mercoledì 29 maggio 2013

«Nel Manifesto che presenterà il 30 maggio al teatro dell’Eliseo per la rivista
Left, Salvatore Settis ne sottolinea la forza: un numero crescente di cittadini si associa dissociandosi, impegnandosi civilmente in modi diversi e inediti»
Repubblica 29.5.13
Quel Paese deluso
di Barbara Spinelli


Come quella che a Bologna ha organizzato e vinto un referendum consultivo sullo Stato troppo avaro con le disastrate scuole materne comunali, troppo prodigo con quelle private: scarsa è stata l’affluenza, ma non la cocciuta grinta dei referendari. I cittadini fuggono i comizi ma intanto le piazze s’affollano di italiani pronti a salutare don Gallo, o padre Puglisi ucciso dalla mafia nel ’93. Due persone mitiche, amate perché politicamente eterodosse.
Lo Stato, la politica, i cittadini: il triangolo resta malato, corrotto, e se c’è chi si rallegra per la tenuta del Pd e la caduta di 5Stelle vuol dire che ha un rapporto storto con la verità. Il triangolo suscita non solo disgusto, ma voglia di altra politica. Nello Stato e nella politica gli elettori credono sempre meno. Sono anche delusi da Grillo, dall’assenza di leader locali forti, ma non smettono il desiderio di partecipare, anche usando la lama dell’astensione. Sono impolitici? Sì, se la politica si esaurisce tutta nei partiti. Se Ignazio Marino ha successo a Roma è perché nel Pd è un eretico: voleva Rodotà presidente della Repubblica, e non ha votato la fiducia alle larghe intese prescritte dal partito. Infine è un laico, mentre il Pd non lo è.
È come se davanti al nostro sguardo scorresse un film che narra più eventi paralleli, e però ha un unico titolo. Narra uno Stato di cui si diffida, perché predato da potenze che il cittadino non controlla: potenze che sprezzano lo Stato imparziale, laico, e se possibile se ne appropriano. È significativo che il Movimento 5Stelle vacilli, sospettato di non aver mantenuto le promesse. Ma è significativa anche la scarsa tenuta del Pdl, guidato da nonstatisti. Lo stesso Stato, non dimentichiamolo, è da lunedì sotto accusa al tribunale di Palermo per aver vissuto (per vivere tuttora, probabilmente) all’ombra di patti con la mafia, stretti in concomitanza con le stragi del ’92-93 con la scusa che solo destabilizzando fosse possibile stabilizzare l’Italia. Lo Stato è infine giudicato infedele alla Costituzione nel referendum bolognese.
Se guardiamo le tre cose insieme (elezioni, referendum di Bologna, processo di Palermo), il Partito democratico ha poco da festeggiare, e molto da rimproverarsi. È pur sempre il partito che dopo il voto di febbraio ha fatto abiura. Che ha mobilitato 101 traditori per affossare Prodi, ingraziarsi Berlusconi, confermare un Presidente favorevole alle larghe intese. Localmente il Pd ha apparati ferrei: ma apparati benpensanti più che pensanti, timorosi d’apparire di sinistra. A Bologna non ha saputo ascoltare chi difende la scuola pubblica, minacciata mortalmente in tempi di penuria. Di fronte ai processi di Palermo è afasico, avendo avallato l’isolamento delle procure per anni. Non è di sinistra la smemoratezza che regna sui patti con la mafia, avvenuti anche quando lo Stato era retto da politici «amici». Quando Veltroni denuncia i «pezzi di Stato» compromessi nelle stragi mafiose, mai ammette che pezzi del Pd hanno forse tollerato lo scempio.
Né può dirsi di sinistra la difesa delle scuole private dell’infanzia (il 99 per cento cattoliche) che, almeno a Bologna, hanno ricevuto dallo Stato finanziamenti sproporzionati, senza rapporto alcuno con il costo della vita. Una sovvenzione che negli ultimi 15 anni si è più che triplicata, mentre tantissimi genitori si trovavano nell’impossibilità di iscrivere i figli alle scuole comunali o statali gratuite, neglette dallo Stato, e costretti a optare per scuole private a pagamento di cui non condividevano l’impostazione religiosa.
Dice Daniel Cohn-Bendit in un’intervista al quotidiano online Lettera 43 che i partiti vanno trasformati radicalmente – se non soppressi come scriveva nell’immediato dopoguerra Simone Weil – e sostituiti da cooperative, da «spazi di dibattito politico dove la gente possa discutere di questioni ambientali, sociali, culturali». Perché le persone «vogliono oggi vivere, non offrire la propria vita al partito». Perché hanno l’impressione che dibattere serva a creare nuove realtà, ma a condizione di svolgersi «fuori dalle strutture della politica», e mutando il concetto di militanza.
Nella sostanza, pur diffidando di Grillo, è la democrazia deliberativa di 5Stelle che Cohn-Bendit propone: affiancando (ma non distruggendo) quella rappresentativa, rovinata da partiti «più interessati alla cucina interna che a risolvere i problemi ». Non si tratta di
mandare tutti a casa («Non c’è nulla di più autoritario che questa concezione». Si potrebbe aggiungere: nulla di più impraticabile). Grillo non è riuscito né a deliberare né a rappresentare, con il risultato che i suoi elettori si sono in gran parte ritirati nelle terre selvagge dell’astensione. Voleva essere una diga contro i flussi incontrollati del disgusto, ma di questo disgusto ha sottovalutato l’impazienza, la voglia di risultati concreti: compreso il risultato di un governo di cambiamento, presieduto da persone non partitiche, che per calcoli tattici Grillo mancò di proporre a Napolitano.
Ciononostante le associazioni cittadine sopravvivono, ed è rivelatore che molte assumano nomi di articoli costituzionali. Per esempio il Comitato articolo 33, promotore del referendum bolognese: l’articolo garantisce scuole statali gratuite, e istituti privati «senza oneri per lo Stato». O il sito articolo 21, che si appella alla libertà di stampa nelle battaglie antimafia. Da tempo la bussola dell’associazionismo è la nostra Carta, non i programmi partitici.
Sono iniziative sparse, spesso misconosciute. Ma sono accanite, non mollano. Nel Manifesto che presenterà il 30 maggio al teatro dell’Eliseo per la rivista Left, Salvatore Settis ne sottolinea la forza: un numero crescente di cittadini si associa dissociandosi, impegnandosi civilmente in modi diversi e inediti: sfiduciando lo Stato com’è fatto e rifugiandosi nell’astensione; militando in M5S; creando piccoli club di scopo volutamente antipartitici (ambiente, salute, giustizia, democrazia). Non meno di 5-8 milioni di cittadini si associano così. «Queste forme di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo».
Non stupisce che Stefano Rodotà, sostenitore del Diritto di avere diritti per far fronte a poteri oligarchici sempre più endogamici e chiusi, sia divenuto per gli associati-dissociati un punto di riferimento. Nello stesso giorno in cui i candidati alle municipali parlavano in piazze vuote, sabato scorso, 80 mila persone affluivano a Palermo per la beatificazione di don Puglisi, e a Genova erano in più di 6000 a salutare Don Gallo. Lo storico Marco Revelli ne deduce: «Il Paese è sano. È la politica a essere ormai un ectoplasma, tenuto in vita solo dalla spartizione di poltrone».
Don Puglisi, le folle l’hanno onorato con la canzone, scritta da Fabrizio Moro sull’uccisione di Borsellino, che s’intitola «Pensa». Proprio quello che i partiti hanno disimparato, specie a sinistra: pensare che « ..ci sono stati uomini che hanno continuato nonostante intorno fosse tutto bruciato. Perché in fondo questa vita non ha significato, se hai paura di una bomba o di un fucile puntato». Non pensa, chi sopporta uno Stato che finge di scordare i patti stretti con la mafia, e dunque è pronto a ripeterli. Non pensa, un Pd comandato da 101 persone pronte a tradire l’elettore, e a intendersi con un avversario descritto fino al giorno prima come giaguaro da neutralizzare e bandire.

Senza avventurarsi in confronti di percentuali su quale formazione abbia perso più voti, quello che ci preme è far notare come sia preoccupante il quasi univoco occultamento mediatico della realtà del fatto che il Partito democratico abbia subito un crollo drammatico dei propri consensi elettorali che ha superato a Roma il 40%!
Questa è la realtà, e non viene detta: evidentemente in funzione del fatto che il governo Berlusconi-Letta deve essere difeso a tutti i costi.
Mente Epifani che dichiara sull’Unità “La scelta del Pd di «assumersi la responsabilità di dare con il governo una funzione di servizio verso i problemi del Paese» è stata «premiata»”. Mente Letta, che ripete le stesse cose. Mente - e ci dispiace molto - oggi Spataro sempre sull’Unità, che scrive: “gli elettori ... hanno capito, premiando il Pd ma non il Pdl,   che non ci sono né governissimi né grandi coalizioni in campo, ma solo una scelta di responsabilità nazionale dettata dall’emergenza. Se fosse vero il contrario il Pd sarebbe stato punito perché gli elettori di centrosinistra il governo con Berlusconi in quella versione «strategica» non lo accetterebbero mai”. La realtà è che il Pd non è stato affatto “premiato” ma - appunto, proprio - “punito” dai suoi elettori delle politiche di febbraio che gli hanno rifiutato di ripetere la fiducia che avevano espresso solo tre mesi fa in un numero  impressionante. Mentono tutti coloro che nel Pd e fuori di esso affermano che il voto confermerebbe il consenso al governo. Non è affatto vero: il risultato del voto ha invece rifiutato di dare fiducia, e in misura molto vistosa e appunto drammatica, a chi a quel governo partecipa o sostiene. Che la destra e tanta stampa mentano non ci stupisce affatto, che lo faccia il Pd, invece, ci preoccupa molto.
Rimandiamo a quanto scrive Beppe Civati, dirigente Pd non allineato, sul proprio qui:http://www.ciwati.it/

La Stampa 29.5.13
Marcello Sorgi: “Pd e Pdl, pur trovandosi in condizioni diverse (il centrosinistra è avanti dappertutto), hanno poco da festeggiare. In fin dei conti, i voti perduti sia rispetto alle amministrative del 2008 che alle politiche del 24 febbraio, si contano a milioni. Nella sola Roma, oltre quattrocentomila”.

il Fatto 29.5.13
Maggioranza. Il confronto dei dati di lunedì con le elezioni politiche dà un risultato impietoso
Che bello, ho perso solo 243 mila voti
Vincere perdendo è la grande novità delle Amministrative 2013. Succede al Pd, che rispetto alle Comunali del 2008 ha visto sparire 291 mila voti, il 41%. Dato che peggiora sulle Politiche di febbraio: meno 243 mila, il 38% delle schede ottenute da Bersani
Nei capoluoghi il Pd smarrisce il 38% dei consensi in tre mesi, ma canta vittoria
di Chiara Paolin


Vincere perdendo è la grande novità delle amministrative 2013. Succede al Pd, che rispetto alle Comunali del 2008 ha visto sparire 295 mila voti, cioè il 43% del suo elettorato. Un dato che fa il paio con le politiche dello scorso febbraio nei 16 comuni capoluogo andati alle urne: meno 243 mila voti, bruciato il 38% delle schede ottenute da Bersani.
Molto ma molto peggio va nel Pdl. Dissolti 458 mila voti rispetto alle gloriose elezioni 2008 (con un 65% di delusi) e 163 mila rispetto alle urne di febbraio 2013, sempre sul campione dei capoluoghi. Tracollo infine per la Lega Nord, che ha perso la metà del consenso in cinque anni, e percentuali da sballo per le formazioni di destra mentre in controtendenza stanno le formazioni di sinistra (Sel, Rc, Arcobaleno).
Tutte le analisi sul voto si precipitano a spiegare l’origine di questi numeri da tregenda. Innanzitutto l’anno 2008 è un termine di paragone imperfetto: lì le elezioni comunali erano associate alle politiche, peraltro molto accese, e perciò più partecipate. Se il paragone si fa tra i risultati di oggi e quelli delle consultazioni amministrative successive al 2008, cioè i Comuni andati a votare tra il 2009 e il 2012, il calo della partecipazione si attenua con gradualità. Spiega il Cise, centro studi elettorali della università Luiss: “Considerando i 16 comuni capoluogo al voto, l’affluenza è stata del 56,2%, con una perdita di 19,2 punti rispetto alla tornata precedente. Anche allargando lo sguardo fino a comprendere l’insieme dei 92 comuni superiori ai 15.000 abitanti la sostanza non cambia: 60,5% di affluenza e un calo di 16,2 punti. Alle amministrative dell’anno scorso, nei 26 comuni capoluogo al voto la diminuzione dell’affluenza fu esattamente la stessa dello scorso weekend (8,2 punti) e la partecipazione complessiva fu del 63,5%. Andando ancora più indietro, nella tornata amministrativa del 2011 (quella che coinvolgeva città come Milano, Napoli e altri 21 capoluoghi), la partecipazione fu del 65,3%”. Dunque il calo ha colpito l’Italia dei partiti con le cifre più drammatiche (meno 20 per cento a Roma, meno 24 a Pisa, meno 19 a Sondrio) solo guardando parecchio indietro. Ma la colpa dei brutti risultati dipende soprattutto dalla voragine romana: la capitale ha segnato il record negativo dell’affluenza con il 52,8 per cento, un valore pesante da reggere sull’intero corpo votante e che ha punito severamente sia il Pd che il Pdl. “Il dato dell’astensione resta l’elemento principe in questa tornata - conferma Gianluca Passarelli, ricercatore dell’Istituro Cattaneo -. Una disaffezione che ha incanalato una serie di elementi diversi: la stanchezza generale verso i partiti, le urne così ravvicinate tra politiche, regionali e comunali, la delusione per Grillo che in questi primi mesi di attività parlamentare s’è dimostrato poco duttile. Mettiamoci pure un governo di larghe intese che di sicuro non spinge gli elettori a esprimersi con decisione, ed ecco il risultato di queste ore”.
L’istituto ha cercato di capire in dettaglio come si siano mossi i flussi analizzando quattro città campione (Bar-letta, Treviso, Brescia e Ancona): anche in provincia vincono astensione e ritorno alle origini. Una delusione cui non scampa il Movimento 5 Stelle, che pur migliorando la performance sul territorio rispetto alle primissime apparizioni, perde 415mila voti guardando alle politiche (sempre nei 16 comuni capoluogo). E svuota ulteriormente il bacino elettorale: “Di certo una parte degli elettori un tempo Pd s’erano trasferiti nel Movimento ma hanno deciso stavolta di disertare il voto, oppure di rientrare nel Pd - continua Passarelli -. Ora immaginare che cosa accadrà al ballottaggio è difficile, ma di certo conterà molto l’elemento locale: un conto è dare il proprio voto di protesta a Grillo per il parlamento, il palazzo del potere, Roma lontana; altro discorso è scegliere la persona che amministra il tuo comune, il tuo quartiere, le decisioni più spicce ma più rilevanti nella vita quotidiana”.

La Stampa 29.5.13
Alemanno all’attacco. Ma Marino incassa il sostegno di Rodotà
Il sindaco di Roma cerca la rimonta come nel 2008 anche se il distacco con lo sfidante pare incolmabile
di Fabio Martini


I suoi tifosi lo stanno aspettando dentro al teatro Capranica, il professor Marino si avvicina camminando in mezzo alla strada e quando vede la piccola coda di auto che si è formata dietro di lui, dice sorridendo: «Un sindaco non deve mai bloccare il traffico! » Ignazio Marino, sia pure tra sé e sé, si definisce già sindaco, una innocente battuta che un professionista della politica mai si sarebbe concesso. Ha qualcosa del «marziano a Roma» il professor Marino, da 48 ore il grande favorito nella conquista del Campidoglio: in tutti i suoi interventi pubblici, anche ieri lo ha fatto, continua senza sosta a parlare di «merito» e di «competenza» nella città delle spintarelle e del più esteso apparato pubblico e parapubblico dell’Occidente; prima ancora di sapere se sarà eletto sindaco, al buio si è dimesso da senatore e dalla relativa indennità, una modalità senza precedenti della storia patria. E soprattutto, in una città nella quale permane un consistente tasso di consociativismo politico e sociale, pare non abbia fatto nulla per incontrarsi a tu per tu con la personalità più forte, non solo economicamente, della città: l’ingegner Francesco Gaetano Caltagirone.
Al primo turno il professor Marino ha conquistato 512.720 voti, con una percentuale del 42,61 e dunque ha consistente vantaggio sul sindaco uscente Gianni Alemanno che di voti ne ha avuti 364.337, con una percentuale del 30,28. Dunque Marino ha preso 148.393 voti in più, pari a 12 punti percentuali. Distacco incolmabile? I precedenti sono controversi. Non molti anni fa, cinque, Gianni Alemanno (soccombente al primo turno di cinque punti rispetto al suo sfidante Rutelli) ne conquistò centomila al secondo turno, scavalcò il suo avversario e diventò sindaco di Roma. Exploit ripetibile? I risultati elettorali definitivi hanno svelato un dato inatteso: Alemanno ha preso lo stesso numero di voti ottenuti dal centrodestra alle Politiche di tre mesi fa, quasi che quello sia il fondo del barile. Al quartier generale del sindaco sperano non sia così e già ieri mattina, con una velocità sbalorditiva, l’opulenta macchina da guerra del sindaco aveva riempito tabelloni con un manifesto dal testo eloquente: «Vince chi vota». E contemporaneamente su Facebook, Alemanno ribadiva il concetto: «Il sindaco di Roma non può essere eletto da una ristretta minoranza nell’indifferenza generale».
Al Pd sono convinti che Alemanno non si limiterà a vellicare l’orgoglio “partecipazionista” e che nelle prossime ore scatterà qualche abile provocazione politica per far inciampare il professore. Ma Goffredo Bettini, da 20 anni il regista di tutte le battaglie della sinistra romana, ha le idee chiare: «Il 70 per cento dei romani votanti ha detto di non volere più Alemanno e Marino è l’interprete più accreditato per intercettare la maggior parte di quel malessere. È come andare fuori strada in un deserto: è impossibile. Anche perché Marino appare come un irregolare, è libero». Dunque al Pd non si aspettano endorsement plateali da parte di Beppe Grillo o di Alfio Marchini. Molto gradita, attesa e confidata come certa è invece la dichiarazione di voto di un personaggio che di questi tempi “va” molto a sinistra: Stefano Rodotà. Per il Qurinale Marino aveva votato per lui.

La Stampa 29.5.13
“Il centrosinistra vince se ha volti nuovi e forti”
I sondaggisti: «Il caso Marino e la Serracchiani lo dimostrano»
di Raffaello Masci


Che a Roma sarebbe andata così - dicono i sondaggisti - era abbastanza chiaro, almeno per quanto riguarda i rapporti di forza tra i tre principali candidati. I flussi di voto dicono anche che Marino è fortemente favorito per il secondo turno, ma la partita è aperta. Anche se i sondaggi non possono essere diffusi, abbiamo vagliato umori di tre illustri guru del settore: Nicola Piepoli, Antonio Noto di Ipr Marketing e Roberto Weber di Swg.
Per quanto riguarda il passato, sia Weber che Piepoli confermano che il dato elettorale corrisponde alle rilevazioni dell’ultima ora: una città che percepiva un senso di decadimento generale della qualità dei servizi, alcuni scandali locali e regionali che mettevano in cattiva luce una certa classe dirigente, e poi la grande disillusione per la politica che a Roma si viveva in maniera perfino amplificata, data la contiguità fisica coi Palazzi del potere. Da qui il vantaggio per lo sfidante Marino e, soprattutto, la rilevazione della vasta zona d’ombra dell’astensione amara.
E adesso? «Secondo i nostri dati - dice Nicola Piepoli - l’inconscio collettivo ha già scelto e Ignazio Marino dovrebbe essere il prossimo sindaco di Roma con il 57-58% dei voti». Ma la situazione è magmatica, perché il bacino da cui trarre il consenso è vastissimo e per oltre la metà è senza una bandiera, «per cui aggiunge Antonio Noto - tutto è possibile. Ciò detto il sindaco uscente è in forti difficoltà, perché ha raccolto il voto politicamente orientato ma non è andato oltre». La possibilità di rimonta appare problematica, intorno al 15-20%.
Ignazio Marino, invece, deve consolidare i voti ricevuti «e gli basterebbe - secondo Piepoli un 7,5% di consensi per vincere, cioè, in numeri assoluti 100 mila voti: pochi rispetto alla grande base elettorale». Ed è soprattutto all’elettorato di Alfio Marchini che il chirurgo dovrebbe rivolgersi, perché è quello a lui più affine: moderato sì, ma tendenzialmente di sinistra, borghese ma progressista. Non sembra probabile, invece, secondo Noto, che il centrosinistra possa sfondare le linee dei Cinque Stelle «dato che i delusi di quel movimento non sono andati a votare. E se sono delusi da Grillo figurarsi da un “partito tradizionale” come il Pd, e quindi anche dal candidato che ne è bandiera».
Molto più difficile è la strada per Alemanno: «Se si eccettua il caso di Berlusconi - dice Weber il centrodestra ha ovunque una grave crisi di progetti ma soprattutto di uomini. E quindi Alemanno, che ha preso tutto il voto orientato a destra, ha molta più difficoltà ad emergere rispetto al suo avversario. La strategia di puntare su personalità forti e nuove che ha attuato il centrosinistra, ha dato buoni risultati ovunque - basti pensare al caso della Serracchiani che in Friuli ha preso il 25% in più della sua lista - ma il centrodestra non ha un personale politico tale da smuovere un elettorato che non sia il suo». Tuttavia - dice Piepoli - la battaglia di Alemanno non è affatto da considerarsi chiusa: «Ha detto che ricomincerà tutto da capo e che la campagna comincia ora. Mi sembra bene. Ma deve puntare su cose concrete: metropolitane, strade, raccolta differenziata. Lasci perdere destra e sinistra».

Corriere 29.5.13
Rutelli: il chirurgo ha preso solo 500 mila «sì»

Per Roma ci vorrà il modello delle larghe intese
“Possono essere invitate a partecipare anche forze moderate di centrodestra”
di Daria Gorodisky


ROMA — «Non si può governare Roma con un consenso risicato, serve un coinvolgimento ampio. Questa non è una città gestibile con l'ordinaria amministrazione perché, dopo essere stata guidata per 5 anni da personale inadeguato e fazioso, deve affrontare molte emergenze, grandi sfide». Francesco Rutelli ha lunga e variegata esperienza politica: Radicali, Verdi, Margherita, Pd; e poi Alleanza per l'Italia, quella sua creatura che si è alleata una volta con Fini e un'altra con il centrosinistra. A Roma ha votato per Alfio Marchini. Rutelli è stato due volte sindaco della capitale: nel 1993 ha battuto Gianfranco Fini e nel 1997 ha stracciato Pierluigi Borghini conquistando quasi un milione di voti. Quando poi nel 2008 ci ha riprovato, ha vinto il primo turno, ma al ballottaggio ha dovuto cedere il Campidoglio a Gianni Alemanno.
Che cosa significa «coinvolgimento ampio»? Una sorta di larghe intese anche al Comune di Roma, anche se il sistema elettorale vigente decreta la vittoria certa di una sola parte?
«Gli elettori di Roma sono circa due milioni e Ignazio Marino ha preso poco più di 500 mila voti. Un romano su quattro: dovrà conquistarne di nuovi nel ballottaggio, e coinvolgere le forze migliori della città nel suo governo civico».
Ragionando sui votanti, ne ha presi quasi uno su due.
«Non credo sia colpa degli elettori. Con progetti e candidati forti la gente si mobilita».
Disgusto per la politica e conseguente astensionismo sono comuni a tutta l'Italia.
«Qui c'è una città disorientata che ha bisogno di soluzioni rapide: possono venire soltanto da una classe dirigente ampia. Con Marino che punta ad essere inclusivo, chiedendo a Marchini e ai grillini di concorrere, magari con funzioni di garanzia e orientamento. Possono essere invitate a partecipare anche forze moderate di centrodestra. L'ho fatto anche io quando ero sindaco, chiamando Gianni Letta al vertice dell'Auditorium, Giuliano Amato al Teatro di Roma, Mario Baldassarri nelle aziende... E dall'opposizione io stesso ho aiutato Alemanno firmando la candidatura olimpica di Roma. Per una città in crisi servono le migliori energie a disposizione.»
Qualche nome?
«Spetterà al sindaco decidere. Però per la cultura mi vengono in mente Andrea Carandini e Salvatore Settis, di due schieramenti diversi ma entrambi di altissimo livello. Poi si può parlare al M5S coinvolgendo una figura elevata come Stefano Rodotà... Ma non voglio essere presuntuoso e fare proposte che non mi competono».
Quali sono a suo parere le prime emergenze da affrontare?
«Serve una progettualità alta, per nuove trasformazioni urbane: ancora oggi molti progetti in campo sono quelli avviati dalla mia amministrazione. La città è smarrita, pur essendo doppiamente universale: per la storia e la cultura, e dal punto di vista religioso, grazie alla presenza di papa Francesco che torna ad attrarre milioni di persone da tutto il mondo. Poi va fronteggiato il dissesto amministrativo. Infine, il recupero della sfiducia dei cittadini per mezzo della partecipazione civica. Le risorse sono scarse, ma si può fare moltissimo attraverso l'organizzazione».
Un esempio?
«Orientare sgravi fiscali per far partecipare i commercianti alla manutenzione della città, o i condomini con gli asili, o le aree verdi con i comitati di quartiere. Violenza e sfiducia si contrastano incentivando il civismo».
Al ballottaggio voterà per Marino?
«Vedremo che cosa dirà. Il mio orientamento è verso il centrosinistra, ma se il candidato è troppo chiuso a sinistra... Però certamente non sceglierò Alemanno».

Corriere 29.5.13
E ora sono i partiti a guardare l'M5S come possibile preda
di Massimo Franco


È probabile che la soddisfazione di alcuni partiti per il tracollo del Movimento 5 Stelle sia prematura. I sintomi che hanno gonfiato nel febbraio scorso i consensi di Beppe Grillo sono in gran parte ancora presenti. Il modo in cui i vertici grillini stanno reagendo alla sconfitta subìta alle elezioni comunali di domenica e lunedì, però, fa capire anche che la sberla è stata dolorosa; e non ancora riassorbita. Il colpo non è solo numerico, ma psicologico. E in politica le sensazioni contano quasi quanto i numeri. È un fatto che fino a qualche giorno fa Grillo teorizzava le prossime elezioni come una sfida fra sé e Silvio Berlusconi, col Pd spazzato via dal panorama.
Di colpo, la sensazione è opposta. Il M5S che osservava la sinistra come un serbatoio potenziale di voti, quasi una preda ferita a morte, è sulla difensiva. L'insistenza interessata del Pd sui «punti in comune» che esisterebbero fra il partito di Guglielmo Epifani e la formazione dell'ex comico dice proprio questo: è il Pd, ora, a sperare di recuperare consensi a spese del M5S, a cominciare dai prossimi ballottaggi. Ignazio Marino, il candidato della sinistra per il Campidoglio con buone possibilità di vittoria, ieri si è presentato con lo slogan: «Noi faremo tornare di moda a Roma l'onestà e la trasparenza». Una frase a effetto mutuata dalla campagna del M5S. L'analisi dei risultati conferma un movimento in affanno quando deve analizzare una situazione negativa.
In poche ore fra i seguaci di Grillo si è passati dall'idea che la colpa fosse dei media, a quella di un elettorato incapace di capire le virtù della protesta antisistema: fino alla versione autentica e, forse, definitiva, del leader. È quella che tende a spiegare astensionismo e calo dei voti con l'esistenza di «due Italie». Una, corrotta e interessata, avrebbe continuato a optare per i partiti tradizionali con una scelta «pesata e meditata». L'altra, che chiama «Italia B», sarebbe composta da lavoratori autonomi, cassintegrati, precari, piccoli imprenditori, studenti, contraria allo status quo ma legata all'altra «come gemelli siamesi».
Chi ha votato Pd e Pdl ha premiato i partiti che «hanno distrutto il Paese»; e si condanna «a una via senza ritorno». Si tratta di una visione manichea che permette a Grillo di ammettere magari degli «errori», senza andare oltre. Anzi, rivendicando di essere stato «l'unico a restituire 42 milioni di euro allo Stato». Non solo. Da capo-partito un po' tradizionale, invece di ammettere la sconfitta, il leader del M5S si vanta di avere raddoppiato i voti, raffrontandoli non con le politiche di febbraio ma con le precedenti comunali. Insomma, la linea sembra essere quella di minimizzare l'insuccesso; e di rifiutare le accuse dei militanti, secondo i quali l'isolazionismo grillino in Parlamento sia per la scelta del capo dello Stato, sia per il governo, ha reso sterile la sua strategia fondata sulla sola protesta.
Le parole che Grillo e i suoi sodali affidano al blog vanno lette come un messaggio non tanto all'Italia, ma ai propri fedeli delusi e tornati all'astensione. Sono analisi difensive, che sanno di giustificazione. D'altronde, secondo l'Istituto Cattaneo, che segue i flussi elettorali, circa il 50 per cento del non voto sarebbe attribuibile al M5S. Si teorizza che la Lega sta esplodendo per «l'abbraccio mortale con Forza Italia prima e con il Pdl poi»; e che è un rischio «al quale potevamo andare incontro anche noi, se avessimo accettato certe proposte di alleanza», sostiene il senatore Enrico Cappelletti alludendo al rifiuto di accordarsi col Pd. Eppure, quello che è stato respinto due mesi fa potrebbe apparire accettabile nelle prossime settimane. Grillo magari si infurierà, ma il M5S potrebbe trovarsi a trattare da posizioni di debolezza.

Corriere 29.5.13
M5S
Ribelli, il piano «C'eravamo tanto amati»
Una decina di deputati e senatori pronta a lasciare il gruppo. Casaleggio nel mirino
di Alessandro Trocino


ROMA — Chi ci crede, nega il calo. O si dice «entusiasta» dei risultati o fa ragionamenti non lontani da formule democristiane tipo: «Abbiamo tenuto». Oppure, ancora, cerca rimedi: andare di più in televisione (da venerdì gruppi di dieci parlamentari andranno a Milano a «corsi di comunicazione televisiva»); o stare di più sul territorio, magari tornando a quella «settimana corta» tanto cara ai parlamentari di ogni tempo e di ogni partito (ma in questo caso per lavorare, non per oziare). Ma c'è anche chi ci crede sempre meno. E quelli preparano una via d'uscita, rumorosa. «Siamo in dieci, pronti ad andarcene», dice un parlamentare. Questione di tempo. Ma anche di dialettica interna. Se non si trova una composizione, se non si allenta la stretta del duo Grillo e Casaleggio, un drappello di 5 Stelle è pronta a formare un gruppo separato. Fervono le trattative con il Pd. Al Senato lo snodo decisivo è la nomina del nuovo capogruppo. Il diktat di Vito Crimi, che nega ai suoi il diritto di parlare di «strategie politiche e alleanze», fa il paio con la sua volontà di far cadere «le mele marce». E il successore di Crimi, da scegliere entro il 15 giugno, può confermare la linea dura o ammorbidirla. Nel primo caso, un piccolo gruppo di senatori è pronto all'addio. Operazione «C'eravamo tanto amati», la chiama uno di loro.
La delusione la puoi osservare nei volti tesi in Transatlantico. L'onda lunga subisce per la prima volta un riflusso. Il Movimento si trova in questa temperie, con una base che scalpita, ironizza o si infuria. E i «cittadini» che minimizzano o sbottano di nascosto. Su twitter questa è la battuta più gettonata: «Lodevole iniziativa del #m5s, che si dimezza i voti del 50%». C'è chi attacca Casaleggio e chi è impietoso con Grillo: «Hai buttato 9 milioni di voti relegando questo branco di 163 incapaci all'opposizione». E chi chiede: «Avete finito di contare gli scontrini?».
Si cerca una via d'uscita. E necessariamente le soluzioni frantumano certezze poco flessibili rispetto alla realtà: il dogma del «tutti in Parlamento sempre» viene messo in discussione, tra gli altri, da Serenella Fucksia e Bartolomeo Pepe. Un senatore la chiama «settimana corta»: «Se siamo andati male è perché ci siamo dimenticati del territorio. Perdiamo troppo tempo a Roma in assemblee inutili. Il lunedì e il venerdì è meglio stare a casa, con i nostri elettori». Parole che stridono un po' con quelle di Carla Ruocco, pasionaria in bianco. Che se la prende, giustamente, con i troppi assenti: la diaria è legata al voto e non alla presenza. Ma la settimana corta è già realtà per molti 5 Stelle. Soltanto che non basta. Il campano Salvatore Micillo non si capacita dei risultati: «Sono preoccupato. Certo, è comunque un inizio. Ma in molti posti siamo andati male e non ho capito perché. A Portici, per esempio, c'erano tutte le condizioni per arrivare al ballottaggio. E invece niente».
Colpa degli elettori, urla Grillo. Vero, dice Tatiana Basilio, che nota «un'involuzione dell'umanità» ma non demorde: «Bisogna proseguire nel cammino degli illuminati, nella ricerca della verità». Si sentono più al buio Tommaso Currò e Vega Colonnese. Che rilancia articoli critici di Travaglio e Gomez. Walter Rizzetto, uno di quei deputati che non soffre sudditanza verso il fondatore, non ci sta: «Non sono d'accordo con Grillo, non è colpa degli elettori. Dobbiamo riflettere. L'astensionismo è un dato sconfortante». Matteo Incerti, Comunicazione del Senato, elenca i ballottaggi dei 5 Stelle: «Pomezia (Roma), Martellago (Venezia) e Assemini (Cagliari)». Bastano? No di certo. E allora si prepara lo sbarco in tv, con cautela. Rocco Casalino: «Abbiamo appena detto no a Lerner, Santoro e Floris». Cosa resta? «Le ricette di Benedetta Parodi no — scherza —. Vedrete».

Repubblica 29.5.13
Lo tsunami alla rovescia
di Curzio Maltese


IL COMPORTAMENTO del Movimento 5 Stelle di fronte alla sua prima sconfitta elettorale illustra la grave malattia della democrazia italiana assai meglio degli ultimi dieci anni di prediche antipolitiche di Beppe Grillo.
I grillini hanno preso enormi batoste ovunque, tanto più dove si aspettavano grandi vittorie, come a Roma, a Siena e in Liguria. Hanno vinto anzitutto l’astensione, quindi i candidati del centrosinistra. La destra berlusconiana perde in ogni città e ancor di più nelle roccheforti. È accaduto insomma tutto l’esatto contrario di quanto lo stesso Beppe Grillo aveva calcolato e pronosticato alla vigilia. Nell’ordine: una poderosa avanzata del Movimento, sull’onda del disgusto per il governo dell’inciucio; la tenuta di Berlusconi, «ormai unico avversario»; la «totale disfatta del Pd».
Le cause dello tsunami alla rovescia risiedono nella pessima gestione da parte di Grillo e Casaleggio del trionfo elettorale di febbraio. Una finta rivoluzione che non ha cambiato nulla, anzi è servita a riconfermare il peggior status quo e alla fine si è arenata su questioni miserabili, vedi la voce scontrini. Sono ragioni chiare a tutti, tranne che a Grillo e Casaleggio. Davanti all’inattesa sconfitta, i capi del movimento hanno reagito esattamente come il vecchio ceto politico tanto criticato. Punto per punto. Prima hanno cercato di negare di evidenza, secondo il risaputo e risibile campionario dei peggiori piazzisti della politica, per cui una sconfitta non è mai una sconfitta, perché bisogna considerare l’eccellente risultato di Vattelapesca, la bella tenuta di Marina di Sotto e poi non si può fare il confronto con le politiche di tre mesi fa, ma semmai con le amministrative dell’anno scorso e magari con il mondiale di nuoto del 2011. Il secondo passaggio è la ricerca di alibi, capri espiatori, complottisti. Anche qui, i soliti. La televisione e addirittura i giornali: ma come, Beppe, non eravamo tutti morti, schiantati dal potere della rete?
Il terzo passaggio e l’inevitabile conclusione del percorso è l’accusa al popolo, agli italiani infingardi e ignoranti. Com’è noto infatti per tutti i politici gli italiani sono intelligenti, onesti, coraggiosi, un grande e meraviglioso popolo oppresso da una classe dirigente inadeguata, ma soltanto quando li votano. Quando non li votano, di colpo diventano stupidi, analfabeti, vili e si meritano i ladri che li governano da sempre.
Con questa reazione i grillini hanno dimostrato d’aver imparato in fretta la prima regola della politica della prima, seconda e terza repubblica: il rifiuto totale, sistematico di assumersi una qualsiasi responsabilità. Mai dire ho sbagliato, abbiamo sbagliato. L’assunzione di responsabilità, tipica dell’età adulta, costituirebbe nei fatti la negazione del ludico spirito infantile con cui si fa politica in Italia, oltre che un’intollerabile ferita narcisistica all’ego arroventato dei capi.
Grillo e Casaleggio non sono i primi ad adattarsi in fretta ai vizi di un sistema che dicono di voler combattere. Prima di loro l’avevano fatto Bossi e la Lega, Berlusconi, Di Pietro, il «nuovo partito» creato col Pd. E non saranno gli ultimi. Almeno finché non si capirà che la politica italiana non si cambia fondando un nuovo anti-partito all’anno, ma con una riforma profonda e radicale dell’intero sistema. Altrimenti il sistema malato finirà sempre per far ammalare chi vi entra, perfino con le migliori intenzioni. Milioni di italiani, sciocchi o geni che siano, l’hanno già capito e molti fra questi hanno smesso di andare a votare. Votare per chi, ma soprattutto per che cosa? Per offrire una delega in bianco a partiti o movimenti che poi faranno le loro scelte nel segreto delle stanze dei vertici, ignorando il mandato degli elettori. Per fare da spettatori di un teatrino di leader sempre più narcisi e autoreferenziali. L’errore di Grillo, anche questo non nuovo, è l’aver ignorato in questi mesi i sentimenti, gli umori, le ragioni della base elettorale. Aver perfino criminalizzato il dissenso di tanti, trattati come «troll», venduti ai partiti, infiltrati, alieni. Anche questo non è un errore nuovo. L’incredibile e, per certi versi, impensabile successo del Pd, oltre alle questioni locali, è dovuto proprio alla stanchezza, per non dire al disgusto degli elettori nei confronti dei partiti personali che hanno segnato la vita della seconda repubblica e dei quali il grillismo è soltanto l’ultima propaggine. Con tutti i limiti e le proprie miserie, il Pd almeno assomiglia a una forza politica vera e non a alla pura estensione di un ego maniacale.

Corriere 29.5.13
Bersani ritorna e sceglie: Renzi? Letta ottimo premier I partiti
L'ex segretario: c'è bisogno del governo
di M. Gu.


ROMA — L'avanzata dei sindaci rimescola le carte nel Pd, in vista del congresso d'autunno. Guglielmo Epifani puntella la sua leadership, Pier Luigi Bersani torna a parlare e scaglia pietruzze, Walter Veltroni rilancia la vocazione maggioritaria. E Matteo Renzi si prepara a guidare il fronte antigovernativo.
I risultati nelle città innescano reazioni a catena. L'ex segretario torna in tv e, a Ballarò, si schiera con Enrico Letta e contro lo sfidante naturale del premier, il sindaco di Firenze. Gli chiedono se è Matteo Renzi il futuro candidato a Palazzo Chigi e Bersani, brusco: «Noi abbiamo un ottimo presidente del Consiglio, si chiama Enrico Letta. Dobbiamo governare, non si scappa dalle nostre responsabilità». Il 4 giugno Guglielmo Epifani riunirà la direzione nazionale e Bersani spezza una lancia a favore della separazione dei ruoli: primarie per eleggere il segretario, che però non dovrà più coincidere con il candidato premier «perché adesso ce l'abbiamo». Renzi non lanci ora la sua candidatura e il Pd sostenga Letta, sprona Bersani, perché «l'Italia ha bisogno di un governo», anche se di larghe intese. E sul sindaco dice: «Non condivido alcune proposte e metodi venduti come nuovi che mi sembrano solo rimasticature degli anni 90».
I ragionamenti dell'ex leader preparano il terreno alla battaglia tra l'anima filogovernativa e quella antagonista, in vista delle assise. «Il congresso si deve tenere entro ottobre, se ce lo fanno fare io mi candido...», conferma Pippo Civati. Renzi intanto si prepara a incalzare l'esecutivo e a Palazzo Chigi temono che voglia mettersi alla guida dei nemici del governissimo. «Il governo sarà forte se farà le cose — avverte il sindaco al Tg1 — Se vivacchia trascinerà l'Italia in basso». Bersani è ottimista, pensa che Letta «se la caverà» anche di fronte alle scadenze «dirimenti» che lo aspettano e chiede a Berlusconi di non mettere scadenze all'esecutivo: «Il Pdl cercherà di farci stancare, ma un governo dura finché un Paese lo sente». Per la prima volta dopo il «tradimento» dei franchi tiratori e le dimissioni, l'ex segretario parla del suo stato d'animo, dice che non ha bisogno di uno psichiatra e che è tornato persino al cinema. Ma non si pensi che andrà ai giardinetti: «Userò la mia autorevolezza e lavorerò perché il congresso ci consegni una leadership tarata sulle responsabilità di governo». Infine rivendica lo streaming con i 5 Stelle, convinto che «l'arroganza umilia chi ce l'ha».
Tutti contro Grillo. Renzi ironizza sul fatto che volevano dimezzare i parlamentari mentre «hanno dimezzato solo i loro voti». Se il M5S è stato punito, attacca Epifani, è perché «aveva la possibilità di cambiare il Paese, ma si è ritirato sull'Aventino». Per il Pd il voto «è andato bene» rivendica il segretario, «ma non per altri». Il «buon governo» del centrosinistra è stato premiato, le liste e i candidati del Pd hanno ottenuto «un risultato importante». Lo stesso non può dirsi del Pdl ed Epifani infierisce sull'alleato—avversario: «Ho visto qualche segnale di nervosismo... Ma quando un partito si assume una responsabilità di governo, questo deve far premio sulle convenienze». Una forza politica «seria e responsabile» imbocca una strada e poi «va fino in fondo».

il Fatto 29.5.13
Vittoria laica
L’Italia giusta abita a Bologna
di Paolo Flores d’Arcais


Domenica è avvenuto un miracolo, ma l’establishment ha ordinato di battezzarlo “flop” e i media della disinformazione unica sono scattati sull’attenti e hanno intonato un pronto “obbedisco! ”.
Il miracolo è avvenuto a Bologna. Da una parte una trentina di cittadini, senza risorse se non una grande passione civile e l’amore adamantino per la Costituzione repubblicana. Dall’altra tutti i poteri della città, ma proprio TUTTI: dal cardinal Caffarra al sindaco Pd, dalla Confindustria alle Coop, da Comunione e liberazione alla Lega, fino alla ciliegina di Romano Prodi. Le parrocchie scatenate come ai tempi della Guerra fredda, di Gedda e delle madonne pellegrine. Le sezioni Pd con l’ordine tassativo di mobilitarsi (l’ha fatto solo la nomenklatura di partito). I media locali allineati come una falange macedone. Eppure i laici-laici hanno vinto con un perentorio 59% a 41% del Potere unificato clerico-partitocratico-affaristico-mediatico. Davide contro Golia, ma un Davide che non aveva neppure la fionda. Un miracolo.
CHE SAREBBE un flop perché comunque a votare è andato meno di un cittadino su tre. Non si rendono conto, i megafoni e i lacchè dell’establishment, che si danno la zappa sui piedi? Gli strumenti per una mobilitazione di massa ai seggi li avevano solo il cardinale e il sindaco, ma se con tutto l’enorme dispendio di mezzi materiali e di grancassa “giornalistica” sono riusciti a portare alle urne solo 35 mila pecorelle obbedienti, suona davvero ridicolo e risibile che giudichino un flop i 50 mila che sono stati convinti da un pugno di cittadini del tutto privi di mezzi e di potere. A Roma questo si chiama conzolasse co’ l’ajetto, cari signori della Curia e del Partito. Naturalmente il comune, in mano al Pd (Partito do-roteo), andrà avanti come se nulla fosse accaduto, continuerà a beneficiare la scuola privata sottraendo risorse a quella pubblica, toglierà cioè alla scuola di tutti per regalare soldi di tutti alla scuola di pochi e “dei preti”, calpestando il risultato del referendum (tanto era consultivo!) e irridendo alla Costituzione, che le scuole private le tollera solo se “senza oneri per lo Stato”. È allora sperabile che il comitato “articolo 33” non si sciolga ma rilanci, e anzi si trasformi in una organizzazione di più generale “cittadinanza attiva”, chieda le elezioni comunali anticipate e vi partecipi. Il non-voto in tutte le città, ormai di dimensioni gigantesche, sottolinea il divorzio dai partiti esistenti, e l’insufficienza del solo M5S.

il manifesto 29.5.13
Sulla scuola il Pd e la Curia hanno perso

Intervista al collettivo di scrittori bolognesi Wu Ming: «Questo è un punto di non ritorno su scuola pubblica e sussidiarietà». «La base del Pd non ha condiviso le scelte dei vertici, si è aperta una crepa, bisogna cercare di allargarla»
di Roberto Ciccarelli
qui

il Fatto 29.5.13
Sì alla legge anti femminicidio
A Roma il voto sulla Convenzione di Istanbul
di Sandra Amurri


Ieri mentre a Corigliano Calabro si celebravano i funerali di Fabiana Luzzi, 16 anni, uccisa da un suo coetaneo, la Camera ha approvato all’unanimità, 545 voti a favore, la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta nei confronti delle donne e la violenza domestica siglata a Istanbul nel maggio del 2011. Disegno di legge che dovrà, ora, passare l’esame del Senato. L’aula di Montecitorio ha salutato l’esito del voto con un lungo applauso.
Il testo prevede il contrasto a ogni forma di violenza, fisica e psicologica sulle donne, dallo stupro allo stalking, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali e un forte impegno sul fronte della prevenzione, avendo come obiettivo il contrasto a ogni forma di discriminazione e promuovendo “la concreta parità tra i sessi, rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne”.
Uno strumento internazionale giuridicamente vincolante di protezione delle donne che prevede anche un'ampia rete di assistenza per le vittime di violenza.
IN ORDINE, l'Italia è il quinto Paese ad aver ratificato il testo della Convenzione dopo Montenegro, Albania, Turchia e Portogallo ma affinché la Convenzione sia applicata occorre che venga sottoscritta da almeno 10 Stati di cui 8 debbono essere componenti del Consiglio d'Europa.
“Con l'approvazione di oggi della Ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa, si apre uno scenario più incisivo per il nostro governo nel contesto europeo e internazionale nella lotta al femminicidio”, ha spiegato la parlamentare italo-brasiliana Renata Bueno, membro della commissione Esteri della Camera. “La Convenzione è importante perché incardina il fenomeno della violenza sulle donne come violazione dei diritti umani e istituisce la perseguibilità penale degli aggressori”.
Mentre Save the Children auspica che, di pari passo con la riforma normativa, venga garantito uno stanziamento di risorse economiche finanziarie adeguate a rafforzare la rete dei servizi e ad attuare politiche integrate, misure e programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza, come ad esempio il ripristino del fondo contro la violenza alle donne, e l'istituzione di un apposito fondo per garantire una piena tutela e un indennizzo equo e adeguato alle vittime di reati intenzionali violenti”.
C'è inoltre da augurarsi che gli accordi tra i vari Stati vengano tradotti in piani di intervento concreti affinché siano tutelate tutte le immigrate perché la violenza sulle donne non conosce colore della pelle, età o confini geografici.
Voto, quello della Camera, che il ministro per l'integrazione, Cécile Kyenge ha definito “benefico” perché incoraggia, in quanto “non potremo mai assuefarci all’orrore di gravissimi fatti di cronaca contro le donne, ma neanche alle tante e continue violenze domestiche e nei luoghi di lavoro”.
RESTA la vergogna dell'aula quasi deserta durante la discussione di lunedì scorso, presenti solo i deputati del M5S e pochi altri nonostante il femminicidio sia un tema così caro ai politici che per disquisirne si contendono i talk show. Scampato anche il pericolo che venisse incluso l'articolo 3 della Convenzione secondo cui “la violenza nei confronti delle donne” comprende “tutti gli atti di violenza fondati sul genere” allargando il fronte anche alle coppie gay come auspicato da alcuni esponenti del Pd e da Sel.
Paola Binetti di Scelta Civica aveva già messo le mani avanti invitando a evitare “ambiguità”, mentre Dorina Bianchi del Pdl aveva precisato che la questione non era “prioritaria”, anzi era “inopportuna” anche per i costi sul Welfare e il parlamentare di Scelta Civica, l'ex portavoce della comunità di Sant'Egidio, Mario Marazziti aveva sottolineato come la definizione di genere della Convenzione approvata dal Consiglio d'Europa fosse troppo ampia.
Mentre l'Avvenire ha tenuto a rassicurare i lettori che il voto di ieri non prevedeva modifiche o emendamenti come a dire, appunto, che non vi sarebbe stata la scongiurata ipotesi che venisse inclusa la definizione di genere prevista dall'articolo 3 della Convenzione.

Corriere 29.5.13
Il voto sulla Convenzione di Istanbul apre una strada da seguire subito
di Anna Meldolesi


Mentre Corigliano Calabro piangeva Fabiana Luzzi, ieri la Camera ha votato all'unanimità la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Poi toccherà al Senato. Cosa cambia per le tante vittime di abusi psicologici, fisici, sessuali? Molto dipenderà da quanto sarà forte la volontà di far vivere con le azioni ciò che è scritto sulla carta, stanziando finanziamenti adeguati e mettendo in atto le misure necessarie per prevenire i crimini, proteggere le vittime, perseguire i violenti.
Intanto però c'è da registrare il colpo di reni dell'Italia. Siamo il quinto Paese a ratificare il trattato e il viceministro Marta Dassù si è impegnata per conto del governo a sollecitare ulteriori ratifiche nelle sedi internazionali. Se pensiamo che un anno fa la direttrice dell'agenzia Onu per le donne Michelle Bachelet aveva richiamato l'attenzione proprio sull'emergenza dei femminicidi in Italia, si capisce bene il valore della svolta. È lo Stato ad assumersi formalmente la responsabilità di girare pagina. I simboli contano, tanto più in questo campo, in cui la violenza affonda le radici «nella cultura della subalternità e del possesso», per citare Laura Boldrini. È importante che il Parlamento riconosca la specificità della violenza contro le donne, incardinandola nell'ambito della violazione dei diritti umani fondamentali. Paradossalmente, ma forse neanche tanto, la nostra ratifica si va ad aggiungere a quella di un piccolo drappello di Paesi che non brillano nelle classifiche sulla parità di genere: Albania, Montenegro, Portogallo e Turchia. Perché la Convenzione entri in vigore si dovrà arrivare a dieci.
Certo quell'aula semideserta, durante i lavori preparatori dell'altro ieri, non è stato un bello spettacolo. E dispiace che qualche parlamentare cattolico si sia trovato a disagio con il concetto di «genere», nella sua accezione sociale oltre che biologica. Ma quel che conta è muoversi. L'emozione collettiva suscitata dai fatti di cronaca di questi giorni ha aperto la finestra al cambiamento. È un momento che bisogna afferrare, adesso.

Repubblica 29.5.13
Privatizzare i tribunali La soluzione britannica alla riforma della giustizia
I magistrati: a rischio l'indipendenza
di Fabio Cavalera


LONDRA — Questa volta non si esagera se si scomoda un termine come rivoluzione per raccontare che cosa rischia la giustizia inglese. Persino il Times, raramente propenso a gonfiare le notizie, parla di un piano che potrebbe cancellare un sistema nato con la Magna Charta. Soffiano venti di liberismo un po' selvaggio sui palazzi dei tribunali e delle corti di Sua Maestà.
Per risparmiare due miliardi e mezzo di sterline e obbedire alla politica dei tagli che il Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha imposto allo scopo di mettere in ordine i conti pubblici, circola l'idea di trasformare il complesso insieme di servizi dell'amministrazione giudiziaria in un'impresa commerciale da affidare ai privati. Entro un paio di settimane il ministro Chris Grayling si ritroverà sul tavolo un piano con i dettagli richiesti agli esperti. Questione delicatissima. E i magistrati, pur esclusi dallo schema di riforma, si guardano attoniti e si chiedono: che ne sarà della nostra indipendenza?
Ma lui, il «guardasigilli» del Regno Unito, un conservatore con laurea in storia dell'arte a Cambridge e con in testa alcuni concetti di eguaglianza molto particolari visto che un paio di anni fa sostenne il diritto degli alberghi e dei bed&breakfast di rifiutare la camera alle coppie omosessuali, pare intenzionato, così sostiene il Times, ad andare avanti. Sindrome da risparmio. Sindrome da privatizzazione. Sindrome da liberalizzazione a tutti i costi. Sindrome da primo della classe. Che cosa sia se lo chiedono in tanti. Fatto sta che Chris Grayling si è conquistato il titolo di apertura del nobile quotidiano londinese con la sua medicina per guarire il ministero dalla malattia degli sprechi. Gli hanno chiesto di potare i rami secchi per 2,5 miliardi e pensa di raggranellarne già un miliardo ridisegnando l'amministrazione della giustizia. Provocazione o lungimiranza?
Tre sono i pilastri del progetto. Il primo è che tutti i tribunali e le corti (oggi ospitati in 650 sedi) dovrebbero trasferirsi in palazzi di proprietà privata, lo Stato pagherebbe un affitto alle banche, alle assicurazioni, agli hedge fund, ai tycoon che hanno in portafoglio l'immobile ma, liberando e vendendo i vecchi palazzi, la somma ne risulterebbe positiva. Il secondo è che i servizi di segreteria e di cancelleria di supporto ai giudici (22 mila dipendenti) potrebbero essere appaltati all'esterno, sempre a privati. Infine, e su questo terzo punto occorre dire che l'immaginazione ha un che di suggestivo, l'imposizione di una «tassa» nelle cause civili e commerciali che hanno per oggetto patrimoni oltre un certo valore. In altre parole se Roman Abramovich o Bernie Ecclestone vanno in tribunale per risolvere qualche lite con rivali o parenti sarebbero costretti a versare un discreto obolo aggiuntivo. Un modo per costringerli a riflettere sul ricorso alle carte bollate. E un modo per finanziare indirettamente la giustizia penale, infatti la «tassa» sarebbe girata per rendere più veloci i processi contro la criminalità organizzata.
È una rivoluzione controversa e fantasiosa. Scontate le perplessità e le critiche feroci. «Il rischio è che in nome dell'efficienza economica raggiunta con la privatizzazione si sacrifichi l'indipendente amministrazione della giustizia», spiega al Times l'avvocato per i diritti umani lord Pannick. «Tranquilli non intendiamo una privatizzazione generalizzata della giustizia», hanno rassicurato dal ministero. Ci mancherebbe.
Il dibattito è aperto: siamo sicuri che sia questa la strada più giusta per tagliare la spesa pubblica? C'è chi sottolinea un particolare: lo Stato ha già appaltato ai privati i servizi di traduzione e interpretariato nelle corti e nei tribunali. Il risultato è stato un mezzo fallimento: 6.417 ricorsi per difetto di professionalità e 650 processi bloccati in un anno. A volte le privatizzazioni funzionano male. Ma il ministro Grayling vuole comunque procedere con la sua rivoluzione.

Repubblica 29.5.13
La sindrome di Stoccolma
La rivolta giovanile nei sobborghi ha lasciato segni e ferite
Lo scontento incrina il modello scandinavo
Ma il premier nega: “Solo teppisti”
di Anais Ginori


Come Londra e Parigi, anche Stoccolma scopre di essere circondata da una cintura di disagio che rischia di mandare in crisi anche l’esemplare sistema sociale
Il malessere nelle periferie degli immigrati è sfociato in una violenta rivolta

STOCCOLMA Appena venti minuti di metrò, ma è come dal giorno alla notte. La linea d’ombra che accompagna la perdita d’innocenza è questa. Alla partenza c’è la città maestosa e ignara di quel che accade, affacciata sul mare, i vicoli medievali di Gamla Stan pieni di turisti, con il palazzo reale, il museo dei Nobel, il parlamento. Poche fermate, e appena in superficie cambia tutto. “Stockholm suburbia”, adesso li chiamano così. I sobborghi di case tutte uguali con le parabole puntate a Sud, i giovani che bivaccano negli androni picchiettando sui loro cellulari mentre, intorno, i volontari cercano di cancellare le tracce della battaglia. Macchine bruciate, le finestre rotte dalle sassaiole. «Stiamo lentamente tornando alla normalità», spiega cortese il portavoce della polizia, Lars Bystroem.
Sono durati una settimana, gli scontri notturni tra agenti e bande di incappucciati, che dalla capitale minacciavano di estendersi a tutto il paese. Nelle ultime ore si segnalano incidenti isolati e sempre più sporadici. Solo i rinforzi di polizia arrivati da Göteborg e Malmö, insieme a una pioggia sottile, sono riusciti a rimandare a data da destinarsi, almeno per ora, quella che anche il premier svedese Fredrik Reinfeldt ha battezzato ufficialmente come «rivolta ». Gli osservatori stranieri si sono precipitati a dire che in quei roghi urbani è andato in fumo anche il modello scandinavo, tra i più avanzati del mondo nel garantire eguaglianza e giustizia sociale. La risposta del premier, in modalità legge&ordine — «non ci sono vittime del sistema, solo teppisti» — più che una svolta autoritaria ha rivelato l’orgoglio ferito.
Il poco socialdemocratico Nicolas Sarkozy aveva chiamato “feccia” i ribelli della banlieue parigina. Al di là delle definizioni, sono giovanissimi. La maggior parte delle persone fermate durante gli scontri è minorenne, non ha finito gli studi e non ha un lavoro, come un quinto dei ragazzi delle periferie più povere. Sempre in omaggio a un politicamente corretto che qui è stile di vita, si finge anche di ignorare la nazionalità di questi rivoltosi: la tradizione progressista impedisce alle autorità svedesi di fare classificazioni “etniche”. Ma sono tutti figli di quei profughi balcanici, afgani, iracheni, somali, siriani, che negli ultimi vent’anni hanno trovato rifugio qui e costituiscono ormai il 15% della popolazione svedese. Si sa, ma non si dice, e non lo si può neppure scrivere. Nelle cronache di questi giorni non è permesso fare distinzioni etniche, ma è almeno consentito interrogarsi sul “fallimento dell’integrazione”.
Lo stesso paradosso si ripete a proposito del sessantanovenne ucciso dalla polizia il 13 maggio a Husby, la periferia a nord della capitale, dove tutto è cominciato. Secondo la versione ufficiale, contestata da alcuni testimoni, l’uomo aveva brandito un machete contro gli agenti. Chi era la vittima che ha innescato le proteste? Un giornale locale
ha osato scrivere che non era “autoctona”, ma di origini portoghesi. I media non hanno voluto riprendere la notizia e continuano a garantire l’anonimato dell’uomo, fino a conclusione dell’indagine della magistratura sul caso. Può apparire un atteggiamento miope, un’inutile ipocrisia. Eppure, in passato, è anche attraverso queste prudenze che si è costruito quel patto di convivenza civile, ora pericolosamente entrato in crisi.
Come Londra 2011, e ancor prima Parigi 2005, anche la civile Stoccolma scopre di essere circondata da una cintura di disagio e frustrazione. La violenza degli scontri non è simile a quanto accaduto nelle altre due metropoli europee, questo è pur sempre un paese con appena nove milioni di abitanti. Le scale di grandezza sono diverse, così come il paesaggio urbano. Husby è un quartiere vivibile, di case basse e rosse costruito negli anni Settanta grazie al “milion program”, un visionario piano di edilizia popolare. Parchi curati, scuole, biblioteche e trasporti pubblici perfettamente funzionanti. Ma per le nuove generazioni conta lo scarto tra quel che la società promette e quel che non riesce a mantenere. Dall’alto della sua reputazione e delle aspettative che ne conseguono, la Svezia paga forse un prezzo ancora più alto nello sfogo di rabbia e delusione. Le opportunità professionali e di miglioramento delle condizioni di vita si distribuiscono in modo sempre più asimmetrico.
I giovani di Kista, altra periferia in rivolta, si sentono beffati due volte.
Vivono nel quartiere considerato la Silicon Valley di Stoccolma, ma guardano i grattacieli delle società ultratecnologiche costruiti accanto ai palazzoni dove sono nati come un monumento alla loro esclusione: sanno che difficilmente otterranno un colloquio di lavoro in uno di questi gruppi. Oltre quelle vetrate, non c’è posto per loro. «Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro momento». Ghamari Hamid, istruttore di origine iraniana che lavora in una palestra di Kista, considera la sparatoria di Husby come un mero pretesto. «Non si può cercare una sola risposta. La disoccupazione è solo una delle tante cause. I ragazzi si sentono isolati, lasciati ai margini».
Sul giornale progressista Aftonbladet l’editorialista Lena Mellin parla di fiasco politico. «Per troppo tempo — scrive — non è stato possibile neanche dire che in un quartiere in cui convivono 114 diverse nazionalità servono più risorse e servizi pubblici». Le derive del “politicamente corretto” sono imputate alla lunga egemonia del partito socialdemocratico. Oggi, in una sorta di contrappasso, sono finite sotto accusa anche le politiche del governo conservatore, al potere dal 2006. Negli ultimi sette anni, il premier Reinfeldt ha tagliato le tasse e la spesa pubblica, che rimane comunque la più alta d’Europa dopo la Francia. Salari e contributo sociali più bassi, istruzione e sanità aperti ai privati. Un’iniezione di liberalismo nel caro, vecchio welfare, con l’obiettivo di rendere più competitiva l’economia nazionale. In parte ha funzionato, come ha sottolineato qualche mese fa l’Economist, plaudendo alla tigre scandinava. La Svezia è sfuggita alla recessione che altrove ha colpito l’Europa senza però sconfiggere la disoccupazione (8,7%) ma ha conosciuto il più rapido incremento delle disuguaglianze nelle società occidentali, dati dell’ultimo rapporto dell’Ocse.
L’illusione che non sia successo niente è di breve respiro. Husby ha già cambiato l’agenda del parlamento, costretto a ridiscutere le politiche di integrazione, su richiesta di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi. La Svezia è stato l’ultimo paese europeo a cedere all’ondata populista. Soltanto nel 2010, il partito xenofobo, che vuole chiudere le frontiere e rimandare a casa i clandestini, è riuscito a entrare nel parlamento con oltre il 5%. Gli ultimi sondaggi prevedono un raddoppio dei consensi in vista delle elezioni dell’anno prossimo.
È ancora presto per dire se la Svezia, dopo gli incidenti di questi giorni, sia pronta a stravolgere una tradizione di tolleranza e accoglienza, cedendo alle sue pulsioni più oscure, così ben raccontate, e quindi esorcizzate, nei noir degli autori scandinavi. «Stoccolma non brucia e la discriminazione non è sempre legata al razzismo», commenta la scrittrice di origine curda Nima Sanandaji. Parte della popolazione, spiega, viene lasciata ai margini per cause economiche, legate all’educazione, al retroterra culturale.
«Smettiamo di colpevolizzare la nostra società», chiede Sanandaji. È cresciuta nelle periferie degli immigrati e diventata intellettuale di successo, così come Zlatan Ibrahimovic è uscito dal ghetto di Rosengärd, fuori Malmö, per diventare un campione di calcio. Henning Mankell, lo scrittore del commissario Wallander, sostiene che la Svezia è abituata a interrogarsi e scrutare il suo cuore di tenebra, in una ricorrente perdita di innocenza, cominciata addirittura con l’omicidio di Olof Palme, quasi trent’anni fa. Finora, dopo ogni esame di coscienza, il paese è sempre riuscito a restare in bilico, camminando sul filo della sua innata capacità al compromesso. Ma anche lassù, nella fredda e civile Svezia, conservare l’equilibrio è difficile, sempre più difficile.

Repubblica 29.5.13
Parla lo scrittore Tamas
“Il razzismo è strutturale ma nessuno lo ammette”
intervista di A. G.


STOCCOLMA «Questo tipo di rivolte urbane sono destinate a ripetersi, siamo in una situazione esplosiva». Gellert Tamas ha pubblicato negli anni Novanta un profetico libro che raccontava come l’odio razziale e il nichilismo stessero crescendo dentro all’idilliaca società svedese. Il giornalista esperto di estrema destra è stato tra i primi narratori a indagare l’ambivalenza scandinava. Il suo bestseller L’Uomo Laser pubblicato in Italia da Iperborea ha ricostruito la storia vera di un killer di immigrati che nel 1991 aveva seminato il panico a Stoccolma. Il primo segnale che nella capitale svedese c’erano problemi di integrazione? «L’immagine della Svezia come paese della tolleranza è superata da ormai un paio di decenni. La società è sempre più divisa. Una parte della popolazione è stata marginalizzata. Esiste purtroppo una discriminazione in base al cognome e al colore della pelle, ma nessuno vuole riconoscerlo. È un argomento tabù».
Eppure, rispetto a Londra e Parigi, le periferie di Stoccolma sembrano più vivibili.
«Gli abitanti delle periferie svedesi non si paragonano alle altre periferie europee. È vero che Husby dall’esterno sembra sicura, non è così brutta come una banlieue parigina. Ma per i giovani di Husby il paragone è con il centro di Stoccolma. È questa differenza che alimenta la frustrazione».
La crisi economica è arrivata fino in Svezia?
«No, le discriminazioni sono legate alle origini etniche. In un quartiere come Husby, la metà degli alunni di origine straniera non arriva al diploma. È il fallimento del nostro sistema di integrazione, non è solo un problema economico».
Il premier Reinfeldt sostiene che si tratta solo di giovani “teppisti”.
«La violenza è da condannare sempre e comunque. Ma usare il termine “teppista” significa puntare il dito contro questi ragazzi senza cercare di capire cosa c’è dietro. Un po’ come quando Sarkozy disse racaille. È un modo di scaricare tutto il disagio sugli altri, mentre c’è anche una precisa responsabilità politica».
Quale?
«Questo governo ha diviso la Svezia, promuovendo una mentalità individualista, legata al successo e alla carriera, una cultura del lavoro sul modello anglosassone lontana dalla tradizione scandinava di giustizia sociale».
Il razzismo nelle forze dell’ordine è davvero così diffuso?
«Nella polizia c’è un razzismo strutturale, del quale abbiamo avuto varie prove. A gennaio, la polizia svedese ha lanciato un piano contro l’immigrazione illegale attraverso il facial profiling, ovvero fermando le persone del metrò solo in base ai tratti somatici. C’è stato un grande scandalo, ma nulla è cambiato».

Repubblica 29.5.13
Il ritorno del Noi
Da Kant a oggi cosa sta a indicare il pronome fondativo di gruppi, classi e comunità
Le nuove identità nell’epoca dei social network
di Maurizio Ferraris


Se l’io è, secondo Pascal, il più detestabile dei pronomi, il noi è il pronome più misterioso. Poniamo che quattro persone giochino a poker e che qualcuno chieda loro che cosa stiano facendo. Una risposta come «io sto giocando a poker, e anche lui, e anche lui, e anche lui» suonerebbe a dir poco strana. La risposta ovvia è «noi stiamo giocando a poker». Ora, in questo “noi” si nascondono parecchi enigmi del mondo sociale che hanno interessato i filosofi (e su cui ritorna proprio in questi giorni Roberta De Monticelli in un capitolo centrale di Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina): che cosa intendiamo davvero dire, e fare, quando diciamo “noi”? Il punto più rilevante è che, contrariamente alle apparenze, l’uso del “noi” è funzionale, più che a una identificazione, a una esclusione. Dal “noi spiriti liberi” di Nietzsche al “noi padani”, al “noi moderni”, lo scopo principale del “noi” sta nel costruire una aggregazione, in cui un singolo si autonomina rappresentante di una classe, ma, ancor più, nel generare il fantasma dei “loro”, degli altri, di quelli che non sono noi. In questi casi, a differenza da ciò che accade con i nostri quattro giocatori di poker, il confine tra il “noi” e il “loro” è estremamente mobile e soprattutto infinitamente vago e manipolabile.
Ecco perché, a mio avviso, uno degli scopi centrali della filosofia come critica della ideologia deve consistere proprio nella condanna della finzione universalizzante del “noi”. Jacques Derrida è stato un campione di questa prospettiva, per esempio facendo notare come l’appello ermeneutico al dialogo e alla “fusione di orizzonti”, alla creazione di un discorso universale dotato di una piena trasparenza comunicativa era sempre sul punto di tradursi nell’evocazione di un fantasma di totalità. Ma come può esercitarsi una vigilanza critica nei confronti della costituzione del “noi”?
Probabilmente, lo strumento più efficace è l’analisi dei connettivi e dei contesti che rendono possibile il “noi”. Storicamente ne abbiamo avuto molte versioni, raramente rassicuranti. La prima è infatti quella del sangue e della terra, cioè l’idea che il “noi” sia assicurato dalla condivisione di certi attributi genetici e di uno spazio geografico. Ma anche l’idea che il “noi” abbia invece una base spirituale non è di per sé meno minacciosa. Basti pensare all’ambigua tesi di Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che definiva i tedeschi come il popolo dello spirito, e poi procedeva a dire che dunque chiunque creda nel progresso dello spirito appartiene alla stirpe tedesca (mentre poteva darsi il caso di chi, non credendo nello spirito, non sarebbe stato tedesco anche se geneticamente lo era).
Nella filosofia contemporanea, la risposta prevalente alla domanda sull’origine del “noi” è fornita dalla teoria della intenzionalità collettiva, proposta dal filosofo finlandese Raimo Tuomela e sviluppata da John Searle. L’idea è che ci sarebbe questo elemento primitivo e naturale (una specie di ghiandola pineale intersoggettiva) che ci fa dire “noi” invece che “io” in un certo numero di situazioni, e che sta alla base della costruzione del mondo sociale. Qui avrei più di un dubbio, perché in effetti al “noi” ci si arriva attraverso un addestramento. È vero che un gruppo di persone in gita può dire “noi camminiamo”, ma si tratta ancora di “intenzionalità collettiva” quando a camminare è un gruppo di prigionieri tenuti sotto tiro?
Se le cose stanno in questi termini, alla versione naturalistica di Searle è di gran lunga preferibile la versione culturalistica che, quasi duecento anni fa, ha dato Hegel con l’idea di “spirito oggettivo”. Quello che noi abbiamo nella nostra testa, le nostre intenzioni e le nostre aspirazioni morali non può restare in un puro mondo intelligibile, come pensava Kant, ma ha bisogno di manifestarsi nella storia. È qui che si introduce la variante hegeliana: lo spirito ha bisogno strutturalmente di mani-festarsi, di solidificarsi in istituzioni. È lì che si manifesta il “noi”: nelle costituzioni, nelle imprese e nelle tradizioni condivise. Ma, attenzione, è importante capire che questo spirito è oggettivato, non è una nostra proprietà personale.
È per questo che, in alternativa a queste forme di costruzione del “noi”, ho suggerito che l’elemento fondamentale è costruito da quello che chiamo “documentalità”. È attraverso la condivisione di documenti e di tradizioni che si costituisce un “noi”. Ed è proprio per questo motivo che la società si è dotata così presto di scritture e di archivi: per far sì che lo spirito possa manifestarsi e diventare riconoscibile, acquisendo visibilità e permanenza temporale. Da questo punto di vista, la forma più trasparente del “noi” è un documento che reca delle firme, e che manifesta con onestà i termini, i confini e gli obiettivi del “noi”, che in questa versione appare come l’accordo cosciente tra un numero definito di persone per un obiettivo riconoscibile.
Oggi la documentalità è rappresentata soprattutto dal web, questo immane apparato che alcuni ottimisti sono portati a definire come l’espressione di una intenzionalità collettiva, per esempio rifacendosi al ruolo del web nella primavera araba, o più recentemente nel successo del Movimento 5 Stelle. A mio avviso però è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”. Perché le condizioni regolate della documentalità, quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità dell’impegno vengono meno.
Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità collettiva chiaramente ingannevole. I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità sono soggettive: già una decina di “mi piace” sembra indicare un consenso assoluto. I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando la convinzione del tribuno di aver ragione. E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non esageriamo, di gruppo.

La Stampa 28.5.13
Quei demoni continuano a tormentarmi”
La preghiera di Francesco su Angel
Parla Ángel V., il messicano che ha ricevuto da papa Francesco una preghiera di liberazione il giorno di Pentecoste
di Mauro Pianta

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Corriere 29.5.13
Venezuela senza vino. I vescovi: messe a rischio

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La Stampa 29.5.13
Scoperto a Bologna il rotolo della Torah più antico del mondo


È rimasto in un archivio per anni, forse secoli. Liquidato da un bibliotecario di fine ’800 come modesto manoscritto vergato, forse, nel XVII secolo. Invece, quel «Rotolo 2» conservato nella biblioteca dell’Università di Bologna, lungo poco meno di 36 metri e alto 64 centimetri, era in realtà il più antico rotolo ebraico completo della Torah oggi conosciuto. Lo ha scoperto Mauro Perani, ordinario di Ebraico dell’Alma Mater. Durante la redazione del nuovo catalogo dei manoscritti ebraici della biblioteca, ha notato che quella scrittura anomala altro non era se non il modo di vergare la Torah prima che il filosofo Maimonide (morto nel 1204) fissasse in maniera definitiva la normativa rabbinica relativa alla scrittura del Pentateuco. I test al carbonio 14 hanno collocato il documento tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Come sia arrivato a Bologna resta un mistero. Per consentirne lo studio, verrà digitalizzato e reso disponibile sul sito della biblioteca. La rarità del Rotolo è dovuta al fatto che le comunità ebraiche non conservano le vecchie copie in rotolo della Torah usate per la liturgia. Anzi, queste vengono sistematicamente distrutte, perché non possono presentare imperfezioni, e quando si logorano perdono il loro stato di santità.

Corriere 29.5.13
Era nella Biblioteca universitaria
Bologna, scoperta la più antica Torah del mondo
Catalogato come modesto manoscritto del XVII secolo, in realtà era stato compilato 850 anni fa

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martedì 28 maggio 2013

«l’”inconsueta e sorprendente” (Purini) opera di Paola Rossi e Massimo Fagioli (Palazzetto Bianco, 2005) non lontano dal Cupolone, a testimonianza che la tipologia «a palazzina» ancora spinge alla sperimentazione architettonica. Ma si tratta di uno dei rari acuti che si alzano da un coro ottuso».
Corriere Roma 28.5.13
Palazzine borghesi l'invenzione nata a Roma
Le progettano grandi architetti le amano gli speculatori le copiano all'estero
di Giuseppe Pullara


Un secolo fa, secondo i piani urbanistici del Comune, Roma doveva espandersi con ampi fabbricati d'abitazione e villini. Nuovi quartieri come Nomentano, Salario, Pinciano, Monteverde e Parioli sarebbero diventati eleganti zone alto-borghesi a corona della città storica. Ma dopo la Grande Guerra la società cambia e si divarica: si rafforzano gli strati popolari e al tempo stesso emerge un ceto medio che cerca spazio. E casa. Cadono le previsioni sui villini e, con un regio decreto, nel 1920 si passa ad una nuova tipologia edilizia: la palazzina. Ha numerosi pregi. Richiede un investimento limitato, si fa in poco tempo, è venduta subito e bene. Un affare per chi la costruisce. Le regole ci sono: quattro prospetti, un fronte di 25 metri, quattro piani più attico, distacchi dai vicini di 5,70 metri. È destinata alla borghesia emergente: c'è il salotto, lo studio, più tardi i doppi servizi, l'ascensore. Quando non c'è il marmo, c'è il «marmoridea», sua abile replica.
Spesso la progettano validi architetti, che si cimentano a gara con nuove tecniche, nuovi materiali, nuove idee. Aschieri, Capponi, Piacentini e poi Ridolfi, De Renzi, Busiri Vici, Libera a Ostia, Piccinato, Plinio Marconi, Gio' Ponti. In pieno conflitto, nel 1942, sul lungotevere Flaminio appare una facciata fatta di volumi e non di strutture: la «Furmanik» di De Renzi e Calza Bini. Nel secondo dopoguerra la palazzina romana fa boom: dilaga in tutta la città. Quella di Luigi Moretti, «Il Girasole» (1950) a viale Bruno Buozzi è un must. Tante belle, qualcuna super, tantissime semplici copie furbescamente trattate da costruttori praticoni che sguinciano tra norme tecniche e regolamento edilizio per fare più soldi, insaziabili: ecco i veri «palazzinari», quelli del nostro senso comune, piccoli e poi grandi speculatori che hanno disseminato «finte» palazzine seriali ovunque, comprese le periferie, provocando, come dice Paolo Portoghesi, «la destrutturazione della forma urbana».
Un poderoso volume («Palazzine romane» di Alfredo Passeri, ed. Aracne, 1200 pagine) col tracciare la storia di questa invenzione dell'edilizia cittadina - ripresa in tutt'Italia con echi all'estero - ci accompagna nell'evolversi della cultura urbana di Roma accennando anche alla sua storia sociale. Con il diffondersi della palazzina si assiste all'affermarsi di quella borghesia che finisce per impadronirsi della città suggerendo un modello di abitazione cui aspira via via quel ceto medio che riesce a sottrarsi ai fabbricati intensivi. Lo strumento della cooperativa edilizia favorisce il diffondersi di una modalità abitativa che diventa un vero e proprio status symbol.
Docente a Roma Tre, Passeri si è avvalso di un lavoro pluriennale di raccolta dati dei suoi studenti (elencati per nome) arricchendo il libro di saggi, contributi e testimonianze. Le decine di palazzine presentate con schede tecniche e autori costituiscono l'argomento con cui viene lanciato un appello: queste opere architettoniche di qualità vanno tutelate e conservate quali autentici beni culturali della città, in qualche caso vere «opere d'arte» ridotte ad uno stato di degrado per la cattiva manutenzione. Un richiamo destinato probabilmente a incontrare qualche diffidenza poiché alla palazzina, soprattutto nel secondo Novecento, sono legate le immagini della facile speculazione immobiliare, di una società rampante, di ambizioni private, insomma di una serie di vanità sviluppate in contemporanea con dure lotte sociali che comprendevano anche la rivendicazione del diritto alla casa (popolare).
Il repertorio delle palazzine d'autore non vuole essere esaustivo ma indicativo, alludendo all'opportunità di riconoscere e difendere dall'incuria un enorme bacino di architettura di qualità sparso in tanti quartieri. All'ultimo esempio citato, l'edificio di Portoghesi e Gigliotti al Nomentano detto «Casa Papanice» (1970), avvolto in un cromatismo organico, potremmo aggiungere l'«inconsueta e sorprendente» (Purini) opera di Paola Rossi e Massimo Fagioli (Palazzetto Bianco, 2005) non lontano dal Cupolone, a testimonianza che la tipologia «a palazzina» ancora spinge alla sperimentazione architettonica. Ma si tratta di uno dei rari acuti che si alzano da un coro ottuso: i «palazzinari» sono stati superati dai loro successori, che per fare soldi non costruiscono più verso il cielo ma sottoterra prestigiosissimi box per auto.

l’Unità 28.5.13
Il governo
Letta respira: gli elettori hanno capito
Il premier: «Ci viene dato credito»
Il premier soddisfatto: ora impegno sul lavoro
di Ninni Andriolo


Quello che a molti sembrava scontato non lo è. E i risultati di ieri dimostrano che il presidente del Consiglio si è scrollato la «croce che gli era stata gettata addosso», quella cioè di voler guidare un’alleanza «innaturale» con il Pdl che avrebbe fatto pagare al Pd prezzi elevatissimi. Si ragiona così dalle parti del governo, mentre le percentuali di Roma e delle altre città scorrono sugli schermi tv dando la misura delle difficoltà che l’intesa con i democratici al contrario scarica sul partito di Berlusconi e Alfano. «I risultati dimostrano che gli elettori del centrosinistra comprendono le scelte che il Pd ha fatto», così un premier «soddisfatto» ha commentato con i suoi i dati di ieri.
Il primo turno delle amministrative non chiude la partita, naturalmente. Né quella elettorale né quella «per l’Italia» che Letta ha avviato dalla postazione di Palazzo Chigi. Ma la giornata di ieri dimostra che «i giochi sono aperti» e che non sta scritto da nessuna parte che il risultato che il centrodestra riprenderà in mano le redini del Paese. Certo «chi ha votato Pd non pensava di ritrovarsi alleato del Pdl» ricordano dalle parti del governo «ma il dato di ieri dimostra che lo stato di necessità non permetteva alternative» al governo di servizio. Stato di necessità appunto. Dalle parti del governo si comprende benissimo che l’intesa Pd-Pdl non sarà «eterna» e dovrà essere «a tempo». Le elezioni di ieri, tra l’altro, «dimostrano che si tornerà al bipolarismo centrosinistra-centrodestra». Gli elettori del Pd «con responsabilità concedono credito», ma il loro banco di prova sarà costituito «dalle risposte che il governo darà alle emergenze, alla disoccupazione innanzitutto».
E l’interrogativo sulla «durata» dell’esperienza di governo si ripropone anche alla luce delle amministrative. A Palazzo Chigi sono ben presenti i rischi che potrebbe comportare il dato elettorale deludente del Pdl. Come reagiranno i «falchi» che non hanno mai digerito l’alleanza con il Pd e che spingevano Berlusconi verso nuove elezioni anticipate? E come reagirà il Cavaliere, certo fino a ieri di sondaggi che premiavano «il senso dello Stato» ostentato dopo le politiche? Il patto Letta-Alfano («qualunque sarà il risultato, le amministrative non produrranno scosse al governo») non basterà ad arginare un Cavaliere abituato a rivoltare i tavoli sulla base alle convenienze del momento.
E come inciderà sulla stabilità del governo la necessità del Pdl di recuperare nei ballottaggi? Impensabili scosse che terremotino Palazzo Chigi, ma fibrillazioni che mettano in difficoltà il governo Letta sono sempre possibili. Gli argomenti da cavalcare non mancano: dall’Imu, all’Iva, fino alla proroga delle detrazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie. A dispetto delle coperture difficili da trovare il Pdl potrebbe marcare le distanze per provare a recuperare elettoralmente.
Ed è anche per ammortizzare questi rischi che da Palazzo Chigi filtrano interpretazioni del voto che tendono a dare atto sia al Pd che al Pdl di aver guadagnato «i ballottaggi quasi ovunque» e a mettere in risalto i risultati positivi delle larghe intese che «oscurano» il Movimento 5 Stelle. Il governo per dirla con Letta «non esce sconfitto» dalle amministrative, mentre il populismo di Grillo subisce un ridimensionamento evidente. L’astensionismo? La prima risposta di Enrico Letta sarà l’accelerazione sulle riforme. Domani alla Camera e al Senato sono previste due sedute importanti con la presenza del presidente del Consiglio. Letta prenderà la parola nelle due Aule per rimarcare l’esigenza di portare a compimento il percorso riformatore in breve tempo. Il governo auspica che il Parlamento possa sancire con atti formali l’avvio della fase «costituente». Si prevedono più risoluzioni che avranno una «base comune», come annuncia il ministro Quagliariello.
Al di là della polemica sulla clausola di salvaguardia che l’esecutivo vorrebbe far passare per correggere il Porcellum, Letta «non intende giocare al ribasso». I risultati di ieri, anzi, possono favorire sia le modifiche al sistema di voto sia il raggiungimento dell’obiettivo «massimo» che il premier intende perseguire»: una compiuta riforma elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, una nuova forma di governo.

l’Unità 28.5.13
Epifani: questo voto ci incoraggia
Il segretario incontra gli operai dell’acciaieria di Terni, poi commenta con soddisfazione i risultati: premiati serietà e voglia di cambiare
Serracchiani: Marino ha vinto nonostante
di Simone Collini


Un voto «incoraggiante» per il Pd, che a Roma segnala una chiara «volontà di cambiamento» e che nel resto d’Italia «premia la serietà e la capacità di governo» degli amministratori locali democratici e conferma il «radicamento» del partito nei territori. Guglielmo Epifani è soddisfatto dell’esito elettorale ma sa che il lavoro da fare sul partito e con il governo è ancora molto, che come dimostra la bassa affluenza alle urne il divario tra cittadini e politica è profondo e che i problemi con cui l’Italia deve fare i conti sono numerosi e complicati.
Il segretario del Pd lascia Roma di primo mattino, destinazione Terni, per partecipare a un’assemblea di lavoratori organizzata per discutere della vendita del gruppo Acciai speciali Terni da parte della società finlandese Outokumpu. Rientra poco prima che chiudano i seggi e poi segue lo spoglio delle schede dalla sede del partito, chiamando Ignazio Marino per commentare via via il risultato (che alla fine definisce «straordinario» e che «premia il profilo civico»: «Dobbiamo far rinascere questa città, con umiltà e sobrietà»). Il dato del Campidoglio fa registrare una netta bocciatura di Gianni Alemanno «mai nella storia dei sindaci di Roma al primo turno il sindaco uscente ha avuto un numero di voti così basso» conferma il Pd come partito più votato nella capitale e mostra un Movimento 5 Stelle in drastico calo: penalizzato, è l’analisi che viene fatta al Nazareno, dal no al governo di cambiamento tentato da Bersani, che ieri ha letto con soddisfazione i risultati elettorali. Ma al quartier generale del Pd è già il momento di guardare avanti. E infatti Epifani evita di infierire sui Cinquestelle («non è corretto dire qualcosa sul risultato delle altre forze politiche, ma dovrà essere motivo di riflessione per tutti») e lancia un appello in vista del ballottaggio del 9 e 10 giugno: «Sarebbe necessario che tutti coloro che credono e si sono battuti nel rinnovamento trovino nel nostro candidato il punto di riferimento. Se questo avverrà, tra 15 giorni Roma potrà avere quel sindaco di speranza e di rinnovamento che la capitale d’Italia si merita di avere».
Il Pd in queste due settimane dovrà evitare passi falsi e già dalla Direzione convocata per il 4 giugno (che dovrà aprire la pratica congresso) Epifani vuole far uscire un messaggio di unità e di forza del partito. Alcune uscite di ieri, come quella di Debora Serracchiani che ha detto che lei e Marino hanno vinto «nonostante il Pd», non sono piaciute al gruppo dirigente democratico. Il tesoriere Antonio Misiani bolla quella tesi come «stupidaggine», sottolineando che «il Pd è determinante per il buon risultato del centrosinistra in queste amministrative». E lo stesso Epifani parla di un voto «incoraggiante». «Non posso parlare di me e della mia segreteria, questo è evidente», risponde a chi gli domanda se il voto sia un segnale per il suo operato. «È qualcosa che incoraggia il lavoro che ho incominciato a fare, questo sicuramente sì. Credo sia un voto incoraggiante per tutto il Pd. La funzione del partito si conferma forte e il suo radicamento molto vitale. Quando si vuole cambiare si incrocia per forza questo partito e i suoi candidati».
Epifani però sa anche che il Pd, e il governo che sostiene, devono mandare in fretta un segnale di cambiamento affrontando le emergenze con cui deve fare i conti il Paese. Non a caso ha scelto come prima uscita pubblica da segretario del Pd l’assemblea dei lavoratori del siderurgico di Terni. Gli occhi in questo momento sono puntati sull’Ilva di Taranto, che per Epifani non deve smettere di produrre «perché se si ferma quello stabilimento avremmo a cascata conseguenze negative per il grosso degli impianti siderurgici in Italia» e perché solo se si tiene aperto «si possono fare investimenti per bonificare l’area». Ma non c’è solo il caso Ilva, dice il segretario Pd arrivando all’assemblea della Acciai speciali di Terni, che con i suoi 2862 occupati diretti copre il 15% del mercato europeo dell’inox e che ora la finlandese Outokumpu vuole mettere in vendita (dopo averla acquistata 16 mesi fa dalla tedesca Thyssen-Krupp): «Se si vuol dare all’industria italiana una prospettiva e se, come è necessario, vogliamo continuare ad essere un paese manifatturiero, dobbiamo salvare la nostra industria siderurgica», è il concetto su cui insiste Epifani chiamando anche il governo a giocare un ruolo di primo piano in questa vicenda. A Terni parla del destino dell’acciaieria, ma anche di Taranto e di Piombino, di come l’Italia si deve preoccupare se venisse intaccato un settore, com’è il manifatturiero, che copre l80% delle nostre esportazioni. «Il governo si deve muovere con decisione in Europa e nelle politiche interne», è l’appello che lancia a Palazzo Chigi.
Per domani è previsto un incontro in sede governativa a cui dovrebbe partecipare anche un rappresentante della Outokumpu (della quale detiene il 33% il governo finlandese). Sulla vendita dell’impianto siderurgico la nebbia è totale, e i sindacati chiedono che l’esecutivo giochi la partita direttamente anche in sede europea. Lo stesso Epifani giudica necessario «un ruolo attivo e decisivo» del governo perché «quando sono in ballo questioni di mercato europeo, quando devi parlare con multinazionali, è evidente che la sede non può che essere quella del livello nazionale». Ma non solo. Dice il segretario del Pd: «La questione dell’industria delle acciaierie in Italia è forse oggi la crisi industriale più profonda perché, in realtà, è una grande infrastruttura di base che serve a tutta l’industria italiana. Per questo sia il futuro di Terni, sia la situazione particolarmente difficile dell’Ilva, sia la situazione di Piombino e della Lucchini, cioè tre grandissime realtà degli acciai italiani, oggi richiede da parte del governo una particolare attenzione».

il Fatto 28.5.13
Contenti loro...
di Antonio Padellaro


Sui tg è tutto uno squillar di trombe sul voto che “rafforza le larghe intese”. Palazzo Chigi “esprime soddisfazione”. Esulta il Pd e si congratula per la caduta di Grillo pensando: mors tua vita mea. Santanchè, Ferrara e Feltri condividono: è l’unica notizia buona di una giornata non buona per il Pdl (a Roma, Alemanno è quasi kaput e rischiano di perdere a Brescia dove Berlusconi comiziò tra i fischi). Come si dice: contenti loro... I numeri dell’astensione sono tragici e insieme ridicoli. Ha votato solo il 62 per cento, 15 punti in meno dell’altra volta. A Roma siamo vicini a quota 50 e il distacco rispetto a cinque anni fa è di 21 punti. Che sono 24, un vero record, a Pisa: la città che diede i natali al soddisfatto Enrico Letta. Che cosa i partiti abbiano da festeggiare, resta un mistero. Ormai più della metà del popolo italiano (contando anche i 5 Stelle) se li conosce li evita, a ogni tornata milioni di elettori vanno in fuga , ma loro appagati si spartiscono una torta sempre più piccola. Con questo ritmo tra qualche anno avranno desertificato la democrazia storicamente più affezionata al voto, e l’ultimo spenga la luce. Ma che gli importa, le istituzioni sempre quelle restano e, se anche le urne si svuotano, consigli comunali e prebende non dimagriscono certo. Confondere il voto amministrativo con il consenso per il governo, buche stradali e parcheggi con la procedura d’infrazione per deficit eccessivo è una barzelletta e lo sanno benissimo. Ma è soprattutto il Pd che cerca di cancellare le impronte del più clamoroso tradimento del mandato elettorale che si ricordi (fingere la guerra al Caimano per poi governarci assieme). Troncare, sopire insomma (avete notato che Napolitano non monita più?). Infine, nella Capitale è in testa Ignazio Marino, che da senatore la fiducia all’inciucio non l’ha mica votata. Significherà qualcosa?

il Fatto 28.5.13
Marino vince Marino perde
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, Marino va, come numero uno al ballottaggio. Considerato che ha dovuto fare tutto da solo (o quasi) è un buon risultato. Ma Roma per metà non è andata a votare. Previsioni? Conclusioni?
Valentino

PER LE CONCLUSIONI è presto perché, ormai è largamente provato, il ballottaggio è un passaggio infido. Tutto fa pensare, al momento, che Marino mostrerà più forza e più tenuta di Alemanno, che esce da un quinquennio disastroso. Quasi certamente va posto a carico di Alemanno l’enorme astensione dal voto che ha avuto luogo a Roma, rispetto alla media italiana. La città è arrivata al voto con un rancore verso una politica caotica, sgangherata, familistica e corrotta che si è dimostrata in linea con i punti e i volti peggiori della politica nazionale. Certamente per Marino ha pesato la palla al piede del governo di larghe intese che lui non ha votato, anche se probabilmente gli ha fatto onore (e portato voti) avere scelto Rodotà quando il suo partito al Parlamento sembrava avere perduto la bussola di un minimo di orientamento politico e anche di istinto di sopravvivenza. Dunque si presenta con buoni titoli contro un sindaco usato (e usato male) come Alemanno. Se fossi in lui non sottovaluterei gli enormi errori di cui è capace il suo partito, mentre dura questa luna di miele con Alfano. Per esempio vanno dicendo che “le larghe intese reggono alla prova delle elezioni amministrative di Roma”. Non potrebbero dire peggio, perché la frase giusta sarebbe “Marino in testa nonostante le grandi intese”. La verità è che Marino ha potuto vincere (al primo turno) contro Alemanno perché in nessun momento ha fatto finta di confrontarsi con un alleato di governo, e anzi è riuscito a farlo dimenticare a molti romani. Ha pagato il suo prezzo a quella brutta alleanza perdendo la metà dei votanti. Tutto induce a credere che in quei voti mancanti la maggioranza, sarebbe stata per Marino e gli avrebbe evitato il ballottaggio. Perché lo dico? Perché, nel pur diffuso rigetto della politica, il risentimento più forte e più esteso è quello di coloro che avevano (e che avrebbero) votato Pd ma non si danno pace del governare insieme, e col sostegno, di Berlusconi, non accettano di avere un presidente del Consiglio Pd che, come in un brutto film satirico, governa accanto ad Angelino Alfano, (che è anche ministro dell’Interno ) creatura e rappresentante personale dell’uomo che da venti anni fa, indisturbato, il padrone del Paese. Solo se quelli del Pd smetteranno di vantarsi per il risultato miracoloso di Marino, Marino potrà vincere alla fine.

il Fatto 28.5.13
La manifestazione del 2 giugno a Bologna
La Costituzione non è cosa vostra
di Gustavo Zagrebelsky


Libertà e Giustizia manifesterà a Bologna il 2 giugno in difesa della Costituzione. Di seguito, stralci del manifesto firmato da Gustavo Zagrebelsky, presidente di LeG. La versione integrale sul sito dell’associazione.
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi (...) È evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico (...) L’incredibile decisione di confermare al suo posto il presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L’ancora più incredibile applauso che ha salutato quella rielezione – che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta – è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio (...) reagisce con l’istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme (...) Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a quanti la considerano cosa loro (...) La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra? (...)
SU UN PUNTO, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni (...) Anche noi vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace” (...) Siamo di-sposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento (...) Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con la “normalizzazione”. C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto.

Repubblica 28.5.13
Claudio Amendola:
“È la prima volta che diserto ma al ballottaggio mi turo il naso e vado”
di Laura Serloni


Claudio Amendola lei ha votato per l’elezione del nuovo sindaco di Roma?
«No, non sono andato. Non avevo nessuno da votare».
È la prima volta che diserta le urne o ci sono state altre occasioni in passato?
«È la prima volta ed è molto triste, ma sono disinteressato ormai alla politica».
Perché?
«Non ho un partito che mi rappresenta, prima era Sel. Il Pd non è più la sinistra, è totalmente disintegrato e sono anche molto arrabbiato per questo governo di larghe intese. Spero che le cose cambino e che riuscirò prima o poi a votarlo».
Ha seguito la campagna elettorale romana?
«È stata poco entusiasmante e Marino non mi piace, non mi ci riconosco».
Quindi non andrà a votare al ballottaggio?
«Sinceramente questo primo turno mi sembrava più interlocutorio. Mi turerò il naso e andrò a votare al ballottaggio».

Repubblica 28.5.13
L’amaca
di Michele Serra

Il calo pauroso dei votanti dice che l'appeal della politica nel suo complesso (5Stelle comprese) è in irreparabile declino.
Ma dentro il quadro d'insieme il crollo del centrodestra, già ben delineato dai sei milioni e mezzo di voti in meno alle politiche, è devastante. E porta a farsi una domanda semplice semplice: come è possibile che Berlusconi, che ha portato il centrodestra italiano ai minimi storici, sia al governo del Paese? (Piccolo corollario: come è possibile che la Lega, con meno del 5 per cento dei voti, governi le tre maggiori regioni del Nord?). La risposta chiama in causa, impietosamente, la pavidità e la confusione della sinistra.
Nel momento della sua massima impopolarità, e del suo palpabile crollo elettorale (e le comunali sono andate perfino peggio), Berlusconi è stato letteralmente miracolato dai suoi avversari. Tutti. Il Pd che prima non è stato capace di eleggere un nuovo capo dello Stato, anzi un capo dello Stato nuovo; poi ha accettato l'irricevibile proposta delle larghe intese per sudditanza nei confronti del Quirinale, e irragionevole paura dei cambiamenti sociali e politici. E 5Stelle per non essersi sporcate le mani con la politica vera, e avere opposto al Pd solo uno sciocco muro di diffidenza e di scherno. Berlusconi ringrazia entrambi.

Corriere 28.5.13
Bettini rivendica l'alleanza con Sel: per noi è l'unica prospettiva virtuosa
di Alessandro Capponi


ROMA — Non sfugge a nessuno, e certo non a Goffredo Bettini (in foto) — dimagrito, sempre in posizione defilata e sempre, in qualche modo, decisivo nel centrosinistra romano — la distonia tra il livello nazionale e quello romano, con il governo Pd-Pdl di là e l'alleanza di qua, finora premiata dagli elettori, del Pd con Sel.
«L'esperienza romana indica una prospettiva virtuosa, costruita prima con il lavoro in Provincia e poi con la squadra per la Regione, con una classe dirigente che esprime un sentimento comune, che fa sentire tutti a casa propria. Al contrario della situazione nazionale che, sinceramente, ritengo più arretrata».
Cos'altro dimostra il risultato di Marino?
«Tre cose. La prima: è un risultato buono e conferma, anche se il Pd ha vissuto e vive una fase difficile, una tenuta del suo insediamento elettorale. La seconda: le primarie funzionano, danno una forte legittimazione al candidato. La terza: l'elettorato ha bocciato Alemanno, mai con l'elezione diretta un sindaco uscente aveva conseguito un risultato così negativo».
Adesso il Pd pare unito con Marino...
«Il Pd ha contribuito a metterlo in campo e l'ha sostenuto con sincerità...».
Insomma...
«Ma l'ha sostenuto con tantissimi dirigenti, e quel 26 per cento ottenuto dal Pd è parte fondamentale del risultato».
Marino votò Rodotà, non il governo Letta: ci furono mal di pancia nel Pd.
«Marino è un irregolare, libero, è la sua forza. Non è stato percepito come esponente di uno schieramento ma come civico: è la sua carta vincente, da unire, ora ancora di più, a una condotta inclusiva. Abbiamo la responsabilità dell'alternativa, dobbiamo rappresentare un elettorato più ampio, quel 70 per cento che vuole il cambiamento, a partire dall'elettorato del M5S. Alemanno, sindaco della restaurazione dopo un lungo periodo di slancio, di creatività anche imprenditoriale, ha chiuso Roma a riccio nelle rendite, nei monopoli, in un'oligarchia ristretta che l'ha mortificata. Con una squadra non all'altezza, piena di ombre: l'elettorato moderato l'ha rifiutato».
E Alfio Marchini?
«Era al debutto, ha ottenuto un risultato importante: ciò che ha detto per la città a noi interessa, è un democratico, ovviamente non mi permetto di forzare una sua dichiarazione di voto che deve maturare, se maturerà, in modo del tutto autonomo».
Marino ha posizioni nette sui diritti civili: e la Chiesa?
«Marino è cattolico, ed è un medico. Senza voler dire parole improprie, credo che queste settimane siano state rivoluzionarie per la Chiesa cattolica, per l'attenzione rinnovata verso gli umili, gli offesi: e credo Marino sia in sintonia con il messaggio profondo che arriva dal soglio pontificio. Senza dimenticare che su aborto e divorzio Roma si è espressa, con coraggio, in epoche anche lontane».
Marino vince nonostante il Pd: è vero?
«Se fosse andato male, ne avrebbero chiesto conto al Pd...».

Repubblica 28.5.13
“Lontani dai seggi per protesta è la crisi dei leader virtuali”
De Rita: il Pd salvato dal voto di appartenenza
di Alberto D’Argenio


Professor De Rita, presidente del Censis, come spiega l’impressionante astensionismo che ha segnato queste elezioni?
«Da troppi anni c’è una personalizzazione della politica con partiti che di fatto sono diventati prodotti individuali guidati da leader virtuali. Il che ha ridotto le cinghie di trasmissione tradizionali come quelle delle sezioni, delle associazioni, dei sindacati, del volontariato o della dimensione ecclesiale. In questo contesto se il leader non tira più o non tira perché la dimensione delle comunali è troppo piccola, non c’è il resto che compensa. A febbraio Grillo e Berlusconi hanno dimostrato che alle politiche il grande leader tira ancora, per il resto c’è il vuoto».
Come spiega il cattivo risultato del M5S?
«A Roma Grillo ha perso quasi la metà dei consensi delle politiche perché il voto per il Movimento non è stato di appartenenza, ma di protesta. Un tipo di voto che alle comunali è finito nell’astensionismo. D’altra parte non essendoci appartenenza per gli elettori del M5S tira il vaffa o l’attrazione del leader che alle comunali si fa sentire meno. Per questo il risultato del candidato grillino era scontato. De Vito ovviamente non aveva la statura per sostituire Grillo e i leader intermedi funzionano solo se possono contare su un senso di appartenenza da parte degli elettori. Basta guardare Marino che non è un grande leader personale ma che ha abbastanza beneficiato del senso di appartenenza del popolo di centrosinistra».
Questo dato va inserito in un trend o va isolato?
«È un dato da isolare, non va preso come l’inizio di un declino dei grillini perché alle politiche la rabbia e la capacità attrattiva del leader resteranno fino a quando non si consumerà la leadership di Grillo o il rancore non si incanalerà verso altre direzioni. Ragion per cui bisogna sospendere il giudizio, sarebbe troppo facile dire che sono in declino, aspettiamo e vediamo».
E sull’astensione? Trend o dato isolato?.
«Anche il tasso di astensionismo lo considero isolato. Potrebbe diventare un trend solo se si confermasse alle politiche. Da questo punto di vista nemmeno le europee saranno un test efficace perché da sempre sono vissute dai cittadini come il voto per un’Europa virtuale. A meno che le europee del prossimo anno non si trasformano in elezioni dominate da populismo ed antieuropeismo: in questo caso ci troveremmo di fronte a qualcosa in grado di mobilitare l’elettorato. E in questo scenario la cultura e la furbizia di Grillo potrebbero galoppare».
Come spiega il dato di Roma dove l’astensione è stata quasi del 50%?
«Con uno snobismo dei romani verso i due candidati dei partiti maggiori evidentemente considerati non all’altezza della città. Sostanzialmente il problema è stato di Marino e Alemanno, non certo di De Vito e Marchini. La mobilitazione la dovevano portare Pd e Pdl, ma i loro candidati non hanno convinto i romani. Il danno è stato limitato solo perché hanno funzionato l’apparato partitico di Marino e il coinvolgimento delle categorie di Alemanno».

La Stampa 28.5.13
Isola Capo Rizzuto
Sconfitta la sindachessa calabrese anti ’ndrangheta. In paese offrono cornetti
Carolina Girasole, in questi anni ha subito vari attacchi: ha ottenuto solamente il 12% fra gli undicimila elettori
di Niccolò Zancan


Nei bar non ti danno tregua. Offrono cornetti e brindano: «Ce ne siamo liberati! Evviva! Quella si credeva la paladina della giustizia, ma ha detto soltanto falsità. Qui si sta benissimo, altroché mafiosi. Dovete scriverlo: da cinque anni non c’è un morto ammazzato. Mentre quella ha ucciso il turismo a forza di parlare di ‘ndrangheta. Ha infangato tutto il paese. Voleva fare carriera sulla pelle nostra». Tanti saluti al sindaco della legalità. Al sindaco che ha fatto pagare per la prima volta le bollette dell’acqua. Al sindaco che ha confiscato sette terreni alla mafia, per farne orti botanici, sale musica, ostelli, ludoteche. Che con Libera di Don Ciotti ha progettato un centro di confezionamento per prodotti agricoli. L’unica che abbia provato a contrastare «certi poteri» e «certe famiglie».
È stata una battaglia lunga cinque anni. Combattuta a colpi di intimidazioni, bombe incendiare sulla porta del municipio, auto in fiamme e scritte: «Ti ammazziamo». Ma anche, forse soprattutto, in maniera meno rumorosa: con maldicenze continue perpetuate su un blog anonimo. Alla fine, le amministrative del maggio 2013 decretano che il sindaco uscente Carolina Girasole ha perso. Peggio: il suo è un tracollo. Il paese l’ha rigettata. Oscilla fra il 12 e il 13 per cento delle preferenze. Alle otto di sera, circa 900 voti su 11 mila 717 aventi diritto. «Sono molto amareggiata», dice Girasole. «Volevamo rompere questo sistema che accomoda sempre gli affari e gli interessi di alcuni. Evidentemente questo impegno non è stato apprezzato». Biologa, due figlie, radici profonde in questa terra, Carolina Girasole si è dovuta presentare con una lista a suo nome. Perché anche una parte del Pd l’aveva abbandonata. E il candidato sindaco di quella parte, Damiano Milone, ora è molto avanti nel gradimento: 29 per cento. Anche se proprio lui era già sindaco nel 2002, quando il Comune era stato sciolto per mafia. «Calma con le parole», dicono i suoi sostenitori. Ti circondano al bar della piazza per lanciare un’offensiva mediatica: «Sono cose ancora tutte da provare quelle del 2002. La mafia... Diciamo problemi legati a infiltrazioni di certa criminalità». Milone è secondo. Primo è il candidato del Pdl, con una percentuale fra il 49 e il 51 per cento. Si chiama Gianluca Bruno, 32 anni, imprenditore nel ramo pacchi e spedizioni, già famoso per una foto in un locale pubblico della zona con il senatore pidiellino Nicola Di Girolamo che recentemente ha patteggiato cinque anni di carcere ed altri «notabili» del paese. «Tutte persone più che rispettabili - spiega il sindaco in pectore - nessun figlio di un boss, come qualcuno sbagliando ha scritto». Si riferisce a Fabrizio Arena, figlio di Carmine Arena, ucciso nel 2004 - per la cronaca - a colpi di bazooka. Perché questa non è precisamente una terra in pace. Andare verso il mare stupendo è un incubo italiano. Rifiuti abbandonati. Abusi edilizi fin sull’orlo della spiaggia. Spropositate pale eoliche che devastano l’orizzonte. Anche di questo cercava di occuparsi il sindaco antimafia Carolina Girasole. «Il paese non vuole cambiare dice con tristezza -, proprio sull’eolico ho preso posizioni molto dure».
Il probabile vincitore annuncia il suo programma: «Più turismo, più carabinieri e meno polemiche». I suoi sostenitori vengono a dirti: «Quella là non è migliore degli altri. Presto ve ne accorgerete. Verranno fuori anche le sue magagne». Ed è così che si demoliscono gli avversari politici da queste parti, rendendoli uguali a te. «L’altro giorno mi hanno riportato un discorso intercettato a un banco di frutta e verdura - racconta Carolina Girasole -; uno diceva all’altro: “Mi raccomando, non votare la ribelle”. Ho capito bene cosa significhi quella parola. Spesso ho avuto paura, ma non la rinnegherò mai».

Corriere 28.5.13
il Pd azzoppa il suo sindaco antimafia
Lotta tra due candidati democratici
Gianluca Bruno, pdl, verso il Comune: «La mia foto con Dell'Utri? Vecchia»
di Goffredo Buccini


ISOLA CAPO RIZZUTO (Crotone) — A mezzogiorno è già una ex sindaca, e lo sa benissimo. Da giorni i suoi comizi erano quasi deserti, le porte del paese dominato dai boss Arena le venivano quasi sbattute in faccia. Sicché, tre ore prima della chiusura dei seggi, alza lo sguardo dietro gli occhialini da professoressa intransigente che così poche simpatie le hanno procurato tra i suoi concittadini in cinque anni e sogghigna amara davanti alla fotocopiatrice: «Sto portandomi appresso un po' di pratiche... scottanti: cambi di destinazione d'uso, varianti». I suoi hanno musi lunghi, in municipio c'è quest'aria da Caporetto annunciata.
Non si fida di nessuno, ormai, Carolina Girasole. Nel volgere di poche ore le urne decreteranno l'ascesa del nuovo astro di Isola, Gianluca Bruno: 51 per cento alle nove di sera, stando ai comitati elettorali, anche se i seggi chiusi ufficialmente sono solo tre e le schede contestate 400, molte. Bruno è un pidiellino giovane e aggressivo con la foto di Dell'Utri nell'album di Facebook e un annuncio pronto in tasca: «Ora la lotta ai clan cambia, da domani si fa davvero» (sottintendendo che Carolina vendeva fumo a noi, allocchi dei media). Soprattutto, il voto di Isola fotografa l'ennesimo disastro del Pd, spaccato in due: metà con la Girasole che — assieme a Maria Carmela Lanzetta di Monasterace, Elisabetta Tripodi di Rosarno e Annamaria Cardamone di Decollatura — aveva incarnato la primavera delle sindache antimafia calabresi; metà con Nuccio Milone, ex comunista («passato per Frattocchie!»), politico navigato, sindaco per undici anni: finché il prefetto non gli sciolse il consiglio comunale per mafia, mentre l'abusivismo toccava punte dell'80 per cento.
Bersaniani con la sindaca, renziani con Milone, sintetizzano i superstiti nella ridotta del municipio: e chissà se è vero. La Girasole tira fuori il cellulare e sfodera una polemica al veleno. «Ecco, guardi qui. Il 28 aprile ho mandato un sms a Renzi, chiedendogli un aiuto: pd diviso con renziani che propongono sindaco sciolto per infiltrazioni nel 2003, l'altra minoranza sta con me riconosciuta per battaglia contro la 'ndrangheta. Capisco le difficoltà nel partito ma prendete posizione». E Renzi? «Non mi ha mai risposto». Sicura del numero? «Beh, su questo numero gli avevo parlato quando mi aveva invitato alla Leopolda e io non ero andata per non suscitare divisioni qui». Magari ha cambiato numero. «Magari».
Il segretario cittadino del partito, Salvatore Frio, genio della comunicazione, sbuffa: «Non ho tempo di commentare, la Girasole non è neppure tesserata». Commenta, eccome, il vero capo, l'ex sindaco Milone: «Renziani contro bersaniani? Balle! La verità è che appresso a lei si stava distruggendo il Pd e io l'ho salvato». In che senso? «Adesso ripartiamo, smettetela di bervi tutte le fesserie che vi ammannisce la Girasole». Verso sera, lo spoglio è lentissimo, la prefettura preme: ma i rappresentanti di lista hanno un verdetto concorde. Bruno in vetta. Milone al 30 per cento, Carolina al 14 che mormora «non ho parole, si sono messi d'accordo per impedirmi di arrivare al ballottaggio». L'amarezza pesa… Ma certo, parlando al telefono con la moglie, Milone sembra uno che ha vinto: «Male? No, è andata bene, bene!». Si arrabbia di brutto quando gli si ricorda lo scioglimento per mafia: «Nessuno di noi è mai stato inquisito, poi. La verità è che il prefetto subì pressioni». Accusa grave. «Dal centrodestra. Io ho sempre lavorato perché il Comune mettesse mano sul Cie». Il Cie, il secondo centro immigrati d'Europa, è la vera ciliegina della torta, chi lo avvicina senza accortezza rischia perlomeno di scivolare. Molta voce in capitolo ha la Misericordia di don Edoardo Scordio, un parroco potente, che male ha digerito l'arrivo in paese di don Ciotti e di Libera, sponsor la Girasole. «Di queste cose non parlo, non voglio essere equivocato», dice al telefono. In effetti l'equivoco è in agguato a Isola: tutto si mescola, interessi leciti e illeciti, amicizie e parentele; nulla è come appare. Un blog locale con tendenza alla diffamazione ha inseguito l'ormai ex sindaca rinfacciandole per anni una parentela acquisita con gli Arena (la sorella di suo marito ha sposato un nipote dei boss). Ma Maria Teresa Muraca, esecutivo regionale Pd (fazione girasoliana), spiega: «Noi qui conosciamo le persone. E sappiamo che il cognato di Carolina non ha rapporti con quel pezzo di famiglia. E poi contano le azioni». Già. La Girasole s'era messa in testa di far pagare i tributi, mandava i vigili a fare verbali ai cantieri abusivi, piantava il grano nelle terre confiscate ai boss. «Era una dittatrice e perdeva consenso», sbuffa Milone. «Stava cambiando una cultura», dice il suo comandante dei vigili a un tavolo del ristorante «Dieci HP».
Qui gli Arena spostano, e tanto. Di Girolamo, il senatore che Gennaro Mokbel definiva «lo schiavo mio», prese un plebiscito nel 2008, poi finì in galera. Generosa l'accoglienza pidiellina. La vigilia elettorale è stata segnata dai soliti roghi, qualcuno ha dato fuoco anche alla Bmw del giovane Gianluca Bruno, il vincente tifoso di Dell'Utri. «Ancora? Se insiste sulla foto cominciamo male!». Beh, forse stride… «È del 2007, lui era senatore. E poi, non la guardo mai». Domani è un altro giorno: a occhi chiusi, sicuramente migliore.

l’Unità 28.5.13
Merola: «Non rinunciamo alle convenzioni»
I referendari chiedono il rispetto del voto contro le scuole paritarie
Il sindaco: «Ne terremo conto»
di G. G.


BOLOGNA «Terremo conto del voto, ma Bologna non deve rinunciare al sistema delle convenzioni» con le scuole per l’infanzia private paritarie.
Nel giorno in cui il comitato referendario Articolo 33, sotto le due Torri, incassa la maggioranza delle preferenze sulla cancellazione dei finanziamenti agli asili privati, il sindaco Virginio Merola ribadisce quanto affermato lungo tutta la campagna elettorale. E cioè che, qualunque fosse stato l’esito del referendum, la giunta avrebbe proseguito per la sua strada. Un’affermazione che, all’indomani del responso dato dalle urne, parte anche dei numeri: su 290mila aventi diritto, domenica sono andate a votare 85.934 persone (28,71%). Di questi, circa 50mila il 59% hanno chiesto che venissero aboliti i fondi alle private, contro il 41% (poco più di 35mila) per l’opzione “B”. E le cifre rappresentano il picco più basso d’affluenza nella storia della città, seppure i passati appuntamenti referendari come quello del 1984 sulla chiusura del centro alle auto fossero stati accorpati ad altre elezioni. Certo, il sistema integrato, che conta 70 asili comunali, 25 statali, e 27 privati convenzionati, «può essere migliorato», ad esempio prevedendo maggiori controlli da parte dell’amministrazione, precisa il primo cittadino. Ma «non abolito». E in ogni caso, dopo le lacerazioni di una campagna elettorale che ha visto schierati su fronti opposti Pd e Sel, così come parte della Cgil e sindacalisti di scuola e comparto metalmeccanico Flc-Fiom, ora è il momento di ricompattare le file per «una battaglia comune, per ottenere più sezioni statali».
Ma a bacchettare il sindaco sulla volontà di mantenere ferme le convenzioni, in serata, arriva l’ex premier Romano Prodi, che la scorsa settimana aveva espresso il proprio endorsement proprio all’opzione “B” e al lavoro di Merola. «I referendum si accolgono le sue parole - io ero per la B, ha vinto la A». E di questo, ribadisce Prodi, la giunta bolognese dovrà in qualche modo tener conto. Benché l’appuntamento abbia «raccolto i voti di coloro che più erano interessati» ai temi della scuola, sottolinea, quindi «con un’eredità di forti problemi e forti tensioni». E se, per il comitato per la B il messaggio è «ricucire e lavorare», a patto che il sistema pubblico-privato non si tocchi in alcun modo, è proprio da lì e cioè dalla volontà di portare fino in fondo la vittoria che partono i referendari della A. L’obiettivo, insomma, «è esigere il rispetto dell’esito del referendum dice per Articolo 33 Maurizio Cecconi cioè l’abolizione dei finanziamenti pubblici alle scuole paritarie private». Non era ieri «il momento per dire come e quando» questo sarà possibile, dice ancora Cecconi. «Ma da domenica sono scattati i 90 giorni di tempo in cui l’amministrazione dovrà esprimersi sul da farsi. E in questo periodo discuteremo con Palazzo d’Accursio, chiedendo che il risultato sia rispettato». In questa prospettiva, «il 18 giugno si terrà un’istruttoria pubblica sulla scuola per i bimbi da 0 a 6 anni», annuncia la presidente del Consiglio comunale Simona Lembi. Mentre Sel, che in Comune a Bologna è in maggioranza con il Pd, già incalza la sua giunta a mettere mano alle convenzioni. «Se non è in discussione quel sistema chiede la capogruppo Cathy La Torre cos’è, esattamente, in discussione?».
Da parte loro, i Democratici bolognesi puntano sui numeri. «L’esito del referendum dicono ci consegna un quadro di bassa partecipazione al voto, anche in considerazione della storia partecipativa della nostra città». Mentre Francesca Puglisi, capogruppo Pd in commissione Cultura al Senato, aggiunge: «Lo sostenevamo da tempo, per come è stato formulato il quesito il referendum era poco più di un sondaggio dall’esito scontato».
Non nascondono affatto i malumori, invece, i berlusconiani, che già ieri in Consiglio comunale avevano presentato un ordine del giorno che chiedeva alla giunta Merola di confermare le convenzioni. Documento che la maggioranza si è rifiutata di discutere nella seduta di ieri. «Un disastro sotto tutti i punti di vista definisce il referendum l’ex ministro alla Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini l’affluenza è stata appena del 28%, auspichiamo se ne tenga conto».

l’Unità 28.5.13
«Ma il Comune deve riconoscere il voto di 50mila cittadini»
Ivano Marescotti
L’attore: «L’astensionismo non è stato un flop per noi referendari
Il finanziamento alle paritarie private deve essere cancellato»
di Giulia Gentile


In diciotto anni di convenzioni fra Comune e scuole per l’infanzia paritarie, quanti soldi sono stati spesi? Quanti bambini avrebbero potuto essere «salvati», e quanti posti creati nelle scuole pubbliche, se quei fondi fossero invece stati investiti negli asili comunali o statali? Mi dispiace, ma quella sulla destinazione dei finanziamenti alle materne è una scelta di principio ed è una scelta politica, prima ancora che pragmatica. Ora il Comune rispetti la volontà di 50mila persone». Ivano Marescotti, attore di cinema e teatro romagnolo d’origine ma bolognese d’adozione, è fra i sostenitori della prima ora del comitato Articolo 33, che ha raccolto le firme per chiedere una consultazione sugli stanziamenti di Palazzo d’Accursio alle scuole per l’infanzia private convenzionate.
Dopo mesi di dibattito accesissimo, e la discesa in campo di grossi nomi della politica e della cultura, alle urne domenica si è presentato un numero di Bolognesi che si è fermato ai minimi storici, 85.934 persone pari al 28,71 per cento.
«Dire che il risultato del referendum rappresenti un “flop” è l’affermazione più incredibile che si possa sentire. È stato un “flop”, certo. Ma non per i referendari che hanno vinto. Abbiamo portato a votare 50mila persone, con un comitato iniziale rappresentato da una cinquantina di autoconvocati. Mentre l’altro fronte, che ha visto scendere in campo i partiti più grandi a iniziare dal Pd, fino a cardinali e ministri, non è arrivato che a 35mila voti».
Non crede piuttosto che a vincere sia stato il disinteresse per un tema forse non sufficientemente presentato come interesse di tutti, e non solo di chi ha dei bimbi piccoli da sistemare all’asilo senza pagare una rata stratosferica?
«Al contrario. Credo che l’astensionismo, il non voto, rappresenti una volta di più il fallimento del Partito democratico in questo campo. La mia analisi è che molti fra i simpatizzanti bolognesi del Pd non siano rimasti convinti dall’opzione “B”, malgrado lo schieramento massiccio del partito e del sindaco Virginio Merola durante la campagna. E così, invece di andare a votare per qualcosa che non li convinceva hanno preferito stare a casa. Chi non ha votato non è certo andato al mare».
Ma fin dall’avvio della campagna referendaria, si era più volte sottolineato come sarebbe stato il numero dei partecipanti, più ancora dell’opzione vincente, a sancire il peso politico del referendum. «Quello di domenica è stato infatti un importante test politico, valido anche per tutte le altre città italiane. Il risultato di Bologna va applicato qui, come a Reggio Emilia o a Bari. Io sarei per farlo a livello nazionale, un referendum del genere. E non si dica che il risultato “non vale”, perché a votare sono andate poche persone. Fin da subito era altrettanto noto a tutti che in un referendum consultivo non ci sarebbe stato nessun quorum da raggiungere. In ogni caso, 86mila persone si sono espresse. E la “A”, che chiede che i fondi alle paritarie vengano tolti, ha vinto per distacco». Dopo aver detto per tutta la campagna che, qualunque fosse stato l’esito, la sua giunta avrebbe tutelato comunque le convenzioni con le private, ieri Merola ha auspicato «una battaglia comune coi referendari per ottenere più sezioni statali». Voi cosa gli chiederete?
«Noi siamo d’accordo, ovviamente, a lavorare tutti insieme perché lo Stato riconosca finalmente più fondi al Comune di Bologna per le scuole per l’infanzia. Ma questo non toglie che continueremo a premere perché il milione di finanziamento alle private venga cancellato. Per quanto riguarda Merola, il mio parere è che ora si trovi in una posizione poco sostenibile. Durante la campagna elettorale non si è limitato a fare l’arbitro, si è impegnato in prima persona per il “B”. Io, fossi in lui, ne trarrei le dovute conseguenze e mi dimetterei».

La Stampa 28.5.13
Il voto sulle scuole cattoliche a Bologna
Il sindaco: manterrò le convenzioni
Prodi: no, si rispetti il referendum
di Franco Giubilei


Mentre i promotori del referendum brindano a quel quasi 60% che ha scelto di destinare alla scuola pubblica il finanziamento riservato alle paritarie cattoliche convenzionate, e adesso chiedono al comune di decidere di conseguenza, dall’altra parte si aggrappano al fatto che alle urne si sia presentato solo un bolognese su tre (il 28,71%, per la precisione). Il giorno dopo lascia una coda di malumori striscianti soprattutto nel fronte del B, cioè del no al dirottamento dei contributi, per capirci, quella strana alleanza che andava dal sindaco Merola al Pd – tutt’altro che compatto) -, dal Pdl alla Lega, dalla Cisl a Romano Prodi, fino al presidente della Cei Bagnasco. Il sindaco da un lato abbozza, «non possiamo ignorare la richiesta di scuola pubblica», ma dall’altro tiene duro sulla sua linea: «Bologna non deve rinunciare al sistema delle convenzioni con le scuole materne private», un sistema che «può essere migliorato ma non abolito». La conclusione salomonica arriva davanti al consiglio comunale: «Nessuno ha vinto o perso in modo definitivo, dire che A (i referendari) ha vinto e che B ha perso sarebbe giusto e incontrovertibile solo nel caso di un referendum decisionale e non consultivo come questo. Lavorerò perché nessuno venga messo da parte e per tenere conto di chi ha votato A». Tradotto: «La maggioranza non è a rischio è a rischio il fatto di non interpretare in modo corretto il risultato di questo referendum». Già, ma intanto la crepa all’interno della maggioranza che sostiene la giunta si allarga, tant’è vero che Sel – fra i sostenitori del comitato Articolo 33 -, risponde a stretto giro: «Caro sindaco, se non è in discussione il sistema delle convenzioni cos’è esattamente in discussione? Questo è ciò su cui avremo una particolare attenzione» avverte la capogruppo in consiglio Cathy La Torre, che per essere più chiara aggiunge: «Le deleghe non sono più in bianco e il nostro gruppo non perderà occasione di ricordarlo a questa amministrazione». Anche perché i 50mila che sono andati a votare A «sono anche una bella metà di chi ha sostenuto il sindaco» e sarebbe un «errore tragico» ignorare questa «richiesta di partecipazione». E mentre la Lega tende una mano interessata al sindaco, ricordando che in caso venisse a mancare l’apporto di Sel alla giunta il Carroccio ha lo stesso numero di consiglieri dei vendoliani – «siamo quattro e quattro…», ha alluso ieri -, un nome eccellente del fronte del B come Romano Prodi commenta sibillino: «I referendum si accolgono. Si accolgono. Io ero per l’opzione B, ha vinto l’opzione A». No comment sulla decisione di Merola di mantenere comunque la convenzione con le scuole paritarie private, e un accenno ai problemi che attendono l’amministrazione felsinea: «È un referendum che ha raccolto i voti di coloro che più erano interessati, con un’eredità di forti problemi e forti tensioni». Ora la palla avvelenata passa al consiglio comunale, che avrà tre mesi di tempo per decidere se cambiare la convenzione. Nel frattempo, i vincitori del comitato passano all’attacco col filosofo Stefano Bonaga: «Parlare di flop (per la bassa affluenza, ndr) è antipatico. Un apparato bestiale ha portato a votare solo 35.000 persone». E l’attore Ivano Marescotti: «Merola si dimetta».

il Fatto 28.5.13
Tutti a casa, flop di Grillo. Nessun Comune a 5 Stelle
di Paola Zanca


RISSA IN SENATO SUL “DIVIETO” DI PARLARE DI STRATEGIA POLITICA BOOMERANG COMUNICAZIONE: D’ORA IN POI PARLAMENTARI IN TV

Alle dieci di sera, messo sul tavolo il magro bottino di queste elezioni amministrative, il deputato Cinque Stelle Alessandro Di Battista è già in televisione. A Piazzapulita, a fianco dello sconfitto candidato sindaco di Roma, interloquisce con Corrado Formigli come un Mastrangeli qualunque. Se si cerca il vero risultato delle comunali di fine maggio, eccolo: di corsa sul piccolo schermo, che fin qui abbiamo sbagliato tutto. Quando lo scrutinio è praticamente finito, il Movimento di Beppe Grillo fa il bilancio: nemmeno un sindaco grillino, un solo ballottaggio a Pomezia (paesotto operaio alle porte di Roma), circa 400 consiglieri eletti: in media, meno di uno per Comune. E la percentuale massima è quella di Ancona, 15 per cento. Dieci punti in meno delle politiche di tre mesi fa. Non si mischiano le mele con le pere, si ostinano a ripetere i Cinque Stelle e sul piano dei numeri hanno ragione. Ma per capire che, dalle parti dello staff, i risultati elettorali non siano quelli attesi, basta guardare la faccia di Matteo Ponzano, volto unico de La Cosa. Quattro sere fa arringava la folla dal palco di piazza del Popolo, ora cerca di consolare gli ascoltatori che chattano delusi: “Tenete botta, state tranquilli. Il cambiamento....lo sapevamo...queste battaglie...contro un sistema così corrotto ci vuole parecchio, parecchio tempo...”. Un paio di secondi, poi il collegamento si interrompe. E mentre tutte le tv parlano di proiezioni e di voti, su La Cosa va in onda “Sorpasso d'asino”. Un documentario sulla decrescita felice, “a passo lento”.
È LÌ, che i toni degli ascoltatori si fanno più gravi. Quando capiscono che né dal blog, né dalla sua televisione ufficiale qualcuno abbia voglia di prendersi la briga, di spiegare cos'è successo. Restano in silenzio fino alle 22.35 quando Paolo Becchi liquiderà i titoli sul crollo dei 5 Stelle: “Banalità”. Eppure, voti alla mano, se il paragone con le politiche è sbagliato, quello con le regionali, non dà maggior conforto. Prendiamo il Comune di Brescia, la città di Vito Crimi. Laura Gamba, candidata sindaco, arriva a 5 mila voti, poco più del 6 per cento. Solo tre mesi fa, Silvana Carcano, candidata al Pirellone, negli stessi seggi ne prendeva 12 mila, il doppio. Non va meglio a Roma, a casa di Roberta Lombardi, dove Marcello De Vito si ferma intorno al 13 per cento, lontanissimo dal ballottaggio che sembrava a portata di mano. O ancora prendiamo Massa, dove vive Laura Bottici, questore del Senato: ha perso il 20 per cento in 90 giorni. Per non parlare di Siena: nella città del Monte dei Paschi, per cui i Cinque Stelle hanno chiesto una commissione di inchiesta parlamentare, il Movimento si ferma all'8 per cento. Non va meglio a Nord Est, dove Casa-leggio era passato a caccia di imprenditori: 7 per cento scarso a Vicenza e Treviso. Si consolano con Ancona: 15 per cento dei voti, il miglior risultato nazionale. “Andrea Quattrini ha lavorato bene come consigliere comunale e adesso ha riscosso – spiega il deputato marchigiano Andrea Cecconi – Noi siamo un partito ideologico, alle comunali valgono ancora le persone”. Cecconi non è stupito dei risultati. Dice che quelli strani erano quelli di febbraio: “La fiducia che i cittadini ci avevano dato era eccessiva, ora siamo in linea con le nostre possibilità e facoltà”. È che stavolta, molti di quelli che avevano scelto i Cinque Stelle forse sono rimasti a casa: “Probabilmente quell’italiano su due che non è andato a votare - dice il deputato Massimo Artini - alle politiche aveva scelto noi”. Da Cepagatti, provincia di Pescara, Daniele Del Grosso, invita a non drammatizzare: “Qui anche quelli che hanno votato noi alle politiche preferiscono affidarsi al candidato sindaco farmacista, al parente, a quello che ti può fare un favore...”.
AL SENATO invece l’hanno presa in maniera meno sportiva. Alcuni sono furibondi con Cri-mi che al Corriere ha detto che gli eletti non devono parlare di alleanze e strategie, altri se la prende con i colleghi sempre pronti a gonfiare il dissenso. Ieri, durante lo spoglio, erano riuniti in una accesissima riunione. Una senatrice urla contro il collega Lorenzo Battista: “Stai sempre a parlare di strategie!”. Lui esce dalla stanza beffardo: “Ma De Vito non era quello che a Roma doveva andare al ballottaggio?”.

il Fatto 28.5.13
La proposta: stop ai finanziamenti per l’editoria
È firmata dal capogruppo al Senato Vito Crimi (e sottoscritta da tutti gli eletti M5S a Palazzo Madama) la proposta di legge per l’abolizione dei finanziamenti pubblici all’editoria. Era uno dei 20 punti del programma del Movimento. Ansa

il Fatto 28.5.13
Report: beppegrillo.it   e l’inchiesta sui soldi
Vladimir Luxuria mente sui fondi raccolti e spesi dal M5S
Ma la giornalista del programma di Rai3 non la corregge
di Marco Lillo


La scena è questa: pomeriggio di un sabato pre-elettorale. Poco meno di 900 mila italiani stanno seguendo la trasmissione condotta da Massimo Bernardini, Tv Talk, su Rai3. Il format prevede una sorta di gioco di schermi. In studio ci sono giornalisti che fanno tv e parlano di altri giornalisti che fanno tv. L’esercizio di autoreferenzialità oggi è dedicato all’inviata di Report Sabrina Giannini. A ventiquattr’ore dal voto nel quale Grillo contenderà i ballottaggi al Pd, la rete più vicina al Pd dedica la sua analisi proprio al servizio di Report sulla commistione di interessi tra Casaleggio e Cinque sStelle.
IN STUDIO ci sono il giornalista esperto di tv Francesco Specchia, firma di una testata non proprio vicina a Grillo, Libero, e l’ex parlamentare del Prc Vladimir Luxuria, oggi vicina a Sel. Passano le immagini di Report e il conduttore chiede a Luxuria un commento. Lei non si fa pregare e ribalta il bel gesto di Grillo nei confronti dei terremotati dell’Emilia, una donazione di 420 mila euro, nella prova del suo essere come gli altri. “C’è stato un referendum che ha abrogato il finanziamento pubblico ai partiti e poi invece – spiega Luxuria – sono stati trasformati in rimborsi e si è scoperto che in realtà erano molto più alti rispetto alle spese sostenute, e ora tutto questo torna proprio al Movimento 5stelle che ne ha fatto invece una battaglia. Cioé cosa si è scoperto?”, si interroga Vladimir.
“Si è scoperto che i soldi raccolti da loro per finanziare lo Tsunami tour sono di più rispetto alle spese che loro hanno effettivamente sostenuto. Al punto tale che dopo, DOPO (il tono si alza a sottolineare il concetto del “dopo”, ndr) non PRIMA si dice che la parte eccedente sarà data ai terremotati dell’Emilia. Cioè siamo passati dalla Lega che diceva Roma ladrona... e poi tutte le inchieste, e poi Di Pietro che ha fatto... porta un po’ male fondare tutto un partito sulla trasparenza”. Tra i risolini di approvazione in studio, Luxuria sostanzialmente dice che Report ha preso Grillo con le mani nella marmellata. E che, come gli altri politici, anche l’ex comico aveva speso molti meno soldi di quelli raccolti (inutile sottilizzare tra donazioni e soldi dei contribuenti tutti) e che però la premiata coppia Giannini-Gabbanelli aveva scoperto l’inghippo. Così “dopo” lui era stato costretto a correre a Mirandola per donare 420 mila euro ai terremotati che a ben vedere dovrebbero dire quasi più grazie a Santo Report che a quei paraculi dei Cinque Stelle. Insomma, la vecchia storia del moralizzatore immorale che si ripete uguale a se stessa , dai tempi di Belsito. Ieri Luxuria, dopo essere stata presa d’assalto con decine di messaggi su Twitter e, soprattutto, dopo che sul sito di Grillo era comparso un comunicato firmato dal senatore Lello Ciampolillo, nel quale si pretendeva una rettifica e si minacciava una querela, ha chiesto scusa durante la trasmissione L’aria che tira su La7, accampando ancora una volta una scusa falsa, cioé che solo due giorni prima di Report Grillo avrebbe comunicato l’intenzione di donare ai terremotati l’eccedenza.
IL PROBLEMA però non è Luxuria. Sono i giornalisti. Nessuno, prima in studio a Tv Talk e poi sui siti e sui quotidiani, ha corretto un ex politico che ha mentito spudoratamente su un partito rivale in una trasmissione registrata venerdì e trasmessa alla vigilia del voto. Non ha detto nulla Francesco Specchia di Libero. Fin qui ci sta. In fondo non è da un cronista di Libero che si attende la difesa dell’onore di Grillo. Non ha detto una parola il conduttore Massimo Bernardini, famoso perché, a Giuliano Ferrara che lo insultava durante la sua trasmissione, porgeva l’altra guancia e l’altra lingua con una lettera al Foglio che iniziava così: “Un vaffanculo da quello che ritengo il più brillante giornalista in circolazione (...), che soprattutto mi ha insegnato in questi anni a dubitare sempre di presunti puri e giustizialisti”. Quello che non ti aspetti è il silenzio di un’inviata di Report. Luxuria sosteneva che Grillo aveva donato quei soldi ai terremotati solo dopo essere stato preso con le mani nella marmellata da Report. Poi una giovane giornalista della redazione sosteneva che il blog di Grillo incassava molti milioni di pubblicità. E Sabrina Giannini – che conosceva entrambe le questioni – è rimasta seduta a sorridere. Come una giornalista di talk.

il Fatto 28.5.13
Siena
Si va al ballottaggio, come se niente fosse accaduto
di Davide Vecchi


NONOSTANTE GLI SCANDALI CHE HANNO COINVOLTO I DEMOCRATICI E IL MONTE DEI PASCHI, TENGONO I DATI SIA DELL’AFFLUENZA CHE I RISULTATI DEL PARTITO

Rocca Salimbeni non ospita una banca ma una quercia. Con radici ancora impossibili da estirpare. La conferma arriva, inequivocabile, dalle urne. Certo, dopo venti anni esatti, il centrosinistra a Siena è costretto al ballottaggio e registra una flessione ma il segnale è chiaro: qualunque cosa accada il Monte rimane il punto di riferimento. “I cittadini hanno scelto il cambiamento ma senza avventure” ha azzardato Bruno Valentini, il candidato sindaco del Pd scelto con le primarie appena un mese fa, dipendente Mps e nemico giurato dell’ex sindaco, Franco Ceccuzzi. Alle venti Valentini già esultava, spericolato: “Si annuncia una vittoria in discesa al ballottaggio”. I segnali ci sono tutti. Due in particolare: calo minimo dell’affluenza (dal 76 del 2011 al 68%) rispetto alla media nazionale crollato del 15%, e flop imbarazzante del Movimento 5 Stelle, che alle politiche a febbraio aveva sfiorato il 20% e ieri si è fermato all’otto circa. Le radici si sono leggermente seccate: il pd nel 2011 aveva preso il 38% portando Ceccuzzi alla vittoria con il 62,13 al primo turno. Ora si avvicina al 30. Qui guidare il Comune equivale ad avere il potere sul Monte dei Paschi . Dal Palazzo Pubblico di piazza del Campo si distribuiscono nomine, restituiscono favori e, soprattutto, si costruisce il consenso. Da qui, per dire, è partito Giuseppe Mussari, arrivato in città come avvocato con il sindaco del Pds, Pierluigi Piccini e poi dal Comune messo in fondazione Mps.
E ANCORA oggi le poltrone del "portafoglio" comunale da occupare nella pancia dell'azionista di riferimento del Monte sono quattro. in una città di 53 mi-la residenti si sono candidati otto aspiranti sindaci e cinquecento consiglieri comunali per un'aula che ne ospita 32 di cui dodici assessori. La corsa all'oro. "Una città che ti permette di controllare una delle banche più importanti d'Italia, per questo non è permessa alcuna flessione nella perdita del consenso" sintetizza Eugenio Neri, che si dice comunque "soddisfatto come una vittoria" di aver costretto al ballottagio "i potenti di sempre". Il cardiochirurgo sostenuto dal centrodestra, tra cui dalla lista del Pdl camuffata da civica, è visibilmente soddisfatto. Non scherza. Dalla finestra del suo comitato elettorale saluta amici e sostenitori. "abbiamo vinto alla scuola Pascoli", dice sorridendo. "Guardo al ballottaggio insistendo nel tentativo di aprire gli occhi ai senesi: Profumo sta svuotando la banca, ha cacciato qualcosa come 2600 dipendenti, porterà via la banca e farà entrare chiunque nell'azionariato togliendo il limite del 4%", prevede. "Stanno svendendo il futuro della città dopo averla mangiata, violentata, travolta e io questo non voglio permetterlo". Al Neri in campagna elettorale Valentini fa spallucce. Si toglie i sassolini dalle scarpe. Il nemico "Ceccuzzi non è più un problema di questa città", il Pd nazionale "era preoccupato, stia tranquillo: io sono il punto fermo". Il dato raggiunto "è molto buono, abbiamo tenuto benissimo, contro ogni aspettativa di molti" quindi, annuncia, "non faremo apparentamenti".
IL SECONDO TEMPO è ancora da giocare ma certo il risultato, ha ragione Valentini, salvo colpi di scena particolari, è quasi scontato. "I senesi non hanno avuto coraggio, credevo fossero pronti e invece si sono ancora una volta attaccati alle presunte certezze", commenta Laura Vigni , la candidata della sinistra che ha sfiorato il 10%. "Hanno saccheggiato la città e i senesi sono ancora storditi ma rimaniamo qui ad aiutarli", aggiunge analizzando con serenità il risultato. Decisamente scomposta invece la reazione del candidato grillino, Michele Pinassi, che ha gridato alla "macchina del fango", colpa dei giornalisti insomma. E dei senesi "che non vogliono trasparenza e onestà". Ma sono anche spaventati, comprensibilmente. Due cittadini su tre hanno rapporti con il Monte, tra dipendenti diretti e non. Forse è per questo che tentano di tenere in vita almeno le radici, sperando possano ridare linfa, come prima, alla città.

La Stampa 28.5.13
Lo psichiatra
“Ragazzi troppo narcisisti Per loro ogni rifiuto è un’offesa”
Charmet: “Un tempo si soffriva per amore, oggi si fa del male”
«Figli unici venerati Crescono con l’idea che avere successo sia un loro diritto»
di Roselina Salemi


Gustavo Charmet è PSICHIATRA E PRESIDENTE DELL’ISTITUTO DI ANALISI DEI CODICI AFFETTIVI «MINOTAURO» DI MILANO

«Stiamo assistendo al tramonto dell’amore romantico. Si diffonde un modo di amare caratterizzato dal narcisismo. Ognuno fa i suoi calcoli e ha le sue pretese. E il rifiuto è vissuto come un’offesa. Essere abbandonati provoca rabbia e desiderio di vendetta». Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, presidente dell’Istituto di Analisi dei Codici Affettivi «Minotauro» di Milano, è un attento osservatore dei comportamenti giovanili. Il suo ultimo libro «La paura di essere brutti Gli adolescenti e il corpo» (Raffaello Cortina) scava nella sofferenza provocata da inarrivabili modelli sociali, e indaga le ragioni del disagio.
Ma come spieghiamo il corto circuito della ragione per cui un ragazzino accoltella e brucia la fidanzatina?
«Ci vorrà tempo per capire che cosa è successo nella sua testa. Ma la cultura del narcisismo è trasversale. Riguarda adulti e adolescenti, sempre di più. Vuoi essere amato attraverso la sottomissione dell’altro, non accetti il no, l’emancipazione. I comportamenti che vediamo, lo stalking, e nei casi estremi, l’assassinio nascono da questa pretesa. Se la persona che ami non ti vuole, pensi sia impazzita».
Che cosa è cambiato?
«Nell’amore romantico la separazione è un lutto che va elaborato. Il dolore può anche essere rivolto contro se stessi: suicidio per amore. Qui assistiamo all’opposto. L’altro deve essere come tu lo vuoi. Se rifiuta, esplode il desiderio di punire e distruggere».
Come siamo arrivati a questo punto?
«Oggi il bambino viene molto valorizzato. Spesso è un figlio unico, perciò merce rara. Non è il piccolo selvaggio da domare, è venerato. Purtroppo le famiglie sfornano semilavorati narcisistici. La sottocultura dei mass media, la pubblicità, internet, fanno il resto. Apparire, avere follower e amici su Facebook, essere ammirati, diventare famosi è considerato un diritto. Diciamo che c’è una congiura perversa nei confronti dei giovani. Una tempesta perfetta: famiglia e società inconsapevolmente alleate».
«La scuola è un sobrio mondo educativo che prova a circondare i ragazzi con una cintura sanitaria di valori. Non c’è incoraggiamento del narcisismo. Ma è difficile combattere un sistema dove bellezza, popolarità, successo, visibilità, essere simpatici diventano dominanti».
C’è un ragazzo che uccide la fidanzatina e una ragazza che si uccide per cyberbullismo. Esiste una relazione?
«Certo. A leggere quello che hanno scritto i giudici, la ragazza “è stata suicidata”. L’aggressività narcisistica dei compagni le ha reso la vita insopportabile».
Questa rabbia riguarda una generazione che difficilmente potrà realizzare i suoi sogni, mentre è cresciuta con l’idea di poter avere tutto. Che cosa può succedere?
«Le ombre nere che si allungano sul mondo giovanile potrebbero portare a una reazione di rabbia collettiva per futuro che viene rubato, di vendetta per ciò che la società sta negando».
C’è un modo per affrontare questo disagio così grande?
«Ritornare all’etica, dopo questa sbornia estetica». 

l’Unità 28.5.13
Si parla di violenza sulle donne, l’Aula è vuota
di Franca Stella


ROMA Sdegno e dichiarazioni a ogni tragedia di una donna uccisa dal compagni, ma quando i deputati sono chiamati a compiere passi concreti contro il femminicidio l’Aula della Camera resta semideserta. E le tante assenze nell’emiciclo, dove ieri è iniziata la discussione sulla Convenzione di Istanbul, sono state stigmatizzate dalla presidente, Laura Boldrini. «Mi complimento per la sua dettagliata relazione, ma dispiace vedere un’Aula così vuota», ha detto Boldrini dopo l’intervento della relatrice, Mara Carfagna. «Noi comunque continuiamo con il nostro impegno e i nostri lavori», ha aggiunto.
La Camera ha ricordato Fabiana Luzzi, la giovane di Corigliano Calabro uccisa da un coetaneo. È stata solo l’ultima di una lunga serie di «violenze travestite da amore», come le ha definite la presidente Laura Boldrini che in memoria della giovane ha chiesto un minuto di silenzio, ma anche un forte impegno per una «sfida culturale». «Vorrei che il pensiero di questa assemblea andasse a Fabiana Luzzi, bruciata viva a 16 anni da un ragazzo di 17, il suo fidanzato», ha ricordato la presidente della Camera. «Ancora una volta la violenza travestita da amore, un orrore al quale non possiamo assuefarci e che dimostra come la fida cui siamo chiamati sia culturale», ha sottolineato.
E durante la discussione c’è stata una polemica a distanza tra il Movimento 5 Stelle, attraverso la sua deputata Carla Ruocco, contro un’altra deputata, Mara Carfagna relatrice della Convenzione. La portavoce Pdl alla Camera ha preso la parola per denunciare tra l’altro che la violenza sulle donne «affonda le sue radici in una cultura dominante, profondamente indifferente o ostile a una piena uguaglianza uomo-donna», e ha sottolineato «l’atteggiamento bipartisan» in proposito, non senza rivendicare l’introduzione del reato di stalking e il piano nazionale contro la violenza e lo stalking, punto di arrivo di «un serrato confronto con tutte le associazioni durato più di un anno». Quadro nient’affatto condiviso dalla deputata M5s Ruocco che posta questo commento sulla sua pagina Fb: «La Carfagna (sì, la Carfagna)... ha appena letto, dinanzi ad un’aula vuota, eccetto noi del 5 stelle, una relazione sulla violenza sulle donne in cui incitava, tra l’altro, la tv a non strumentalizzare il corpo femminile nelle trasmissioni... Ma è quella stessa Carfagna?».

l’Unità 28.5.13
Quei femminicidi non in nome dell’amore
di Sara Ventroni


I FATTI SONO AVVENUTI A CORIGLIANO CALABRO MA POTEVANO ACCADERE OVUNQUE. LA GEOGRAFIA NON C’ENTRA. TANTOMENO IL FOLKLORE. LE DONNE VENGONO UCCISE al sud come al nord. In una strada sterrata di provincia come in un appartamento di città. I mariti, i compagni, i fidanzati omicidi sono insospettabili professionisti o disoccupati. Hanno sessant’anni oppure diciassette. L’unico dato certo è che la deformazione affettiva nelle relazioni tra gli uomini e le donne non conosce frontiere di luogo, né di status. Non guarda in faccia ai titoli di studio, e non dipende dal conto in banca. Ricchezza o povertà, qui, non illuminano i fatti. I dati ci dicono, anzi, che dove le donne lavorano e sono indipendenti nel nord dell’Italia, come nel nord dell’Europa le violenze sono più frequenti.
La costante dell’intreccio ossessivo e prevedibile è dunque da cercare altrove.
La trama è piuttosto elementare: lei ha deciso di andarsene, di troncare; oppure ha bisogno di una pausa di riflessione. Lo dice, lo spiega, lo scrive. Ma lui non ci sta.
La morte di Fabiana non fa eccezione. È un cliché. Rientra nel nostro appuntamento quotidiano, con variazione su tema: non è il racconto del furore adolescenziale. Non è l’esplosione di gelosia. Non è un pruriginoso romanzo di consumo, e non è un dramma di Shakespeare. Ma soprattutto: non è una storia d’amore.
Più che il fatto in sé, ci illumina la rappresentazione che ne diamo. Questa volta le cronache vogliono sottolineare che la ragazza avrebbe lottato con tutte le sue forze, prima di morire. Dopo aver ricevuto diverse coltellate, Fabiana avrebbe tentato di strappare dalle mani del suo fidanzatino la tanica di benzina.
Ci sorpendiamo di questo gesto chiaro, animale, di difesa. Lo mettiamo in cornice come ci fosse qualcosa da indagare. Un di più di innocenza che andrebbe riconosciuto alla ragazza, come un epitaffio. O una medaglia al valore.
Il dettaglio sul quale indugiamo ci dice che abbiamo la coscienza sporca. Che ancora esite, in qualche punto remoto dell’immaginario collettivo, un tarlo che bisbiglia: se la donna non si difende (e se alla fine non muore, trovando il martirio che le spetta) vuol dire che in fondo lo voleva. Perché la donna è davvero innocente solo se riesce a dimostrare, post mortem, una qualche attitudine alla santità.
In caso contrario, ci sarebbe il sospetto di complicità. Di una corrispondenza malata di sensi. Un desiderio inespresso di far coincidere amore e morte. Tentazione ancora irresistibile per i cantori della nera, bisognosi di rincarare con ogni mezzo la dose quotidiana di pathos.
Allora tocca sfrondare il linguaggio dalle incrostazioni e dai riflessi pavloviani, dove «amore» rima sempre con «dolore», e viceversa. Oggi possiamo dire che non si è trattato di raptus. Oggi dovremmo chiarire che Fabiana si è difesa perché non voleva morire. Non c’è un altro significato da attribuire all’estremo tentativo di difendersi, se non quello di salvare la propria vita. Non c’è un fine remoto, o uno scopo da insinuare. Nessun desiderio di diventare vittima, magari più eccellente delle altre.
I fatti sono questi. Lei ha quindici anni, lui diciassette. Due ragazzi. Probabilmente goffi nei primi approcci. Analfabeti dell’amore e del sesso. Dilettanti della vita. Inconsapevoli di sé e di una relazione. Il mondo è ancora tutto da scoprire. Di là dalle coltellate, ci impressiona il fatto che il ragazzo abbia trovato il modo per dilatare il tempo, andando in cerca di combustibile. Come se colpire diritto al cuore con un coltello non bastasse. Come se bisognasse cancellare i definitivamente l’altro, nel fuoco. Un falò, e un autodafé.
La madre di Fabiana dice che anche il ragazzo è una vittima. Forse è così. Sicuramente è così. Ma non lo aiuteremo certo lasciandolo nel dubbio di aver ammazzato in nome dell’amore.

il Fatto 28.5.13
“Napalm kid” e l’ossessione Columbine
17enne dell’Oregon con bombe sotto il letto
Voleva compiere una nuova strage a scuola
di Angela Vitaliano


New York Sei bombe nascoste in uno spazio ricavato sotto il pavimento della sua stanza da letto, nella casa dei genitori con i quali viveva: questa la scoperta fatta dalla polizia di Albany, in Oregon, sabato sera. Gli ordigni erano di proprietà del 17enne Grant Acord che stava pianificando un attentato alla sua scuola, destinato a fare molte vittime. L’azione, frutto di una strategia meticolosa e assolutamente non affidata al caso, avrebbe emulato la strage delle Columbine, in Colorado, del 1999, durante la quale due studenti si tolsero la vita dopo aver massacrato 13 persone. “Un piano non sostenuto dall’impulso e dall’emotività , ma dalla volontà di portare a compimento una missione”, questa la cruda analisi fatta dalla polizia dopo il ritrovamento delle bombe, tra cui anche una al napalm, agente incendiario, avvenuto grazie a una “soffiata” arrivata da una fonte non identificata. Una prima perquisizione all’interno della West Albany High School, il liceo frequentato dal ragazzo, aveva dato risultati negativi, diversamente da quella, successiva, nella casa di sua madre dove è stato poi formalizzato l’arresto.
Gli investigatori non hanno specificato la data in cui l’esplosione avrebbe dovuto aver luogo ma lo faranno nei prossimi giorni poiché sono stati trovati anche appunti dettagliati relativi all’azione e alla sua tempistica. Acord, ora trattenuto presso un carcere minorile, dovrà rispondere delle accuse di tentato omicidio aggravato e possesso di “dispositivi distruttivi”, due capi d’ imputazione che non permetteranno alla sua giovane età di “pesare” come una possibile attenuante. Finora, poi, non sono emersi particolari circa possibili problemi comportamentali del ragazzo; tuttavia il procuratore distrettuale della contea, John Haroldson, ha sottolineato che di fronte a situazioni di questa portata “bisogna sempre analizzare in maniera approfondita il background psicologico dell’imputato”. “Siamo stati fortunati – ha aggiunto Haroldson, parlando in conferenza stampa – perché l’attuazione del piano avrebbe comportato una tragedia enorme”. 

l’Unità 28.5.13
Un italiano nello spazio
Luca Parmitano salirà stasera a bordo della Sojuz
L’astronauta che ha 37 anni ed è laureato in Scienze Politiche, resterà sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale
Dovrà coordinare lo svolgimento di 20 esperimenti scientifici
di Pietro Greco


LO HA SCRITTO SU TWITTER: GRAZIE A TUTTI COLORO CHE SCEGLIERANNO DI SEGUIRMI IN QUESTA NUOVA AVVENTURA. Il cinguettio è quello di Luca Parmitano, 37 anni, siciliano di Paternò, laureato in scienze politiche, astronauta dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea. L’avventura è quella che inizia questa sera alle ore 22.31 presso la base di Bajkonur in Kazakistan, quando salirà a bordo della Sojuz che, dopo sei ore, lo porterà sulla Stazione Spaziale Internazionale, dove resterà sei mesi, prima di ritornare a terra. A quel punto l’avventura di Luca Parmitano sarà la più lunga mai effettuata nello spazio da un astronauta italiano. Con gran soddisfazione dell’Asi, l’Agenzia spaziale italiana, che è partecipe della missione e che vede rinnovata l’antica tradizione che vuole il nostro paese tra i grandi protagonisti dell’esplorazione dello spazio.
Quella che per Luca inizia stasera è soprattutto una missione di grande valore tecnico e scientifico. Ma è anche un’iniezione di fiducia in un momento di difficoltà, diciamo pure di declino, del nostro paese: un piccolo esempio di come e dove l’Italia ce la
può fare.
Ma andiamo con ordine. In primo luogo parliamo di Luca, un ragazzo di Paternò che nasce nel 1976, frequenta il liceo «Galileo Galilei» di Catania dove si diploma nel 1995, si laurea in scienze politiche a Napoli nel 1999 e si diploma presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli nel 2000.
Scelta la carriera del pilota militare e diventato esperto di guerra elettronica, si rivela un eroe nel 2005, quando, dopo aver colpito un grosso uccello e aver ridotto a mal partito il suo aereo in volo sulla Manica, invece di eiettarsi col seggiolino com’è d’uso in questi casi, sceglie la soluzione più difficile: l’atterraggio di emergenza. Mettendo a rischio la sua vita, ma evitando di mettere a rischio la vita di altri. Per questo viene insignito della medaglia d’argento al valore aeronautico.
Poi partecipa e viene selezionato come astronauta dell’Esa, che gli affida una missione non nuova, ma neppure banale. Dovrà restare un intero semestre a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Sarà il primo italiano sia a realizzare una missione lunga, sia a effettuare una passeggiata nello spazio. Dovrà districarsi con il braccio robotico per aiutare i suoi colleghi e i loro carghi. Ma, come ingegnere di volo, dovrà coordinare soprattutto lo svolgimento di 20 esperimenti scientifici selezionati dall’Esa, oltre a partecipare a un’infinità di test con i suoi coinquilini, lassù, sulla casa comune spaziale.
Tra gli esperimenti che Luca Parmitano dovrà realizzare, ce ne sono alcuni progettati in Italia e finanziati dall’Agenzia spaziale italiana. Tra loro c’è Green Air, che è in realtà un doppio esperimento, costituito com’è da Diapason e Ice: il primo misurerà la presenza di piccole particelle inquinanti nell’alta atmosfera, il secondo testerà un biocombustibile. Parmitano sarà oggetto di esperimenti, volti a comprendere come reagisce l’organismo umano a una lunga permanenza senza gravità. Insomma, resterà per sei mesi chiuso in un ambiente piuttosto piccolo, ma certo non avrà modo di annoiarsi.
Fin qui la sua avventura. Ma questa sera il nuovo ministro della ricerca, Maria Chiara Carrozza, seguirà, insieme al presidente dell’Asi e al capo di stato maggiore dell’Aeronautica, la partenza dell’aviere e astronauta italiano anche perché lassù Luca Parmitano sarà un messaggio vivente: quando l’Italia punta sull’alta tecnologia e sulla scienza, riesce a competere con gli altri paesi. Anche con quei paesi che magari in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico investono di più. Il secondo messaggio, strettamente connesso al primo, è che l’aerospazio è uno dei settori su cui l’Italia può e deve continuare a far leva per il suo sviluppo complessivo. Perché abbiamo una grande tradizione (pochi se lo ricordano, ma siamo stati il terzo paese dopo Unione Sovietica e Stati Uniti, a inviare un satellite nello spazio), ma soprattutto perché abbiamo un ottimo presente, tanto nelle scienze che hanno lo spazio come obiettivo di ricerca (l’astrofisica italiana è tra le migliori al mondo) quanto nello sviluppo tecnologico (l’industria italiana dell’aerospazio è tra le poche ad alta tecnologia del nostro paese). Ha dunque ragione Luca Parmitano a cinguettare: seguitemi nel mio viaggio e forse troveremo la strada per uscire dalla spirale del declino.

La Stampa 28.5.13
Arendt e Eichmann la stupidità del male
Così, a confronto con Joachim Fest, la filosofa approfondì la sua analisi su uno dei maggiori responsabili della Shoah
di Gian Enrico Rusconi


«Più che della “banalità del male” si dovrebbe parlare della banalità delle conclusioni della signora Arendt. Il processo ad Eichmann fu fatto da ignoranti, voluto da Ben Gurion per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Hannah Arendt, che aveva seguito tutto da lontano, racconta un sacco di assurdità». Queste parole pronunciate giorni fa a Cannes, con la consueta passione, da Claude Lanzmann, autore del film Shoah, ripropongono la polemica violentissima scoppiata negli Anni 60 all’uscita dell’ormai celebre libro della filosofa ebrea, tedesca, americana Hannah Arendt, La banalità del male, appunto.
È una polemica «fuori tempo»? No. C’è infatti il rischio che la ricezione di questo libro diventi essa stessa banale (è inevitabile questo gioco di parole perché fa parte del problema). Che l’opera sia citata quasi esclusivamente per il suo titolo, ignorandone la complessità, la tortuosità e la problematicità.
Siamo quindi grati all’editore Giuntina d’avere tradotto in italiano un libro che inquadra e fa la sintesi di questa problematica ( Hannah Arendt, Joachim Fest, Eichmann o la banalità del male. Interviste, lettere, documenti, pp. 214, € 14). In esso troviamo una documentazione accurata della polemica iniziata nel marzo 1963 in America dall’Organizzazione degli ebrei emigrati dalla Germania e proseguita con moltissimi interventi tra cui quelli di personaggi di spicco come Golo Mann e Mary McCarthy.
Si è trattato di un vero e proprio processo alle intenzioni e ad alcune tesi del libro che investono non soltanto la personalità di Eichmann ma anche la corresponsabilità dei Consigli ebraici nell’organizzazione della deportazione e quindi della eliminazione degli ebrei. Hannah Arendt lo ha definito «il capitolo più fosco di tutta quella fosca storia». In effetti è un tema terrificante e tuttora controverso, in cui guazzano anche incorreggibili antisemiti e negazionisti. Quanto a Eichmann, «altro che burocrate ottuso: era un demonio: violento, corrotto, furbissimo», prosegue oggi Lanzmann, respingendo tutti i tentativi della Arendt di darne un’immagine diversa, anche se negativa.
Già nel 1964 Golo Mann aveva riconosciuto che la Arendt aveva tracciato un ritratto a suo modo fedele di Eichmann. «Non si trattava di un mostro, di un sadico, nemmeno di un fanatico antisemita, bensì di un uomo oltremodo comune: ambizioso quanto altri, obbediente, scaltro e stupido quanto altri; rispetto alle persone più colte era animato da un misto di ammirazione e risentimento; fiutò delle opportunità per una nuova carriera bramoso di svolgere il grande compito omicida in maniera puntuale come qualsiasi altro compito gli fosse assegnato». Dove sbaglia allora l’autrice? Il fatto che fosse un essere razionale e non un idiota, che fosse un marito tenero e un padre amorevole, nonché un amico disponibile non giustifica - scrive Golo Mann - che Eichmann venga presentato «così innocuo e bonario come lo dipinge la Arendt. Con osservazioni del genere non si risolve il problema della crudeltà e diabolicità dell’uomo».
Ecco il punto: il contrasto tra la «normalità persino bonaria dell’individuo e la mostruosità e diabolicità del suo comportamento» non può essere liquidato come «banalità del male». Questa definizione è frutto di una «saccente dialettica che genera una notte in cui i buoni non sono buoni e i cattivi non sono cattivi».
Non era certamente questa l’intenzione della Arendt. Ma per sostenere la sua tesi non usa argomenti del tipo: sì, anche l’uomo comune - immesso in un meccanismo più grande e potente di lui - si deresponsabilizza arrivando a comportarsi come un mostro. L’autrice non descrive Eichmann come un impotente automa. Analizza puntigliosamente quanto sia lucido e consenziente, accetti e si identifichi consapevolmente con la funzione che esercita perché lo fa sentire «potente» al punto che senza di essa perde la sua stessa identità. L’autrice non dice neppure che «un Eichmann alberga in noi, ciascuno di noi ha dentro di sé un Eichmann». No. La sua spiegazione è più impegnativa anche se a prima vista sconcertante: Eichmann - dice - è «stupido». Lo spiega in una conversazione radiofonica con Joachim Fest dopo aver raccontato un episodio (ripreso da Ernst Jünger) di «normali» contadini tedeschi che trattano come esseri subumani prigionieri russi perché questi per fame rubano il cibo dei porci. Era questa «la stupidità scandalosa» che pure Eichmann condivideva in un universo di rapporti diverso. «Ed è questo che propriamente ho inteso quando parlai di banalità. In ciò non c’è nulla di abissale, cioè di demoniaco. Si tratta semplicemente della mancata volontà di immaginarsi davvero nei panni degli altri».
È facile immaginare quanto insoddisfacente suoni questa risposta, soprattutto per le vittime che si sono trovate davanti alla brutalità e al sadismo di questi «uomini comuni», «stupidi», «incarnazione della persona media». La nostra insoddisfazione è mitigata se leggiamo e inquadriamo queste tesi, che suonano un po’ astratte, nel contesto delle conversazioni tra Hannah Arendt e Joachim Fest, che si svolgono nel periodo in cui quest’ultimo sta lavorando e pubblicando le sue biografie su Hitler e Albert Speer. È evidente che i due autori si scambiano simpateticamente riflessioni che nella diversità delle sensibilità hanno in comune l’interesse di conoscere quel mondo «borghese» o semplicemente quel «tedesco medio» che è stata la vera spina dorsale del regime nazionalsocialista. Apparentemente c’è poco in comune tra il burocrate Eichmann e il brillante architetto Speer, intimo di Hitler. Ma si intuisce lo stesso universo di seduzione e complicità che porta in grembo la nuova tipologia criminale, che la Arendt ha creduto di fissare nel concetto di «banalità del male».

Repubblica 28.5.13
Eureka!
Così Archimede è diventato
Da Plutarco a Walt Disney: una mostra a Roma svela la storia autentica dietro la leggenda
di Siegmund Ginzberg

Da ventitré secoli Archimede è molto più immaginato che studiato. È mito, leggenda, favola, molto spesso anche stereotipo, talvolta addirittura marchio pubblicitario, più che storia. Ci siamo abituati a riconoscere colui che fu il più grande matematico dell’antichità per gli aneddoti (quasi tutti di pura invenzione, compreso il celeberrimo sound-byte “eureka”) piuttosto che per i teoremi. Per la mia generazione è un personaggio dei fumetti: l’Archimede Pitagorico degli albi di Topolino, il genio picchiatello che sforna mirabolanti invenzioni a tutt’andare. Nell’originale di Walt Disney si chiamava Gyro Gearloose, lo “svitato”, e quindi non aveva nemmeno questo tenue legame onomastico col nostro personaggio. Ma ad appiccicare ad Archimede di Siracusa la figurina dello scienziato distratto, perennemente nelle nuvole, del tipo che esce dal bagno e va in strada nudo gridando come un forsennato “ho trovato”, o che assorto nei suoi calcoli non si accorge nemmeno della presenza del soldato romano che sta per ucciderlo, erano stati già i primissimi che hanno scritto di lui: Plutarco, Tito Livio, Polibio, Valerio Massimo e Vitruvio, quasi suoi contemporanei (molto quasi: la loro testimonianza è “solo” di qualche secolo dopo i fatti…).
Archimede è un simbolo, anzi qualcosa di ancor meno palpabile, un’emozione mi verrebbe da dire, prima che una figura storica. Lo era anche per “colleghi” scienziati e “geni” come Leonardo e Galileo quando fu riscoperto dopo un oblio millenario. Lo è rimasto sino ai giorni nostri. La leva con la quale si diceva capace di sollevare la Terra, se solo avesse a disposizione un punto di appoggio, è filosofica negli scritti di Cartesio, patriottica in quelli di Thomas Paine, muove le relazioni internazionali dei giovani Stati Uniti in quelli di Thomas Jefferson, niente meno che la storia del mondo intero in Balzac, è la rivoluzione in Trotsky, è la politica per Hannah Arendt, l’influenza dei media per Marshall McLuhan. Archimede fa capolino nel Don Giovanni, nei Tre moschetteri, in Dracula, in Frankenstein e, a proposito di fragilità della psiche umana, anche in Kafka, diventa quasi un’ossessione per Edgar Allan Poe. C’è chi è arrivato ad attribuirgli, a fianco di Sofocle, sulla scorta dei procedimenti per enigmi, quasi da detective in un “giallo”, con i quali espone le sue dimostrazioni matematiche, nientemeno che la paternità del genere poliziesco. Insomma, che lo si voglia o no, per noi Archimede è ormai un personaggio da romanzo. Infiamma l’immaginazione, prima e molto più di quanto rinfreschi le conoscenze scientifiche, esattamente come avveniva per i suoi primi biografi antichi romani. Tanto è vero che ricordo di aver recentemente gustato come un romanzo Il codice perduto di Archimede di Reviel Netz e William Noel (Rizzoli 2007), benché non sia affatto un libro di fiction e fantasia ma un testo serio sul recupero, da un codice antico da cui il testo di Archimede era stato raschiato dalla pergamena dai monaci amanuensi per sovrapporvi un libro di preghiere, di un passo perduto da cui si evince che il matematico siracusano aveva scoperto, oltre un millennio prima di Newton e Leibnitz, il calcolo infinitesimale e, molto prima di Cantor, addirittura la concezione novecentesca degli infiniti. È nel libro di questi autorevoli studiosi che ho letto che Archimede stesso con l’immaginazione ci giocava, procedeva spesso per burle, rompicapi ed enigmi, come si potrebbe dedurre già dal titolo di uno dei suoi trattati, lo Stomachion, dal nome di un gioco per bambini, detto appunto “mal di stomaco”, presumibilmente per la difficoltà a risolvere i puzzle su cui si fondava.
In controtendenza rispetto alle presentazioni fictional di Archimede a cui ci eravamo abi-
tuati (piacevolmente, almeno per quanto mi riguarda), si presenta invece la mostra che verrà inaugurata a fine maggio ai Musei capitolini su Archimede. Arte e scienza dell'invenzione.
È accompagnata da un notevole e dotto catalogo denso di saggi firmati dai più autorevoli studiosi dell’argomento. Anziché sulle leggende e gli aneddoti, l’attenzione si concentra sull’ambiente in cui erano maturate le vicende del genio di Archimede, la Sicilia e la Siracusa del III secolo avanti Cristo, la fortuna delle principali scoperte attribuite ad Archimede nel Medioevo arabo, nel Rinascimento e nel Settecento. La “fantasia” è limitata all’iconografia antica e a quella dei dipinti dell’Ottocento, ispirati al ritorno al “classico” e all’esaltazione e “sacralizzazione” della Scienza. La narrazione tradizionale “ad effetto” lascia il posto alle ricerche archeologiche e filologiche. Visitare la mostra per crederci: questo è per molti versi un “altro Archimede” rispetto a quello cui eravamo abituati.
Protagonista non è più solo la figura del “genio universale” fuori dal tempo, ma l’uomo che visse in un’epoca precisa, in una città che ha conservato parte delle mura su cui egli aveva approntato i suoi ingegnosi strumenti di difesa, e le vestigia del potere che lo stipendiava. Non c’è più solo la storiella di come cercando di scoprire, su incarico del suo datore di lavoro, se una corona d’oro conteneva davvero tutto l’oro puro che l’orefice aveva fatturato, inventò nella sua vasca da bagno la meccanica dei fluidi. Né solo quella di come avrebbe bruciato la flotta romana coi suoi specchi ustori. Queste sono favole, molto suggestive (anche il secolo delle guerre stellari continua a sognare l’arma definitiva, o la scoperta “per caso”), ma appunto solo favole.
La realtà è più prosaica. Ma non per questo meno interessante. Abbiamo un tiranno, Gerone II, che attirava a Siracusa i migliori cervelli della sua epoca, matematici compresi. Non solo per farsi costruire congegni di guerra, ma anche per altri fini pratici: ad esempio per poter meglio calcolare quanto poteva tassare i sudditi senza mandarli in rovina, o poter meglio diluire il valore delle sue monete (c’è nella mostra anche un’affascinante sezione numismatica). Così come il suo predecessore, il tiranno Dionigi, era riuscito ad ingaggiare nientemeno che Platone, uno dei padri della grande politica, perché gli insegnasse a governare senza democrazia (cosa che ancora oggi fanno in Cina). Non per niente Gerone era riuscito a mantenersi al potere per ben mezzo secolo, facendo anche lui prosperare Siracusa. Lo fece destreggiandosi abilmente tra Cartaginesi e Romani, senza mai rompere né con gli uni né con gli altri. Finché i suoi successori si schierarono con una delle due parti, quella sbagliata. E persero la città, mentre Archimede perdeva la vita.
Non c’è più solo la favola suggestiva del genio solitario, ma l’idea di come nel Mediterraneo di quei tempi funzionasse un vero e proprio “network tecnologico” in cui Archimede era in continua corrispondenza coi suoi “pari”. Non nascono nel vuoto le sue straordinarie intuizioni matematiche, né l’astronomia del suo contemporaneo Aristarco, che fondandosi sul calcolo dei granelli di sabbia contenuti nell’universo dell’Arenaria di Archimede, assai più ampio di quello immaginabile con al centro la Terra, aveva anticipato di oltre un millennio l’idea di Copernico e Galileo che fosse la Terra a ruotare intorno al Sole e non viceversa. Insomma: gratta via il fantastico e finisci con la scoprire che sotto c’è qualcosa di ancora più fantastico.
rchimede di Giuseppe Nogari (olio su tela Venezia 1699-1763)


Corriere 28.5.13
Il «Corriere della Sera» a 2,76 milioni di lettori La «Gazzetta» conferma la leadership
di S. Bo.


MILANO — La Gazzetta dello Sport si conferma il quotidiano più letto d'Italia. Secondo l'ultima rilevazione Audipress, relativa al primo trimestre 2013, sono 3,743 milioni i lettori del giornale «rosa». Il Corriere della Sera si attesta a quota 2,765 milioni di lettori.
I dati Audipress confermano un calo complessivo dei lettori dei quotidiani pari al 6,7% a quota 22,5 milioni. Indicazione che deve tener conto anche della diminuzione del 2% registrata dalla popolazione adulta (sopra i 14 anni) considerata per la rilevazione. La Gazzetta conserva la leadership nonostante la riduzione sia dell'11,8%. Per il Corsera, terzo in graduatoria, il calo è stato nella media, pari appunto al 6,7%. Secondo quotidiano per lettura si conferma la Repubblica con lettori in diminuzione del 5,8% a quota 2,835 milioni. Seguono un altro quotidiano sportivo Corriere dello Sport con 1,711 milioni di lettori in calo del 5,4% e La Stampa con 1,382 milioni dopo una flessione del 17%. «Tengono» rispetto alla medie del mercato Qn Il Resto del Carlino che registra un lieve calo dell'1,7% a 1,241 milioni di lettori, e il Messaggero con una diminuzione del 3,5% a 1,229 milioni. Tuttosport perde il 12,6% a quota 968 mila lettori mentre il Sole 24 Ore scende a 907 mila lettori con un calo del 12,3%. Chiude la «top ten» La Nazione con 896.000 lettori (-5,6%). Tra gli altri quotidiani, Il Giornale si attesta a 621 mila lettori (-1,4%), Il Fatto Quotidiano a 453 mila lettori (-5,8%), Libero a 295 mila (-13%). Il Tempo guadagna in controtendenza il 14,6% ed è seguito ora da 228 mila lettori. L'Unità si attesta a 226 mila lettori con una flessione del 19,6%.
Per quanto riguarda infine la free press Metro registra un calo del 13,5% 1,206 milioni di lettori ), mentre Leggo perde il 20,9% a 1.069 mila lettori.
Per quanto riguarda infine i settimanali, secondo l'Audipress i lettori nel primo trimestre 2013 sono calati più o meno come quelli dei quotidiani, cioè del 7% circa, mentre per i mensili si sono ridotti del 6%.