La Stampa 13.5.13
Stefano Rodotà:
«Il governo Letta rafforzerà enormemente Berlusconi e farà erodere il consenso a sinistra»
«Se il Pd non ascolta la base si avvia verso la dissoluzione»
Rodotà: il segretario deve bloccare i regolamenti di conti tra i leader storici
intervista di Riccardo Barenghi
Se
il Pd ci avesse creduto, oggi lui sarebbe il presidente della
repubblica e magari al posto del governo Letta-Alfano ci sarebbe un
governo Bersani-Grillo. Questo fa notare, senza rancore, Stefano Rodotà
all’inizio di un’intervista in cui parla soprattutto del Partito
democratico e del suo futuro.
Rodotà, Guglielmo Epifani è l’uomo giusto al posto giusto?
«Lo
conosco da molti anni e lo considero un uomo serio e capace. Ma il
problema è che lui è stato chiamato al capezzale del Pd, che finora non è
stato ciò che si proponeva di essere. Le due culture politiche che
dovevano amalgamarsi non sono neanche riuscite a dialogare tra loro.
Quindi o Epifani riesce dove altri finora hanno fallito o sarà tutto
inutile».
Un compito immane per il neo leader. Cosa potrebbe o dovrebbe fare Epifani?
«Deve
essere capace di rispondere alla profonda esigenza di cambiamento che
c’è nel Pd, sia tra molti parlamentari sia tra migliaia di militanti, e
penso a Occupy Pd. Altrimenti se dovesse accompagnare l’ennesimo
regolamento di conti tra i leader storici che vogliono controllare il
partito con le loro correnti e correntine, sarebbe destinato al
fallimento. E la cosa sarebbe molto grave non tanto per Epifani quanto
perché la dissoluzione del Pd rappresenterebbe una catastrofe per la
sinistra e per tutta la democrazia italiana. A quel punto si aprirebbe
una voragine politica e ci troveremmo di fronte alla polarizzazione tra
Berlusconi e Grillo».
Ma lei è stato candidato al Quirinale proprio da Grillo...
«Il
mio nome è uscito dalla consultazione on line del Movimento 5 Stelle,
ma poi sarebbe dovuto diventare il nome di tutto il centrosinistra.
L’obiezione secondo cui il Pd non poteva votarmi perchè ero appunto il
candidato di Grillo, non sta in piedi: pure Scalfaro era il candidato di
Pannella ma poi fu un ottimo capo dello Stato».
Però Grillo spara ogni giorni dichiarazioni quantomeno imbarazzanti.
«Certo
e infatti non sono certo d’accordo con lui sul golpe che sbandiera,
sulla sua opposizione allo ius solis o sul vincolo di mandato per i suoi
parlamentari. Tuttavia penso che adesso il suo Movimento si è
parlamentarizzato e dunque deve fare i conti con questa scelta e gli
altri devono fare i conti con loro».
Torniamo al cambiamento, è Matteo Renzi il Pd del futuro?
«Il
peso di Renzi è aumentato parecchio, lui è stato capace di sbandierare
il nuovo con molta disinvoltura. Oggi ha una rendita di posizione che
può spendere più di alri. Ma io penso anche a personaggi come Giuseppe
Civati, Laura Puppato, Gianni Cuperlo, Fabrizio Barca. Con i quali mi
sento più in sintonia di quanto non lo sia con Renzi».
Cos’è che non le piace di Renzi?
«L’ideologia
del nuovismo nel metodo e molti contenuti nel merito, a cominciare da
quelli sul lavoro. Ma io non dico “a morte Renzi”, perché quello che mi
interessa è che si apra una discussione interna per capire quale sia la
cultura politica del Pd, se ne ha una, e se voglia mantenere legami,
seppur tenui, a sinistra. Non solo con i partiti politici, come la Sel
di Nichi Vendola, ma anche con tutto quel mondo che conduce battaglie
sul territorio e che ci ha consentito di vincere le ultime elezioni
amministrative e i referendum sull’acqua e il nucleare. E pensi che
Bersani, che pure aveva avuto coraggio schierando un partito riluttante
su quel voto, dopo la vittoria non ha neanche ritenuto di incontrare
quelli che quella battaglia avevano promosso».
Senta Rodotà, in tutta franchezza che ne pensa del governo Letta?
«E’
ovvio che ci sono emergenze drammatiche, ma la mia impressione è che
questo governo abbia cominciato male, andando nella direzione sbagliata,
ovvero il blocco dell’Imu. Quando invece la priorità è l’occupazione. E
poi chi può pensare che questa maggioranza possa fare cose decenti sul
conflitto di interessi, la corruzione e i diritti a cominciare da quelli
dei figli degli immigrati? E’ evidente che si tratta di un governo che
rafforzerà enormemente Berlusconi, erodendo il consenso per il Pd. E
l’unico modo per togliere al Cavaliere il potere di vita e di morte sul
governo è cambiare immediatamente la legge elettorale, altrimenti lui
potrà continuare a ricattare governo e Pd: “Se non fate come dico io si
torna al voto e col porcellum vinco sia alla Camera che al Senato”».
Ma
se si cambiasse subito la legge elettorale, l’attuale parlamento,
eletto col vecchio sistema, sarebbe delegittimato e si tornerebbe per
forza al voto in tempi rapidi.
«Meglio così».
Corriere 13.5.13
Sergio Cofferati:
«Guglielmo? Non si sceglie così il leader»
«Si crea un problema di rapporti tra il neosegretario e i sindacati»
«E’ un nuovo errore che separa il partito dai suoi elettori»
«Siamo all’evaporazione di una forza politica»
intervista di Aldo Cazzullo
«Il
Pd ha fatto un passo indietro sul piano della democrazia interna. Un
altro errore, che separa il partito da iscritti ed elettori, e
accentuerà la crisi. Se mettiamo insieme un Pd che si chiude e un
governo già in difficoltà, siamo a una sorta di evaporazione di una
forza politica».
Sergio Cofferati, perché il modo in cui è nata la segreteria Epifani le sembra un passo indietro?
«Nulla
da obiettare sulla scelta di Guglielmo. Ma l'assemblea che l'ha eletto
segna un arretramento molto preoccupante della vita democratica interna
al Pd. Bersani fu eletto con un milione e 600 mila voti. Epifani con
450».
Bisognava fare in fretta.
«Come argomento non vale. Si
sono fatte le primarie per i parlamentari nelle vacanze di Natale;
figurarsi se non si poteva eleggere in altro modo il segretario».
Trova sbagliato distinguerlo dal candidato premier?
«No,
questo è ragionevole, accade in molti Paesi europei. Quel che trovo
privo di qualsiasi traccia di buonsenso è distinguere la legittimazione
del segretario, eletto da un'area ristretta di persone, com'è stato per
Guglielmo, mentre il candidato premier dovrebbe essere scelto con le
primarie. Questa differenza è distruttiva, perché mette le due figure su
un piano diverso nel rapporto con il nostro popolo. Non c'è nessuna
ragione per giustificarla, se non l'idea che il premier debba avere una
legittimazione più forte del segretario del partito. Non va bene».
È
la prima volta che la sinistra si affida all'ex leader della Cgil. Non
era accaduto né a Di Vittorio, né a Lama, né a Trentin, né a lei. Come
mai?
«Lama concorse alla segreteria del Pci in contrapposizione a
Natta, ma non divenne segretario. Credo che storicamente fosse l'effetto
di un'autonomia molto radicata del sindacato: la distinzione di ruoli
passava dalla distinzione dei percorsi politici».
Ora l'autonomia è in pericolo?
«Lo
diranno i fatti. È evidente che si crea un problema sul piano
dell'immagine nei rapporti tra il nuovo segretario del Pd e i sindacati.
Diciamo che il tema dell'autonomia diventa ancora più forte per ragioni
oggettive, al di là delle intenzioni delle persone».
Epifani ha le caratteristiche adatte per guidare il partito?
«Il
problema non sono le caratteristiche di Guglielmo e del lavoro
difficilissimo che gli viene affidato. È il contesto che rischia di
travolgere tutto. La situazione sta peggiorando di giorno in giorno. E
siamo solo all'inizio».
Si riferisce al governo con il Pdl?
«Sì.
Non si era mai visto nella storia della Repubblica il ministro degli
Interni partecipare, con altri ministri, a una manifestazione di partito
contro la magistratura, uno degli organi dello Stato. Avevamo visto
cose bizzarre, tipo i ministri di Prodi manifestare contro le azioni del
loro governo; ma quelle erano, come si diceva un tempo, "contraddizioni
in seno al popolo". Qui siamo a un grave vulnus istituzionale su un
tema delicatissimo come la giustizia».
Al momento del patto con Berlusconi la sua sensibilità all'argomento era nota.
«Ma
mi preoccupa la mancanza di risposta da parte del Pd. Ho sentito e
letto solo commenti imbarazzati e imbarazzanti. Mi sarei aspettato una
presa di posizione forte: la richiesta di dimissioni di Alfano, oppure
di un vertice di maggioranza per affrontare la questione. È evidente la
dipendenza del Pd dalla scansione degli argomenti che decide il Pdl».
Anche questo era prevedibile, non crede?
«Sì,
ma in un arco di tempo brevissimo siamo già in una situazione inaudita,
e per qualche verso pericolosa. C'è una situazione economica e
finanziaria gravissima. L'allarme sulla crisi sociale l'ha lanciato
Mario Draghi. E da noi si parla di Imu».
Lei difende l'Imu?
«È
una brutta tassa, voluta da Berlusconi e applicata da Monti nel peggior
modo possibile. Andrebbe rivista. Ma adesso la priorità assoluta è il
lavoro. Purtroppo il Pd è in un governo sostanzialmente impossibilitato a
prendere provvedimenti efficaci: sulla giustizia Berlusconi farà azioni
durissime di condizionamento della magistratura; sul versante economico
sta imponendo i suoi temi. E il Pd rischia di ripetere, su scala molto
più grande, l'esperienza fatta con Monti, quando ha votato misure contro
i più deboli, mentre il Pdl pur votandole contestava il governo».
Teme un ritorno alla violenza politica?
«No.
Il disagio sociale di rado si è espresso con la violenza. È molto più
diffuso l'abbandono della vita democratica. Chi non ce la fa più
rinuncia alla socialità, si vergogna della povertà, si chiude in casa.
Sento che il governo vuole peggiorare la già pessima riforma Fornero,
aumentando la flessibilità in entrata. Servirà solo a togliere diritti
ai più giovani. Ci vorrebbe invece un piano straordinario di
investimenti pubblici».
Renzi come lo trova?
«Penso debba decidere in fretta se vuole candidarsi alla segreteria del Pd o no».
Ed Epifani al congresso si candiderà?
«Non
vedo come glielo si possa impedire. Più che decidere chi è il leader, è
importante decidere cosa è il Pd. La commissione di Bruxelles sollecita
i partiti nazionali ad arrivare alle Europee dichiarando la loro
appartenenza alle grandi famiglie politiche. Nel partito socialista
europeo c'è il vecchio Psi, ma non c'è il Pd. Vendola vuole entrare. Noi
cosa aspettiamo?».
Corriere 13.5.13
Riccardo Terzi, segretario della Spi Cgil:
«Non è una soluzione Così si resta con il Pdl»
di Al. T.
ROMA
— Il 4 maggio aveva scritto un articolo sull'Unità per spiegare perché
se ne andava dal Pd, anzi perché «il Pd lascia andare alla deriva il suo
progetto». Ora Riccardo Terzi, segretario della Spi Cgil, non cambia
idea e anzi semmai la rafforza: «La scelta di Guglielmo Epifani alla
guida del Pd non mi pare che sia la soluzione. Del resto, qualunque
scelta si faccia, restano nodi politici irrisolti e un governo
sbagliato. Eleggere Epifani non è né un passo indietro, né un passo
avanti, è semplicemente un tentativo di ricucire una ferita con una
persona autorevole». Che ha esordito spiegando che «bisogna metterci la
faccia», nel governo: «Appunto — spiega — la sua elezione è la conferma
di un errore, di una scelta sbagliata, l'alleanza politica con il Pdl,
dettata da presunte ragioni di necessità che non esistono». Epifani è
l'ultimo di una lunga serie di sindacalisti finiti in politica: «Scelte
personali — dice Terzi — io per esempio ho fatto il contrario, ho
cominciato in politica e ora voglio restare nel sindacato, che è molto
più interessante».
Corriere 13.5.13
Prima mina il voto a Roma
E Renzi guarda a sinistra per smarcarsi dal governo
Il segretario: mi do un mandato a termine
di Maria Teresa Meli
ROMA
— «La mia sarà una gestione collegiale», ha già assicurato a tutti i
maggiorenti del Pd Guglielmo Epifani. Il neoleader del Partito
democratico pensa di creare un organismo snello, che abbia le funzioni
della segreteria e poi di un coordinamento politico (il caminetto, per
intendersi) in cui saranno rappresentate tutte le correnti. Ma l'idea
sarebbe quella di operare un ricambio generazionale anche in questo
secondo organismo. L'obiettivo, insomma, è quello di non contornarsi di
un caminetto composto dai soliti noti.
In segreteria dovrebbero
entrare, tra gli altri, Matteo Orfini per i «giovani turchi», Enzo
Amendola per i dalemiani, Antonello Giacomelli per i franceschiniani. E
ovviamente ci saranno anche i rappresentanti di bersaniani, lettiani e
renziani. A proposito di questi ultimi, corre voce, benché il sindaco
smentisca, che la componente renziana abbia chiesto la guida di tre
dipartimenti — Organizzazione, Enti Locali ed Economia — e che potrebbe
ottenerne almeno due, perché non è intenzione di Epifani entrare in urto
con Renzi.
Ma il segretario sa che la sua partita più difficile
la gioca, tra poco più di venti giorni su un altro terreno. Saranno le
amministrative e, soprattutto, quelle capitoline, il vero banco di prova
della sua segreteria. Per questa ragione già l'altro ieri,
all'assemblea nazionale ha voluto rimarcare con forza l'appoggio a
Ignazio Marino, che sembrava invece essere stato lasciato solo dal
partito in questa campagna elettorale. Epifani sa bene come funzionano
certe cose. Se il centrosinistra vincerà a Roma, quel risultato
diventerà un volano per la sua segreteria. E in questo modo l'ex leader
della Cgil potrà puntare alla ricandidatura al congresso d'autunno,
anche se adesso dice di escludere una prospettiva del genere: «Mi sono
dato un mandato a termine, un mandato di cinque mesi e questo renderà
tutto più facile», ha confidato ai suoi. Un inizio difficile, invece,
con una batosta elettorale nella Capitale rischia di compromettere il
suo futuro politico. Ma Epifani, che è uomo abile e accorto, sa già
tutto questo e si sta preparando in vista dell'appuntamento con le
elezioni amministrative.
Chi da Firenze guarda con attenzione alle
mosse di Epifani e del Pd tutto è Matteo Renzi. Il sindaco rottamatore
sembra aver acquisito una certa sintonia con il suo partito. Lo dimostra
con evidenza una scena che è avvenuta l'altro ieri, nella sala
dell'assemblea nazionale del Pd. Renzi aveva appena finito di parlare,
che subito Alfredo Reichlin si andava a complimentare con lui. Già, l'ex
comunista Reichlin, il dirigente politico che è dietro l'iniziativa di
Fabrizio Barca e la candidatura di Gianni Cuperlo, un uomo lontano anni
luce dal sindaco di Firenze, e che pure ora ha capito anche lui che il
primo cittadino di Firenze può essere una «risorsa» — e pure qualcosa di
più — per il Pd. La scena di Renzi in mezzo alla sala della nuova fiera
di Roma, con un capannello di dirigenti del partito attorno, mentre
Bersani, da solo, infilava la via dell'uscita, prefigura quello che
potrebbe essere il futuro. A patto, naturalmente, che la popolarità del
sindaco rimanga intatta.
Lui continua a dire che comunque resterà a
Firenze e si candiderà di nuovo per guidare la sua città. E a qualche
amico che gli chiedeva perché non tentasse la strada della segreteria ha
motivato il suo no in due modi. Primo: «Ricordatevi quello che è
successo a Veltroni. Io non voglio farmi logorare». Secondo: «Una mossa
del genere, da parte mia, potrebbe avere contraccolpi sul governo,
mettere in pericolo Letta e io non lo voglio assolutamente». Però Renzi
non vuole nemmeno restare a guardare e farsi sorpassare lungo la strada
che porta a palazzo Chigi dall'attuale presidente del Consiglio. È
questa la ragione per cui prossimamente si assisterà a uno strano
fenomeno. Approfittando del fatto che Letta e Franceschini sono
inevitabilmente schiacciati sull'alleanza con il centrodestra di
Berlusconi, Renzi scarterà a sinistra.
Ha già dato un antipasto
della sua strategia, chiedendo al Pd di cavalcare la battaglia dello
«ius soli» e della riforma radicale della legge Fornero. E adesso, gli
ex Ds che prima lo guardavano con diffidenza hanno mutato atteggiamento.
Perplessi sul governo e contrariati dal potere che vanno conquistando
Letta e Franceschini, ora, puntano le loro carte su Renzi.
La Stampa 13.5.13
Epifani: “Ho scelto un mandato a tempo: è questa la mia forza”
«Basta fratture e distinguo Serve una linea condivisa per aiutare l’esecutivo»
Sostegno al governo: «Dobbiamo prendere l’iniziativa e lavorare perché si realizzi l’agenda economica e sociale»
E il partito già mette in conto una sfida Renzi-Letta per la futura premiership
di Carlo Bertini
Chiamato
ad uno sforzo impervio come mettere pace nel Pd, Guglielmo Epifani è
fiducioso di farcela, «la mia forza, che userò, è che mi sono dato un
mandato a scadenza precisa di cinque mesi, portare il partito al
congresso», ragiona in queste ore il neo segretario con i suoi
interlocutori. Facendo così capire di non essere intenzionato a
ricandidarsi, perché «se pure darò il massimo, la mia forza sarà che non
sto cercando altro. Non volevo questa nomina e l’ho accettata per
questo periodo transitorio». Insomma, quando tutti glielo hanno chiesto,
Epifani non poteva rifiutare e malgrado ciò è sorpreso da quel che è
successo all’assemblea nazionale, «è un mezzo miracolo che alla fine ci
sia stata un’unità così larga». In effetti, i prodromi non facevano ben
sperare e comunque ora si volta pagina e «nel Pd è ora di mettere da
parte tutte queste fratture e divisioni, di trovare una linea condivisa,
a partire dal sostegno al governo». È questo il punto su cui batte di
più il segretario, con tutti coloro con cui parla è da qui che parte,
con una tesi precisa, quella che «noi dobbiamo sostenere il governo e
intestarci la politica economica e sociale, questa deve diventare la
nostra forza. E quindi intestarci tutto ciò che riguarda il lavoro:
dagli investimenti per l’occupazione, ai fondi per le aziende, dal
rifinanziamento della cassa integrazione agli esodati, fino alla
detassazione delle nuove assunzioni». Lo dice anche al Tg1, quando
ricorda che «questo sarà l’anno più duro della crisi, quindi questo è un
governo che deve dare una risposta sul finanziamento della cassa
integrazione, sul rinvio dell’iva non far pagare l’Imu alle fasce
popolari, sostenendo gli investimenti. Quello che chiediamo al governo è
di fare presto e bene e Berlusconi sbaglia, invece di dedicarsi al bene
del paese, mette in continuazione delle micce sotto il governo, ma è un
segnale di debolezza non di forza».
In pubblico attacca il nemico
numero uno, accusandolo di indebolire l’azione dell’esecutivo, ma in
privato Epifani parla dell’atteggiamento del suo partito che «invece di
vivere questo governo in modo imbarazzato e passivo, deve impegnarsi a
fondo e lavorare affinché l’agenda economica e sociale si veda e porti
dei risultati tangibili». Insomma, questo è il punto «e questa deve
essere la nostra finalità, senza cadere nelle provocazioni di
Berlusconi. Se riusciamo a recuperare un’unità d’intenti e a mostrare
capacità di fare le cose, credo che il Pd ricomincerà a respirare e ad
avere una prospettiva». Con una postilla non indifferente, «perché non
dimentichiamo che è un partito in grado di esprimere due giovani che
hanno capacità e popolarità come Letta e Renzi. Ma è importante che ora
tutti giochino la stessa partita.
E non è un caso se nel day after
la nomina di Epifani, nel Pd già si guarda avanti e le due figure più
sugli scudi siano proprio le due citate dal segretario. «E’ chiaro che
se il governo marcia bene, lo sfidante naturale di Matteo alle primarie
per la premiership sarà Letta», ragiona un renziano del cerchio
ristretto. Quindi Renzi ha già messo in conto uno scenario del genere.
Ora va dicendo che a maggio si ricandiderà a sindaco, anche se non si
può mai escludere del tutto una candidatura al congresso del Pd, che
andrebbe decisa a breve, entro luglio.
Anche Letta, a detta dei
suoi, non ha nessuna intenzione di candidarsi per il partito, «ormai il
suo è un profilo istituzionale...». E se un bersaniano come Speranza
ammette che «Renzi in questo momento è la risorsa più forte sul piano
della relazione con l’opinione pubblica», è il segnale che anche a
sinistra può far proseliti. E forse proprio in vista di una battaglia
con un leader a lui affine nel profilo politico come Letta, non ci
sarebbe da stupirsi se Matteo continuerà a lanciare segnali a quel mondo
lì. «Del resto, già da mesi è concentrato molto sui temi del lavoro nei
suoi interventi», fanno notare i renziani.
Restando all’oggi
però, il Pd si occupa di poltrone: per l’organismo snello (oltre al
nuovo “caminetto” delle correnti) che nominerà Epifani, i renziani si
aspettano di vedere o Luca Lotti all’organizzazione, o Yoram Gutgeld
all’economia o Angelo Rughetti agli enti locali. I dalemiani punteranno
sul giovane campano Enzo Amendola, coordinatore dei segretari regionali,
i «turchi» su Matteo Orfini e per i franceschiniani si fa il nome di
Antonello Giacomelli. Mentre il tesoriere Antonio Misiani, bersaniano,
potrebbe essere affiancato da un gruppo «plurale».
La Stampa 13.5.13
La posta in gioco per il Pd
di Elisabetta Gualmini
La
deprimente Assemblea di sabato ha formalmente aperto il Congresso Pd
che, a meno di colpi di mano, dovrebbe concludersi in ottobre, secondo
le innovative regole scelte nel 2008, con l’elezione di un nuovo leader
da parte di tutti i cittadini che abbiano voglia di partecipare.
Sia
gli accordi presi dai maggiorenti nella riunione del «caminetto»
tenutasi pochi giorni prima, sia il testo criptico (as usual) di un
ordine del giorno approvato sabato, sia l’entusiasmo impalpabile con cui
Epifani è stato ascoltato da una platea ridotta a un terzo nel
dopo-pranzo, dicono che il neo-segretario dovrebbe essere traghettatore e
garante di una breve fase transitoria. Nella quale sarebbe ragionevole
attendersi che nuovi attori si facciano ora avanti per contendersi la
guida del partito. Corposi indizi lasciano invece intendere che non
andrà così, per il prevalere di «istinti di sopravvivenza» che già hanno
portato quel partito ben oltre la soglia della auto-dissoluzione. Chi
si aspettava un taglio netto col passato, una cura da cavallo al
corpaccione agonizzante del Pd, capace di rianimarlo e di rimetterlo in
corsa, non poteva che rimanere deluso, via via che scorreva lo spartito
degli interventi, tutti rigorosamente sottotono, in una gara ad apparire
modesti, monocordi, elusivi sui clamorosi fallimenti del gruppo
dirigente dimissionario, appassionanti come la lettura del codice civile
alla fine dei matrimoni. Con l’eccezione, va riconosciuto, del
candidato in pectore Gianni Cuperlo, decisamente fuori standard per
chiarezza e profondità, l’unico ad aver pronunciato la parola
«sconfitta».
Tra gli indizi visibili al pubblico ci sono i
calorosi abbracci, di consolazione e incoraggiamento, tra Bersani,
Franceschini, Letta ed Epifani. A conferma che quest’ultimo potrebbe non
essere il traghettatore verso un nuovo inizio (che si tratti di far
girare la ruota lungo il viale delle rimembranze già solcato da Bersani o
di imporre un’agenda alternativa con il metodo Renzi) ma, tutto al
contrario, il garante dello status quo. Il rappresentante del «patto di
sindacato» che controlla il Pd dal 2010 (Bersani, Letta, Franceschini). E
dunque dell’accordo di governo Pd-Pdl, l’ultima spiaggia a cui questo
gruppo dirigente è approdato dopo una sconclusionata navigazione a
vista. Le parti si sono invertite rispetto ai piani fatti alla vigilia
delle elezioni: la «non vittoria» di Bersani ha portato i post-Dc in
prima fila; e con quello che ieri era il nemico pubblico numero 1
(Berlusconi) si è oggi dovuta stringere una «alleanza organica» (si
sarebbe detto nella Prima Repubblica). Ma il «patto di sindacato» regge.
Viene prima di tutto. Anche se per tenerlo in piedi e rimanere a galla
si devono fare salti mortali sul piano logico che pochi comuni mortali
riescono a seguire.
Non è facile spiegare come Epifani, che da
segretario della Cgil fu un combattente tenace contro il governo
Berlusconi, ora sia il principale sostenitore dell’accordo con il
nemico. Ce lo ricordiamo nell’ottobre del 2010, alla manifestazione Fiom
a Roma, mentre urlava e infiammava la piazza, in un crescendo di
bordate contro il Caimano, al centro del palco tra due tostissimi come
Landini e Cremaschi che ascoltavano annuendo. «Una politica di destra
che ha umiliato il Paese, che ha tagliato scuola e ricerca e ha mandato a
casa i precari. Che ha usato la crisi per colpire i diritti dei
lavoratori». Il leader che ha spinto la Cgil sulla via delle intese
separate, dicendo no alla riforma del modello contrattuale del 2008, il
primo degli strappi da Cisl e Uil sino a Pomigliano. Ora è lui la
stampella su cui si regge il governissimo con Berlusconi, con il
problema giustizia grande come una casa.
Ma se questa è la base di
partenza, il Congresso Pd potrebbe rivelare sorprese. Il discrimine
potrebbe diventare, per l’appunto, quello che separa i difensori dello
status quo (patto di sindacato interno, larghe intese) e chi ritiene che
vada superato (sotto tutti e due i punti di vista). Che poi vuole anche
dire, chi scommette sulla durata dell’attuale governo per più di dieci
mesi e su Enrico Letta come bandiera elettorale del Pd anche nelle
prossime elezioni, e chi pensa che la nuova bandiera non potrà che
essere Renzi, il prima possibile.
Corriere 13.5.13
La sfida neoradicale e giacobina al Pd
Gli antagonisti del no a tutto
di Ernesto Galli Della Loggia
qui
l’Unità 13.5.13
Perché continuare a comprare il nostro giornale
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
Per
più di venti anni ogni mattina ho comprato in edicola il quotidiano
fondato da Antonio Gramsci, ma dopo la formazione del governo con il
centrodestra non so se lo farò ancora.
Silvano Chiaradonna
A
cinquant’anni quasi di distanza da quando firmai il mio primo articolo
su l’Unità sono un veterano del giornale su cui scrivo ancora oggi e
sento, per questo motivo, il dovere di rispondere al grido d’angoscia
del lettore che non ha più il coraggio di comprarla quando, spinto dalla
forza dei fatti, il Pd ha accettato l’idea, a lungo ritenuta blasfema,
di guidare un governo insieme a Berlusconi e ai suoi. Dicendogli, prima
di tutto, che la decisione è stata presa di fronte a un incalzare di
eventi che ha reso, al momento, impossibile la formazione di un governo
diverso in un Paese che di un governo aveva un bisogno assoluto e
urgente. Ma dicendogli soprattutto che un grande partito non può
evitare, se non è nelle mani di un padrone, la convivenza al suo interno
di posizioni diverse e che il giornale fondato da Antonio Gramsci, che
di questa diversità non può non tenere conto, ha continuato a credere,
tuttavia, in quel processo di rinnovamento nella continuità portato
avanti con particolare chiarezza, nell’ultimo anno, dalla segreteria di
Bersani. Niente di più sbagliato, da questo punto di vista, che
indebolirla per chi come me continua a credere nella forza di idee che
resistono anche alle alleanze più pericolose. Come duramente propose
Togliatti da Salerno alleandosi a Badoglio e ai Savoia odiati e
disprezzati allora, da sinistra, almeno quanto il Berlusconi di oggi.
l’Unità 13.5.13
Ora un congresso per cambiare
di Enrico Rossi
Presidente Regione Toscana
LA
SCELTA DI EPIFANI, FATTA SABATO DALL’ASSEMBLEA DEL PD, È UNA SOLUZIONE
di equilibrio oppure, se si preferisce, di completamento. Può essere
utile purché si chiariscano subito tre punti: 1) che al congresso ci si
arrivi quanto prima e si apra immediatamente la discussione; 2) che il
nuovo segretario del Pd, anche allo scopo di tutelare da ripercussioni
negative il governo Letta, non potrà correre come candidato premier; 3)
che il segretario Epifani sia di garanzia e quindi non ricandidabile.
Epifani
viene dalla Cgil, un’organizzazione dei lavoratori dipendenti alla cui
storia e alle cui proposte politiche mi sento molto vicino. Ma il Pd non
può permettersi di dare anche soltanto l’immagine o alimentare il
dubbio di essere il partito del solo lavoro dipendente, proprio quando
c’è da ricostruire un blocco sociale più ampio in cui insieme a
disoccupati, precari e lavoratori dipendenti possano riconoscersi e
sentirsi rappresentati anche i titolari di partite Iva, gli artigiani, i
piccoli imprenditori, insomma tutto il ceto medio colpito dalla crisi e
senza il quale non si può né vincere, né rinnovare il Paese.
Epifani
non può certo rappresentare l’idea di rinnovamento, poiché ha già
svolto un ruolo primario di rilievo nazionale nella Prima e nella
Seconda Repubblica. Queste caratteristiche del nuovo segretario Pd, se
non si chiariscono subito i punti richiamati, possono mettere il Pd in
una situazione di oggettiva difficoltà verso iscritti ed elettori.
Infatti non c’è futuro se non si dà risposta allo sconforto e alla
rabbia di tanta parte del popolo democratico e di sinistra che,
disorientato e deluso dal fallimento di Bersani e dal governo con il
Pdl, chiede di discutere, di essere ascoltato e di essere subito
protagonista e artefice del cambiamento del gruppo dirigente nazionale e
di una rigenerazione culturale, progettuale e programmatica del Pd.
Spero
che a nessun sfugga il fatto che, con il governo di necessità, di cui
io stesso rivendico le ragioni e il dovere di sostenerlo per rispondere
alle emergenze sociali e istituzionali, non sono certo venute meno le
ragioni più profonde della sinistra, che superata la fase attuale,
reclamano un’idea e un progetto di società e un impegno politico che
nasca dalla critica del fallimento delle politiche liberiste, dei tagli e
dell’austerità, che non hanno prodotto né equità, né sviluppo.
Spero
infine che tutti avvertano la febbre che scuote il partito e il disagio
del popolo del centrosinistra che vuole avere un Pd che li rappresenti,
per le loro idealità e la loro storia, pena l’affievolirsi della
passione politica e una lenta, inesorabile e silenziosa scissione.
Epifani
è una soluzione frutto di un accordo di palazzo, certo dignitosa,
purché il suo significato sia contenuto nei limiti della garanzia e
delle regole per lo svolgimento del congresso. È infatti di un confronto
vero che c’è bisogno per rilanciare il Pd e convincere che possiamo
essere il riferimento per tanti, donne e uomini, che ancora credono che
valga la pena di impegnarsi per una società diversa e migliore.
Possiamo farcela, dicevamo sabato, ma non ci resta molto tempo.
l’Unità 13.5.13
La crisi Pd riflesso del ko della destra
La sinistra ha perso radicalismo sociale
Dipende dalla forma-partito, ma non solo
di Carlo Buttaroni
E
se la crisi del Partito democratico fosse, in realtà, il riflesso della
crisi della destra e non della sinistra? Se derivasse dalla
responsabilità di assumersi il peso del fallimento delle teorie
iperliberiste? Se il disorientamento nascesse dalla scoperta di una
società dove le classi sociali sono aumentate anziché ridursi? Se il
problema non derivasse dall’impossibilità di governare i grandi processi
economici e sociali, ma dall’aver disperso il radicamento sociale dopo
anni di avvitamenti verticistici ed elitari?
Il Pd ha la
maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato,
occupa le prime tre cariche dello Stato, la presidenza del Consiglio, la
maggioranza dei ministri, guida gran parte delle commissioni
parlamentari e detiene la maggioranza dei presidenti di Regione. Perché
allora non esercita queste leve per entrare nel cuore della società e
assumere la rappresentanza del mondo del lavoro, dei ceti medi
produttivi, delle piccole e medie imprese che hanno urgente bisogno di
un governo che sposti il baricentro delle scelte politiche dalla finanza
alla società e all’economia reale? Perché, anziché dilaniarsi nel
tentativo di trovare equilibri interni, non esercita il potere
istituzionale e politico per dispiegare una reale azione riformatrice
nella società?
È innegabile che disaffezione politica e rabbia
sociale hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi che ha travolto
il Pd, e che una parte di responsabilità si ritrova nella coabitazione
forzata con il centrodestra, nel governo Letta ora, nel governo Monti
prima. Ma le ragioni profonde della crisi del Partito democratico non
devono sfuggire e occorre riprenderle nei termini politici che gli sono
propri. Il Pd oggi appare costretto nella contraddizione fra politiche
di stampo socialdemocratico e un neocentrismo ispirato a un’agenda
liberale, costrette a convivere nello spazio stretto dell’opposizione a
Berlusconi. È questo che ha prodotto un deficit di progettualità
politica e che è esploso proprio nel momento in cui il Pd è stato
chiamato a sostenere il peso principale della governabilità, dopo il
fallimento delle ricette economiche liberiste.
LA SINISTRA EUROPEA
L’Europa
suggerisce vie alternative allo stallo politico della sinistra
italiana: in Francia come in Germania, i partiti della sinistra
democratica sembrano muoversi verso la riscoperta (o quantomeno la
rielaborazione) dei valori tradizionali delle socialdemocrazie europee,
facendo leva sull’incompatibilità di politiche di austerità con la
crescita e l’occupazione, nonché ponendosi contro le ricette della
destra liberale che hanno portato l’Unione alla situazione economica
attuale. E proprio su queste basi si fonda un documento che i socialisti
francesi hanno recentemente approvato in vista della Convenzione
sull’Europa di giugno che, a sua volta, porrà le basi di una strategia
comune di tutti i partiti socialisti e democratici del Pse. Affrontare
la destra, è scritto nel documento, significa rimettere le ragioni della
crescita e del lavoro al centro del dibattito politico, indignarsi per
il degrado delle condizioni di vita dei popoli, per l’oblio in cui sono
stati relegati i valori fondanti del progetto europeo. Significa
affermare un’integrazione solidale con misure economiche e sociali che
abbiano come principi ispiratori quelli del benessere e della tutela dei
cittadini.
«È raro che i dibattiti economici si concludano con un
ko tecnico ha scritto recentemente il premio Nobel per l’economia Paul
Krugman riferendosi alle politiche del rigore Tuttavia, il dibattito che
oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un
simile esito. (...) Se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è
perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo
troppo poco, e questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto.
(...). I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese sulla
sanità e la previdenza ovvero sui programmi assistenziali mentre il
grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse
incrementata. (...) Da quando abbiamo optato per l’austerità, i
lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male,
avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e dagli aumenti
della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione».
Queste
riflessioni rendono evidente quale dovrebbe essere, per il Pd, il
«campo economico e sociale» di riferimento per proporre la sua idea di
Paese. Ma le questioni economiche e sociali non esauriscono le ragioni
della crisi politica del Pd. Esse riguardano anche il modello di
partito, che inevitabilmente risente del modo di specchiarsi nella
società. Se il partito di massa, nelle sue varie declinazioni conosciute
anche nel nostro Paese, sembra tramontato e «irrecuperabile», essendo
venuta meno la possibilità di costruire una cornice ideologica «forte»,
bisogna chiedersi se davvero l’alternativa obbligata è quella di partito
prevalentemente «elettoralistico». Se la tradizionale dimensione
rappresentativa e partecipativa che regolava, in forme molto varie,
l’organizzazione dei partiti del Novecento, oggi sembra insufficiente a
contenere una società più complessa, davvero l’unica via è quella di un
mix tra forti leadership personali e forme destrutturate, «liquide», di
organizzazione?
Tuttavia è proprio la crisi economica e sociale a
dirci che, seppur in forme completamente diverse dal passato, non si può
fare a meno di attori politici organizzati, dotati di una base
associativa, che si propongono di svolgere un ruolo di rappresentanza
degli interessi sociali, di orientamento e di elaborazione delle
politiche pubbliche, di organizzazione del consenso. Se prendiamo in
considerazione tutte le «classiche» funzioni che i partiti storicamente
hanno svolto in passato dalla strutturazione del voto all’aggregazione e
alla rappresentanza degli interessi sociali, al reclutamento del
personale politico si nota come siano ben lungi dall’essere inutili.
Articolare, rappresentare e ricomporre interessi sociali diffusi,
proporre obiettivi di trasformazione sociale, promuovere inclusione e
coesione sociale, alimentare lo spirito civico dei cittadini attraverso
la partecipazione, promuovere una visione della politica come azione
collettiva: questi i compiti che non possono essere svolti da partiti di
stampo elettoralistico o leaderistico. La crisi del Pd nasce anche da
qui: aver dato per scontato la dimensione atomizzata e individualistica
della società, dando l’idea di non avere bisogno di quei corpi e
strutture intermedie che servono, invece, a instaurare un rapporto
diretto tra leadership e base. Il Pd, piaccia o no, è sembrato troppo
spesso un team di politici prevalentemente tesi alla conquista di
cariche pubbliche. E la responsabilità di questo piano inclinato non è
ascrivibile a un leader o un gruppo dirigente bensì nel decadimento di
una visione sociale che ha stentato a trovare una nuova forma politica
tra le nebbie della seconda Repubblica.
La chiave per il Pd,
adesso, è smetterla di guardare al suo interno per rimettere radici
nella società, ridefinendo un’efficace circolarità di rappresentanza e
partecipazione. Perché è solo grazie all’attivarsi di questa circolarità
che può arricchirsi la qualità di politiche autenticamente riformiste,
grazie all’apporto di conoscenze, competenze ed esperienze in grado di
interagire con i luoghi deputati alla decisione politica.
L’organizzazione del partito va riprogettata esattamente su queste
esigenze. Sapendo che la casa dei riformisti dovrà essere ancora più
grande e comprendere la sinistra democratica europea.
l’Unità 13.5.13
I Pirati bocciano il voto on line
Al congresso del partito tedesco è fallito il tentativo di rendere obbligatorie e vincolanti le assemblee su Internet:
«I sistemi di votazione elettronici sono manipolabili»
E se lo dicono loro...
I fautori della proposta chiedono post-congressi regionali in cui rivotare (ma su schede di carta)
I risultati sconfessano gli attuali dirigenti, che non nascondono la delusione
di Paolo Soldini
Politica
in rete? No, grazie. Al congresso dei Piraten tedeschi concluso ieri
(forse) a Neumarkt, anonima cittadina del Palatinato che probabilmente
non passerà alla storia per l’evento, è fallito il tentativo di rendere
obbligatorie e vincolanti le cosiddette Ständige Mitgliederversammlungen
(Smv), ovvero le assemblee permanenti on line dei militanti.
La
proposta di introdurre l’obbligo è stata votata dal 58,1 per cento dei
delegati mentre per passare avrebbe dovuto avere l’assenso di tre quarti
dell’assemblea congressuale. Se le Smv fossero passate, praticamente
tutte le decisioni del Piratenpartei, comprese quelle oggetto dei
congressi stessi (anche quello in corso), avrebbero dovuto essere prese
con votazioni elettroniche sul tipo, per capirci, di quelle che in
Italia vengono teorizzate dal Movimento Cinque Stelle e i cui esiti non
avrebbero potuto essere messi in discussione.
DEMOCRAZIA NON ELETTRONICA
I
fautori dell’innovazione, che avevano presentato la loro mozione il
primo dei tre giorni di discussione e poi avevano imposto una «pausa di
riflessione» di 48 ore sperando di convincere i riottosi, comunque non
si sono rassegnati e hanno rifiutato di considerare definitivo il no
dell’assemblea. Hanno annunciato, perciò, l’indizione di una specie di
post-congressi in cui si rivoterà sulla proposta regione per regione.
Non elettronicamente, però, ma con schede e urne tradizionali. In un
certo senso, insomma, il congresso di Neumarkt continuerà nelle prossime
settimane. E non è dato sapere se i sostenitori dell’obbligo
elettronico convocheranno dei post-post-congressi nel caso che le loro
posizioni vengano di nuovo battute.
Al di là degli aspetti
vagamente surreali dello scontro cui si è assistito nei tre giorni del
congresso, la questione discussa dai Piraten è molto seria perché
investe il rapporto tra democrazia e partecipazione nei tempi delle
nuove possibilità offerte dalle tecnologie. Un tema sul quale quella
formazione politica è nata, sul quale si è esercitata in modo certamente
più serio di quanto si è visto a Neumarkt e con cui ha raccolto
l’interesse e il consenso di una quota consistente dell’elettorato,
soprattutto giovanile.
Nella primavera dell’anno scorso il
Piratenpartei ha messo in fila una serie di risultati sorprendenti nelle
elezioni regionali: l’8,9 per cento a Berlino, il 7,4 nella Saar, l’8,2
nello Schleswig-Holstein e il 7,8 nella Renania-Westfalia. Poi sono
arrivati duri contrasti al vertice del partito, con le dimissioni di due
esponenti di spicco, Julia Schramm e Matthias Schrade, motivate con
critiche pesanti ai metodi del presidente Bernd Schlömmer. Il motivo
dell’abbandono di Julia Schramm, fra l’altro, dice molto sulle
contraddizioni che popolano le idee dei suoi compagni.
Dopo aver
scritto un libro, «Klick mich» («Cliccami»), sul proprio «esibizionismo
da internet», la donna ha ritenuto di non doverne autorizzare la
riproduzione gratuita sulla Rete. Cosa che con qualche ragione, va detto
le è costata pesantissime critiche dai compagni pirati, perché
evidentemente fuori dalla linea del partito contraria ai copyright. A
far perdere molti consensi, poi, è stata anche la notevole
indeterminatezza dei programmi economici e sociali offerti nella
sbandierata «open source democracy».
La discussione a Neumarkt è
stata illuminante sulle contraddizioni in cui finisce inevitabilmente
per cacciarsi una strategia di “politica liquida” che pretenda di vivere
e affermarsi solo sulla Rete. Si tratta di difficoltà molto simili a
quelle con cui debbono (o dovrebbero) fare i conti capi e militanti del
Movimento Cinque Stelle in Italia, anche se gli esponenti di spicco
degli stessi Piraten tengono molto a distinguersi dai grillini, sia
perché attribuiscono loro un atteggiamento negativo verso l’Unione
europea, sia per il loro modello “dittatoriale” fondato sulla leadership
di Grillo e Casaleggio.
IL RISCHIO DEL POPULISMO
L’esito
del voto è stata una sconfessione per i dirigenti attuali, che non hanno
nascosto la delusione. «Abbiamo mostrato d’essere un partito che ha
paura di prendere delle decisioni», ha commentato il membro della
presidenza federale Klaus Peukert e sulla «paura» ha insistito anche il
più conosciuto dei deputati di Berlino, Martin Delius. Dall’altra parte,
invece, è stata evidente la soddisfazione: «Il risultato mostra che il
Piratenpartei non vuole gli Smv; ora dobbiamo solo augurarci di esserci
lasciati alle spalle questo dibattito».
Molti hanno sottolineato i
rischi di semplificazione e di populismo che la «democrazia diretta
elettronica» porta con sé. Ma le ragioni più profonde dell’opposizione
alle «assemblee permanenti vincolanti» sono state spiegate da un altro
esponente del partito conosciuto a livello federale, il leader
parlamentare dello Schleswig-Holstein Patrick Breyer: «I sistemi di
votazione elettronici sono manipolabili». Chi controlla il sistema può
piegarlo come vuole. E già.
La Stampa 13.5.13
Prima grana a Montecitorio. I polpastrelli anonimi dei deputati
di Carlo Bertini
È
una delle prime grane che la Boldrini ha dovuto affrontare, una delle
meno pubblicizzate ma foriera di sicure polemiche e quindi piuttosto
spinosa: con i tempi che corrono la Camera non può permettersi di fare
spallucce sul fenomeno dei «pianisti» e quindi la ritrosia di alcune
decine di deputati a lasciare le impronte per essere identificati nel
voto elettronico ha richiesto un intervento: e forse in queste ore la
vicenda sta per essere risolta - o quasi - alla radice.
Fino a
mercoledì scorso, stando ai dati dei «piani alti», erano una sessantina i
deputati che non avevano consegnato le cosiddette «minuzie», cioè che
avevano rifiutato per motivi di privacy di farsi prendere le impronte.
Una
procedura, quella del voto con il polpastrello identificabile dal
congegno posto in ogni «scranno», che obbliga alla presenza fisica in
aula solo tutti gli onorevoli che lasciano le impronte, mentre i
«pianisti» non identificabili possono evitare sanzioni alla diaria, fino
a trecento euro mensili per i più assenteisti.
Questa settimana
finalmente partono i lavori delle commissioni e la novità è che anche di
fronte ogni auletta sono state installate finalmente le macchinette per
le impronte: ma la possibilità di «bigiare» i lavori e risultare
presente resta un vulnus del sistema che sostituisce i vecchi registri:
se un deputato con una toccata e fuga lascia le impronte e se ne va
evita così le multe per le assenze in commissione. In aula chi non
lascia le sue «minuzie» può votare lo stesso usando il polpastrello,
solo che non può essere identificato. E nel primo scorcio della nuova
legislatura, questa sessantina di obiettori, circa il 10% del totale,
distribuiti solo tra i gruppi Pdl e Lega, ha già destato qualche
protesta da parte degli altri colleghi.
La presidente della Camera
avrebbe deciso di porre rimedio alla questione, provando a rendere
obbligatoria la consegna delle «minuzie»: sembra infatti, che malgrado
le sedute d’aula svoltesi fin qui siano state per la maggior parte
dedicate a voti di fiducia ad appello nominale, quando si è proceduto
invece con voti elettronici i presidenti di turno hanno notato anomalie
come lucette accese rosse o verdi spuntare fuori da banchi vuoti. In
quegli scranni infatti chiunque può votare e niente di più facile che
farsi sostituire da un collega. A quanto sembra la moral suasion ha
prodotto i suoi frutti e gli irriducibili dovrebbero limitarsi ad una
quindicina...
Repubblica 13.5.13
Manifestazione per Giorgiana Masi ma la Questura vieta il corteo
Centinaia di persone stamattina hanno partecipato a un corteo per ricordare Giorgiana Masi, uccisa il 12 maggio del '77
qui
Corriere 13.5.13
Femminicidio, non è tempo di rinvii, serve subito un piano del governo
di Fiorenza Sarzanini
Una
settimana fa, dopo l'omicidio di cinque donne, il governo annunciò che
si sarebbe mobilitato per affrontare l'emergenza. Rispondendo
all'appello di convocazione degli Stati Generali di «Feriteamorte», il
progetto di Serena Dandini e Maura Misiti, prima il ministro delle Pari
Opportunità Josefa Idem, poi il suo collega dell'Interno Angelino Alfano
dichiararono che nella prima riunione l'Esecutivo avrebbe messo a punto
un piano di interventi. Trovando anche le risorse economiche necessarie
a finanziare i centri antiviolenza. Non è accaduto.
Ormai da un
anno il Corriere della Sera sollecita la creazione di un coordinamento
nazionale che possa ascoltare chi già si occupa ogni giorno di questi
problemi. Bisogna rendersi conto che la piaga del femminicidio riguarda
tutti, uomini e donne. Bisogna comprendere che soltanto una vera
attività di prevenzione può diminuire il numero delle aggressioni e dei
delitti. Ecco perché si deve agire in fretta, ma soprattutto perché
questi temi non possono diventare oggetto di propaganda politica. Poter
contare su una banca dati e su piccoli gruppi di magistrati che
all'interno delle procure siano dedicati esclusivamente a questo tipo di
reati, può servire ad applicare le leggi che già ci sono. Modificare
l'articolo 612 bis che punisce gli atti persecutori prevedendo che si
possa procedere d'ufficio e non a querela di parte come previsto
attualmente, può aiutare quelle donne che non hanno il coraggio o la
possibilità di uscire allo scoperto.
Anche il Parlamento deve fare
la sua parte ratificando la Convenzione di Istanbul che fornisce
all'esecutivo un ulteriore strumento di intervento. Lo abbiamo detto più
volte: non servono stanziamenti eccezionali o misure straordinarie.
Basta avere la volontà di agire e la consapevolezza che soltanto una
vera attività integrata tra le varie autorità consente di raggiungere
gli obiettivi. Non è più tempo di rinvii. Il ministro Idem ha convocato
per la prossima settimana le associazioni che si occupano di questi
temi. Sarebbe bene che in quell'occasione ci fosse già il piano da poter
discutere. Per dimostrare che il governo vuole davvero intervenire e
non limitarsi ai proclami.
Corriere 13.5.13
Ad «Amore criminale» i casi di femminicidio
di Aldo Grasso
Quando
un programma affronta un tema delicato e grave come la violenza sulle
donne, è sempre difficile parlarne in modo tecnico e non emotivo. Il
contenuto è di per sé così importante che sembra poter legittimare ogni
forma espressiva. È questo il caso di «Amore criminale», che è
ricominciato su Rai3 con una nuova edizione (venerdì, ore 21.05). Il
cambiamento più rilevante è stato quello in conduzione, con l'esordio di
Barbara De Rossi. Per il resto, il programma è ormai un format che va
da sé, e la nuova edizione ha mantenuto immutata la sua impostazione.
Venerdì ci ha raccontato la storia tragica di Piera, uccisa a coltellate
dal marito, vittima della sua morbosa gelosia, e quella (per fortuna
con un finale meno drammatico) di Mihaela, perseguitata da un uomo
conosciuto per caso in un bar. Alle testimonianze dei familiari delle
vittime, dei loro avvocati e delle forze dell'ordine coinvolte nei casi,
sono abbinate le ricostruzioni dei momenti più drammatici delle loro
storie, rappresentate attraverso il metodo della docu-fiction. La cosa
curiosa è che alla sua origine, ormai qualche anno fa, il programma era
partito in seconda serata con un'impostazione molto più «narrativa»,
come fosse una sorta di racconto di genere, un esperimento di narrazione
basata sul principio del true-crime. Poi, gli eventi della cronaca
italiana, tanto drammatici da fare entrare nel dibattito sul tema il
termine «femminicidio», usato per dare il senso di quella che è
diventata ormai una vera e propria strage, l'hanno piegato in una
direzione molto più realista e d'intervento, sul modello di una tv che
ambisce a trasformare la società, secondo l'esempio di «Chi l'ha visto»
(a cui assomiglia sempre di più). Ma utilizzare la musica di «Dexter» a
commento dei casi raccontati non sarà un po' di cattivo gusto?
Corriere 13.5.13
Kabobo, il fantasma senza emozioni
«Io non dormo mai, adesso ho fame»
di Andrea Galli e Cesare Giuzzi
qui
La Stampa 13.5.13
Rinchiuso a San Vittore in isolamento e controllato a vista
L’uomo con il piccone all’esame degli psichiatri
Mada
Kabobo Ghanese, 31 anni, arriva a Bari nel 2011 Con altri immigrati
fugge dal centro di accoglienza: per protesta bloccano la tangenziale.
Sconta l’arresto per l’evasione e va a Foggia; lo scorso marzo è a
Milano
La notte di Mada Kabobo è stata breve e
spaventosa, prima che decidesse di armarsi di una spranga e poi di un
piccone per il suo raid di follia nel quartiere Niguarda. Ore passate da
solo al buio, con gli occhi sbarrati dalla paura, per ripararsi da un
violento temporale in una baracca del Parco Nord, due assi in croce, un
tetto di lamiera e un puzzo insopportabile tutt’intorno.
E’ stato
questo l’ultimo rifugio conosciuto del ghanese che ha seminato morte e
terrore nel quartiere che gira intorno a piazza Belloveso. Il rifugio,
provvisorio e meta anche di altri sbandati, lo hanno individuato i
carabinieri organizzando sabato una battuta in grande stile, come se
dovessero cercare un sequestrato.
Ripercorrendo a ritroso la
strada fatta da questo 31enne impazzito, sono arrivati nel grande parco
che segna i confini della periferia nord della città. Lui non ha
raccontato nulla, chiuso nel mutismo assoluto da quando, alle 6,37 di
sabato mattina, è stato fermato da una pattuglia dopo che aveva
infierito sulla sua ultima vittima, Daniele Carella, 20 anni, che ancora
lotta tra la vita e la morte.
«Ho fame», ha detto soltanto nel
suo inglese stentato agli investigatori che lo interrogavano, poi ha
chiuso gli occhi entrando in uno stato catatonico, mentre intorno i
carabinieri cercavano di risolvere il suo mistero.
La sua presenza
a Milano viene segnalata la prima volta a metà marzo scorso, quando
viene fermato e identificato per un controllo che lo qualifica come
immigrato in attesa di un verdetto per la richiesta di asilo politico.
Dunque,
secondo la legge, impossibile da espellere, anche se il tribunale di
Lecce ha già respinto la sua prima domanda e lui ha fatto ricorso.
Mada
Kabobo, un metro e 78 di altezza, fisico asciutto, ventre appiattito
dalla fame, adesso è un fantasma che ciondola silenzioso in una cella
d’isolamento a San Vittore, controllato a vista e già sottoposto alle
prime visite psichiatriche. Oggi o domani dovrebbe essere interrogato
dal gip per la convalida dell’arresto. Sconosciuto alle persone della
sua stessa comunità, agli sbandati clandestini che come lui si muovono
attraverso l’Italia vivendo di stenti, Kabobo, appare come un solitario
che la sofferenza psichica ha reso indifferente al mondo.
Nella
baracca del Parco Nord i militari hanno trovato qualche vestito e nulla
più. Alla sua identificazione sono arrivati grazie alle impronte
digitali, registrate negli archivi delle forze dell’ordine dopo che
l’uomo, arrivato a Bari nel luglio del 2011, aveva fatto domanda di
asilo politico.
Il primo agosto di quello stesso anno era stato
poi identificato insieme agli immigrati del centro accoglienza che erano
fuggiti per bloccare tangenziali e binari in segno di protesta.
Arrestato per la rivolta, in carcere a Lecce decide di rubare un
televisore in una cella dei suoi vicini e non riuscendoci, lo distrugge.
Uscito di prigione il 17 febbraio dell’anno scorso, fa tappa a Foggia
dove ha un obbligo di dimora per rapina.
Ricompare a Milano a metà
marzo dove viene controllato in viale Monza, davanti a una farmacia.
Poi, il buio. Nessuno lo nota a Niguarda, nessuno ne segnala la presenza
in altre zone. Kabobo, non ha amici, non ha parenti, è un invisibile,
un intoccabile. E impazzisce nella sua solitudine.
Fino all’alba di sabato, quando decide di far sapere al mondo della sua esistenza. Distruggendo quella degli altri.
il Fatto 13.5.13
I cent’anni dell’ex nazista
Il sereno e lungo ergastolo di Erich Priebke
di Nello Trocchia
È
lungo l’ergastolo di Erich Priebke. Cento anni da compiere il 29
luglio. E chissà se quei tanti giorni sono per lui segno di grazia o
ragione di tormento. Lui, indicato come colpevole, e “graziato”
dall’età, mentre le vittime delle Fosse Ardeatine sono state private
degli anni. Della vita.
Priebke dagli occhi di ghiaccio non lascia
trapelare nulla. La sua pena è una vecchiaia come quella di altri
uomini. Anzi, senza la solitudine di tanti anziani.
“Devo andare
dal capitano”, dice l’uomo di mezza età, distinto. Sguardo fiero e
cadenza germanica. É l'ospite che in questa mattina di un soleggiato
sabato romano farà visita a Priebke, il nullatenente “boia” delle fosse
Ardeatine, condannato all'ergastolo per quell'eccidio, 335 persone
fucilate nel 1944. Per Priebke, ex capitano nazista, una carcerazione
“serena” tra uscite e visite. Come l'ospite che si presenta oggi alla
casa dove l'ex ufficiale delle SS si trova ai domiciliari. Appena il
cronista chiede informazioni, si fa guardingo mentre consegna i
documenti ai militari che sorvegliano giorno e notte la residenza
dell'ergastolano che sconta qui la sua pena. Priebke abita in una
traversa di Piazza Irnerio, zona Boccea, il quartiere che dopo il Ghetto
ospita la più nutrita comunità ebraica della Capitale. Un vicino
racconta: “Che vuol che le dica... lo vedo spesso in giro. Una volta mi
notò con giornali di sinistra sotto il braccio e mi chiese 'Lei mi odia?
Ce l'ha con me?'. Io risposi che voglio solo che paghi per quanto
fatto. Quello che mi fa riflettere è che non vedo mai resipiscenza,
ripensamento”.
Non c’è odio nei vicini di Priebke, piuttosto il
bisogno di ricordare. Il dovere della memoria. Alcuni lo descrivono come
“Gentilissimo”, con il suo buongiorno di marca tedesca, e quel volume
della tv più alto quando suona l'inno di Germania. Di estimatori dell'ex
ufficiale delle SS se ne trovano sia tra gli estremisti di destra
sempre più numerosi e tollerati, anzi accettati, che tra gli amici di un
tempo. C'è chi qualche anno fa lo invitò addirittura a presiedere un
concorso di bellezza e lui, l'ex ufficiale delle SS, partecipò solo con
un messaggio video: “Ringrazio gli organizzatori per l'invito che
considero un atto umanitario”. Per il suo avvocato Paolo Giachini
Priebke “É un perseguitato, ha pagato solo lui”. Il nome di Priebke è
tornato di attualità nei giorni scorsi dopo l'assoluzione del presidente
della comunità ebraica capitolina Riccardo Pacifici e del giornalista
del Tg2 Valter Vecellio accusati di sequestro di persona e ingiurie
dall'ex ufficiale delle SS. Priebke ha perso, ma non ha i soldi per
pagare le spese legali. É nullatenente e così Equitalia ha bussato alla
porta di chi la causa l'ha vinta secondo un principio che ha il sapore
della cinica beffa.
Pacifici ricorda che: “Prima di essere
arrestato Priebke concesse un'intervista alla Rai per la quale doveva
incassare 50 milioni di lire. Priebke, dopo una causa alla Rai, li
ottenne con tanto di interessi. Noi provammo a bloccare quei conti, ma i
soldi erano già scomparsi”. Ormai da anni Priebke vive in questa casa
messa a disposizione dal suo avvocato Paolo Giachini. All'ex capitano
nazista è concesso il permesso di uscire seguendo le disposizioni
previste dal Tribunale, sempre accompagnato da agenti in borghese. Nei
paraggi difficile evitarne la presenza. “Di solito scende e fa una
passeggiata nei dintorni, va a Villa Carpegna, qualche anno fa correva
anche, gode sempre di ottima salute”. Racconta Ugo che lo incrocia di
frequente. “L'ultima volta l'ho visto qualche giorno fa - spiega Emilio,
un altro vicino - gli daresti venti anni di meno, ogni tanto però va in
farmacia. É umano anche lui, pare”.
Farmacia poco distante dalla
sua dimora, pochi medicinali e poi la passeggiata. Te lo vedi davanti e
ritrovi un passato tremendo che fa male perfino ricordare: “ L'ho visto
di recente, lui sta bene, ma io non voglio che mio figlio lo incroci e
mi chieda 'Chi è quel signore che gira con gli agenti?'. Sarebbe
difficile spiegare perché è fuori visto quello per cui è stato
condannato”. Già, difficile, impossibile dare un senso. Spiegare,
soprattutto ai bambini. “Sta bello arzillo”, racconta Elisa nel
supermercato a poche centinaia di metri dalla casa di Priebke: “Qualche
mese fa mi chiese le uova di quaglia, si vede che ne conosce le
proprietà”. La lunga vita, un dono che alle vittime di quegli anni è
stato negato. E le piccole gioie che l’ex comandante non si nega, come
le visite al vicino ristorante che prepara specialità marinare.
“L'ultima volta è passato un mese fa”, racconta Elio, un cliente quasi
interrogandosi sulla giustizia della vita più che di quella dei
tribunali. L'ex ufficiale delle SS sceglie la grigliata di pesce. C’è
chi, come Ada, si lascia andare a un moto di rabbia: “Ogni tanto in
inverno vediamo un’auto di grossa cilindrata che lo scarrozza in giro.
C'ha pure gli amici questo. Roba da cambiare cittadinanza. Ogni tanto
penso di andarmene”. Il centenario Priebke non rinuncia ai giornali, si
ferma all’edicola per comprare il Giornale prima di incamminarsi verso
via Boccea e respirare il refrigerio di una villa romana nei momenti
d'aria. Proprio di fronte al suo terrazzo e all'ingresso del palazzo
ecco la sede di Sel, il partito di Vendola. A fine marzo hanno affisso
una targa con l'epigrafe di Piero Calamandrei “Lo avrai, camerata
Kesserling... ”. “Anche quel giorno – racconta un militante – Priebke
scese per prendere aria. Abbiamo ricordato l'eccidio delle Fosse
Ardeatine leggendo le lettere dei deportati e cantando Bella ciao”.
Chissà cosa ha pensato l’ergastolano. Il suo avvocato e padrone di casa,
Paolo Giachini, lo difende attaccando: “Lo ospito perché è un
perseguitato. Priebke subisce un trattamento degradante”. Aggiunge: “
C'è una lobby di nemici di Priebke, enorme, fatta di partiti e comunità
religiose, è offensivo che la tv pubblica venga usata per scopi
personali, per pochi euro di una cartella esattoriale”. E ricorda quando
Priebke iniziò a lavorare prima che il permesso venisse revocato:
“Ecco, per questo non può pagare. Comunque se vogliono possono sempre
rivalersi su di lui come prevede la legge”. Intanto mentre Equitalia
chiede i soldi a chi ha vinto la causa, Priebke aspetta i 100 anni tra
una grigliata di pesce, una passeggiata e la visita di buoni amici. La
serena vecchiaia del comandante delle fosse Ardeatine.
La Stampa 13.5.13
L’avanzata degli estremisti I populisti fanno tremare l’Europa
A un anno dalle elezioni lavorano a un’alleanza delle destre
E Bruxelles prova a correre ai ripari
di Marco Zatterin
qui
La Stampa 13.5.13
La sanità e il welfare allo sfacelo fanno volare i nazionalisti inglesi
Il trionfo dell’Ukip alle amministrative spinge Cameron a sfidare apertamente Bruxelles
di Claudio Gallo
La
scalata di Farage Nigel Farage, 49 anni, leader del partito
anti-europeista e xenofobo Ukip, United Kingdom Independence Party, ha
conquistato il successo elettorale alle recenti elezioni con il 23% dei
voti
In tempi di crisi nera la gente vuole qualcuno su
cui gettare la croce senza andare troppo per il sottile. In Gran
Bretagna, culla storica dell’euro-scetticismo, l’Europa è il capro
espiatorio, molto al di là delle sue molte colpe.
L’ondata di
sentimento anti-europeo è fissata nel sondaggio di pochi giorni fa
realizzato da YouGov per il «Times»: il 46% vuole andarsene dall’Europa,
il 35 resterebbe e il 20 è indeciso. La sanità in sfacelo, i servizi in
declino (anche se spesso restano migliori dei nostri), l’erosione del
potere d’acquisto della classe media, creano una massa di
insoddisfazione che alimenta la sfiducia nei partiti tradizionali. Ne
approfittano, come nel continente, i populisti che appaiono come l’unica
alternativa al sistema.
L’anti-europeista e xenofobo Ukip è
letteralmente un grimaldello nel fianco destro dei conservatori: il
successo elettorale del partito di Farage alle recenti amministrative
inglesi sta scardinando la maggioranza. Con gli elettori in libera
uscita, la destra euroscettica conservatrice alza la testa e chiede qui
ed ora il referendum sull’Europa, promesso dal premier dopo il 2017.
Tra
l’immigrazione e la piovra di Bruxelles, il dibattito cade così su
argomenti ad alto tasso di emotività: si parla di riconquistare
sovranità perdute, di sfuggire al socialismo reale di Bruxelles, di
fermare le orde dall’Est. Si discute invece meno di economia e il
Cancelliere Osborne non si stanca di ripetere che non esiste un piano B.
Avanti con l’austerità e la politica monetaria, tra lo scetticismo del
Fondo monetario.
In questo clima di assedio, ogni giorno un nuovo
notabile tory si alza e dice che bisogna andarsene. L’ultimo è
l’impopolare ministro dell’Educazione Michel Gove che ieri ha fatto un
assist agli anti-Ue dicendo che lui al referendum voterebbe per uscire
dall’Ue. A cominciare le danze era stato Lord Lawson, ministro
dell’Economia della Thatcher regista del «Lawson Boom» degli Anni ’80,
sfracellatosi poi contro la mega-inflazione dei primi Anni ’90. «L’Ue è
irriformabile – ha scritto sul “Times” punzecchiando Cameron dobbiamo
venircene via». Gli ha fatto eco un’altro ex ministro della Thatcher,
Michel Portillo, grande campione delle cause perse.
Un gruppo di
deputati tory di secondo piano (backbenchers, dei banchi dietro)
presenterà un emendamento contrario al programma del governo perché non
comprende la data del referendum dentro-fuori l’Europa. Considerato che
il documento non avrebbe valore vincolante, Cameron subito ha fatto
spallucce, dicendo che avrebbe lasciato libertà di coscienza, ma poi si è
spaventato e ha intimato ai ministri di non votarlo. Così la prossima
settimana assisteremo al paradosso del primo partito di maggioranza che
presenta un emendamento contro il proprio governo. Questi continui
fuochi d’artificio da destra erodono l’autorevolezza del primo ministro
che rischia di finire nel tritacarne delle beghe di partito, come John
Major a metà Anni ‘90.
Cameron cerca di rintuzzare le critiche e
sostenere la sua posizione mediana contro gli opposti pessimismi: i
filo-Ue che accettano secondo lui supinamente il giogo di Bruxelles e
gli antiUe che vogliono sbattere la porta. Ai secondi, vero bersaglio
polemico, ha detto l’altro giorno: «Credo che sia possibile cambiare e
riformare l’Europa e cambiare e riformare il rapporto della Gran
Bretagna con essa».
Voce fuori del coro, l’ex ministro degli
Esteri conservatore sir Malcom Rifkind ha sostenuto che a Londra non
conviene uscire dall’Ue. Si troverebbe al fianco di Svizzera e Norvegia
che per accedere al mercato europeo devono accettare le regole di
Bruxelles senza poter dire la loro. Rifkind ha accusato gli euroscettici
del suo partito di voler abbandonare l’eredità della Thatcher che firmò
Maastricht. Un’altro paradosso di questa intricata vicenda è infatti
che le grandi scelte europeiste britanniche sono sempre avvenute durante
governi conservatori. A gettare ancora un po’ di veleno nella
discussione, il biografo della Thatcher, Charles Moore, ha detto nei
giorni scorsi che Maggie dopo il ritiro dalla politica si era convinta
che bisognasse abbandonare l’Europa. Il dibattito si è fatto così
infuocato che intervengono anche i morti.
La Stampa 13.5.13
Francia. Intervista a Dominique Reynié
«Crisi, rabbia e sfiducia Anche la democrazia adesso è a rischio»
L’analista: la politica non ha più risposte
«Per la prima volta dal 1945 non si può creare consenso con la spesa pubblica»
di Alberto Mattioli
Dominique
Reynié Professore a Sciences- Po e presidente della Fondazione per
l’Innovazione politica, è autore di «Populismes La pente fatale». Ha
recensito 63 movimenti populisti nella Ue
Professore a
Sciences-Po, presidente della Fondazione per l’innovazione politica
(area di centro-destra), Dominique Reynié è autore di «Populismes - La
pente fatale», ovvero «Populismi, la china fatale».
Professore, quanti movimenti o partiti europei possono essere definiti populisti?
«Io ne ho censiti 63 in tutti e 27 i Paesi dell’Ue, compresi quindi anche quelli che non hanno adottato l’euro».
Perché sono in crescita?
«Per
tre ragioni. La prima è il declino demografico dell’area europea. Con
effetti importanti sulla psicologia collettiva (sono Paesi per vecchi),
l’economia (chi pagherà le pensioni?) e l’immigrazione. La
ricomposizione etnoculturale dell’Europa, con massicci arrivi dai Paesi
musulmani, provoca un’infinità di reazioni: da libri della Fallaci ai
crimini di Breivik».
Seconda ragione?
«La crisi delle
finanze pubbliche europee. Per la prima volta dal 1945, non si può più
fabbricare consenso con la spesa pubblica. E infatti ovunque i governi
sono in crisi di consenso».
Terza?
«La globalizzazione
economica. I sistemi sociali europei sono sottoposti a tensioni che
generano crisi di rigetto. E appunto i movimenti populisti».
Quindi, è possibile che vincano le prossime elezioni per il Parlamento europeo?
«Più
che possibile direi probabile. C’è una crescita del voto di protesta, e
non solo nei Paesi del sud dell’Europa, e anche il massiccio aumento
dell’astensionismo. Questo è paradossale, perché il Parlamento è, alla
fine, l’unica istituzione dell’Unione votata dai cittadini».
La crescita dei populismi è un rischio per la democrazia?
«Credo
che il rischio ci sia. L’impressione è che le nostre democrazie non
abbiano gli strumenti politici per far fronte ai problemi che abbiamo
visto. La crisi di fiducia è indiscutibile».
Che fare?
«Se
in politica ci fosse una logica, questo ci dovrebbe portare a fabbricare
una vera potenza pubblica europea. Se ne esce solo così. Infatti i
populismi, tutti, di destra e di sinistra, hanno in comune il rigetto
dell’Europa. Purtroppo, però, la politica è raramente logica».
Ultima domanda: il movimento di Grillo è populista? Ed è di destra o di sinistra?
«Difficile
dirlo. Populista, di certo. Direi che combina degli elementi “di
sinistra”, come il salario di cittadinanza, con una critica alla finanza
che ha sfumature identitarie, dunque “di destra”, e perfino talvolta
antisemite. In ogni caso, perfino nel variegato panorama europeo, il M5S
è molto originale».
l’Unità 13.5.13
In Ungheria la crisi è anche un deficit di democrazia
Il
no deI Parlamento europeo alla politica autoritaria del governo
conservatore di Viktor Orbán, al potere dalla primavera del 2010
Leggi contro la stampa, limiti per i sindacati e nuova Costituzione di stampo nazionalistico
di Massimo Congiu
Si
respira aria pesante in Ungheria. In questi ultimi anni il Paese, oltre
che partecipare a una crisi globale di valori prima ancora che
economica, ha messo a nudo un deficit democratico tale da provocare più
volte la reazione delle istituzioni europee.
L’attuale governo
conservatore di Viktor Orbán, al potere dalla primavera del 2010, ha
dato luogo a una serie di iniziative che non lasciano dubbi
sull’autoritarismo del primo ministro e dei suoi più diretti
collaboratori. La legge restrittiva sulla stampa, la revisione del
Codice del Lavoro che limita i diritti dei lavoratori dipendenti e il
già angusto spazio dei sindacati, la nuova costituzione di stampo
nettamente nazionalistico e gli emendamenti alla medesima approvati a
marzo dal parlamento e contestati da Barroso e Jagland, sono espressioni
di un sistema che intende controllare più che governare. Che oggi
reagisce con collera all’approvazione, da parte del Parlamento europeo,
della proposta fatta dall’eurodeputato verde Rui Tavares e che verrà
votata a giugno, di dar luogo a una relazione sullo stato dei diritti
fondamentali in Ungheria.
Le reazioni interne alla politica del
governo non mancano anche se continuano a essere circoscritte ad
ambienti progressisti che non hanno, oggi come oggi, un seguito di
massa. Il grosso della popolazione ungherese resta lontano dalla
politica un po’ per l’abitudine alla delega, un po’ perché a prevalere
sono i problemi quotidiani, le ristrettezze economiche e la necessità di
far quadrare i conti a fine mese. Così quello del mancato rispetto dei
principi democratici non viene avvertito come un problema. «Sono molto
triste e preoccupato dice un signore incontrato per strada -. In questo
paese non ci sono più sicurezze. La democrazia? Bisogna vedere cosa si
intende per democrazia aggiunge -. Per me può voler dire una cosa, per
lei un’altra, ma è difficile parlarne quando si fa fatica a tirare
avanti».
La sensazione è che da queste parti molta gente sia
pronta ad accettare senza esitazioni un sistema dirigista pur di riavere
le garanzie di un tempo: il lavoro, lo stipendio sicuro a fine mese,
dei punti fissi. Il malcontento è diffuso, ma sulla protesta prevale
l’abitudine a esprimere il proprio malumore in modo individuale e perciò
meno visibile.
È nelle pieghe più profonde della rabbia che si
inserisce Jobbik, il partito della destra radicale, cresciuto
soprattutto nei centri abitati più poveri del paese alimentando le
tensioni con le comunità Rom, usate come capro espiatorio ai problemi
nazionali. «Jobbik è la soglia che gli ungheresi non avrebbero mai
dovuto superare – dice Lajos Parti Nagy, scrittore e oppositore del
governo – . I consensi dati a questo partito e al Fidesz dimostrano che
il paese manca di un’identità democratica». La «gestione» Orbán qualche
altro effetto l’ha provocato. Secondo il settimanale Hvg almeno mezzo
milione di ungheresi ha deciso di espatriare. Non si tratterebbe di
poveri e disoccupati provenienti dalle regioni più depresse, ma di
giovani professionisti, soprattutto medici e operai specializzati che
parlano lingue straniere e che, delusi dall’esecutivo o in ogni caso
contrari ai suoi provvedimenti, puntano verso l’Austria, la Germania e
il Regno Unito.
Per il settimanale si tratta di un’emigrazione
dovuta per lo più da motivi politici. Tutto questo mentre la
disoccupazione aumenta. Indagini recenti mostrano che attualmente almeno
500.000 ungheresi, ossia l’11,6% della popolazione in età lavorativa,
sono al-
la ricerca di un impiego. La disoccupazione giovanile si
aggirerebbe intorno al 27%. Tra coloro che hanno deciso di lasciare il
Paese vi sarebbero anche studenti universitari contrariati dalla
modifica costituzionale che impone a chi ottiene una borsa di studio
statale di lavorare per dieci anni in Ungheria. All’inizio dell’anno
giovani di varie facoltà hanno manifestato più volte per l’autonomia
delle università con iniziative, però, non condivise da studenti più
vicini alla politica del governo. «Orbán sta cercando una via ungherese
per risolvere i problemi interni» assicura uno di loro. Ha fatto breccia
il tentativo del primo ministro di presentarsi come difensore degli
interessi nazionali interpretando il disappunto di quanti ritengono che
l’Ungheria sia stata troppo a lungo sotto il «tallone straniero» prima
degli austriaci, poi dei sovietici, convinti che ora non debba cedere ai
«diktat» dell’Unione europea.
Lo scontro quindi è anche tra chi
vede l’Ue come una possibilità di sviluppo e apertura e chi la considera
l’ennesima sfruttatrice dell’Ungheria. Si va sentire la sindrome
dell’accerchiamento, de «l’Europa ce l’ha con noi». È la tesi del
complotto delle sinistra europee contro l’Ungheria, alimentata
dall’esecutivo a fronte di un’opposizione ancora troppo debole e
frammentata.
In più i socialisti (Mszp), tradizionali avversari
diretti del partito conservatore di Orbán, il Fidesz (l’Unione civica
ungherese) sono oggi in imbarazzo per via di documenti secondo i quali
avrebbero chiesto, nel 2008, l’aiuto della criminalità organizzata e dei
servizi segreti per impedire al partito di Orbán di andare al governo.
Coperte fino a poco tempo fa dal segreto di stato e ora pubblicate per
volere della Commissione parlamentare della sicurezza nazionale. «È lo
scandalo del secolo» ha affermato il portavoce di Orbán.
I
socialisti respingono le accuse e sostengono che i documenti sono stati
manipolati dai servizi segreti attualmente in mano al Fidesz. Prendono
però le distanze dalla classe socialista dirigente di allora, quando
primo ministro era Ferenc Gyurcsány, che non fa più parte dell’Mszp. «Se
anche tutta questa storia fosse vera aggiungono l’unica cosa da dire è
che sono state iniziative personali». Difficile ora dire cosa ci sia di
fondato in questa vicenda. Prevedibile è che il Fidesz farà di questa
vicenda un’arma in vista delle elezioni del prossimo anno, accusando di
«slealtà» e «immoralità» i socialisti.
La Stampa 13.5.13
L’America riconsegna pistole e fucili agli studenti
Malgrado le stragi, tolti i divieti. In Pennsylvania armi in classe
di Maurizio Molinari
Cinque
atenei della Pennsylvania hanno deciso di consentire agli studenti di
portare armi in classe, confermando la tendenza in numerosi Stati ad
abolire le restrizioni alle armi da fuoco dall’indomani della strage di
Newtown, in Connecticut, dove in dicembre nella scuola elementare «Sandy
Hook»sono state uccise 26 persone, inclusi 20 bambini. La scelta dei
college di Kutztown, Shippensburg, Edinboro, Slippery Rock e
Millersville di ammettere studenti armati nei campus segue i pareri
legali espressi dall’ufficio del governatore dello Stato e del
Dipartimento dell’Istruzione. In base a essi, impedire a chi possiede un
revolver di averlo con sè dentro il campus sarebbe una violazione del
Secondo Emendamento della Costituzione, che tutela il porto d’armi.
La
Pennsylvania è uno dei 23 Stati che lascia libertà di scelta agli
studenti sull’avere o meno con sè armi da fuoco durante le lezioni anche
se, in molti casi, la raccomandazione è di tenerle nei dormitori e non
portarle in luoghi affollati, come classi ed eventi sportivi. «Il
divieto assoluto di armi nelle Università è molto dubbio da un punto di
vista legale» spiega Nils Hagen-Frederiksen, portavoce dell’ufficio
legale del governatore, il repubblicano Tom Corbett. In realtà,
dall’indomani della strage di Newtown sono numerosi gli Stati dove sono
state allentate le restrizioni al porto d’armi sposando la tesi della
«National Rifle Association» (Nra), che riunisce i portatori d’armi,
secondo la quale più armi in circolazione corrispondono a maggiore
sicurezza e prevenzione.
A fine aprile la governatrice
dell’Arizona, Jan Brewer, ha proibito la distruzione delle armi
consegnate volontariamente alle autorità, ordinando che vengano rimesse
in commercio, mentre in Tennessee è stata approvata una legge che
garantisce la privacy dei dati di chi possiede un revolver. Anche
Arkansas, Maine, Virginia, Montana, Missouri e Kansas hanno approvato, a
partire da gennaio, delle «leggi sulla riservatezza» a garanzia
dell’anonimato di chi ha qualsiasi tipo di armi da fuoco nel timore che
il Congresso di Washington possa decretare l’obbligo di redigere elenchi
in ogni Stato.
L’Arkansas è andato oltre: il Parlamento ha
approvato otto leggi che consentono di portare le armi nelle Chiese e,
più in generale, in tutti i luoghi di culto, così come ostacolano
indagini della polizia nei «Gun Show», le fiere dove si vendono armi.
Kansas e Oklahoma non si sono limitati a varare leggi locali ma hanno
promulgato il «riconoscimento automatico» di simili norme vigenti in
altri Stati, per creare una continuità fra territori «amichevoli nei
confronti delle armi» e chi le possiede. In South Dakota gli insegnanti
sono stati autorizzati a portare armi a scuola «per difesa personale» e i
semplici cittadini possono farlo «guidando moto da neve», mentre in
North Dakota e Montana sono stati legalizzati i silenziatori «per
ridurre il rumore delle esplosioni», come auspicato dalla Nra.
Corriere 13.5.13
Spari alla festa della mamma, colpite 19 persone
qui
Corriere 13.5.13
Quel letto sull'aereo e le spese di Netanyahu
GERUSALEMME
— Valanga di critiche per le spese di Benjamin Netanyahu. In piena
austerity, il premier israeliano ha chiesto che un letto matrimoniale
per lui e la moglie (foto) venisse montato sull'aereo che il mese scorso
lo ha portato ai funerali di Margaret Thatcher. Costo: 127 mila
dollari, a cui se ne erano aggiunti altri 300 mila per il volo, durato 5
ore e mezzo. Già in febbraio la stampa aveva reso noto che ogni anno il
governo spende quasi 3 mila dollari del budget in gelati per il
premier. Sprechi che fanno scalpore, specialmente adesso che il
neoministro delle Finanze, Yair Lapid, ha proposto un piano di tagli e
aumenti delle tasse per ridurre il deficit dello Stato. Una politica
economica che combina una riduzione delle spese militari (quasi 800
milioni di euro in meno) all'innalzamento dell'1,5% (1% per le aziende)
di imposte e Iva. L'esercito teme che la sforbiciata multimilionaria
possa compromettere l'efficienza delle sue forze, impegnate sul fronte
siriano, nella lotta agli Hezbollah e in allarme per la minaccia
nucleare di Teheran. A soffrire di più per il programma Lapid sarà però
la classe media, che, delusa, ha già manifestato sabato scorso per le
strade di Tel Aviv. A protestare erano in 10 mila. Il malcontento
riguarda soprattutto gli elettori «traditi» di Lapid, che confidavano in
un piano di austerità punitivo solo nei confronti dei più ricchi.
l’Unità 13.5.13
Grammatica della libertà
40 anni fa Rodari scrisse le regole della fantasia
Il motto dell’autore era «Tutti gli usi della parola a tutti»
Un valore di liberazione che è la lezione più attuale e importante ancora oggi
di Giovanni Nucci
SCRIVEVA
TULLIO DE MAURO NEL 1974 RIGUARDO ALLA «GRAMMATICA DELLA FANTASIA»:
«COME CIMAROSA COL SUO MAESTRO DI CAPPELLA COME RILKE nelle Lettere ad
un giovane poeta, come Goethe e Leopardi in certe loro pagine,
un’artista ha messo in tavola le carte del suo gioco. E ne è nato,
elegante e geniale, un classico».
Quello che sembra suggerirci è
che questo libretto vada oltre il suo oggetto, la contingenza del suo
tempo, del suo scopo dichiarato, dei suoi primi ed immediati lettori.
Su
queste pagine potremo, in effetti, scrivere di Rodari una volta al
mese, quindi praticamente una su due, il che è abbastanza imbarazzante:
Rodari ha pubblicato circa cinquanta libri, si andrebbe avanti per quasi
quattro anni, dopo di che si potrebbe ricominciare da capo trovando
ogni volta una nuova meraviglia in quei libri, un motivo di incalzante
attualità per poterne parlarne. Diventerebbe, così, la rubrica di un
solo autore, condotta da un critico che legge e rilegge sempre gli
stessi cinquanta libri. Sarebbe, in effetti, meraviglioso: tanto da
assomigliare ad un racconto di Borges o (peggio, molto peggio!) di
Gianni Rodari.
Ora, per quanto possiamo tranquillamente
considerare i racconti e le poesie, e le filastrocche di Rodari
universali, impermeabili al tempo e alla geografia, non dovrebbe essere
altrettanto facile farlo per la Grammatica della fantasia che però
(com’è, come non è) uscita giusto quarant’anni fa, sta lì imperterrita e
ancora oggi ispira e aiuta gli scrittori e i poeti per ragazzi, così
come gli accademici, i critici, i giornalisti, gli insegnanti, i librai,
i promotori della lettura, i bibliotecari, gli editori, gli animatori, i
maestri e i genitori. Già loro (si potrebbe dire) fanno una buona fetta
della popolazione utile ed intellettualmente attiva, ma (si potrebbe
obiettare) cosa dovrebbe interessare questo libro ad un sottosegretario,
al capitano di un bastimento, ad un vigile urbano (a parte l’evidente
motivo d’essere essi stessi molto probabilmente protagonisti d’una buona
cifra di altri libri di Rodari)? Per rispondere prendiamo volentieri in
prestito delle righe a riguardo di Marzia Corraini: «Mi limito, ed è
assolutamente sufficiente, a osservare l’importanza di questo titolo
(...). C’è una grammatica della fantasia. Ci sono regole o semplici
modalità e stimoli per indicare una via. C’è la fantasia e la grande
capacità di inventare partendo dal noto. E proprio qui sta la grandezza
di Rodari, nel fa vedere come “usare la testa” liberamente per procedere
verso la conoscenza attraverso piccoli progressi, prima sulla strada
tracciata, poi tresgredendo, mettendo assieme opposti e lontani,
immaginando sintesi e soluzioni non previste. Rodari certo, e con lui
Munari e anche Alighiero Boetti, Toti Scialoja. Geniali autori e
pensatori che ci hanno insegnato (...) che esiste anche una modalità da
proporre, da segnalare, da indicare perché ognuno di noi possa
utilizzare con originalità la propria fantasia o meglio il proprio
“pensiero”».
IL VALORE ASSOLUTO DELL’ARTE
C’è, per tornare a
De Mauro, un valore assoluto dell’arte, che non è detto siamo capaci di
cogliere, e che va al di là del valore che presupponiamo di poterle
attribuire. A volte quel valore si trasferisce alle opere che ne
parlano, dell’arte. Volendolo cercare di esplicitarlo relativamente alla
Grammatica della Fantasia di Rodari, citiamo ciò che ne dice lui
stesso: «Io spero che il libretto possa essere ugualmente utile a chi
crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto
nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa
quale valore di liberazione possano avere la parole. “Tutti gli usi
della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono
democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia
schiavo». Ed ecco che l’attualità del suo pensiero, del Rodari filosofo
che in questo libro si esprime al meglio, viene subito fuori: non
dobbiamo scordarci, oggi più che mai, il valore di liberazione che può
avere la parola: proprio quando la libertà sulle parole sembrerebbe
essere assoluta, e le sta invece sempre di più impoverendo di potere e
di importanza. Perché se le parole sono strumento di liberazione,
occorre salvaguardarle con la massima attenzione. «Tutte le parole a
tutti quanti». Quindi.
La dimensione segreta dello scrittore rivelata da un libro:
Marcello
Argilli, «Gianni Rodari. Una biografia», Einaudi, Torino 1990. Rodari è
lo scrittore per bambini più noto nel mondo, l’unico che tutti gli
alunni italiani conoscono, e tutti gli insegnanti nominano. Eppure
dell’uomo Rodari, della sua personalità e della sua vita privata, del
suo impegno si sa pochissimo. In questo libro, che per la prima volta ne
tratteggia la psicologia, le abitudini, gli interessi culturali, emerge
il Rodari bambino e adolescente, il giovane provinciale che si impegna
nella politica e nel giornalismo, per diventare, appena trentenne, il
poeta e lo scrittore che rinnova la nostra letteratura infantile. A
questo filo biografico si acompagna una rivisitazione della sua opera
per ragazzi, e il racconto, pur senza pretese sistematiche, illumina
ampie zone della biografia dello scrittore, con una attenzione
particolare alla novità dei suoi libri, alle difficoltà che questi
inizialmente incontrarono, alla loro immensa fortuna e all’evoluzione
poetica rodariana. Questo appassionante lavoro di recupero viene svolto
da un amico trentennale di Rodari, Marcello Argilli, che con lui ha
lavorato, avendo in comune le stesse fondamentali matrici culturali.
L’autore non solo ha fornito di Rodari una personale testimonianza
diretta, ma ha raccolto un’importante quantità di documenti, di lettere,
di preziosi testi inediti.
Corriere 13.5.13
Eliade sedotto dall’India erotica
di Giorgio Montefoschi
Nel
1929, ad appena ventidue anni, Mircea Eliade, lo storico delle
religioni rumeno, sbarca a Ceylon dalla motonave Hakone Maru che ha
preso ad Alessandria d'Egitto e, dopo una settimana di stordimento,
dovuta ai colori, ai profumi, al rigoglio della vegetazione, tocca la
punta della penisola indiana e di lì — racconta in uno dei tre brani che
compongono Erotismo mistico indiano (Castelvecchi, pagine 90, 9) — si
reca in treno a Madurai, nel Tamil Nadu. Chi conosce i lunghi corridoi
del grande tempio di Madurai in cui dimorano gli elefanti sacri, le sue
aule fitte di colonne, i bui penetrali in fondo ai quali una fiamma
illumina le statue del pantheon induista e i bramini seminudi che
compiono il sacrificio e accolgono le offerte, sa qual è l'emozione
ineffabile che comunica quel tempio famosissimo.
È una emozione
non dissimile da quella che si prova negli altri sublimi templi
dravidici dell'India del Sud (Kanchipuram, forse, coi suoi misteriosi
suoni di tube il più bello); non dissimile da quella provocata dalla
morbida campagna; dalle sue notti tiepide; dalla luce; dai palazzi
sontuosi o diroccati dei maharaja; dai mercati brulicanti; dalla
misteriosa «idea dell'India» che non ha un luogo inscindibile dagli
altri, una parola definitiva.
Eliade rimane in India tre anni. Sa
pochissimo inglese e niente di hindi e di sanscrito. Guidato da
Dasgupta, uno storico della filosofia indiana incontrato nella
biblioteca della Società Teosofica di Adyar, impara sia l'hindi che il
sanscrito, studiando dodici ore, come minimo, al giorno. Intanto, sempre
consigliato e guidato da Dasgupta, è arrivato a Calcutta. Dorme nella
pensione — che va descritta: un piano, grandi stanze affacciate
sull'ingresso-salotto con vecchi mobili e pianoforte, cortile, giardino
tropicale — della signora Perri s, un'anglo-indiana. Costei ha una
figlia attraente, Norinne, diciassettenne, che divide la sua camera con
una ballerina del Globe Theater. L'amicizia è presto fatta. E spalanca
notti assai intriganti, confuse, che spaziano da case incredibilmente
ricche in cui si balla e si beve champagne ghiacciato di fronte a
domestici coi piedi nudi, a più estenuanti ancora fumerie d'oppio.
Questo, naturalmente, non impedisce al giovane Eliade di seguire
all'università le lezioni di Dasgupta, e di leggere e tradurre, stare
sui libri dall'alba al crepuscolo, sotto le pale dei ventilatori, la
camicia zuppa di sudore. Né, gli impedisce, di muoversi, fare viaggi: a
Jaipur, per esempio; o Benares (il momento indimenticabile in cui si
approda al primo ghat sul Gange, l'Asi-Ghat, confinante con i campi); o
ai duemila metri di Darjeeling da dove, nelle giornate limpide, si
vedono i ghiacci eterni della catena himalayana.
Grandi anni;
beati. E grandi incontri. Come quello con Giuseppe Tucci, il famoso
orientalista, impegnato all'epoca nella ritraduzione in sanscrito di
alcuni testi di logica buddhista di cui si erano smarriti gli originali,
e di cui non si conservava che la traduzione cinese o tibetana; o
quello con Tagore, nella sua università di Shantiniketan:con tutto il
cerimoniale delle lezioni all'aria aperta e delle apparizioni del poeta
mistico sempre impegnato a creare o a meditare, e quell'atmosfera per la
quale ogni oggetto, ogni fiore, ogni sprazzo di luce era una epifania; o
quello con l'esile maharaja di Calcutta, quasi povero per aver donato
la maggior parte delle sue ricchezze in beneficenza.
L'incontro
con il tantrismo («così scandalosamente trascurato tanto dagli
intellettuali indiani che dagli studiosi occidentali») è la scoperta che
suggella la prima permanenza indiana di Eliade. La scoperta di un'India
non solo ascetica o idealistica, bensì custode di una tradizione che è
dalla parte della vita e del corpo (non più considerate come illusione e
sorgente di sofferenza), e che anzi esalta «l'esistenza incarnata come
l'unica possibilità di conquistare in questo mondo la libertà assoluta».
Nuda
— dicono i testi tantrici — la donna incarna la natura e il Mistero
cosmico. L'unione sessuale è il rituale per mezzo del quale la coppia
umana si trasforma in coppia divina.
Corriere 13.5.13
Responsabilità, il segreto della vita
Reale: «L'uomo è creato da Dio». Veronesi: «Ciascuno dispone di se stesso»
di Armando Torno
Lo
Stato non può togliere all'individuo la libertà di morire secondo
natura e non può imporre il prolungamento artificiale della vita. Né può
levargli in modo violento la libertà: questo sarebbe pensabile soltanto
in un regime assolutistico. Non soltanto simili imposizioni sono da
considerare antiliberali, ma anche e soprattutto antiumane.
Abbiamo
cercato di riassumere un concetto che Giovanni Reale e Umberto Veronesi
condividono nel libro che hanno scritto insieme e che uscirà mercoledì,
Responsabilità della vita. Nove densi capitoli e un'appendice dove il
filosofo e lo scienziato discutono tra l'altro del significato di vita e
morte, di quel grande mistero che continua a essere la salute, del
medico o delle cure («curare l'anima per curare il corpo»), del caso
Welby o di Eluana Englaro. Con l'importanza morale e sociale che hanno
avuto e continuano ad avere.
Potremmo aggiungere che il pensiero
condiviso da Reale e Veronesi collima con quanto sosteneva ne Il sistema
tecnico (tradotto da Jaca Book) Jacques Ellul. Lo studioso francese
metteva in evidenza quel che governa alcuni momenti topici della vita:
«Non è praticamente mai il paziente a essere chiamato a decidere. È il
tecnico. La Tecnica aumenta la libertà del tecnico, ossia il suo potere,
la sua potenza. Ed è a questa crescita di potenza che viene sempre
ricondotta la sedicente libertà dovuta alla Tecnica... Essa permette di
modificare, di deviare, di respingere il processo naturale (che ad
esempio porterebbe alla morte), è evidente che la decisione dell'uomo si
sostituisce alla "decisione" della "Natura". Ma questa decisione non è
quella dell'uomo interessato dal fenomeno, è quella dell'uomo detentore
della Tecnica. Potere dell'uomo sull'uomo». Il prolungamento
artificiale, se volessimo arrivare a una prima conclusione, significa
negare all'uomo uno dei momenti più sacri della vita, giacché la morte è
l'esatto contrario della nascita.
Il libro è una riflessione
senza infingimenti sul vivere e sul morire, sul significato delle cure,
sul ruolo che ha la tecnica in questa materia che è parte dell'uomo. Al
di là delle considerazioni degli autori e di quelle di Ellul, va
aggiunto che viviamo in un tempo in cui i confini della vita e della
morte si sono spostati rispetto al passato. Reale, per esempio, dopo
aver ribadito che «la tecnica non va divinizzata», chiama «caco-tanasia»
ciò che «lo Stato minaccia di imporre», ovvero un accanimento
terapeutico sui moribondi che non può certo recare una fine «felice»: la
considera soltanto un prolungamento dell'agonia. E in tal caso la
tecnologia, anziché offrire una porzione di paradiso sulla terra,
realizza l'inferno. Veronesi in questo «confronto tra un credente e un
non credente» sottolinea che la scienza si differenzia essenzialmente
dalla tecnica. Quest'ultima è «semplicemente uno strumento della
scienza» e «risponde solo al mercato»; in altre parole, la scienza «è un
sistema di pensiero», mentre «la tecnologia mira a un obiettivo di
applicabilità, e non si pone problemi etici». Ricorre poi all'efficace
distinzione di Umberto Galimberti: «La scienza mira a conoscere tutto
ciò che si può conoscere per migliorare la condizione umana, mentre la
tecnica mira a fare tutto ciò che si può fare in un orizzonte privo di
finalità».
È un confronto serrato, continuo. Il medico e il
filosofo un tempo erano la medesima persona, in questo libro ritornano
in mille occasioni a esserlo. Confessa Veronesi: «Ho imparato più in
cinquant'anni di professione che il medico dovrebbe pensare più spesso
che il suo compito non è soltanto quello di curare una malattia, ma
quello di "comporre le dissonanze" e riportare ordine nel caos che essa
crea a livello individuale». Da parte sua Reale ricorda che l'uomo
moderno ha perso quelli che nella tradizione erano considerati, in modo
emblematico, i momenti sacrali: il matrimonio, la nascita, la morte. Lo
smarrimento del senso della morte, il non riconoscerne la natura, è
l'uguale e contraria confusione che si è diffusa sul senso della vita.
C'è
comunque, e non poteva non esserci, un disaccordo tra i due: riguarda
l'eutanasia. Per Reale nel momento finale l'uomo va aiutato a lenire i
dolori del trapasso ma non accetta che si interrompa la vita con
strumenti o con farmaci in modo aggressivo e violento. Ciò non toglie
che chi desiderasse accettare gli accorgimenti che la tecnologia è
capace di mettere in atto, deve essere libero di farlo; ma allo stesso
modo sia libero di respingerli colui che li rifiuta. Reale è un
cattolico convinto; ribadisce: la natura l'ha creata Dio, la tecnologia
l'uomo. Veronesi va oltre e sostiene che ogni individuo ha diritto di
disporre della propria vita. Scrive, tra l'altro, che se un uomo «non
vuole andare oltre in un dolore insopportabile, la medicina deve trovare
il coraggio di anticipare la morte, scelta e agognata, e nessuno
dovrebbe ergersi al ruolo di guardiano di una vita torturata e rifiutata
come un incubo peggiore della morte». In margine è il caso di
evidenziare che il termine «eutanasia» ricopre ormai un'area semantica
molto ampia. Occorre distinguere i vari significati che include. Lo
staccare la spina, per Reale, non rientra in essa: è semplicemente non
essere vittima di un inferno che non è la natura.
Sia Reale che
Veronesi invitano a meditare a fondo su un argomento che potrebbe
portare, senza particolari problemi, a un abbraccio tra chi crede e chi
no.
Il libro di Giovanni Reale (uno dei nostri
maggiori studiosi di filosofia greca) e Umberto Veronesi (oncologo di
fama mondiale già ministro della Sanità), «Responsabilità della vita. Un
confronto fra un credente e un non credente», (Bompiani, Collana Grandi
PasSaggi, pp. 272, 13), sarà disponibile in libreria da mercoledì 15
maggio.
Questo colloquio sarà presentato al Salone del libro di
Torino (Auditorium), sabato 18 maggio ore 11. Interverrà all'incontro il
direttore del «Corriere della Sera», Ferruccio de Bortoli.
Corriere 13.5.13
Non bisogna considerare scienza e tecnica come idoli
di Giovanni Reale
I
l problema oggi più urgente e più difficile da risolvere per i medici è
quello di non restare vittime del paradigma scientistico-tecnicistico,
ossia non considerare scienza e tecnica come idoli.
In realtà, non
pochi, invece, ne restano vittime, e non solo medici, ma anche uomini
comuni e altresì di alto livello, e poi alcuni degli stessi prelati.
Ho
sentito infatti dire, da molte parti e anche da religiosi, che nei casi
dei malati — e qui parliamo soprattutto di quelli terminali — gli unici
a decidere dovrebbero essere i medici, in quanto scienziati, e non gli
interessati e i familiari.
E su questo punto potrei essere anch'io
d'accordo, ma solo se il medico agisse non solo come tecnico e
scienziato, ma applicasse il suo potere di scienziato e di tecnico con
saggezza, ossia usasse la tecnica come «mezzo» e non come «fine». (...).
Platone sviluppa il concetto dei rapporti fra «medico» e «sofferenze»
in modo elevato: per diventare un buon medico e curare le sofferenze
degli altri, un medico deve, prima, aver sofferto lui stesso quelle
sofferenze.
Corriere 13.5.13
La giusta misura terapeutica tra perizia e conoscenza
di Umberto Veronesi
C
i sono malattie che provocano un dolore terribile, ma è un male che si
può dominare e annullare con le medicine. Solo il dialogo risolve invece
le sofferenze. Bisogna aver voglia di parlare e bisogna saper parlare.
Il messaggio che io cerco di infondere nei miei collaboratori è di
esplorare chi ci sta dolorosamente di fronte, prima di mettere in atto
qualsiasi terapia (...).
Esiste un «fil rouge» nella storia della
figura del medico, che conduce a una missione, più che a una
professione, in cui l'attenzione e l'amore per l'uomo e per l'umanità
sono elementi imprescindibili. Dico sempre ai giovani che sono incerti
se intraprendere gli studi di medicina che devono prima di tutto
guardare dentro se stessi e capire se hanno una propensione alla
solidarietà, un forte istinto di protezione dei più deboli e un certo
spirito di sacrificio (...)
Non c'è dunque distinzione, a mio
parere, fra «arte medica» e «scienza medica», ma esiste piuttosto una
«giusta misura» che consiste nella compenetrazione armoniosa fra questi
due aspetti, senza che uno prevalga eccessivamente sull'altro.
Repubblica 13.5.13
Il confessore diventa terapeuta
I colloqui con i sacerdoti cresciuti fino al 20% prima di Papa Francesco
L’Italia torna a confessarsi in Chiesa come dal terapeuta
Le nuove confessioni degli italiani
di Paolo Rodari
PUNTO
di rottura. O nuovo inizio. Da un anno a questa parte le chiese
italiane, in testa i santuari mariani, registrano un fenomeno che pare
senza sosta: il ritorno della confessione. Quaranta- cinquantenni,
tornano a inginocchiarsi davanti a un sacerdote.
Punto di rottura.
O nuovo inizio. Da un anno a questa parte le chiese italiane, in testa i
santuari mariani, registrano un fenomeno che pare senza sosta: il
ritorno della confessione. Uomini, donne, soprattutto
quaranta-cinquantenni, tornano a inginocchiarsi davanti a un sacerdote
che, come scrisse nel XIII secolo il chierico inglese Tommaso di
Chobham, «siede nel confessionale come Dio e non come uomo». Tornano a
chiedere perdono perché — spiega il padre gesuita Francesco Occhetta —
vedono soltanto in questo sacramento l’appiglio per rompere col passato,
per ricominciare daccapo, fare nuova la propria esistenza». Non si
tratta, dunque, di mera espiazione delle colpe. Anche, ma non solo. Né
di trovare «una nuova etica» dentro il vivere quotidiano. Si tratta,
soprattutto, «di cambiare cammino una volta per tutte». Spesso, dice
Occhetta, «i peccati sono dolori che macerano nel profondo. Aborti mai
confessati, ad esempio. Il sacramento permette di ricominciare,
nonostante il dolore permanga. Ma i peccati sono diversi. E oggi, come
secoli fa, è sempre il decalogo a essere disatteso». Dice monsignor
Gianfranco Girotti, per anni numero due della Penitenzieria apostolica:
«Al di là delle colpe gravi del passato — fra questi anche i tradimenti,
le menzogne pronunciate a danno di altri, i torti comminati con
l’intento di ferire e fare male — i fedeli cadono principalmente sui
sette vizi capitali. È così da sempre: superbia, avarizia, lussuria (qui
c’è la dedizione al piacere e al sesso), l’invidia, la gola, l’ira, e
l’accidia (che non è depressione, quanto lasciarsi andare al torpore
dell’animo fino a provare fastidio per le cose spirituali) albergano
nella maggior parte delle confessioni di oggi».
Ancora prima
dell’elezione al soglio di Pietro di José Mario Bergoglio, le chiese
italiane hanno registrato un aumento di persone che chiedono di
confessarsi attestabile circa intorno al venti per cento. Numeri certi
non esistono, perché non esistono registri in merito nelle diocesi. Lo
scorso febbraio, però, Civiltà Cattolica — la storica rivista italiana
dei gesuiti — chiudeva un numero con un articolo intitolato proprio “Il
ritorno della confessione”. Lo spunto era l’aumento dei penitenti
riscontrato nelle principali basiliche romane, e insieme nei santuari
italiani. Un aumento circoscrivibile all’ultimo anno, visibile a occhio
nudo semplicemente contando le ore che i confessori hanno dovuto
trascorrere chiusi all’interno dei confessionali. «La crisi economica è
anzitutto crisi di valori», spiegano i gesuiti della Chiesa del Gesù, in
centro a Roma. «Viviamo in una società in cui manca la figura del
padre. Negli ultimi mesi la sofferenza causata da questo vuoto si è
acuita inesorabilmente. E i nostri confessionali sono tornati a
riempirsi. Dietro questo fenomeno c’è una nuova domanda di spiritualità.
La domanda preme, finché rompe gli argini e implora risposte».
Point break, lo chiamano i surfisti. «Il punto di rottura di un’anima alla ricerca di Dio», la definisce padre Occhetta.
Dice
san Gregorio di Narek, poeta, monaco, teologo e filosofo mistico armeno
che «anche nella più oscura cisterna, brucia sempre una piccola fiamma.
Voluta da Dio». È questa fiamma che spinge a uscire di casa e a entrare
in un confessionale. Ma per dire cosa? Quali i peccati ricorrenti? La
risposta non è semplice. Qualche giorno fa Papa Francesco ha ricordato
che il confessionale «non è una lavanderia». Molti, evidentemente, la
usano così. Un luogo in cui lavare le proprie colpe indicando uno dopo
l’altro quali dei dieci comandamenti sono stati disattesi. «Tante volte —
dice Bergoglio — pensiamo che andare a confessarci è come andare in
tintoria per pulire la sporcizia sui nostri vestiti. Ma Gesù nel
confessionale non è una tintoria. Confessarsi è un incontro con Gesù, ma
con questo Gesù che ci aspetta, ma ci aspetta come siamo».
Non
per tutti confessarsi è smacchiare i vestiti sporchi in una tintoria a
gettoni. Esiste anche una tendenza opposta: la confessione come se fosse
una seduta di analisi dallo psicologo.
Scrisse anni fa in merito
più pagine monsignor Mario Canciani, ai tempi confessore di Giulio
Andreotti, spiegando che i penitenti parlano soprattutto di «stress,
impazienza e depressione». Dice: «Quasi ne chiedono scusa. Senza
rendersi conto che non sono peccati».
Ancora Girotti spiega che
«sempre più il confessionale viene usato come luogo in cui parlare di
sé, dei propri problemi, in effetti un po’ come se si fosse a una seduta
di analisi. Ma al di là di questi casi, e ai casi di coloro che
confessano i peccati che potremmo impropriamente definire “classici”,
noto che si offende Dio anche per altre vie, ad esempio con azioni di
inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti
scientifici moralmente discutibili. Per non dire poi della sfera
dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuovi peccati come la
frode fiscale, l’evasione, la corruzione». Ma quel è il peccato più
confessato? Girotti non ha dubbi: «Sempre lui, il peccato contro il
sesto comandamento: non commettere atti impuri. La sfera sessuale sembra
essere quella più difficile da domare, o forse rode la coscienza più di
altre offese». Lo disse ancora Canciani: «Al di là di tutto, il peccato
più disatteso resta quello relativo al sesto comandamento. È un peccato
che si riferisce alla vita privata della gente. In questo campo,
purtroppo, si nota un distacco tra ciò che insegna la Chiesa e il
disordine nel quale vivono tante persone. Mi riferisco quindi non solo
alla sfera sessuale, ma anche ai divorziati o a situazioni familiari
complesse. La Chiesa deve però accogliere tutti con amore».
Recentemente
il Centro Studi sulle Nuove Religioni ha pubblicato un’indagine sul
sacramento della penitenza a seguito dell’elezione di Papa Francesco.
L’insistenza del Papa sulla parola «misericordia» ha spinto molti a
tornare a confessarsi, in scia al trend precedente all’elezione. Fra
questi, dice l’indagine, tante coppie per la Chiesa «irregolari» che
spinte dal “fuoco” di Bergoglio si sono decise per un nuovo cammino.
Aumentano
i penitenti, certo, ma diminuiscono i confessori. La crisi di vocazioni
sacerdotali rischia sempre più di far sì che la Chiesa non sappia
rispondere alla domanda. Così, in alcune diocesi, c’è chi abbozza nuove
soluzioni. Una di queste, molto discussa ma prevista dal canone 961 del
codice di diritto canonico, è l’assoluzione a più penitenti insieme
senza la previa confessione individuale. Il codice dice che essa non può
essere impartita se non vi sia imminente pericolo di morte e al
sacerdote o ai sacerdoti non basti il tempo per ascoltare le confessioni
dei singoli penitenti. Insieme, può essere concessa se «vi sia grave
necessità, ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si ha a
disposizione abbondanza di confessori per ascoltare, come
si
conviene, le confessioni dei singoli entro un tempo conveniente». La
pratica comunitaria nacque in Belgio, nel 1947-48, in una comune
parrocchia di operai. Durante la messa i fedeli, su invito del
sacerdote, riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano
collettivamente assolti. Poi il Concilio Vaticano II ricalibrò la
spinta, ribadendo che la confessione auricolare resta l’unica via di
remissione dei peccati gravi. Ma intanto il ritorno alla confessione
individuale da parte di molti fedeli lascia in secondo piano altre
dispute. Anche perché, come scrive sempre Civiltà Cattolica, coloro che
tornano a confessarsi lo fanno dopo aver dialogato «con la propria
coscienza». Dice la rivista: «Si assiste a un ritorno silenzioso ma
significativo alla confessione da parte della generazione dei
quarantenni e cinquantenni, che ridanno valore al sacramento, a volte
dopo anni di lontananza. Coloro che ritornano a confessarsi dichiarano
di averlo fatto dopo aver riletto il Vangelo, dialogato con la voce
della propria coscienza, incontrato testimoni credenti e credibili».
Repubblica 13.5.13
Il pastore Paolo Ricca è uno dei più importanti intellettuali evangelici: “Ci si confida fra credenti”
“Ma per noi valdesi il perdono non ha bisogno di mediazioni”
di Vera Schiavazzi
«La
sua autorità, la mia autorità come cristiano non è né maggiore né
minore di quella del Papa: possiamo annunciare a un fratello o a una
sorella che Dio lo ha perdonato dei suoi peccati, perché è questa la
rivoluzionaria novità del Vangelo. Ma non possiamo dire: ego te
absolvo…». Paolo Ricca, pastore valdese, docente, teologo, uno dei più
importanti intellettuali evangelici italiani, riassume così il confine
sottile che — da Lutero in poi, anche se il padre della Riforma avrebbe
voluto conservare la confessione — separa i cattolici dai protestanti.
Gli uni pronti a confessarsi e a “lavare” così ogni peccato, come
lamenta Papa Francesco, gli altri dediti a parlare “direttamente” con
Dio, in buona compagnia di credenti di altre fedi, come gli ebrei.
Professore, che cosa significa parlare direttamente con Dio?
«Vuol
dire che per i protestanti non c’è bisogno di altre mediazioni umane.
Nulla di straordinario: è quello che facciamo ogni volta che diciamo il
Padre Nostro, una preghiera bellissima e breve, che contiene già tutto
come ha raccomandato Gesù. Questa è la novità cristiana, non tanto il
fatto che Dio perdoni, il che è condiviso da tutte le grandi religioni,
quanto quello di perdonarsi gli uni con gli altri».
Io perdono te e tu perdoni me, e tutti e due siamo assolti?
«In
un certo senso è così, come nella parabola evangelica del re che
rimette a un servo il suo enorme debito. Quando però questo servo
dimentica il beneficio che ha ricevuto e esige il suo piccolo credito da
un altro poveraccio, allora il suo debito iniziale gli viene rimesso
sulle spalle: essere perdonati è collegato alla capacità di perdonare i
nostri simili. È il grande scandalo del messaggio cristiano».
Proviamo a calare questo principio nella vita moderna. Che cosa dovrebbe fare chi sa di essere in torto?
«Può
meditare, rivolgersi a Dio nella forma in cui lo conosciamo, e cioè
attraverso la Scrittura, può pregare, ma può anche parlare a un fratello
o a una sorella. Dio ci ha già perdonati. Facciamo un esempio: un uomo
tradisce la moglie, poi si rende conto di avere agito male. Può
ritrovare la pace leggendo la Bibbia, pregando, il che non è fatto
necessariamente di parole ma della consapevolezza di essere in ogni
momento davanti a Dio, ma può anche confidarsi a un altro credente, che
potrà annunciargli il perdono. La cosa migliore sarebbe se a perdonarlo
fosse la moglie stessa».
Questo modo di chiedere perdono
presuppone una conoscenza della Bibbia che pochi posseggono. Non è più
rassicurante rivolgersi a un sacerdote?
«Forse. Hegel diceva che
la nostra preghiera è leggere il giornale, perché riconosceva nella
storia la presenza di Dio. Lutero, poi, era contrario a abolire la
confessione, anche se voleva cancellarne il valore di sacramento:
sosteneva che non c’è nulla da perdere nel conservare quel momento di
conforto tra il credente e un’altra persona, spesso il pastore, che
anche nelle nostre chiese svolge decine di dialoghi, ascolta e alla fine
prega insieme al fratello o alla sorella. Ma storicamente ha prevalso
il desiderio di differenziarsi dal cattolicesimo, così come nell’abolire
il dialogo tra chi predica e l’assemblea. Concordo con lui: è stata una
rinuncia».
C’è qualcosa che non può essere perdonato?
«No.
Quando ero un ragazzo, dopo la guerra, ho ascoltato il pastore Martin
Niemöller, a lungo prigioniero nei lager predicare a Torre Pellice. Ci
disse che Gesù era morto “anche per Hitler”, proprio lui che era stato
fatto rinchiudere dal Fuhrer per un suo sermone. Ancora oggi quella
frase mi fa rabbrividire, ma ne riconosco la profonda verità».
Repubblica 13.5.13
Il silenzio di Don Lisander
La poesia di Manzoni uccisa dalle nevrosi
Fobie, ossessioni, panico. Paolo D’Angelo spiega in un libro la parabola creativa che seguì l’uscita dei “Promessi sposi”
di Francesco Erbani
Fra
i tanti quesiti che ronzano intorno alla storia della letteratura, uno
riguarda Alessandro Manzoni: perché dopo I promessi sposi non scrisse
più niente — niente di creativo, s’intende? Che cosa accadde nei decenni
successivi al 1827, quando lo scrittore rielaborò la prima stesura del
romanzo Fermo e Lucia (composto fra il 1821 e il 1823), lo risciacquò in
Arno e gli diede il titolo che lo avrebbe reso leggendario nella
letteratura di tutti i tempi? Fino al 1840 proseguirono le correzioni al
romanzo, poi verranno la Storia della Colonna Infame, gli scritti sulla
lingua, quelli di erudizione storica e filosofica. Ma nulla dettato
dall’invenzione — narrativa, poetica o drammaturgica che fosse. Il suo
stato di salute mentale, da sempre precario, peggiorò. Potrebbe bastare
questo a spiegare un silenzio durato fino alla morte, nel 1873, una
morte che colse Manzoni molto anziano, essendo lui nato nel 1785.
Le
nevrosi di Manzoni è il libro pubblicato dal Mulino che Paolo D’Angelo,
professore di estetica a Roma Tre, ha dedicato alla ricostruzione dei
motivi di quello che appare un vero rifiuto della letteratura,
un’amputazione volontaria della propria facoltà di scrittura che si
spalanca come un buco nel cuore dell’Ottocento e che fa il paio — con
molte differenze, però — con il silenzio di Gioacchino Rossini, il
quale, composto il Guglielmo Tell nel 1828 a trentasei anni, non
realizzerà più nulla per il teatro fino alla sua morte, avvenuta cinque
anni prima di Manzoni, nel 1868.
Le nevrosi dicono molto
dell’esaurirsi di una parabola creativa. Ma non tutto. Spiega D’Angelo:
«Il rifiuto manzoniano della letteratura non resta una reazione
inconsapevole e si traduce in una compiuta teoria dell’arte, o meglio
della negazione dell’arte». E in effetti il lavoro di D’Angelo si snoda
dalle fobie di Manzoni, ma poi le incardina sui tormenti che lo
scrittore vive intorno al nodo dei rapporti tra letteratura, storia,
verità e finzione. E, lasciando poi Manzoni al suo tempo, l’analisi
arriva fino a lambire il dibattito attuale sulla non-fiction novel, il
romanzo d’inchiesta, il romanzo che bandisce i materiali
dell’immaginazione, vantando un’unica musa: la realtà. Sfiorando,
infine, le pretese inverse di matrice postmoderna di limitare la
storiografia al dato narrativo, più che documentario. Il silenzio di
Manzoni, senza instaurare improbabili analogie o schieramenti
antelitteram, richiama in qualche modo un precedente problematico di
queste tensioni, una specie di premonizione culturale.
Ma andiamo
per ordine. Manzoni smette con la letteratura d’invenzione, nonostante
questa gli abbia assicurato un successo con pochi paragoni. Don Lisander
era affetto da agorafobia: nel 1810 mentre a Parigi assisteva insieme
alla prima moglie Enrichetta Blondel, in mezzo a una folla
rumoreggiante, ai festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con
Maria Luisa d’Austria, fu colto da un attacco di vertigini. Anche la sua
celebre conversione al cattolicesimo viene descritta simultaneamente a
una crisi di panico. Quando camminava da solo c’era il rischio che lo
cogliessero convulsioni, cui seguiva la perdita dei sensi. È lui stesso,
a quasi ottant’anni, a raccontarsi «afflitto da balbettamento organico e
nervoso», una patologia «che non gli permette di pronunziare due parole
in pubblico» e che «a partire dall’età di trent’anni», non gli consente
«di uscire se non accompagnato». Il quadro clinico, stilato da un
solerte psichiatra lombrosiano, è ricco di claustrofobie, ipsofobie,
acrofobie, ma anche ascetismi, allucinazioni, iperestesie, irascibilità.
Si tira in ballo il nonno Cesare Beccaria, anche lui psicopatico. E che
dire del fatto che lo scrittore fosse figlio illegittimo di Giovanni
Verri, che suo padre legale, il conte Pietro Manzoni, fosse una figura
mediocre, presto abbandonato dalla moglie Giulia che si trasferì a
Parigi insieme a Carlo Imbonati?
Esiste un punto di contatto,
spiega D’Angelo, fra l’agorafobia dell’uomo Manzoni, la sua paura dello
spazio aperto, il suo bisogno di appoggio, e l’avversione che lo
scrittore Manzoni manifesta per lo spazio aperto della creazione: «Tutto
quello che si origina da una libera invenzione, che non può vantare un
riscontro esatto nella realtà storica, gli pare immotivato, pericoloso,
appunto un abisso nel quale si rischia di cadere».
Manzoni, più di
molti altri suoi colleghi, è un tenace produttore di riflessioni sul
fare letteratura. Queste accompagnano passo passo le tragedie e il
romanzo. Egli sente la necessità di spiegare perché compie certe scelte
artistiche o linguistiche. E in tanti scritti manifesta la convinzione
che, spiega D’Angelo, «inventare è immorale quanto dire il falso». E che
occorre trovare per la letteratura un sostegno: e il sostegno che regga
l’incedere dell’autore nello spazio illimitato della creazione è la
storia. «L’immaginazione è troppo autonoma e irriducibile perché Manzoni
non l’avverta come un pericolo, anche nel campo che le sembra più
proprio, quello dell’arte e della poesia».
Fino a un certo punto
il rapporto fra storia e invenzione regge in equilibrio. D’Angelo segue
il distendersi nervoso delle analisi di Manzoni dalla prefazione al
Conte di Carmagnola (1820) arrivando a Del romanzo storico (pubblicato
nel 1850, ma probabilmente elaborato già nel 1831). Di questo rapporto,
inoltre, è intessuta interamente l’architettura dei Promessi sposi
(Renzo, Lucia, Don Abbondio, Don Rodrigo, personaggi d’invenzione, la
carestia, la peste, il cardinale Borromeo, vicende e persone reali). La
storia è il vero fondamento della poesia. L’invenzione serve a
integrarla, a fornire una visione dall’interno dei fatti narrati, perché
racconta intenzioni e sentimenti che la storia non può documentare. Il
romanzo è un altro mezzo per raggiungere la verità storica, persino più
efficace della storiografia. Ma l’equilibrio dal quale germinano le
tragedie e soprattutto il capolavoro, scrive D’Angelo, dura una breve
stagione. Poi si rompe. È lo stesso Manzoni a rendersene conto.
Le
prove che la spinta a fare storia e anche invenzione sia esaurita
D’Angelo le rintraccia in scritti teorici e in testimonianze dei
contemporanei. La Storia della Colonna Infame, la sua faticosa stesura,
le revisioni con cui lo scrittore emenda le parti narrative a vantaggio
del freddo resoconto, mostrano quanto Manzoni lascia che prevalga il
“nevrotico” bisogno che sia la storia a dettare il passo. La storia non
potrà acquisire tutta la realtà, ma nonostante le sue limitazioni —
questo il pensiero di Manzoni nel saggio Del romanzo storico — sarà
sempre meglio dell’invenzione, della poesia. E dunque della letteratura.
E nella recensione che un contemporaneo dedica a questo scritto
manzoniano, si nota «l’inquietudine profonda» da cui lo scritto nasce,
frutto «di una coscienza sottile e inesorabile» e anche di «una mente
condotta a ritornare sopra di sé, a ondeggiare, a disdirsi».
Le nevrosi di Manzoni è il libro di Paolo D’Angelo pubblicato dal Mulino (pagg. 213 euro 19)
Repubblica 13.5.13
Il capro espiatorio tra Edipo e Cristo
Un saggio dell’antropologo su “Vita e Pensiero”
di René Girard
Pubblichiamo parte di uno dei testi del nuovo numero della rivista Vita e Pensiero
La
vendetta non è un’istituzione, è un fenomeno di cui non si sa se sia
biologico o culturale, ma è specifico dell’uomo. Non c’è vendetta tra
gli animali. Se la vendetta esiste, se è infinita, è evidente che la
specie umana dovrebbe distruggersi da sé, subito, in partenza, prima
ancora di esistere in quanto umanità. È in quel momento che avvengono
crisi di rivalità mimetica, quelle crisi che si ritrovano, nei miti
relativamente moderni, ma di cui devono esserci antecedenti molto
antichi. Come si risolvono tali crisi? Sicuramente per motivi puramente
meccanici, perché dal momento in cui gli uomini si disputano gli oggetti
che desiderano non potranno mai capirsi. Ma la lotta diventerà così
intensa che gli oggetti spariranno e resteranno solo i rivali. E dal
momento in cui in un gruppo ci sono solo antagonisti si può essere certi
che ci saranno forme di riconciliazione. Si creeranno alleanze contro
un nemico comune che polarizzerà sempre più avversari, mimeticamente. È
quella che si chiama “politica” ed è anche il fenomeno del “capro
espiatorio”.
A partire dal momento in cui restano solo
antagonisti, il flusso mimetico invece di dividere e frammentare, si
polarizzerà sempre più contro e alla fine si dirigerà su un individuo
qualsiasi, che appare come il colpevole della crisi. Se guardiamo i miti
troviamo un numero notevole di casi in cui la violenza è collettiva
contro un’unica vittima. C’è un passaggio dal “tutti contro tutti” al
“tutti contro uno”. È quello che chiamiamo fenomeno del “capro
espiatorio”. Penso che nelle società arcaiche questo tipo di fenomeno
svolga un ruolo capitale; il sacrificio rituale diventa molto
comprensibile. Le comunità riconciliate dalla vittima cambieranno
atteggiamento nei suoi confronti. La vedono sempre come responsabile
della crisi, in altre parole Edipo ha realmente commesso parricidio e
incesto, attirando così la peste su Tebe, ma pensano anche che ora la
vittima sia responsabile della riconciliazione. Di conseguenza, la
vittima colpevole diventerà una divinità. Nel caso di Edipo è
semplicissimo, si tratta di una divinità del matrimonio, delle regole
del matrimonio che ha infranto lui stesso e che in qualche modo ha
istituito infrangendole, cosa certo assurda ma che nondimeno svolge un
ruolo essenziale nella genesi del religioso e dello stesso sociale.
Le
somiglianze con il cristianesimo sono più forti che mai. Se osserviamo
la crocifissione e la Passione, subito notiamo che è un fenomeno
estremamente, incredibilmente mimetico. Ad esempio, il rinnegamento di
Pietro: è evidente che interpretarlo in maniera psicologica come si fa
sempre vuol dire insinuare che al suo posto noi avremmo resistito alla
tentazione di rivoltarci a Cristo, e non è soddisfacente. In realtà
avviene che quando Pietro si trova in mezzo a una folla ostile a Gesù,
diventa ostile anche lui. È mimeticamente contagiato. E vi si trova in
quanto il migliore tra i discepoli, li rappresenta tutti. Nessuno è in
grado di resistere al mimetismo omicida della folla. Un’altra prova è
Pilato: vorrebbe salvare Gesù, ma in quanto politico ha talmente paura
della folla che le obbedisce fingendo di guidarla. Ma l’imitazione più
caricaturale sono i due uomini crocifissi con Gesù che si voltano verso
la folla e cercano di imitarla, vociferano con la folla, in fondo per
far credere a se stessi di non essere crocifissi.
È il mito
completamente spiegato e svelato. A questo punto gli antropologi vanno
in visibilio, perché in fondo conoscono solo la logica del concetto. E
si dicono che perché il cristianesimo fosse davvero diverso dalle altre
religioni bisognerebbe che parlasse di altro. Ebbene, non è così. Il
cristianesimo parla di quello che è essenziale nell’uomo, ossia del
fondamento religioso delle società, che è anche il fondamento della
cultura: il mimetismo violento. Deve parlare della stessa cosa dei miti.
È dal momento in cui si vede quest’identità di argomento, questi
rapporti estremamente vicini tra mitologia e cristianesimo, che di colpo
dovrebbe apparire la differenza: nei miti i colpevoli, anche se alla
fine vengono divinizzati, sono anzitutto colpevoli. Quando si parla del
mito di Edipo si pensa al parricidio e all’incesto e oggi ci sembrano
più veri che mai, il che è la prova che ci troviamo nel mito, perché
quasi tutti credono nella psicanalisi, che non è altro che credere al
parricidio e all’incesto invece di credere a una certa innocenza
dell’uomo che là è reale. La differenza essenziale di Gesù è che la
Passione presenta la vittima non come colpevole, ma come innocente. In
altre parole, la Passione è l’unico mito che sa e proclama quello che i
miti dissimulano perché non lo sanno: la vittima è un capro espiatorio
innocente.
(Traduzione Anna Maria Brogi)
Repubblica 13.5.13
Renda, scampato per caso a Portella della Ginestra
È morto lo storico e dirigente del Pci siciliano. Scrisse opere fondamentali sul Sud e la mafia
di Tano Gullo
PALERMO.
È stato in prima fila in tutti i momenti difficili degli ultimi
settant’anni della storia siciliana: a Portella della Ginestra il giorno
della strage; tra le bandiere rosse nei feudi occupati; nelle miniere
asserragliato a difendere la dignità dei lavoratori e l’integrità dei
“carusi”, piccole vittime di tempi senza pietà; nelle dorate stanze del
Parlamento regionale, prima per dare corpo a una Autonomia agognata, poi
a cercare di arginare quel federalismo, fabbrica di sprechi. È morto
ieri a 92 anni lo storico Francesco Renda, politico, dirigente
contadino, meridionalista, parlamentare, docente, nonché autore di una
cinquantina di volumi sulle vicende isolane, alcuni ormai pietre
miliari, come la monumentale Storia della Sicilia pubblicata da Sellerio
nel 2003, in cui lo studioso ribalta tutti i luoghi comuni sedimentati
nei secoli per pigrizia e superficialità.
«Apprendo con commozione la notizia della scomparsa di Francesco Renda — ha scritto
il
presidente Giorgio Napolitano, sodale negli anni duri del centralismo
democratico, in un messaggio ai tre figli — , intellettuale fortemente
impegnato e profondo studioso della storia della Sicilia, che avevo
avuto modo di conoscere in anni lontani e di apprezzare». Messaggi di
cordoglio anche dal presidente Crocetta e da esponenti del mondo
politico, culturale e sindacale. Oggi alle 11 una cerimonia nella sede
della Fondazione Gramsci, di pomeriggio i funerali a Mazzarino, nel
Nisseno, paese d’origine della moglie Antonietta Marino, fondatrice del
movimento delle donne comuniste nell’isola, scomparsa tre anni fa in
questi stessi giorni.
Nato a Cattolica Eraclea, Agrigento, in
una
povera famiglia di braccianti, è riuscito a sfuggire a una vita segnata
per la poliomielite che mina il suo fisico gracile rendendolo inadatto
al lavoro dei campi. Uno zio calzolaio lo prende in bottega: le lesine e
il cuoio non chiudono il suo orizzonte, così a dispetto della miseria
riesce a intraprendere gli studi liceali. Tra i banchi acquisisce una
coscienza politica e aprendo la sezione Pci del suo paesino si avvia nei
primi passi di una escalation inarrestabile: dirigente della Federterra
e della Lega delle cooperative, segretario regionale Cgil; cinque
legislature all’Assemblea regionale e una al Senato, ordinario di Storia
nell’Ateneo palermitano e autore di numerosi libri, il primo sul
movimento contadino, l’ultimo su Federico II, nel mezzo La storia della
mafia.
Uscirà postumo il racconto sulla Ducea di Bronte, regalata a Horatio Nelson, lavoro degli ultimi anni.
La
sua vita, segnata dai contrasti per la sua cocciutaggine di coniugare i
valori del comunismo con la lezione liberale di Croce, la racconta nel
libro Autobiografia politica (Sellerio 2007). A cominciare da Portella: è
lui che quel 1° maggio 1947, deve tenere il comizio. Per strada si buca
una gomma della motoretta, perde una manciata di minuti quanto basta
per scansare la gragnola di pallottole. Sarà lui nei giorni successivi
(in aperta polemica con Girolamo Li Causi che incita i lavoratori a una
reazione dura), a sedare gli animi ricordando l’eccidio dei Fasci.
Per
tanto tempo lo studioso è convinto che sulle vittime di Portella e
sulla mattanza di una sessantina di militanti della sinistra prima e
dopo, ci sia la firma esclusiva della banda Giuliano. Poi, grazie anche a
un’inchiesta di Repubblica che riporta documenti inediti degli archivi
Usa, la svolta, e nell’Autobiografia Renda scrive che «in quel mondo
spaccato a metà dalla “Guerra fredda”, ci sono troppi interessi
internazionali convergenti sulla Sicilia e tutti orientati a bloccare
l’avanzata delle sinistre».
Temperamento spigoloso, all’interno
del Pci è una spina nel fianco di chi all’insegna della real politik
intesse accordi arditi. Si oppone al governo Milazzo, con pezzi di Msi e
dc, e su questo fronte rompe con l’amico Emanuele Macaluso, regista del
ribaltone, con il quale si riabbraccia per la festa dei novant’anni. E
anche negli ultimi anni non perde occasione di attaccare i vertici del
Pd isolano per il sostegno a governi, come quello Lombardo, espressione
della vecchia politica. Anche sulla mafia va controcorrente: «ormai è
definitamente sconfitta», dice, suscitando ire furiose. «Una volta i
Calò Vizzini operavano alla luce del sole, oggi i boss devono tramare
nella clandestinità», replica. Nel campo storiografico opere che
lasciano il segno; dopo avere letto gli studiosi che per un millennio ci
hanno raccontato la Sicilia, comincia ad attingere dagli archivi e
mette sottosopra certezze secolari: demolisce il mito di Federico II
Stupor mundi, sostenendo che per la sua incapacità politica e l’ostinata
ostilità a papa Innocenzo III perde la vita — e con lui i figli — e
l’impero; esalta, per contro, Ruggero II fondatore del Regno; si scaglia
contro la lettura monocorde che ritiene la civiltà siciliana originata
dalla dominazione araba. Al piagnisteo che pone le dominazioni straniere
come causa dell’arretratezza isolana, tesi della storico cinquecentesco
Tommaso Fazzello, trappola in cui cadono Verga, Pirandello, Tomasi di
Lampedusa e perfino Sciascia, controbatte che «grazie alle occupazioni
straniere l’Isola si è trovata sempre al centro della grande storia
mediterranea». E proprio sul Mare nostrum, «sdoganato dal crollo della
Cortina di ferro», progettava di aggiornare un suo vecchio studio. Non
ne ha avuto il tempo.