venerdì 7 giugno 2013

La Stampa 7.6.13
Napolitano, visita dal Papa
Domani in Vaticano: con il Presidente ci sarà anche Emma Bonino
di Andrea Tornielli

qui

non si va mai in visita a mani vuote: così gli portano un regalino, per l’occasione...
il Fatto 7.6.13
Nel 2013 la Chiesa non pagherà l’Imu
L’acconto era previsto per il 17 giugno
ma il Tesoro, con una circolare, rinvia il conguaglio al 2014 perché non è chiaro quanto ci sia da versare
di Marco Palombi


La Chiesa cattolica e gli altri enti non profit, per quest’anno ancora non pagheranno l’Imu. O meglio: la pagheranno come hanno fatto finora e forse anche meno. Come anticipato dal Fatto Quotidiano qualche giorno fa, infatti, il combinato disposto tra il bizantino regolamento di attuazione emanato dal governo Monti a novembre e la mancanza della modulistica (non preparata dal Dipartimento delle Finanze del ministero Tesoro) ha comportato il fallimento della legge con cui Mario Monti ha bloccato la procedura d’infrazione aperta dall’Unione europea per aiuti di Stato (chiusa a dicembre col condono del pregresso). Lo conferma una circolare emanata ieri dal direttore del dipartimento delle Finanze, Fabrizia Lapecorella, che ammette la mancanza e prescrive, sostanzialmente, che il non profit faccia quello che crede: paghi la rata di giugno, se ritiene di dovere, e poi i conti si faranno addirittura nel 2014. Un breve riassunto dell’intricata vicenda. Secondo la legge varata dal governo Monti, da quest’anno gli enti ecclesiastici e tutto il settore non profit sarebbero stati esenti dall’Imu solo per quegli immobili o quelle parti di immobili in cui non si svolgono attività commerciali. Problema: come stabilire cosa si intende per attività non commerciale? Ci ha pensato, per così dire, un regolamento apposito: sostanzialmente sono quei servizi – alberghi, scuole, cliniche, ecc. – che offrono il servizio alla metà del costo medio di mercato nello stesso territorio. Sulla base di questi fumosi principi, gli enti interessati avrebbero dovuto compilare entro l’inizio di febbraio un modulo in cui indicavano quali parti dei loro edifici (e addirittura in quali giorni) erano sede di attività commerciali. Come avevamo anticipato, però, il modulo ancora non esiste e dunque non si sa chi e quanto dovrà pagare.
PER QUESTO ora il ministero Tesoro diffonde la sua circolare che rimanda tutto all’anno prossimo. In sostanza, invece di pagare normalmente, quest’anno ognuno pagherà quello che crede (“secondo la migliore stima possibile”) e poi per l’eventuale conguaglio ci si rivede nel giugno 2014, sperando che il modulo sia pronto. Non solo, par di capire che il Tesoro sia quasi preoccupato di incassare troppo: se qualcuno infatti, scrive Lapecorella, nel 2012 pagava l’Imu su tutto l’immobile. Quest’anno potrebbe dover pagare meno grazie alla divisione in parti e quindi meglio rinviare di 12 mesi.

Corriere 7.6.13
Lettere da Radio Maria agli ascoltatori anziani:
"Fate testamento in favore dell'emittente"
Sotto forma di questionario, il testo spiega come disporre lasciti e donazioni
"Danno consulenza a domicilio: chissà quanti accettano in cambio di un po' di compagnia"
di Concita De Gregorio


MARCO arriva all’appuntamento con i fogli del questionario e la lettera in mano. Li posa sul tavolino del bar. Tre pagine, e un bollettino di conto corrente postale. Ecco, indica. Sono questi i fogli che ha sfilato con dolcezza dalle mani di sua madre, 92 anni. Adele li aveva compilati meticolosamente, chissà quanto tempo aveva impiegato a leggere tutte le domande, aveva  messo la sua firma in fondo.
AVEVA scritto tutti i suoi dati e indicato che sì, avrebbe parlato volentieri con un gentile operatore per capire meglio come fare quel lascito, il testamento olografo o come si chiama. Che le telefonasse pure, la persona di Radio Maria, per prendere appuntamento. Tanto lei sta sempre a casa.
Doveva solo ripiegare i fogli, Adele, quando Marco ha suonato al campanello ed è salito per il saluto quotidiano. Come va, mamma? Bene devo solo mettere questi fogli in busta non serve il francobollo me la porti tu alla posta per favore? Certo, che lettera è mamma? Mi ha scritto il prete di Radio Maria, guarda c’è la sua foto accanto alla firma, che bel giovane vedi? Dice che hanno bisogno del mio aiuto per far conoscere la parola di Maria in tutto il mondo che basta solo che compili il questionario poi ci pensano loro, se voglio fare una donazione mi aiutano loro a fare quello, come si chiama, leggi un po’, ah ecco sì: il testamento olografo.
La lettera ricevuta da Adele è in realtà finita nella cassetta della posta di migliaia di persone, anziani soprattutto. La gran parte della platea degli ascoltatori (oltre un milione e mezzo al giorno) dell’emittente cattolica diretta da don Livio Fanzaga, la più pervasiva radio privata italiana, quella che conta oltre 850 ripetitori.
Marco, che è l’ultimo dei tanti figli di Adele, dice con gli occhi lucidi di rabbia che lui a sua madre del testamento non aveva parlato mai fino a quel giorno. Per delicatezza, per amore, per non evocare neppure l’ombra del pensiero della sua morte, non con lei. Dice che nemmeno sua madre l’aveva mai fatto con loro, coi figli. Neppure da quando è rimasta vedova, mai. Che poi non è che ci sia chissà che cosa in ballo. Due lire, un pezzetto di terra nell’Agro, il nulla che si è fatta bastare per vivere. È che di queste cose non si parla, che sembra che uno se lo auguri. Non si dice: mamma, e il testamento? Non so come spiegarti — si ostina Marco — ma non si fa, capisci? Dunque si sono trovati a parlarne per la prima volta, lui e Adele, l’altro giorno al tavolo del tinello davanti a quella bella lettera firmata da padre Livio Fanzaga, inviata da Erba. Dice ad Adele, padre Fanzaga, che «milioni di persone come te e come me ogni giorno sperano gioiscono e si consolano ascoltando Radio Maria», vuoi che lo facciano ancora in tanti, vuoi aiutare a portare nelle case la parola di Dio? «Un lascito testamentario, anche piccolo, è un atto d’amore». Allega, il padre, un questionario in sette punti. Punto uno: condividi l’idea che Radio Maria ti informi sui lasciti testamentari? domanda mentre in effetti lo sta già facendo. Punto due, tranquillizzante: non danneggi i tuoi familiari, non temere, a loro spetterà comunque una quota. Punto tre, decisivo: sai che per fare un testamento olografo basta un foglio bianco, scritto di tuo pugno, datato e firmato? E quali dubbi potresti avere rispetto alla decisione di fare testamento in favore di Radio Maria?, si domanda al punto cinque. Segue breve elenco: pensi che costi, non hai un notaio, non hai chi ti aiuti? Allora, punto sei, possiamo inviarti una Guida ai lasciti testamentari, uno snello opuscolo. Oppure, punto sette, una persona di Radio Maria può contattarti direttamente. Dicci a che numero di telefono e a che ora. Lascia i tuoi dati anagrafici, spedisci tutto mettendo questi fogli nella busta allegata e preaffrancata, non costa nulla. Grazie della tua preziosa collaborazione, Adele. Il bollettino di conto corrente è in più, se volessi fare una donazione subito.
Dice Marco, che ha chiesto al suo amico Andrea Satta di raccontare questa storia sul suo blog, che magari è tutto normale. Che non c’è niente di strano e che la Chiesa vive anche di donazioni, certo, lo sa. Ma che inviare un questionario così alle persone molto anziane gli fa pensare a una specie di circonvenzione d’incapace soave. Che sua madre per esempio non ha capito benissimo cosa stesse facendo, e chissà quanti vecchi inviano la busta e poi sono raggiunti dalla persona che li aiuta a fare testamento in loro favore. Dice anche che il punto sette è il più insidioso, perché se sei da solo magari hai anche voglia che una persona gentile ti «contatti direttamente » e passi un po’ di tempo con te. E chissà quanti lo fanno. E chissà se è un problema suo, che a sua madre di quando sarà morta non gli voleva parlare, o se è un problema loro, che vanno a bussare ai vecchi per chiedergli i soldi che hanno messo da parte alle Poste o nel barattolo in cucina. Se poi c’è qualcosa di più, da donare, tanto meglio. Gliene sarà resa gloria nel regno dei cieli. Un foglio bianco, una firma e tranquilli: nessuno fra i parenti se ne avrà a male se avete fatto un’opera buona, se avete fatto testamento a favore della vergine Maria.

l’Unità 7.6.13
Carlo Smuraglia: non stravolgere la Costituzione
Il presidente dell’Anpi: «Il semi-presidenzialismo nega lo spirito della Carta»
di Bruno Gravagnuolo


Concentriamoci sugli aspetti non più sostenibili come il bicameralismo perfetto e il numero dei parlamentari

ROMA «Il semipresidenzialismo fa saltare tutta la nostra Costiuzione. Implica la riscrittura ex novo della Carta e un ritorno all’anno zero..». Allarme preciso quello di Carlo Smuraglia, giurista, ex membro del Csm, senatore Pds e Ds, ex partigiano e oggi presidente dell’Anpi. Con Rodotà e Zagrebelsky ha animatodomenica a Bologna una grande iniziativa sul tema. E ora rilancia in una pospettiva più ampia il filo della sua denuncia. Professore, la convince l’iter di revisione costituzionale con comitato di esperti e commissione dei 42?
«Sono contrario a questa procedura. Perché la Costituzione parla chiaro con l’articolo 138. Esso riguarda singole leggi da cambiare e non un intero processo costituente come quello che si vuole avviare. E per le singole leggi ci sono le apposite commissioni. Il rischio è quello di mettere in mora l’intera Carta, con una deroga all’articolo 138, che prevede ampie maggioranze, referendum e doppia lettura: vera e propria clausola di salvaguardia concepita dai Costituenti. Che va rafforzata prevedendo il referendum anche in caso di maggioranze non dei due terzi».
Si dice: si tratta di mutare solo la seconda parte della Carta, non i principi fondamentali. Il semipresidenzialismo mette a rischio anche i princìpi base?
«Certo, si aprirebbe un cantiere che finirebbe per investire anche la prima parte della Carta, perché tutto si tiene in essa. E una repubblica non più parlamentare mette in questione la lettera e lo spirito di questa Costituzione. Generando così forti incoerenze tra prima e seconda parte di essa. Altro è la giusta manutenzione di aspetti non più sostenibili. Penso al bicameralismo perfetto, da sostituire con la specializzazione dei compiti o con la creazione di un Senato federale. E alla riduzione del numero dei parlamentari».
C’è stata un’ «accelerazione» sul tema semipresidenziale e la destra festeggia... «Accelerazione che non comprendo. Le priorità sono altre a cominciare dalla legge elettorale e dalla grave crisi economica. Il semipresidenzialismo non è il diavolo, ma torno a dire: andrebbe riscritto tutto l’ordinamento costituzionale. Oggi il Presidente in quanto figura di garanzia presiede il Csm ed è l’apice delle forze armate. Con il nuovo sistema dovremmo lasciare queste funzioni a un Presidente di parte eletto solo da una parte? In realtà siamo dinanzi a una sindrome: i torti della politica vengono scaricati sulle istituzioni, con il miraggio di esecutivi forti. Ma è la politica che va riformata. Ciò che è accaduto alle elezioni è dipeso dalla frammentazione e dalla crisi di identità dei partiti, non dalle istituzioni».
Cosa teme con l’elezione diretta di un Presidente che presiede il Consiglio dei Ministri?
«I poteri di un uomo solo al comando. E la diffusione di uno stile di governo che ha già dato cattiva prova con i cosiddetti governatori regionali, talora fonte di sprechi e arbitrii e soprattutto causa di svilimento del ruolo dei Consigli regionali. Inoltre c’è il punto del conflitto di interessi. Non possiamo rischiare di consegnare il Quirinale a qualcuno in posizione dominante nei media o in altri rami dell’economia. E non possiamo rinunciare, nella gravissima crisi che schiaccia il paese, al ruolo di salvaguardia e di controllo del Parlamento».
I partiti possono ancora esercitare un ruolo creativo e di argine?
«Sì, purché si autoriformino. Essi concorrono al bene pubblico ed è giusto finanziarli, in misura adeguata e senza eccessi. È dirimente che abbiano statuti democratici e siano sottoposti a controlli stringenti su regole e bilanci». Torniamo al Presidente eletto. Alle varie obiezioni non si può aggiungere quella di essere un sistema scisso tra due possibili diverse maggioranze, oppure di risultare troppo coeso e con maggioranze totalizzanti?
«Sono problemi innegabili e che andrebbero visti caso per caso e nei singoli contesti storici. In Francia il sistema ha prevalso per la dirompente crisi algerina, che ha spinto la Francia sull’orlo della guerra civile, e per il ruolo carismatico di De Gaulle. Ma non possiamo dire che abbia sempre funzionato e al punto tale da doverlo imitare e trapiantare in Italia. Al contrario, proprio l’indebolimento dei poteri di controllo e delle garanzie potrebbe renderci inermi dinanzi alla criminalità organizzata e alle lobby. Né si può dire che una spinta presidenziale potrebbe migliorare la burocrazia. La macchina pubblica va riformata con semplificazioni e controlli di efficienza. Non con impulsi carismatici dall’alto. Ma a questo punto però faccio io una domanda: che fine ha fatto la legge elettorale? Era stato detto che era quella la priorità. Poi si è fatto il contrario e la si è messa in coda all’agenda».
Lei come spiega questo capovolgimento?
«Forse pensano di allungare la vita al governo e cosi di rafforzarlo. Invece potrebbe essere il contrario. Un’intera riforma Costituzionale, oltre che non corretta per ciò che abbiamo detto rischia di essere una mina in quest’emergenza sociale».
E al Pd, che ha reincluso il semipresidenzialismo nella sua discussione, cosa consiglia?
«Non voglio intromettermi nella vita del Pd. Però la questione è molto seria e la responsabilità dei pericoli che corriamo è un po’ di tutti. Al Pd direi: pensate bene a quel che fate e a quali sono le vere priorità del paese. E soprattutto, cercate di coinvolgere il maggior numero di persone in questa discussione».

l’Unità 7.6.13
Non c’è bisogno del presidenzialismo
di Danilo Barbi

Segretario confederale Cgil

LA CGIL CON IL DOCUMENTO «SEMPLIFICARE PER RAFFORZARE. PROPOSTA PER UNA MODIFICA ORGANICA DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE», approvato dal direttivo, avanza una proposta di riqualificazione delle funzioni pubbliche che rafforzi il ruolo delle istituzioni democratiche nel Paese, portando così a sintesi un lavoro da tempo avviato dall'organizzazione sui temi istituzionali.
La crisi di legittimità che negli ultimi anni ha colpito i partiti e la «politica» in generale si è, infatti, traslata su tutte le istituzioni di cui si percepisce con fatica il senso e l'utilità. In questo quadro ha preso corpo un disegno che mira a smantellare le istituzioni democratiche, svilendo i luoghi della rappresentanza, cancellando i corpi intermedi, ridimensionando le istituzioni locali, riducendo i servizi pubblici a favore di quelli privati.
La Cgil è convinta che per restituire legittimità alle istituzioni sia necessario un disegno opposto che porti alla loro riqualificazione e per questo avanza una proposta di semplificazione che mira al rafforzamento delle istituzioni pubbliche e della loro azione, al potenziamento degli spazi della rappresentanza e della partecipazione.
Per l'analisi svolta dalla Cgil, appare, innanzitutto, improrogabile il completamento del processo di integrazione europea: solo un'Unione politica e sociale più forte, democraticamente legittimata, può dare risposte alle sfide che il XXI secolo pone. La risposta a questa grave crisi politico-istituzionale, a livello comunitario come a livello nazionale è, infatti, da trovare nel rafforzamento delle istituzioni pubbliche, nella maggiore partecipazione dei cittadini e nel potenziamento della rappresentanza democratica.
In questi anni, e ancor più in questi giorni, si discute di riforma della Costituzione, ma non è pensabile rompere l'equilibrio di poteri tra governo e Parlamento, con grandi opere di ingegneria costituzionale, in nome di una maggiore governabilità. La governabilità può essere garantita solo da attori politici consapevoli della loro missione e da un'effettiva rappresentanza politica esercitata nel Parlamento cui va restituita centralità e non da uno stravolgimento dell’ordinamento repubblicano come avverrebbe con l'introduzione del (semi)presidenzialismo.
Il rilancio delle istituzioni può realizzarsi attraverso interventi mirati che portino alla nascita della Camera della Regioni e delle Autonomie locali; alla realizzazione di un disegno organico che possa realizzare quel sistema integrato di livelli istituzionali capace di governare e indirizzare i processi sociali ed economici mettendo al centro la cittadinanza e il territorio; alla promozione della rappresentanza democratica e della partecipazione dei cittadini attraverso una regolamentazione dei partiti politici e una nuova disciplina dell'istituto referendario; e al superamento del finanziamento pubblico diretto sostituibile con la fornitura di servizi gratuiti per l'attività politica, accompagnata da una disciplina adeguata del conflitto di interesse.
In questo quadro, infine, va rovesciato l'approccio fin qui adottato per la riorganizzazione della Pubblica amministrazione: basta tagli lineari che minano la funzione stessa delle istituzioni pubbliche, riducendo drasticamente i servizi alla persona. È necessario potenziare e qualificare l'azione delle amministrazioni pubbliche, partendo dai bisogni dei cittadini e delle imprese, e non da meri calcoli statistici, e stabilire nuove regole per il lavoro pubblico, aprendo una nuova stagione contrattuale che elimini il precariato nella pubblica amministrazione e riapra in modo mirato il problema occupazionale.

il Fatto 7.6.13
Napolitano contro il Fatto: vietato far domande su di lui
“Mai dato scadenza al governo”
In una nota parla di “ridicolo falso”. Ma l’hanno scritto tutti
Il Capo dello Stato, tre giorni dopo l’annuncio che il governo Letta è a termine (ripreso da tutta la stampa), ci ripensa. Ma, anziché ammettere l’errore, se la prende con il nostro giornale, reo di aver intervistato Barbara Spinelli sull’ennesima forzatura costituzionale
di Eduardo Di Blasi


Non era mai successo che una nota del Quirinale prendesse di mira non una scelta politica eccedente, un’iniziativa legislativa impropria, una richiesta di grazia inopportuna, o un articolo di giornale violento, quanto l’incipit di una domanda contenuta in un’intervista. Nello specifico quella rilasciata a Silvia Truzzi, giornalista de Il Fatto Quotidiano, da Barbara Spinelli, giornalista e scrittrice. La domanda è la seguente: “Il capo dello Stato ha messo una data di scadenza al governo, una cosa mai vista. Grillo ha obiettato: ‘A che titolo dice queste cose? ’. Lei che ne pensa? ”.
IL COLLE, letta la sediziosa comunicazione di buon’ora, replica che ciò non è mai avvenuto. E lo fa in modo duro: “Si continua ad accreditare (da ultimo, da parte della giornalista del Fatto Quotidiano Silvia Truzzi, nella sua intervista a Barbara Spinelli) il ridicolo falso di un termine posto dal Presidente della Repubblica alla durata dell’attuale governo. E ciò nonostante quel che egli aveva già detto in proposito la sera del 2 giugno ai giornalisti presenti in Quirinale e che dal giorno seguente figura sul sito della Presidenza della Repubblica. Sarebbe un fatto di elementare correttezza tenerne conto e non insistere in una polemica chiaramente infondata”. Lo sarebbe, certo, non fosse che dal 3 di giugno in poi l’intera stampa italiana con titoli che aprivano pagine e anche interi giornali sottolineava come Napolitano, nel rispondere alle domande dei giornalisti in occasione dell’apertura al pubblico dei giardini del Quirinale quel 2 giugno, avesse parlato del governo in carica come di “una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”. Ce n’era a sufficienza perché Repubblica aprisse la prima pagina con un titolo a sei colonne, tutte quelle di cui dispone: “Napolitano: il governo è a termine” (seguiva all’interno anche una replica del premier Enrico Letta a quelle parole). E che il Corriere della Sera inchiodasse in un catenaccio sotto il proprio titolo di apertura: “Napolitano, esecutivo a termine. 18 mesi per le riforme”. Il Messaggero apriva con un virgolettato a tutta pagina attribuito direttamente al capo dello Stato: “Riforme, governo a termine”. Anche Il Giornale aveva un catenaccio chiaro sulla faccenda. L’Unità citava nel pezzo della propria quirinalista il virgolettato del capo dello Stato (ma senza titolarvi).
Perché tanta sciatteria da parte dell’intera stampa nazionale? E perché nei due giorni seguenti il Colle non corresse “il ridicolo falso”?
Al Quirinale ritengono che l’errore derivi dalla leggerezza di un giornalista dell’agenzia Ansa che aveva fatto un lancio alle sette di sera dal titolo “Napolitano, governo senza dubbio a termine”. Il lancio, poi in parte addolcito nel riepilogo delle 21, avrebbe fatto da guida a tutti i sopra citati giornali inducendoli nel terribile falso. Così, per riparare, il Quirinale (l’avvenimento è citato anche nella nota di rimprovero a noi indirizzata) ha deciso di pubblicare sul proprio sito l’intero dibattito tra Napolitano e i giornalisti quel 2 di giugno. Sia in versione testuale che in video. Il problema è che in entrambe figura la frase di Napolitano sul “governo a termine” e in nessun punto è chiarito che quella comunicazione servisse a smentire titoli e articoli usciti in gran copia in quella medesima giornata.
IN SOSTANZA il Colle vorrebbe tenere separate le due questioni: le riforme hanno un campo di gara lungo 18 mesi (quelli già indicati dal premier Letta nel proprio discorso alle Camere) ; l’alleanza che tiene assieme Pdl, Pd e Scelta Civica è invece “a termine”, ma quel termine non spetta a Napolitano indicarlo. Quindi perché prendersela con quella domanda? Perché quella domanda ha fatto nascere la seguente risposta: “Grillo ha perfettamente ragione: dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere, la durata dei governi? Perfino a Parigi, dove tale prerogativa esiste - ed è grave che esista - l'Eliseo si guarda da dichiarazioni simili. In Francia il presidente è contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri. La stessa cosa ormai avviene in Italia: il presidenzialismo nei fatti c’è già. Questo governo è un Monti bis, con i politici dentro. E alla presidenza c'è Napolitano. Intendo presidenza del Consiglio, non della Repubblica”.
Questa risposta non poteva essere additata (trattasi di libertà di espressione), meglio prendersela con la domanda.

il Fatto 7.6.13
Spinelli: “Siamo già in una Repubblica presidenziale”


IL CAPO DELLO STATO ha messo una data di scadenza al governo, una cosa mai vista. Grillo ha obiettato: “A che titolo dice queste cose?”. Lei che ne pensa? “Grillo ha perfettamente ragione: dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere, la durata dei governi? Perfino a Parigi, dove tale prerogativa esiste – ed è grave che esista – l’Eliseo si guarda da dichiarazioni simili . In Francia il presidente è contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri. La stessa cosa ormai avviene in Italia: il presidenzialismo nei fatti c’è già. Questo governo è un Monti bis, con i politici dentro. E alla presidenza c’è Napolitano. Intendo presidenza del Consiglio, non della Repubblica”. Questo il passaggio (domanda della giornalista Silvia Truzzi, risposta di Barbara Spinelli) su cui il Quirinale ieri ha emesso vibrante protesta per mezzo di nota ufficiale. Ma non per quanto dichiarato da Spinelli (l’intervistata) ma per la domanda della giornalista. Diceva ancora Spinelli: “Esiste dunque un potere che ha speciali prerogative e immunità, senza essere controllabile. La democrazia è governo e controllo. Perché Grillo dà fastidio? Perché è sul controllo che insiste”.

il Fatto 7.6.13
Camilleri al Fatto: ”La Costituzione? mandata in vacca”


“LA COSTITUZIONE? Mandata in vacca”. “Dal Colle invasione di campo non da Repubblica parlamentare”. Lo scrittore siciliano Andrea Camilleri, intervistato sempre da Silvia Truzzi il 2 giugno scorso, ha anticipato i temi e gli argomenti poi affrontati anche nell’intervista concessa da Barbara Spinelli che ieri il Quirinale ha dimostrato di non aver gradito. Camilleri ha spiegato che, a suo avviso, la “rielezione di Napolitano non era cosa”. E ha aggiunto: “Da quel momento tutto il fatto costituzionale è andato a vacca. C’è stato un allentamento delle briglie costituzionali, tanto valeva – a lume di logica e di naso e di buon senso – fare un governo del Presidente. È stato più grave l’intervento sui partiti del capo dello Stato. Una sorta d’invasione di campo, un fatto non da Repubblica parlamentare”. Per Camilleri il rispetto della Costituzione è sacro. “Non devo essere io a dirlo - continua - dovrebbe essere il presidente Napolitano. Il secondo mandato non è proibito, ma non è un caso che non sia mai successo. Di solito, poi, uno non arriva a fare il capo dello Stato a 40 anni: due mandati fanno 14 anni e te ne vai a 54. Qui te ne vai a 95”.

Repubblica 7.6.13
Uno strappo alla Carta
di Stefano Rodotà


NEL tempo ingannevole della “pacificazione”, il conflitto giunge nel cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione. Una politica debole, da anni incapace di riflettere sulla propria crisi, compie una pericolosa opera di rimozione e imputa tutte le attuali difficoltà al testo costituzionale. Le forze presenti in Parlamento non ce la fanno a sciogliere i nodi tutti politici che hanno reso impossibile una decisione sull’elezione del Presidente della Repubblica? Colpa della Costituzione. “Je suis tombé par terre, c’est la faute à Voltaire”.
Imboccando questa strada, non si dedica la minima attenzione all’esperienza degli anni passati, alle manipolazioni istituzionali che, sbandierate come la soluzione d’ogni male, hanno aggravato i problemi che dicevano di voler risolvere, rendendo così la crisi sempre più aggrovigliata. Ho davanti a me le dichiarazioni di politici e commentatori, i saggi e i libri di politologi che, all’indomani della riforma elettorale del 1993, sostenevano che l’instaurato bipolarismo, con l’alternanza nel governo, avrebbe assicurato assoluta stabilità governativa, cancellato le pessime abitudini della Prima Repubblica con i suoi vertici di maggioranza e giochi di correnti, eliminato la corruzione. E tutto questo avveniva in un clima che svalutava la funzione rappresentativa delle Camere, attribuendo alle elezioni sostanzialmente la funzione di investire un governo e accentuando così la personalizzazione della politica e le inevitabili derive populiste.
Sappiamo come è andata a finire. E gli autori e i fautori di quella riforma oggi si limitano a lamentare il bipolarismo “rissoso” o “conflittuale”, senza un filo non dirò di autocritica, parola impropria, ma neppure di analisi seria e responsabile di quel che è accaduto. Eppure quel rischio era stato segnalato proprio nel momento in cui si imboccava la via referendaria alla riforma, suggerendo altre soluzioni. Ma non si volle riflettere intorno all’ambiente politico e istituzionale in cui quella riforma veniva calata, sulla dissoluzione in corso del vecchio sistema dei partiti e sulla inevitabile conflittualità che sarebbe derivata da una riforma che, invece di accompagnare una transizione difficile, esasperava proprio la logica del conflitto.
Oggi sembra tornare il tempo degli apprendisti stregoni e di una ingegneria costituzionale che, di nuovo, appare ignara del contesto in cui la riforma dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando, in un domani non troppo lontano, il “leaderismo carismatico” renderà palesi le sue conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie? Diranno che si trattava di effetti inattesi?
Questo ci porta al modo in cui si è voluto strutturare il processo di riforma. Si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per la revisione costituzionale, norma di garanzia che dovrebbe sempre essere tenuta ferma proprio per evitare che la Costituzione possa essere cambiata per esigenze congiunturali e strumentali. Compaiono nuovi soggetti – una supercommissione parlamentare e una incredibile e pletorica commissione di esperti, con componenti a pieno titolo e “relatori”. Il Parlamento viene ritenuto inidoneo per affrontare il tema della riforma e così, consapevoli o meno, si è imboccata una strada tortuosa che finisce con il configurare una sorta di potere “costituente”, del tutto estraneo alla logica della revisione costituzionale, concepita e regolata come parte del sistema “costituito”. Sono rivelatrici le parole adoperate nella risoluzione parlamentare: “una procedura straordinaria di revisione costituzionale”. L’abbandono della linea indicata dalla Costituzione è dunque dichiarato.
Si entra così in una dimensione di dichiarata “discontinuità”, che apre ulteriori questioni. Quando si incide profondamente sulla forma di governo, come si dichiara di voler fare, si finisce con l’incidere anche sulla forma di Stato, come hanno messo in evidenza molti studiosi del diritto costituzionale. E, di fronte alla modifica della forma di governo e di Stato, si può porre un altro interrogativo. Queste modifiche sono compatibili con l’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”? Originata dalla volontà di impedire una restaurazione monarchica, questa norma è stata poi letta per definire quali siano gli elementi costitutivi della forma repubblicana così come è stata disegnata dall’insieme del testo costituzionale. Ne conseguirebbe che la modifica o l’eliminazione di uno di questi elementi sarebbe preclusa alla stessa revisione costituzionale. Sono nodi problematici, certamente. Che, tuttavia, non possono essere ignorati nel momento in cui si vuole intervenire sulla Costituzione abbandonando il modello di democrazia rappresentativa intorno al quale è stata costruita.
Ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelsky che l’introduzione del presidenzialismo nel nostro paese “si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. L’investitura d’un uomo solo al potere non è precisamente l’idea di una democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione”. Il riferimento al “nostro paese” risponde proprio a quella necessità di valutare ogni riforma costituzionale nel contesto in cui è destinata ad operare. Sì che ha poco senso l’obiezione che il semipresidenzialismo, ad esempio, è adottato in un paese sicuramente democratico come la Francia. Questa obiezione, anzi, obbliga a riflettere sul fatto che la compatibilità di quel sistema con la democrazia è strettamente legata a un dato istituzionale – l’assenza in Francia di gravi fattori distorsivi, come il conflitto d’interessi o il controllo di una parte rilevantissima del sistema dei media; e a un dato politico — il rifiuto di usare il partito di Le Pen come stampella di uno dei due schieramenti in campo, mentre in Italia pure la destra estrema è stata arruolata sotto le bandiere di una coalizione pur di vincere.
Più sostanziale, tuttavia, è la contraddizione con il modello della democrazia partecipativa. Proprio nel momento in cui la necessità di questo modello si manifesta prepotentemente per le richieste dei cittadini e il mutamento continuo dello scenario tecnologico, finisce con l’apparire una pulsione suicida l’allontanarsi da esso, con evidenti effetti di delegittimazione ulteriore delle istituzioni e di conflitti che tutto ciò comporterebbe. Una revisione condotta secondo la logica costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione, tirando un filo che va dai referendum alle petizioni, alle proposte di legge di iniziativa popolare. Le proposte già ci sono, per quelle sull’iniziativa legislativa popolare basta una modifica dei regolamenti parlamentari, e questo aprirebbe canali di comunicazione con i cittadini dai quali la stessa democrazia rappresentativa si gioverebbe grandemente. Altrettanto chiare sono le proposte sulla riduzione del numero dei parlamentari, sul superamento del bicameralismo paritario, su forme ragionevoli di rafforzamento della stabilità del governo attraverso strumenti come la sfiducia costruttiva. Si tratta di proposte largamente condivise, che potrebbero essere rapidamente approvate con benefici per l’efficienza del sistema senza curvature autoritarie. E che potrebbero essere affidate a singoli provvedimenti di riforma, senza ricorrere ad un unico “pacchetto” di riforme, più farraginoso per l’approvazione e che distorcerebbe il referendum popolare al quale la riforma dovrà essere sottoposta, che esige quesiti chiari e omogenei.
Vi è, dunque, un’altra linea di riforma istituzionale, sulla quale varrà la pena di insistere e già raccoglie un consenso vastissimo tra i cittadini, alla quale bisognerà offrire la possibilità di manifestarsi pienamente. Solo così potrà consolidarsi quella cultura costituzionale che oggi manca, ma che è assolutamente indispensabile, “capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla”, come ha sottolineato opportunamente Ezio Mauro.

il Fatto 7.6.13
Il monarca capriccioso
di Antonio Padellaro


Il vero problema di Giorgio Napolitano sono i giornali. Quelli (quasi tutti) che lo incensano da mane a sera, sempre pronti a mettere il violino automatico qualsiasi banalità scaturisca dalle auguste meningi, ma così abbagliati dal verbo del Colle da non vedere l’enormità di certe affermazioni dell’anziano presidente bis. Lunedì 3 giugno infatti (quasi) tutta la stampa italiana ha scolpito sulle prime pagine la frase sul “governo a termine” pronunciata dal supremo monitore nei giardini del Quirinale. Si trattava evidentemente di uno sconfinamento del tutto arbitrario del capo dello Stato dalle sue funzioni, ma (quasi) nessuno obiettò qualcosa, poiché - grazie ai giureconsulti di palazzo che tutto ingoiano in cambio di un gettone di presenza in qualche commissione - la Costituzione, come dice Camilleri, è bella che andata in vacca. Tra le forze parlamentari ha reagito soltanto Grillo, chiedendo a che titolo Napolitano possa fissare un limite temporale al governo Letta, trattato come uno yogurt, ma la cosa è stata liquidata come la solita mattana dell’ex comico. Il Fatto, però, non è stato zitto e ha chiesto il parere autorevole di Barbara Spinelli che, alla domanda di Silvia Truzzi sulla data di scadenza del governo (“una cosa mai vista”), ha risposto che Napolitano ha “forzato” la Carta e che ormai “il presidenzialismo c’è già”. A questo punto, tre giorni dopo i titoli dei quotidiani mai smentiti, si sveglia il Quirinale, dice che si continua ad “accreditare il ridicolo falso di un termine posto dal Presidente alla durata dell’attuale governo” e, udite udite, se la prende con la domanda della giornalista del Fatto, non avendo neppure il coraggio di contestare la risposta della Spinelli. C’è poco da aggiungere. Che Napolitano si comporti come un monarca capriccioso non può sorprendere, visto che il governo delle larghe intese lo ha inventato lui miracolando Pd e Pdl che alle ultime elezioni hanno perso insieme dieci milioni di voti. Idem per (quasi) tutta la stampa italiana che, a furia di sviolinate ai potenti, in cinque anni ha perso un milione di copie e svariati milioni di lettori e ora, col cappello in mano, elemosina nuovi contributi e incentivi.
P.S. Titolo di ieri sul sito del Corriere della Sera (che lunedì come gli altri aveva annunciato il governo a termine): “Il Quirinale smentisce il Fatto”. Più chiaro di così.

Repubblica 7.6.13
Ecco la Convenzione per le riforme la nuova Costituzione pronta entro il 2014
Tempi più stretti per le modifiche e poi il referendum confermativo
di Alberto D’Argenio


ROMA — Il Consiglio dei ministri impiega solo mezz’ora per approvare il disegno di legge che lancia le riforme costituzionali. Dunque il premier accelera, lancia il testo che istituisce il Comitato chiamato a scrivere le riforme e i detta tempi. Il termine per cambiare la Costituzione è di 18 mesi. Dopo ci potrà essere un referendum confermativo. Presentando il ddl Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme, risponde così a chi gli chiede di fare un pronostico sulla possibilità che alla fine la Carta venga realmente modificata: «Oltre alla virtù ci vuole fortuna, e lo potrei dire in maniera più prosaica». Beppe Grillo invece affonda l’intero processo: «Il giorno in cui i mercati torneranno a preoccuparsi per l’Italia dovremo spiegare perché al posto della crisi si discetta di riforme affidate ad una classe politica delegittimata che con questo iter spera solo di tenere in vita il governo». Intanto una nota del Quirinale smentisce che il presidente Napolitano abbia dato un termine alla vita dell’esecutivo: «È ridicolo e falso».
I SAGGI
Il testo del governo modifica la Costituzione e quindi dovrà essere approvato dalle Camere con doppia lettura. Per questo il Comitato dei 40 - la bicamerale formata da 20 deputati e 20 senatori chiamata a scrivere le riforme da votare poi in aula - sarà costituito solo a ottobre. E per questo Letta nei giorni scorsi ha istituito la Commissione per le riforme, volgarmente detto comitato dei saggi, formato da 35 esperti di diritto (professori e politici) che rispecchiano tutte le anime della maggioranza. I saggi (che non riceveranno alcun compenso) lavoreranno da qui a ottobre come consulenti del governo, approfondiranno tutti i temi sul tavolo (forma di governo, assetti istituzionali, legge elettorale, bicameralismo etc.) e le ricadute di ogni scenario. Quindi consegneranno una relazione al governo e usciranno di scena appena si insedierà il Comitato dei 40. Ieri i saggi sono stati ricevuti al Colle da Napolitano che li ha invitati «a non diffondere pessimismo basandosi sul fallimento delle esperienze precedenti » (così risulta da un Tweet del “saggio” Stefano Ceccanti) e ha sottolineato che «modifiche e
adeguamenti dell’ordinamento rappresentano un inconfutabile e ineludibile bisogno». Ma intorno ai 35 esperti è già polemica. Il capogruppo del Pdl Renato Brunetta dice che «le riforme non le fanno i saggi, ma gli eletti dal popolo ». Anche Rosi Bindi spara sui professori: «Nessuno si illuda di precostituire con il lavoro degli esperti quello del Parlamento». Quagliariello smorza i toni dicendo che «il Comitato dei 40 sarà operativo in autunno, ecco perché questi mesi saranno occupati dagli esperti senza sovrapposizioni o perdite di tempo, si tratta di una semplice staffetta».
TEMPI CERTI
Il ddl detta quello che Quagliariello chiama «cronoprogramma» per centrare l’obiettivo dei 18 mesi. Contando che il Comitato si insedierà a ottobre, avrà 4 mesi per scrivere i testi delle riforme (poi emendabili dai singoli parlamentari) e consegnarli alle Camere nel febbraio 2014. Camera e Senato avranno a quel punto tre mesi a testa per la prima lettura, dunque il primo ramo del Parlamento che si pronuncerà lo farà entro il prossimo maggio. Tra una lettura e l’altra viene tagliato il termine minimo previsto per le modifiche della Carta: da tre mesi a uno soltanto. Si cerca così di chiudere l’iter parlamentare con l’approvazione definitiva delle riforme per l’ottobre del 2014. Il Comitato dei 40 non sarà composto solo in base alla ripartizione dei seggi parlamentari: per sterilizzare il robusto premio di maggioranza incassato dal Pd alla Camera rispecchierà anche «il numero di voti conseguiti alle elezioni». In questo modo la rappresentanza tra Pd, Pdl e M5S sarà più equilibrata. La Bicamerale, ha spiegato ieri Quagliariello, non affronterà lo spinoso tema del conflitto di interessi che, specialmente se passasse il presidenzialismo, potrebbe diventare rovente al punto da mandare tutto per aria (leggi il ruolo di Berlusconi). «È una preoccupazione del Parlamento e va fatta dal Parlamento», spiega il ministro.
REFERENDUM
Vista la delicatezza e la portata, almeno nelle ambizioni, delle riforme costituzionali, il governo modifica ulteriormente la Carta prevedendo la possibilità di indire un referendum confermativo in qualsiasi caso, anche se il pacchetto venisse approvato con il voto dei due terzi in entrambe le Camere.

il Fatto 7.6.13
Venerabile plauso
Gelli esulta: “La Repubblica presidenziale arriverà grazie al Colle e ai Letta”
Presidenzialismo un’idea mia Napolitano e Letta vinceranno
Il capo P2 rivendica la riforma: “Il Presidente iniziò con Monti, ora asse vincente Gianni-Enrico”
di Marco Dolcetta


Ho scritto lo Schema di massima per un risanamento generale del Paese, detto anche Schema R nell’agosto 1975 insieme a Randolfo Pacciardi. Il piano di Rinascita, invece, lo abbiamo elaborato insieme nell’inverno del 1976”.
Chi parla è Licio Gelli ricordando come l'allora presidente Giovanni Leone gli avesse personalmente commissionato questo piano che prevedeva fra le varie voci un abbozzo di repubblica presidenziale molto simile a quello che, in questi giorni, sembrerebbe prendere forma in Italia.
“Già nel 1975 da certe carte che ho visto anni fa, Napolitano insieme a Arrigo Boldrini e ad altri, preparò un piano insurrezionale di stampo comunista che aveva poco a che fare con il sistema democratico che suscitò l'allora presidente Giovanni Leone, che ne era a conoscenza. Al piano di insurrezione, venne da me creato un contro piano, per opporsi al desiderio di insurrezione che maturò in Italia. Nel 1971 Leone ebbe una mano da parte della P2 che fu da me nobilitata a livello di elettori per eleggerlo, in tutti i partiti e divenne così presidente della Repubblica. Ebbe inizialmente una forma di riconoscenza nei mie confronti, poi dopo avergli presentato, come da sua richiesta il Piano R, ebbe un ripensamento e non volle più ricevermi”.
Risulta che subito dopo questo avvenimento Camilla Cederna fu spesso vista a Villa Wanda e sappiamo dopo cosa accadde a Leone e alla sua famiglia...
“Il Piano R consiste, fra l’altro, nella revisione della Costituzione del '48 per trasformare l'Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale; si prevede quindi la proclamazione di uno stato di “armistizio sociale” per un periodo non inferiore ai due anni”.
È esattamente quello che dice oggi Berlusconi quando lui parla di fine di guerra civile fra i partiti e di necessaria militarizzazione delle periferie urbane. Gelli: “Nomina e insediamento di un ‘Comitato di coordinamento’ composto da non più di 11 membri, che dovrà avere pieni poteri per poter procedere al riesame di tutta la legislazione in vigore”.
Come non ricordare il Comitato dei saggi di Napolitano e quello nuovo del primo Ministro Enrico Letta.
CONTINUA: “Fra le altre cose da fare il ripristino dell’autorità del prefetto. Il ripristino del fermo di polizia, revisione e restrizione dei poteri della Corte costituzionale, l’impiego dell'esercito in operazioni di ordine pubblico, limitazione generalizzata del diritto di sciopero, riduzione del numero di quotidiani, settimanali e periodici, cosa che avviene anche per la crisi della pubblicità, fra l'altro, si prevede anche l'abolizione della prostituzione nei luoghi pubblici”.
Forse quest'ultimo provvedimento sarà di più difficile applicazione. Gelli procede dicendo, che “è necessaria più che mai oggi, procedere nella suddivisione dei poteri della giustizia, dividendo le pertinenze fra Gip e Pm e insite anche nel dover annualmente ed obbligatoriamente sottoporre anche a perizia psichica, così come si fa oggi per i piloti di aerei, così da prevenire casi di schizofrenia che secondo lui sono frequenti con ingenti danni per il cittadino inerme che cade in situazioni non controllabili e non bilanciate, visto che la suddivisione dei poteri giudiziari oggi non esiste”.
Gelli termina così: “Già dai tempi di Craxi, in cui fra Craxi e Napolitano esisteva un concreto asse di solidarietà, si tendeva in maniera mascherata a creare i presupposti di una repubblica presidenziale. Napolitano ci ha riprovato con Monti nei tempi dell'imposizione dell'incauto tecnocrate alla presidenza del Consiglio, dopo averlo fatto senatore a vita in pochi minuti e dopo averlo in parte sponsorizzato nella suicida campagna elettorale dello scorso inverno. Oggi l'asse che pare vincente ha un solo cognome: Letta, magnificamente trasversale”.

il Fatto 7.6.13
Strabismi
Sardo, l’Unità e chi fa soldi con la politica

Claudio Sardo, direttore della fu Unità, è uno di quei giornalisti che, oltre a non saper scrivere, non sanno neppure leggere. L’altroieri abbiamo scritto che, prima di accusare Grillo di “guadagnare soldi dalla politica” per la pubblicità sul suo blog, Sardo potrebbe parlarci di quanti ne prende dallo Stato e dalla pubblicità l’Unità (sito compreso), i cui vecchi debiti sono garantiti dallo Stato, e quanti ne prende dallo Stato il Pd. Ieri Sardo ci ha accusati di lanciare “insulti”, “falsi” e “balle”, tra cui “la più ingiuriosa è che lo Stato pagherà i debiti dell’Unità. E Travaglio ha mentito sapendo di mentire”. In realtà mi sono limitato a ricordare quanto dichiarò al Fatto il tesoriere Ugo Sposetti il 17 febbraio scorso a proposito del buco di 200 milioni creato dai debiti dei Ds e del loro giornale: “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”. Il tutto grazie a una norma del governo D’Alema. Forza Sardo, sguinzaglia i tuoi segugi e denuncia chi guadagna soldi pubblici dalla politica: ce la puoi fare anche tu.

La Stampa 7.6.13
Civati: Matteo teme Letta e di restare in mezzo al guado
“Era contrario ai doppi incarichi, ma spesso cambia idea”
«Io sono radicalmente alternativo al centrodestra, così voglio il nostro futuro»
di A. Mala.


Transatlantico, divanetto rosso, Pippo Civati è circondato da un po’ di colleghi. Discutono della pancia agitata dello strano condominio di centrosinistra in cui si trovano. Lui, Civati, è appena tornato da un incontro con Stefano Rodotà. Si sentono spesso col Professore. Idee comuni. Immaginano un partito che stia più vicino agli elettori. Soprattutto che stia più a sinistra. «Rispetto a questo è facile no? ». Gioca. Ma neanche troppo. E diventa immediatamente serio quando il discorso scivola su Matteo Renzi, che una volta era suo amico - parlavano lo stesso linguaggio rottamatorio e che oggi è diventato concorrenza diretta. Chi lo guida il partito domani? Il rivale è strafavorito. Eppure.
Civati, Renzi vuole fare il segretario.
«Due settimane fa era pieno di dubbi. Non sapeva come muoversi. Adesso dice che la carica non sarebbe incompatibile con quella di sindaco di Firenze. Sostiene spesso cose molto diverse tra loro. Un tempo, ad esempio, era molto preoccupato dall’idea dei doppi incarichi».
Perché oggi non lo è più?
«Pensa alla premiership. E ha paura che Letta allunghi il passo. In questo caso la sua corsa diventerebbe più complicata. Era la grande speranza, adesso ha paura di rimanere in mezzo al guado».
Come sarebbe il partito di Renzi?
«Boh. A me interessa immaginare come sarebbe il partito di Civati».
Dica.
«Alternativo al centrodestra. Ma in modo netto. E’ uno dei motivi per cui oggi io ho qualche problema nel Pd. Un partito di cui Renzi non sembrava volersi occupare. E’ anche per questo che ci allontanammo».
Il presidente della Regione Lazio, Zingaretti, sostiene che Epifani non avrebbe potuto scegliere diversamente il nuovo gruppo dirigente, ma che è arrivato il momento di finirla con le conventicole.
«Benvenuto tra di noi. E’ bello che se ne accorga adesso. Le scelte che fa Epifani sono esattamente in linea con quelle che ha fatto il partito negli ultimi due mesi. Il problema politico è sul tappeto da un pezzo».
Vero. Ma il problema politico riguarda anche lei. Perché sulla proposta Giachetti di riforma elettorale prima ha detto sì e poi si è adeguato alle direttive del gruppo?
«Per mostrare anche plasticamente le contraddizioni quasi irrisolvibili che ci sono al nostro interno. Una situazione che si è cristallizzata dopo l’intervento del Capo dello Stato alla Camera».
Anche lei èconvinto che Napolitano faccia il capo del governo oltre che il Presidente della Repubblica?
«Mi pare che nessuno possa negare l’influenza fortissima che il Presidente esercita sul governo e sul Parlamento».
Le riesce la fusione a freddo con un pezzo di M5S?
«Non ho mai fatto scouting. Non comincerò ora. La parte dialogante del Movimento è piena di ingenuità. E la parte più aggressiva del gruppo, a cominciare da Grillo, attaccando tutti finisce poi per non attaccare nessuno. Hanno avuto un’occasione storica. E l’hanno sprecata».

La Stampa 7.6.13
Il bocciato Fava (Sel)
“Il Pd non mi voleva al Copasir, troppo indipendente”
«Finora c’è stata troppa continuità con il governo Non han voluto cambiare»
di Fra. Gri.


Claudio Fava non è divenuto presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti. Il suo partito ci è rimasto molto male perché Fava passa per essere un esperto del ramo, avendo guidato severamente una inchiesta sulle “renditions” della Cia, i rapimenti segreti. E lei, Fava, quanto ci è rimasto male?
«Nessuno stupore. Anzi, un po’, perché non ho capito come mai il Pd si sia fatto portavoce di certe preoccupazioni che riguardavano la mia persona. Un atteggiamento che mi addolora».
Quanto pensa che abbia pesato la sua inchiesta sui servizi segreti nell’escluderla?
«Non credo che ci sia stato nessun signore mascherato che abbia bussato alla porta del Parlamento per mettere un veto su di me a nome dei servizi segreti».
E allora?
«Registro un clima diffuso... Sono usciti articoli che raccontavano di me, e riferivano di quando, sette anni fa, ho reso dichiarazioni ufficiali al Congresso degli Stati Uniti. Oppure di quanto, cinque anni fa, ho testimoniato al processo di Milano sul caso Abu Omar. Cose che io stesso avrei difficoltà a ricostruire. Si vede che qualcuno conserva memoria».
E se ne meraviglia? Lei, Fava, ha messo spalle al muro le segrete intese tra la Cia e i servizi segreti di tutt’Europa, con molti governi che negavano pure l’evidenza.
«Si vede che qualcuno ritiene che io mi sia comportato in modo troppo indipendente nel giudicare le attività distorsive delle agenzie di intelligence. Ora, questa mia indipendenza di giudizio penso dovesse essere considerata un merito e non un demerito. Ma così va l’Italia... Fino a oggi il Copasir ha marciato con spirito di sinergia verso le scelte dei governi».
Con lei sarebbe cambiata musica?
«Se avessero dato al sottoscritto la presidenza, non dico che ci saremmo impegnati a mettere bastoni tra le ruote, ma almeno una corretta vigilanza, quella sì. Finora non è accaduto. Semmai c’è stata una sostanziale continuità, fino al punto che esponenti di governo, dismessa la carica di ministri, divenivano presidenti del Comitato di controllo attraverso il quale potevano “vigilare” sull’operato dei servizi segreti che dirigevano fino al giorno prima. Ma è la democrazia stessa, non soltanto il senatore Fava, che dovrebbe essere preoccupata se ci sono azioni distorsive da parte dei servizi segreti. Io ho segnalato quello che ritenevo un comportamento patologico. Ciò ha determinato veti sul mio nome? Ne sono onorato. Significa che ho lavorato bene, non il contrario».

Repubblica 7.6.13
Giarrusso punta il dito contro Crimi: mesi a fare casino per dichiarare ineleggibile il Cavaliere, e lui non si presenta al voto
“Nel Movimento infiltrati pro-Silvio”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Quando risponde al telefono il senatore Mario Giarrusso è furibondo. Ha appena mandato un’email ai colleghi in cui dice di volersi autosospendere dal gruppo dei 5 stelle a Palazzo Madama. Ce l’ha con Vito Crimi, il capogruppo che non lo ha votato perché è arrivato tardi. «Sento il bisogno di un confronto con il gruppo e con i gruppi siciliani scrive - per comprendere il senso della mia presenza in Senato».
Senatore, si è autosospeso? Come mai?
«Io? Chi lo dice? Le sto dicendo che mi sono sospeso?».
Ha mandato una e mail ai suoi colleghi. Qualcosa dev’essere successo.
«È successo che la partitocrazia ha mostrato il suo lato migliore e più forte. Sono tutti d’accordo per salvare Berlusconi, ci hanno emarginati con questo preciso scopo».
Il problema è quel che è successo in giunta?
«Hanno eletto una specie di democristiano che non si sa come è finito a Sel. Uno che ha quel compito: salvare Berlusconi. Si sono messi tutti d’accordo».
Anche i 5 stelle?
«Gli infiltrati sono ovunque. I filoberlusconiani stanno dappertutto. Se la Puppato dice che nel Pd ce ne sono 101, è fisiologico che ci siano anche da noi. Mica abbiamo un vaccino che tiene lontano chi strizza l’occhio a Berlusconi».
Sta dicendo che nel suo Movimento qualcuno ha voluto favorire il Cavaliere?
«Dico che c’è qualcuno che va segnalato a Beppe per mandarlo affanculo come merita. Provvederemo a cacciare i berlusconiani dal Movimento».
Ce l’ha con Vito Crimi?
«Abbiamo passato quattro mesi a fare casino per l'ineleggibilità di Berlusconi, e abbiamo un capogruppo che non si presenta al voto per il presidente della Giunta. Ognuno tragga le conclusioni»
La presidenza della Vigilanza Rai non è un successo?
«La giornata di oggi per noi è una Caporetto. L’opposizione è stata emarginata e messa alla porta e c’è una responsabilità interna per questo, che non è la “stupidaggine”, non è casuale. Non credo nel caso. La Rai ha un valore simbolico, la presidenza diventerà il parafulmine di ogni cosa, non potrà fare niente. Era il Copasir, che contava».
Quindi che farà?
«Esaminerò la situazione col Movimento in Sicilia, sto andando lì per i ballottaggi. E chiedo che intervenga Napolitano: la maggioranza si è scelta l’opposizione che più le fa comodo mandando a pezzi la democrazia. Richiamiamo il capo dello Stato al suo dovere di garante».

Repubblica 7.6.13
Ineleggibilità, la sfida dei grillini, il caso Berlusconi arriva al Senato
Il Pd: “Dopo le sentenze Mediaset e Unipol cambia tutto”
di Liana Milella


ROMA — Questione di pochi giorni. Ormai basta attendere la prossima settimana. E il Senato diventerà protagonista della partita più importante della legislatura. Quella che ne determinerà le sorti. Che farà vivere o morire il governo Letta. Parliamo dell’ineleggibilità del Cavaliere, ovviamente. Annunciata dal partito di Grillo, presentata come la sfida contro l’inciucio dilagante, adesso sta per materializzarsi. La richiesta di aprire la procedura per mettere Berlusconi fuori dal Parlamento per il lapalissiano conflitto d’interesse che cammina sulle sue gambe dal lontano 1994 sarà depositata presso la segreteria della giunta per le elezioni e le autorizzazioni del Senato. Cosa ci sarà dentro? Il grillino Francesco Giarrusso risponde come se fosse un fatto scontato: «Ma lo sapete bene, non avete forse letto l’appello di Micromega?».
Quella è la falsa riga. Il testo che a marzo scorso la rivista ha lanciato raccogliendo oltre 200mila firme in poche settimane. Una questione semplice, tant’è che Micromega la
declinava così: «Berlusconi non era e non è eleggibile. Lo stabilisce la legge 361 del 1957, che è stata sistematicamente violata dalla giunta delle elezioni della Camera
dei deputati». Cinque legislature — 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 — e altrettanti sì al suo diritto di stare seduto a Montecitorio. Ma adesso la faccenda cambia. Lo rivela il dem Felice Casson: «Ora c’è un fatto nuovo, c’è il tassello che mancava e che sta nelle recenti sentenze Merdiaset e Unipol, dalle quali si evince che Berlusconi, pur formalmente fuori dalle sue aziende, è sempre rimasto il dominus incontrastato delle decisioni più importanti».
In quelle due sentenze - 8 maggio e 4 giugno — è scritto che nella regia dei fondi neri, le aziende affidate a Confalonieri, e nella gestione dei media, il Giornale del fratello Paolo, egli ha sempre agito da «dominus» incontrastato. Per questo Berlusconi è visibilmente preoccupato: «Non bastavano i pm, i giudici e i processi, adesso vogliono togliermi in anticipo il mio diritto di stare in Parlamento. Ma sia chiaro che io faccio saltare tutto e si va a votare».
È un ex premier furioso quello che vede saldarsi due minacce, per un caso concentrate negli stessi mesi, spalmate tra l’estate di quest’anno e l’inverno del prossimo. Partite destinate a influenzarsi. Da una parte il complicato caso dell’ineleggibilità a palazzo Madama, dall’altra l’approssimarsi della sentenza definitiva su Mediaset in Cassazione. La prima potrebbe chiudersi con un’aula che, a scrutinio segreto, lo mette fuori dal Parlamento prim’ancora che la Suprema corte decida se confermare o respingere la condanna a 4 anni per frode fiscale e a 5 di interdizione dai pubblici uffici.
Intendiamoci bene. Il casus belli dell’ineleggibilità può essere un rompicapo tecnico, ma soprattutto politico per via delle divisioni nel Pd, lacerato tra falchi e colombe, e tra chi vuole salvare a tutti i costi il governo e chi invece mette al primo posto il rigore nell’applicare la legge. Il caso ha per protagonista la vecchia e contestata legge 361 del 1957 sul conflitto d’interesse, che tuttora divide i giuristi e la politica. L’articolo 10 comma 1 — come ribadiranno i grillini — stabilisce che non sono eleggibili «coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Pare il ritratto di Berlusconi. Eppure, da 19 anni, lui la spunta perché — sostiene — non gestisce più “in proprio” le sue aziende, né le concessioni.
La sfida è qui. Grillo lo vuole fuori. Il Pdl fa muro, tant’è che ha messo un suo uomo forte — l’ex magistrato ed ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo — come vice presidente della giunta, a contrastare il neo presidente di Sel Dario Stefàno e l’altra vice, la battagliera dem Stefania Pezzopane. Stefàno fa per forza il diplomatico: «La questione è seria, e naturalmente la affronteremo con la serietà che merita». Casson ritiene di aver già vinto la prima battaglia, «non avere un leghista al vertice della giunta». Però vede un cammino difficile. A carte arrivate si formerà un sottocomitato che potrebbe presiedere Pezzopane in quanto vice più votata. Lei non anticipa nulla: «Non dobbiamo far altro che interpretare e applicare le leggi, nella logica che i cittadini sono uguali davanti alla legge». Il voto palese potrebbe spingere il Pd, pur diviso anche in giunta, a “condannare” Berlusconi. Ma illudersi che pure l’aula, lì a scrutinio segreto, segua la stessa via potrebbe rivelarsi una scommessa persa in partenza.

l’Unità 7.6.13
Il rilancio del pubblico dopo il voto di Bologna
di Luca Baccelli

Professore di Filosofia del diritto

ACQUISITI I RISULTATI, VALE LA PENA DI RITORNARE UN MOMENTO SUL REFERENDUM DI BOLOGNA RELATIVO AI FINANZIAMENTI comunali alle scuole paritarie private. Su questo giornale Chiara Carrozza ha impostato il suo intervento in modo impeccabile: ha assunto il punto di vista dei bambini, insieme il soggetto più debole e il primo destinatario dell’istruzione, e riaffermato la centralità della scuola pubblica. E nelle stesse ore ha posto una condizione necessaria per la sua permanenza al ministero: non basta bloccare i tagli all’istruzione pubblica (e, aggiungerei, alla ricerca, e alla ricerca di base), per liberare la scuola dalla povertà occorre tornare a investire. È su questa base che Carrozza difende le scelte operate dal comune di Bologna nel finanziamento del sistema integrato pubblico-privato e, più in generale, la legge «Berlinguer» (62/2000) sulla parità scolastica.
Si possono avere opinioni differenti sull’opportunità di investire risorse pubbliche nel finanziamento delle materne confessionali. In giro non c’è solo il modello lombardo dei voucher, giustamente contrapposto da Francesca Puglisi al sistema bolognese, e ci si dovrebbe chiedere perché le scuole paritarie costano meno. In ogni caso, come ha fatto notare Nadia Urbinati, alle argomentazioni sull’economicità di questa soluzione si possono contrapporre quelle sulla non sostituibilità della scuola pubblica come comunità educativa aperta, laica, pluralista. Dell’art. 33 della Costituzione e del suo perentorio «senza oneri per lo Stato» si possono dare interpretazioni meno flessibili. E se autorevoli esponenti della «teoria dei beni comuni», come Sapelli e Zamagni, la considerano compatibile con il sistema integrato altri teorici almeno altrettanto autorevoli, a cominciare da Rodotà, vedono le cose in modo differente.
Può darsi che del referendum di Bologna non si debba fare un caso nazionale. Ma l’idea della scuola come bene comune non può non evocare tre altri referendum, che impongono la ri-pubblicizzazione dell’acqua. Di qui si arriva al tema dei temi: valori, programmi e politiche di una sinistra riformatrice, capace di assumersi responsabilità di governo.
Nato negli anni novanta del secolo scorso, contemporaneo di Bill Clinton e di Tony Balir, l’Ulivo ha fatto proprio il paradigma della «Terza via». Detto all’ingrosso, l’assunzione di alcuni dei principi dell’ortodossia economica dominante – dalla riduzione della presenza pubblica nell’economia alle liberalizzazioni nel commercio internazionale, alla sussidiarietà, alla flessibilità del lavoro, al pareggio di bilancio fin nelle costituzioni – visti come condizione necessaria per lo sviluppo economico, con l’obiettivo di mantenere una rete di servizi sociali e di garantire i diritti essenziali. Al governo, in questo Paese, la sinistra c’è stata ben poco, e anche in Italia è stata combattuta quella che Luciano Gallino chiama la lotta della «classe capitalistica internazionale» contro la «classe dei perdenti». I risultati sono noti: la diffusione della povertà, l’aumento delle disuguaglianze, lo spostamento della pressione fiscale sul lavoro e del reddito verso le rendite, la disoccupazione e la precarietà. Rispetto a tutto questo il paradigma della Terza via si è dimostrato subalterno e le sinistre europee incapaci di guardare a differenti modelli. Il Pd è nato proprio quando è scoppiata una crisi globale tanto grave da convincere anche i dubbiosi, ma ha ereditato questo paradigma cercando, nello «spirito del Lingotto» di fondare su di esso una grande forza politica che teneva insieme falchi di Federmeccanica e vittime della Thyssen-Krupp, industrialisti ed ecologisti, laici e fondamentaliste religiose.
Pierluigi Bersani ha cercato di raddrizzare la barra, di dare al Pd un profilo più marcatamente riformatore, fondato sulla centralità del lavoro, sulla riaffermazione dell’eguaglianza e sulla garanzia dei diritti. Fra il 2011 e il 2012 referendum ed elezioni amministrative hanno espresso una grande domanda di cambiamento ed hanno premiato figure ed istanze apparentemente fin troppo radicali. Le elezioni di febbraio dimostrano che lo sforzo di Bersani è stato insufficiente: da un lato il suo messaggio non è stato abbastanza forte in termini di cambiamento, dall’altro la frammentazione del partito si è dimostrata gravissima, fino al dramma delle elezioni presidenziali.
Con il governo Letta tutto è molto complicato, ma il congresso del Pd non può eludere la questione: per ricostruire un programma di riforme, ridefinire la base elettorale e gli interlocutori sociali, ritrovare un’identità comune occorre un nuovo paradigma. Non si tratta di ritornare allo statalismo e al welfare rigido del Novecento, né si tratta di assumere le istanze dei movimenti come assoluti ideologici. Non siamo nel vuoto: la Costituzione delinea un quadro di riferimento in cui le persone, il lavoro, le formazioni sociali, l’ambiente prevalgono sul mercato, la proprietà privata e l’impresa. Ma per ripartire da lì bisogna accettare di rimettere in questione i modelli acquisiti, le comode certezze, a cominciare appunto dal modo in cui il centrosinistra ha impostato il grande tema del rapporto pubblico-privato.

Corriere 7.6.13
Roma decaduta, specchio d'Italia
di Giorgio Montefoschi


La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un film notevole, che merita di esser visto. Perché — oltre a essere molto ben girato e recitato (particolarmente nei due cammei della Ferilli e di Verdone) — pone domande e suscita riflessioni: che riguardano Roma (fotografata strepitosamente, quale non l'avevamo mai vista), ma non soltanto Roma.
La prima domanda che lo spettatore si pone è la seguente: La grande bellezza è un film ambientato a Roma come altri ambientati a Roma, o è un film su Roma? Se l'immagine iniziale è quella dello sparo, a mezzogiorno, del cannone sul Gianicolo; se la terrazza dell'improbabile casa del protagonista — lo scrittore napoletano di un solo romanzo, Jep Gambardella, forse ricco di famiglia — propone ossessivamente lo sfondo del Colosseo; se Roma è onnipresente con i suoi palazzi rinascimentali, le sue chiese, le sue rovine, bisognerebbe rispondere che La grande bellezza è un film su Roma. La seconda domanda (da cui altre discendono) è questa: «quelli» (vale a dire, i grotteschi personaggi che ruotano attorno a Gambardella, e comprendono ricchi e meno ricchi, nobili in carica e in affitto, scrittrici radical chic e poeti mantenuti, venditori di giocattoli e illusionisti, cardinali ghiotti e esibizionisti in coppia), esistono? Sì, esistono. I volti, siliconati al punto da farle sembrare uccelli impagliati, delle donne mature e giovani che partecipano alle cene di Gambardella, ai picnic nei parchi, alle feste in discoteca, sono come li mostra Sorrentino, o Sorrentino esagera? No, sono così: Sorrentino non esagera. Quelle feste sono eleganti? Dipende: talvolta lo sono; molto più spesso sono feste cafone, anche se vorrebbero essere eleganti. E è vero che in queste feste eleganti e cafone, oltre al grande consumo dell'alcol, si tira se va bene la cocaina? Capita; e nessuno si stupisce. Ed è vero che in quei ricevimenti la conversazione non è come nel salotto proustiano di Madame Verdurin, langue invece, è stanca, si nutre di pettegolezzi e di ovvietà politicamente e culturalmente corrette, riflette soddisfazioni ottuse, ambizioni deluse o sopite? Sì, è abbastanza vero.
Allora: questa è Roma? Ebbene, sì, anche questa è Roma: dal momento che Roma, città custode per eccellenza del tempo e cimiteriale, ospita e, se vogliamo, protegge questi sopravvissuti che ancora si imbellettano per nascondere le rughe, e il nulla. Ma la mondanità viziosa incarnata da costoro, alla fine, non è tanto diversa da quella che Truman Capote descrisse a metà degli Anni Settanta nel racconto La Cote Basque, con nomi e cognomi, facendo infuriare parecchi a New York; o da quella che Kubrick immortalò in Eyes wide shut, mutuandola addirittura da un romanzo viennese, quello di Schnitzler, fra Ottocento e Novecento. Dunque, la verità più profonda è che, qui come lì, siamo di fronte a relitti (motivo per cui è abbastanza comprensibile che Jep Gambardella una volta sussurri: «Siamo tutti disperati», un'altra volta implori un suo amico mago di farlo sparire, come ha fatto sparire una giraffa) che non sono solo romani; di fronte a un teatro torvo di marionette in cui si rappresenta una decadenza che abbraccia anni più lunghi, va oltre i confini cittadini.
Il guaio è che anche l'altra Roma, quella che non si vede nel film di Sorrentino, non sta bene affatto. La Roma che non va a votare e diserta le piazze; la Roma dei senza lavoro e degli studenti smarriti; la Roma delle periferie dure e delle violenze in pieno Centro; quella delle bische e quella dei «Cerco Oro»; quella che non ha aggregazioni sociali e valori; quella che ha paura per il suo futuro, è sgomenta e — in questo senso — è davvero tanto simile a tanta parte dell'Occidente: anche quella sta malissimo, anche quella soffoca sotto una cappa pesante. Tant'è che, a Roma, per respirare un soffio d'aria pura, bisogna farsi catacombali. E affacciarsi in quei luoghi che non sono segreti, e invece esistono — non solo a Roma — nei quali pattuglie di silenziosi continuano a dar da mangiare a chi ha fame e a curare gli infermi. Oppure, bisogna aspettare che arrivi una santa.

Repubblica 7.6.13
Incontro con Rossana Rossanda.
"Io, eterna madre della sinistra uccisa dai figli"
L'allontanamento dal "Manifesto". Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la "ragazza del Novecento"
di Simonetta Fiori

qui

Repubblica 7.6.13
Il padrone in tuta blu
di Luciano Gallino


E se i padroni, dopotutto, non fossero necessari? Naturalmente è un sogno, ma con la disoccupazione che morde anche i sogni aiutano a cercar soluzioni per continuare ad avere un lavoro e non arrendersi alla prospettiva di una vita da cassintegrati, o da pensionati con dieci anni di anticipo. L’hanno trovata, una soluzione, alcune migliaia di lavoratori che in varie regioni d’Italia hanno reagito al fallimento della loro impresa, alla delocalizzazione, ai dirigenti di una corporation che dalla Finlandia o dall’Alabama decidono di chiudere un impianto in Italia perché rende meno di uno della Corea del Sud. Hanno detto ai padroni, ma anche a se stessi, «se voi ve ne andate, noi restiamo qui, e proveremo a mandare avanti l’azienda con il nostro lavoro». Alcune delle imprese che han continuato ad operare nonostante la fuoruscita dei capi o dei padroni hanno preso forma di cooperative; altre si sono date una veste giuridica diversa. Sia questa l’una o l’altra, adesso l’impresa la mandano avanti loro, operai e tecnici, dirigenti e impiegati.
In Argentina le chiamano fabricas o empresas recuperadas. Sono nate dal 2001 e si sono moltiplicate. Considerato quel che sta avvenendo in Italia, la loro storia è di speciale interesse, perché in essa si ritrovano varie situazioni che hanno con il nostro paese diversi elementi comuni. Nel 2001 l’Argentina stava attraversando, come noi oggi, una disastrosa crisi economica. Centinaia di imprese dichiaravano fallimento, e i dipendenti, con una età media sopra i quaranta, erano quasi certi che mai più avrebbero trovato un lavoro. Una ondata dissennata di privatizzazioni di aziende pubbliche aveva contribuito a disastrare il mercato del lavoro; il resto lo avevano fatto gli “aggiustamenti strutturali” imposti dalla Banca Mondiale e dal Fmi — simili a quelli che oggi arrivano a noi da Bruxelles o da Francoforte — da cui il drastico ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale.
Non vi fu allora, in Argentina, alcuna particolare spinta di ordine politico a indurre i lavoratori a impegnarsi per gestire loro l’impresa, una circostanza che pare evidente anche nel caso italiano. Molti aspetti positivi maturarono dopo, e paiono emergere ora nel nostro paese giusto come avvenne laggiù. I lavoratori scoprirono, tra mille difficoltà, che riuscivano a mandare avanti la fabbrica o l’impresa non meno bene del padrone che era fallito o di fronte alla crisi era scappato all’estero. Stabilirono reti di relazione efficaci con le comunità locali e con altre imprese “recuperate”. Approfondirono il tema dell’autogestione, quello che negli anni 70 del Novecento era stato un tema importante per il movimento operaio, non privo di applicazioni positive, specie in Jugoslavia. Risultato: nel 2001 le empresas recuperadas erano alcune decine. Al presente si stima siano 350, che occupano circa 25.000 lavoratori in diversi settori produttivi.
Le imprese italiane autogestite, siano cooperative o altro, meritano quindi attenzione da parte del governo, dei sindacati, e delle tantissime imprese che un padrone ancora ce l’hanno. Da un lato perché a fronte di una crisi che è ormai certo durerà un altro decennio è essenziale esplorare ogni possibile strada per evitare che le imprese, a cominciare dalle Pmi, continuino a chiudere. Dall’altro perché queste fabbriche o aziende di servizio mostrano che se i lavoratori sono trattati come persone, piuttosto che come robot i quali debbono attenersi rigorosamente alla metrica tayloristica del lavoro imposta dall’alto, tirano fuori una intelligenza, una capacità professionale, una competenza nel costruire e gestire un’organizzazione, che quella metrica al tempo stessa nega e spreca. Con un danno grave sia per i lavoratori, sia per la stessa impresa. Ciò di cui i padroni, pur restando al loro posto, dovrebbero prendere nota. Qualche decennio fa si parlava molto, da noi come in altri paesi, della necessità di sollecitare la creatività e lo spirito di iniziativa dei dipendenti. Le imprese hanno preferito adottare modelli di organizzazione del lavoro che soffocavano di proposito l’una e l’altro. La crisi ha tra le sue cause anche quei modelli. Le “imprese recuperate” attestano che converrebbe cominciare a battere altre strade.

La Stampa 7.6.13
Orrore nel quartiere dell’Opéra
Militante di sinistra ucciso dai naziskin Parigi sotto choc
Studente 18enne massacrato in pieno centro Il premier: faremo a pezzi le cellule eversive
di Alberto Mattioli


Un militante di sinistra linciato da quelli di destra in mezzo alla strada. Per gli italiani, sono scene degli Anni Settanta più tragici. Per i francesi, piuttosto del decennio seguente quando, nella Parigi di Mitterrand, gli scontri fra skinheads di gauche e di droite erano frequenti. Ma sono passati trent’anni e ormai si credeva che questi episodi fossero consegnati all’archivio del peggior Novecento. Invece no. È stato massacrato un ragazzo di 18 anni, e questa è la tragedia. Il problema politico è che nella società francese cresce la tensione, le posizioni politiche si radicalizzano e aumenta il numero di chi pensa che il modo migliore per esprimerle sia picchiare.
Tutto è successo mercoledì intorno alle 18 e non nelle periferie violente, ma in rue Caumartin, nel centralissimo nono arrondissement di Parigi, a due passi dall’Opéra e dai grandi magazzini affollati di turisti. Clément Méric aveva 18 anni, era arrivato da Brest per studiare a Sciences-Po e faceva parte dell’Action antifasciste Paris-banlieue. Era andato con un amico in un appartamento per una vendita privata di magliette Fred Perry, la griffe che piace agli skins di entrambi gli schieramenti. I due hanno riconosciuto un gruppo di estremisti di destra per il loro look inconfondibile. La sicurezza ha buttato fuori tutti. Una volta in strada, non è chiaro chi abbia attaccato briga per primo. Sta di fatto che Clément è stato colpito con un tirapugni, ha battuto la testa sul selciato, è stato raccolto mentre il sangue gli usciva dalle orecchie ed è arrivato all’ospedale in stato di morte cerebrale. È spirato ieri, alla stessa ora in cui era stato pestato.
La polizia non ha fatto troppa fatica a trovare i colpevoli, tutta gente che gira con la svastica tatuata sulla sua testa rasata fuori e vuota dentro. Gli arrestati sono in tutto sette, fra loro c’è anche una ragazza. Sono, pare, militanti delle Jnr, «Jeunesses nationalistes révolutionnaires», uno dei pianetini della nebulosa dell’estrema destra. Le Jnr, ovviamente, nega. Uno dei sette ha in pratica confessato: «Non volevo ucciderlo», bontà sua.
Fin qui la cronaca. L’emozione è enorme, la condanna generale e bipartisan, ma la polemica rovente su almeno tre fronti. Il primo è quello della sicurezza. Molte voci, anche dalla destra moderata, chiedono lo scioglimento dei gruppuscoli fascisti. François Hollande, dal Giappone, chiede di «reprimere» e denuncia un «clima pesante»; il suo primo ministro Jean-Marc Ayrault annuncia che, nel rispetto delle regole democratiche, «farà a pezzi» l’eversione.
Secondo Fronte, quello Nazionale. La sinistra lo accusa di contiguità o, peggio, di complicità. Marine Le Pen ribatte che questi estremisti sono i suoi peggiori nemici. In effetti, è proprio la sua politica moderata che, sdoganando e «ripulendo» il Fn, ha «liberato» sulla sua destra dei picchiatori che in precedenza, bene o male, erano più sotto controllo.
Terzo fronte: la «manif pour tous», il movimento contro il matrimonio gay. Pierre Bergé, il «vedovo» di Yves Saint-Laurent, la accusa via Twitter di aver «preparato il terreno» al dramma. La risposta è indignata. Però Frigide Barjot, ex egeria e volto della «manif», ammette di averla abbandonata appunto perché ci si sono infiltrati «casseurs» estremisti e violenti.
Intanto, ieri i compagni di studi di Clément si sono riuniti davanti a Sciences-Po e, in un silenzio tragico e surreale, hanno intonato il Canto dei partigiani. La gauche dei partiti e dei sindacati è scesa in piazza scandendo «Pas de facho dans nos quartiers, pas de quartier pour les fachos! ». Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata della destra moderata al Comune di Parigi, che andava a rendere omaggio alla vittima, è stata fischiata e insultata. In Francia tira davvero una bruttissima aria.

La Stampa 7.6.13
Usa, la confessione del pilota di droni “Ho ucciso troppo
» 
«Ho eliminato da lontano 1626 persone»
 «Come fai a capire chi è un contadino e chi è un taleban?»
di Francesco Semprini

Ha visto una delle sue vittime morire dissanguata dopo l’esplosione del missile fatale, una delle oltre 1.600 che eliminate mentre era con la «cloche» fra le mani. Quella utilizzata per pilotare, in chirurgiche missioni a distanza, decine e decine di droni, gli aerei senza pilota utilizzanti nella lotta al terrorismo e nelle guerre non convenzionali dall’amministrazione americana. Si chiama Brandon Bryant, 27enne ma già assai navigato membro dell’Air Force degli Stati Uniti, dal 2006 al 2011 pilota di «unmanned vehicle» che ha fatto volare sui cieli di Afghanistan e Iraq in missioni da cecchino dei cieli.
Come quella in cui, con la sua squadra, ha preso di mira su tre uomini che camminavano su una strada di un villaggio afghano. Dopo averli centrati in pieno, ne ha osservati gli ultimi istanti di agonia, grazie ai dispositivi di rilevazione di calore piazzati sul drone, un fiume di sangue in piena fino all’esalazione dell’ultimo respiro. «All’uomo che stava camminando avanti è stata trinciata una gamba, ho visto che perdeva sangue, il sangue è caldo e quindi viene rilevato dai sensori». Quando è morto il corpo è diventato freddo sino ad assumere sullo schermo di Brendon lo stesso colore «termico» del terreno intorno a lui. «Ogni volta che chiudo gli occhi posso rivedere ogni singola istantanea», racconta Bryant alla rete Nbc, a lui è stato diagnosticato il «post traumatic stress disorder», ovvero la patologia da stress psico-fisico che colpisce sempre più reduci.
Il suo è un curriculum importante, 19enne lascia il piccolo paese nativo del Montana per arruolarsi nell’Aeronautica militare. È il 2005, grazie alle sue doti viene scelto e addestrato per guidare i droni, la prima missione arriva l’anno successivo, dalla base Nellis Air Force vola sui cieli dell’Iraq. All’inizio le missioni sono di supporto logistico e copertura alle truppe di terra, ma col passare del tempo «Reaper» e «Predator» entrano in azione per eliminare i rivoltosi che piazzano gli «Ied» sul ciglio della strada. Gli ordigni rudimentali sono i nemici giurati delle truppe alleate, vengono nascosti sottoterra da jihadisti o taleban e fatti saltare in aria al passaggio dei convogli.
Bryant ha partecipato a centinaia di missioni di questo tipo, 1.626 le persone lasciate sul selciato prive di vita. «Non senti il rombo dei motori e la scia del missile, hai davanti un computer, ma il risultato è lo stesso», spiega alla tv tradendo emozione. Il dipartimento dei veterani ha certificato la sua «patologia bellica»: rabbia, insonnia, ansia e blackout mentale da alcolici. Tenta di spiegare che lui e si suoi uomini hanno sempre cercato di evitare vittime civili. «Ma come si fa a riconoscere un talebano da un innocente che impugna un Ak-47, in un Paese dove circolare armati è la norma? O come si fa a distinguere un uomo con la vanga in mano da un potenziale fiancheggiatore pronto a piazzare uno Ied?». Effetti perversi, e sempre meno collaterali, che rendono le guerre nuove convenzionali conflitti senza fine.

La Stampa 7.6.13
Bilancio della politica della repubblica popolare. Gli analisti: troppe diseguaglianze
La Cina di Xi, 100 giorni di delusioni
Il presidente tra riforme impossibili e economia che rallenta. Oggi il vertice con Obama
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 7.6.13
Un antenato di 55 milioni di anni fa cambia la nostra idea di evoluzione
Scoperto in Cina, anticipa la divisione tra uomini e scimmie
di Giovanni Caprara


Pesava appena 20-30 grammi e la taglia era quella di un topolino. Ma sono occorsi dieci anni per capire che si trattava del più antico di tutti primati scoperti, e di sette milioni di anni. Finora il record era legato al ritrovamento in Germania del Darwinius masillae.
Il fossile di 55 milioni di anni fa è stato rinvenuto sul fondo di un lago nella provincia di Hubei, nella Cina centrale, vicino all'attuale corso del fiume Yangtze. Il gruppo internazionale di paleontologi formato da scienziati cinesi, americani ed europei lo ha battezzato Archicebus achilles e sono state soprattutto caviglia e tallone a stabilire il grande valore del risultato. Le loro caratteristiche, infatti, dimostrano che nell'albero dell'evoluzione si trova molto vicino alla ramificazione che ha generato da una parte la famiglia del tarsio e dall'altra gli antropoidi, incluso l'uomo.
«È la prima volta che abbiamo una ragionevole immagine completa di un primate così vicino alla divergenza — spiega sulla rivista Nature Xijun Ni dell'Accademia delle scienze di Pechino e alla guida del team —. Questo ci aiuta a compiere un grande passo verso la decifrazione delle prime fasi dell'evoluzione dei primati e dell'uomo». Ciò aggiunge, inoltre, una prova a favore sulle origini degli stessi primati avvenuta in Asia invece che in Africa dopo l'estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa.
Finora non sono mai stati trovati fossili di primati così antichi in Africa e l'ipotesi è che dall'Asia sia partita un'evoluzione giunta poi a colonizzare il territorio africano nel quale 200 mila anni fa nasceva l'Homo sapiens. Ma sul luogo d'origine le idee sono ancora ben contrapposte.
Un tassello importante è, dunque, emerso del remoto passato della vita sulla Terra che all'epoca in cui esisteva Archicebus achilles (nella scelta del nome ha prevalso un riferimento alla cultura occidentale: Achille proprio per il tallone) i continenti erano più vicini all'Equatore e l'Europa era unita al Nordamerica e a una parte dell'Africa. La posizione favoriva un clima caldo, piogge abbondanti, un verde rigoglioso e diffuso sino ad arrivare, palme comprese, a quella che oggi è l'Alaska. L'Asia era invece separata e c'è l'evidenza che, 38 milioni di anni fa, alcuni primati abbiano affrontato le acque aperte arrivando in Africa.
Sugli alberi e al suolo saltellava e si arrampicava il minuscolo primate lungo neanche dieci centimetri e con una lunga coda. L'esame del suo scheletro lo faceva sembrare molto simile al tarsio ma in realtà appariva come un ibrido con i piedi di un piccolo primate non antropomorfo e braccia, gambe e denti di un primate primitivo. Sorprendentemente era però dotato di piccole cavità oculari al contrario del tarsio che le ha invece molto grandi.
Una creatura tanto minuscola con un metabolismo molto attivo — notano i paleontologi — doveva muoversi freneticamente di giorno al contrario del notturno tarsio da cui discende e che ancora vive nelle foreste del Sudest asiatico. Agilmente si arrampicava sugli alberi saltellando al suolo nell'aria umida e tropicale.
Un contributo importante per decifrare l'identità di Archicebus achilles lo hanno dato gli scienziati dell'European synchrotron radiation facility (Esrf) di Grenoble, in Francia. Il suo scheletro quando è passato da questo laboratorio europeo è «risuscitato» grazie a un'operazione di scannerizzazione e digitalizzazione che ha permesso di capire aspetti prima impossibili. Ciò grazie a immagini tridimensionali a elevata risoluzione attraverso le quali è stato anche possibile ricostruire elementi mancanti. «E, virtualmente parlando, — dice Paul Tafforeau che ha sviluppato il metodo applicato al centro europeo — lo abbiamo rimesso in piedi».
«Il fossile di Hubei è una magnifica scoperta — commenta il paleontologo Benedetto Sala dell'Università di Ferrara — ma credo che sia necessario approfondire numerosi aspetti di questo animale per comprendere se sia un tarsio che dà origine ai primati e se sia arrivato in Africa prima di essere un primate».
Intanto un altro prezioso anello mancante ha arricchito la catena delle prime e complicate tappe dell'affascinante storia dell'evoluzione.

l’Unità 7.6.13
Il cacciatore di pianeti
Dimitar Sasselov: «Il mio obiettivo? Cercare forme di vita fuori dal sistema solare»
«Gli oggetti cosmici simili alla Terra sono moltissimi. Abbiamo i telescopi, dunque un’ottima possibilità di trovare la vita»
di Pietro Greco


QUALCUNO LO HA DEFINITO UN «CACCIATORE DI PIANETI». LI CERCA FUORI DAL SISTEMA SOLARE, NATURALMENTE. Ha battuto anche un record: nel 2002 ha scovato il pianeta che allora era il più lontano mai rilevato da essere umano. Nato in Bulgaria, lavora alla Harvard University, negli Stati Uniti, dove dirige la Harvard Origins of Life Initiative, un progetto di ricerca sull’origine della vita. Si chiama Dimitar Sasselov e il suo più grande obiettivo è cercare forme di vita sui pianeti extrasolari. Ha appena pubblicato per Codice il libro: Un’altra Terra. La scoperta della vita come fenomeno planetario. E pochi giorni fa è stato al Wired Next Fest di Milano dove ha tenuto una conferenza dal titolo: «Alla ricerca dei nuovi mondi. Un viaggio tra astrofisica e biologia». Lo abbiamo intervistato.
Nel chiudere il suo libro su «Il caso e la necessità», il grande biologo francese Jacques Monod, ha scritto: «ora sappiamo di essere soli, nell’immensità indifferente del cosmo». Professor Sasselov, lei invece scruta il cosmo nella convinzione che la vita sia piuttosto diffusa. Su cosa fonda questa sua convinzione?
«Sono un ottimista. Io ci credo! Penso che non ci sentiremmo soli in un Universo dove più di un pianeta ospita forme di vita, anche quella vita dovesse essere microbica, con esseri viventi formati da una sola cellula. Sento che le probabilità sono a favore della presenza di esseri viventi su altri pianeti abitabili. Ma, naturalmente, finché non ne avremo una solida prova empirica, tutto quello che ho affermato è una mera questione di ottimismo».
Negli anni ’40 del secolo scorso un grande fisico teorico, Erwin Schödringer, scrisse un libro seminale dal titolo «Che cos’è la vita». Schrödringer si riferiva, evidentemente, alla vita presente sul pianeta Terra. Noi oggi abbiamo un’idea abbastanza precisa di cosa sia la vita e di come evolve nel tempo. Ma ci riferiamo sempre all’unico esempio conosciuto. Pensa che queste nostre conoscenze siano generalizzabili? Ovvero che dobbiamo cercare nell’universo forme sostanzialmente simili alla vita terrestre? Questo non vincola troppo la nostra ricerca?
«Il libro si Schrödringer è un classico, ma la risposta alla domanda “cos’è la vita” in fondo resta ancora elusiva. Noi davvero non sappiamo cos’è la vita, di conseguenza è più sicuro assumere che la prospettiva centrata sulla Terra potrebbe essere troppo limitata quando cerchiamo segni di vita nell’universo. Penso che in questa ricerca è cruciale procedure con una mente aperta».
«Professor Sasselov c’è un’analogia tra la nostra conoscenza della vita e la nostra conoscenza dell’universo. In entrambi i casi abbiamo solide teorie scientifiche sulla loro evoluzione – la teoria neodarwiniana per quanto riguarda la vita e il modello standard della cosmologia per quanto riguarda l’universo – ma non abbiamo ancora una teoria scientifica solida né sull’origine della vita né sull’origine dell’universo. Secondo lei perché? «Le questioni delle origini sono sempre molto diffìcile. In parte, perché sono questioni storiche ed è difficile studiare le precise condizioni del passato. In parte, perché sono questioni che riguardano l’emergenza di strutture e di ordine secondo regole che potrebbero essere state differenti dalle regole che determinano la loro evoluzione successiva e contemporanea. A rendere la faccenda ancora più difficile da districare c’è che in entrambi i casi, l’origine dell’universo e l’origine dell’universo, siamo limitati dal fatto siamo costretti a studia un caso singolo. Un caso unico».
Nel suo libro lei sostiene che la vita è un fenomeno planetario. Negli ultimi anni abbiamo scoperto molti pianeti extrasolari, alcuni dei quali sono simili alla Terra. Possiamo dedurne che nell’universo pianeti simili alla Terra sono molto diffusi. Ce ne sono miliardi e miliardi. Ma abbiamo concrete possibilità di verificare se c’è vita su questi pianeti? «Le scoperte di molti nuovi pianeti (chiamati esopianeti, perché orbitano intorno ad altre stelle) negli anni scorsi ha dimostrato che oggetti cosmici con temperatura, clima e altre caratteristiche simili a quelle della Terra sono molto più comuni di quanto noi potessimo persino sperare solo pochi anni fa. Questi pianeti sono potenzialmente abitabili, sebbene noi sappiamo così poco sull’origine della vita, né che abbiamo la minima idea se qualcuno di loro sia effettivamente abitato. Ma il fatto che questi pianeti siano oggetti comuni nell’universo è una grande notizia, perché significa che molti esopianeti abitabili orbitano intorno alle stelle a noi più vicine. E noi abbiamo i telescopi e le tecnologie per cercare la vita su di loro da lontano. Cosicché abbiamo un’ottima possibilità di trovarla!» Ma la vita, magari diversa da quella presente sulla Terra, potrebbe essere un fenomeno non solo planetario. In quali altre condizioni cosmiche potrebbe presentarsi?
«La superficie dei pianeti deve avere un intervallo di temperatura tale da consentire la presenza di acqua, o di un solvente simile, che sia allo stato liquido, almeno a volte. Generalmente ciò richiede la presenza di un’atmosfera. Quindi un grosso pianeta roccioso – come la Terra o anche più grande – è meglio. Ecco la situazione migliore è quella di una super-Terra. Oltre queste condizioni fondamentali, noi davvero non sappiamo altro. Ecco, ora questo è un nuovo settore di ricerca scientifica».
L’italiano Enrico Fermi era scettico sulla possibilità che esista una vita intelligente fuori dalla Terra. E ha espresso questa convinzione con una famosa domanda: «E allora, perché non sono qui?». In effetti da almeno mezzo secolo il progetto SETI (Search for extraterrestrial intelligence) sta scrutando il cielo alla ricerca di tracce di vita intelligente. Finora senza apparenti risultati. Lei pensa che esistano altre forme di vita intelligente nell’universo? E se sì, perché non l’abbiamo intercettata?
«Il problema posta da Enrico Fermi, e il paradosso che ha proposto, sono davvero affascinanti. Sono anche tra quelli più difficili che l’umanità abbia mai preso in considerazione, insieme ai due problemi dell’origine: quello della vita e quello della coscienza (e dell’intelligenza tecnologica). La combinazione può indurti allo scetticismo! Potrebbe essere che la vita è relativamente comune, ma che le forme di vita intelligente ha bisogno di miliardi di anni per svilupparsi. Sulla Terra sono stati necessari 4.000 milioni di anni: noi non sappiamo, tuttavia, se questo tempo è una media o se è un tempo breve. Ciò non toglie che si tratta di un tempo profondo, lungo. La nostra galassia, con tutte le sue stelle, ha un’età inferiore a 13.000 milioni di anni: le stelle che hanno accumulato abbastanza elementi pesanti da generare pianeti rocciosi sono anche più giovani. Cosicché penso che il paradosso di Fermi e il mancato incontro con di ETI, della vita intelligente, potrebbe essere solo una questione di tempo: noi potremmo essere la Generazione I».
Trovare vita fuori dalla Terra sarebbe una delle più grandi scoperte mai realizzate dall’uomo, se non la più grande in assoluto. Sarebbe la riprova di una sorta di principio copernicano perfetto. Sapremmo di essere un esperimento qualsiasi in un punto qualsiasi dello spazio e del tempo. Come pensa reagirebbe l’opinione pubblica dopo millenni in cui ci siamo consolati credendo di essere il centro dell’universo?
«Potrebbe essere la scoperta più importante, perché è fondamentale sia per la scienza e la comprensione del mondo, così come per definire chi siamo noi. Quest’ultimo aspetto è una percezione profondamente personale poiché è relativa al nostro quadro di riferimento. Qualcuno potrebbe avvertire come una sensazione di perdita».

l’Unità 7.6.13
Heidegger e Arent sul grande schermo
Memoria e oblio: il romanzo di Martino Gozzi ci racconta l’impresa folle di uno sceneggiatore che vuole girare un film sulla storia d’amore tra due grandi personaggi
di Paolo Di Paolo


IL PASSATO È OSTILE: SI OPPONE ALLA NOSTRA VOLONTÀ DI COMPRENDERLO, DI RICOMPORLO. Ci s’immerge in esso se è remoto armati degli strumenti più sottili e ottimistici, ma non basta. Anche il più attrezzato degli storici deve arrendersi all’idea che la sua indagine sarà tutto sommato un fallimento.
Lo spessore dell’oblio, l’opacità dei gesti, dei pensieri tutto è infinitamente ostile alla luce che proviamo, da qui, a gettare su un evento lontano. Così lo sceneggiatore Ernesto Lizza, nel tentativo di mettere in piedi un film sull’amore fra Hannah Arendt e Martin Heidegger, scopre nonostante la quantità di fonti che ha a disposizione di non sapere nulla. Di non poter capire nulla. «Sentiva che i veri problemi della sceneggiatura erano radicati molto più in profondità», «non erano di sintassi e neppure di struttura». È come se il passato quella specifica zona del passato si rifiutasse alla sua volontà di comprensione. «Perché Hannah Arendt aveva teso la mano a Martin Heidegger?»: perché, in sostanza, la geniale intellettuale ebrea, dopo anni di lontananza dovuti alle persecuzioni antisemite, si riavvicina al grande filosofo che aveva aderito al nazismo? «Che cosa mancava?» si chiede Lizza riflettendo sulla sceneggiatura. «La storia che aveva raccontato era in bianco e nero: prima c’era la passione, poi la rottura e infine il riavvicinamento, dopo quasi vent’anni di silenzio. Ma nessun sentimento era puro come l’alcol (...). La rabbia era sempre mescolata all’affetto. L’amore alla paura. Il rancore all’attaccamento. La delusione al rimpianto. I sentimenti erano grumi di materie impure e impossibili da separare».
Ernesto Lizza arriva a tale constatazione per una via personale, intima. Il confronto con un nonno novantenne, Ettore un confronto imprevisto e acceso che riguarda una figura misteriosa, Mario Barcellona: ex partigiano e militante politico, coetaneo di Ettore e più tardi amico di suo figlio Ferruccio, che nel frattempo è morto di tumore. Ernesto chiede lumi a suo nonno, e scopre che fu la presenza di Mario a scavare per ragioni di militanza politica un fossato fra Ettore e Ferruccio. Così come ha investigato il rapporto fra Arendt e Heidegger, adesso Ernesto vuole investigare questo oscuro passato familiare. È altrettanto difficile: intraprende un viaggio verso la Germania sulle tracce dei protagonisti della sceneggiatura, ma in realtà cerca Mario Barcellona, che da decenni è emigrato. Si trova davanti un uomo vecchio dalla memoria ormai molto fragile, quasi polverizzata, inattendibile. Questo viaggio e il confronto con il nonno fanno deflagrare le poche certezze che Ernesto ha sul proprio lavoro: comincia perfino a chiedersi se abbia senso, raccontare quella storia d’amore lontana. In una lettera di Arendt al suo maestro Heidegger, aveva letto questa frase: «Mi presento a te con l’antico senso di sicurezza e l’antica richiesta: non dimenticarmi».
Così Martino Gozzi, con Mille volte mi ha portato sulle spalle, ha scritto un romanzo sul rapporto fra memoria e oblio, che non è mai assoluto questo Ernesto è costretto a verificare, anche con dolore ma sempre «relativo» alla nostra capacità di dimenticare, all’ostinazione di non dimenticare; all’oblio dei singoli e delle collettività, che cancella o imprevedibilmente salva; alla memoria, alla somma dei ricordi nostri e del mondo, sempre così malcerta, fragile, esposta al nostro stesso tradirla. Con tono lieve, il trentenne Gozzi si confronta con temi radicali del Novecento: lo fa da dopo, da un presente (privato e pubblico) grigio e smorto, in cui il passato sembra la cosa più viva, perfino la più vitale.
Mille volte mi hai portato sulle spalle, di Martino Gozzi,  pagine 157 euro Feltrinelli

Repubblica 7.6.13
Se per trovare dio bisogna rinnegarlo
“Oltre il cristianesimo”, il saggio sulla mistica di Marco Vannini
di Roberto Esposito


Come i pittori di talento dipingono sempre lo stesso quadro, allo stesso modo i veri autori scrivono sempre lo stesso libro, arricchito di nuovi riferimenti e argomentazioni. Ma raccolto comunque intorno al cuore del problema da cui lo scrittore trae ispirazione ed energia creativa. È quanto si può dire accada a Marco Vannini, di cui Bompiani ha appena pubblicato Oltre il cristianesimo. Da Eckhart a Le Saux.
In esso egli riprende il tema di fondo dei libri precedenti — l’opposizione tra mistica e teologia — spingendolo a un grado di profondità e di radicalità ancora maggiore. Quello che in essi era una direzione possibile, diventa qui l’esito di un percorso compiuto. Il suo sguardo, da tempo volto alle grandi questioni della mistica, nella loro tensione con l’orizzonte cristiano, si sposta adesso oltre di questo. E anzi oltre il linguaggio dei tre monoteismi, in un viaggio senza argini verso la concezione induista e buddista.
Ad accompagnare l’autore in questo esodo verso Oriente è il monaco benedettino francese Henri Le Saux che, arrivato in India, non ne è mai tornato, penetrando nell’anima profonda della spiritualità hindu, senza smettere di sentirsi cristiano. Come risulta dal suo Diario, il suo incontro con il saggio Ramana Maharshi lo ha segnato in maniera indelebile, convincendolo della superiorità spirituale delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana. Ma ciò non in contrasto con l’originario messaggio evangelico — almeno prima che fosse “normalizzato” nella dottrina elaborata da San Paolo — bensì in continuità con esso. Come aveva sostenuto Simone Weil, sia la Sinagoga che la Chiesa hanno tradito il senso più riposto della parola di Cristo, ingabbiandola nel canone teologico, cui Vannini contrappone la dimensione mistica. Per fissare il punto in cui quest’ultima confluisce nel doppio alveo induista e buddista, Vannini ripercorre originalmente la via tracciata da Ananda K. Coomaraswamy nel suo libro Induismo e buddismo (Rusconi). La porta d’ingresso, per entrambi, è costituita dall’opera del grande mistico medioevale Meister Eckhart, situato all’origine di una tradizione che comprende non soltanto autori di ispirazione spirituale quali Margherita Porete, Giovanni della Croce o Fénelon, ma anche filosofi irreligiosi e perfino atei come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche. Cosa è che li collega, per nella assoluta distanza? Qual è il punto di raccordo, e certo di tensione, tra mistica e ateismo nel comune contrasto con il lessico teologico-politico del pensiero cristiano? La figura decisiva di questo problematico nesso, intorno alla quale ruota l’intera ricerca di Vannini, è rappresentata dal distacco. Solo distaccandosi da se stesso, l’uomo può aprire lo spazio vuoto entro il quale accogliere Dio, fino a fare tutt’uno con lui. Naturalmente ciò prevede una doppia decostruzione della metafisica, insieme greca ed ebraico-cristiana: da un lato la rinuncia all’amor proprio, coincidente con il primato della volontà personale sull’intelletto universale, dall’altro il rifiuto della concezione mitica di Dio come soggetto creatore. In tal modo si rompe la macchina teologica, ma anche politica, del dualismo che fa di Dio null’altro che la proiezione oggettiva di quel che l’uomo presume di sé e si rende possibile il riconoscimento estatico dell’unità del Tutto. Ogni tipo di beatitudine, pensata in Occidente come in Oriente, riproduce, in forma varia, questo passaggio che identifica soggetto e sostanza, avere ed essere, umanità e divinità. Da Giovanni Taulero a Niccolò Cusano, da Sebastian Franck ad Angelus Silesius, la mistica occidentale perviene a toccare i confini del discorso teologico, eccedendolo nel suo spazio esterno. Se Bruno e Spinoza già rompono il linguaggio della persona a favore di un universo integrato in cui ogni individuo è parte di un tutto che lo comprende, è Nietzsche a compiere il passo ultimo: abbandonare quanto ha di più prezioso, per l’uomo, significa abbandonare anche la sua idea di Dio — «Perciò — conclude Eckhart — prego Dio che mi liberi da Dio». Solo nella sua assenza Dio può mostrarsi senza indossare la maschera dell’idolo. E solo così il fondo dell’anima può identificarsi con il fondo di Dio. È il punto estremo in cui l’assoluta trascendenza viene a coincidere con l’assoluta immanenza — l’essere, umano e divino, non è altro da una vita infinita che non conosce soglie, disuguaglianze, gerarchie. Pura luce in cui la conoscenza non è diversa dal tutto che conosce e in cui la parola, non potendo definire nulla di delimitato, sfuma nel silenzio. Da qui il passaggio, per Vannini possibile e necessario, dal nucleo inespresso del Cristianesimo all’Induismo e al Buddismo, a loro volta collegati nel distacco dal proprium e nel ricongiungimento con l’unità divina. Naturalmente è possibile criticare la posizione di Vannini come sincretistica, gnostica e contraddittoria. La massima religiosità appare, in essa, pericolosamente vicina alla massima bestemmia. Ma la sua forza sta proprio nell’assumere e far propria questa contraddizione. Sostenerla in tutta la sua asperità è, per l’autore, l’unico modo di essere religiosi nell’era postreligiosa. O di essere cristiani oltre il cristianesimo.

IL LIBRO Oltre il cristianesimo di Marco Vannini (Bompiani pagg. 320 euro 14)

Repubblica 7.6.13
A Venezia
Una task force Italia/Usa per analizzare Pollock


VENEZIA — Undici opere di Jackson Pollock, conservate alla Collezione Peggy Guggenheim, saranno sottoposte ad approfondite indagini scientifiche. E’ la prima volta al mondo che un numero così nutrito di opere di Pollock diventa oggetto di una ricerca fatta apposta per capirne lo “stato di salute”, così da stabilire un eventuale intervento conservativo. Dalla settimana prossima infatti un team internazionale di esperti sarà a Venezia per partecipare al progetto di ricerca coordinato da Luciano Pensabene Buemi, conservatore della Collezione Guggenheim, e da Carol Stringari, conservatore capo del Guggenheim Museum di New York. Tra i partecipanti alla ricerca ci sono tra gli altri l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il Cnr. Al lavoro anche i tecnici del laboratorio mobile Molab e del laboratorio di diagnostica di Spoleto.