’ha mai offerto. Ma Prodi al Quirinale poteva arrivarci, se solo i suoi lo avessero sostenuto. Garantito.
E quella sua distanza (da Roma, ma non solo) che oggi qualcuno dei parlamentari Cinque Stelle gli rimprovera? Di nuovo i maligni parleranno della sua proverbiale permalosità. Gli amici faranno appello a una forma di candore. Forse hanno ragione entrambi e comunque sono caratteri che ti fanno campare male in politica.
Come quei post sugli immigrati, dove non capisci se a muovere la mano sia stato calcolo o impeto autolesionista.
Uomo di opposti. Entusiasmo e timore di perdere la libertà, di finire come Bossi e i leghisti felici di farsi divorare da Roma Ladrona. No, Grillo non finirà così. Lui resterà a Genova. Una scelta dettata dal carattere o dalla politica? Probabilmente tutti e due.

l’Unità 17.10.13
Legge sul negazionismo
I Cinque Stelle si oppongono all’approvazione in commissione


Era stata «revocata» la sede deliberante della commissione Giustizia del Senato, voluta dal presidente Pietro Grasso per approvare immediatamente il disegno di legge che introduce il reato di negazionismo. Revocata per l’opposizione dei grillini che avevano fatto tornare la legge, che punisce chi nega anche l’Olocausto, in sede referente cioè in aula. Il ritorno era possibile perché a chiederlo erano stati 5 senatori componenti della commissione. E la richiesta, in questo caso, era stata firmata dai quattro senatori M5S Maurizio Buccarella, Mario Giarrusso, Enrico Cappelletti e Paola Taverna (in sostituzione di Alberto Airola) e dal senatore Psi Enrico Buemi. Il senatore Pdl Carlo Giovanardi, pur contrario all’approvazione del provvedimento in sede deliberante, non ha potuto aderire alla richiesta non avendo la delega di sostituto. Poi il senatore Buemi ha fatto marcia indietro e ha detto sì alla convocazione in sede deliberante della Commissione Giustizia per varare in tempi lampo il Ddl sul negazionismo. Ma non in concomitanza con i lavori dell’Aula. Con la retromarcia di Buoemi viene meno il «numero legale» necessario ad avanzare la domanda di portare il provvedimento in Aula. Ma nel giorno del ricordo si è «persa un’occasione» come ha ricordato il presidente del Senato Grasso.

l’Unità 17.10.13
Priebke, salma bloccata «All’Italia la soluzione»
Le autorità tedesche: «Spetta solo alla famiglia decidere sulla sepoltura»
L’avvocato: «Voluto, estradato e processato. Adesso a loro la patata bolente»
di Massimo Solani


«L’Italia l’ha voluto, l’ha fatto estradare, giudicare e condannare e lo ha tenuto sotto custodia per anni. Ora le tocca questa patata bollente». Sorride non senza compiacimento l’ormai ex avvocato di Erich Priebke Paolo Giachini all’indomani del caos di Albano, della rivolta contro i funerali dell’ex gerarca nazista nella Confraternita dei Lefebvriani e dell’irruzione dei militanti neofascisti arrivati a Roma. Alla fine, per certi versi, le cose sono andate come l’avvocato Giachini si augurava e Priebke continua ad essere un problema per l’Italia e un simbolo per i nostalgici di estrema destra. Da morto, come lo era stato da vivo. La sua salma, da martedì notte quando un furgone l’ha portata via da Albano, è al sicuro nell’aeroporto di Pratica di Mare lontano dalle proteste e dalle celebrazioni a braccio teso. «I funerali si stavano trasformando in un raduno neonazista», ha dichiarato ieri il prefetto della Capitale Giuseppe Pecoraro spiegando il perché le esequie sono state interrotte. Un rischio che era chiaro a tutti da giorni (o una speranza, a seconda di come la si voglia vedere) tranne, evidentemente, allo stesso Pecoraro che pur di far svolgere le esequie ad Albano è passato sopra all’ordinanza del sindaco Nicola Marini che vietava il transito del carro funebre sulle strade cittadine.
E nella pancia dell’aeroporto militare quella bara marrone rischia di restare ancora a lungo perché il rebus della sepoltura di Priebke sembra ancora ben lontano dalla soluzione. L’ottimismo di ieri mattina, infatti, è durato poco. «Contiamo di risolvere in giornata», aveva spiegato Pecoraro dopo un incontro con l’avvocato Giachini. «So che si sta riflettendo sulle decisioni da prendere sulla sepoltura e ritengo che ci siano contatti tra il nostro governo e quello tedesco», spiegava negli stessi minuti il sindaco di Roma Ignazio Marino. A frenare, però, ci ha pensato l’ambasciata tedesca in Italia («Le autorità italiane non hanno presentato alcuna richiesta ufficiale. Sono stati avviati solo contatti informali») e il portavoce del ministro degli Esteri di Berlino Martin Schaefer: «In linea di principio la decisione spetta alla famiglia ha spiegato non c’è una responsabilità o un ruolo del governo federale tedesco in questa vicenda. Non dipende da noi trovare una soluzione. Ogni tedesco ha diritto di essere seppellito in Germania e la gestione delle salme dei tedeschi all’estero riguarda innanzitutto i parenti».
Spetterà ai figli di Priebke, quindi, decidere se la salma dovrà tornare in Germania o meno. Ma, ad oggi, nessuna decisione è stata ancora comunicata (esclusa per motivi fin troppo evidenti la destinazione Israele suggerita da Jorge, il maggiore dei due) mentre non è ancora chiaro il ruolo che potrebbe rivestire l’avvocato Giachini (che dice di aver ricevuto la procura dalla famiglia del boia nazista) il quale avrebbe titolo per intervenire con poteri deliberativi solo se fosse stato indicato, nell’atto di ultime volontà di Priebke, come esecutore testamentario.
IPOTESI CREMAZIONE
«Quella della cremazione è una possibilità», commentava laconico ieri Giachini. Una possibilità che non dispiacerebbe neanche al direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme Efraim Zuroff. «Andrebbe cremato e le sue ceneri sparse nel Mediterraneo ha spiegato sarebbe una soluzione appropriata perché tante vittime dei nazisti furono cremate e non seppellite negando loro una tomba». Difficile, invece, che alla fine la scelta per il luogo di sepoltura possa ricadere sul cimitero militare tedesco di Cassino. «Credo sia impossibile, sarebbe contrario al regolamento», ha commentato il direttore Domenico Fiore. «Sono nettamente contrario, parlo a nome mio e della mia maggioranza, ma credo anche di tutta la città», ha ribadito il sindaco Giuseppe Golini Petrarcone.
Ieri, intanto, la procura di Velletri ha aperto un fascicolo di inchiesta sugli incidenti avvenuti martedì ad Albano. Due persone, bloccate durante gli sconti, sono già state denunciate a piede libero. Ai due militanti di estrema destra, un 21enne e un 35enne, sono contestati i reati di lancio di oggetti atti ad offendere, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Dal canto suo, invece, il responsabile nazionale di Forza Nuova ha annunciato l’intenzione di presentare un esposto contro la comunità ebraica. «Penso che la memoria non vada cancellata ma penso anche che isterie di vario tipo non aiutino», il commento del ministro degli Esteri Emma Bonino.

Corriere 17.10.13
«L’Italia l’ha condannato e aveva la responsabilità di impedire il caos»
di Paolo Lepri


BERLINO — A Erich Priebke andava fatto un funerale dignitoso. Lo storico dell’Università di Colonia Carlo Gentile, consulente delle autorità giudiziarie italiane e tedesche in procedimenti penali contro i crimini di guerra e autore della perizia sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, ricorda quanto scrisse il sociologo di origine ebraica Norbert Elias: «La morte è un problema dei vivi».
«Quando una persona muore — osserva — bisogna occuparsi del suo corpo. Questo su un piano generale. Nel caso di Priebke si aggiunge il fatto che non si tratta di un morto qualsiasi ma di un condannato per il suo ruolo nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Su questo non si discute. Tuttavia non possiamo comportarci nei confronti dei nazisti o degli ex nazisti come loro si sono comportati con le persone che hanno perseguitato. Un nazista che negli anni della guerra ha ordinato di uccidere persone sulla base di sospetti o di puro e semplice arbitrio quando viene messo sotto processo in un Paese democratico viene giudicato secondo i criteri giuridici di questo Paese democratico».
Che cosa si poteva fare per evitare questo ondata di tensione provocata dalla morte dell’ex capitano delle SS? Come si può risolvere il problema del luogo dove avverrà la sepoltura? C’è il rischio di un altro caso Hess?
«Non credo che in Italia ci si aspettasse che un centenario come lui potesse vivere in eterno. Quindi, pensandoci un po’ prima si sarebbero potute evitare molte situazioni spiacevoli. Condannandolo, l’Italia si è anche assunta alcune responsabilità nei suoi confronti. Oltre al funerale, si sarebbe dovuto prevedere che ci sarebbero state anche manifestazioni. Per quanto riguarda la sepoltura, la responsabilità deve spettare alla famiglia, in accordo con le leggi dello Stato in cui decideranno di fare portare la salma. Bisognerà naturalmente evitare la possibilità di fenomeni incresciosi come quando la tomba di Rudolf Hess divenne un centro di raccolta per militanti di estrema destra. Certo, i due personaggi non possono essere accomunati, perché Hess è stato un esponente di primo piano del regime hitleriano. Ma a quanto pare per i nostalgici questa differenza non esiste. Vogliono fare un simbolo anche di Erich Priebke».
Questa vicenda ha riportato di attualità i valori della memoria. Può essere utile per dare impulso alla lotta perché siano perseguiti i responsabili finora impuniti di altri crimini, come per esempio la strage di Sant’Anna di Stazzema, che è stata archiviata dalla procura generale di Stoccarda?
«Non credo che questo improvviso risorgere di emozioni possa dare un contributo sostanziale all’azione per fare piena giustizia su tutti gli episodi del passato che ancora non l’hanno avuta. Erich Priebke per fortuna sarà dimenticato molto presto. Penso che sia più importante ricordare i nomi delle vittime che quelli dei loro carnefici. Per quanto riguarda la vicenda giudiziaria della strage di Sant’Anna di Stazzema, tutto dipende dal ricorso che sta portando avanti con grande passione e generosità l’avvocato Gabriele Heinecke. È una lotta impari che mi auguro abbia successo, ma di cui ancora non si può dire quale potrebbe essere il risultato».
Può essere invocata l’attenuante dell’età avanzata nel caso dei criminali ancora da perseguire? In Germania sono state indagate trenta ex guardie del campo di sterminio di Auschwitz, una delle quali ha novantasette anni.
«Senz’altro no. Si tratta di reati, quelli contro l’umanità, che non sono andati in prescrizione e non andranno mai in prescrizione. Se ci sono persone imputabili di questi reati, se ci sono prove, se ci sono testimoni, non c’è nessun motivo per non processarle. Certo, questo arrivare così in ritardo lascia sempre molto perplessi e ci fa riflettere su quello che non è stato fatto in questi settanta anni. È una confessione del fallimento del lavoro della giustizia sia in Germania che in altri Paesi. Molti di coloro che avevano un ruolo di comando nella direzione dei campi di concentramento o nell’occupazione tedesca se non sono stati processati nell’immediato dopoguerra, hanno poi vissuto tranquillamente per decenni».

Repubblica 17.10.13
Lo scrittore Peter Schneider: a Roma ha commesso solo crimini, il mio governo sbaglia a non farsi carico della sepoltura
“Basta pretesti, noi tedeschi dobbiamo dargli una tomba”
di Andrea Tarquini


BERLINO — «Priebke dovrebbe essere sepolto in Germania, un cittadino tedesco è un problema tedesco». Ce lo dice Peter Schneider, scrittore noto anche da noi, intellettuale di punta della sinistra post-sessantottina di area spd.
Dove andrebbe sepolto Priebke?
«È un problema tedesco: era cittadino tedesco. Perché mai l’Italia, dove egli commise tali crimini, dovrebbe dargli una tomba? Tocca a noi tedeschi. Certo, si può anche dire che l’Italia è un paese cattolico, con un senso della pietà dopo la morte. Ma tocca a Berlino dare una tomba a Priebke».
Il governo federale sottolinea che tocca alla famiglia richiedere, allora?
«Pretesto idiota. Guardiamo ai fatti: Priebke era rimasto cittadino tedesco. La Repubblica federale non ha nulla a che fare con i crimini nazisti. E allora perché mai si ostina in questa posizione di rifiuto? Deve garantire a un cittadino tedesco il diritto alla sepolturain Germania».
È forse la vecchia voglia o tentazione di oblìo dei conservatori tedeschi?
«È la vecchia voglia di innocenza, di sentirsi innocenti per il passato. Paradossale: se Berlino decidesse di dare una tomba a Priebke nessuno al mondo direbbe che la Germania di oggi, le sue generazioni attuali, sono colpevoli. Sarebbe stupido e insensato, chi governa oggi non ha nulla a che fare coi nazisti. Comunque ricordiamo che su molte istituzioni postbelliche, dal servizio segreto (Bnd) ai ministeri di Esteri e Giustizia, si è fatta luce solo negli ultimi 5 anni. Per scoprire chenel dopoguerra erano pieni di nazisti riciclati. Purtroppo è parte della nostra storia».
La resa dei conti col passato venne solo col ’68 e Brandt cancelliere?
«Quelli furono i prodromi. La vera resa dei conti con noi stessi venne negli anni ’80 e ’90. Noi nel ‘68 cominciammo, con la protesta contro la generazione nazista, ma allora non avevamo idea di quanto avessimo ragione contro i nostri padri. Tutta la Bonn di allora fu governata da ex nazisti. Che si adattarono, sapevano di essere sconfitti dalla Storia. Eppure nel ministero della Giustizia tutti i segretari di Stato erano ex nazisti, e agli Esteri, e al Bnd. Purtroppo non ci si può liberare da questo passato postbellico rifiutando di seppellire la salma dell’assassinoPriebke».

Repubblica 17.10.13
Come le guerre incrudeliscono sui cadaveri
Colpevoli due volte
di Giovanni De Luna


La guerra è morte violenta e consiste essenzialmente nel modificare (bruciare, danneggiare, colpire con un proiettile, mutilare) il corpo umano. Per quanto edificanti o efferate, le pratiche che si riferiscono ai morti sono abbastanza limitate: il corpo “amico” viene rispettato sempre, onorato spesso; può essere usato per gridare vendetta o implorare la pace, per incitare all’odio contro l’altro o per rinsaldare le proprie fila. Il corpo “nemico” è talvolta rispettato, quasi sempre profanato; nel primo caso viene sepolto in una tomba individuale, in un cimitero, nel secondo può essere esibito in pubblico o cancellato in una fossa comune, può essere smembrato, violato, distrutto. È come se, dal punto di vista dello storico, il nemico venga ucciso sempre “due volte”: la seconda morte è quella che induce una riflessione sull’uccisore, trasforma il corpo della vittima in uno straordinario documento per conoscere l’identità del carnefice.
Fu così per le vittime delle Fosse Ardeatine. Un medico legale, il professore Attilio Ascarelli, con il suo referto raccontò per primo la loro morte: «I caduti erano ammassati gli uni su gli altri così da formare una massa unica come acciughe messe in scatola e le frane avevano ricoperto i cadaveri e avevano fatto una specie di magma». Le carnisi erano mischiate con un impasto di terra e detriti in una massa indistinta, metà minerale, metà umana. Ma in quel “magma” Ascarelli riuscì a decifrare gli ultimi attimi vissuti dalle vittime; avevano visto la loro morte guardando quella di chi li precedeva, avevano avuto il tempo di stringersi uno all’altro in un ultimo abbraccio, interi nuclei familiari: «Nelle prime duecento salme si sono riscontrate solo una o due salme di ebrei; poi il gruppo ebraico diventa sempre più numeroso.., ciò significa che gli ebrei sono entrati e sono stati uccisi insieme. Della famiglia Consiglio, che ha avuto quattro membri uccisi, tutte le quattro salme sono state trovate l’una vicina all’altra, fra cui una di un ragazzo quattordicenne... Le vittime erano 335... non c’è dubbio che tutti sono stati uccisi insieme. Tutti legati allo stesso modo, con lo stesso tipo di corda e sempre spogliati degli oggetti che avevano addosso».
Andò proprio così. «Vi furono sessantasette esecuzioni a gruppi di cinque» – avrebbe raccontato poi Kappler al suo processo – «Tornai dalle cave al mio ufficio. Mi vi trattenni un’ora e mezzo e nel frattempo mandai alle cave alcuni uomini del mio ufficio perché sparassero “il loro colpo”. Ritornai alle cave quando seppi che il mio subordinato Wetjen era ancora lì e non aveva sparato “il suo colpo”. Gli domandai perché non aveva sparato. Mi disse che sentiva ripugnanza. Allora gli spiegai tutte le ragioni per cui doveva compiere da buon soldato quell’atto. Mi rispose: “Avete ragione, ma la cosa non è facile”. Vi sentireste di sparare un colpo accanto a me? replicai. Alla sua affermativa risposta gli passai un braccio intorno alla vita e ci recammo insieme nella cava. Egli sparò accanto a me». Un colpo per ogni ufficiale, affinché tutti fossero coinvolti nell’esecuzione. La rappresaglia poteva anche appartenere alle leggi di guerra dei tedeschi; ma quel colpo sparato alla nuca da ognuno degli uomini dell’ufficio di Kappler significava la scelta di utilizzare i corpi delle vittime come un foglio di carta bollata su cui siglare un patto scellerato per rinsaldare la disciplina del gruppo e per essere tutti complici di tutti, nella prospettiva di un futuro processo penale.
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Alle Fosse Ardeatine Kappler pretese che ognuno dei suoi ufficiali sparasse il “suo” colpo alla nuca Un modo per renderli complici di un’azione che già si sapeva sarebbe stata condannata

l’Unità 17.10.13
Al funerale 100 invitati. Con il sì del Prefetto
La cerimonia di Albano non era per pochi intimi
La lista dei partecipanti, per lo più di estrema destra, sottoposta alle autorità
di Jolanda Bufalini


Una lista di parenti e amici autorizzati a presenziare al rito funebre per Erich Priebke. Un elenco di invitati curato dall’avvocato Paolo Giachini, che ha avuto (almeno sino a ieri) la procura dalla famiglia del nazista condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. E, presumibilmente, concordato con le autorità con cui ha trattato le modalità delle esequie, visto che il decreto emesso dal questore Fulvio Della Rocca, esplicitamente fa divieto non solo di funerali solenni ma anche di manifestazione pubblica. È intorno a questa lista di invitati che la bufera scoppiata sul capo del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, si addensa sempre più, un nuovo elemento che si aggiunge a ciò che è stato, nel pomeriggio e nella notte di martedì, ad Albano sotto gli occhi di tutti: dalla villa dove ha sede la fratellanza dei lefevriani entravano e uscivano, come fossero a casa propria persone molto note per le loro idee di estrema destra, antisemite, negazioniste come Maurizio Boccacci e Giuliano Castellino.
Proprio quella lista di invitati, un centinaio, sarebbe all’origine del parapiglia finale: il prete anticonciliare che si toglie i paramenti, l’avvocato Giachini, che non vede arrivare i suoi invitati, rifiuta «di farli scortare dalla polizia».
La versione della Questura sui pulmini fermati, una ventina di persone, è un’altra, i due automezzi sono stati fermati all’ingresso di Albano. Prete e avvocato allora decidono: «Così le esequie non si fanno». Mentre il prefetto rivendica: «Ho interrotto il funerale che rischiava di trasformarsi in un raduno nazi».
La lista esiste, non esiste? Il prefetto ne aveva contezza? È quello che vorrebbero sapere i parlamentari del Pd e di Sel (Carella, Stumpo, Zaratti e Ileana Piazzoni) e che chiedono al ministro Alfano di rispondere in Aula. Sel, in più, chiede le dimissioni del prefetto, spiega Filippo Zaratti: «Una follia che ci fossero persone come Boccacci, esponente di Militia, organizzazione esplicitamente antisemita e negazionista, una cosa gravissima anche scegliere la chiesa dei seguaci di Lefebvre, anche le loro posizioni negazioniste sono note».
Gongola l’avvocato Giachini: «Non si sono resi conto, quando mi hanno chiesto di trovare una chiesetta appartata, dopo la proibizione della diocesi, che gli unici ad accettare sarebbero stati loro».
«DEGLI AMICI RISPONDO IO... »
Un centinaio di invitati «amici miei, di cui rispondo io», dice l’avvocato, il quale si è opposto a che fosse allontanato Boccacci, che per la questura «non aveva titolo a stare», ha fatto entrare, dopo una telefonata, Castellino, ha visto lì quella che dovrebbe essere una sua vecchia conoscenza dei tempi della strategia della tensione, Serafino Di Luia. E avrebbe voluto, in una sua visione dei motivi di ordine pubblico, pure tutti «quei giovani di destra fuori». Un maestro di cerimonie forte della procura della famiglia Priebke ma per niente preoccupato di rispettare le caratteristiche di una cerimonia che doveva essere strettamente privata.
Invece, per la Questura, di privato non c’era proprio un bel nulla. Di parenti nemmeno l’ombra (Giachini: «È venuto il figlio che vive negli Stati Uniti ma, vista la situazione se ne è andato subito»). Parenti e affini cosa significa? la badante, persone che lo hanno curato, l’avvocato che rappresenta la famiglia. Stop. Come possono essere amici di una persona di 100 anni ragazzi nati negli anni novanta. Si fa l’esempio dei due fermati del gruppo che ha tentato l’assalto con bottiglie e sanpietrini martedì sera, uno è nato nel 1987, l’altro nel 1993.
È così che ad Albano, medaglia d’argento della resistenza, la tragicommedia del feretro di Priebke è andata avanti fino a mezzanotte di ieri, con le forze di polizia costrette a sollevare la bara dell’ingombrante morto e a spostarlo in un furgone della polizia, a fare un megasbarramento di cellulari per impedire l’assalto all’esterno: da via Trilussa dove si apre il cancello della proprietà dei lefevriani, le famiglie che nel pomeriggio avevano presidiato il luogo erano state sostituite da ragazzi, sempre più su di giri. A mezzanotte è sfrecciato il furgone azzurro con la bara, alla volta di Pratica di Mare, e dare inizio al terzo atto della commedia: si recita a soggetto.
Chiosa gli eventi il presidente della comunità ebraica Riccardo Pacifici: «Qualcuno è stato ingannato da un millantatore che non ha mantenuto la tranquillità promessa».

il Fatto 17.10.13
Pasticci da prefetto, Pecoraro nella bufera “Ma io che c’entro?”
Dal caso Alma Shalabayeva agli scontri ad Albano, carriera e guai dell’amico di Bisignani e Rotondi
di Chiara Paolin


Il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, sta nei guai fino al collo. Il pasticcio Priebke ormai è un affare internazionale, e tutti scuotono la testa: la revoca al divieto dei funerali è stata un’idea pessima. E la scena tivù dei manifestanti che prendono a calci il carro funebre ha sancito l’ennesimo flop italico davanti a una pratica delicata, ma certamente solubile.
Il fatto è che sugli esteri Pecoraro va malino. L’ultimo intoppo aveva il nome di Alma Shalabayeva e la faccina allegra di Alua, 7 anni, spedite in Kazakistan in un turbine di irresponsabilità generale. Anche quella volta Pecoraro disse più o meno quel che che ripete oggi: ma che è colpa mia?
DIFFICILE ARTICOLARE una spiegazione valida dopo un trenino di eventi fallimentari, dallo scandalo dei cortei studenteschi finiti a manganellate sulla schiena dei ragazzi e la guerra persa su Corcolle, la discarica di Roma scavata a due passi da Villa Adriana, monumento all’umana bellezza, nonché segno di uno smarrimento netto nella carriera del poliziotto. Un ragazzo concreto, nato nel 1950 a Palma Campania, verde piana nolana, laureato a Napoli e spedito a Rovigo per il primo incarico. Entra al ministero degli Interni e arriva alla segreteria del Capo della Polizia: è il 1979, trent’anni da compiere e tutta la fortuna davanti.
Purtroppo, il destino mette sulla sua strada il talento di Alessandro Pansa, salernitano di Eboli, classe 1951, pure lui laureato in legge alla Federico II di Napoli e ambizioso assai. Uno che ha il pallino dell’innovazione, della tecnologia, dell’indagine moderna. Uno che entra nello squadrone di Gianni De Gennaro e fa il giro d’Italia per combattere mafie e criminalità. Nel frattempo, Pecoraro si mette dietro le scrivanie delle prefetture da Prato a Benevento, sperando nel colpaccio: Napoli. É il 2007 e il verdetto risulta netto: sul Vesuvio vince Pansa, a Roma Pecoraro diventa capo dipartimento dei Vigili del fuoco.
Pecoraro si consola alla Festa del Torrone e Croccantino di San Marco ai Cavoti, collina beneventana: Sandra Lonardo Mastella, governatrice campana non ancora colpita da indagini per una presunta raccomandazione, gli attribuisce il premio d’onore. Un dolce pensiero per il poliziotto-funzionario che lavora indefesso al suo futuro: rapporti sociali, politici, lobbystici. Frequenta le belle feste sul Tevere e sfodera una bionda signora: al compleanno numero 50 di Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del programma Berlusconi nell’anno 2010, le cose sembrano girare finalmente per il verso giusto. Da due anni Pecoraro è diventato prefetto di Roma, la grande occasione, ma anche le scocciature e i pericoli che non mancano. Come quando Luigi Bisignani, amico caro, chiede aiuto perché i cinghiali infestano il giardino della scuola frequentata dalla figlia della ministra Prestigiacomo. O quando le relazioni s’intrecciano al punto da farti cadere nella trappola. Sempre nel 2010, la sintomatica conversazione captata dai magistrati tra il prefetto e Bisignani dice molto. Pecoraro: “Meno male che non ci sono andato lì alla festa, alla cosa... ”.
Bisignani: “Hai fatto bene, - ride - un abbraccio”.
Pecoraro: “Ma guarda un po’”. Bisignani: “Ti facevano la festa - ride -“
Pecoraro: “Meno male che l’ho intuito, guarda, veramente, certe volte (...) ”.
Bisignani: “Il sento senso è più importante di tutti”.
SAGGE PAROLE, che però non hanno protetto il prefetto dal-l’ultima delusione: quest’anno, per sostituire Manganelli a capo della Polizia, non hanno scelto lui (nonostante il favore di Alfano). Hanno scelto Pansa. E adesso Pecoraro se la deve vedere con Priebke, con quelli della Tav che calano su Roma, con una città impazzita e la crisi del Pdl. Che non aiuta.

l’Unità 17.10.13
Migranti, nella bozza niente corridoi umanitari
Nella bozza concordata per il Consiglio europeo della Ue del 24-25 ottobre nessun accenno a salvataggi e tutele per chi fugge
di Paolo Soldini


Parole tante, fatti nessuno. La commozione per la tragedia di Lampedusa e l’orrore per le cifre dei morti tra i poveri cristi che fuggono dai paesi in guerra non smuovono le coscienze delle cancellerie europee. Il capo del governo italiano aveva chiesto che il vertice dei capi di stato e di governo che si terrà a Bruxelles la prossima settimana affrontasse l’emergenza e proponesse misure di assistenza e salvataggio dei profughi sul modello di quelle previste dall’operazione «Mare Nostrum» (almeno per come la intende lui, nonostante l’improvvido nome che le è stato dato). Anche la Commissione, e in particolare la commissaria Cecilia Malström, si era impegnata in questa direzione. Ebbene, da quanto è possibile leggere sulla bozza di conclusione del vertice elaborata, com’è consuetudine, dagli sherpa su mandato dei rispettivi governi il capitolo dell’immigrazione non prevede alcuna di quelle misure. Non c’è traccia neppure di una riforma dei criteri di accoglimento e di distribuzione dei profughi richiedenti asilo: un’altra richiesta del governo di Roma, che sollecita una modifica del regolamento «Dublino II» il quale, com’è noto, impone che le domande di asilo possano essere rivolte solo nei primi Paesi di ingresso dei rifugiati. La politica dell’Europa nei confronti dei profughi non è cambiata e non cambierà, almeno per volontà dei governi.
Infatti, nella bozza di conclusioni, dopo una scontata espressione di «profonda tristezza» per la morte di tante persone e uno scontatissimo buon proposito di «agire perché simili eventi non accadano più», si cita l’istituzione di una task force da insediare insieme con la Commissione «per identificare, in breve tempo, azioni concrete volte a migliorare l’impiego delle politiche e degli strumenti esistenti, in particolare riguardo alla collaborazione con i Paesi di origine e transito, alle attività di Frontex (l’agenzia di vigilanza sulle frontiere esterne) e alla lotta contro il traffico di esseri umani e il contrabbando».
Tutto qui. Il Consiglio europeo tornerà ad occuparsi di asilo e migrazioni per mettere in cantiere «ulteriori misure» nel giugno dell’anno prossimo. Cioè quando mancherà ogni possibilità di controllo da parte del Parlamento europeo, perché la vecchia assemblea sarà stata già sciolta e la nuova, che verrà eletta a maggio, non sarà ancora insediata. E molti si aspettano già una dura protesta del presidente del parlamento Martin Schulz. Ma intanto continua tutto come prima. Niente operazioni di soccorso in mare come si chiedeva nel protocollo presentato dalla commissaria Malström, bocciato per il veto di cinque paesi rivieraschi, tra cui, purtroppo, l’Italia. Nessun corridoio umanitario, nessun ufficio comunitario per decidere insieme la distribuzione dei rifugiati. Niente di niente. Lo stesso ministro Alfano, nella conferenza stampa di presentazione di «Mare Nostrum» ha dato conto di una nuova operazione di Frontex condotta con la prassi abituale: l’abbordaggio di una nave, l’arresto dell’equipaggio e «l’accompagnamento in sicurezza» dei migranti. Il ministro non ha precisato dove i migranti siano stati «accompagnati». Forse in Libia, dove vengono imprigionati e torturati? Sarebbe opportuno che qualcuno ce lo facesse sapere. Come sarebbe utile che le autorità italiane prendessero posizione su certi metodi utilizzati da unità che fanno capo a Frontex, come i respingimenti effettuati sequestrando cibo, acqua e carburante alle imbarcazioni intercettate.
L’orientamento del Consiglio europeo, se sarà quello indicato dalla bozza, sarà uno schiaffo al governo italiano. O forse, dovremmo dire meglio, al capo del governo italiano. A quanto risulta, anche da documenti scritti, l’atteggiamento dei funzionari italiani che hanno lavorato a definire la posizione ufficiale del nostro Paese dopo il consiglio dei ministri dell’Interno e della Giustizia che si è tenuto l’8 ottobre a Lussemburgo e al quale hanno partecipato i ministri Alfano e Cancellieri non è parso in alcun modo in linea con le affermazioni del presidente del Consiglio. È più che ragionevole il sospetto che le divergenze di opinioni esistenti all’interno del governo, pubbliche ed evidenti sulla legge Bossi-Fini e sul reato di clandestinità, abbiano un riflesso anche a Bruxelles.

Corriere 17.10.13
16 ottobre 1943
Il giorno della vergogna assoluta che l’Italia dovrà sempre ricordare
di Pierluigi Battista


Alla presenza del presidente Napolitano, si è svolta ieri la cerimonia alla Sinagoga Maggiore di Roma per celebrare il 70° anniversario della deportazione degli ebrei di Roma. Occorrerà ricordare questa data, il 16 ottobre del 1943, come una data fondamentale della nostra Nazione, il giorno in cui venne sfregiata Roma, il giorno in cui l’Italia è entrata come complice nelle pratiche di sterminio del popolo ebraico. Il giorno della vergogna assoluta e irrimediabile.
Quel giorno 1.021 ebrei (altri 500 circa saranno catturati nei mesi successivi) vennero presi e portati nei campi della morte: ne tornarono solo 16. Un orrore che, come ha amaramente ricordato ieri il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, si realizzò «grazie all’indifferenza di troppi». Troppi romani, troppi italiani fecero finta di niente, prima e dopo la razzia del 16 ottobre. Il significato epocale di quella deportazione, il fatto che in una «normale» giornata di guerra i nazisti occupanti, con l’ausilio di spie, solerti funzionari italiani, antisemiti inveterati che potevano mostrare con particolare zelo il loro odio verso gli ebrei, andarono casa per casa per catturare cittadini romani e italiani di religione ebraica da trasferire nei campi della morte, questo significato è rimasto oscurato per tanti anni, anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la Liberazione dell’Italia. Il 16 ottobre 1943 è rimasto il titolo di un libro splendido di Giacomo Debenedetti, ma non è mai stata considerata dall’Italia liberata e riportata alla democrazia come una data da celebrare in modo solenne. Il giorno della vergogna, appunto. E questo senso di vergogna ha circondato la data del 16 ottobre di un muro di reticenza, di omertà, di silenzio. Il rastrellamento del Ghetto non fu una delle tante nefandezze compiute dai nazisti sui partigiani, sui civili massacrati per rappresaglia, sui dissidenti, sugli antifascisti. Fu la nefandezza massima di una politica di annientamento che prevedeva la ricerca di ogni singolo ebreo, uomo, donna, anziano, bambino, per strapparlo dal suo mondo e scaraventarlo nell’inferno della morte e della Shoah. All’alba di quel 16 ottobre gli uomini cercavano di scappare sui tetti mentre le donne restavano in casa ad aspettare l’arrivo dei nazisti, racconta Anna Foa in un libro straziante come il recentissimo Portico d’Ottavia 13 edito da Laterza, perché «nessuno pensava che avrebbero preso anche donne e bambini, pensavano si cercassero uomini per i lavori forzati». Ma i tedeschi non facevano distinzioni. Non volevano braccia robuste per i lavori forzati, non volevano schiavi da sfruttare senza pietà per mantenere elevato il livello produttivo della loro nazione in guerra. Volevano ebrei. Ebrei da rastrellare casa dopo casa, porta dopo porta, ebrei giovani e anziani, deboli e forti, purché ebrei da mandare nei campi dello sterminio, da eliminare in modo radicale, senza eccezione alcuna. E tutto questo nel cuore di Roma, nel quartiere ebraico, il «Ghetto», che ospitava la più antica comunità di ebrei del mondo occidentale. Un episodio della distruzione ebraica avvenuto non in uno sperduto paese dell’Europa orientale, ma nel centro di una città piena di storia come Roma.
Roma e l’Italia non hanno mai voluto soffermarsi sul significato profondo di quella tragedia. Nella memoria collettiva si sono incise altre date, si sono elaborati altri ricordi, ma il 16 ottobre del ’43 è circondato dall’imbarazzo e dalla reticenza perché quel giorno i romani, gli italiani, i civili, i resistenti, gli oppositori, i vicini di casa,
i colleghi di lavoro hanno assistito impotenti, talvolta persino indifferenti, a quella tragedia immane. Nel dopoguerra il quartiere ebraico di Roma, il «Ghetto», quelle strade e quella case che conobbero la mostruosità della persecuzione e della deportazione degli ebrei, sono stati il bersaglio di altri attacchi e di altri oltraggi. In un altro ottobre, stavolta del 1982, un bambino ebreo venne ucciso in un attentato da un gruppo di terroristi all’uscita della Sinagoga dove si era celebrato l’ultimo giorno della festa ebraica di Sukkot. Un bambino ebreo di due anni venne colpito semplicemente perché ebreo al termine di una cerimonia ebraica negli stessi luoghi che videro il rastrellamento del 16 ottobre del ’43 ma il nome di Stefano Gay Taché è stato incluso nell’elenco delle vittime italiane del terrorismo solo l’anno scorso grazie all’impegno di Giorgio Napolitano. Anche in questo caso l’attacco cruento al «Ghetto» non venne considerato da Roma e dall’Italia come un oltraggio, come una vergogna, come lo scempio che una città civile dovrebbe sentire come intollerabile. Il giorno della vergogna non potrà più essere ignorato. Dopo le celebrazioni ufficiali e solenni del settantesimo anniversario, bisognerà ricordarsi di quel giorno anche dopo 71 anni, 72 anni. Come esercizio doveroso della memoria, e come minimo atto di riparazione per una vergogna subita e mai riscattata.

il Fatto 17.10.13
I siriani e il “campo pestaggi”
La denuncia di una migrante contro le forze dell’ordine per i metodi usati a Pozzallo
di Veronica Tomassini


Siracusa In questa strada del pianto e delle buone intenzioni, di anatemi urlati pregni di tristezza civica e compassione, abbiamo incontrato un capitolo del-l’esodo che rompe tutti i piani. La fonte teme di esporsi, ha origini arabe, vive in Italia da molti anni; conserva alcuni documenti, audio e video, che riguardano profughi siriani. Ascoltiamo anche noi. La voce è quella di una ragazzina, dice di chiamarsi Yasmine, viene da Damasco, lo sbarco a cui si riferisce è quello del 7 ottobre scorso, sulle coste di Pozzallo. Yasmine ha 12 anni, così racconta: “Eravamo seduti in una grande stanza, non abbiamo capito nulla. Gli uomini sono entrati con i manganelli e le loro facce ci spaventavano, hanno iniziato a colpire le persone e io ho cominciato a piangere. Ci hanno messo in un angolo e ho pianto tanto”. Yasmine riferisce di uomini e donne che supplicavano gli agenti, chiedendo l’intercessione di un avvocato, qualcuno implorava la presenza di un rappresentante della Human rights watch, l’associazione non governativa per i diritti umani. Se solo tu avessi visto, dice la bambina nell’audio, “hanno preso un giovane e lo hanno picchiato alle braccia e alle gambe”. Colpivano alla cieca, fino a ferire a un occhio una bambina di 2 anni, incidente confermato da altri siriani dello stesso sbarco.
Le testimonianze sono tante, registrate e custodite dalla nostra fonte. La ragazzina non specifica chi fossero gli uomini, forze dell’ordine, agenti, il campo però è il centro di prima identificazione dove i profughi vengono radunati subito dopo lo sbarco per l’iter del riconoscimento.
ED È LÌ CHE SECONDO Yasmine e altri siriani si sono consumati terribili pestaggi. I siriani di quello sbarco in particolare sembrano abbastanza preparati in materia di diritto, tra loro ci sono intellettuali e professionisti; buona parte della classe medio alta arriva con i barconi, spiega la nostra fonte, conoscono le leggi, la Dublino 2, la Bossi-Fini, ed è la ragione per cui non vogliono essere identificati in Italia, ma nei paesi dove intendono richiedere asilo, di solito in Nord Europa, Danimarca, Svezia, dove è più facile il ricongiungimento famigliare. Yasmine e la madre giurano di aver assistito a violenze inaudite.
Ma c’è molto altro, come racconta ancora un siriano di quello sbarco, di quei pestaggi, Mohammed di Damasco, 18 anni, studente: “Ci hanno portato in un centro di detenzione (lo intende così, nda), promettendoci cibo e una doccia a ognuno. Invece abbiamo fatto appena in tempo a ottenere acqua per i bambini, perché hanno iniziato subito la procedura del riconoscimento. Ci hanno detto che, se non davamo le nostre impronte, avrebbero usato la forza. Abbiamo deciso di rifiutarci, eravamo un gruppo; non volevamo l’asilo in Italia. Hanno preso alcune persone e le hanno picchiate, siamo intervenuti per difenderle, hanno caricato anche su di noi. Hanno colpito così tanto che hanno fratturato le braccia e le gambe di un ragazzo e un altro lo hanno colpito alla testa. Hanno usato i manganelli, anche quelli con la scossa elettrica che miravano ai nostri piedi. Colpivano a caso. Ne hanno prelevati due, quei due sono tornati sulla sedia perché non potevano camminare a causa delle botte”.
I pestaggi secondo i testimoni si sono verificati anche in altri centri e sempre subito dopo lo sbarco, dettaglio non meno fastidioso, qualora fosse del tutto confermato. L’uso dei manganelli e della scossa elettrica è una prassi, ha riferito la nostra fonte, parecchio usata – dicono i testimoni - soprattutto negli sbarchi di queste ultime tre settimane. Yasmine conclude la sua confessione audio usando più volte la parola “damar” che in arabo vuol dire disfatta, quel tanto che attiene al dolore, al disfacimento, ad una morte morale. Mohammed sostiene di aver udito uomini urlare pietà e imprecare con frasi del tipo “siete un paese democratico, fermatevi, Bashar Al Assad avrebbe avuto più misericordia”.

il Fatto 17.10.13
Odifreddi
Repubblica cancella il post, lui se ne va


Piergiorgio Odifreddi lascia il suo blog “Il non-senso della vita” su repub  blica.it   dopo la cancellazione di un suo post sul conflitto israelo-palestinese in cui sosteneva che “in questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine”. “Il problema è che se continuassi a tenere il blog, d’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso, e dunque scrivo, può non essere gradito a coloro che lo leggono: qualunque lingua, viva o morta, essi usino per protestare”, scrive nell’addio. Il post cancellato terminava così: “Naturalmente, l’eccidio di 4 anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi. Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?”.

il Fatto 17.10.13
4 mila agenti e carabinieri per difendere la “zona rossa”
Tensione a Roma per la manifestazione degli indignati di sabato
La polizia: “In arrivo alcuni violenti dalla Val di Susa”
Inviate lettere di intimidazione a Unicredit e Abi
di Valeria Pacelli


Circolari trasmesse tra Questura, Digos e Ros; permessi sospesi per le forze di polizia e carabinieri presenti sul territorio romano e le prime lettere di minaccia. Per le manifestazioni in programma domani e dopo domani a Roma, c’è preoccupazione da parte delle forze dell’ordine. La città potrebbe ospitare - stando alle prime stime - circa trenta mila persone.
L’allerta riguarda soprattutto la manifestazione degli indignati di sabato, mentre ci sarebbe meno preoccupazione per il corteo di domani al quale parteciperanno Cobas e Cub. Questi partiranno da piazza della repubblica e concluderanno la loro manifestazione a piazza San Giovanni, dove è stato autorizzato anche un presidio e il ’montaggio’ di tende nel piazzale antistante alla basilica.
PER SABATO invece la tensione è molto alta. Il primo segnale arriva da alcuni gruppi violenti che starebbero raggiungendo la capitale già in questi giorni. Farebbero parte dell’ala più violenta che a Chiomonte, durante le manifestazioni no-tav, ha creato scompiglio. Sarebbero già state intercettati anche gli obbiettivi da colpire. Ossia il ministero dell’Economia e delle Finanze e quello della Difesa. Entrambi situati in via XX settembre a Roma, dove sabato passerà il corteo degli indignati, per poi concludersi poco dopo a Porta Pia. Per ora si è deciso di portare via i cassonetti e i cestini e di vietare per le auto di parcheggiare in centro in una determinata fascia oraria. Domani inoltre è stato convocato un tavolo tecnico per stabilire i limiti di quella che è definita zona “rossa”, se così si può chiamare quella parte di suolo pubblico antistante i palazzi delle istituzioni, che si evita di far raggiungere ai manifestanti. Probabilmente, sempre stando alle preoccupazioni che tengono alta la tensione tra le forze di polizia, si starebbero organizzando agitazioni anche dopo la fine del corteo di sabato, quindi durante la notte.
Il secondo avvertimento arriva poi dalle due lettere di intimidazione che sarebbero state recapitate ad Unicredit, e all’Associazione Bancaria Italiana, Abi, con sede a piazza del Gesù a Roma. Sono i simboli che si vogliono attaccare, questa volta come il 15 ottobre del 2011, quando le vetrine sono state spaccate, i bancomat distrutti e le auto bruciate. Quella volta si staccarono sanpietrini a San Giovanni e la piazza divenne un campo di battaglia, tra polizia e manifestanti. Ma se da una parte volarono pietre, dall’altra si rispose con i manganelli. E a predominare fu quella violenza che poco ha a chè vedere con la volontà di affermare i propri diritti, e quella di stabilire la sicurezza. Due anni fa, i “violenti” furono identificati in un gruppo di black-bloc e di studenti. Stavolta la paura è che gli “attacchi” siano più organizzati e precisi. L’ultimo timore arriva anche dalla Puglia. Ci sarebbe anche un gruppo di anarchici leccesi che si starebbe organizzando. Queste sono solo le sensazioni e gli allarmi che dominano in queste ore nelle questure che stanno preparando il servizio d’ordine. Intanto due giorni fa si è tenuto un comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza in Prefettura per mettere a punto gli ultimi dettagli. Da oggi inizieranno controlli e bonifiche delle strade a cui seguiranno i controlli agli ingressi della città per cercare di monitorare l’arrivo di eventuali “infiltrati violenti”. Il numero degli agenti dispiegati si aggira intorno ai 4000 uomini. Intanto sono state sospese anche le licenze e permessi. Perchè al di là dei due cortei dei movimenti per il diritto all’abitare, i Cobas e i No Tav, c’è di mezzo anche la partita Roma-Napoli di venerdì sera.
IL DISPOSITIVO che sarà adottato prevede oltre a cerchi concentrici attorno all’area dello stadio Olimpico una sorta di duplice controllo per continuare a tenere sotto controllo la situazione anche dopo la fine del match. Inoltre i pullman dei tifosi napoletani verranno scortati dalle forze dell’ordine per evitare azioni contro i supporters partenopei.

Repubblica 17.10.13
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: critiche ingiuste alla legge di Stabilità, spero in risorse aggiuntive per i redditi medio-bassi
Legnini: “All’editoria 120 milioni a patto che assuma giovani”
di V. Co.


ROMA — Sottosegretario Legnini, come giudica la pesante reazione delle parti sociali alla legge di Stabilità, ritenuta poco coraggiosa?
«Fuori misura. La legge si muove indiscutibilmente nella direzione giusta. Meno tasse su lavoro e imprese, più investimenti in infrastrutture, allentamento del patto di stabilità. E poi anche contrasto alla povertà e al disagio sociale»
Il provvedimento più atteso però, la riduzione del cuneo fiscale, porterà alla fine solo pochi euro in busta paga.
«Perimetro e contenuti della manovra sono quelli giusti. Poi tutto è migliorabile. Anzi, mi auguro che in Parlamento si possano individuare risorse aggiuntive per rafforzare il taglio del cuneo concentrandolo sui redditi medio-bassi».
Lei è stato il relatore della legge di Stabilità dello scorso anno, l’ultima targata Monti. Vede qualche differenza?
«La differenza fondamentale è che siamo usciti dall’emergenza finanziaria ed è la prima manovra che restituisce e non chiede nuove tasse».
Nella legge di Stabilità avete inserito anche novità importanti per l’editoria, settore di cui lei ha la delega.
«Abbiamo stanziato 120 milioni nel prossimo triennio sia per sostenere le nuove iniziative editoriali e favorire l’assunzione dei giovani nei nuovi media. Sia per gli ammortizzatori sociali, necessari alle imprese in difficoltà. Gli interventi d’altronde erano urgenti perché il comparto è in profonda crisi».
Soldi a fondo perduto?
«Tutt’altro. Le aziende editoriali ci devono dire se e quanti giovani assumeranno. Il fondo deve infatti servire ad arginare gli effetti della crisi e aprire una fase nuova di rilancio. D’altronde una crisi così profonda non si risolve con un po’ di soldi in più, ma con una profonda trasformazione dell’intera filiera e guardando di più all’innovazione».
Pensate ad altri provvedimenti?
«Entro l’anno sarà pronto un nuovo pacchetto di norme importanti. Interverremo su materie delicate come i motori di ricerca, il digitale, le edicole e la distribuzione».

l’Unità 17.10.13
Cefalonia, chiesto l’ergastolo per il nazista novantenne
di Franca Stella


ROMA «Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani» perché «erano considerati dei traditori». «Mi si è fatto buio quando ho saputo questa cosa. Non sarei mai riuscito a farla». Invece il caporale Alfred Stork, che all’epoca aveva 20 anni e fu «scelto a caso» per far parte del plotone d’esecuzione, sparò. Trucidando «73 ufficiali italiani» della Divisione Acqui a Cefalonia.
Ieri, 70 anni dopo l’eccidio in terra straniera, la procura militare di Roma ha chiesto per lui la pena dell’ergastolo. La sua confessione risale a otto anni fa (aveva 82 anni), quando venne sentito come testimone dai magistrati tedeschi che indagavano sulla strage di Cefalonia. Stork non fu mai incriminato, perché la linea di quell’inchiesta che alla fine venne comunque archiviata era di perseguire solo gli ufficiali con compiti di comando e non i semplici soldati.
Quella confessione è inutilizzabile nel processo giunto alle battute finali, perché, all’epoca fu resa senza un difensore. Stork «non ha avuto il coraggio di mantenere ferma la sua ammissione di colpa, restando comodamente nella sua casa in Germania», ha detto il procuratore militare Marco De Paolis. Ci sono però, secondo il magistrato militare sufficienti testimonianze che indicano il plotone di cui l’imputato faceva parte come uno di quelli «che fucilò l’intero stato maggiore della Acqui», nel settembre 1943. Per questo ha detto ieri il procuratore l’imputato «deve essere condannato all’ergastolo». Richiesta alla quale si sono associate le parti civili, tra cui alcuni parenti delle vittime. Venerdì, dopo l’intervento della difesa, la sentenza.
«DOVEVAMO UCCIDERLI»
«Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani» perché «erano considerati dei traditori», disse ai magistrati tedeschi il 25 settembre del 2005. Alla Casetta Rossa, dove fu commesso l’eccidio, sarebbero stati complessivamente giustiziati 129 ufficiali (altri sette vennero ammazzati il giorno successivo per rappresaglia) da parte di due plotoni. Quello di Stork, comandato da «un tenente», sparò dall’alba al pomeriggio.
L’anziano ex caporale ricostruì quelle ore in vari passaggi dell’interrogatorio. Era l’alba del 24 settembre: «Un ufficiale è arrivato nel nostro campo. Ci ha detto che dovevamo uccidere questi italiani e che fuori era già stato preparato tutto. C’erano un prete e due ufficiali». I plotoni d’esecuzione, «di 10-12 persone», sono stati formati con militari scelti «a caso. Mi sono chiesto come mai noi alpini dovevamo fare questa cosa».
I prigionieri «erano stati portati con un camion. Erano in piedi, 5 alla volta a circa 8-10 metri da noi. Gli abbiamo sparato». «Dovevamo sparare in tre su ognuno: uno in testa e due al petto». Una volta uccisi, «li dovevamo spostare di lato. Gli italiani che arrivavano successivamente con il camion, vedevano in terra i cadaveri, pertanto sapevano che fine avrebbero fatto. Mi sono meravigliato della loro tranquillità...».
«Appena terminato... erano circa 73 ufficiali italiani... non vi erano soldati ma soltanto ufficiali... conoscevo le loro uniformi».

l’Unità 17.10.13
Espulsa ragazzina rom. Sinistra francese sotto choc
Presa durante una gita scolastica e portata via davanti ai compagni
Bufera sul ministro dell’Interno Valls, aperta un’inchiesta. Hollande tace
di Luca Sebastiani


In Francia scoppia il caso Leonarda. La quindicenne kosovara è stata prelevata da funzionari di polizia da un bus scolastico mentre era in gita con i suoi compagni di classe e portata via in lacrime. Bufera sul ministro dell’Interno. Il socialista Hollande tace.
Ormai il suo nome è associato ad uno dei dossier più scottanti del momento, che chiama in causa l’orientamento della maggioranza, quello del governo e dell’Eliseo, insomma, il futuro stesso del socialismo dell’era Hollande. Già, perché l’affaire Leonarda, rischia di mettere a nudo l’incapacità dei socialisti, stretti tra l’impopolarità dei sondaggi e l’assenza di margini di manovra economici, di darsi una coerenza politica in linea con la propria tradizione su temi quali l’asilo e l’immigrazione.
L’espulsione di Leonarda, una quindicenne kosovara, prelevata dai funzionari di polizia da un bus scolastico mentre era in gita e portata via in lacrime davanti ai compagni di classe, è stata la scintilla che ha incendiato le polveri interne alla maggioranza, che da qualche settimana si divide sulle politiche e le affermazioni muscolari di Manuel Valls il ministro degli Interni che grazie alla sua inflessibilità è anche l’unico della compagine socialista a godere dell’apprezzamento dei sondaggi. Almeno fino a ieri.
Leonarda era arrivata oltralpe nel 2009 e la famiglia, dopo aver esaurito tutte le possibilità e i ricorsi per ottenere asilo politico, era stata raggiunta da un provvedimento di espulsione. Martedì scorso, quando la polizia doganale si è presentata al domicilio della famiglia per metterla su un aereo per il rimpatrio in Kosovo, Leonarda si trovava in un bus scolastico per una gita d’istruzione. I funzionari hanno chiamato l’insegnante che accompagnava la scolaresca, le hanno ingiunto di fermare il bus e si sono presentati a prelevare l’adolescente tra lo sconcerto dei compagni.
Solo un paio di settimane fa il ministro Valls aveva affermato che i «rom hanno vocazione a rientrare in Romania e Bulgaria», alludendo così ad una loro sorta di congenita impossibilità ad integrarsi. Quello che ormai assume sempre più i connotati di un «primo poliziotto di Francia» come Nicolas Sarkozy ai tempi in cui scalava la destra chirachiana dal ministero degli Interni, si è attirato le critiche velate di Bruxelles e Amnesty, e gli attacchi più espliciti di una parte del Ps e del suo segretario Harlem Desir, preoccupato della deriva di destra del ministro. Il sospetto dei camerades è che il ministro cavalchi le tematiche del Fronte nazionale di Marine Le Pen per differenziarsi, salvaguardare la propria popolarità e imporre così la propria ascesa a Matignon. Data l’impopolarità di François Hollande, ormai scesa al minimo storico del 26% di gradimento, il cambio del Primo ministro sembra infatti, ormai, l’ultima carta nelle mani dell’Eliseo per tentare un rilancio.
PRIMO POLIZIOTTO
Qual è dunque la linea Hollande? Fermezza nel contrasto dell’immigrazione illegale sulla linea Valls, o umanità nel trattamento dei migranti come chiedono al Ps? L’Eliseo ha taciuto, scegliendo di non scegliere tra una lisciata al pelo populista di Le Pen e la vocazione socialista ad una legalità accompagnata da fraternità.
In questo contesto l’espulsione di Leonarda ha funzionato da detonatore, soprattutto per le modalità particolarmente odiose con cui è avvenuta. Un conto è parlare in astratto di rimpatri e rispetto delle leggi come ieri ha fatto ancora il ministro Valls, precisando con un freddo comunicato la correttezza delle procedure seguite un altro paio di maniche assistere all’espulsione forzata di una quindicenne, che contrariamente agli stereotipi rilanciati da Valls era sulla strada dell’integrazione. Il nome di Leonarda da due giorni è al centro di vivaci discussioni. In particolare hanno alzato il tono le voci della maggioranza contrarie al protagonismo del ministro degli Interni, tanto che il premier Jean Marc Ayrault ha affermato all’Assemblea nazionale che un’indagine sull’espulsione è stata già aperta, e che nel caso di irregolarità la famiglia rientrerà in Francia.
Intanto, raggiunta telefonicamente, Leonarda racconta dell’umiliazione dell’arresto, della «voglia di suididarsi», della prima notte in Kosovo passata sotto i ponti e del suo unico desiderio di ritornare a scuola. C’è da scommettere che dopo una tale dose di emozioni in prime time anche Hollande dovrà uscire allo scoperto e dire qualche parola che rimetta in riga un esecutivo politicamente sbandato.

Corriere 17.10.13
Il grande esodo irlandese per sopravvivere alla carestia
risponde Sergio Romano


I miei ricordi sulla carestia delle patate risalgono alla nomina di John Kennedy a presidente degli Stati Uniti. Poiché lei ha citato la vicenda in una recente risposta, di che cosa si trattò?
Giancarlo Sassi

Caro Sassi,
È probabile che il nome di Kennedy sia associato nella sua memoria ai molti articoli con cui la stampa americana, nel 1960, salutò l’ingresso alla Casa Bianca di un cattolico irlandese. Fu un’occasione per ricordare in quali circostanze gli irlandesi fossero giunti negli Stati Uniti, soprattutto durante l’Ottocento. Nella fase più drammatica dell’emigrazione (il decennio degli anni Quaranta) l’isola contava poco più di otto milioni di abitanti ed era una delle più povere fra le regioni d’Europa.
Sconfitti e colonizzati dalle truppe protestanti di Crom-well, gli irlandesi vivevano soprattutto di grano e patate. I proprietari delle terre erano latifondisti inglesi che passavano buona parte del tempo in Inghilterra, non erano interessati allo sviluppo dell’economia isolana e disprezzavano i loro contadini «papisti» a cui il governo di Londra, per molto tempo, non concedette neppure i diritti civili. Le condizioni economiche dell’isola peggiorarono bruscamente nel 1845 quando un parassita di origine messicana, la phitophtera infestans (in italiano peronospora) aggredì la patata, principale fonte di alimentazione per almeno tre milioni di persone. Il raccolto si ridusse di un terzo nel primo anno della carestia e di due terzi negli anni successivi. I rimedi furono tardivi e insufficienti, i proprietari delle terre continuarono a esportare il loro grano come se l’emergenza alimentare nell’isola non avesse ormai raggiunto livelli intollerabili. Un milione d’irlandesi morì di fame, un milione e mezzo emigrò negli Stati Uniti. Non è vero che la società inglese sia stata insensibile alla tragedia. Vi furono proteste per la lentezza delle misure governative e molte iniziative generose. Ma il ricordo della grande carestia mise radici nella memoria collettiva dell’isola e contribuì ad alimentare la lotta politica per la sua indipendenza.
In America, nella prima fase dell’immigrazione, gli irlandesi si scontrarono spesso con una barriera di pregiudizi sociali e religiosi. La peggiore accoglienza fu quella di Boston, una città che aveva, agli inizi degli anni Quaranta, 115.000 abitanti, quasi tutti protestanti, se non addirittura discendenti dei quaccheri che il Mayflower, nel 1620, aveva depositato sulle coste della Nuova Inghilterra. I 37.000 irlandesi che vi giunsero nel 1847 furono per molto tempo un corpo estraneo, trattato con disprezzo e sospetto. Qualche decennio più tardi avrebbero caduto nelle loro mani la macchina politica di Boston e New York; e un irlandese, agli inizi del 1961, sarebbe entrato alla Casa Bianca.

Repubblica 17.10.13
A Ginevra va avanti il negoziato sul nucleare tra Teheran e il gruppo dei 5+1
Zarif: “Questi colloqui sono l’inizio di una nuova fase”
L’Iran dice sì alle ispezioni a sorpresa gli Usa applaudono: “Serietà mai vista”
di Vincenzo Nigro


DUE giorni di discussioni «molto dettagliate» fanno ripartire il negoziato sul nucleare iraniano come mai era stato in passato. Ieri il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha detto apertamente di sperare che i risultati raggiunti a Ginevra «saranno l’inizio di una nuova fase» nelle relazioni tra il suo paese e il gruppo dei 5+1 (i cinque paesi in Consiglio di sicurezza più la Germania). Anche Catherine Ashton, ministro degli Esteri europeo, ha parlato di progressi concreti, «gli argomenti non erano mai stati presentati dagli iraniani con tanta concretezza».
Gli unici a rimanere cauti, invitando alla prudenza, sono i russi: «Non vi sono ragioni per lasciarsi andare ad applausi», dice il vice-ministro Sergei Ryabkov, e anche se «i risultati sono migliori di quelli raggiunti in precedenza, ciò non ci garantisce ulteriori progressi. Le cose sarebbero potute andare meglio». Mentre chi rimane assolutamente sospettoso (e preoccupato) è il governoisraeliano, che vede una bomba nucleare iraniana come una possibile minaccia diretta alla sua stessa sopravvivenza. Tanto che, per informare nei dettagli l’alleato, il segretario di Stato americano John Kerry volerà a Roma il 23 ottobre dove Bibi Netanyahu aveva organizzato una visita per incontrare papa Francesco.
Sulla concretezza dei negoziati a Ginevra un segnale piccolo ma molto concreto è che i “5+1” e gli iraniani si sono già dati nuovo appuntamento: si rivedranno il 7-8 novembre, sempre a Ginevra. Conferma del fatto che le parti non vogliono perdere tempo, e soprattutto che essendo entrate nel concreto non hanno più bisogno di girare il mondo cercando sempre nuove città per trascinare a lungo il circo itinerante di questo negoziato nucleare interminabile (si pensi solo agli incontri tenuti ad Almaty o Istanbul).
Importante anche il segnale pubblico lanciato dagli americani: ha parlato il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, confermando che il suo governo giudica «utile la presentazione fatta dagli iraniani, un approccio serio e sostanziale come non avevamo mai vistofino ad oggi dagli iraniani».
Uno dei delegati che hanno partecipato ai colloqui ha detto che il piano proposto dall’Iran offre la riduzione dei livelli di arricchimento dell’uranio e del numero di centrifughe utilizzate per l’arricchimento. Secondo la stampa iraniana il piano del loro governo prevederebbe tre fasi che durerebbero da 6 mesi a un anno. Tre fasi per mettere sotto controllo il nucleare iraniano a cui Teheran vorrebbe far corrispondere la cessazione più veloce possibile delle sanzioni economiche e politiche imposte da Onu, Stati Uniti e Unione europea.
Fra le aperture concrete ci sarebbe quella che vede l’Iran accettare le ispezioni a sorpresa nei suoi siti da parte degli ispettori dell’Aiea. Le ispezioni a sorpresa sono previste dal “protocollo aggiuntivo”, una serie di regole ulteriori rispetto al “Trattato di Non Proliferazione” che l’Iran ha firmato (e il cui mancato rispetto gli è costato le sanzioni da parte dell’Onu votate all’unanimità delConsiglio di sicurezza).

Corriere 17.10.13
Curiosi riformisti e «legni storti»
di Andrea Carandini


Gli italiani arrivano difficilmente ad accordarsi e di qui molti dei nostri guai. Per spiegare il problema serve questa considerazione di Immanuel Kant: «Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto». Forse nella Penisola siamo vittime di storture particolarmente gravi e contrastanti.
Prevalgono da noi due generi di uomini storti: quelli che rendono l’umanità più storta di quanto già non sia, in una ricapitolazione esaltata di difetti atavici, e quelli che, ritenendosi diritti, tuonano per raddrizzare gli altri e ne anticipano l’universale giudizio a ogni piè sospinto. Dei primi ne abbiamo fin sopra i capelli, tanto sono nocivi. I secondi sono più interessanti, al tempo stesso nocivi e utili. Sono privi di empatia, non vedono gli altri, ignorano avversari da rispettare e hanno soltanto nemici da dannare. Si considerano puri, credono di avere un occhio magico capace di mettere loro in tasca la verità, elevano muri di diffidenza, per non essere contaminati da pensieri che non sono i loro e mai gettano ponti tra le diversità del mondo. Seguono per lo più un nobile ideale, ch’essi rincorrono, tuttavia, in modo troppo unilaterale ed eccessivo, per cui l’ideale stesso finisce per insterilirsi, mentre tornerebbe a essere fecondo, ove venisse innestato ad altri ideali, come l’olivo all’oleastro. Chi si immagina perfetto perché dovrebbe cercare gli altri?
Vi è, per fortuna, un terzo genere di storti, questa volta benigno, rappresentato dai curiosi, minoritari purtroppo in Italia. Sono facitori di ponti, perché si ritengono incompleti, si aprono all’inaspettato e amano mettersi nei panni degli altri, prendendo il bene dove lo trovano. Sanno ricavare il bene sia da tradizioni autoctone che da culture diverse, vicine e lontane, per cui sono per eccellenza degli innestatori e dei riformatori. I puri, invece, sono generalmente dei conservatori, per quanto possano apparire massimalisti. Sono forse gli unici veri conservatori del paese — dove la destra è per lo più eversiva —, per cui svolgono una funzione utile, se però viene bilanciata dalle innovazioni dei curiosi. Il problema dell’Italia è che questo bilanciamento non si verifica, perché i curiosi non sono molti.
Se osserviamo le guerre che avvengono in noi, capiamo che beni e valori non stanno solamente da una parte, per cui combattiamo ora su un fronte, ora sull’altro. Il nostro essere consiste in questa ferace incompletezza o imperfezione, sola capace di regalarci la libertà di scegliere fra fini ultimi sovente fra loro in contrasto. Una democrazia aperta è anch’essa un sistema incompleto e imperfetto, che produce ponti, come fa il cervello con sinapsi e sinonimi; è un crogiolo di poteri ben articolati e separati, di vita pubblica e privata ben combinate e di componenti locali e importate che reciprocamente si fecondano.
Se l’unisono è il simbolo dell’ uniformità e dell’oppressione, la polifonia è quello dell’accordarsi a più voci. La varietà di pensiero arricchisce la vita, la fa fiorire e rifiorire, anche dopo un duro inverno. Il pensiero unico, invece, ha il volto arcigno di chi si serra in un fortilizio. Basta, dunque, sia con le indecenze e sia con i pensieri unici. Servono massicce dosi di pluralismo per arginare il monismo. Cosa sia il pluralismo, lo ha insegnato Isaiah Berlin, non ancora adeguatamente assimilato in Italia, tra le cui opere spicca, appunto, Il legno storto dell’umanità (1990).

Repubblica 17.10.13
Il primato della coscienza
di Vito Mancuso


L’accademico olandese Ian Buruma affermava martedì su questo giornale che il pensiero di papa Francesco sul primato della coscienza “ben si accorda con l’estremo individualismo della nostra epoca” e, dichiarato il suo sconcerto al riguardo, presentava quale icona-simbolo della posizione papale niente di meno che Edward Snowden, l’uomo che per seguire la propria coscienza è giunto a svelare i segreti dello spionaggio statunitense. Ma che cosa ha a che fare questo estremo individualismo con la posizione papale? Ben poco, probabilmente nulla.
Quando si parla di etica si tratta in primo luogo di rispondere a questa domanda: esiste il bene, il bene come qualcosa di universale e di oggettivo che vale per tutti senza dipendere dalle circostanze, oppure tutto dipende dalle circostanze e non esiste il bene ma solo il conveniente? Questa è la domanda numero uno della teologia morale. La domanda numero due consegue logicamente: ammesso che questo bene universale esista, qual è, come si riconosce, chi lo può riconoscere?
La risposta del cattolicesimo, riprodotta alla perfezione nella lettera del Papa a Scalfari oggetto della polemica di Buruma e soprattutto di alcuni cattolici tradizionalisti, è semplice e chiara: 1) esiste un bene comune a tutti gli uomini, universale, oggettivo, che non dipende dalle circostanze o dai sentimenti o dalle emozioni, ma che si sostanzia nella natura delle cose; 2) tale bene consiste in ciò che favorisce la vita e come tale ogni uomo può riconoscerlo mediante la luce della propria coscienza.
La capacità di conoscere il bene oggettivo mediante la coscienza soggettiva viene espressa dal cattolicesimo con il concetto classico di sinderesi, definito dal Catechismo “la percezione dei principi della moralità” (art. 1780; cf. anche Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 79, a. 12). Il termine viene dal latino synderesis, che riproduce il greco syneidesis, cioè appunto “coscienza”. La sinderesi esprime la capacità luminosa di ogni coscienza umana di riconoscere il bene anche a prescindere dal proprio interessee dalle diverse circostanze storiche e geografiche, la capacità di sapere se si sta facendo il bene oppure no, fondando così ciò che Hans Jonas ha chiamato “il principio-responsabilità”, ovvero la capacità di giudizio responsabile, a sua volta fondato sulla realtà della libertà. Solitamente ci si riferisce a questa dimensione dicendo “luce della coscienza”, o anche “voce della coscienza”.
È netta la differenza rispetto all’individualismo estremo che Ian Buruma attribuisce al Papa: l’individualismo definisce il bene a partire da sé, a suo uso e consumo, papa Francesco invece dice che il bene è oggettivo ma si può riconoscere e praticare solo passando attraverso la coscienza e che per questo “obbedire a essa significa decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male”.
Il primato della coscienza (non ontologico, ma gnoseologico) è un concetto peculiare del cattolicesimo che papa Francesco non ha fatto altro che ripresentare, e il fatto che suoni tanto nuovo dovrebbe portare a seri interrogativi sulla qualità di un certo cattolicesimo di corte predominante negli ultimi decenni, smanioso di apparire ortodosso ma in realtà spesso amante del potere e tale da tradire lo spirito interiore più autentico del cattolicesimo.
Esattamente in linea con quanto affermato dal Papa rispondendo a Scalfari, si muove un documento della Commissione Teologica Internazionale (organismo dinomina pontificia composto da una trentina di eminenti teologi) del 6 dicembre 2008 intitolato “Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. Dopo aver introdotto il principio della sinderesi, il documento magisteriale afferma che il bene morale “rende testimonianza a se stesso ed è compreso a partire da se stesso” (n° 56). In precedenza le diverse religioni erano presentate come “testimoni dell’esistenza di un patrimonio morale largamente comune”, il quale “esplicita un messaggio etico universale immanente alla natura delle cose e che gli uomini sono in grado di decifrare” (n° 11). Sono parole potentissime che indicano che per la vita morale non sono indispensabili leggi, codici, esteriorità, autorità: esiste un messaggio etico “immanente” nella natura delle cose, e gli uomini, credenti o no, con la loro coscienza, sulla base della sinderesi, “sono in grado di decifrarlo”. Ne viene che ognuno con la sua ragione può essere in grado di stabilire cosa è giusto fare e cosa evitare, basta che sia onesto con se stesso. Naturalmente ciò non è per nulla facile, e per questo sono di aiuto le leggi, i codici e tutti gli apparati esteriori promossi dall’autorità, i quali però devono venire ultimamente vagliati, e per così dire autorizzati, dalla luce della coscienza. La tradizione cattolica è chiara al riguardo. Così la Bibbia: “La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare” (Siracide 37,14). Così san Paolo: “Tutto ciò che non viene dalla coscienza è peccato” (Romani 14,23). Così Gesù: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Luca 12,57).
Tra le numerose auctoritates ecco il cardinale John Henry Newman: “Certamente se dovessi coinvolgere la religione in un brindisi al termine di una cena berrei alla salute del Papa, se vi farà piacere; ma prima alla coscienza, e poi al Papa”; ecco il Vaticano II: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria… nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali” (Gaudium et spes16); ecco il giovane Joseph Ratzinger: “Al di sopra del Papa come espressione del diritto vincolante dell'autorità ecclesiastica, sta ancora la coscienza individuale, alla quale prima di tutto bisogna ubbidire, in caso di necessità anche contro l’ingiunzione dell'autorità ecclesiastica” (citato da Hans Küng nel primo volume della sue Memorie); ecco il Catechismo attuale: “L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza” (art. 1800). Ed ecco la Commissione Teologica al paragrafo 59 del documento citato: “Soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione”; e subito di seguito: “La legge morale non può essere presentata come l’insieme di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione”.
Questo è il nucleo della più genuina tradizione cattolica: il processo della decisione è eminentemente personale. Nessun individualismo quindi, semmai personalismo, che è ben altra cosa. Possono perciò stare tutti tranquilli: papa Francesco è perfettamente cattolico! Ma proprio per questo egli riproduce il paradosso già avutosi con il cardinal Martini, di riuscire a essere veramente universale e a toccare il cuore dimolti, non credenti compresi.

l’Unità 17.10.13
La scelta della Rai. Teatro e Scienza?
Il canale dedicato allo spettacolo dal vivo rischia di diventare altro
Il nascente programma televisivo potrebbe includere non solo spettacoli ma anche documentari. Non avremmo invece bisogno di un palinsesto tutto scientifico? Ne parliamo con Bignami
L’astrofisico: «È necessario raccontare la ricerca in modo rigoroso e divertente»
di Luca Dal Fra


SARÀ L’OSSESSIONE DELL’AUDIENCE A TARPARE LE ALI A RAI TEATRO? Il nascente canale della televisione pubblica dedicato allo spettacolo dal vivo rischia un palinsesto dove la vocazione di rete tematica è ibridata con le oramai trite pulsioni generaliste. Il tutto avviene mentre la Rai attraversa un momento cruciale, alle prese con un ristrutturazione profonda, dove concezioni diverse del ruolo della televisione si fronteggiano. Ecco che allora «l’Unità», dopo aver fatto propria un’idea di Franco Scaglia rilanciandola in estate con una campagna stampa che aveva posto al centro dell’attenzione Rai teatro, ora rilancia proponendo Rai scienza, un altro canale tematico che nel nostro paese ancora non esiste. «Sarebbe di grandissima utilità spiega il professore Giovanni Bignami, uno dei nostri maggiori astrofisici da decenni impegnato nella divulgazione e comunicazione scientifica attraverso la televisione -, per mostrare ogni giorno come la scienza sia parte della cultura».
Ma andiamo con ordine: sull’onda della campagna de «l’Unità», il 19 settembre ufficialmente nasce Rai teatro, un canale tematico dedicato allo spettacolo dal vivo. In pri- mis teatro, di parola e musicale opera, musical, danza, ma anche concerti, e un occhio ben aperto sull’arte contemporanea che spinge verso le arti sceniche, con la performance o l’installazione. Sulle orme di Rai cinema che produce film, anche Rai teatro dovrebbe coprodurre, acquistando i diritti per la riproduzione televisiva. Senza dimenticare la sfida sui linguaggi televisivi, per reinventare un modo di portare il palcoscenico dentro il piccolo schermo, cosa tutt’altro che scontata. Per la Rai sarebbe un’impennata d’orgoglio, per ritrovare la sua missione di servizio pubblico e non di brado animale da audience.
Voci insistenti raccontano un diverso retroscena: dai potenti uffici della Rai preposti al palinsesto arriverebbero preoccupazioni sugli ascolti, o meglio sulla eventualità che si rivelino bassi. Si spingerebbe verso una programmazione chimera essere mitico con parti del corpo di diversi animali: alla originale vocazione tematica di Rai teatro sarebbero mischiate le vecchie e un po’ opache pulsioni generaliste tipiche di una televisione del passato. I timori sull’audience potrebbero apparire in parte giustificati, all’insegna di quel realismo che nel recente passato ha spinto la Rai a creare una serie di canali digitali un po’ blend. Ma più che a un malinteso realismo, occorre far appello a un sano senso della realtà, visto che proprio questi canali ibridi non hanno poi raggiunto gli ascolti sperati. Snaturare un progetto dalla forte vocazione innovativa come Rai teatro in nome di una audience assai dubbia, è privo di senso.
Dalla Rai per ora bocche cucite: occorre tenere presente che la televisione pubblica italiana sta attraversando un momento critico, con l’intera scuderia dei canali digitali, (i vari movie, gold, sport 1 e sport 2, Rai 4) da ridisegnare in profondità. In particolare ballano Rai sport 1 e 2, davvero un eccesso di zelo dedicare due canali alle attività sportive e ora il secondo rischia di trasmettere solo il sabato e la domenica. Ma un canale muto 5 giorni su 7 ha un senso veruno? Sarebbe invece l’occasione per creare finalmente un canale tematico dedicato alla scienza.
Accademico dei Lincei, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, insignito con numerose onorificenze internazionali per le sue ricerche e scoperte, Bignami è uno scienziato che non ha paura di sporcarsi le mani con la televisione, sulle orme dell’alta divulgazione scientifica: «Di un canale dedicato alla scienza spiega c’è un gran bisogno nel nostro paese, e in questo la BBC insegna, ma anche altri paesi come la Francia o la Germania. Dunque una bellissima idea, anche perché la Rai può fare molto meglio di National Geographic, Sky e così via». Oggi non deve poi sfuggire come proprio questi paesi, dove la cultura e dunque anche la scienza sono incentivati, la crisi economica morde di meno: «L’innovazione viene direttamente dalla scienza insiste Bignami -, come i CCD, quei chip con cui tutti oggi fanno fotografie dal cellulare e che nascono per le ricerche astronomiche. Proprio in momenti come questo si ha più bisogno della scienza». Che taglio dare a un canale scientifico? «Il compito della televisione pubblica è di far crescere gli italiani, come ha detto la presidente della Rai Anna Maria Tarantola con cui sono pienamente d’accordo. Le reti commerciali, con cui ho anche collaborato, fanno ottimi prodotti, ma non sfuggono a una logica d’abbonamento. La Rai ha capacità produttive eccellenti, come ho potuto constatare realizzando una serie di 8 puntate di Il mistero delle sette sfere, che prende le mosse dal mio ultimo libro con lo stesso titolo. Semmai il problema è dove trasmetterlo, perché questo ciclo andrà su Rai scuola, ma è rivolto a un pubblico non solo di studenti». Dunque l’esigenza di un canale scientifico è reale: «Per raccontare la scienza in maniera rigorosa e soprattutto divertente», conclude lo scienziato.
Per ora di certo e di nuovo ci sarebbe solo Rai teatro, che sarà presentata al ministro per i Beni e le Attività Culturali Massimo Bray, il 30 ottobre. Ma prima di quella data è decisiva la riunione di oggi con il CdA, dove il direttore di Rai teatro Pasquale D’Alessandro presenterà e metterà a fuoco il progetto di palinsesto.