mercoledì 9 ottobre 2013

l’Unità 9.10.13
Stefano Rodotà: «Sabato in piazza  per la Costituzione chi vuole cambiare la politica»
«Quella di sabato non è solo la manifestazione di chi è contro la revisione costituzionale del governo, ma di chi si batte per beni comuni e diritti»
intervista di Vladimiro Frulletti


Non un nuovo partito, né un’adunanza di nostalgici conservatori di sinistra. Per Stefano Rodotà sabato a Roma i protagonisti delle «battaglie vinte» usando la Costituzione cercheranno di costruire una «rete» per cambiare la politica italiana. Cominciando dal respingere le derive presidenzialiste che per Rodotà si nascondono nel pacchetto di riforme costituzionali promosso dal governo.
Professore cosa non va nella strada imboccata dal governo?
«L’articolo 138 è la regola delle regole e quindi non dovrebbe essere disponibile. Non dovrebbe essere modificata». Ma si tratta di una procedura molto complessa che rende lunga e faticosa qualsiasi modifica costituzionale.
«Non è vero. Non è una procedura particolarmente pesante soprattutto se confrontata con quello che succede in altri Paesi. Negli Stati Uniti per approvare una modifica alla Costituzione federale devono essere d’accordo tutti gli Stati. In Belgio quando si modifica la Costituzione si sciolgono le Camere e si va a votare in modo che i cittadini possano dare anche un giudizio politico su chi l’ha modificata. L’articolo 138 è una garanzia per tutti. Invece prevedono una deroga, ma così si crea un precedente. Ci sono dei punti fermi che non vanno toccati perché appartengono alle garanzie democratiche».
Nel merito però tutti o quasi concordano sul fatto che certi aspetti vadano riformati: dal bicameralismo perfetto alla riduzione dei parlamentari. È sbagliato? «No. Dalla riduzione dei parlamentari alla fine del bicameralismo perfetto alla modifica del Titolo V che ha creato un contenzioso sempre più ingarbugliato fra Stato e Regioni, c’è largo consenso».
Allora qual è l’obiezione?
«Che proprio perché così largamente condivise queste riforme potevano essere fatte tranquillamente con la procedura normale. Se fossimo partiti quando il governo ha scelto la strada della deroga, a quest’ora saremo già un bel pezzo avanti nella direzione giusta. La verità però è un’altra».
Quale?
«Che facendo una sorta di pacchetto da prendere tutto intero si vuole inserire una modifica della forma di governo accentrando i poteri».
E voi siete contrari.
«Sono contrari i cittadini. Il governo Berlusconi nel 2005 approvò una riforma costituzionale in questa direzione. Poi però ben 16 milioni di cittadini la bocciarono col referendum. Oggi si fanno tante polemiche sui referendum disattesi, da quello sul finanziamento pubblico ai partiti a quello sulla responsabilità civile dei giudici. Quel referendum che è molto più impegnativo invece non viene considerato».
Il nodo è la forma di governo?
«Su quel passaggio che punta ad accentrare il potere nelle mani del presidente del Consiglio con una larvata curvatura presidenzialista non c’è consenso. Ma si cerca di farlo passare legandolo alle altre riforme su cui invece il consenso c’è».
Ma c’era un’altra strada?
«Certo. Sarebbe stato più opportuno approvare singolarmente le riforme condivise largamente. Invece così al referendum sarà portato un pacchetto, un prendere o lasciare. E io che sono d’accordo sulla riduzione dei parlamentari, sulla fine del bicameralismo perfetto, sulla riforma del Titolo V, ma non sull’accentramento dei poteri al premier, sarò obbligato a votare o contro, quindi dicendo no a quello su cui concordo, oppure a votare a favore, dicendo sì anche a una forma di governo più o meno presidenziale».
Il professore Zagrebelsky mette in guardia da modifiche anche sulla seconda parte della Costituzione che, a suo giudizio, comprometterebbero anche la prima parte. Quella sui valori fondamentali che lo stesso premier Letta ha più volte detto che non si tocca.
«Io sono per la “buona manutenzione” di cui parla Alessandro Pizzorusso. Quindi se riduco i parlamentari non incido sulla prima parte. Ma se tocco l’autonomia della magistratura o il modo in cui si approvano le leggi tocco quei diritti fondamentali che per la Costituzione possono, appunto, essere limitati solo in forza di legge o di decisione autonoma e motivata dell’autorità giudiziaria».
La piazza di sabato non rischia di essere l’appuntamento della sinistra, sì nobile, ma che vuole conservare le cose così come sono?
«No, perché quella di sabato non è solo l’iniziativa di chi si oppone alla proposta di revisione costituzionale del governo. È qualcosa di più e di diverso». Cosa?
«In questi anni ci sono stati soggetti sociali e collettivi che hanno utilizzato la Costituzione in maniera vincente. 27 milioni di persone coi referendum, uno strumento costituzionale, hanno detto no al nucleare, no alle leggi ad personam, sì all’acqua pubblica. E quando si è tentato di aggirare il referendum sull’acqua, i promotori si sono rivolti alla Corte Costituzionale che ha stabilito che i risultati devono essere rispettati. È stata una battaglia costituzionale vincente. La Fiom ha fatto garantire attraverso le leggi e la Costituzione il diritto alla rappresentanza nelle fabbriche. Una garanzia che vale non solo per i propri iscritti, ma per tutti i lavoratori e i sindacati. Libera di Don Ciotti, impugnando come dice lui Vangelo e Costituzione, combatte concretamente per la legalità, ad esempio sui beni confiscati alla mafia. Alla Costituzione fanno riferimento Emergency per il diritto universale alla salute, l’Arci per la promozione della cultura».
Volete fare un nuovo partito?
«Non vogliamo fare né un partito né un raggruppamento della sinistra, come dicono alcuni di Rifondazione, ma vedere se questi vari soggetti possano creare una massa critica per influire sulla politica non in opposizione né col Parlamento né coi partiti. Qui non c’è anti-politica, ma l’esatto contrario. Perché l’obiettivo è creare un forte movimento sociale e civile che dia forza a chi vuole fare battaglie sul reddito minimo, sui beni comuni, sui diritti civili. Dal 13 ottobre in avanti vogliamo provare a creare una rete civile, uno spazio politico in cui si elabora e si propone per far sì che la politica di questo Paese sia una vera politica costituzionale».

Repubblica 9.10.13
Ingrao profeta contro la “Casta”
La prefazione a una raccolta di scritti dell’uomo politico
di Stefano Rodotà


Entrare in quel gran cantiere mai chiuso che è la vita di Pietro Ingrao, è atto temerario, ma pure necessario, se si vuol cogliere il senso di molte cose italiane, Ricorro alla parola “vita”, e non “scritti” o “opera”, perché davvero vi è un tutt’uno di azione politica e di riflessione teorica, di curiosità intellettuale e di introspezione poetica. Per esperienza diretta, posso aggiungere che proprio questo sfaccettarsi, questo arricchire ininterrottamente esperienza e presenza pubblica, ha indotto più d’uno, nelle occasioni più diverse, a costruirsi un “suo” Ingrao. Cosa che, per un verso, può divenire o apparire come una incapacità di fare i conti con una figura complessa; ma, al tempo stesso, esprime pure un bisogno di identificazione, al di là di quelli che possono essere dissensi o distanze.
Ingrao coglie l’esito estremo della deriva che spinge verso latrasformazione della persona del lavoratore in “cosa”, sottolinea l’inaccettabilità “etica” di questo passaggio che mette in discussione una delle acquisizioni della modernità. Si tratta, allora, di recuperare l’umano, e parla appunto di “resistenza umana”, sottolineando con forza la necessità di non rimanere prigionieri della logica quantitativa, di dare rilevanza alla vita del lavoratore anche nei suoi gesti minuti, quotidiani, quelli appunto che manifestano concretamente la sua umanità. Bisogna “sporgersi” al di là della pura logica dello scambio, riconoscere che questa non può invadere ogni spazio, cancellare la notte o il riposo, dove il lavoratore ritrova se stesso. È il tema della dignità come principio fondativo e limite invalicabile, che trova espressione nell’articolo 41 della Costituzione, dove si afferma in modo netto che l’iniziativa economica privata non può svolgersi «in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di nuovo la figura del lavoratore incarna una condizione umana che riguarda ogni persona.
Colpisce una declinazione che Ingrao propone del suo gran tema del rapporto tra masse e potere, della ribadita centralità del Parlamento, quando affronta il problema della delega e del collegamento tra elettori ed eletti, parlando di una “rete generale democratica”. Ancora una volta, però, non fermiamoci soltanto alla felice attualità di una parola, “rete”, con la quale Ingrao indica un disegno costituzionale fatto di relazioni collettive, capaci di dare evidenza ad una molteplicità di soggetti, istituzionali e non, fino a giungere alla possibilità per i lavoratori gestire l’azienda.
Pur rimanendo sullo sfondo quest’ultima ipotesi, l’analisi di Ingrao porta con sé una duplice critica: all’eccesso di centralismo statale e, in parallelo, all’emersione di tendenze oligarchiche nel sistema politico. Vi è una frase rivelatrice, che vale la pena di trascrivere integralmente: «la proprietà statalizzata è risultata non già comunanza, ma appropriazione dispotica di una casta politica ». Sono parole del 1991. Cogliamo qui l’indicazione di una linea politica che non ripropone la tradizionale critica alla proprietà privata, ma investe la proprietà pubblica, non più considerata come l’unica alternativa desiderabile. Al tempo stesso, però, non si offre legittimazione alla via delle privatizzazioni, allora considerata quasi obbligata, poiché la vera alternativa viene ritrovata nella ricostruzione di una proprietà in cui giochi la presenza di soggetti collettivi.
Della critica alla “casta politica”, e alla deriva oligarchica già allora visibile, credo che faccia parte anche la riflessione sulla “scelta di vita” che portava alla dedizione totale della persona al partito. Da una parte, infatti, troviamo l’impietosa denuncia della «vacuità delle risse di bandiera dei corpi chiusi, che competono dentro un ceto politico per deleghe sempre più cifrate». Dall’altra, emerge la preoccupazione che, divenuti politica e agire sociale «solo una parte della vita », ciò possa portare al tramonto dell’agire associato, con il rischio che i lavoratori perdano «una loro fratellanza di condizione». Torna così il tema delle soggettività necessarie nella nuova fase, senza alcuna compiacenza per la generica esaltazione della società civile che prese la politica italiana nei primi anni ’70, nella quale si rifletteva una cattiva coscienza del ceto politico, ma che è all’origine di molti mali di cui ancora si paga il prezzo. È proprio del 1993, infatti, uno scritto dal titolo rivelatore, “La faccia buona della società civile” che prende lo spunto da una grande manifestazione operaia, alla quale si guarda come ad «una grande risorsa umana», capace di indicare un «orizzonte generale» nella sua rivendicazione non particolaristica, ma di «un essenziale diritto di cittadinanza».
Non dirò che un cerchio si chiuda. Ma l’associazione stretta tra democrazia, diritti e lavoro, nello scorrere delle pagine, viene ricostruita e ribadita con una adesione così forte alla condizione umana che davvero da essa non possiamosepararci.
Questo testo è parte del saggio introduttivo di Stefano Rodotà al libro di Pietro Ingrao La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro,
pubblicato da Ediesse in uscita in questi giorni. Stefano Rodotà è il vincitore del Premio De Sanctis per la Saggistica, per il volume Il diritto di avere diritti(Laterza).
La cerimonia di consegna del premio avverrà domani a Roma, alle 18 a Villa Doria Pamphili

La Tipo e la notte, di Pietro Ingrao Ediesse pagg 208 euro 14

l’Unità 9.10.13
Lo schiaffo tedesco: «In Italia pochi migranti»
Sui rifugiati la Germania guida il fronte della fermezza con Danimarca e Svezia
Friedrich: «Da voi pochi rifugiati». Alfano: «Dalla Ue presa d’atto»
di Umberto De Giovannangeli


Al massimo, un potenziamento di Frontex». Ma per quanto riguarda una modifica della Convenzione di Dublino, la risposta è: nein. Il ministro degli Interni tedesco, Hans-Peter Friedrich, ha affermato ieri mattina a Lussemburgo che «non è vero quello che racconta l’Italia, di essere sovraccarica di rifugiati». Friedrich ha parlato al suo arrivo a Lussemburgo, dove nel pomeriggio si è svolta la riunione del Consiglio Affari interni dell’Unione europea, che ha discusso anche delle conseguenze da trarre dalla tragedia di Lampedusa. «È del tutto incomprensibile afferma il ministro tedesco – che il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e altri politici sostengano che la Germania debba accogliere più rifugiati», quando si tratta del Paese «che ne riceve di più in tutta l’Ue: nel 2012 ne abbiamo accolti 80.000 e quest’anno saranno più di 100.000, pari a 946 per milione di abitanti».
ROMA SOTTO ESAME
In Italia, invece, sottolinea Friedrich, il rapporto «è di appena 260 rifugiati per milione, e questo dimostra che quello che racconta l’Italia, di essere sovraccarica di rifugiati, non è vero». Dunque, ha concluso Friedrich, «non c’è alcuna necessità di rivedere il regolamento di Dublino», che fissa il principio secondo cui ogni Stato membro gestisce i rifugiati di Paesi terzi che entrano nel suo territorio, anche quando intendono recarsi in altri Paesi dell’Ue.
Berlino non è da sola a sostenere questa posizione. Perché a Lussemburgo, si è riproposto un «fronte del Nord», formato da quei Paesi che sono considerati dall’«esercito» dei migranti come terminali del loro viaggio della speranza. E così, a Lussemburgo l’Europa, al di là delle dichiarazioni di circostanza e misure di rafforzamento di Frontex (l’Agenzia dell’Ue per il coordinamento delle azioni di controllo delle frontiere esterne) ha riproposto una divisione Nord-Sud che l’immane tragedia di Lampedusa ha forse ammorbidito ma non certo superato. A fianco del collega tedesco, si schierano apertamente il ministro degli affari interni svedese Tobias Billstrom e quello danese Morten Bodskov: il regolamento di Dublino non si tocca. In sostanza, spetta al Paese europeo in cui arrivano i profughi valutare le domande di richiesta di asilo. «L’Ue ha tutti gli strumenti necessari per far fronte» alla situazione, rimarca Bodskov, mentre Billstrom rincara la dose: «Tutti gli Stati membri dovrebbero fare bene come la Svezia e la Germania» in materia di asilo. L’austriaca Johanna Mikl-Leitnen, ricordando il peso che sopporta il suo Paese, al sesto posto nella Ue quanto a rifugiati (mentre l’Italia è settima), chiede una «ripartizione più giusta». A luglio, durante la discussione del regolamento di Dublino, su 28 Stati membri, 24 si erano opposti alla revisione.
Al termine del vertice di Lussemburgo, Angelino Alfano veste i panni dell’«equilibrista»: il governo italiano ha incassato la «presa d’atto del dramma» degli sbarchi di migranti nel sud «da parte dei Paesi del Nord», rileva il ministro dell’Interno. Come incasso, una «presa d’atto» non sembra poi gran cosa.
ALFANO «INCASSA»
«Solitamente quando affrontavo la questione dell'immigrazione in questi vertici c'era un'alleanza fra i paesi del sud, Francia, Spagna e Grecia, e mai un riscontro solidale da parte dei Paesi del Nord. Oggi invece argomenta il vice premier alle nostre proposte abbiamo visto affluire un riscontro positivo anche da parte della Germania e degli altri Paesi del Nord, questo per noi è un dato molto molto importante». Sollecitato a dire qualcosa di più concreto, Alfano riepiloga: «L’Italia ha ottenuto che Frontex cambi registro, che sia più efficace nella sorveglianza della frontiera marittima» ma «soprattutto ha ottenuto il dato di consapevolezza comune che la questione di Lampedusa, della frontiera del Mediterraneo, è una questione europea e non può gravare solo sull'Italia». Inoltre, «l’Operazione Frontex in tutto il Mediterraneo, proposta del commissario Ue Cecilia Malmström, è un bel segnale, concreto e importante», aggiunge il ministro dell’Interno. Ciò che il soddisfatto vice premier non può negare, sono le puntualizzazioni pubbliche di Germania, Svezia, Danimarca, Austria (e quelle avanzate al tavolo da altri Paesi del Nord Europa), riguardo all’intangibilità della Convenzione di Dublino. Su questo, l’Italia non passa. E, anzi, resta sotto esame. E il «professore» più severo sta a Berlino.

l’Unità 9.10.13
Legge del Pd sul diritto d’asilo: attuare la Costituzione
di Massimo Solani


All’indomani della tragedia di Lampedusa, l’ennesima, era stato proprio il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a richiamare l’attenzione sulla «esigenza di politiche specificamente rivolte al fenomeno dei profughi e richiedenti asilo non regolate da alcuna legge italiana». Parole a cui il Partito Democratico ha risposto ieri presentando il disegno di legge, già depositato agli atti, per la «disciplina organica del diritto di asilo, dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria» per il quale, come ha spiegato il capogruppo democratico alla Camera Roberto Speranza, il partito chiederà durante la prossima conferenza dei capigruppo di Montecitorio che venga concessa la procedura d’urgenza. «Si tratta di un progetto di legge assolutamente qualificante per il gruppo Pd, che ci sta lavorando dalla scorsa legislatura, ha spiegato Speranza che mira a dare finalmente, e per la prima volta, una compiuta attuazione del diritto di asilo, così come previsto dall’articolo 10 della Costituzione».
Primo firmatario della proposta di legge è Antonello Giacomelli secondo il quale il testo «ha l’ambizione di adottare un unico strumento normativo, che in maniera organica, preveda una specifica legislazione in materia di asilo chiara e ordinata». Per Giacomelli «si tratta in particolar modo di assicurare protezione anche a chi non è dotato dello status di rifugiato e di far sì che chi arriva in Italia per chiedere asilo, non si trovi davanti alla totale incertezza burocratica». Dello stesso parere anche Khalid Chaouki, il cui nome compare nella lista dei firmatari del progetto. «Stiamo parlando di un primo passo importante, per dotarci di credibilità anche nei confronti degli altri Paesi europei, con i quali bisognerà gestire sempre di più e in maniera condivisa queste situazioni». Per Chaouki, inolte, «abbiamo un problema serio legato alle strutture di accoglienza per i richiedenti asilo e i rifugiati e la proposta di legge prevede monitoraggi continui per garantire gli standard di qualità richiesti dall’Unione Europea».
Oltre alla definizione chiara e finalmente adeguatamente codificata degli status di rifugiato, richiedente asilo e sottoposto a tutela internazionale, la legge punta a fare chiarezza sulle modalità per la presentazione della richiesta e sulle diverse competenze delle commissioni territoriali e nazionale, con quest’ultima che svolgerà il compito di istanza «di secondo grado» a cui rivolgersi in caso di bocciatura della richiesta, puntando a garantire inoltre la qualità delle strutture di accoglienza e dei servizi previsti per i minori e per i richiedenti asilo. A tal proposito, ha aggiunto Barbara Pollastrini, «il Pd presenterà all'interno della legge di stabilità delle richieste per fare in modo che, nonostante la crisi economica, sui diritti umani non vengano risparmiate risorse». E il governo, ha aggiunto il presidente del forum Sicurezza del Pd Emanuele Fiano, «il governo sta valutando la possibilità di uno stanziamento di circa 300 milioni per aiutare gli enti locali e le strutture di accoglienza».
Fra le novità a cui punta il progetto di legge, anche se la questione dovrebbe essere regolato in un apposito regolamento di attuazione che il governo sarebbe chiamato ad emanare entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore, anche la possibilità di individuare un canale di accesso «regolare» per i richiedenti asilo con la possibilità di presentare domanda anche presso le rappresentanze diplomatiche italiane nei paesi del sud del Mediterraneo. Una possibilità, già individuata e praticata da altri paesi, che sottrarrebbe migliaia di persone al traffico di esseri umani e al richio della traversata dalle coste africane a quelle italiane. «Se questa legge esistesse già ha chiesto Giacomelli quante sarebbero le persone in meno sui barconi che arrivano ogni giorno in Italia? Una simile normativa garantirebbe l’accesso alla richiesta di asilo e sottrarrebbe migliaia di disperati ai mercanti di morte che organizzano i viaggi. È il modo migliore per diminuire una pressione dei flussi indistinta il cui risultato, purtroppo, sono le migliaia di morti nel Mediterraneo».

il Fatto 9.10.13
L’isola della rivolta, dai migranti all’Onu
Rabbia nel centro di accoglienza di Lampedusa
Il protocollo della visita di Barroso non prevde il campo profughi
Le critiche di Unhcr e Save The Children
di Enrico Fierro


Mentre si aspetta l’arrivo dell’Europa e del governo italiano, nel centro di accoglienza di Lampedusa scoppia la rivolta. Dopo giorni di pioggia, le decine di profughi costretti a dormire di notte all’aperto sotto capanne fatte con i materassi di spugna e i sacchi neri dell’immondizia, esplodono. Ci sono le telecamere fuori dai cancelli, un gruppo di giornalisti è stato autorizzato a entrare all’interno della struttura e i profughi vogliono raccontare a tutti come vivono.
Usano i materassi di spugna per fare una specie di barricata e impedire l’uscita dei pullman usati per trasferire altri migranti, i più fortunati, in Sicilia. Urlano, si lanciano verso le telecamere per dire la loro finalmente. “Non ne possiamo più di vivere in queste condizioni, mandateci via, fateci uscire. Mangiamo male e dormiamo peggio”.
LA TENSIONE dura per un’ora, poi la protesta rientra. Il centro di accoglienza dell’isola scoppia ed è già un caso che indigna le organizzazioni internazionali dei diritti umani. “Da sei giorni – denuncia Raffaella Milano, di Save the children – i minori sopravvissuti vivono in condizioni indecenti, in promiscuità con gli adulti respirando un clima di tensione e disperazione” . Parole nette, meditate dopo giorni di osservazione e di indagine del-l’organizzazione umanitaria, una denuncia che dovrebbe far vergognare le autorità politiche italiane.
Durissima è anche l’Unhcr, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei rifugiati. “La situazione di estremo degrado in cui versa al momento il centro di accoglienza, con intere famiglie costrette da tre giorni all’addiaccio sotto la pioggia battente, è assolutamente inaccettabile”.
Cono Galipò, l’amministratore di “Lampedusa accoglienza”, la società che gestisce il centro, prima nega, giustifica, solleva fumo parlando dell’abnegazione e dei sacrifici del personale che lavora all’interno, infine perde la pazienza e attacca i giornalisti. “Siete voi che giudicate invivibili le condizioni del centro, la vostra è una deformazione mentale”.
Poi, però, davanti alle telecamere del Fatto Quotidiano.it  , ammette che sì, molti profughi dormono all’aperto o in macchine e vecchi autobus.
PER OGNI MIGRANTE ospitato nel centro in queste condizioni, lo Stato italiano paga 29 euro al giorno. Sarà per questo scandalo tutto italiano che fino a tarda sera, nel protocollo della visita che oggi Manuel Barroso, Gianni Letta e Angelino Alfano faranno a Lampedusa, non era prevista una visita al centro di accoglienza. L’Europa non deve vedere. Forse Barroso incontrerà una delegazione di profughi, soprattutto dei superstiti del naufragio di giovedì scorso, nella sede dell’Aeronautica militare.
Insieme a Letta e Alfano renderà omaggio alle bare delle vittime, che con i ritrovamenti di ieri sono salite a 289, sistemate nell’hangar dell’aeroporto civile, ma i vivi no, non si deve vedere come l’Italia li sta trattando. Barroso sarà accolto da una protesta dei pescatori che al suo arrivo suoneranno le sirene dei loro pescherecci. “Vogliamo far sentire la nostra voce, dire che Lampedusa non è solo un puntino geografico ma che è anche territorio d’Europa e come tale deve essere considerato e protetto", dice Salvatore Martello, presidente del Consorzio dei pescatori.
Ma i sopravvissuti hanno anche bisogno di assistenza legale. Sono accusati di immigrazione clandestina, Antonio Ingroia, l’ex pm palermitano, è disposto a difenderli insieme a un pool di legali siciliani, campani e liguri da tempo impegnati in questa battaglia di diritti civili. “Voglio difendere i profughi dalla vergogna della legge Bossi-Fini. Voglio portare all’attenzione della Corte costituzionale e della giustizia europea l’assurdità delle nostre leggi in materia di immigrazione e asilo”.

Repubblica 9.10.13
La legge di Antigone e le colpe dell’Europa
di Barbara Spinelli


INUTILE parlare di Europa madrepatria della democrazia, e proclamare nella sua Carta dei diritti che siamo «consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale», dei suoi «valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà », quando tutto in noi pare spento: tutti i miti che fanno la nostra civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono. E tra i primi forse il mito di Antigone, senza il quale non saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge del mare, che obbliga a salvare il naufrago, quasi non esistesse peggiore sciagura delle acque che si chiudono mute sull’uomo. Il mare è senza generosità, scrive Conrad: inalterabile, impersona l’«irresponsabile coscienza del potere».
Sono uniti, i due miti, dalla convinzione che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone ubbidisce – fissata da dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re di Tebe non può violarla, accampando la convenienza politica e le proprie transeunti idee di stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il diritto del sovrano, ilnomos despòtes, paga un alto prezzo. Così la legge del mare.
Quando sfoggia vergogna, l’Europa suol cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane ma contrita: «Mai più!» Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma almeno è contrita. Oggi nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la violazione è attribuita a cieca fatalità e si esibisce impudica. Un ministro – si chiama Angelino Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare kazako – sta sul bordo del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa non saranno gli ultimi: «Non c’è ragione per pensare e per sperare che sarà l’ultima volta».
Colpisce il divieto di pensare, più ancora di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che l’Europa sia qualcosa di diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì per difendere non solo un muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati provano a valicarlo. Per il ministro, ben altra è la questione amletica: dobbiamo sapere «se l’Europa intenda difendere la frontiera tracciata dal trattato di Schengen. Uno Stato che non protegge la sua frontiera semplicemente non è. L’Europa deve scegliere se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.
Primo: l’Europa è sì davanti a un bivio esistenziale, ma non quello che con porte bronzee nega l’idea stessa del bivio. Deve decidere se vuol essere all’altezza delle norme che professa, e che da tempi immemorabili le prescrivono di accogliere i fuggitivi, i supplicanti, oltre che di tutelare i confini da assalti stranieri. Né l’emigrazione economica clandestina né la fuga da guerre o dittature (spesso sono la stessa cosa) sono equiparabili a attacchi esterni. Vengono equiparati invece, e per questo è lecito parlare di guerra nel Mediterraneo. Il fuoriuscito stipato con i suoi nei barconi è trasformato in nemico. In homo sacer, come scrive Giorgio Agamben: vita nuda, soggetto non legale, bandito pur appartenendo agli Dèi: uccidibile. Entra in Europa e «vive in orbita», dice la lingua burocratica. La legge antichissima si spense, quando nel 2004 l’Unione creò Frontex (Agenzia che gestisce le frontiere esterne). Frontex coordina le misure di polizia, pattuglia coste, garantisce il rimpatrio dei clandestini. La protezione dei diritti umani è un obiettivo residuale, un ornamento.
Seconda considerazione: l’Europa ha sue responsabilità, ma l’Italia non ne ha di minori. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi, definisce un crimine in sé l’esodo senza permessi anticipati. Di qui la parentela con la guerra: come se il clandestino fosse un combattente irregolare e specialmente insidioso, perché non combatte a viso scoperto, indossando l’uniforme, ma conduce una sorta di guerriglia che si confonde e confonde. Ecco la legge di Tebe che si sovrappone alla norma di Antigone. La sicurezza e la stabilità– quest’ultima è addirittura eretta da Enrico Letta a «valore assoluto » , nuovo non negoziabile articolo di fede – esigono sacrifici e morte. Il migrante, bollato, è un pericolo sociale. La Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n. 78/2007), escludendo che lo stato d’irregolarità siasintomo presuntivo di pericolosità sociale; ma il reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002 la legge Bossi-Fini preparò il terreno: ingiungendo il respingimento immediato del migrante (poco importa se restituito o no alle dittature cui scampava) e rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo.
Di qui il pervertirsi della norma instaurata prima ancora che Cristo nascesse –Soccorrereè un dovere, non soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati come nella Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18). Non soccorrere è peccato di omissione, e più precisamente crimine di indifferenza. Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il delitto di clandestinità per forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il naufrago incorrerà in processi e pene per favoreggiamento del reato, e preferirà voltare lo sguardo altrove. È già successo. Nei paesi occupati dai nazisti, in Polonia ad esempio, chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la morte.
Terza considerazione: parole come vergogna andrebbero abolite, nel lessico della politica. Nascono dall’emozione, dalla scossa introspettiva, non necessariamente osano l’aperto, l’agorà dove si disfano e si correggono le leggi positive. Dette dal Santo Padre hanno un senso, ma in politica conta l’azione, non l’emozionarsi e il compatire. Lo Stato sociale e la politica di asilo sono nati per sostituirsi alla carità, che è grandiosa e non si vanta e non si gonfia, ma è affidata al singolo o alla Chiesa.
Infine la quarta considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più delle volte ci vedono protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di portare ordine e creando invece caos e Stati disfatti: in Africa orientale, Afghanistan, Iraq, Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che scatenano conflitti, fu l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con noi.
Qualche tempo fa, in una trasmissione della radio tedesca (Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il titolo era:Guerra nel Mediterraneo), venne intervistato un alto dirigente della Guardia di Finanza italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex. Difficile dimenticare quello che ammise. Più che salvare, i guardiani delle mura erano chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare con ordini secondo cui il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle navi, e nel portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non potessero continuare il viaggio, e facessero marcia indietro».
Salvataggi e aiuti sono considerati un azzardo morale,perché fomentano sempre nuovi immigrati. Meglio dissuaderli con l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal 1988. Si muore anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulle coste del Marocco. O nelle acque del fiume Evros, ai confini fra Turchia e Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.
Di azzardo moralesi parla molto in questi anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli Stati indebitati dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare compreso) incita i viziosi a rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se assicuri la casa dal fuoco, non baderai più ai fiammiferi che accendi: ti rilasserai. La logica della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non sulla promessa e il dover- essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel fondo marino qualche colpa ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai ribrezzo, paura, perché dal tuo corpo emanerà il «puzzo della verità ».

il Fatto 9.10.13
200 marines sono stati spostati da Moron in Spagna, a Sigonella in Sicilia
Per i Marines il nuovo Muro è a Sud
di G. G.


Ci risiamo. Come era già accaduto a metà maggio, 200 marines sono stati spostati lunedì da Moron, una base in Spagna, a Sigonella in Sicilia. Ora come allora, il movimento di truppe è conseguenza delle tensioni tra Usa e Libia: stavolta, il blitz che ha portato alla cattura, sabato a Tripoli, d’un capo di al Qaeda, Abu Anas al Libi, è stato mal digerito dai libici, oltre che dagli accoliti del terrorista. L’ ‘avanzamento’ dei marines è legato a “potenziali minacce” alla sicurezza in loco dei diplomatici Usa. Nel settembre 2012, un attacco terroristico al Consolato di Bengasi mascherato da sommossa integralista portò all’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens e di tre militari americani.
CON LINGUAGGIO burocratico, il ministero della Difesa italiano spiega che “il rischiaramento temporaneo di assetti militari nella base di Sigonella, per un’eventuale esfiltrazione dei loro connazionali dalla Libia” è stato richiesto dalle autorità americane e concordato con quelle italiane: nessun blitz, quindi, a nostra insaputa, ma azioni nel contesto degli accordi esistenti tra Roma e Washington e degli impegni dell’Italia nell’Alleanza atlantica. Il ministero segnala “nuovi allarmi per la sicurezza internazionale”, mentre il Dipartimento di Stato parla di “misure cautelative”. Lo stato di allerta innescato dal raid di sabato e dalle reazioni a esso ha dunque indotto a trasferire una task force di pronta risposta a Sigonella, da dove infatti sarebbero partiti - secondo il settimanale Time - i team della Delta Force impiegati nel blitz. L’unità, sigla in codice Spmagtf-cr, nome d’arte Bengasi, comprende 4 velivoli da trasporto truppe MV22 Osprey, 2 cisterne KC-130 da rifornimento in volo e, appunto, circa 200 uomini.
I militari statunitensi arrivano dalla base di Moron, in Spagna, che, con quella di Suda Bay, a Creta, costituisce uno dei punti di forza della presenza militare americana nel Mediterraneo. Resteranno, si prevede, a Sigonella fino al 6 dicembre. La task force – riferisce la Difesa italiana - dovrà sostenere eventuali esigenze del personale e degli assetti dello Usa/Africom, il comando militare americano per l’Africa, recentemente istituito, con l’evacuazione di civili, il recupero di ostaggi o attività di protezione.
Dobbiamo farci l’abitudine. La geografia delle potenziali crisi militari, progressivamente modificata dalla fine della Guerra Fredda, dal superamento dei conflitti nei Balcani, dallo scoppio della guerra senza fine al terrorismo, dalle Primavere arabe e dai loro contraccolpi, ha pure alterato le ipotesi d’uso delle basi e delle strutture militari degli Usa in Italia. Che torna a una funzione ‘mussoliniana’ di portaerei nel Mediterraneo e di ponte verso il Medio Oriente.
E così, Sigonella, terreno di confronto tra Italia e Usa nell’ottobre del 1985, dopo il sequestro del-l’Achille Lauro, diventa simbolo di una nuova collaborazione militare fra i due Paesi. La geografia delle basi americane in Italia è complessa. Le principali sono Camp Ederle a Vicenza ed Aviano nel Friuli, Camp Darby a Livorno, Latina e Gaeta (Lazio), Comiso e Sigonella (Sicilia).
Le installazioni militari americane nella Penisola sono, però, decine: una dozzina per l’esercito e una ventina per la marina, circa 16 per l’aviazione, depositi di materiali ed armamenti. I militari sono parecchie migliaia, l’arsenale a loro disposizione comprenderebbe decine di ordigni nucleari.
 
il Fatto 9.10.13
Ecco l’amnistia di Napolitano, svuota le celle e salva B.
Il Colle scopre che l’Italia verrà condannata dalla Ue per le carceri affollate (anche per le leggi firmate da lui) e chiede clemenza
Sono già pronti tre ddl salva-Silvio
di Antonella Mascali


La ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri, che per prima, a giugno, lanciò la proposta di amnistia e indulto, respinge l’opinione di chi pensa che in questo modo Silvio Berlusconi si potrebbe salvare dalla condanna per frode fiscale al processo Mediaset. “È una falsa idea, è il Parlamento che decide per quali reati prevedere l’amnistia e non è mai successo che si occupasse di reati finanziari”. Ma se non sarà così, a Berlusconi verrebbe cancellata totalmente la pena per frode fiscale, compresa l’interdizione dai pubblici uffici: l’amnistia, secondo il codice, “estingue il reato e fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie”.
Ovviamente per il leader del Pdl resterebbero in piedi gli altri procedimenti in corso, a cominciare da Ruby, per tipo di reato ed entità della pena.
Per quanto riguarda il processo Mediaset, Berlusconi potrebbe cavarsela anche in caso di indulto, nonostante solitamente cancelli la pena principale ma non quella accessoria.
In Parlamento, infatti, ci sono disegni di legge, due al Senato e uno alla Camera, che prevedono proprio il salvataggio del leader del Pdl: in caso di indulto scatta la cancellazione delle pene accessorie temporanee. Un progetto è stato presentato dai senatori democratici Luigi Manconi, Paolo Corsini e Mario Tronti nonché da Luigi Compagna, senatore del gruppo misto. Già nella precedente legislatura, Compagna, come senatore del Pdl, provò a inserire un emendamento “salva Silvio” alla controversa modifica del reato di concussione contenuta nella legge Severino.
Il disegno di legge su amnistia e indulto, presentato al Senato il 15 marzo scorso, prevede l’amnistia per tutti “i reati commessi entro il 14 marzo 2013 per i quali è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni”. Per quanto riguarda l’indulto “è concesso nella misura di tre anni in linea generale e di cinque per i soli detenuti in gravi condizioni di salute”.
Ed ecco la postilla fatta a misura di Berlusconi, per la condanna Mediaset: “È concesso indulto, per intero, per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato anche solo in parte l’indulto”. Un altro ddl fotocopia è a sola firma Manconi-Compagna. Anche alla Camera c’è un progetto di legge che prevede le pene accessorie temporanee indultabili, l’ha firmato il deputato del Pd, Sandro Gozi.
Dunque, se dovesse esserci l’indulto, così come previsto da questi testi, per Berlusconi la pena per frode fiscale sfumerebbe. Non solo quella principale, già ridotta all’osso dal-l’indulto del 2006 (dei 4 anni inflitti ne dovrà scontare solo 9 mesi) ma anche la pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici, inizialmente stabilita a 5 anni, ma che, dopo la sentenza della Cassazione, dovrà essere ricalcolata dalla Corte d’Appello di Milano il prossimo 19 ottobre: potrà infliggere da un minimo di un anno a un massimo di tre anni, sulla base della normativa tributaria. L’interdizione sarà definitiva probabilmente entro l’anno, amnistia e indulto permettendo. Berlusconi, già nel 1990 ha beneficiato di un’amnistia che ha azzerato un procedimento per falsa testimonianza sulla sua iscrizione alla P2 di Licio Gelli.

Dizionario
L’amnistia estingue il reato L’indulto condona la pena


L’AMINSTIA estingue il reato (129, 531, 578 Codice Procedura Penale) e, se vi è stata condanna (648 cpp) fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie (672 e succ. cpp).
L’INDULTO condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita della legge (672 e succ. Codice Procedura Penale). Non estingue le pene accessorie (19 cpp) salvo che il decreto disponga diversamente, neppure gli altri effetti penali della condanna. Sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione e non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge (articolo 79 della Costituzione).

il Fatto 9.10.13
Il Pdl esulta e ringrazia unito Per il Pd è nuovo dramma
Brunetta: “Avanti senza indugio
Epifani: “Il futuro non è più di Berlusconi”
di Sara Nicoli


Applausi a scena aperta, Napolitano portato sugli scudi e il Pdl che, magicamente, si ricompatta su indulto e amnistia nel nome del superiore interesse della salvaguardia del Capo. Per un giorno, le guerre intestine dentro il partito hanno segnato il passo, con un unico momento di breve fibrillazione quando Alessandra Mussolini, ignara dei tappi di champagne che partivano veloci accanto a lei, ha mandato l’ennesimo messaggio “subliminale” ad Alfano: “Badoglio aveva più dignità di lui, Alfini…”.
DETTO QUESTO, ieri a villa San Martino, dove si è ascoltato in diretta il messaggio del capo dello Stato, non si è parlato d’altro che dell’occasione d’oro di “chiudere il ventennio berlusconiano, come dicono loro”, non con la scomparsa dalla scena del protagonista bensì delle sue condanne. Certo, non sarà facile portare a casa anche reati come quelli commessi da Berlusconi ma ovviamente il Pdl/Forza Italia terranno il ventre basso per raggiungere l’obiettivo. Soprattutto dopo l’altra lieta novella secondo cui svolgere attività politica potrebbe essere considerato dal tribunale di sorveglianza un modo per reinserirsi nel sociale. Quasi troppa grazia, per Berlusconi, in un giorno solo, ma l’amnistia è stata davvero benvenuta. Da fare “il prima possibile”, festeggiava ieri sera Altero Matteoli, con un “impegno totale da parte di tutti”, secondo Schifani. E agganciandoci, vista appunto l’occasione d’oro, “anche la riforma della giustizia – è parola di Renata Polverini – perché ormai il governo non ha più alibi”.
Quagliariello, su questo, ieri ha incontrato il ministro Cancellieri, segnale che si lavora anche in questa direzione, ma la richiesta di Napolitano e arrivata davvero come cacio sui maccheroni. Tanto che Brunetta si è spinto a dire che dovrebbe scivolare immediatamente “in testa ai lavori delle aule” e che “va realizzato senza indugio”. Su un unico aspetto ieri sera Berlusconi ha espresso qualche dubbio. Che, cioè, la legge possa essere approvata davvero in tempi rapidi. Per lui, infatti, resta ferma l’idea di andare a votare a marzo, quando potrebbe essere protagonista diretto della campagna elettorale. Nessuno ha saputo tranquillizzarlo in merito, ma adesso il partito è di nuovo unito. Nel nome del suo salvataggio dalla condanna definitiva. “Perché noi – pontificava ieri sempre Schifani – siamo pronti a fare la nostra parte, ci auguriamo che lo stesso faccia il Pd, senza prevenzioni e pregiudizi politici”.
ECCO, IL PD. Ieri alla Camera, dopo la lettura del testo firmato dal Quirinale, la tensione in casa dem si tagliava con il coltello. Impossibile “disobbedire” al capo dello Stato, ma dura rendersi “complici” della firma di eventuali salvacondotto per Berlusconi. Perché molti – non pochi, molti – nel Pd hanno letto questo tempismo di Giorgio Napolitano come quel segnale tanto richiesto e atteso proprio nel centrodestra per sperare nella salvezza giudiziaria del leader. Per questo, è stata rapidamente emanata una nota nella quale il Nazareno escludeva di poter sottoscrivere “provvedimenti di clemenza per il reato in base al quale è stato condannato Silvio Berlusconi”: “Amnistia e indulto possono arrivare solo al culmine di un percorso che prevede misure strutturali che incidano definitivamente sul problema del sovraffollamento”; firmato Danilo Leva, responsabile giustizia del Pd. Il tormento interno al partito, però, è diventato chiaro quando è stato il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza a dover rispondere su Berlusconi: “Salva-B? Questa è una lettura banale – ha tagliato corto, stizzito – le vicende di Berlusconi non hanno a che fare con questo problema. Se qualcuno lo pensa se lo tolga dalla testa”. E il segretario del Pd Guglielo Epifani in serata interviene al Tg1: “Il futuro non è più di Berlusconi”. Poi c’è il problema decadenza dal Senato.
LA DISCUSSIONE sulla cancellazione, in questo caso, del voto segreto in aula, richiesta dal M5s, è stata calendarizzata il 15 di ottobre. C’è un precedente: si potrebbe trovare il modo di interpretare la richiesta facendo riferimento alla modalità del voto su Giulio Andreotti, era il 1993: l’assemblea votò, appunto, in modo palese su richiesta di Giovanni Spadolini, senza nessun cambio del regolamento.

il Fatto 9.10.13
Web contro il Quirinale: “Tempistica sospetta”
di M. G. L.


Stavolta la rete proprio non ci sta. È bastato che Napolitano pronunciasse le fatidiche parole “indulto e amnistia” per scatenare sul web un coro di proteste. In pochi minuti l’hashtag #indulto diventa uno dei temi più discussi su twitter. “Ciao Giorgio, grazie per aver tirato un’altra coltellata al mio snobismo di essere un cittadino rispettoso della legge”, scrive Matteo. E ancora: “Bene, Napolitano invoca nuovamente l’indulto. E allora ci sarà anche per il reato di vilipendio al capo dello Stato? Devo saperlo!”, domanda con ironia Stefano.
L’indignazione per il messaggio che ieri il presidente della Repubblica ha inviato al Parlamento si esprime, dunque, a colpi di botta e risposta sui social network: “Discorso di Napolitano alle Camere in due parole: “SilvioLibero”, riassume Paolo. “No indulto, no amnistia. Se passa straccio la tessera elettorale”, afferma Giuseppe. “Siamo il Paese più ridicolo al mondo”, twitta Dino. “Dopo 8 anni un messaggio alle Camere del presidente della Repubblica su indulto e amnistia? Napolitano non è il mio Presidente”, afferma Nicola.
I commenti ironici e piccati non si placano neanche dopo la risposta di Napolitano che senza mezzi termini dichiara: “Chi pensa che l’amnistia sia un provvedimento pro Berlusconi se ne frega dei problemi del Paese”. Tutto inuitle. Sul web la certezza, infatti, è una sola: il capo dello Stato chiede l’amnistia per un unico fine, quello di salvare Silvio Berlusconi dalla condanna per frode fiscale. “Caro Napolitano, diciamo che la tempistica è sospetta”, twitta Marco. “Alè! È arrivato il messaggio di Napolitano alla Camera su amnistia e indulto. Non ricordo... Chi è stato recentemente condannato?”, chiede Paolo. “Oltre a quello del-l’affollamento, le carceri italiane hanno un altro problema: i detenuti sbagliati. I più meritevoli sono fuori”, scrive Ciccio. “Il problema delle carceri esiste da un pezzo ed è vergognoso, ma proprio ora che hanno codannato Berlusconi se ne parla. A volte le coincidenze!”, scrive Matteo.
NELLO SFOGATOIO pubblico, non mancano i commenti di chi si schiera a difesa del presidente Napolitano: “Sono favorevolissima a indulto e amnistia e di Berlusconi me ne frego perché mi interessano i diritti umani dei detenuti”, scrive Barbara. “I vostri tweet satirici su indulto e amnistia sono penosi. Pensate a Berlusconi e non alle centinaia di persone che potrebbero giovarne”, dice convinto Zerop. “Perenni invisibili, fino a che alle porte delle patrie galere non si avvicina qualche Visibile”, afferma Stefano. “La strumentalizzazione politica del-l’indulto sulla pelle dei detenuti è vergognosa”, twitta Sofie. “Le condizioni di vita dei carcerati sono inumane. Amnistia o indulto, purché si intervenga quanto prima”, chiede Dino.
Insomma, i problemi di Berlusconi e l’appello di Napolitano hanno monopolizzato per ore il dibattito pubblico anche sui social.

Corriere 9.10.13
Il doppio livello di lettura che irrita il presidente
di Marzio Breda

CRACOVIA — Ha chiuso il messaggio alle Camere evocando il rischio di «ingiustificabili distorsioni», a proposito del dramma carcerario. Ma proprio di una smaccata «distorsione», politica prima ancora che testuale, è vittima lui. Con il Movimento 5 Stelle che piega le sue parole come un «messaggio ad personam» e le censura alla stregua di «un diktat al Parlamento», per garantire un salvacondotto a Berlusconi. È il solito riflesso condizionato bipolare (infatti non appena in aula viene evocata l’«amnistia» il Pdl applaude) che ammala fino all’isteria la nostra vita pubblica, nella pretesa di scorgere dietro ogni frase un intrigo e traducendo tutto in interventi pro, o contro, il Cavaliere. Ecco ciò che ha in mente Giorgio Napolitano quando in serata, rientrato in albergo dopo una sessione del meeting internazionale che lo vede impegnato in Polonia, lo si interroga su queste reazioni. Dice, scuro in volto e alzando la voce come molto raramente gli accade: «Coloro i quali pongono la questione in questi termini fanno pensare a una sola cosa, hanno un pensiero fisso e se ne fregano dei problemi della gente e del Paese. Non sanno quale tragedia sia quella delle carceri… E al riguardo non ho altro da aggiungere». Insomma: il doppio, e maliziosissimo, livello di lettura applicato al suo appello solenne fa quasi uscire dai gangheri il presidente della Repubblica, come dimostra quel «fregarsene» che è lontano anni luce dalla sua sempre sorvegliata cifra espressiva. Così, si ribella all’accostamento strumentale perché sente di esserne toccato due volte: 1) perché punta ad alimentare dubbi sulla neutralità alla quale è vincolato dalla Costituzione, oltre che dalla propria stessa coscienza; 2) perché immiserisce un tema di responsabilità nazionale che non può più essere eluso, e non a caso renderne consapevoli le Assemblee affinché sia affrontato e risolto è per lui «un imperativo giuridico e morale». Di più: è un tema di civiltà su cui ha ritenuto di dover mettere alle strette — e in un certo senso in mora — il Parlamento, dopo aver verificato l’emergenza (con visite in diverse carceri e più di un colloquio con Marco Pannella) e dopo che l’Italia è stata più volte sanzionata per questo dall’Unione Europea. L’ultima con una sentenza del 28 maggio scorso, termine a decorrere dal quale ci restano ormai pochi mesi per correre ai ripari. Senza più alibi. Certo, il capo dello Stato sapeva bene che nel Paese il confronto è intossicato da vecchi e reciproci sospetti, giocati sul nome di Berlusconi. Era consapevole che il semplice sollevare la questione, mentre i partiti rinfocolano di continuo la querelle sulla condanna del leader del centrodestra e sul nodo della «agibilità politica», lo avrebbe esposto al frustrante gioco del «cui prodest». Perciò, dopo aver anticipato a Napoli 10 giorni fa la notizia dell’imminente messaggio (lo strumento istituzionalmente più penetrante a disposizione degli inquilini del Quirinale, anche se spesso disatteso dalla politica), ha atteso che fosse superata la crisi. E, per inciso, lo staff fa notare due passaggi eloquenti del testo: quello in cui si sollecita di «evitare che l’amnistia incida su reati di rilevante gravità» (e qui è escluso per forza il Cavaliere) e quello in cui si ricorda comunque che è competenza esclusiva del Parlamento fare «la perimetrazione» dei reati da amnistiare. Ora, a svolta politica compiuta, il clima sembra davvero svelenito, a Napolitano? «Penso di sì», replica ai cronisti, tradendo ancora residui d’irritazione. «Si è svelenito nel momento in cui il Parlamento ha dato la fiducia al governo Letta. Bisogna essere ciechi per non capirlo». E neanche le polemiche sull’Imu lo preoccupano e li derubrica a «piccoli episodi da non sopravvalutare». Un modo per dire: non impicchiamoci alle sciocchezze, riflettiamo sui problemi seri. Come quello delle carceri.

Corriere 9.10.13
Con l’indulto fuori 24 mila detenuti. Amnistia, il conto dipende dai reati
di Dino Martirano


ROMA —Indulto vuol dire condono mentre l’amnistia, nell’etimologia greca, esprime il significato di una «dimenticanza». Il primo estingue in tutto o in parte la pena principale e non incide su quella accessoria (a meno che non sia specificato nella legge). La seconda estingue il reato e, se vi è già stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e delle pene accessorie. L’ultimo indulto è stato votato dal Parlamento nel 2006: tre anni di condono significarono circa 30 mila detenuti in uscita (per quasi tutti i reati, compresi quelli di sangue, la corruzione e la concussione) con un «crollo» delle presenze in carcere, da 68 mila a 38 mila. In 7 anni, dunque, l’effetto indulto è quasi evaporato visto che al 30 settembre 2013 i detenuti erano 64.758 a fronte di una capienza regolamentare di 47.615. L’ultima amnistia, invece, risale al 1990 quando ancora bastava la maggioranza semplice (e non i due terzi) per varare un atto di clemenza: «È concessa l’amnistia per ogni reato non finanziario per il quale è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni...».
Ecco, tanto per prendere subito il toro per le corna, ha dunque ragione il Guardasigilli Anna Maria Cancellieri quando dice che è «una falsa idea» quella che attribuisce all’amnistia un valore salvifico per Silvio Berlusconi già condannato a 4 anni per frode fiscale (pena massima 7 anni): «Decide il Parlamento quali reati toccare e non è mai successo che si occupasse di reati finanziari». Diverso il discorso per l’indulto: Berlusconi ha già usufruito di quello del 2006 (3 anni condonati) e potrebbe beneficiare «in parte» anche del nuovo atto di clemenza qualora, al momento del voto finale in Parlamento, stesse ancora «scontando» l’anno residuo ai «servizi sociali».
Giorgio Napolitano ha scritto alle Camere: tra i «rimedi straordinari» da considerare, «l’indulto è la prima misura che intendo richiamare all’attenzione del Parlamento» perché «può applicarsi a un ambito esteso di fattispecie penali (fatta eccezione per alcuni reati particolarmente odiosi). L’indulto di 3 anni, stima il capo dello Stato, inciderebbe sull’uscita dal carcere di almeno «24 mila detenuti condannati in via definitiva con pena detentiva residua non superiore ai tre anni».
Più delicati i calcoli sugli effetti dell’amnistia: tra i reati da escludere, Napolitano cita quelli di «rilevante gravità» come «i reati contro le donne» e rimanda comunque al Parlamento il compito di «perimetrare» la legge di clemenza. Nel 1990, il Parlamento pose il tetto a 4 anni ed escluse numerosi reati: quelli commessi in occasione di calamità naturali, quelli compiuti da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il peculato, la corruzione, la turbata libertà degli incanti, l’evasione, il commercio e la somministrazione di medicinali usati, le manovre speculative su merci, gli atti di libidine violenti, l’usura, il danneggiamento al patrimonio archeologico, ecc. Meno selettivo è, invece, il meccanismo dell’indulto. Spiega Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia della Camera: «Se il messaggio del capo dello Stato parte dalla necessità di fornire una risposta alla Corte di Strasburgo sul numero dei detenuti, andiamo a vedere quali sono realmente i reati che producono il sovraffollamento come quelli previsti dalla legge Fini-Giovanardi sulle droghe». Patrizio Gonnella di «Antigone» stima che il 37% dei condannati e il 40% dei detenuti in attesa di giudizio debbano rispondere di un reato collegato alla Fini-Giovanardi.
Sui tempi per proporre un rimedio al sovraffollamento (l’indulto avrebbe effetto immediato), c’è tempo fino al 28 maggio 2014 quando la Corte, in mancanza di risposte, scongelerà 2.000 ricorsi di altrettanti detenuti che per l’Italia significherebbe un onere di 20 milioni di euro. Ma un segnale dovrà arrivare entro novembre quando la Commissione per gli interventi in materia penitenziaria, presieduta da Mauro Palma, dovrà fornire al Guardasigilli le linee guida di un «piano di rientro» credibile per i giudici di Strasburgo.

il Fatto 9.10.13
Un terzo sono in galera per la Fini-Giovanardi
È la legge del 2006 che equipara le droghe leggere alle pesanti
Da sei a venti anni di reclusione, e sono 26milasu un totale di 65
di Luca De Carolis


È bastata una legge, per rendere un inferno le carceri italiane. La Fini-Giova-nardi sulla droga, che manda regolarmente migliaia di persone dietro le sbarre. Conti alla mano, un terzo dei detenuti ha violato il testo che equipara la cannabis alle droghe pesanti e reintroduce il limite quantitativo tra uso personale e spaccio. Una legge che, soprattutto, ha inasprito le pene: da sei a 20 anni di reclusione, senza distinzione tra sostanze. Stando al rapporto del ministero della Giustizia dello scorso 30 giugno, i reclusi per violazione della legge sulla droga sono circa 26 mila, a fronte di un totale di poco meno di 65 mila detenuti.
La conferma di quanto sia criminogena la legge del 2006, che in sette anni ha provocato circa 120 mila arresti (dati della lista Amnistia Giustizia e Libertà). Ma ci sono altre voci interessanti, nella tabella (con una caratteristica importante: se un detenuto ha commesso più reati compare in più caselle). Per esempio, la vastissima voce dei reati contro il patrimonio (dal furto all’estorsione , sino all’usura) rimane la prima fonte di detenzione, con oltre 35 mila reclusi che li hanno violati. Sono invece oltre 24 mila i detenuti per reati contro la persona: dalla violenza al sequestro di persona sino alla violazione di domicilio.
COLPISCE il dato sui reclusi per reati contro la Pubblica amministrazione (peculato, concussione, malversazione ai danni dello Stato), oltre 8300. Un numero maggiore rispetto ai detenuti per associazione di stampo mafioso (articolo 416 bis): 6758. In fondo residuali reati come la prostituzione (985) o quelli contro la moralità pubblica (atti osceni, tratta di donne), per cui sono in galera circa 202 persone. A margine, rimane però chiara l’impressione che il riferimento di Napolitano alla depenalizzazione fosse soprattutto per la Fini-Giovanardi. Un problema enorme anche per polizia e strutture carcerarie, che devono gestire una notevole quantità di tossicodipendenti. Intanto oggi la Consulta potrebbe scrivere un capitolo importante sul tema carceri. La Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sulla legittimità dell’articolo 147 del Codice penale, laddove non prevede “le condizioni disumane di detenzione” tra i motivi che consentono di rinviare l’esecuzione della pena in carcere. Per la Corte europea dei diritti del-l’uomo, la soglia minima è di tre metri quadrati per detenuto. Parametro che in Italia è regolarmente violato. A interpellare la Consulta, i tribunali di sorveglianza di Milano e Venezia. Che chiedono una risposta, all’emergenza perenne.

Dal “Quarto Libro Bianco sugli effetti della legge Fini-Giovanardi” (scaricabile qui):
“Se l’obiettivo del legislatore del 2006 era il contenimento dei comportamenti connessi alle droghe illegali attraverso l’inasprimento punitivo – spiega il testo -, questo non è stato raggiunto. Un detenuto su tre entra in carcere ogni anno per la violazione dell’arti. 73 (detenzione). Alla fine del 2012 gli ingressi totali in carcere erano 63.020, quelli per violazione del solo art. 73 della legge antidroga 20.465, pari al 32,47 per cento rispetto al 28 per cento del 2006. Raddoppiano, invece, i detenuti: al 31 dicembre 2012 erano 65.701, di cui quelli ristretti per art. 73 erano 25.269, pari al 38,46 per cento. A fine dicembre 2006 erano 14.640. Circa quattro detenuti su dieci sono ristretti per violazione dell’art.73″.

Meltingpot.org
Carcere, immigrazione e legge Bossi-Fini
Intervista al Prof. Emilio Santoro, docente di Diritto all’Università di Firenze e direttore de L’altro diritto

qui

Corriere 9.10.13
discutere sulla situazione carceraria con Serenità e senza Pregiudizi
di Giovanni Bianconi


Le espressioni utilizzate dal presidente della Repubblica per definire la situazione carceraria italiana sono tutte gravi e dense di significato.
Le condizioni di «degrado civile e sofferenza umana» sono divenute «ingiustificabili» e «mortificanti»; porvi rimedio è un «dovere costituzionale» urgente, «un imperativo giuridico e politico, e in pari tempo morale».
Anche in virtù di «fondamentali principi cristiani».
Di più, Giorgio Napolitano non poteva dire. E nella forma più solenne, un messaggio alle Camere per lui inedito. I numeri dell'emergenza — denunciata negli anni dai soli radicali, sempre incensati per le battaglie civili del passato e quasi sempre ignorati in quelle del presente — sono noti da tempo.
Al 30 settembre i detenuti erano 64.758, per una capienza di 47.614 posti (in realtà sono meno, per via di chiusure e ristrutturazioni in corso): ciò significa che oltre 17.000 persone vivono come non dovrebbero, costrette a un sovraffollamento «inumano e degradante», per usare altri termini presidenziali, che ha già provocato dispendiose condanne da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo.
Anche le cause di questo «ingiustificabile stato di cose» sono note, e riguardano soprattutto leggi varate negli ultimi anni dal centro-destra: la «ex Cirielli» sui recidivi, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulla tossicodipendenza. Per trovare soluzioni legislative che invertano la tendenza e porre rimedi efficaci alle carenze strutturali (come la costruzione di nuovi istituti, o la redistribuzione degli spazi esistenti) serve più tempo di quello concesso dai giudici europei per evitare nuove condanne. Per questo il capo dello Stato sollecita quel provvedimento di amnistia e indulto che manca dal 1990, (prima se ne faceva uno ogni tre anni, all’incirca), in ossequio alla diffusa «ostilità agli atti di clemenza» da parte dell’opinione pubblica.
Giorgio Napolitano chiede di «riconsiderare quelle perplessità», ben consapevole dell’ostacolo che si frappone ai suoi auspici: i guai giudiziari (ora anche relativi alla detenzione, con una pena definitiva già arrivata e altri processi in corso) di Silvio Berlusconi, che da vent’anni pesano su ogni discorso in tema di giustizia. A seconda di come l’eventuale legge sarà scritta, l’ex premier potrà o meno beneficiarne, anche solo parzialmente. E a seconda di come sarà scritta, è prevedibile che la maggioranza parlamentare dei due terzi prevista dalla Costituzione — appositamente riformata nel 1992, proprio sull’onda della diffusa ostilità di cui sopra — possa essere raggiunta o meno. Con il conseguente rischio della paralisi. Sarebbe invece il caso di discutere con serietà e cognizione di causa, senza ricatti. Augurandosi che almeno stavolta, di fronte a un così alto e severo monito, i problemi di una persona non finiscano per condizionare quelli di tutti gli altri. In questo caso proprio tutti: non solo i detenuti italiani, ma un Paese intero che per ragioni di civiltà e dignità non dovrebbe più tollerare condizioni di vita «inammissibili» nelle proprie galere .

Repubblica 9.10.13
Palma: un appello giusto così il Cavaliere potrà godere di un altro indulto
di Conchita Sannino


ROMA — «La mia posizione? Di totale adesione. Ma parlo a titolo personale. Già da ministro della Giustizia provai a lanciare queste riflessioni sulla necessità di intervenire sul sovraffollamento». Il senatore Nitto Palma, attuale presidente della Commissione Giustizia, plaude alla spinta esercitata dal Presidente Napolitano ma prevede che non sarà «velocissima » la strada per arrivare alle soluzioni auspicate, indulto o amnistia.
Senatore Palma, intanto come si traducono in pratica le esortazioni contenute nel messaggio del Presidente della Repubblica?
«Abbiamo già delle ozpioni a portata di mano. Intanto bisogna licenziare al più presto il disegno di legge che è pendente in seconda lettura in commissione Giustizia, che riguarda le misure alternative al carcere. E domani (oggi,ndr)votiamo gli emendamenti anche all’altro testo, a firma mia e di Caliendo, che si concentra sulla sospensione con messa alla prova, sul processo agli irreperibili e sulla depenalizzazione: disegno di legge che al più presto rimanderemo in aula e cercheremo di approvare».
Prevede battaglie parlamentari complesse o sostanziali convergenze su indulto e amnistia?
«Non credo sarà una passeggiata. Inutile nascondere che anche tra noi ci sono posizioni molto diverse».
Per usare le categorie più comprensibili: ifalchisono a favore e lecolombecontro?
«Sono questioni che dividono trasversalmente. Così come avviene nel Pd. Pensi che sul tema dei diritti civili, le cosiddette colombe hanno posizioni assai più rigide deifalchi.E diciamo la verità: anche per questo è giusto che ci confrontiamo apertamente nel nostro partito»
Ma lei non è per il congresso, vero?
«No, assolutamente. Non ora. Invece c’è bisogno di un confronto chiaro e profondo, ma tra noi, non sui giornali, e con regole chiare».
Ora nel Pdl dovreste essere abbastanza sollevati. Un indulto significherebbe un ulteriore sconto di pena per Berlusconi.
«Non la metterei su questo piano: a parte che bisogna vedere in quali termini, con quali formulazioni un provvedimento del genere sarebbe assunto dal Parlamento. Ma non è giusto anteporre quella vicenda personale a un allarme per il quale siamo richiamati dalla Corte di Strasburgo».
Non siamo ipocriti, senatore. In queste ore non si può non immaginare i conteggi e le ipotesiche la squadra dei legali di Berlusconi stanno proiettando intorno agli anni di pena inflitti o potenzialmente da infliggere al Cavaliere.
«Mah, sarebbero calcoli prematuri. Dipende da come vengono formulati i provvedimenti».
Berlusconi, il quale per la condanna Mediaset già usufruisce del vecchio indulto, potrebbe in astratto cogliere anche il beneficio del nuovo indulto, cumulandolo?
«In astratto sì, è così».

Repubblica 9.10.13
Nel messaggio nessun salvacondotto e per aiutare Berlusconi nei processi in Parlamento servono due terzi dei voti
I punti chiave: reati da escludere e anni di pena
di Liana Milella


ROMA — La domanda è inevitabile. L’intervento suggerito da Napolitano favorisce o penalizza Berlusconi? Quesito non semplice. Una prima risposta può essere questa: nel testo di Napolitano il famoso “salvacondotto” chiesto dal Cavaliere non c’è, ma esso può materializzarsi in Parlamento, se a votarlo saranno i due terzi delle assemblee. Vediamo perché.
Innanzitutto, cosa intende Berlusconi, per “salvacondotto”?
La vulgata berlusconiana è che dal Colle può partire un intervento che d’un colpo cancelli tutti i processi del Cavaliere.
Si può dire che Napolitano, sotto pressione da ormai due mesi da Berlusconi e dai berlusconiani per ottenere il “salvacondotto”, glielo ha concesso?
Assolutamente no. L’affermazione non ha fondamento. Napolitano, per l’indulto, parla di reati “odiosi” da escludere. E di certo frode fiscale, corruzione, prostituzione minorile lo sono. Napolitano, per l’amnistia, parla di reati «bagatellari » e che non abbiano «rilevante allarme sociale». Quelli citati prima hanno proprio queste caratteristiche.
Si può dire, semplificando, che comunque Napolitano ha passato al Parlamento la palla del salvacondotto?
L’intento del presidente è nobile — ridare dignità ai detenuti e alle carceri — ma un dato è certo: se il Parlamento dovesse varare un’amnistia e un indulto particolarmente ampi in termini di tetto di pena ciò equivarrebbe a un salvacondotto per Berlusconi. Quindi, come è scappato a qualche parlamentare, con la palla del savalcondotto adesso deve giocare il Parlamento.
L’affaire Berlusconi morirà tra indulto e amnistia?
Non sarà facile che Pd e Pdl si mettano d’accordo sul tetto e sulla lista dei reati esclusi. Il Pdl vorrà un tetto “alto” per coprire anche i reati di Berlusconi e una lista di delitti in cui non siano escluse frode fiscale, corruzione, prostituzione minorile. Il Pd vorrà l’opposto, tetto basso e proprio quei reati esclusi. A quel punto il Pdl parlerà di norma contra personam (come già sta facendo...)e salterà tutto.
Amnistia e indulto richiedono i due terzi dei voti. È una maggioranza possibile?
Alla Camera servono 420 voti. Potenziale schieramento: Pd (293), Pdl (96), Sel (37) o Sc (47). Al Senato ne servono 214. Quindi Pd (108), Pd (91), Sc (20) oppure Gal (10), o Sel (7), o le Autonomie (10). Quindi Pd e Pdl devono mettersi d’accordo per forza altrimenti niente indulto o amnistia.
Perché la Costituzione richiede i due terzi?
La regola fu introdotta nel ’92, sull’onda di Mani pulite e per il timore che i partiti potessero auto-aministiarsi con un voto a maggioranza semplice. Dice Napolitano che tra la gente è diffusa «l’ostilità agli atti di clemenza» . Un ampio voto in Parlamento serve a trasmettere l’idea che essa non è di una sola parte, ma di uno schieramento ampio e trasversale.
Berlusconi ha una sentenza passata in giudicato (4 anni per frode fiscale), il processo Ruby in procinto dell’appello (e una condanna a 7 anni per corruzione e prostituzione in primo grado), inchieste aperte a Napoli e Bari per corruzione. Potrà fruire ora e in futuro di un indulto e di un’amnistia?
Tutto dipende da cosa deciderà il Parlamento. Napolitano parla di un indulto «di sufficiente ampiezza» e di un’amnistia i cui confini devono essere scritti dalle Camere perché non spetta a lui fissare «i limiti di pena massimi e le singole fattispecie escluse». Ilpunto è proprio qui. Sono ipotizzabili un indulto e un’amnistia per i reati di Berlusconi? Di certo l’indulto potrebbe togliergli degli anni di pena, proprio come ha fatto con Mediaset e la frode fiscale, ma il Pd — come già dicono i suoi parlamentari — non voterebbe mai un colpo di spugna.
Il Pdl può sostenere all’opposto che questi reati vanno inseriti?
Il Pd si sta già preparando a contestare il Pdl con la tesi che corruzione, concussione, prostituzione minorile, frode fiscale eventuale falsa testimonianza, non sono reati che producono il sovraffollamento carcerario, cioè il malanno che Napolitano vuole sanare. Anzi, per questi reati i detenuti sono pochissimi.
Ma fino a che tetto possono arrivare indulto e amnistia?
Tre anni per l’indulto sono scontati. L’amnistia è il vero problema. Tre anni sono accettabili, fuori misura 4, o 5 anni. Decisamente troppo per il Pd. Oltre 5 anni amnistia impensabile.
Come si calcola il tetto massimo possibile? Sulla pena effettiva decisa dai giudici o sul massimo della pena prevista dal codice penale?
Purtroppo per Berlusconi il calcolo è sul tetto massimo. Quindi i suoi reati — frode fiscale fino a 6 anni, corruzione per induzione fino a 8, prostituzione minorile fino a 12 — sono del tutto fuori “tetto” massimo. Un’amnistia così alta svuoterebbe del tutto le carceri.
La condanna per Mediaset è ormai definitiva, l’amnistia può cancellarla?
Ormai non più, proprio perché il processo è chiuso.
E che succede dell’interdizione dai pubblici uffici?
L’interdizione è coperta dall’amnistia che cancella le pene accessorie. Ma vale sempre il tetto massimo del reato contestato.
Se l’amnistia arrivasse prima dell’interdizione definitiva avrebbe effetti?
Il Parlamento dovrebbe fare in tempo per gennaio 2014, quando la Cassazione dovrebbe chiudere il processo, e l’ipotesi non è realistica.
I recidivi – per esempio un Berlusconi condannato più volte – possono fruire delle misure di clemenza?
Tutto dipende da cosa decide il legislatore. Ma fino a oggi i recidivi sono stati esclusi dalle clemenze. Napolitano parla anche di effetti negativi della stretta sui recidivi, citando la legge che ne ha attenuato gli effetti. Ma, nel caso dell’ex premier, resta la pesantezza dei reati contestati.
Che succede con l’indulto del 2006 di cui ha fruito Berlusconi se interviene una nuova condanna?
Rivivrà la pena originaria, come la legge aveva stabilito.
Un nuovo indulto sarebbe cumulabile col vecchio?
Manconi (Pd), nella sua proposta di legge, lo esclude. Il cumulo sarebbe irrazionale e ingiusto.
L’amnistia annullerebbe la decadenza?
Il Pdl solleverà di sicuro la questione. Sarà un’ulteriore ragione per chiedere un rinvio, ma la legge Severino, in quanto causa di non candidabilità per motivi di pubblica moralità, non dovrebbe essere cancellabile.

Repubblica 9.10.13
Il retroscena
Bersani: il messaggio del Colle non nasconde scambi con Berlusconi. Orfini: dovremo spiegarlo molto bene
La base pd: guai se salvate il Caimano E i parlamentari giurano: faremo muro
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Escludo che il messaggio di Napolitano faccia parte di uno scambio sulla giustizia con Berlusconi. È impossibile pensarla così». Pier Luigi Bersani, parlando in un angolo del Transatlantico, respinge qualsiasi sovrapposizione tra la vita delle larghe intese e la vicenda giudiziaria del Cavaliere. Ma l’offensiva di Beppe Grillo può fare breccia nel popolo del Pd, se i provvedimenti indicati dal testo quirinalizio non verranno spiegati bene, se non ci sarà un’altolà netto alle forzature del Pdl.
Da una parte ci sono i grillini, ma dall’altra ci sono gli elettori democratici che, attraverso la Rete, esprimono i loro dubbi sui consigli al Parlamento del presidente della Repubblica. In qualche caso, racconta chi da sempre è allergico alle larghe intese, sulla posta elettronica dei parlamentari arrivano lettere molto allarmate. Pippo Civati però condanna il clima di sospetti: «Non esiste nessuno scambio. Il senso del messaggio non si riduce ai destini di una persona». La pensa allo stesso modo Matteo Orfini: «È vero il contrario, secondo me. La nostra gente capisce bene che eliminare il sovraffollamento delle carceri è una questione di civiltà. Semmai— dice il giovane turco — andrà spiegato, in ogni occasione e in tutte le sedi, che da qualsiasi testo di clemenza verranno esclusi alcuni reati, a cominciare da quelli finanziari come la frode fiscale ». Ecco, l’importante è allontanare lo spettro di un salvacondotto per Berlusconi. Affrontare a muso duro i diktat del centrodestra. Su questa linea, il Pdsembra alzare un muro comune. Senza sbavature, senza cedimenti.
I renziani non sono certo amici delle larghe intese. E non sono alleati del mantra della “stabilità”, che Palazzo Chigi e Quirinale considerano invece fondamentale per la tenuta dell’Italia. Matteo Richetti però non ha dubbi: «Basta farsi un giro nellecarceri per capire la situazione drammatica che si vive in quei luoghi e quanto sia opportuno, giusto, sacrosanto il messaggio di Napolitano». Come si può pensare allora che le parole del Colle aiutino Berlusconi? «Nessuno può pensarlo, tranne l’interessato », dice Richetti. Il Pd tuttavia ha un problema: affrontare il proprio elettorato sul delicatissimo terreno della clemenza per i detenuti: all’epoca dell’indulto varato dal governo Prodi, quel provvedimento fece danni nelle file del centrosinistra. «Non fu capito — ammette Orfini — e con qualche ragione. Era un’iniziativa presa in un momento di estrema debolezza dell’Ulivo e del governo. Mancavano tutta una serie di misure strutturali sulla detenzione. Pagammo un prezzo per questi motivi».
Il consiglio che arriva ora da Largo del Nazareno è mantenere le antenne dritte. Controllare le forzature del Pdl, non farsi trascinare di nuovo nel campo minato delle questioni giudiziarie di Berlusconi. È già successo con la decadenza e il Pd ha risposto in maniera perfetta, senza arrettrare di un millimentro. Evidentemente, l’interpretazione del messaggio di Napolitano da parte del Pdl, fa capire che la battaglia continua.

il Fatto 9.10.13
Come non detto
Imu e case di lusso: il Pd ritira l’idea e si inchina al diktat del solito Berlusconi
I democratici ritirano l’emendamento  che voleva allargare la platea degli immobili colpiti
di Marco Palombi


Ci sono stati piccoli episodi o motivi di polemiche, ma non mi pare che siano da sopravvalutare”. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ieri evidentemente aveva deciso di dire proprio tutto nella maniera più chiara: dall’amnistia alla sceneggiata sull’Imu tutta interna al Pd innescata dal famoso emendamento per farla pagare alle “case dei ricchi”. Come anticipato ieri dal Fatto , alla fine i deputati democratici hanno ritirato le loro proposte di modifica: erano una forma di pressione sul governo, ha spiegato il capogruppo in commissione Bilancio Maino Marchi, bersaniano. In sostanza il governo ha promesso che nella legge di stabilità ci saranno altri soldi per la Cassa integrazione, che la futura service tax avrà una natura progressiva, che non ci saranno aumenti d’imposta per finanziare l’abolizione della seconda rata e le altre spese obbligatorie (servono circa cinque miliardi).
“Bravi, avete ridato voce ai Brunetta e alle Santanchè”, si sfogava ieri coi reprobi un deputato lettiano. La battaglia, infatti, non è sul decreto in discussione – quello che abolisce la prima rata dell’Imu e già prevede fondi per “risarcire” i comuni – ma sul disegno di legge che verrà: la legge di stabilità, in pratica la vecchia finanziaria, che va presentata al Parlamento entro i prossimi sette giorni. Sarà su quel testo, a quanto pare, che Pd e Pdl torneranno a dividersi sull’imposta sugli immobili: l’accordo politico prevede l’abolizione anche della rata di dicembre, ma nel frattempo – come ha detto e ridetto Letta – “la maggioranza è cambiata”.
“LA SECONDA RATA è un capitolo da scrivere”, vaticinava ieri Stefano Fassina, viceministro dell’Economia, Pd, bersaniano pure lui. Sottotesto: stavolta non tutti saranno esentati. Le simulazioni, al Tesoro, sono l’unica cosa che non manca: aumento della franchigia, criteri di reddito, slalom tra le categorie catastali. Con la franchigia a 756 euro di rendita - più o meno dove la voleva mettere il Pd - il gettito 2013 secondo il governo sarebbe di 1,5 miliardi (pagando entrambe le rate). Le case coinvolte, sempre secondo le simulazioni, sarebbero oltre quattro milioni e mezzo su 19 milioni e dispari di abitazioni principali. Sono proprio queste case, quelle con rendite più alte, ad aver assicurato la maggior parte del gettito nel 2012: il 10 per cento delle abitazioni principali l’anno scorso garantì oltre il 35 per cento degli introiti. L’emendamento che Scelta civica vuole far approvare, invece, aumenta ancor di più la platea: detrazione standard di quattrocento euro (anziché di 200), con gettito attorno ai due miliardi (sempre per l’intero anno), e circa sei milioni di prime case coinvolte. Per la prima rata, comunque, i giochi sono fatti: non paga nessuno. O quasi, in realtà: l’imposta è ancora dovuta per ville, castelli e “abitazioni signorili”. Si parla di meno di 74mila edifici in tutta Italia per un gettito che supererà di poco i 105 milioni di euro.
BRICIOLE, che non corrispondono al numero reale di “abitazioni signorili” in Italia: le nostre categorie catastali risalgono al 1939 e – grazie a pochi, abili accorgimenti su metratura, numero dei bagni e finiture – e un gran numero di ville e abitazioni signorili finiscono per essere registrate al catasto nelle categorie A2 (case “civili”) e A7 (“villini”), attualmente esenti. Alla stessa maniera, specialmente nelle città medie e grandi, parecchi appartamenti assolutamente normali si trovano ad avere rendite catastali molto alte perché il palazzo di periferia in cui si trovano era un progetto di “edilizia residenziale”, case nel centro di Roma – invece – risultano “popolari” e nel 2012 sono costate ai proprietari quasi niente.
Senza una riforma del catasto, insomma, è praticamente impossibile trasformare l’Imu in un’imposta equa: l’idea di una parte del Pd che basti allargare la platea di chi dovrà pagare a dicembre è puramente ragionieristica. Serve solo a recuperare risorse per altre spese. Il governo però – con il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni in testa – pare pensarla alla stessa maniera e non è escluso che quella sia la direzione provvisoria in attesa della Service tax comunale del 2014. “Sarà progressiva”, ha assicurato ieri il sottosegretario Pd Paolo Baretta, che segue la partita in Parlamento. La riforma del catasto è una legge delega inserita in un disegno di legge appena approvato dalla Camera in prima lettura: prima che sia operativa avremo già cominciato a pagare.

La Stampa 9.10.13
Il Pd fa retromarcia e ritira gli emendamenti sulle case di pregio
di Paolo Russo

qui

Repubblica 9.10.13
Fassina: “Per abolire a tutti la seconda rata sulle abitazioni dovremo aumentare altre tasse”
Il viceministro: è il costo per non voler colpire le maxirendite
L’operazione non era quella di colpire i ricchi, ma di ridurre l’aumento dell’Iva che ha un serio impatto sociale
Il Pd ha posto un problema di equità, ma siamo alleati con un partito per nulla interessato al tema
di Roberto Mania


ROMA — Viceministro Fassina, sull’Imu il Pd ha fatto marcia indietro. Lei, nonostante il suo incarico nel governo, aveva sostenuto l’emendamento, poi ritirato, che reintroduceva la tassa sulle abitazioni di maggior valore. Ritornerete all’attacco per far pagare la seconda rata dell’Imu?
«Vorrei precisare che il senso dell’operazione non era certo quello di colpire i ricchi o il ceto medio, come qualche “pierino” ha scritto sui giornali. O quello di ritornare alla lotta di classe che è stata evocata da qualcuno del Pdl. L’obiettivo, piuttosto, era di ridurre l’aumento dell’Iva scattato il primo di ottobre. Vorrei ricordare che più Iva vuol dire più tasse. Forse qualcuno se l’è scordato. Aggiungo che, per quanto sia sfasciato il nostro catasto, l’aumento dell’Iva ha un impatto certamente più regressivo sul piano sociale che l’ipotesi di reintrodurre l’Imu sul 10 per cento delle abitazioni di maggiore rendita catastale».
Dunque, se non capisco male, siete pronti a riproporre la stessa questione quando si tratterà di votare l’abolizione della seconda rata dell’Imu?
«Il Pd ha posto un problema di equità nella politica economica del governo. Purtroppo questo è un governo di coalizione, e il Pd è alleato con un partito, il Pdl, che non ha alcuna attenzione sull’equità. Ritengo che il problema posto dal Partito democratico debba essere tenuto in grande attenzione quando affronteremo il tema della seconda rata dell’Imu e gli interventi da inserire nella legge di Stabilità».
Insomma, va abolita o no la seconda rata?
«Dobbiamo stare attenti per evitare che il Pdl faccia il gioco delle tre carte».
Cosa vuol dire?
«Che per eliminare una tassa se ne introduca un’altra che abbia un impatto peggiore sull’economia reale. Perché, nelle attuali condizioni di finanza pubblica, l’abolizione della seconda rata dell’Imu vuol dire aumentare altre imposte ».
In realtà il Pdl ha presentato un
ventaglio di coperture alternative.
«Sì, tutte tecnicamente inutilizzabili, a parte la vendita degli immobili. Segnalo, inoltre, che delle otto proposte non una interessa i tagli di spesa».
Ma lei tornerebbe indietro anche sull’Iva per riportare l’aliquota al 21 per cento?
«Io dico che la riduzione dell’aliquota Iva è alternativa al taglio del cuneo fiscale».
Dunque sull’Iva non si può tornare indietro, visto che per il governo la riduzione del cuneo saràil cuore della legge di Stabilità. Ma per il taglio del cuneo fiscale troverete le risorse necessarie? È chiaro a tutti, infatti, che i 4-5 miliardi ipotizzati non renderanno percepibile la riduzione della tassazione sul lavoro. Probabilmente serviranno 15-16 miliardi di euro.
«Più saranno le risorse, meglio sarà. Deve essere chiaro a tutti in ogni caso che dobbiamo rispettare i vincoli europei. Quelli sono invalicabili. Non dimentichiamoci che per il prossimo anno ci siamo dati il target del 2,5 per cento di deficit/ Pil. È all’interno di questo ambito che possiamo muoverci. E per questo bisognerà fare delle scelte».
Vuol dire che il taglio al cuneo fiscale e contributivo non potrà essere uguale per tutti? Che sarà selettivo?
«Penso che l’intervento sul cuneo fiscale dovrà concentrarsi sull’incremento del reddito disponibile delle famiglie perché, oggi, la leva necessaria per la ripresa passa dalla domanda interna».
Sta dicendo che la riduzione delle tasse deve privilegiare i lavoratori a più basso reddito?
«Sto dicendo che il taglio va destinato prevalentemente all’Irpef dei lavoratori. E aggiungo che bisogna stare molto attenti perché la riduzione del cuneo non abbia effetti pesanti su alcuni servizi destinati alle famiglie in maggiore difficoltà ».
A cosa si riferisce?
«Al rischio che per ridurre l’imposizione sul lavoro si aumentino i ticket sanitari. Sarebbe un’ipotesi inaccettabile».

Corriere 9.10.13
Opposizione in trincea contro un governo avviato alla stabilità
di Massimo Franco


Forse era inevitabile che spuntassero i sospetti. Soprattutto, che affiorassero tra le forze politiche ostili alla maggioranza e al governo delle larghe intese. L’appello di Giorgio Napolitano al Parlamento perché con un provvedimento di amnistia e indulto riduca il sovraffollamento delle carceri, ha fatto rizzare subito le antenne a quanti aspettano la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare; e tendono a vedere nella stabilità ritrovata non solo la propria sconfitta ma possibili manovre per favorire un Cavaliere già sull’orlo della decadenza da senatore e dell’affidamento ai servizi sociali. Nel messaggio scritto del capo dello Stato, recapitato ieri alle Camere, l’ex pm Antonio Di Pietro coglie come minimo «una tempistica sospetta». Eppure, su amnistia e indulto il Quirinale insiste da mesi. Trattarlo solo come un modo surrettizio per aiutare il capo del centrodestra sa di attacco pregiudiziale.
D’altronde, la spaccatura fra chi plaude all’iniziativa e chi la contesta riflette fedelmente le distanze fra maggioranza e opposizione. Ma conferma anche come Pd, Pdl e Scelta civica stiano faticosamente superando la fase conflittuale che pochi giorni fa aveva portato il governo di Enrico Letta sull’orlo della crisi: perfino su un tema incandescente come la giustizia. Sono Beppe Grillo, la Lega e ciò che rimane dell’Idv a criticare Napolitano. Di Pietro insinua «uno scambio per sorreggere il governo Letta». E la Lega di Roberto Maroni, pronta a sfruttare la paura di una parte dell’opinione pubblica, gli imputa di «aprire le porte delle carceri» invece di farne costruire altre.
In realtà, nel messaggio del Quirinale si fa presente quanto la situazione carceraria italiana crei sconcerto in Europa e umili l’Italia. Amnistia e indulto, si legge, possono «favorire una significativa riduzione» del numero dei detenuti. Napolitano non entra nel merito dei provvedimenti. Il perimetro dell’amnistia, i reati da includere o escludere rientrano «nelle competenze esclusive del Parlamento». Ma l’insinuazione insultante dei grillini che definiscono il presidente della Repubblica «padrino di un salvacondotto per Berlusconi», non può passare sotto silenzio. E da Cracovia, Napolitano replica con durezza.
Con la voce incrinata, dice a quanti lo accusano di volere un’amnistia pro-Berlusconi: «Sanno pensare a una sola cosa. Hanno un pensiero fisso. Se ne fregano dei problemi della gente e del Paese e non sanno quale tragedia sia quella delle carceri. Non ho altro da aggiungere». Il Guardasigilli, Anna Maria Cancellieri, conferma che «decide il Parlamento» e bolla come «falsa idea» quella di un’amnistia per salvare il Cavaliere. È «una lettura banale. Le vicende di Berlusconi», conferma il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, «non hanno a che fare con questo problema». Alcuni settori della sinistra, però, mettono le mani avanti per escludere che misure di clemenza possano riguardare reati fiscali come quelli all’origine della condanna dell’ex premier.
Temono di essere additati dalle opposizioni, per le quali l’argomento polemico è troppo ghiotto. Il fatto che il premier, Enrico Letta, definisca l’iniziativa «ineccepibile», il Pdl con Renato Schifani applauda il capo dello Stato e lo stesso Pd accolga come «assolutamente positiva» l’esortazione di Napolitano, disegna uno scenario politico più stabile. E questo è usato come una sorta di prova indiretta dei peggiori sospetti. Politicamente, costituisce una novità sgradita e inaccettabile per quanti hanno puntato e forse ancora sperano nella crisi. Il clima «si è svelenito nel momento in cui il Parlamento ha dato la fiducia al governo Letta: bisogna essere ciechi per non capirlo», ha dichiarato ieri il presidente della Repubblica. Ma forse è stato capito così bene che il suo ruolo di garante della coalizione lo espone ancora di più agli attacchi.

l’Unità 9.10.13
Renzi-Cuperlo, è partita la sfida sul Pd
Cuperlo: «La nostra sfida è sul modello di società»
Alla Costituente delle idee con Folena, Damiano, Chiti, Lucà
Marini: giusto parlare di uguaglianza
di Maria Zegarelli


ROMA È Mimmo Lucà a spiegare che questa è stata una scelta «ponderata», frutto di un’analisi sui contenuti, un percorso iniziato a giugno che oggi ha portato «La Costituente per le idee» (il progetto promosso da Vannino Chiti, Cesare Damiano, Pietro Folena e dallo stesso Lucà) a schierarsi con Gianni Cuperlo al congresso.
Ma è Cesare Damiano a sottolineare che l’unico candidato a non rispondere al loro invito di confronto è stato Matteo Renzi. Nella sala conferenze al terzo piano del Nazareno, quartier generale del Pd, la Costituente si confronta con il candidato per oltre tre ore, un dibattito a cui prendono parte militanti e dirigenti e che apre una finestra, un’altra, su ciò che finora non ha convinto, è mancato o ha sfiancato anche i più tenaci elettori che in questi anni avevano puntato sul partito del nuovo millennio, quello che cercava di andare oltre la Margherita, i Ds, la prima Repubblica e che ora fa i conti con i suoi punti deboli e la mancata vittoria elettorale dello scorso febbraio.
Chi sta qui, come Franco Marini, è convinto che i democratici abbiano bisogno di un segretario a tempo pieno, concentrato sul partito e sull’identità che questo si dovrà dare, «forte e autorevole», ed è convinto, come Damiano, «che è ora di sfatare un luogo comune secondo cui chi sta con Renzi sta con l’innovazione chi sta con Cuperlo con la nostalgia. Non è così, noi non siamo nostalgici, noi crediamo nei lavori, nell’uguaglianza, nel superamento del conflitto tra lavoro e impresa, non crediamo nel presidenzialismo».
Ma è lo stesso Cuperlo a tornare sul «luogo comune»: «L’innovazione non è altrove, è qui, è nell’idea di Paese che abbiamo. Nessuno vuole ricostruire i partiti di prima, non io. La scelta è quella di costruire un partito: il partito democratico».
«Lo so che serve un leader, ma questo non esclude il metodo democratico», aggiunge Marini tornando sul punto che più gli è caro: «Noi abbiamo bisogno di un segretario che non può pensare dopo tre mesi a fare il premier e Cuperlo ha sempre detto che l’unica cosa che gli interessa è quella di guidare il partito, per quattro anni, un mandato pieno».
QUEI GIORNI DRAMMATICI
L’ex presidente del Senato torna anche ai giorni drammatici postelezioni. Rimprovera a Bersani di aver smesso, a un certo punto, di sottoporre a un voto le decisioni assunte in direzione; giudizio inappellabile, invece, quello dell’economista Mimmo Guerrieri secondo il quale «è fallito il bersanismo». C’è chi evoca un asse inedito per certi versi: Enrico Letta candidato a Palazzo Chigi e Cuperlo alla guida del partito. Esattamente l’opposto di chi ha scelto di appoggiare Matteo Renzi puntando ad un segretario che sia anche il
candidato alle elezioni politiche per Palazzo Chigi. E anche questo è un primo e netto spartiacque tra i due competitor, che poi è legato a stretto filo con l’idea di partito. Invita a non «caricare di troppa enfasi il superamento della crisi», Francesco Simoni che, votando «con convinzione Gianni», riconosce a Renzi di «aver dimostrato che si fa politica con coraggio». Invita a non perdere tempo, invece, neanche un attimo, il lavoratore Alitalia, «ci sarà il blocco del volo aereo nazionale per due giorni», dice esortando la politica a fare la politica. Vittorio Sammarco chiede a Cuperlo attenzione per il mondo cattolico, soprattutto sui temi etici, a non dare per scontato che quel mondo sia rassegnato ad avere un ruolo marginale anche dentro la sinistra e il centrosinistra.
Quello che succede qui è quello che succede in ogni luogo che si tratti di renziani, cuperliani, civatiani o pittelliani dove si apre un confronto con la base. Viene fuori la richiesta di una politica e di una classe dirigente che si tiri fuori da un dibattito ripiegato al proprio interno. Quello che chiedono qui è un partito che si faccia carico di ciò che la società si porta dentro: disoccupazione, solitudine sociale, mancanza di welfare e servizi. Mancanza di futuro. Quello che chiedono a Cuperlo è di ridare un’identità forte al partito, senza aver timore di usare la parola «sinistra» e rimettendone al centro un’altra, «uguaglianza».
Cuperlo, che non dà affatto per chiuso il congresso, neanche davanti ai sondaggi che danno Renzi a percentuali bulgare, esorta all’ottimismo: «Siamo in grado di fare una grande battaglia perché il tema non è più la durata del governo, né la premiership. Il tema oggi è il partito che vogliamo costruire insieme. Spetta a noi indicare una via d'’scita alla crisi, un modello di società e di Paese dopo la crisi, dopo Berlusconi e dopo la destra. È questo il partito a cui penso». Sulle agenzie legge le dichiarazioni di fuoco del Movimento Cinque Stelle contro il presidente Giorgio Napolitano e coglie l’occasione per esprimergli solidarietà, «ha fatto un discorso di altissimo profilo». Di bassissimo, invece, quello degli onorevoli pentastallati.

il Fatto 9.10.13
Il segretario Pd di Firenze guida la corsa di Cuperlo


FIORENTINI CONTRO. A coordinare il comitato nazionale per la candidatura di Gianni Cuperlo sarà Patrizio Mecacci, oggi segretario metropolitano del Partito democratico a Firenze. “Patrizio -ha commentato il candidato alla segreteria-ha l’età giusta e l’entusiasmo, quelle caratteristiche umane e l’esperienza politica necessarie per tenere insieme i fili di una campagna che spero spieghi a tutti quelli che incontreremo nelle nostre iniziative che tipo di Italia vogliamo e che tipo di partito democratico serve a questa Italia”. Mecacci, 29 anni, alle scorse primarie aveva sostenuto la candidatura di Bersani e aveva dichiarato che, in caso di una vittoria di Renzi, non sarebbe stato sicuro di sostenerlo nella sua corsa alla presidenza del consiglio. Non solo, a scrutinio avvenuto aveva attaccato Renzi, addebitando l’alta affluenza in Toscana al fatto che l’elettorato di centrodestra e anche i nobili avrebbero sostenuto il “rottamatore”. In vista del congresso, il ruolo di segretario metropolitano a Firenze, il posto che oggi occupa Mecacci, dovrà essere rinnovata ed è in corso un braccio di ferro tra renziani e avversari.

il Fatto 9.10.13
Renzi imBarca il comunista non pentito
Presenta il libro dell’ex ministro
L’altro non fa endorsement ma lo corteggia
di Wanda Marra


Il Renzi verrà? Ormai è una star, quanto l'hai pagato?". Sergio Staino è seduto al tavolo della Feltrinelli di Firenze con Fabrizio Barca. I due aspettano il Sindaco, previsto per la presentazione de La traversata, il libro dell'ex ministro di Monti. Lui, come al solito, è in ritardo. Peraltro, un ritardo che va avanti da mesi: Barca gliel'aveva chiesto più volte di fare un'iniziativa pubblica insieme. E lui, sempre no.
A GUARDARLI da lontano, non c'è niente di più diverso di un comunista non pentito, radicale, che ha passato mesi girando l'Italia e producendo materiali sulla nuova idea di partito, senza che questo si sia tradotto in una candidatura alla segreteria del Pd e un giovane cresciuto nei ranghi del Partito popolare, bravissimo a inventare slogan di rottura (quello di ieri è "il partito pensante") e a fare sempre la mossa spiazzante, di cui tutti sanno che vuole diventare oggi segretario e il prima possibile premier, ma molti non hanno capito con quali idee. Eppure alla fine, Renzi arriva. Si scusa, si toglie la cravatta. “Hai letto il libro?”, chiede Staino. “Sì, l'ho letto”, risponde il giovane Matteo, appellandolo “compagno” Staino. “Hai pure imparato a dire compagno”, non si lascia sfuggire il così testè definito. Il dialogo è animato, le parti in commedia sono chiare: Barca vuole capire se Renzi una volta segretario sarà disposto ad accogliere le sue idee, al fine di riformare il Pd, aprirlo, nel nome dello “sperimentalismo democratico”. L'altro è consapevole che se non vuole rimanere strozzato dal "correntismo esasperato" (parole sue) deve trovarsi qualche alleato che lo aiuti anche a livello di elaborazione. E allora, chissà, chi meglio di uno come Barca che della vecchia classe dirigente non ne vuole sapere? Passaggi scelti. Renzi: "Serve un partito che vada all'attacco". Barca: "Sì, ma serve una strategia, se no dove si va?". Ancora Barca: "Ci vuole una figura di partecipante iscritto, che non sia tesserato, ma che sia parte attiva nella vita del partito". Renzi: "Ma perché uno che vuole votare alle primarie e fare solo quello, non può?". Barca: "Però, pensaci al partecipante iscritto". Prove di convergenza. Con Renzi che svicola quando l'altro cerca di stringerlo sui contenuti, ma legge passi scelti del libro, come quello sul "partito palestra" e Barca che lo spinge sulla critica a un esecutivo che non gli piace: "Si deve stare addosso al governo. Non per scalzarlo, ma per aiutarlo". Renzi ormai ufficialmente si è rifugiato dietro un mantra: "Va bene Enrico, se fa le cose". A dare un po' di pepe ci pensa Staino, che riprende il Sindaco, lo critica: "Mio fratello, convinto elettore del Pdl, l'anno scorso alle primarie voleva votare per te. Per dare fastidio al Pd. Ed è un'ambiguità che tu hai molto contribuito a creare". Poi, però nota pure: "In fondo non dite cose molto diverse, anche se Fabrizio lo fa con più precisione".
C'È DA aspettarsi che il tanto sospirato endorsement dell'ex ministro arrivi a vantaggio del candidato super favorito? Lui continua a dire di no, che non si esprime per nessuno, che deciderà la notte prima. Ma anche che dal giorno dopo è disponibile a mettere a confronto le sue idee con quelle del nuovo leader. Una direzione di 20 persone e non di 200, un partito in cui gli incarichi di segreteria siano distinti da quelli di governo sarebbero strumenti forse utili a Renzi per fare piazza pulita di una serie di appoggi non desiderabili e per rivoltare il Pd. "Va bene, questo libro Matteo l'hai letto. Ascoltami: leggine di più". Parola di Staino.

il Fatto 9.10.13
Roma in rosso, la cultura tracolla
Per sopravvivere servono 80 milioni
Dalle Scuderie all’Opera, Casa del Cinema, Teatro Stabile, biblioteche al Macro: il “buco” di Roma travolge la cultura
Il prezzo di assunzioni e incarichi dell’èra Alemanno
di Malcom Pagani


L’anagramma perfetto di Roma è finalmente meritato. Una città in mora, indebitata per 867 milioni di euro, in cui l’attuale sindaco Marino divide equamente il tempo a maledire chi l’ha preceduto e a intonare il vero inno di Mameli e minimo comun denominatore delle serenate intonate dal Campidoglio nell’ultimo ventennio: la questua al governo centrale. I tempi sono magri, le tasche strette e il concerto del maestro Marino, stavolta, non ha ottenuto applausi. Letta ha apprezzato l’impronta dei primi tagli in giunta e poi, ascoltate le richieste complessive per evitare il default, 500 milioni, è evaso rapidamente da una quinta.
Un aiuto arriverà, ma a Roma, con i suoi 62.000 dipendenti pubblici, la dolce vita non tornerà più e il polo culturale, sogno veltroniano generosamente foraggiato per anni, rischia di sparire. Per la sopravvivenza, nelle forme gigantiste che tanto piacevano a Walter, servirebbero quasi 80 milioni di euro. Soldi che non ci sono. Palanche che non tintinneranno. Da quando il potente Emmanuele Emanuele, dopo averlo lungamente minacciato, ha sbattuto la porta del Palaexpo lasciando la presidenza e sottraendo gli oltre 4 vitali milioni di contributo, dalle parti della Casa del cinema tira la stessa brutta aria che si respira nei pressi delle consorelle.
FACCE SCURE e futuro incerto alle Scuderie del Quirinale come al Palazzo delle Esposizioni. Un soffio di percepibile smobilitazione, con i sindacati ben oltre la soglia di preoccupazione e lo spettro della chiusura definitiva a dare sinistra continuità a quella estiva. Solo un caso, tra i tanti, in una città che i suoi conti con la cultura, in una progressiva proliferazione di assunzioni, Cda ingrassati e incarichi dilatati, ultimamente, li ha sbagliati tutti. L’Opera di Roma ad esempio. Durante la reggenza alemanni-da, nell’inutile rincorsa tutta mediatica a Riccardo Muti, il sovrintendente De Martino con risultati in chiaroscuro, si è trovato a gestire 20 milioni di euro l’anno. Provvigioni fuori dal mondo (a Milano la Scala – che è la Scala – dal Comune ne riceve 7) che da domani, con tutte le possibili ripercussioni sul futuro dello stesso Muti, saranno brutalmente decurtate.
Prebende di cui decine di enti a vario titolo si sono giovati con crescente bulimia protoministeriale. Il teatro stabile di Roma. La Filarmonica romana. I teatri di cintura. I festival di tutti i tipi. Che ora, insieme al Macro (il museo che meglio di tutti ha fatto e che adesso, con una reggenza ad interim, naviga in pesanti difficoltà persino con gli stipendi dei custodi e con i fornitori di energia elettrica) soffrono.
Tremano tutti, persino l’indispensabile circuito delle biblioteche cittadine, mentre sul fronte occidentale, senza sostanziali novità da poter opporre a casse di cui si scorge il fondo, è stata spedita Flavia Barca. Soldatessa alle grandi manovre del Comune e assessore alla Cultura con competenza e forbice sotto la scrivania, Barca con apprezzabile dialettica, sincero sforzo iconoclasta e ancora perfettibile capacità di sintesi spiega (in 20 pazienti, mitraglianti minuti senza requie) che un’era è finita per sempre.
RIFIUTA però di darle etichette: “Non è tramontato il sogno veltroniano, è cambiata l’Europa, è cambiato il mondo. In un quadro diverso da ieri, razionalizzare i costi senza rinunciare a far cultura è una sfida e un’opportunità da allargare anche ai nuovi attori sociali”. E dice proprio così, “attori sociali”, parlando di associazioni di cittadini e privati da coinvolgere nel “sistema perché possano incidere sulla città”. L’economista che nei suoi studi di settore usa qualche parolaccia connaturata al ruolo e si dice convinta che i modelli di “governance” applicati alla cultura soffrano, tra le tante deficienze, di poca trasparenza e ancor minore ordine, è un monolite. Le illustri le cifre da incubo: “Le conosco benissimo, non c’è bisogno che me le ripeta”, le difficoltà, gli sprechi, le incongruenze e le angustie di contrattualizzati e precari (chi manda davvero avanti le strutture) e Barca, imperturbabile, non butta a mare nessuno.
Nega chiusure traumatiche legate al Palaexpo. Incensa il ruolo cardine del Palazzo delle Esposizioni e non scende nei particolari neanche se sollecitata: “Ci sono due modi di risolvere le questioni, uno affrontandole davvero, l’altro rivolgendosi alla stampa”. Rassicura i tanti contraenti che “allarmati esprimono paure. Li capisco, ma non chiuderà niente, a iniziare dal Macro che consideriamo centrale nel nostro progetto”.
Garantisce che ogni cosa sarà “studiata nel modo migliore” perché non esiste “aspetto economico” che non abbia alla radice un’intenzione “strategica, connaturata all’identità del luogo” . Pur sforzandosi, bordeggia sui sentieri del politichese. E parla di rispetto del rapporto tra domanda e offerta, di pianificazione economica “dettagliata” che se qualche taglio prevederà: “il meno possibile”, non procederà per vendetta ma per “cambio di metodo”. L’impressione è che ben oltre le intenzioni, nel difficile recupero crediti ci sarà da piangere. E che all’euforia di un’epoca lontana seguiranno e inattese, deprimenti, monumentali serrate. Da un giorno al-l’altro, senza neanche l’ausilio di un cartello da museo.

Repubblica 9.10.13
L’allarme della procura di Roma nelle carte dell’indagine su Scarano: “Confusione totale sugli spostamenti di denaro all’interno della Banca vaticana”
“Nello Ior un sistema organizzato per sfuggire alle Autorità di vigilanza”
di Domenico Lusi, Maria Elena Vincenzi


ROMA — Un sistema che sfugge al controllo di qualsiasi autorità di vigilanza. La procura di Roma, negli atti allegati alla richiesta di giudizio immediato per monsignor Nunzio Scarano, è categorica nel descrivere i meccanismi che regolano lo Ior. Ovvero: «Una confusione globale delle disponibilità di denaro di diversa provenienza e natura. Infatti, nel momento in cui determinate somme vengono messe a disposizione dell’istituto da terzi o dalla propria clientela istituzionale, esse si confondono con l’insieme delle disponibilità dello Ior, con la conseguenza che un’ipotetica origine delle somme si svincola completamente dalla sua destinazione ».
Meccanismi che, spiegano il procuratore aggiunto Nello Rossi e i pm Stefano Fava e Stefano Pesci, hanno una sola conseguenza: «Le somme depositate su un conto Ior ben possono venire prelevate da un qualsiasi altro rapporto di conto corrente intrattenuto dal medesimo istituto e, soprattutto, con le più disparate modalità esecutive. Pertanto, emerge non solo un’incertezza sulla destinazione delle somme — che di per sé è già motivo di allarme ai fini antiriciclaggio — ma, soprattutto, l’esistenza di un meccanismo per cui anche i passaggi intermedi non possono essere monitorati dalle Autorità di Vigilanza».
Le parole dei magistrati trovano conferma nelle tante intercettazioni che descrivono l’attività di Scarano, accusato di aver tentato di rimpatriare dalla Svizzera 20 milioni di euro con l’aiuto dell’ex 007 Giovanni Maria Zito e del broker Giovanni Carenzio. Il sacerdote sapeva bene come funzionava lo Ior, frequentava quel mondo, millantava conoscenze, diceva di aver fatto aprire conti a clienti laici (come l’oculista romano Andrea Cusumano) che«non ce li ha manco il Papa».In una conversazione intercettata dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria l’11 maggio 2012, Scarano tranquillizza Zito, preoccupato perché la Bancadel Fucino ha chiesto chiarimenti su un conto del sacerdote: «Ho domandato al direttore (dello Ior, ndr) e dice: “Nunzio, no, guarda, noi di queste lettere ne abbiamo avute a centinaia e a tutte abbiamo dato risposta e la tua sarà unarisposta come le altre. È normale che noi non andiamo a dire quello che è l’importo sul conto corrente o altro».
Chiosano i pm che, va registrato, scrivono nel 2012 ovvero prima della riforma voluta da Papa Francesco: «Le conversazioni intrattenute da Scarano possono essere interpretate come una delle cause delle “reticenze” dei vertici dello Ior di dotarsi di un efficiente e incisivo organo di controllo. È evidente che il sacerdote sia attivo quale intermediario nella gestione di risorse finanziarie anche di soggetti residenti all’estero e di dubbia provenienza, attività che esula dalle competenze dell’Apsa (per cui Scarano formalmente lavorava, ndr)».

l’Unità 9.10.13
Un Bosone da Nobel
Il riconoscimento assegnato a François Englert e Peter Higgs
di Pietro Greco


PREMIO NOBEL PER LA FISICA 2013 AL BELGA FRANÇOIS ENGLERT E ALLO SCOZZESE PETER W. HIGGS «per la scoperta teorica del meccanismo che contribuisce alla comprensione dell’origine della massa delle particelle subatomiche, recentemente confermata dalla scoperta della prevista particella fondamentale da parte degli esperimenti Atlas e Cms presso il Large Hadron Collider del Cern».
L’Accademia delle scienze di Stoccolma ha, dunque, premiato il «bosone di Higgs», il padre che gli ha dato il nome, Peter W. Higgs, e un altro, François Englert, degli altri quattro o cinque padri che gli hanno dato vita, sia pure per via teorica: (Robert Brout, Phil Anderson, Gerald S. Guralnik, Carl R. Hagen e Tom Kibble).
Ma la motivazione del Nobel fa anche esplicito riferimento (e, dunque, riconoscimento) ai gruppi di fisici sperimentali che il «bosone di Higgs» lo hanno rilevato per via empirica: i gruppi Atlas e Cms, il primo guidato dall’italiana Fabiola Gianotti e il secondo a lungo guidato dall’italiano Guido Tonelli.
L’esistenza di svariati padri testimonia di come la storia del meccanismo che ha portato a ipotizzare una particella, il «bosone di Higgs», capace di donare la massa a tutte le altre e, dunque, all’universo intero sia piuttosto complessa. Il meccanismo si chiama BEH, dai cognomi di Brout, Englert e Higgs. È stato ipotizzato all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, prevede l’esistenza nell’universo di un campo, chiamato campo di Higgs. Proprio come esiste un campo elettromagnetico o un campo gravitazionale. In questo campo le particelle si muovono come in un liquido viscoso, più le particelle lo sentono più diventano pesanti, ovvero acquistano massa. Alcune particelle lo sentono moltissimo e, di conseguenza, sono pesantissime. Altre, come i neutrini, lo sentono pochissimo e dunque sono leggerissime. Il meccanismo è stato ipotizzato in maniera indipendente dalla coppia Brout ed Englert (sulla base di ipotesi formulate da Anderson) e da Peter Higgs. Tuttavia Higgs è stato il primo a ipotizzare l’esistenza di bosone di gauge, ovvero di una particella che trasporta l’informazione del campo a cui è associato, proprio come fa il fotone per il campo elettromagnetico. Il bosone che media il «campo di Higgs» è noto come «bosone di Higgs». Tuttavia l’esistenza del bosone e del campo di Higgs prevede che il vuoto risponda a specifiche leggi di simmetria, che prevedono la rottura spontanea di simmetria. Per questo, come nota il fisico e divulgatore Gian Francesco Giudice, il premio Nobel di ieri è un piccolo monumento alla simmetria, alle sue leggi e al ruolo che esse giocano nelle fisica delle alte energie.
Ora, la teoria della rottura spontanea di simmetria e dell’esistenza di particelle di gauge, su cui si basa il meccanismo BEH è stata messa a punto, sempre all’inizio degli anni ’60 da Guralnik, Hagen e Kibble. Ecco perché il campo e il bosone di Higgs hanno sei o sette padri. Di cui solo due sono stati premiati.
Ma la storia non finisce mezzo secolo fa. Anzi prosegue nel tempo, disegnando due strade diverse. Una teorica. Il meccanismo funziona così bene, mette a posto tante cose nell’universo della fisica fondamentale che diventa la base del Modello Standard delle alte energie, che porta Stephen Weinberg, Sheldon Glashow e Abdus Salam a formulare, poco dopo, la cosiddetta teoria elettrodebole, che unifica due forze fondamentali della natura (l’elettromagnetismo e l’interazione debole) e prevede l’esistenza di altri bosoni intermedi (W+, We Z0), rilevati poi al Cern di Ginevra da Carlo Rubbia e dal suo gruppo.
Il meccanismo di Higgs o Brout, Englert, Higgs (BEH) o di Brout, Englert, Higgs, Anderson, Guralnik, Hagen, Kibble (BEHAGHK) regge per cinquant’anni il vaglio della teoria e, anzi, diventa la base fondamentale della fisica delle alte energie, secondo cui in natura esistono quattro forze fondamentali e due gruppi di particelle, gli adroni (a loro volta composti da quark) e i leptoni (tra cui vi sono l’elettrone e i neutrini). Intanto il secondo percorso intrapreso dal meccanismo di Higgs, attraverso la verifica sperimentale e la cattura del bosone di Higgs, resta vuoto per oltre mezzo secolo. La particella, piuttosto pesante, sfugge a ogni tentativo di intrappolarla. Cosicché per tutto questo tempo abbiamo una teoria solida (ma non completa), addirittura un Modello Standard, senza una decisiva prova sperimentale. Gli scienziati sanno che una situazione del genere non può durare a lungo, pena il discredito stesso della teoria. Per questo soprattutto per questo è stato costruito il Large Hadron Collider (LHC): per catturare, finalmente, il bosone di Higgs e validare con un fatto empirico il modello teorico. Come tutti sanno, ormai, l’impresa è riuscita a due gruppi, Atlas e Cms, dei sei che lavorano ad LHC. Il primo, Atlas, è guidato dall’italiana Fabiola Gianotti; il secondo, Cms, è stato a lungo guidato da un altro italiano, Guido Tonelli, e ora dall’americano Joe Incandela. I due gruppi hanno individuato una particella in un range di energia compreso tra 125,2 e 126,0 GeV e che ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere il bosone di Higgs. La grande maggioranza della comunità dei fisici delle alte energie ritiene che quella sia la particella di Higgs. Tutto questo è avvenuto esattamente un anno fa e la conferma è stata dato poco più di sei mesi fa.
I due percorsi, quello della teoria di successo e quello della verifica sperimentale, dopo mezzo secolo si sono incontrati. E, dunque, non c’era Nobel più atteso e meritato. Ovviamente quando si attribuisce un premio a un lavoro che non è individuale, ma il frutto di un’impresa cui hanno partecipato in molti, resta qualche interrogativo. Perché sono stati premiati solo Higgs ed Englert? Beninteso, i due lo meritano. Ma non lo meritano un po’ anche gli altri quattro o cinque teorici?
E poi gli sperimentali, meritano solo una citazione o forse avrebbero dovuto avere qualcosa di più? Va detto che spesso a Stoccolma i teorici e gli sperimentali coinvolti in una scoperta importante sono premiati separatamente. Spesso a qualche anno di distanza l’uno dall’altro. Dunque, dopo il riconoscimento c’è speranza che anche i leader dei due gruppi, pieni zeppi di italiani, che hanno catturato il bosone di Higgs al Cern ottengano il Nobel. Non resta che attendere.

il Fatto 9.10.13
Un Nobel nel nome di Dio (e della sua particella)
di Alessandro Oppes


Timido, ma di una timidezza che si è trasformata quasi in panico di fronte alla prospettiva ineluttabile di essere insignito del premio più prestigioso del mondo. Tanto che ieri mattina, quando l’Accademia Reale delle Scienze di Stoccolma ha annunciato il suo nome (insieme a quello del belga François Englert) come vincitore del Nobel per la Fisica, Peter Higgs era già nascosto in una località segreta, dove probabilmente cercherà di trattenersi fino a quando le acque non si saranno un po’ calmate. Speranza forse vana, perché la scoperta dello scienziato britannico oggi 84enne – e che non a caso porta il suo nome: il “bosone di Higgs” – è di quelle che restano, indelebili, nella storia dell’umanità. Conosciuta, in modo inappropriato, come “particella di Dio” (definizione che lo stesso fisico ha sempre respinto con fastidio), è però l’elemento fondamentale che ancora mancava per dare una spiegazione compiuta al perché esiste la materia così come la conosciamo.
In sostanza, l’unico ingrediente del Modello Standard della fisica delle particelle che ancora non era stato dimostrato sperimentalmente. Ed è l’elemento centrale, perché se non fosse per il “bosone di Higgs”, le particelle fondamentali di cui si compone tutto ciò che fa parte dell’universo, dalle persone ai fiori ai pianeti alle galassie, viaggerebbe per il Cosmo alla velocità della luce, e l’Universo non si sarebbe “coagulato” per formare la materia.
A QUESTA conclusione, dal punto di vista teorico, Higgs ci arrivò quasi mezzo secolo fa: era il 1964 quando, a matita su un foglio di carta, il fisico di Newcastle Upon Tyne laureato al King’s College di Londra, tratteggiò le equazioni che predicevano l’esistenza di una particella mai vista, ma necessaria per il funzionamento del Modello Standard della fisica attuale.
Praticamente in contemporanea, alla stessa conclusione arrivava anche un gruppo di ricerca dell’Università di Bruxelles, guidato da François Englert e Robert Trout, l’unico che non ha potuto veder realizzato il suo sogno, perché scomparso nel 2011. È stato infatti solo nel mese di luglio dello scorso anno, grazie allo straordinario lavoro del Cern di Ginevra, che quella vecchia teoria si è potuta dimostrare in modo sperimentale. Un miracolo reso possibile con la creazione di quella che è stata definita la macchina più complessa mai concepita dall’uomo: quel gigantesco acceleratore di particelle chiamato Lhc (Large Hadron Collider), inaugurato nel 2008. Quattro anni di collisioni tra protoni, un lavoro incessante condotto dalle migliaia di scienziati e ingegneri che partecipano agli esperimenti Atlas e Cms, guidati dagli italiani Guido Tonelli e Fabiola Gianotti.
È per questo che, nell’edificio 40 del Cern di Ginevra, dove il 4 luglio dello scorso anno la teoria del “bosone di Higgs” è diventata realtà, ieri scorreva a fiumi lo spumante italiano.
IL NOBEL è anche il successo di un formidabile lavoro di gruppo in cui l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Roma ha avuto un ruolo di primo piano. E senza il minimo accenno di polemica, anche se nelle ultime settimane si erano diffuse voci secondo cui anche a Ginevra sperassero di poter condividere il premio con Higgs ed Englert. Si è confermata la tradizione in base alla quale il Nobel viene assegnato a singole persone e non a istituzioni. Dall’Accademia Reale delle Scienze di Stoccolma è arrivata, questo sì, una menzione speciale per il Cern. Il cui segretario generale, Rolf Heuer, non ha nascosto la propria felicità: “È un gran giorno per la fisica delle particelle e siamo tutti orgogliosi”, ha detto liquidando subito le speculazioni su presunti malumori. “È un premio alla scienza fondamentale: teoria e sperimentazione collaborano nella stessa direzione”. Euforia anche tra gli scienziati italiani: “Siamo felici, penso proprio che i ragazzi del ‘64 se lo meritino”, ha detto Tonelli in videoconferenza da Ginevra. E per Fabiola Tonelli, “è un premio anche alla scoperta sperimentale, che dopo 50 anni ha permesso di confermare la teoria. Un risultato ottenuto grazie a tanti italiani”.

Corriere 9.10.13
Che cos’è e perché apre la strada a una nuova scienza


1. Che cos’è il bosone di Higgs?
È la particella che ancora mancava alla teoria quantistica nota come «Modello Standard» che descrive l’architettura di base della natura formata da varie particelle (elettroni, protoni ecc.) e tre delle quattro forze fondamentali (interazione forte, debole ed elettromagnetica). Rimane fuori, ad esempio, la forza di gravità. Si erano immaginati cinque tipi di bosoni e quello annunciato il 4 luglio dell’anno scorso e ora premiato col Nobel sarebbe il più leggero. Ma forse ne esistono altri. La sua presenza è importantissima perché stabilisce la massa delle altre particelle oltre che di se stesso. La sua comprensione non è immediata. Per descriverlo si potrebbe immaginare un lago con la sua superficie tranquilla. Questo è il campo di Higgs. Soffia una brezza leggera che genera delle increspature, delle onde. Le onde sono i bosoni di Higgs e quando cessa il vento scompaiono. Altrettanto i bosoni di Higgs che decadono in altre particelle (fotoni, ecc.).
2. Che cosa si è scoperto al Cern  con l’acceleratore Lhc?
Prima di tutto si è visto che esiste davvero. Se non si fosse trovato, tutta la teoria del «Modello Standard» sarebbe stata da rivedere. Inoltre si è stabilito che ha una massa corrispondente a 126 Gev (miliardi di elettronvolt) che equivale a 126 volte la massa di un protone, una conoscenza ben nota perché forma il nucleo di ogni atomo assieme ai neutroni. Il bosone di Higgs è stato definito «una pietra miliare nella conoscenza della natura» perché se non ci fosse non avrebbero massa le stelle, i pianeti e neanche noi stessi. L’acceleratore Lhc, per la prima volta, scontrando fra loro nuvole di protoni ha riprodotto l’energia esistente nei primi frammenti di secondo dopo il Big Bang, il grande scoppio da cui tutto ha avuto origine. Per l’esattezza la supermacchina ginevrina ricrea le condizioni esistenti nel primo millesimo di miliardesimo di secondo.
3. Si è trovato tutto quello che era previsto?
Soltanto in parte. Perché quando il bosone compare decade rapidamente in tre altri tipi di particelle trovando più fotoni e meno particelle quark e tau rispetto a ciò che era stato immaginato. Ora il compito che hanno davanti i fisici del Cern è appunto quello di capire simili anomalie rispetto alla teoria. Alcune di queste particelle potrebbero, ad esempio, spiegare la materia oscura che occupa buona parte dell’Universo e ancora resta sconosciuta. Va tenuto conto del fatto che l’acceleratore Lhc ha espresso finora un’energia di 7 TeV (tera elettronvolt). Adesso è in manutenzione e quando verrà riacceso nel 2015 raddoppierà la sua capacità arrivando sino a 14 TeV. Ciò spalancherà le porte ad una nuova fisica. Alla scoperta del bosone hanno partecipato circa 600 fisici italiani dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e appartenenti soprattutto alle università di Pisa, Milano, Roma e Pavia.
4. Quali prospettive si aprono dopo la scoperta del bosone di Higgs?
Gli scienziati teorizzano la possibilità di trovare le particelle che spiegano sia la materia oscura sia l’energia oscura che riempiono il 96 per cento dell’Universo. Il rimanente 4 per cento è costituito da tutta la materia che vediamo, stelle e pianeti. Quindi si parla di particelle simmetriche a quelle note ma con caratteristiche diverse: accanto all’elettrone ci sarebbe ad esempio il selettrone e poi lo squark, l’sneutrino ecc. Ma si potrebbero scoprire altre dimensioni oltre le quattro in cui viviamo come la teoria delle stringhe già ipotizza. Ecco la nuova fisica. a cura di Giovanni Caprara

Repubblica 9.10.13
“Noi, che abbiamo fatto la storia con uno stipendio di 1.200 euro”
Tra i ricercatori italiani che hanno permesso la scoperta
di Elena Dusi


GINEVRA — Giovani, italiani, bravissimi. E precari. Ma non importa, almeno per un giorno, perché ieri ognuno aveva un bicchiere di champagne e un motivo per gioire. I circa 200 ragazzi italiani che lavorano al Cern ieri erano in buona parte a Ginevra a festeggiare un Nobel che parla molto di loro. Con 1200 euro netti al mese più un parziale rimborso spese, un orario di lavoro senza paletti e nessuna reale prospettiva per il futuro (almeno in Italia), i ragazzi del bosone di Higgs sono qui perché sanno che la scienza dà emozioni come queste. «I nostri esperimenti si basano sul lavoro di centinaia di giovani appassionati» ripete Fabiola Gianotti quando riceve i complimenti per i successi del suo rivelatore Atlas. E non esagera. «Un terzo delle circa mille persone che lavorano al nostro rivelatore sono dottorandi » aggiunge Paolo Giubellino, coordinatore dell’esperimento Alice, uno dei cinque occhi accesi sulle collisioni fra particelle che avvengono dentro all’acceleratore Lhc. «La scoperta del bosone di Higgs è avvenuta grazie a ricercatori con un’età media di 26 anni» ha ricordato al culmine dei festeggiamenti Sergio Bertolucci, altro scienziato italiano checome direttore della ricerca ha raggiunto un ruolo di primo piano nel Consiglio europeo per la ricerca nucleare.
I ricercatori italiani al Cern sono circa 1.600 su 10 mila, li coordina l’Istituto nazionale di fisica nucleare presieduto da Fernando Ferroni: «Un dottorando guadagna intorno ai 1200 euro. Un post-doc arriva a 1500-1700 netti. Poi esistono borse di studio speciali che permettono di portarsi dietro la famiglia. Raggiungono i 4-5mila euro e durano uno o due anni. A quel punto i nostri ragazzi emigrano all’estero perché sono bravissimi e in Italia non trovano sbocchi». Un delitto che viene perpetrato ogni giorno. «Stati Uniti, Francia, Germania, Danimarca. Ma anche Cina, Sudafrica, Brasile»: Giubellino elenca i paesi dove lavorano oggi i giovani italiani che si sono formati in Alice. «I compiti che devono svolgere questi ragazzi sono tutt’altro che banali. Se sono in gamba, ricevono responsabilità anche rilevanti e portano avanti un filone di ricerca in modo autonomo». Oggi tre dei cinque esperimenti di Lhc sono guidati da italiani (oltre a Giubellino, Pierluigi Campana e Simone Giani). Atlas è stato guidato da Fabiola Gianotti fino all’anno scorso, e proprio alla scienziata di ferro che ha studiato a Milano è stato affidato il compito, il 4 luglio del 2012, di annunciare la scoperta del bosone di Higgs (con Peter Higgs che faticava a trattenere le lacrime). A coordinare il rivelatore Cms è stato Guido Tonelli fino al 2011. Dal 2014 sulla plancia di comando salirà un altro italiano, Tiziano Camporesi. Lavorando gomito a gomito con i giovani, e in un ambiente strettamente meritocratico come il Cern («qui sono i risultati degli esperimenti a decidere chi ha ragione, non la gerarchia delle persone» ripete Bertolucci), è naturale che le barriere fra generali e soldati semplici tendano a smaterializzarsi. «Permezz’ora abbiamo brindato e ci siamo fatti le foto con una medaglia Nobel di cioccolato» ha raccontato ieri Tonelli subito dopo l’esplosione di gioia del “building 40”, l’edificio al centro del Cern in cui lavorano gli alleati- rivali di Atlas e Cms. «I ricercatori italiani si sono fatti onore in questi esperimenti. I governi dovrebbero tenerne conto». La ricerca del bosone di Higgs, tra l’altro, ha a monte le decisioni di due direttori generali del Cern italiani: Carlo Rubbia e Luciano Maiani. Nelle attività del Centro il nostro paese investe circa 100 milioni di euro all’anno (il 12% del budget del Cern), con 60-80 milioni di commesse che tornano alle industrie italiane. «Qualcuno ha paragonato la scoperta di oggi a quella del Dna. Non è sbagliato. Entrambe riguardano elementi che stanno alla base della nostra esistenza» ha commentato il direttore generale del Cern Rolf Heuer. A indirizzare Fabiola Gianotti verso una carriera da fisica in fondo fu la scoperta di due nuove particelle da parte di Carlo Rubbia, qui a Ginevra, che gli valsero il Nobel nel’84. «Ci auguriamo che il fascino della scienza oggi abbia contagiato anche altri giovani ricercatori del futuro», ha detto Heuer, raggiante. Anche se per tanti di loro, italiani, ci sarà il rischio di restare dei bravissimi precari.

In realtà la democrazia ha bisogno di tutti, persino di Dio. il «religioso» può aiutare a riconoscere la kantiana dignità della persona, coi relativi corollari: lavoro, accoglienza, critica al dominio, giustizia. E questo Papa, al contrario dei suoi predecessori, pare fin qui andare in tale senso
l’Unità 9.10.13
La devozione atea di Flores D’Arcais
di Bruno Gravagnuolo


LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO DI DIO? FALSO! DICE FLORES D’ARCAIS Ed è una risposta recisa, che benchè suggerita dalla formula di scuderia Laterza nella collana «Idòla» (frase seguita dalla chiosa «falso!») corrisponde in pieno all’ateistismo dell’autore. In realtà la democrazia ha bisogno di tutti, persino di Dio. Purché non sia un Dio geloso ed esclusivista, e si lasci «contare» alle elezioni. E purché chi lo professa, ciascuno a suo modo, si lasci contare e non voglia tagliare teste, invece di contarle. Sicché a queste condizioni ben venga il Signore alle urne. Il punto è che Flores d’Arcais vuole addirittura negarlo il certificato elettorale a Dio e ai suoi fedeli. arrivando addirittura a sostenere che il credente è «civicamente un minus habens(sic!) perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia, e in grado di riconoscerla solo affidandosi all’autorità religiosa di riferimento». Perciò, conclude Flores, il credente attacchi Dio «all’ataccapanni», ed entri in democrazia come lo scienziato in laboratorio, spogliandosi da minorità e pregiudizi.
Francamente ci pare una posizione artificiosa, oltre che insolente e intollerante. Perché la democrazia è il contrario di certe intimazioni totalitarie e discriminatorie. Essa è conflitto regolato su valori e interessi divergenti. Dove la regola statuisce l’eguale dignità di ciascuna persona e del suo progetto di vita, senza lesione dell’altrui dignità. Certo, la religione non può essere pretesa civile, né Norma fondativa, a meno di non ledere l’eguaglianza dell’altro e dei suoi convincimenti. E tuttavia anche il «religioso» può aiutare a riconoscere la kantiana dignità della persona, coi relativi corollari: lavoro, accoglienza, critica al dominio, giustizia. E questo Papa, al contrario dei suoi predecessori, pare fin qui andare in tale senso. Raccogliamone da laici la sfida. Il resto è vecchia ideologia giacobina. Caricatura rovesciata del confessionalismo e Devozione Atea.

l’Unità 9.10.13
Parte la Buchmesse ancora nel segno della crisi
Il mercato in gravi difficoltà. E forse non è solo una ragione economica. Il lettore è cambiato: più connesso e multitasking
di Maria Serena Palieri


FRANCOFORTE NEL 2012 IL TERZO GIORNO DI BUCHMESSE IL «BOOKSELLER DAILY», EDIZIONE SPECIALE DEL SETTIMANALE PER LA FIERA, apriva sull’effetto Sfumature, cioè sulla caccia dell’editoria internazionale a trilogie erotiche fatte in casa, capaci di raddrizzare bilanci come quella di E L James. Quest’anno quale sarà la gallina dalle uova d’oro che farà parlare di sé? Apre i battenti stamattina la LXV Fiera del Libro di Francoforte. Alle 10,30 Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori presenta il tradizionale rapporto sullo stato della nostra editoria. Il 2012, «annus horribilis», si è chiuso con un 6,3% di fatturato in meno; mentre, cifra che in questi padiglioni acquista un sapore particolare, l’export è diminuito del 7,5%. E a dirci come vanno le cose basterebbe uno sguardo nella Halle 5.1: se in Fiera ci sono 7300 espositori da 90 paesi, il drappello italiano è in vistoso calo, 220 editori, cioè il 7% in meno dell’anno scorso. Alla vigilia dell’inaugurazione, ecco cosa dicono Polillo e Giuliano Vigini, docente di Sociologia dell’editoria alla Cattolica di Milano, ma soprattutto “mago dei numeri”.
Nel 2010 gli editori italiani brindavano all’andamento «anticiclico» del comparto: il libro, bene di consumo durevole a prezzo relativamente basso, si vendeva. «Anticiclico» anche rispetto alla mannaia che cominciava ad abbattersi sui colleghi stranieri. Bei tempi... Ora, per il terzo anno consecutivo, il mercato registra contrazioni importanti, nel 2013 un ulteriore 6% (ma se si calcola il dato in termini monetari anziché di copie, si moltiplica, perché i prezzi dei libri sono scesi). «Eravamo abituati a oscillazioni del mercato di uno zero virgola in più o in meno. Questa è una crisi grande e lunga», osserva Polillo. Azzardiamo una cifra: da esordio crisi, inizio 2011, la perdita è del 20%? Di più, per il presidente Aie. Che spiega: «La gente compra meno perché ha meno soldi. I librai perciò prenotano molto meno. E una novità la vedi in libreria se ci sono le pile, di meno se ce n’è una sola copia sul banco, per niente se ce n’è una copia a scaffale. Il venditore, poi, rimanda indietro copie che potrebbero vendere nel tempo». È il problema delle rese che popola di incubi il sonno degli editori. Il mercato italiano aveva già un handicap tutto suo: il 50% degli italiani non legge. E adesso comincia a «divorare» di meno – o divora alla mensa pubblica, in biblioteca anche il famoso 8% di lettori forti. Per il presidente Aie non è, però, solo una crisi economica. «La concentrazione univoca che un libro chiede al lettore è il contrario del nuovo vagabondaggio simultaneo tra mezzi diversi, tv e Internet, twitter e tablet» osserva. A questo cambio epocale si reagisce appunto con la caccia alla gallina dalle uova d’oro: la trilogia erotica che da sola fattura quanto gli altri 997 titoli annui del gruppo che la edita, o consimili. E appunto è alla Buchmesse che si capisce quale sarà il «must have» dell’anno, il libro che anche chi non ha più preso in mano carta e penna dalla quinta elementare vorrà esibire. E qui – osserva Polillo siamo nel campo del gioco di prestigio, non dell’editoria... Quanto allo strumento palingenetico che, proprio qui in Fiera, ci avevano messo davanti agli occhi da inizio terzo millennio, il digitale, in Italia siamo ancora a consumi da uno virgola.
Nel 1947 la Buchmesse nasceva come teatro di contrattazioni che oggi si fanno 365 giorni l’anno per e-mail.«Semmai il problema è la moltiplicazione di questi incontri che, a Londra come a Guadalajara, convogliano centinaia di migliaia di visitatori e possono costare di meno per i piccoli editori locali», osserva Vigini. Secondo l’esperto oggi il busillis vero sono distribuzione & comunicazione: chi fa libri deve giocare la partita in autogrill come nelle rivendite di giornali e deve saper usare le communities online. La forza di Mondadori è nei suoi 587 punti vendita, dalle librerie del marchio alle cosiddette «edicolae». Ma alla Buchmesse risuona anche un’altra cifra che racconta il fascino dell’editoria: mille le case editrici neonate nello stesso 2012. E la Fiera resta il teatro della «serendipity»: cerchi una nuova trilogia erotica, trovi un romanzo che parla di tutt’altro e che darà il Successo.

La Stampa 9.10.13
Francoforte, la vera vita è non essere speciali
di Mario Baudino

qui