martedì 16 aprile 2013

l’Unità 16.4.13
Nel Pd è scontro con Renzi
Dopo gli attacchi dure reazioni di Finocchiaro e Marini. «Accuse miserabili». «La religione usata a fini politici»
Il leader del Pd non indietreggia sui nomi di Marini e Finocchiaro dopo gli attacchi di Renzi
Letta: allarme unità
di Maria Zegarelli


Provate a immaginare una navigazione con il mare forza sette: ecco il viaggio del Pd verso l’elezione del nuovo inquilino del Colle è più agitato di così. Onde altissime, che travolgono la fragile unità raccolta nelle ultime due direzioni e rischiano di far cadere in acqua parecchi passeggeri. Ancora una volta è il sindaco rottamatore a provocare i su è giù lungo la rotta: ieri con una lettera su Repubblica è tornato sul tema che più gli sta a cuore, la presidenza della Repubblica, casella affatto indifferente anche per il suo futuro da premier sullo scacchiere della politica. Per (ri)bocciare la candidatura di Franco Marini stavolta non parla di età, no, parte dalla religione: «Mi sembra gravissimo e strumentale il desiderio di poggiare sulla fede religiosa le ragioni di una candidatura a custode della Costituzione e rappresentante del Paese», scrive il giorno dopo aver lanciato l’affondo anche contro Anna Finocchiaro, altra candidata con alte quotazioni per il Colle, colpevole di una «splendida spesa all’Ikea con il carrello umano».
Le risposte non si sono fatte attendere, durissime, segno di una cesura che avrà bisogno di parecchio tempo per essere ricomposta, se mai lo sarà. «Non mi sono mai candidata a nulla. Conosco bene i miei limiti e non ho mai avuto difficoltà ad ammetterli replica di buon mattino la senatrice Pd -. Trovo che l’attacco di cui mi ha gratificata Matteo Renzi sia davvero miserabile. Ho sempre servito le istituzioni in cui ho lavorato con dignità e onore, e con tutto l’impegno di cui ero capace, non metterei mai in difficoltà il mio Paese, né il mio partito». Quanto male le abbia fatto l’attacco lo raccontano le persone a lei più vicine, quelli che sanno quanto strumentale sia l’attacco di Renzi. «Anna quel giorno all’Ikea era accompagnata da un suo amico, quello che spingeva il carrello, come qualunque persona educata avrebbe fatto spiega un senatore mentre la scorta era con lei semplicemente perché il Viminale impone che ci sia». «Inaccettabile e ignobile che venga da un esponente del mio stesso partito. Chi si comporta in questo modo aggiunge Finocchiaro potrà anche vincere le elezioni ma non ha le qualità umane indispensabili per essere un vero dirigente politico e uomo di Stato». Dichiarazioni che raccontano quanto sia al limite la tenuta stessa del Pd.
L’ex presidente del Senato, Marini, risponde nel pomeriggio. Ci ha pensato, ha pensato al partito, alla possibilità di lasciar cadere nel vuoto l’affondo, ma alla fine ha prevalso l’esigenza di mettere i puntini sulle «i», in nome della sua storia sindacale e politica. «Nella mia vita pubblica ho ricevuto critiche e contestazioni. Come tutti. È normale e logico che sia così. Sono le regole del gioco democratico scrive in una nota . Matteo Renzi però usa un altro registro. Insinua che io starei strumentalizzando e consentendo che venga strumentalizzato il mio essere cattolico a fini politici. Non posso lasciar passare in silenzio parole tanto gravi e offensive. Premetto che io non mi sono candidato a nulla . Nella mia lunga vita sindacale e politica non ho mai utilizzato l’appartenenza religiosa per chiedere o ottenere incarichi di qualunque natura. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Non l’ho fatto mai e mai lo farei. Con la sua lettera invece è proprio Renzi che ha commesso il grave errore che mi addebita: usare la religione a fini politici. Cosa assolutamente inaccettabile. Una deriva nella discussione pubblica di cui davvero non si sentiva la necessità e di cui Renzi porta tutta la responsabilità».
È uno altro choc per un partito che dal giorno dalle elezioni non riesce a vedere l’approdo, l’area cattolica viene spiazzata da questa entrata a gamba tesa di un cattolico come loro. Tacciono i big, come Walter Veltroni e Massimo D’Alema, mentre Enrico Letta non nasconde la sua preoccupazione non solo per il Paese ma anche per il suo partito. «Quei veti e quei toni non sono condivisibili, ma Renzi è una risorsa fondamentale per il presente e il futuro del Pd», dice per poi aggiungere: «Dobbiamo concentrarci oggi sull’unire, unire, unire io sono preoccupato, i toni si sono alzati troppo».
Renzi è amareggiato per gli «insulti» che riceve dal suo stesso partito, come scrive in questa guerra fatta di carta, web e telecamere, ma non si lascia intimidire: «Dico quello che pensano milioni di italiani». Al Nazareno commentano che il suo è un gioco abbastanza scoperto, «punta ad andare al voto subito e quindi deve far saltare ogni tentativo di larga condivisione per il Colle, ma se pensa che bastino le sue bocciature pecca di presunzione». Di «cecchinaggio» parla Francesca Puglisi, «ha oltrepassato il segno», aggiunge Roberta Agostini. «Bisogna collegare la lingua al cervello senza perdere il rispetto dell’altro prima di sferrare un colpo», suggerisce Beppe Fioroni. È preoccupato per la tenuta della barca anche Francesco Garofani, franceschiniano, «mi sembra strumentale l’uso che fa Renzi della religione perché lo scontro politico può anche essere duro ma non può mai degenerare». In difesa di Renzi Davide Serra, il finanziere già discusso durante le primarie per le sue società nelle Cayman: «Se noi 20/30/40enni, a cui nessuno ha dato nulla, non combattiamo civilmente tra poco saremo la Grecia. Io mi metto in gioco. Supporterò Matteo Renzi con tutti i mezzi che ho, si deve combattere. Vincere primarie. Ogni giorno. Ovunque». Tace Rosy Bindi perché stavolta, suo malgrado, Renzi combatte per il Colle la sua battaglia: Romano Prodi.

il Fatto 16.4.13
E poi Matteo s’intrattiene un’ora con Berlusconi
di Emiliano Liuzzi


CENTENARIO DI PIETRO BARILLA, COLLOQUIO AL PALCO 17 DEL REGIO DI PARMA. IL CAIMANO DOMANDA: “MA TU QUANTO SEI ALTO?”

Un’ora di colloquio, palco numero 17, al primo loggione del teatro Regio di Parma. È qui che il sindaco di Firenze Matteo Renzi e l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, si sono incontrati. Faccia a faccia, intenso e prolungato quanto almeno lo fu la celebre visita ad Arcore. Niente di predefinito nell’agenda, il colloquio è stato voluto da entrambi, anche se fatto apparire come del tutto casuale, nella platea del teatro dove si celebravano i cento anni dalla nascita e i venti dalla morte di Pietro Barilla, l’uomo che ha fatto della pasta un marchio italiano. Berlusconi è arrivato a Parma accolto da fischi. Una volta dietro le quinte ha rotto il ghiaccio col sindaco di Firenze grazie a una di quelle che considera memorabili battute: “Ma tu Renzi, quanto sei alto? ”, ha detto col volto ricoperto di mascara. Nessuna risposta dal sindaco di Firenze, ma poi, come due vecchi amici, si sono appartati. Poco prima lo stesso Berlusconi aveva detto di non essere assolutamente preoccupato per la sfida lanciata da Renzi: “Sono abituato a vincere”.
PRESIDENZA della Repubblica, il primo punto sull’agenda. Ma con un inizio – l’epilogo è difficile prevederlo – molto distante: Renzi non ha mai nascosto le simpatie per Romano Prodi, l’uomo che da sempre annebbia i sogni di Berlusconi. E sul tema degli incubi, proprio il leader del centro-destra, si è lanciato in un’improvvisazione di apertura anticipata della campagna elettorale: “Ero molto amico di Pietro Barilla e mi ricordo che nel 1993, pochi giorni dopo aver preso la decisione di scendere in campo, passeggiavamo nel giardino di casa sua. Io gli parlai del pericolo che in Italia vincesse un partito legato a un’ideologia che non mi lasciava dormire la notte. A quel punto lui mi disse che messe le mani in pasta me ne avrebbero fatte di tutti i colori. Me ne hanno fatte molte di più e me ne stanno facendo ancora adesso”.
Ha preso la parola dal pubblico Silvio Berlusconi, intervento non programmato. Alla domanda dei giornalisti: “È cominciata ufficialmente la campagna elettorale? ”, Berlusconi ha risposto con un sì ironico, prima di seguire la scorta nei cunicoli di camerini e loggioni, dove nei successivi minuti è avvenuto l’incontro con Renzi. Che cosa si siano detti non è dato sapere. All’uscita del loggione 17 pochissimi gli infiltrati tra guardie del corpo e forze dell’ordine in borghese. A pochi minuti dall’inizio dello spettacolo è arrivato Federico Pizzarotti, sindaco grillino e padrone di casa della città ducale. Ha aspettato a lungo davanti alla porta chiusa, fino all’uscita dell’altro sindaco Matteo Renzi, che ha minimizzato l’accaduto. Strette di mano, convenevoli e auguri. E il sindaco di Firenze è passato all’attacco: “Allora cosa farai con questo inceneritore? ”. Bisbigli e imbarazzi su quello che è il punto cardine della gestione a 5 Stelle, promesse e divieti mai rispettati. “Mi spiace per la questione di quell’assessore del Movimento in Veneto cacciato dalla giunta, cos’è successo? ”. Ordinaria amministrazione, problemi montati dalla stampa, ha fatto eco il primo cittadino di Parma.
DIETRO la porta Berlusconi aspettava il via libera per uscire e lasciare il luogo del incontro. “Che cosa vi siete detti? ”, ha incalzato qualcuno. Renzi fa scena muta sugli argomenti del colloquio, e del resto Pizzarotti non chiede nulla. Nel frattempo al Teatro Regio di Parma è sfilata mezza seconda Repubblica, uno per tutti Fedele Confalonieri, anche lui molto legato alla famiglia Barilla. Luca Cordero di Montezemolo è arrivato da solo in Ferrari. Al Fatto Quotidiano ha parlato della figura di Barilla, ma soprattutto del momento politico: “Sono molto preoccupato”.
Intanto Silvio Berlusconi ha fissato una riunione, come ha confermato al Tg1: “Ci vedremo domani, abbiamo già previsto un ufficio di presidenza la mattina e la riunione dei gruppi congiunti il pomeriggio. In quella sede prenderemo la decisione”, in riferimento all’elezione del presidente della Repubblica. “Per quanto riguarda il nostro movimento c’è la volontà di essere disponibili a quel che il Pd ci propone”, ha concluso Berlusconi.

il Fatto 16.4.13
Enrico Rossi: “Basta ingiurie e no al governo col Pdl”


È IN CORSO una lotta politica tra Renzi e Bersani. Renzi dice: o fate il governo con il Pdl oppure elezioni e io sono pronto a sfidare Berlusconi. Bersani, finora, è riuscito, quasi da solo, a impedire che si formasse un governissimo Pd-Pdl. Perché questa volta responsabilità e cambiamento stanno insieme credo che bisogna procedere con metodo”. Lo scrive su Facebook il governatore della Toscana, Enrico Rossi (Pd), che avverte: “se il partito fosse più unito le possibilità di successo sarebbero maggiori. In ogni caso dovremmo evitare gli insulti. In un partito c’è bisogno di più rispetto e vogliamo essere rispettati. Prima occorre nominare senza accordi al ribasso un presidente della Repubblica autorevole e poi tentare ancora una volta di formare un governo per le riforme. Correre a fare le elezioni, magari con questa legge elettorale come Renzi sostiene, può essere un errore, un azzardo per il Paese”.

l’Unità 16.4.13
Il senso del limite
di Pietro Spataro


UN PARTITO CHE DISCUTE IN MODO ANCHE ASPRO È UN BENE DA DIFENDERE. PERCHÉ UN VERO PARTITO non ha padroni, non c’è uno che detta la linea e altri che eseguono. È invece la sintesi del confronto tra sensibilità e visioni diverse, tra opzioni e strategie differenti. Questo vale per tutti, ma vale soprattutto per il Pd che ha nel suo Dna quella parola democratico che è così fortemente impegnativa e che è il frutto di storie che hanno segnato la vita della Repubblica e la crescita civile dell’Italia. Non bisogna spaventarsi delle diversità, perché esse sono una ricchezza e perché solo la battaglia delle idee può dare forza e coesione a un progetto di cambiamento. Il Pd non è nato per appiccicare l’una all’altra le correnti del riformismo democratico. È nato invece perché da quelle spinte venisse fuori una nuova idea, una nuova sfida per l’Italia del nuovo millennio.
A quelle storie lontane, che hanno radici forti nel Paese, si sono unite storie più giovani e tutte insieme hanno cercato un modo originale di guardare e di capire il mondo. Con l’obiettivo di fare finalmente, con la forza del pluralismo, quella riforma intellettuale e morale della nazione che va oltre lo spazio dell’oggi.
È giusto che dentro un partito così ci siano forti passioni. Sta qui, in fondo, l’ambizione del progetto: laici e cattolici, la radicalità della sinistra e il pragmatismo liberale, il socialismo europeo e la visione democratica di Obama, la prateria di un welfare rinnovato e la difesa dei più deboli, l’innovazione come motore di cambiamento e lo sforzo di portare tutti nel nuovo mondo, senza escludere nessuno. Sono proprio queste correnti di pensiero, con tutte le contraddizioni che creano, a dare dignità e sostanza a una battaglia comune. Perché la rendono più viva, più contendibile, e possono offrire linfa alla buona politica.
Questa deve essere la forza del Pd. Un partito nel quale nessuno ha paura di dire la sua, di sostenere un’altra linea, di suggerire un altro percorso. Nel quale ci si divide e si litiga perché la politica è fatta di visioni nette, di scelte coraggiose. Anche di rotture, di contestazioni, di contrapposizioni. Ma c’è un limite invalicabile: tutto questo deve avere un senso comune. C’è una comunità che il Pd deve rappresentare, e quella comunità è fatta di donne e di uomini che hanno a cuore il futuro del loro Paese, che si battono in ogni città perché le cose funzionino meglio e perché il cambiamento non sia solo una parola da spendere nei comizi o nei talk show. Una visione del bene comune tiene unito questo popolo, che immagina un’Italia diversa e che porta con sé parole come giustizia, equità, solidarietà, lavoro. Prima di tutto a loro occorre rispondere.
Il Pd non è un monolite, né una caserma con i generali e gli ordini scritti. Tutto è consentito, anche lo scontro più feroce. Però no, non è consentito che nella battaglia si trascinino le istituzioni, soprattutto l’istituzione più alta e più delicata del nostro sistema democratico quale è il Quirinale.
Perché il capo dello Stato è una figura di garanzia su cui va ricercata, in modo ostinato, la condivisione piuttosto che la separazione. La responsabilità nazionale deve impedire, perciò, che si combatta una guerra senza esclusione di colpi all’ombra del Colle. Perché ciò può produrre ferite che rischiano di danneggiare non solo la propria comunità e la propria «mission», ma lo spirito democratico del Paese. Sì, in un partito democratico è consentito tutto ma non l’insulto, l’offesa, il dileggio che trascinano le persone sulla piazza. C’è una regola basilare che tiene unita qualsiasi comunità: il rispetto reciproco.
Sospetti e veleni appartengono a un altro mondo, a un’altra idea della politica. Il Pd e ciascuno dentro il Pd deve spegnere l’incendio finché si è in tempo. Prima che il fuoco di un’insensata controversia bruci la casa.

l’Unità 16.4.13
Cattolici? Matteo più arretrato del Concilio
di Giuseppe Fioroni


MATTEO RENZI HA SOLLEVATO CON PIGLIO DA CENSORE UN PROBLEMA SERIO sul profilo politico e morale della candidatura al Quirinale. Ne è scaturita l’ennesima polemica, anche se di tutto abbiamo bisogno in queste ore meno che di liti e di contestazioni. È come se le primarie non finissero mai e il Paese, purtroppo, fosse chiamato a pronunciarsi sul perenne «mordi e fuggi» del sindaco di Firenze. Sembra di capire che in una logica cartesiana la sua esistenza pubblica si definisca nell’essere contro le figure più rappresentative del nostro partito. «Demolisco, dunque sono». Non applica ai Democratici quel rispetto che ha invocato a beneficio di Berlusconi. Si può andare avanti all’infinito con questo approccio irrazionale?
A me non pare che le argomentazioni di Renzi siano corrette. Noto, in effetti, come a suo giudizio «l’ispirazione religiosa, non solo cattolica, non solo cristiana, possa essere molto utile alla società». Dopo il Concilio, questo modello di religiosità civile è caduto rapidamente nell’oblio. La fede è lievito, non strumento della società; anche perché, molto spesso, dietro al discorso sull’utilità sociale si nasconde una fatale inclinazione al servizio del potere. Non va bene. L’uso strumentale della religione, anche quando muove da nobili considerazioni, collide nettamente con lo spirito del cattolicesimo post-conciliare.
Il ragionamento di Renzi s’ingarbuglia, almeno a leggere quel che ha scritto nella lettera di ieri a la Repubblica. Tra le righe fa pure capolino, a proposito di felicità, un concetto di tipo vagamente «new age»: i credenti sono nel mondo e s’impegnano nella vita per inseguire, alla fine, proprio una qualche esperienza di felicità. Qualche dubbio sorge spontaneo, si direbbe. Sotto la battaglia per il Quirinale sembra insinuarsi una distorta visione della sfera religiosa.
Non sono affatto d’accordo sull’ambigua reprimenda che muove da un pregiudizio. Perché un uomo politico di riconosciute qualità, anche quando dovesse manifestare la sua appartenenza alla comunità dei fedeli, dovrebbe risultare inadatto a rappresentare il sentimento collettivo nazionale, sapendone interpretare gli umori, le attese e le speranze? È evidente che la scelta dei grandi elettori non deve essere condizionata da criteri di appartenenza religiosa. Ciò nondimeno, dopo avere individuato una priorità nel fare della candidatura la cerniera di una possibile unità repubblicana, suona davvero inammissibile l’evocazione di un divieto a scegliere chi all’occorrenza, venendo dalla tradizione dell’impegno politico e sociale dei cattolici, offre di sé l’immagine di un uomo aderente ad alcuni valori di origine e ispirazione cristiana.
A forza di criticare tutto e tutti Renzi finisce per reinventare ai giorni nostri la disputa tra guelfi e ghibellini, che da tempo si pensava di aver archiviato sulla base, per quanto ci riguarda, della lezione del più laico dei politici cattolici: Alcide De Gasperi. Di questo passo non andiamo avanti, anzi facciamo decisamente un passo indietro. In nome della politica nuova e moderna produciamo ulteriori motivi di divisione e di conflitto in un Paese che ora più che mai ha bisogno di unità. L’augurio è che non si attenui in noi laici e credenti la preoccupazione attorno a una esigenza di rispetto e condivisione. È il modo, anche questo, per restituire onore alla politica.

l’Unità 16.4.13
Il Papa e gli atei, sfida a colpi di libro
di Maria Serena Palieri


NELLA CLASSIFICA NIELSEN, AL COMPARTO SAGGISTICA, PAPA FRANCESCO OCCUPA QUESTA SETTIMANA I PRIMI QUATTRO POSTI COME AUTORE, con libri editi da Rizzoli, Salani, Mondadori ed Emi, ma anche il quinto come oggetto di un libro delle Edizioni San Paolo.
Non è un fenomeno solo italiano. Su «Publishers Weekly» campeggia un servizio datato 12 aprile in cui si analizza la fortuna del libri del neo-pontefice ma anche di quelli più latamente sulla storia del papato. Curioso è che lo stesso PW, poco più giù, dedichi un altro ampio servizio agli atei di nuova generazione che, scrive, sembrano aver deposto i furori iconoclasti della generazione precedente ed essersi inseriti nel «mainstream».
Gli iconoclasti che PW elenca sono il Christopher HItchens di Processo a Dio, il Sam Harris di Lettera a una nazione cristiana, il Daniel Dennett di Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale e il Richard Dawkins di L’illusione di Dio.
Oggi sembra che, almeno nel mercato anglosassone, vadano invece i «dialoganti»: da Chris Steidman col suo Faitheist (dove il titolo è già una crasi tra «faith» e «atheist») a Jacques Berlinerblau con How to be secular: a call to arms for religion freedom a – udite udite, un autore non anglofono nel mercato che meno traduce al mondo! Alain de Botton con il suo Del buon uso della religione. Una guida per non credenti (titolo dell’edizione italiana per Guanda). Che dire? Sembra che, se il papato medievale e mediatico di Wojtyla accendeva gli animi, quello insicuro e riflessivo di Ratzinger e, ora, quello spettacolarmente umile di Francesco (ossimoro, sì...) li invitino al dialogo.

l’Unità 16.4.13
Riccardo Nencini: «Costruiamo la casa comune con il Pd e con Sel»
Il segretario socialista: «Per il Colle serve una proposta unitaria della coalizione Personalmente voterei Emma Bonino»
intervista di Rachele Gonnelli


«Converrà registrare i suoni con urgenza». Di fronte allo stridere delle prese di posizioni, alla nebbia che sembra avvolgere l’attuale momento politico, Riccardo Nencini segretario del partito socialista ha lanciato ieri un twitter stile messaggio nella bottiglia invitando «la sinistra» a non dare un’immagine litigiosa e divisa in merito alla prossima elezione del capo dello Stato.
A chi tira le orecchie?
«È una fase molto delicata. Non è una elezione normale, quella per il Quirinale, perché avrà conseguenze sulla formazione del governo e conosciamo la fragilità dell’Italia. Presentarci divisi ora significa soltanto fare un regalo a chi nutre interessi diversi».
Vorrebbe accordare gli strumenti in una riunione intergruppi della coalizione?
«I fondatori di Italia Bene Comune devono sedersi attorno a un tavolo, discutere delle candidature da portare in votazione. Serve per il capo dello Stato una soluzione condivisa coralmente dal Parlamento. Le spaccature che leggo in queste ore non favoriscono il raggiungimento di questo obiettivo. Allora dobbiamo sederci, anche prima di giovedì e anche se non c’è una candidatura immediatamente condivisa da tutti, e iniziare la discussione, che proseguirà poi anche in altri incontri nel corso delle votazioni».
Voi socialisti a quel tavolo quale nome porterete?
«Quello di una donna autorevole: Emma Bonino. È stata protagonista di tante belle battaglie di civiltà, molte delle quali abbiamo combattuto insieme, socialisti e radicali, per un’Italia più libera, per i diritti civili di terza generazione. È un’europeista convinta e ha una coscienza salda delle istituzioni, un requisito essenziale in un tempo come questo in cui serve rigore e sobrietà, senso del dovere».
Nella logica della condivisione, crede che Emma Bonino funzionerebbe?
«Perchè no? L’europeismo è un fattore condiviso anche dai saggi voluti da Napolitano, molti dei quali vengono dal centrodestra a cominciare da Quaglia-
riello. E anche il governo Berlusconi ha assunto la Carta di Nizza sui diritti di terza generazione».
In questi giorni si fa anche il nome di un socialista di razza come Giuliano Amato. «Anche lui sarebbe un buon presidente. Non si mandano apprendisti stregoni, non si deve rincorrere il nuovismo a tutti i costi in un momento come questo, come sento invece nei discorsi di tanti grillini del tipo “questo è troppo politico, questo non è il nuovo” o cose simili». E se a un certo punto rispuntasse il nome di Romano Prodi?
«Prodi è stato un buon presidente del consiglio».
Nella valutazione che va per la maggiore però con Prodi al Colle si andrebbe velocemente a nuove elezioni. Lei cosa ne pensa?
«Sono assolutamente contrario a tornare al voto con questa legge elettorale. Non cambierebbe niente, resteremmo lo stallo, specialmente al Senato». Quale legge elettorale vorrebbe?
«Una legge che riconsegni ai cittadini il diritto di scelta. Con la preferenza e i collegi uninominali, con doppio turno alla francese».
Si potrebbe fare velocemente?
«No, lo auspico, ma non mi pare ci siano le condizioni. I grillini non sono disponibili e non credo si possa fare in un mese quello che non è stato fatto in tre anni. Poi serve un governo che governi, un governo del cambiamento dove ci siano eccellenze di entrambi gli schieramenti. E una Convenzione che discuta le riforme istituzionali, legge elettorale inclusa». Quali sono i punti del manifesto di Barca che, ha detto, vorrebbe discutere con lui? «Soprattutto un punto, quello d’incrocio tra diritti sociali e diritti civili. Vorrei discurere non solo di articolo 18 ma di articolo 18bis, di tutela degli atipici, di disoccupazione intellettuale, di ammortizzatori sociali».
È interessato ad una casa comune con Sel e Pd?
«La casa comune c’è già, in Europa. In Italia noi siamo per un partito socialista liberale. Se nel Pd mettesse radici il discorso che fa Sel, certo dovremmo interrogarci. Era la strada intrapresa da Bersani, avevo inteso. Ma Renzi, mi pare abbia altro in testa».

La Stampa 16.4.13
Democratici in frantumi Non c’è un nome comune nemmeno nel partito
Bindi: già sarebbe tanto trovare una figura condivisa tra noi...
di federico Geremicca


Il Pd Pierluigi Bersani. Il Partito ormai diviso tra bersaniani, mariniani, dalemiani, i fioroniani, prodiani, renziani, «giovani turchi», lettiani, veltroniani, bindiani, franceschiniani

I bersaniani, i mariniani, i dalemiani, i fioroniani, i prodiani, i renziani, i «giovani turchi», gli ulivisti, i lettiani, i veltroniani, i bindiani, i franceschiniani... E non è detto che l’elenco sia completo, perché il partito che nacque da due partiti per fonderli in uno, è omai null’altro che un’affollata e confusa somma di tribù, guidate da capi rancorosi, assetati di rivincita e in guerra tra loro. È il peggiore dei declini: e va in scena nel momento peggiore. Tanto che, dopo che l’aveva già fatto Franceschini, stavolta tocca al vicesegretario - a Enrico Letta - dire «c’è un rischio di spaccatura del partito... io sono preoccupato, non possiamo spaccarci in questo momento».
In questo momento no, ma dopo si potrà: e forse si dovrà. Ed è un dopo che non potrà esser comunque spostato troppo in là, a giudicare dalla micidiale giornata di ieri, filata via tra accuse e offese senza precedenti. Del resto, la brace ardeva sotto la cenere fin dalle durissime primarie combattute nell’autunno scorso tra Bersani e Renzi: poi, le elezioni andate male, le tensioni nel partito e la necessità di formare un governo e rinnovare contemporaneamente tutte le più alte cariche dello Stato, hanno letteralmente trasformato il Pd in un vulcano. Giovani contro vecchi, laici contro cattolici (e da ieri anche cattolici contro cattolici...), ex diessini contro ex popolari, liberal contro radicali... È un durissimo tutti contro tutti, con un continuo giro di mosse di interdizione per stoppare l’avversario interno che hanno prodotto un risultato certo (la paralisi del partito e dell’intero quadro politico) ed uno imminente: l’addio, perfino, alla possibilità di eleggere da soli un «presidente di parte».
L’aria è pessima praticamente su ogni fronte. Ieri, per esempio, Franco Marini e Anna Finocchiaro hanno duramente risposto a Renzi (che li aveva giudicati inadeguati come candidati al Quirinale) nascondendo però a fatica la rabbia per il mancato intervento di Bersani: «Un segretario che non ha mai difeso nessuno dagli attacchi di Renzi accusava uno dei più stretti collaboratori della Finocchiaro -. Uno che da due mesi pensa soltanto al suo governo, mandando alla malora il partito e tutto il resto».
E le cose non migliorano per nulla se ci si sposta sul fronte-Quirinale. Non a caso, uno dei primi «bersagli» del sindaco di Firenze - e cioè Rosy Bindi, Presidente dell’Assemblea nazionale del Pd va ripetendo da giorni ai compagni di partito un suggerimento che ancora fino a ieri pochi intendevano: «Cominciamo con l’individuare un nome che sia condiviso almeno da noi, all’interno del Pd. Già questo, vista l’aria che tira, sarebbe da considerare un successo... ».
D’altra parte, la «pasionaria» al tempo del rinnovamento della Dc sa bene cosa voglia dire la paralisi e la spaccatura del partito di maggioranza relativa, e che effetti possa produrre quando c’è da eleggere un Capo dello Stato. Primavera 1992, lei era europarlamentare e in Italia bisognava eleggere il successore di Francesco Cossiga: Forlani e Andreotti si contrastarono per settimane, col risultato che il nuovo Presidente (Oscar Luigi Scalfaro) fu eletto il 25 maggio alla sedicesima votazione. E forse il braccio di ferro sarebbe andato avanti chissà quanto, se non ci fosse stato il terribile attentato di Capaci (23 maggio).
Quella situazione - cioè quelle divisioni - rischiano di riproporsi oggi in maniera perfino più paralizzante, considerata la varietà (e la rigidità) delle posizioni in campo nel Pd. Ci sono i giovani che non vogliono un presidente sul profilo Amato-D’Alema-Marini perché «occorre dare un segno di cambiamento»; ci sono i renziani - e naturalmente non solo - che puntano su Prodi, convinti che con quel nome «si torna alle elezioni in autunno»; ci sono i cattolici che vogliono un cattolico al Quirinale, ma poi si dividono su chi (Marini? Prodi?) ; e infine i bersaniani, che guardano con un occhio al Quirinale e con l’altro a Palazzo Chigi, sperando possa essere conquistato dal proprio leader: aggiungendo, così facendo, confusione a confusione.
In questo lunedì di fine aprile, il pessimismo su un’intesa per il Quirinale e sul futuro del Pd sembra dunque più che giustificato, anche se nei corridoi si sussurra di incontri risolutori e patti già stretti. Gli incontri ci sono, naturalmente: solo che da una settimana quel che viene costruito nel primo viene poi demolito nel secondo...

La Stampa 16.4.13
Lo stretto sentiero di Bersani “Renzi sbaglia i conti nessuno vuole le urne ora”
Il segretario convinto che Grillo e Lega la pensino come lui
di Carlo Bertini


Fino all’ultimo minuto utile, Pierluigi Bersani cercherà un’intesa col Pdl e se non ci riuscirà, «dalla quarta votazione sarà guerra su un candidato da eleggere a maggioranza», come ben sintetizza uno dei protagonisti della trattativa. E nello schema di Bersani, il nome di Prodi viene tenuto fuori dalla rosa di papabili al primo scrutinio e in serbo per il secondo round della partita: che nessuno si sente di considerare come lo sbocco più improbabile.
Nei contatti di queste ore con gli avversari si cerca l’intesa su un nome secco, ma a quanto pare sono in campo ancora i nomi di D’Alema, Violante, oltre a quelli di Amato (in pole position tra tutti), Marini e Finocchiaro: questi ultimi hanno resistito pare alle bordate di Renzi, restando in gara, e il nome di D’Alema ieri era molto gettonato tra i «giovani turchi» del Pd, convinti che sarebbe quello alla fine più votato, anche se i renziani non sono affatto dello stesso avviso.
Nella guerra di logoramento tra lui e Renzi, a Pierluigi Bersani non è piaciuto affatto che il rottamatore abbia usato i proiettili più aguzzi nei riguardi della Finocchiaro, tanto da approvare in riservata sede la reazione durissima della senatrice, alla quale il leader ha telefonato ieri mattina per darle un segno di solidarietà. Chi gli ha parlato, lo ha trovato «arrabbiatissimo» per i toni e gli argomenti usati da Renzi. Perfino il suo vice Enrico Letta ha ammesso di esser preoccupato di un «rischio scissione», lasciando però aperta la porta a Renzi, «una risorsa fondamentale per il presente e il futuro». Ma oltre a mettere in conto le grandi fibrillazioni che stanno scuotendo il suo partito, nei suoi ragionamenti Bersani si chiede se davvero Renzi pensi di andare alle elezioni inseguendo Grillo: in tal caso sbaglia a fare i suoi conti, perché «nessuno ha voglia di andare a votare ed una volta eletto il presidente della Repubblica, fare il governo poi diventerà più semplice», dicono gli uomini del segretario. Perché le posizioni si ammorbidiranno di fronte ad un capo dello Stato con l’arma dello scioglimento delle Camere. E a quale governo pensi Bersani, malgrado in molti siano convinti che sia pronto a farsi da parte o di lato per far posto ad un premier diverso per uno schema di accordo Pd-Pdl, è presto detto: al suo governo di cambiamento, cioé di minoranza, affiancato dalla famosa Convenzione per le riforme, affidata alla guida dell’opposizione.
E se il rottamatore sbaglia i conti, è perché le sacche di resistenza al voto sono molteplici: nella war room bersaniana tutti sono convinti che «la Lega non può andare a votare altrimenti rischia grosso e lo stesso Grillo rischia una musata». Per non dire di Scelta civica che «farebbe qualunque cosa per evitare le urne». E dunque i bersaniani sono convinti che «una volta che avrai al Colle un presidente, per un banale fattore numerico, dopo avrai pure l’incarico a Bersani per fare il governo del cambiamento e i voti per farlo partire spunteranno fuori».
Insomma Bersani, malgrado l’esasperazione di quasi tutto il suo gruppo dirigente che non ne può più di sentirsi imbrigliato, suona la stessa musica, mettendo in conto che da qui a giovedì mattina le fibrillazioni saranno altissime: anche se domani si riuniranno i gruppi parlamentari congiunti di Pd e Sel, cioé 495 parlamentari, a cui verrà comunicata la scelta fatta per il Colle, gli uomini del leader prevedono che la «partita potrebbe chiudersi solo giovedì mattina come per Grasso e Boldrini».
E se fino all’ultimo Bersani, come concordato anche con Monti nell’incontro di ieri, lavorerà per trovare un nome condiviso, la domanda che circola è: ce la farà il «petalo» prescelto dal Cavaliere a ottenere i due terzi dei voti al primo scrutinio: ci vorrebbe un’adesione plebiscitaria di tutti i gruppi tranne i grillini, quindi un tasso modesto di franchi tiratori che con la guerra in corso nel Pd nessuno può garantire...

Corriere 16.4.13
Terremoto nel Pd, ex dc in rivolta. E già si contano i franchi tiratori
di Maria Teresa Meli


ROMA — La vicenda del Quirinale ha terremotato il Partito democratico. Pier Luigi Bersani sente la maggioranza sfuggirgli sotto i piedi. I cattolici, infatti, o per meglio dire, gli ex democristiani sono sul piede di guerra: hanno capito che non sarà Franco Marini il candidato del partito al Colle e minacciano fuoco, fiamme e scissioni.
Seduto su un divanetto Beppe Fioroni scuote la testa e mormora ironico: «Amato da gran paraculo può fare anche il para-cattolico». Dario Franceschini fa avanti e indietro per il Transatlantico con l'aria forzatamente svagata. I «Mpm», ossia i «malmostosi per Marini» (così sono stati battezzati nel Pd gli ex Dc) sono gli unici ad aggirarsi per una Camera semivuota. Intanto il segretario che vede inevitabilmente sgretolarsi la maggioranza fa convocare una riunione di bersaniani «puri» allargata anche agli «impuri». Cioè ai «giovani turchi», che gli uomini del segretario vogliono incorporare alla loro corrente per riallargare una maggioranza che rischia di essere una minoranza. Il clima è tale che un parlamentare di lungo corso profetizza: «Ci saranno minimo ottanta franchi tiratori chiunque sia il candidato».
Intanto Matteo Renzi parte alla volta di Parma: «C'è chi mi ha sconsigliato di andarci, ma chi se ne importa: l'inciucio con Berlusconi lo sta facendo Bersani, mica io». Il sindaco di Firenze sa che i due lo temono. Il segretario soprattutto perché sono già due candidati che gli ha fatto saltare. Guardando a come lo trattano, non sembrerebbe che Renzi abbia tutta questa influenza, ma è così. Lui critica Marini e Finocchiaro, dirigenti e parlamentari del Pd li difendono, però, spiega un autorevole esponente della maggioranza bersaniana, «se non sono più che immacolati, alle accuse di Matteo seguono quelle della gente, dei grillini e in questo clima meglio lasciar perdere».
Sembra la fotografia di un partito paralizzato, ma l'impressione che ricava il sindaco di Firenze è tutt'altra: «Vogliono comandare loro, sempre e solo loro (gli ex ds, ndr), adesso si sono inventati anche Barca, ma facessero quello che vogliono: se preferiscono perdere per non allargare il perimetro oltre la sinistra, affari loro». Renzi in questi giorni si sente sotto attacco: «E nessuno mi difende, perché mi vivono come un corpo estraneo». Non lo consola il fatto che i vertici del Pd non abbiano difeso nemmeno Romano Prodi dagli attacchi di Berlusconi e dei suoi (lo ha fatto, due giorni dopo, solo Enrico Letta). E a qualche amico che lo invita ad andare avanti nella conquista del partito confida il suo vero timore: «Se continuano così, io rischio di ereditare una terra bruciata».
La tensione spezza gli ultimi fili del rapporto che legava Bersani e Renzi. Il segretario è arrabbiato e si sfoga così con i suoi: «Quello è un irresponsabile. Ha paura che io riesca a fare un governo che duri mentre lui vuole andare alle elezioni anticipate. Ma ha fatto male i suoi calcoli». Nonostante il buon numero di solerti pompieri che cercano di spegnere i mille fuochi che si accendono nel campo del Pd, il compromesso appare impossibile. Per tutto il giorno continuano gli attacchi dei bersaniani a Renzi. Solo Berlusconi li ha impegnati con la stessa intensità. Renzi non vuole replicare direttamente agli insulti. Ma c'è chi si chiede quanto potrà durare una situazione del genere. E il deputato renziano Angelo Rughetti offre una chiave di lettura di quanto sta accadendo: «È strano che Bersani non senta la necessità di fare in modo che le relazioni politiche in questa fase delicata vengano portate avanti anche con il contributo di chi ha preso il 40 per cento dei consensi e si affidi solo alla vecchia guardia».
È una delle critiche che vengono fatte al segretario, quella di procedere senza coinvolgere una parte importante del partito. E c'è chi, come l'ex parlamentare del Pd Peppino Caldarola, imputa questo modo di fare agli uomini più vicini al leader: «Gotor e gli altri che circondano il segretario dovrebbero ispirarsi a letture più liberali se non vogliono far degenerare la vita interna del Pd e passare alla storia come il più ottuso gruppo dirigente che la sinistra abbia mai avuto». E c'è anche un'altra accusa che viene rivolta a Bersani. Dai renziani, ma è condivisa dai dalemiani e dai veltroniani. È di nuovo Rughetti a spiegare di che cosa si tratta: «Mi piacerebbe che Bersani facesse più il segretario e meno il candidato premier. Tutti sanno che il governo di minoranza non esiste e non serve: un esecutivo che così non è utile e non va messo in pista». Già, però Bersani è seriamente intenzionato ad andare avanti con il suo governo di minoranza. Non spera che i grillini cambino casacca adesso, però è convinto che con il tempo alcuni lo faranno.

Corriere 16.4.13
Ideologia e apparato addio, le affinità di Matteo e Silvio Linguaggio spigliato e poco politichese La sfida tra i due è sullo stesso terreno
di Pierluigi Battista


Ne parla bene, ma solo quando sa che l'altro ha già perduto la chance di presentarsi come candidato premier. Berlusconi si scioglie in complimenti per Matteo Renzi, ma un minuto dopo aver saputo che non sarà lui il suo competitore. Renzi invece cerca sempre Berlusconi. Ha voglia di mandarlo «in pensione», vuole battagliare con lui in campagna elettorale. Contro di lui sente di poter vincere. Lo sfida, ora che Berlusconi ha annunciato che in caso di elezioni anticipate il centrodestra potrà sempre contare sul suo leader carismatico. A Berlusconi piace Renzi. Ma sa che piace soprattutto al suo elettorato. Ecco perché, sotto sotto, preferisce restare abbarbicato al dualismo con Bersani.
C'è un'asimmetria nel rapporto tra i due. Berlusconi intuisce che Renzi è l'osso più duro che possa capitargli. Renzi, che incarna il nuovo, che non è cresciuto nelle vecchie case ideologiche, che non demonizza l'avversario, che parla un linguaggio spigliato e poco «politichese», si può permettere di sfidare Berlusconi sul suo stesso terreno. Su una certa piacioneria, la gara è apertissima. Sulla scarsa o nulla appartenenza agli apparati, la somiglianza è fortissima. Renzi piace all'elettorato del centrodestra per lo stesso motivo per cui è detestato da una parte dell'elettorato tradizionale e più ideologizzato della sinistra. Dalle sue parti diffidano di lui perché non ha l'esperienza del Partito. Lo considerano un corpo estraneo. Esercitano su di lui la cultura del sospetto. Se è stato ad Arcore come sindaco di Firenze, allora nasce il sospetto che sia un emissario di Berlusconi nel campo dei «buoni». Va addirittura ad «Amici» di Maria De Filippi e in gioventù è stato ospite di Mike Bongiorno. Motivi sufficienti per viverlo come un alieno, uno che non ha fatto il cursus honorum, che non le stigmate della sinistra marchiate sul suo corpo e sul suo aspetto. Ergo, è un berlusconiano. E poi, lo sanno tutti: moltissimi elettori del centrodestra si sono messi in fila per votare Renzi alle primarie del Pd per poi, una volta assegnata la vittoria a Bersani, voltare le spalle e tornare nella propria casa (almeno in parte). Il che vuol dire che una parte dell'elettorato berlusconiano era dispostissimo a «tradire» l'un tempo amatissimo capo ma che, con la presenza del «comunista» Bersani e ben poco riscaldato dal moderatismo di Monti, è momentaneamente tornato all'ovile. Ma se ha tradito una volta, non potrebbe tradire anche al momento decisivo di un eventuale duello tra Berlusconi e Renzi? Tra due tipi che restano diversi, sia anagraficamente che come potenza economica (Berlusconi è un magnate della tv e Renzi un ex boy scout con una moglie insegnante).
Quando Renzi è messo ai margini, Berlusconi ne loda la diversità rispetto al resto del gruppo dirigente del Pd. Con lui non vale la celebre filiera «Pci-Pds-Ds-Pd». Dal punto di vista strettamente biografico non avrebbe dovuto valere nemmeno con Franceschini, ex Dc e non ex Pci. Ma Berlusconi aveva per lui la risposta pronta, la stessa adoperata per bollare Rosy Bindi (e persino Romano Prodi: «cattocomunista»). Con Renzi no, il giochino di incastrare l'avversario non vale granché. Anche se poi Berlusconi, nell'impeto di stabilire una differenza tra Renzi (quando è perdente) e gli altri del Pd, loda Renzi perché sarebbe un «socialdemocratico» mentre gli altri sono tutti, ancora, e inguaribilmente, «comunisti». Commettendo un errore ideologico e concettuale non proprio irrilevante, giacché Renzi è il meno «socialdemocratico» in un partito che invece, dopo Veltroni, si è nuovamente appesantito del fardello della vecchia sinistra socialdemocratica. Renzi un socialdemocratico? Non si direbbe.
A differenza dei «socialdemocratici», Renzi non pensa che le tasse siano «belle». A differenza di una buona parte della sinistra che in questi anni ha alacremente lavorato per costruire le condizioni di ripetute sconfitte, Renzi non è nemmeno «giustizialista». Dice che Berlusconi vuole mandarlo «in pensione», non «in galera», come vorrebbe una sinistra incapace di battere Berlusconi sul terreno proprio della politica e dunque incline a farsi dare un «aiutino» dalla mano giudiziaria. Tratti di somiglianza? Sicuramente tratti che non dispiacciono a chi ha creduto alla «rivoluzione liberale» di Berlusconi e oggi ne patisce il fallimento. Dirà pure «il nostro Matteo», ma in campagna elettorale Renzi, per Berlusconi, sarà l'osso più duro. Meglio il «comunista» Pier Luigi?

Repubblica 16.4.13
Orfini, della corrente dei “giovani turchi”: anche il sindaco di Firenze ha subìto attacchi duri, il partito si sta sfibrando
“Da Matteo parole inaccettabili, ma non èil solo basta con il gioco al massacro e i personalismi”


ROMA Insulti, attacchi, divisioni: il Pd è diventato un vietnam, Orfini?
«Credo dobbiamo darci una calmata, stiamo affrontando una stretta politica in una fase drammatica per il paese e tutto serve tranne che l’immagine di un partito in cui si litiga e ci si manca di rispetto. Discutere va bene, ma facciamolo con garbo».
Renzi ha “rottamato” Finocchiaro e Marini in corsa per il Quirinale con parole pesanti?
«Renzi ha usato toni inaccettabili, ma non è l’unico ad avere adoperato toni inaccettabili».
Chi altro?
«Basta cercare sulle agenzie di stampa e anche in archivio: vorrei smettere unilateralmente questo gioco al massacro e stare al merito delle questioni poste».
Qual è la posta in gioco di questo scontro?
«Innanzitutto scegliere un presidente della Repubblica tenendo fermi alcuni criteri: non puntare su quello che piacerebbe di più alla nostra parte, ma incrociare un consenso più largo. Il secondo paletto è che sia una personalità di sicura esperienza politica, perché la fase è delicatissima. Il terzo è che sia una personalità riconosciuta a livello internazionale, che abbia credito. Se teniamo fermi questi presupposti, qualunque nome che li interpreti va bene. Se riuscissimo a discutere senza insultarci e dividerci in tifoserie, sarebbe meglio».
Sottovaluta quel che davvero accade nel suo partito: non vede il rischio di una scissione?
«Penso di no. Renzi e io, che siamo geograficamente ai poli opposti nel Pd, siamo consapevoli che passeremo i prossimi decenni nelle file Democratiche. Certo si sta sfibrando il tessuto unitario del Pd: molti interpretano questa fase sulla base dei propri interessi individuali o di parte, senza guardare all’interesse del paese e dello stesso Pd. È molto pericoloso. Oggi non dobbiamo fare il congresso, né discutere di leadership o partire con nuove primarie, ma stiamo cercando di eleggere il presidente della Repubblica e un presidente del Consiglio per dare stabilità al paese».
È vero che D’Alema ha cercato di convincere Bersani a fare un passo indietro e a favorire un governo di scopo?
«Non lo so. Ma non credo ci sia il problema di un passo indietro di Bersani, il quale ha sempre detto che se c’è una soluzione diversa dalla sua - ma che interpreta l’idea del cambiamento - sarebbe il primo a farsi da parte. Questa soluzione non è emersa e non c’è. E mentre, sulla presidenza della Repubblica è necessario l’accordo largo, una maggioranza di larghe intese non renderebbe un governo più forte ma lo indebolirebbe, perché i problemi del paese non si risolvono con Berlusconi».
Andiamo a elezioni anticipate?
«Speriamo si possa dare vita a un governo di cambiamento, se così non fosse, tra un papocchio paralizzante e il voto, meglio il voto ».
Con Bersani candidato premier o con Renzi?
«Ci saranno buone primarie e vediamo chi si candiderà. Però serve un Pd più grande con Sel, con movimenti civici, con i sindaci, con Pisapia. Il fatto che Barca e Rossi Doria si siano iscritti al Pd già mostra l’idea di partito più grande e che si apre».
(g.c.)

Repubblica 16.4.13
E Bersani va al contrattacco del sindaco “Vuole ridurre il partito in macerie”
Il segretario esclude un passo indietro. Partito a rischio implosione
di Goffredo De Marchis


ROMA  «È un’altra ferita al Pd. Purtroppo, l’unico che pensa al suo destino personale è proprio Renzi. Sta cercando di orientare la scelta che gli conviene di più, quella che lo porti al voto subito». La facciata di Pierluigi Bersani racconta di un leader che minimizza, che si «aspettava tutto questo», che «ne ha viste di peggio», che sapeva come la partita del Quirinale «provochi il massimo di tensione nei partiti». A costo di sentire i critici, sempre più numerosi, che si passano la voce di un «segretario che non reagisce, che non batte un colpo». Ma i colloqui privati descrivono un Bersani furibondo con il sindaco di Firenze e pronto alla sfida finale. «Quelle di questi giorni sono chiacchiere di cui io sono la prima vittima. Sgradevoli, ma sempre chiacchiere. Poi, arriverà la riunione dei gruppi parlamentari sul voto per il Colle. Vediamo se i renziani accettano la decisione della maggioranza. Se ci mettono la faccia, come dice sempre Matteo, o preferiscono rifugiarsi nella schiera dei franchi tiratori».
Il Partito democratico si salva dalle macerie solo se trova la quadratura del cerchio sul Quirinale. «Se usciamo compatti da quel rebus, si aggiusta anche il Pd», dicono a Largo del Nazareno. Anche Renzi si darà una calmata «perché se punta alla leadership o alla premiership non può pensare di costruirla sulle rovine». Ma il messaggio di Bersani al sindaco di Firenze, ancora oggi, a 48 ore dalla riunione delle Camere in seduta comune non cambia: le carte le dò ancora io e dopo aver trovato un nome condiviso poi la proposta rimane il governo di cambiamento. Con Bersani candidato naturale alla guida.
Bersani ha evitato pure la difesa pubblica di Anna Finocchiaro e Franco Marini. Li ha chiamati al telefono e nel duello contro Renzi gli ha garantito: «I vostri nomi restano nella rosa del centrosinistra. Lavoriamo anche su di voi». I dirigenti ferocemente attaccati da Renzi non hanno chiesto al segretario una presa di posizione ufficiale. «Ci pensiamo da soli». Neanche lui ha risposto alla critica ripetuta di pensare solo agli affari propri, quella che lo ferisce di più. «Confermo: se sono di intralcio lascio. L’ho detto mille volte. E ricordo che 15 mesi fa ho detto di sì al governo Monti rinunciando a una vittoria sicura e netta. Alla faccia delle ambizioni personali».
Ma è chiaro che Bersani deve fare di più per tenere unito il partito. Dopo lunghe telefonate con Enrico Letta, il vicesegretario è andato in televisione a spedire due segnali molto chiari: «Il Pd ha bisogno di rimanere unito». Anche nell’interesse di Renzi. Il giorno dopo l’elezione del capo dello Stato, per il governo si riparte da zero e Bersani
si rimette in gioco. Finocchiaro e Marini paragonano Renzi a Grillo: «Usa gli stessi argomenti ». Ma l’accusa di grillismo non spaventa il sindaco. Il Movimento 5stelle ha sfondato nell’elettorato giovanile tra i 18 e i 25 anni. La chiave generazionale continua a essere decisiva nella strategia di Renzi.
Che la stessa chiave possa avere successo dentro il Pd, negli equilibri interni appare più difficile. Matteo Orfini, leader dei Giovani Turchi, non si fa sedurre dagli attacchi ai “vecchi” «Si possono trovare altri candidati sia per il congresso sia per
la corsa a Palazzo Chigi. Io per esempio vedo bene Fabrizio Barca più per la seconda che il primo». Per certi versi Orfini usa lo stesso linguaggio del sindaco. «Il Pd è uscito male dalle elezioni, questo è il punto. Tutto ciò che è successo dopo è la conseguenza di un risultato elettorale negativo». Tra Renzi e Barca la componente di Stefano Fassina e Orfini potrebbe cercare un baricentro diverso, un nome nuovo per la segreteria. L’ago della bilancia prima era Bersani, oggi, secondo i Giovani turchi, non più. Ma prescindere da Renzi appare a tutti impossibile. Ha occupato la scena, si è messo al centro della partita sul Quirinale e ha creato le condizioni perché Bersani arrivi indebolito alla scelta del candidato per il Colle. «Se il nome ci viene imposto da uno dei due blocchi, o Grillo o Berlusconi, il Pd, dal giorno dopo, rischia davvero il tutti contro tutti», dice uno dei dirigenti.

l’Unità 16.4.13
Quirinarie, la beffa della democrazia
Chiedono la guida del Copasir ma non sanno garantire trasparenza su nulla
E la Lombardi ignora pure l’età minima del Capo dello Stato
di Toni Jop


Hanno finito di votare alle 21 di ieri, ma sapremo sappiamo? oggi. Dopo che i due padroni del convento avranno riscaldato i risultati sotto il loro cuscino. Grillo e Casaleggio sapevano già, o erano in grado di saperlo, in prima serata; a tutti gli altri che siamo anche noi, il nome viene comunicato un pacco di ore dopo, quando garberà ai titolari. E nessuno, dei fedelissimi, si arrabbia, nessuno manda in frantumi la cristalliera di questa «nuova» politica che pretende di appendere tutte le altre agli alberi dei viali della storia. Col cartello della ignominia, come si usava in altri tempi bui.
Sì, c’è chi protesta, c’è chi si ribella a questa gogna, su e giù per i blog. Ma non è una rivolta, democratica come dev’essere, contro lo schema messo in pratica dalla premiata ditta in questa occasione. Vorrebbero il Copasir nella loro disponibilità, ma come se la caverebbero con i segreti di Stato, con i segreti che lo Stato, per mille ragioni, non ha mai voluto rendere trasparenti allo sguardo degli italiani? Direbbero: vediamo se domani vi potremo dire qualcosa di quello che vogliamo noi? Perché anche in occasione della scelta del nome da mettere in gioco per il Colle hanno lavorato nel modo meno limpido a disposizione.
Altro che democrazia diretta. Votate sul mio blog, che poi vi faccio sapere. Quel che serve, i nomi, ecco. Tanto c’è qui questa agenzia che attesta come le cose siano fatte in modo corretto. Non vi dirò quanti hanno votato, né quanti voti hanno ricevuto i singoli nomi della rosa iniziale: vi basti il nome, il resto lo tengo per me. Magari, in corso d’opera, il mio socio sparerà su qualche petalo della rosa tanto per far comprendere bene come non ci vada, non vada a me e al mio socio, che si punti su questo o su quel candidato, concentratevi sugli altri e lasciate cadere le fesserie che avete suggerito nella prima tornata.
Ottimo: questa è vita, non quella garantita dalla fetida democrazia rappresentativa. Ma li sfiora almeno il sospetto che il ritardo abissale imposto alla comunicazione del candidato finale al Quirinale è paurosamente illiberale, che genera ombre, che le proietta sulle intenzioni e sulla cultura che muovono i piani alti del convento Cinque Stelle? Lo sanno, lo sentono nelle ossa, che se un titolare di regìa screma in previsione, non a consuntivo, le qualità dei candidati, influenza il gioco in modo discretamente putrido? Su altro, invece, mentre «inguattano», sono chiarissimi: non vogliono sentire, nelle candidature, puzza di politica, echi di rappresentatività passate, bollite, putrefatte.
Vogliono roba fresca, giovane, addirittura, invoca la cittadina Lombardi alla radio. La capogruppo Cinque Stelle alla Camera, quella che chiede ai passanti del web come cavarsela dopo aver perduto gli scontrini della sue spese d’ufficio, vuole un presidente giovane ma non sa esattamente a quale livello sia posta l’asticella, a proposito dell’età, dalla Carta Costituzionale. Ed è capogruppo. Seguiamola senza orrore fariseo: ogni volta che le Iene vanno a tastare il polso ai signori deputati e senatori di qualunque formazione politica, giusto per capire cosa sanno del mondo che li circonda, i risultati sono sconfortanti, più che deludenti.
Ma i Cinque Stelle sono il nuovo, i giudici, gli esecutori delle sentenze, quelli ai quali devi dimostrare di essere cambiato, di esserti mondato dei tuoi «peccati» se vuoi persino il loro saluto. Grillo non avrebbe mai potuto gareggiare per il Colle, secondo i dettati interni del suo Movimento. Lo hanno votato, si è ritirato, nessun altro ha preso il suo posto ma la capogruppo trova spazio per un atto di elegante servilismo: “Bel gesto di responsabilità”, annota. E il capino si abbassa rispettoso.

l’Unità 16.4.13
Michele Serra: «I grillini, spaventati e prigionieri dei loro capi»
«I miei preferiti sono Bonino e Rodotà. Anche Zagrebelsky è un candidato forte ma il centrodestra lo odia più dei comunisti»
La rosa di nomi del M5S è tutta di sinistra, ma se lo riconoscono perdono consensi a destra
intervista di Natalia Lombardo


Michele Serra ci ha provato a far capire a Beppe Grillo e al movimento Cinque stelle che la politica non è poi una parolaccia, a convincerli perché non sprecassero l’occasione di mettere in moto un rinnovamento anche nel governo e quindi a dare fiducia a Bersani, dal momento in cui il Parlamento è stato ringiovanito e scosso proprio da loro.
Serra, editorialista de L’Espresso e autore de «L’Amaca» su Repubblica, ha debuttato come autore satirico su l’Unità, con Tango e con Cuore, ma ha anche lavorato con il comico genovese per alcuni suoi spettacoli e presenze in tv. Di Grillo, quindi, conosce le armi comunicative, mentre il comico ricicla come slogan le battute scritte per lui dal giornalista. La più nota è quella usata contro i media: «L’unico giornale del quale mi fido è la Settimana Enigmistica».
Tu sei tra i primi firmatari dell’appello «Facciamolo», per consentire la nascita di un «governo di alto profilo» che realizzasse il cambiamento. A questo appello il Movimento Cinque Stelle non ha risposto, anzi ha agito in modo contrario rifiutando il dialogo. Alla luce di questo, come valuti le mosse dei grillini nei primi cinquanta giorni al Parlamento?
«Mi sembrano soprattutto spaventati, diffidenti, come chi arriva in un territorio ostile e teme di essere contaminato. Avere una leadership (Casaleggio e Grillo) che incrementa questa separatezza, e anzi su questa separatezza ha costruito il proprio trionfo elettorale, non aiuta».
Come giudichi l’atteggiamento del M5S sulla partita del Quirinale? E quale significato ha, secondo te, la rosa di nomi che è uscita, o è stata fatta uscire da chi gestisce il blog, dalle «Quirinarie»?
«La rosa è nel complesso ottima, ma li inchioda e in un certo senso li smaschera: è una rosa di sinistra (con la sola eccezione di Grillo), sembra un bigino perfetto delle varie componenti della sinistra italiana. Non c’è un solo candidato di destra. Si vede che il mantra “destra e sinistra sono uguali” non può essere abbandonato neanche di fronte all’evidenza. Serve a mantenere compatto un gruppo che, dovesse esprimersi sulle scelte, sarebbe otto volte su dieci d’accordo con la sinistra, e finirebbe per perdere ogni appeal sull’elettorato di destra che l’ha votato».
Che ne pensi delle candidature in campo per la presidenza della Repubblica e qual è la tua preferenza?
«La mia preferenza è per Emma Bonino e Stefano Rodotà. È un candidato forte anche Gustavo Zagrebelsky, ma inaccettabile dal centrodestra nella sua interezza perché incarna l’odiato “azionismo torinese”: più odiato da questa destra degli stessi comunisti».
Tu recentemente hai scritto che in politica la parola «compromesso» non è sempre negativa. In questo senso credi che la scelta della carica più alta dello Stato debba essere condivisa al massimo? «Beh certo, il Capo dello Stato è come il Re, simbolo dell’unità nazionale e garante della Costituzione. Ma non credo che l’una e l’altra di queste funzioni siano bene inquadrate da Berlusconi e dal berlusconismo. Per non dire da quello che rimane del leghismo, antistatale, antiunitario, nemico dell’unità repubblicana».
È in atto un durissimo scontro nel Partito democratico, come lo valuti?
«Ci capisco poco e la cosa peggiore è che, a questo punto, mi interessa poco. È come se fosse un elemento minore di una crisi così vasta e drammatica che nessuno può pretendere di esserne il protagonista. Si mettano d’accordo e ci facciano sapere, io sono solo un elettore del Pd, e neanche così fedele da garantire il mio voto in eterno. Ho già votato Sel una volta, se vanno avanti così lo rifaccio, così almeno mi distraggo».

il Fatto 16.4.13
Swg: per il 62% degli italiani M5S sta sbagliando


L’ITALIA si divide sulla strategia parlamentare del Movimento 5 Stelle: per il 62% degli italiani la linea politica della formazione guidata da Grillo, orientata a rifiutare qualunque tipo di accordo su governo e Quirinale, è sbagliata. É quanto emerge da un sondaggio realizzato dall’Istituto Swg in esclusiva per la trasmissione Agorà.
Il 76% degli intervistati che si è definito votante del MoVimento è però soddisfatto della direzione di marcia che hanno intrapreso i 5 Stelle. L’istituto di sondaggi ha anche chiesto una valutazione sui parlamentari M5S. Per il 43% degli italiani gli onorevoli “cittadini” si stanno dimostrando uguali a tutti gli altri. Un’ampia fascia (92%) dell’elettorato grillino crede, invece, che si stiano distinguendo dai loro colleghi.

il Fatto 16.4.13
New York Times: ”M5S anti-sistema, pericolo per Europa”


LA BOTTA arriva dall’America. Il New York Times scrive che “il vero pericolo per l'Europa è che formazioni come il Movimento 5 Stelle in Italia aumentino, e che gli elettori e i leader dei Paesi in difficoltà considerino sempre meno importante l’adesione all’euro”. È quello che si legge in un editoriale pubblicato dal quotidiano statunitense, in cui si sottolinea come il crescente sentimento antieuropeo sia il frutto della “medicina amara” imposta ai cittadini del Vecchio Continente. “Una medicina - scrive il Nyt - che sta uccidendo il paziente”. “Per più di quattro anni - prosegue l’editoriale - i leader europei hanno spinto per un mix di austerity e riforme strutturali nei Paesi più in difficoltà come Portogallo, Spagna e Italia”. “Ma fin dal primo momento è stato chiaro che austerity e riforme strutturali insieme non sarebbero stati possibili in un periodo di profonda recessione. E questa realtà dolorosa si sta ora sviluppando senza che si intravveda una fine all’orizzonte. Gli italiani frustrati - conclude - hanno votato in gran parte per un movimento anti-sistema, col risultato di non avere ancora un nuovo governo quando dalle elezioni è oramai passato più di un mese”.

il Fatto 16.4.13
Movimento. Sul tavolo la carta di Grillo da giocare con il Pd
di Paola Zanca


STRADA, RODOTÀ O ZAGREBELSKY: OGGI IL VERDETTO CASALEGGIO: “SE LA RETE INDICA PRODI, NOI LO VOTIAMO” SULLA QUARTA VOTAZIONE IPOTESI LIBERTÀ DI COSCIENZA

Il buongiorno, per i Cinque Stelle, arriva di mattina tardi. Precisamente intorno a mezzogiorno quando il blog – salvo cambi di programma – dovrebbe pubblicare il nome del candidato del Movimento alla presidenza della Repubblica. E l'andazzo di questo martedì pre-quirinalizio dipende molto dal profilo che gli attivisti del Movimento avranno disegnato. Gino Strada, Stefano Rodotà o Gustavo Zagrebelsky? Con quale carta si presenteranno al tavolo del Pd? La strategia degli eletti, nei giorni scorsi, era stata quella di provare a concentrare voti sui secondi due: giuristi di alto profilo, vicini al mondo di centrosinistra, buoni per tentare di costruire quel rapporto con i democratici che non si è mai avviato. Eppure, dal ballottaggio che si è chiuso ieri sera alle 21, l'exploit di Strada non sorprenderebbe nessuno. Il voto si è “disperso” tra Rodotà e Zagrebelsky (ieri, sul blog di Grillo Marco Travaglio ha spiegato che è l’unico a cui non ha trovato “controindicazioni”). E poi tutti quelli che avevano scelto Beppe Grillo, da quando il capo si è ritirato - “ringrazio per la stima tutti coloro che hanno fatto il mio nome”, ha scritto – hanno sicuramente preferito il rivoluzionario chirurgo di Emergency ai due saggi esperti di diritto. Così, il travaso da Grillo a Strada potrebbe complicare la strada per il Colle. I Cinque Stelle sanno di trovarsi di fronte a uno dei momenti più difficili della loro breve vita parlamentare. E sanno che stavolta non si può sbagliare. A ricordarglielo c'è Gianroberto Casaleggio: il guru che non parla mai, ha deciso di pronunciarsi niente meno che a urne aperte: “Il Presidente della Repubblica deve essere super partes, possibilmente non politico, che rappresenti tutti gli italiani”. Fa fuori in un colpo Prodi e Bonino, salvo precisare poi che “noi ci rimettiamo sempre alle decisioni del Movimento, per cui se il Movimento dovesse scegliere Prodi, voteremo lui... ”.
IL VERO NODO riguarda la quarta votazione. Se vince Strada, addio dialogo con il Pd e addio pace interna. Si è già visto ieri, quando la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi si è permessa di dire in conferenza stampa che i Cinque Stelle continueranno “a votare il nostro candidato anche se non avrà i voti sufficienti per l’elezione e non voteremo altri candidati”. Deputati e senatori non l'hanno presa bene: “Si mette a parlare di cose di cui non abbiamo mai discusso, ma come le viene in mente? ”. In assemblea, ieri, la discussione (e l'ennesimo processo alla Lombardi) è cominciata. Ma non si è ancora arrivati ad un voto (probabilmente si farà oggi). Lo spauracchio è quello di un caso Grasso/bis. “Speriamo di aver imparato dagli errori – spiegano a Montecitorio – Se si vuole libertà di coscienza, basta votarla”. Tradotto, se l'assemblea si spacca, se una parte di parlamentari crede sia giusto votare uno come Prodi, l'unico modo per evitare di cadere nel tranello dei franchi tiratori è stabilire il “libera tutti”. Non sarà facile far passare questa linea, decisamente poco nello spirito del Movimento. Eppure, la pressione della Rete sembrerebbe piuttosto relativa: tra una chiacchiera e l'altra, dalle bocche dei parlamentari esce un numero assai risibile. Alle Quirinarie avrebbero votato circa in 20mila. Bisognerà aspettare i dati certificati dalla Dnv, l'ente terzo a cui si è affidato Casaleggio, ma non è ancora chiaro se verrà mai diffuso il numero degli elettori né tantomeno se verrà resa pubblica la classifica completa dei candidati. Oggi, i capigruppo Cinque Stelle incontrano i presidenti degli eletti Pd, Luigi Zanda e Roberto Speranza. I grillini hanno chiesto che venga trasmesso in diretta streaming. Vito Crimi è convinto che il nome uscito dalle Quirinarie “potrà essere votato anche da tutti gli altri partiti”. Lo ha spiegato ieri sera a Porta a Porta. Ebbene sì. Il capogruppo al Senato si è seduto sulle poltroncine bianche del salotto di Bruno Vespa. Prevedendo le urla allo scandalo, Crimi ha spiegato le ragioni del “sacrilegio”: “Porta a Porta, oggi, ha invitato il senatore Mastrangeli, che i più ricorderanno per la sua partecipazione al programma di Barbara D’Urso, il quale ha accettato. I senatori portavoce del Movimento Cinque Stelle hanno ritenuto, in un momento così delicato per il Paese come quello che coincide con l’elezione del Presidente della Repubblica, che a parlare su un palcoscenico così seguito non dovesse essere chi diffonde informazioni parziali in rappresentanza solo di se stesso”.

Repubblica 16.4.13
Il guru agli imprenditori “Lo Stato costa troppo tagliamo i dipendenti”
Incontro a Torino: “Non chiedeteci miracoli”
di Paolo Griseri


TORINO — Alla fine, quando proprio tutti hanno portato al microfono le storie della dura vita del piccolo imprenditore, Gianroberto Casaleggio deve alzare le braccia: «Anche io ho la mia piccola azienda. Sono uno di voi. Solo che da un po’ di tempo non ho vita privata e ho finito per giocarmi anche la reputazione a causa delle falsità scritte dai giornali su di me. Capisco le vostre richieste: gli apicoltori e i piccoli produttori distrutti dai supermercati. Siamo sulla vostra stessa lunghezza d’onda. Ma, per favore, non chiedeteci i miracoli: non abbiamo poteri soprannaturali».
Mentre fuori dalla sala impazza il toto-Presidente, nell’incontro con gli industriali alla Galleria d’arte Moderna di Torino, Casaleggio affronta l’argomento solo indirettamente. Giacca, cravatta e capelli sciolti, del Colle parla solo per dire che costa troppo. Messi fuori i giornalisti dalla sala, Casaleggio spiega che «dovremo tagliare ». Sotto la scure finiscono le spese del Colle perché «l’Eliseo costa tre volte il Quirinale e non si può certo dire che i francesi non ci tengano al loro presidente». Nonostante la grandeur, il Colle ha costi fuori mercato. Non sono gli unici da segare via. «Voi sapete quante sono le auto blu? ». Gli imprenditori in sala (147 per la precisione, più quattro cronisti infiltrati)) tacciono. Casaleggio spiega: «Sono 7 mila. Ma non sono l’unico costo da tagliare». Il vero spreco si annida infatti «nelle 59 mila auto grigie. Chi sa che cosa sono le auto grigie? ». Si alzano cinque mani. «Le auto grigie sono quelle senza autista. Un costo che si può eliminare. Si risparmiano così 800 milioni. Dal calcolo abbiamo tolto le auto delle forze dell’ordine ». Ma nel calcolo sono comprese le auto dei messi comunali e delle guardie mediche? Non si sa.
Perché la scure? Certamente per eliminare gli sprechi: «A parità di dimensione, la spesa pubblica italiana è superiore di 20 miliardi a quella degli altri paesi europei ». Venti miliardi. Non una cifra casuale: «Sapete qual è il gettito complessivo dell’Irap? Esattamente venti miliardi». Ergo, spiega Casaleggio, niente sprechi, niente Irap. Naturalmente per raggiungere l’obiettivo non basta rottamare le auto blu e grigie: «Bisogna anche abolire i Comuni sotto i 5.000 abitanti e le Provincie». Applausi. Fino a quando il signor Flavio Bonifacio, «titolare di una piccola azienda nel campo della ricerca» va al microfono e chiede: «Nei Comuni e nelle Provincie c’è gente che lavora. Se abolite quegli enti, che fine fanno i dipendenti? Io vi ho votati alle ultime elezioni. Ma adesso quei voti vi chiederei di usarli». «Ecco sì», incalza un altro dalla platea: «Perché non fate sapere alla gente quel che state facendo? Oggi tutti pensano che lo stallo della politica sia colpa vostra».
Casaleggio ha il suo bel da fare a rispondere a questi interrogativi: «Lo Stato mantiene 19 milioni di pensionati e 4 milioni di dipendenti della Pubblica amministrazione. In tutto, 23 milioni di persone. Fino a quando saremo in grado di garantirli?». Ecco dunque la proposta di «tagliare le pensioni al di sopra dei 5.000 euro lordi mensili». Quanto allo stallo della politica, l’unica ricetta è «far funzionare da subito le commissioni parlamentari». Altrimenti, «se aspetta il nuovo governo, il Parlamento potrà cominciare a lavorare solo a settembre». Perché tenere fuori i giornalisti dalla sala? Perché non comunicare attraverso tv e giornali? «Perché le 7 tv principali sono in mano ai partiti. E i tre giornali principali sono della Fiat, delle banche o vicini al Pd». Per questo, spiega Arturo Artom che con il nework Confapri organizza la manifestazione, «l’incontro di oggi è a porte chiuse. Perché magari ci sono argomenti che non volete discutere alla presenza dei giornalisti che sono oltre quella porta». Riservatezza imprenditoriale. E si capisce. Altrimenti chissà che cosa succederebbe se i giornali potessero assistere alle invettive della signora che dalla platea incalza Casaleggio: «Perché non ci portate a Roma con voi? Veniamo a darvi una mano. La polizia non ci fa entrare in Parlamento? Ma noi veniamo lo stesso e li prendiamo tutti a sassate...naturalmente in senso metaforico. Io sono per la non violenza. Sassate metaforiche per evitare che noi commercianti moriamo di tasse ».

il Fatto 16.4.13
Romano al Colle? “All’80%” per il fratello. “Mai” per Becchi


Secondo me Romano ha l’80% di possibilità di diventare Presidente della Repubblica”. A dirlo non è un sondaggista ma il fratello dell’ex presidente della Commissione europea, Franco Prodi, ai microfoni del programma di Radio2 “Un Giorno da Pecora”. “Sarebbe da stupirsi se non ce la facesse” dice Franco che si appella a Berlusconi: “Se ci ripensasse lo voterebbe alla prima elezione, perchè Prodi è sempre stato un avversario leale e non è vendicativo, è la persona più buona e dolce del mondo”. Eppure sembra quasi che il Cavaliere tema qualche ritorsione politica nei suoi confronti. “Romano non lo ha mai fatto, Berlusconi lo sa benissimo che lui è l’ultima persona da temere” dice Franco. Ma quando chiamano Romano “Mortadella”, a lei dà fastidio? “No, per niente, siamo emiliani ed i salumi mi piacciono”. Come lo chiamate in famiglia? “Da piccolo ci chiamavano Bibì e Bibò, io ero Bibì e lui Bibò”. E ora come lo chiama? “In privato lo chiamo Rommy”.
Poi si arriva al famoso incontro con Beppe Grillo e si scopre che erano vere e proprie lezioni: “Quindici o venti anni fa Grillo era andato a trovare a casa mio fratello per parlare di economia. Nei suoi primi spettacoli, infatti, Grillo cominciò a introdurre il tema dell’economia, e chiedeva lumi a mio fratello”. Insomma, di Prodi allora si fidava. Chi invece non si fida – e anche lui lo confessa ai conduttori di Radio2, Lauro e Sabelli Fioretti – è il professore di Filosofia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova, vicino al Movimento 5 Stelle, Paolo Becchi: “Come Presidente della Repubblica io voterei per Rodotà o per Zagrebelsky – dice Becchi – entrambi sono persone di prestigio ed entrambi metterebbero in discussione ed in difficoltà il Pd”. Ma di prodi guai a parlarne: “Secondo me è stata una provocazione oppure un grandissimo errore del Movimento”, dice Becchi, “Prodi rappresenta tutto ciò che c’è di vecchio in questo paese, è un nemico del M5S e del popolo italiano. Se fosse lui il nome scelto alle Quirinarie io scompaio dalla circolazione non sarei più un simpatizzante del Movimento”.

il Fatto 6.4.13
Cgil: questi i numeri su come hanno demolito la scuola


“DIETRO IL PARAVENTO dell’ottimizzazione della spesa si è celata una gigantesca operazione di tagli sconsiderati che ha inciso sulla qualità del servizio pubblico e sul tempo scuola”, scrive il sindacato Flc, che all'interno della Cgil cura il comparto scuola. Qualche numero per spiegare la denuncia: dal settembre 2008 al settembre 2013 il numero degli alunni (si prende in considerazione la fascia compresa tra la prima elementare e la quinta liceo) è cresciuto di 90.990 unità. Secondo le regole base, si sarebbero dovuto assumere 9.000 insegnanti in più. Al contrario ci sono stati 81.614 docenti in meno. Inoltre sono diminuite, per 9.285 unità, mentre ne sarebbero servite altre 4.500. Tutto ciò nonostante la più bassa percentuale in Europa di spesa pubblica in istruzione, l'Italia ha tagliato in ogni ciclo scolastico.

l’Unità 16.4.13
Ustica, spunta un secondo testimone: vide la portaerei
di Salvatore Maria Righi


«I miei colleghi che salivano sulla scaletta del Dc9 e noi che scendevamo, ci siamo incrociati come tante altre volte: non dimenticherò mai quei volti, li ho stampati nella memoria». Era una ragazza ed ora è una donna, sono passati 33 anni da quella sera, 27 giugno 1980. Lei era una hostess precaria dell’Itavia e aveva portato, insieme al suo equipaggio, il Dc9 a Bologna per il penultimo volo di giornata. L’ultimo, il sesto, prevedeva il ritorno a Palermo: si è fermato per sempre a 50 chilometri da Ustica, negli abissi blu. Doveva esserci anche lei, sopra, e tra le 81 vittime del disastro. Ma lei scese, dopo aver visto il comandante Gatti e l’ufficiale Fontana entrare in cabina, e con loro il capo degli assistenti di volo sistemare le proprie cose e accendersi una sigaretta. Scese dall’I-Tigì dove avrebbe dovuto rimanere e finire la giornata, e tornò a casa: «Dal controllo Charlie di Bologna mi avevano chiesto di rimanere a bordo e tornare indietro perché mancava una persona, ma non me la sono sentita e ho detto no, nonostante il fatto che una precaria debba sempre dire sì. Infatti fu sempre così, a parte quella volta. Non so spiegarmi perché, non ci fu un motivo preciso, ma quel rifiuto mi ha salvato la vita. È un peso che mi porto dentro da allora». Negli ultimi giorni il peso è diventato un po’ più leggero, anche se le preoccupazioni sono aumentate, perché ha deciso di raccontare quello che nessuno, fino adesso, le ha mai chiesto di ricordare.
MAI CONVOCATA
Nessuno ha pensato di sentire quell’assistente di volo alla quale non fu rinnovato il contratto e passò poi ad Alitalia. Eppure faceva parte dell’ultimo equipaggio che portò a terra il Dc9 di cui fu detto tutto e il contrario di tutto, compreso che fosse una carretta del cielo: «Non è vero, andava tutto benissimo, non avevamo nessun problema». Il 27 giugno, l’I-Tigi fece sei voli con sei equipaggi diversi, ma solo alcuni tra comandanti e assistenti di volo furono sentiti dagli inquirenti. Eppure proprio lei, la giovane hostess che col tempo ha maturato una specie di senso di colpa umano e inconscio, verso i colleghi perduti, di cose da dire ne avrebbe avute. Una, in particolare, molto interessante. Che conferma, tra l’altro, quello che ha riferito nei giorni scorsi un ex pilota Alitalia (all’epoca Ati) ai magistrati che guidano la nuova inchiesta: anche lei, del resto, sarà sentita a breve dai magistrati. «Il giorno prima del disastro volavamo su un altro Dc9 e sopra al mare aperto, ad un certo punto, dal finestrino della cabina vidi sotto di noi un’enorme nave, circondata da altre messe a spina di pesce. Il pilota mi disse che poteva essere una portaerei americana. E poi mi disse: meno male che ci siamo noi, piloti veterani, altrimenti ci silurano». Forse il pilota scherzava, ma lei ricorda che la grande nave «aveva delle strisce, o per meglio dire dei tracciati come segnaletica». Era proprio il volo 870, quello che il giorno dopo, il 27 giugno, si inabissò nel mare. E come il volo del disastro, anche loro stavano arrivando a Palermo.
L’unica nave da guerra che corrisponda a quella descrizione, non è difficile immaginarlo, è proprio la portaerei che ha sul ponte la segnaletica necessaria al traffico degli aerei. Di portaerei aveva parlato anche il pilota sentito dal pm Erminio Amelio e dalla collega Maria Monteleone. Uno scenario di manovre militari che è stato sempre negato da tutti, dall’Italia e da tutti gli altri paesi dell’Alleanza, alla comparsa del documento Nato che parla di 21 aerei in volo quella notte. Sulle portaerei, in particolare, americani e francesi sono sempre stati perentori. La Saratoga a stelle e strisce, secondo il Pentagono, è rimasta ormeggiata in rada a Napoli dal 23 giugno al 7 luglio di quella tragica estate. Il registro di bordo, però, riporta una stranezza proprio il 27 giugno, perché i turni di guardia sono stati firmati con nomi diversi, ma con la stessa calligrafia. Anche i francesi, accusati per ultimo da Cossiga, hanno sempre negato che le loro portaerei Clemenceau e Foch fossero nella zona. Ma anche nel caso dei cugini d’Oltralpe, c’è una stranezza nei diari di bordo delle due navi: su quello di entrambe, infatti, il 27 giugno è stato scambiato col 28. Sono crepe nel muro di gomma e forse possono diventare qualcosa di più, dopo che la Cassazione a fine gennaio ha sgombrato ogni dubbio: «È abbondantamente e congruamente motivata la tesi del missile». Il problema, ora, è metterci la targa.

il Fatto 16.4.13
La Roma di Alemanno come romanzo criminale
di Valeria Pacelli


AFFARI E CRESTE, CRIMINE ORGANIZZATO E APPALTI, LO SVELA UN’INCHIESTA DI REPORT. ALEMANNO QUERELA: “MENZOGNE”

È Massimo Carminati, il “nero” di Romanza criminale (che racconta la Banda della Magliana), il nome che tuona nell’inchiesta di Report “Romanzo Capitale”. Domenica la trasmissione di Milena Gabanelli ha raccontato la collisione tra l'amministrazione comunale e mafie romane. Che adesso entrano negli appalti pubblici, anche nell’affare metro C. Si tratta di una torta dal costo totale di 3,5 miliardi di euro, troppo appetitosa per non attrarre interessi. Ed è in questo ambito che un imprenditore, rimasto anonimo, racconta a Report i rapporti tra Riccardo Mancini (ex Avanguardia Nazionale), braccio destro di Alemanno, ora in carcere, e Carminati, ritenuto il capo più rispettato della criminalità organizzata a Roma. Carminati all’età di 55 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Accusato dell’omicidio Pecorelli (poi assolto) e arrestato per decide di rapine e omicidi, del passato porta un segno indelebile: un colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere, che gli è valso il soprannome di “Ceca-to”. “Nel 2008 – racconta la fonte a Report- Mancini si mette al tavolo con le imprese e spartisce subappalti per realizzare la metro C. In cambio chiedeva dal 5 al 7%”. E ancora: “ Ci sono tanti giri di criminalità intorno alla metro C. Anche se Carminati lo si trova di più nel ramo “dimissioni del patrimonio del Comune”, che vuol dire anche le rimesse nell’Atac e alcune caserme che 3 anni fa sono tornate di proprietà del campidoglio”. Nel 2006 a vincere il bando per la metro C è il consorzio costituito da Astaldi, Vianini Lavori (del gruppo Caltagirone), Ansaldo Sts e il consorzio cooperative costruzioni. Poi Mancini avrebbe spartito i subappalti tra diverse aziende.
TRA QUESTE il Consorzio Stabile Roma Duemila che, in Ati con la Marcantonio Spa, ha ottenuto appalti per 16 milioni di euro. Presidente del Consorzio è Maurizio Marronaro, della stessa famiglia di Lorenzo Marronaro, (ex calciatore della La-zio e del Bologna), socio in affari con Marco Iannilli, commercialista di Lorenzo Cola, indagato per le tangenti dell’appalto romano sui filobus affidato a Fin-meccanica. “Il gruppo -continua l’imprenditore- subaffitta poi forniture alle società Fravesa, La Palma, Tripodi Trasporti. Tutte escluse per mafia ma solo dopo aver preso i lavori”. La Fravesa è di proprietà dell’imprenditore calabrese Giovanni Tripodi di Melito Porto Salvo. Nel 2010, a lavoro già affidato, riceve un'informativa interdittiva della Prefettura di Roma. La Palma srl invece dall'Ati Marcantonio-Consorzio ottiene tre appalti. Poi riceverà anche questa una misura interdittiva. Ma c'è di più. Perché nell'affare della metro C in totale ci sono state 5.265 richieste di informative antimafia, 12 interventi per bloccare gli appalti, 11 informative atipiche su aziende vicine ad ambienti criminali. Ora si apre il capitolo Carminati, che con Alemanno condivide il passato nelle file dei Nar. Proprio come molti che il sindaco ha portato nella propria amministrazione. Da Antonio Lucarelli, portavoce di Forza Nuova, diventato poi capo della segreteria del sindaco. A Stefano Andrini, condannato nel 1989 a 3 anni e mezzo, finito a dirigere l'azienda pubblica dei rifiuti. O anche Lattarulo, ex banda della Magliana, ora consulente per le politiche sociali. Intanto il sindaco ha già annunciato querela contro Report e sul suo blog ha aggiunto: “La Gabanelli se vuole, si candidi. In un documento confuteremo tutte le menzogne”. La giornalista risponde: “Nella sua replica Alemanno ha espresso una critica, ma non è entrato nel merito di nessuna questione”.

il Fatto 16.4.13
Acea, la campagna elettorale sul capitalismo alla romana
di Giorgio Meletti


Arriva il candidato sindaco di Roma Ignazio Marino, prende la parola e spara a zero contro Gianni Alemanno, che ha detto di non poter partecipare all’assemblea degli azionisti Acea perché impegnato a stilare la querela contro Report, che domenica sera ha fatto a fette il sindaco con un’inchiesta al fulmicotone di Paolo Mondani.
I PRETORIANI DI ALEMANNO, di cui l’Acea è piena, visto che il Comune controlla il 51 per cento della Capitale, si frappongono tra il senatore Pd e le telecamere, e promulgano una nuova legge: “Vietato girare interviste televisive dentro le sedi Acea”. Marino, che quando percepisce una telecamera a meno di 5 chilometri diventa praticamente fosforescente, non si perde d’animo: “Andiamo”. Almeno 300 metri in marcia sotto il sole fino al cancello della centrale Acea a pochi metri dal Raccordo anulare, e l’aspirante futuro sindaco fa il suo comizio. Poi tutti di nuovo dentro, dove c’è un clima euforico perché per la prima volta l’Acea ha un amministratore delegato che sa l’inglese. “Risparmieremo un sacco in interpreti”, commenta soddisfatto un dirigente.
Scene da cabaret, perché l’Acea non è solo la municipalizzata acqua e luce di Roma quotata in Borsa, ma anche, al tempo stesso, la parodia della municipalizzata acqua e luce di Roma quotata in Borsa. Girava voce che Beppe Grillo avrebbe fatto un blitz, ma non si è fatto vedere. Così bisogna accontentarsi di Marino che non si risparmia. Prende la parola, dopo aver speso ben 20 mila euro in azioni Acea, e protesta perché l’assemblea di bilancio con tanto di nomina del nuovo vertice per tre anni si svolge a poche settimane dalle elezioni: “Forse Alemanno vuole compiere l’ennesimo atto per occupare poltrone? Oggi si sta compiendo una soverchieria le cui conseguenze cadranno sui cittadini”. Ma il vero punto di attacco è che Alemanno, secondo il suo sfidante alle imminenti elezioni di fine maggio, ha scelto un amministratore delegato, Paolo Gallo, “espressione del principale socio privato di Acea”.
L’ACCUSA È PESANTE. Alemanno, anziché scegliere un manager di fiducia del Comune (che ha il 51 per cento di Acea), avrebbe scelto un protetto del secondo azionista, Francesco Gaetano Caltagirone detto Franco, proprietario del Messaggero, uomo chiave del potere a Roma. Gallo, quello che parla inglese, è sicuramente gradito a Caltagirone, e forse con questa nomina Alemanno spera di propiziarsi l’appoggio del Messaggero in campagna elettorale. Certo non è, come il predecessore Marco Staderini, espressione e amico di Pier Ferdinando Casini, tuttora genero di Caltagirone ma con peso politico in caduta libera. Insomma, ci si riposiziona, ed è ciò che non piace proprio a Marino, attento infatti a distogliere lo sguardo dagli altri eletti nel consiglio Acea.
Caltagirone, per la sua quota, ha confermato suo figlio Francesco e Paolo Di Benedetto, marito del ministro Guardasigilli Paola Severino. Alemanno, a parte il siluramento di Staderini e la sostituzione con Gallo, fino a ieri direttore generale, ha confermato il presidente Giancarlo Cremonesi, espressione della lobby dei costruttori e di altre variegate lobby romane, e ha assegnato gli altri due posti di sua competenza secondo il modello “larghe intese” che a Roma vige da sempre: uno al suo ex assessore ed ex parlamentare centro-destra Maurizio Leo, e uno al segretario generale della Fondazione Italiani Europei (targata Massimo D’Alema) Andrea Peruzy. Marino, alla domanda se la sua polemica riguardasse anche questa lottizzazione a 360 gradi che coinvolge anche il suo partito, ha risposto di non saperne niente e di non voler commentare cose che non conosce.
IL CANDIDATO SINDACO del Pd ha posto anche un altro delicato problema: se lui appena eventualmente eletto sindaco volesse far fuori Gallo e mettere un uomo suo, non è che Acea dovrà pagare una sontuosa buonuscita all’appena nominato e subito licenziato? Se in Italia vigessero le regole appena fissate in Svizzera da un referendum, le clausole del contratto di Gallo sarebbero state valutate ieri dagli azionisti con un voto consultivo. Invece siamo in Italia e Cremonesi ha detto che le clausole di Gallo sono affare del cda, e l’assemblea degli azionisti non se ne deve occupare. Come sempre lo scopriremo dopo. Ieri per esempio abbiamo scoperto che i sindaci revisori dell’Acea prendono 140 mila euro l’anno, contro i 75 mila che prendono all’Enel (fatturato circa 10 volte maggiore), gli 89 mila di Telecom Italia e i 90 mila di Mediobanca. Ma all’Acea è sempre festa per tutti. Tanto c’è un comitato etico che vigila, a 2500 euro di gettone per ogni riunione.

Corriere 16.4.13
Sionisti cristiani e Israele, le ragioni di una amicizia
risponde Sergio Romano


Ho letto che lo Stato di Israele si è giovato del sionismo cristiano, che è una credenza diffusa tra alcune frange del protestantesimo anglosassone. Per i sionisti cristiani il ritorno degli ebrei nella Terra Santa e la fondazione dello stato di Israele nel 1948 sono il compimento delle profezie bibliche, alle quali danno maggior credito di quanto ne diano al Nuovo testamento. La tesi che ho esposto è credibile?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Martin Lutero scrisse nel 1543 un feroce libello contro gli ebrei (Degli ebrei e delle loro menzogne) che fu più volte ristampato durante il Terzo Reich. Ma nella grande famiglia dei cristiani riformati esistono sette e correnti che estendono agli ebrei la venerazione e il rispetto con cui viene letto l'Antico Testamento. L'Olanda calvinista accolse generosamente gli ebrei cacciati dalla penisola iberica, fra cui un giovane portoghese, Baruch Spinoza, che sarebbe divenuto uno dei maggiori filosofi europei. Oliver Cromwell, l'anti-cattolico Lord Protettore d'Inghilterra, revocò nel 1657 il decreto con cui Edoardo I aveva espulso gli ebrei dal suo regno nel 1290.
Esiste un risvolto religioso persino nella storia della Dichiarazione di Balfour con cui il governo britannico, il 2 novembre 1917, promise agli ebrei una «home» (casa, focolare) in Palestina. Per meglio combattere la Germania in Europa e la Turchia Ottomana in Medio Oriente, la Gran Bretagna sperava di conquistare con questo gesto il sostegno delle comunità ebraiche, soprattutto negli Stati Uniti. Ma accanto alla motivazione strettamente politica vi era la forte simpatia religiosa per la causa sionista degli ambienti cristiano-liberali «non conformisti», vale a dire estranei alla Chiesa anglicana e spesso vittime in passato delle sue persecuzioni. Nel1917 il Primo ministro era David Lloyd George, non conformista, gallese e, quindi, cittadino di una piccola patria che non intendeva rinunciare alla sua identità. Altri membri del suo governo avevano lo stesso retroterra religioso. In un libro sulla Gran Bretagna e la nascita dello Stato d'Israele (Il Dio in armi, Corbaccio 2006), Jill Hamilton scrive che «dei dieci uomini a cui toccò in fasi diverse di essere membri del Gabinetto di guerra di Lloyd George, sette erano stati allevati in famiglie di nonconformisti e uno, sebbene fedele della Chiesa d'Inghilterra, vi era approdato da una famiglia con una forte propensione evangelica».
Cristiano-sionista fu anche, per certi aspetti, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti dopo la morte di Franklin D. Roosevelt. Riconobbe immediatamente Israele e ricevette in dono da Chaim Weizmann, presidente dello Stato ebraico, un rotolo della Torah.
Oggi i cristiano-sionisti sono particolarmente forti negli Stati Uniti dove molti evangelici (complessivamente circa 70 milioni) credono nella seconda venuta del Cristo, annunciata da Giovanni nell'Apocalisse, e sono convinti che avverrà soltanto quando gli ebrei avranno ripreso possesso della Terra promessa. Gli evangelici credono altresì che gli ebrei dovranno allora convertirsi al cristianesimo o soffrire eternamente le pene dell'inferno. Ma negli amichevoli incontri fra i cristiano-sionisti e la lobby filo-israeliana degli Stati Uniti questo particolare viene generalmente omesso.

l’Unità 16.4.13
Le particelle della vita
Due libri tra quantistica (vera) e approcci Zen
La fisica dell’esistenza raccontata tra principio di causalità e principio di indeterminazione
Paterlini, Ortoli e Pharabod descrivono gli universi parallelli e i loro soggetti
Lo spazio è fatto solo di spazio, il tempo solo di tempo, i sentimenti solo di sentimenti
di Chiara Valerio


«IL SUO VIOLENTATORE. LE SEMBRAVA DI VEDERLO OVUNQUE, PERFINO NELLE PERSONE PIÙ CARE. Ogni giorno, in cucina mentre faceva colazione, la sera prima di addormentarsi, proprio lì accanto al letto. Poi ad aspettarla all’uscita dalle elementari. E in quei brutti sogni. Naturalmente sapeva che non era possibile. Eppure, anche adesso che stava superando la grande porta a vetri della scuola per tornare a casa, eccolo lì, tranquillo e sorridente. Naturalmente non era possibile, pensò la bambina. Poi mise la mano nella sua e disse: Ciao, papino»
Con beneficio d’inventario, e con l’approssimazione concessa a queste righe in un linguaggio non specialistico, è forse opportuno ricordare una osservazione di Niels Bohr su un esperimento di entaglement (groviglio) quantistico.
«Tra due particelle che si allontanano l’una all’altra nello spazio, esiste una forma di azione-comunicazione permanente. (...) Anche se due fotoni si trovassero su due diverse galassie continuerebbero pur sempre a rimanere un unico ente».
Il fenomeno dell’entanglement viola il «principio di località» per il quale ciò che accade in un luogo non può influire, nell’immediato, su ciò che accade in un altro luogo. A leggerlo sembra qualcosa di molto sentimentale, o comunque, di umanità quotidiana. E in effetti, con Fisica quantistica della vita quotidiana (Einaudi, 2013) Piergiorgio Paterlini, racconta, in 101 microromanzi che echeggiano e talvolta spiazzano come le 101 storie zen (a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, traduzione di Adriana Motti, Adelphi, 1973) quanto i gesti nostri e di ogni giorno siano inefficaci e spesso inaffidabili, come la crudeltà dei bambini evolva parallelamente al loro immaginario di violenze un rospo ammazzato su una sedia elettrificata tramite un circuito a misura di piccolo anfibio come l’amore sia inspiegabile e spesso arranchi in se stesso, senza conseguenze, come si dice addio o soltanto ciao, come lo spazio tra due persone possa essere riempito dall’attesa o da una lite e come il tempo passato possa essere annullato da un ricordo o da un fraintendimento, come, essendo ciascuno di noi solo, insieme a un altro, si sia soli in due e, per una trasgressione a una qualche regola additiva, si sia meno soli. Attraverso le suggestioni di spazio vuoto, punti di luce e azione a distanza della fisica quantistica, Paterlini racconta un mondo di particelle impazzite o, per quanto deterministiche, schizzate su traiettorie spesso inconoscibili. E le particelle che Paterlini osserva nell’acceleratore della scrittura sono, ovviamente, gli esseri umani. «Per sempre» lei lo sapeva bene era ciò che era successo, anche soltanto una volta. Per sempre non avrebbe mai potuto essere una promessa, qualcosa che riguardava il futuro, ma il passato: ciò che è già avvenuto e che niente e nessuno potrà mai più impedire».
L’approccio alla realtà quantica e quantizzata di Sven Ortoli e Jean-Pierre Pharabod in Metafisica quantistica (Castelvecchi, 2013), pur essendo assai narrativo e molto avvincente «Non sfuggirà al lettore che il sottomarino e la particella hanno in comune il fatto che non se ne scorge traccia una volta che siano stati inviati in missione» ha un intento di divulgazione scientifica e un passo saggistico. Ortoli e Pharabod vogliono spiegare che cos’è la fisica quantistica, non a partire da teorie generali che si prestano molto a suggestioni e assai poco a comprensioni, se non a patto di uno studio intenso e regolare, ma a partire dai dispositivi che ci circondano, smartphone e impianti stereo e stampanti wireless, per rendere evidente, anche a chi non ha fatto quegli studi indefessi di cui sopra, quanto la fisica quantistica abbia cambiato il quotidiano di tutti. «Il nostro rapporto con il mondo è talmente cambiato che oggi noi siamo diversi dagli uomini e dalle donne esistiti prima di internet. Con l’arrivo di internet si è finalmente prodotta una cesura che non era solo simbolica, ma che si è tradotta, e oggi ce ne rendiamo conto, in un uso diverso della realtà. Si tratta della proiezione nello spazio e nel tempo attraverso strumenti che comprimono l’uno e l’altro», e continuano osservando quanto «(...) una teoria scientifica non si riduce a un formalismo matematico, ma dipende anche dall’ontologia che postula, ossia dal suo modo di descrivere la realtà fisica e di rendere conto di una esperienza».
«I fatti sono ostinati» annotano Ortoli e Pharabod e Paterlini, sembra rispondere come, per converso o in accordo, le persone siano ostinate, e così, da Kant e da un saldo rapporto causale e di differenziazione tra soggetto e oggetto in poi, ci si ritrovi in una confusione di soggetto e oggetto, in una perenne dispercezione di tempo e di spazio, molto oltre qualsiasi principio di causalità e in una vita collettiva in cui il principio di indeterminazione non è quello di Heisenberg, o non solo, ma un principio di indeterminazione, ostinato esso pure, radicato in ciascun essere umano.
Quando Paterlini scrive «Mi ami, quindi non mi conosci. Poiché mi ami, mi vedi come vorresti che fossi, non come sono che si riferisca o no a quella teoria dell’osservatore che modifica il fenomeno osservato di relativistica memoria non importa, perché, in qualche modo sta dicendo che le intenzioni, comunque le si voglia formalizzare, quanti, onde, luce modificano la realtà. Racconta Paterlini come l’intenzione e il desiderio possano essere una declinazione della relatività.
Il mondo quantistico di Ortoli e Pharabod assomiglia più che alla realtà a un mondo dello spirito, spirito a tratti paranoico, a tratti sognatore, spesso autoreferenziale, un mondo quantistico che ci piace perché ci assomiglia, perché non vale in esso quel principio di non-contraddizione che tanto porta a rotture emotive o politiche o semplicemente a litigi. La letteratura non è scienza e neppure, così e ormai priva di metafore esatte, può spiegare la scienza la scienza si spiega con la scienza però può raccontarne le conseguenze. Lo spazio è fatto solo di spazio, il tempo solo di tempo, i sentimenti solo di sentimenti, gli errori solo di errori, e così, in un mondo nel quale tutto sembra atomico e nel quale atomico è sinonimo di diffuso, di dovunque, la fisica quantistica qualsiasi cosa essa sia in realtà è il modello per gli universi paralleli e per il tempo riavvolto degli amori e delle esitazioni umane. «No. Il silenzio non è mai chiaro. È la cosa più oscura che ci sia. Potevi essere morta. Il silenzio non chiarisce, moltiplica solo le ipotesi. Il silenzio usato per dire qualcosa è stupido vile crudele. Non si deve mai, mai capito? mai rispondere con il silenzio».

Piergiorgio Paterlini, Fisica quantistica della vita quotidiana pp. 136 13 euro Einaudi

Sven Ortoli E Jean Pierre Pharabod, Metafisica quantistica, (trad. David Santoro) pp. 141 17,50 euro Castelvecchi

La Stampa 16.4.13
I sovietici primi su Marte. Ora la Nasa ha le prove
La missione Usa scopre i resti dalla sonda Urss del ’71: ma il mistero rimane
di Maurizio Molinari


La Nasa ha trovato su Marte i resti della sonda sovietica che nel 1971 fece il primo, storico, atterraggio sul Pianeta Rosso e le immagini scattate potrebbero ora aiutare a svelare il mistero di cosa le avvenne.

Nel 1971 il mondo era in piena Guerra Fredda, la corsa allo spazio era parte integrante della sfida fra superpotenze e Mosca mise a segno un colpo a sorpresa su Washington facendo atterrare per prima una sonda su Marte. Poiché gli Stati Uniti erano riusciti a portare il primo uomo sulla Luna con Apollo 11 nel 1969, il blitz sovietico sul Pianeta Rosso puntava a riproporre il mito dello Sputnik - la prima sonda entrata in orbita, nel 1957 ribadendo la capacità dell’Urss di restare all’avanguardia nel cosmo.
In realtà Mosca era riuscita a far arrivare su Marte ben due sonde, il 2 dicembre 1971, ognuna delle quali aveva anche un piccolo modulo per l’atterraggio, ma Mars 2 e Mars 3 quando arrivarono a destinazione vennero oscurate da una tempesta di detriti che avvolgeva il Pianeta. La discesa verso il luogo dell’atterraggio durò 4 ore e 35 minuti, ma ebbe esiti assai diversi perché Mars 2 precipitò mentre Mars 3 riuscì nello storico risultato di atterrare. Nei 14,5 secondi seguenti trasmise segnali al centro di controllo sovietico scatenando reazioni di gioia al Cremlino ma poi si fermò, all’improvviso, per ragioni che non sono mai state del tutto chiarite.
I tecnici russi all’epoca attribuirono la brusca fine delle comunicazioni alla medesima tempesta di detriti che aveva abbattuto Mars 2, eppure la prova certa non vi fu mai e, trattandosi del Pianeta Rosso, nulla poteva essere escluso, neanche un intervento degli extraterrestri. Tanto più che Mosca si rifiutò anche di dare una lettura ufficiale del risultato della trasmissione dati, che sembrava essere una quasi-immagine di un terreno e un orizzonte notturno.
Da allora il mistero ha celato quanto avvenuto sul luogo dell’atterraggio - latitudine 45 gradi Sud, longitudine 202 gradi Est - nel cratere Ptolemaeus fino allo scorso 31 dicembre, quando il Mars Reconnaissance Orbiter, che segue dall’alto i movimenti dei due rover della Nasa su Marte, ha fotografato dei resti meccanici che successive analisi hanno portato a identificare come parti della sonda sovietica. Nella foto si vedono con chiarezza il paracadute, il retrorazzo, il veicolo di atterraggio e lo schermo di alimentazione del calore del Mars 3 disseminati sul terreno. La qualità dell’immagine della Nasa è tale che servirebbero 2.500 schermi di computer tradizionali per vederla a risoluzione totale, ma consente di impossessarsi di alcuni preziosi dettagli.
Si scopre così che il paracadute ha un diametro di 7,5 metri rispetto agli 11 totali, il retrorazzo che consentì a Mars 3 di atterrare mostra un prolungamento lineare che assomiglia alla catena che li teneva attaccati, il modulo di atterraggio ha le dimensioni originali con tutti e quattro i petali meccanici aperti, mentre lo schermo per l’alimentazione del calore è l’unico oggetto a essere in parte sotterrato dai detriti.
Il risultato della scoperta è che adesso la Nasa sta condividendo tali informazioni - assieme a ulteriore materiale raccolto negli ultimi mesi - con Arnold Selivanov, uno dei creatori di Mars 3, e Vladimir Molodtsov, ex ingegnere spaziale russo, per compararli con i dati conservati negli archivi dell’agenzia spaziale di Mosca e per riuscire in qualche maniera a dare una spiegazione alla domanda su cosa avvenne di preciso alle 13:52:25 del 2 dicembre 1971. Quando Mars 3 cessò di comunicare, deludendo le attese di riscatto di Mosca dopo lo smacco subito da Apollo 11.

La Stampa 16.4.13
Addio a Colin Davis grande interprete mozartiano


È morto a 85 anni Colin Davis, grande interprete mozartiano, che ha diretto molte orchestre in tutto il mondo, ma ha legato il suo nome alla London Symphony Orchestra. Oltre alle interpretazioni del genio salisburghese, Davis si è concentrato sull’opera di Sibelius, di Berlioz e del compositore britannico contemporaneo Michael Tippett. In totale ha inciso circa 320 album.

Corriere 16.4.13
I compagni dimenticati del partigiano Primo Levi
La banda dello scrittore fucilò due dei propri membri
di Paolo Mieli


C'è un'«alba di neve» che è entrata nella storia della letteratura italiana: quella del 13 dicembre 1943. Una «spettrale alba di neve» (così viene definita nella seconda edizione di Se questo è un uomo, pubblicata da Einaudi nel 1958), nel corso della quale Primo Levi fu arrestato in Val d'Aosta assieme a Luciana Nissim, Vanda Maestro e ad alcuni partigiani ai quali si era unito da pochi giorni. Nell'edizione di Se questo è un uomo del '58 (nella prima, del 1947, queste pagine non comparivano), Levi, a sorpresa, lascia cadere che il suo arresto, da cui sarebbe per lui iniziato il viaggio alla volta di Auschwitz, fu «conforme a giustizia». «Conforme a giustizia»? In che senso? È da un tentativo di dare spiegazione a quelle tre parole che prende l'avvio uno straordinario libro di Sergio Luzzatto che sta per essere dato alle stampe da Mondadori: Partigia. Una storia della Resistenza.
Vediamo come andarono i fatti. Lì tra i partigiani di Col de Joux, raccontava Levi, «mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona fede e in malafede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente». Così si spiega come mai lui e altri ribelli della prima ora caddero quasi subito in mano ai fascisti. Ma perché definire quella cattura «conforme a giustizia»? «Giustizia», osserva Luzzatto, «non è una parola qualunque, meno che mai nel vocabolario di Primo Levi». E cosa può spiegare poi «una rappresentazione della Resistenza delle origini tanto dissacrante, o comunque tanto dissonante rispetto alla mitologia antifascista sui primi partigiani della montagna»?
Una traccia utile a chiarire il mistero, Luzzatto l'ha trovata in un altro libro di Levi, scritto nel 1975: Il sistema periodico (Einaudi). Qui lo storico resta colpito dal fatto che, sulle 238 pagine del volume, la Resistenza non ne occupi più di quattro. Nel capitolo intitolato «Oro» pochi capoversi sono dedicati alla salita in montagna, alle settimane «d'attesa più che d'azione», alla caduta della banda del Col de Joux, all'arresto dell'autore e di alcuni suoi compagni. E solo due pagine evocano «il trasporto a valle, gli interrogatori subiti nella prigione di Aosta, la decisione del catturato di ammettersi ebreo piuttosto che partigiano, cioè di votarsi alla deportazione verso chissà dove piuttosto che al deferimento al Tribunale militare speciale della Repubblica di Salò». Perché, continua a domandarsi Luzzatto, questa «avarizia narrativa riguardo alla Resistenza»? Ed ecco che in altre righe Luzzatto trova una seconda traccia utile alla sua ricerca. Queste: «Fra noi, in ognuna delle nostre menti pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere». E ancora: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l'avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente… Adesso eravamo finiti e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c'era uscita se non all'in giù». Così il Levi del 1975 indicava in un episodio del suo partigianato l'origine diretta della sua «caduta negli inferi del Lager».
«Faccio lo storico da trent'anni, ma nessuna ricerca mi ha mai interpellato, appassionato, travagliato come la ricerca su questa storia di resistenza», scrive l'autore. Travaglio che ha implicato un'indagine «sino in fondo» sul «segreto brutto» della banda del Col de Joux. Il «segreto brutto» di Primo Levi. Leggendo tra le righe i libri di Levi, Luzzatto si è imbattuto in una precedente «alba di neve» che, scrive, «non è entrata nella storia della nostra letteratura, o che ci è entrata (più esattamente) in una forma criptata, nel 1975, attraverso le dodici righe del Sistema periodico». Sono le prime luci del mattino del 9 dicembre 1943, appena sei giorni prima dell'arresto di Levi e degli altri «partigia» (questo era il nome che si davano tra loro uomini e donne della Resistenza in Piemonte e Val d'Aosta, di qui il titolo del libro) della banda di Amay, capitanata da Guido Bachi e da Aldo Piacenza.
Quel giorno, il diciottenne Fulvio Oppezzo di Cerrina Monferrato (nome di battaglia «Furio») e il diciassettenne Luciano Zabaldano di Torino (nome di battaglia «Mare») vengono fatti uscire da una baita di Frumy e uccisi dai loro compagni con il «metodo sovietico», cioè a freddo, senza annunciar loro la morte imminente. L'imputazione — assai generica per quel che è dato ricostruire — è di essersi comportati male con i valligiani e di aver rubato. «Non c'è un processo istruttorio che li accusi di un reato preciso, non ci sono documenti che rimandino alla condanna, e allora l'accusa che li riguardava poteva essere anche diversa, in ogni caso aveva a che fare con l'indisciplina e con azioni che mettevano a rischio l'incolumità degli altri componenti della banda, intaccando la possibilità di guadagnare fiducia presso gli abitanti del luogo, di cui si aveva un bisogno estremo», ha raccontato recentemente Frediano Sessi in Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), dove si parla di quella «storia taciuta» della Resistenza. Si tratta in ogni caso di una «punizione» inflitta ai due giovani che, prosegue Sessi, «le fonti storiche disponibili autorizzano a ritenere smisurata rispetto all'entità delle colpe di cui Oppezzo e Zabaldano potevano essersi macchiati».
Per Levi quello dell'uccisione a freddo di Oppezzo e Zabaldano è un evento traumatico. «Fra le due albe», scrive Luzzatto, «si consuma l'intero destino della banda del Col de Joux, perché l'esecuzione della sentenza lascia Levi e i compagni distrutti, desiderosi che tutto finisca e di finire essi stessi». Spegne in loro, secondo il Levi di oltre trent'anni dopo, «ogni volontà di resistere, anzi di vivere». Nessuno sa se Primo Levi il 9 dicembre 1943 «fosse salito dall'albergo Ristoro verso il Col de Joux, se avesse contribuito a scavare le due fosse»: «Immagino di sì», afferma Luzzatto, «perché risulta che le due donne di Amay, Luciana Nissim e Vanda Maestro, fossero state fatte allontanare dal luogo dell'esecuzione; il che induce a credere che gli uomini fossero presenti… Immagino di sì anche perché il numero dei componenti della banda era talmente ridotto (Levi ne conterà dodici in totale, donne comprese) da suggerire che tutti gli uomini abbiano dovuto spalare la neve abbondante e scavare la terra ghiacciata dove tumulare senza bara i corpi dei due uccisi». E poi c'è una spiegazione che Luzzatto deriva dall'esegesi di una poesia di Levi, «Epigrafe», scritta nel 1952, e inclusa nella raccolta del 1975 Ad ora incerta, in cui lo scrittore torna ad alludere all'episodio con i toni di chi ne ha avuto esperienza diretta.
È questo il «cuore di tenebra» della storia: la banda del Col de Joux — che fino al 9 dicembre non aveva compiuto «alcuna azione resistenziale di rilievo» e che di lì a quattro giorni, il 13, sarebbe stata facilmente sgominata dai rastrellatori di Salò — «poté risolversi a far scorrere il sangue di due compagni come un atto dovuto di giustizia», scrive Luzzatto. «La necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e variamente gravi», prosegue, «ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia». Tabù violato solo dalla letteratura, con i personaggi, ad esempio, del Vecchio Blister di Beppe Fenoglio o di Morti male di Saverio Tutino. Ma la nostra storia è ancora più complicata.
Finita la guerra, Oppezzo e Zabaldano furono «risarciti» con la loro trasformazione in «eroi trucidati dai fascisti». Nell'Albo d'oro della Resistenza valdostana, su un totale di 186 caduti durante i venti mesi della guerra civile, solo tre sono i nomi dei partigiani uccisi nel 1943. E due di questi tre sono quelli di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, che la pubblicazione presenta pudicamente come «deceduti». A guerra appena conclusa, aveva provveduto il capo partigiano Guido Bachi a far ricadere in qualche modo sulla spia fascista Edilio Cagni la responsabilità della loro morte. Nel suo «Verbale di denunzia» contro Cagni, Bachi sostiene che era stato il traditore a suggerire di far fuori nel modo «più sbrigativo» i refrattari alla disciplina. L'antifascista Bachi ne parlava come se i brutali sistemi suggeriti dal fascista Cagni «non fossero stati diligentemente applicati, almeno quella volta, dai partigiani del Col de Joux». «Da storico dei partigia», denuncia Luzzatto, «leggo e rileggo la denuncia di Bachi e mi dico che il dopoguerra di una guerra civile è pure questo: un redde rationem in cui si può imputare ai vinti anche quanto commesso dai vincitori».
Quanto ai due partigiani uccisi, la «riparazione» procedette nel dopoguerra per vie separate. Zabaldano già nel maggio del 1946 fu riconosciuto dalla Commissione regionale piemontese per la Resistenza come un «partigiano caduto valorosamente con onore e gloria nella Lotta di Liberazione per l'onore d'Italia, per la Libertà e per una migliore Giustizia sociale nel Mondo» (le maiuscole sono nel documento), senza che si avvertisse l'obbligo di specificare chi l'avesse ucciso. Ma, scrive Luzzatto, «a me che dopo aver tanto studiato gli eventi del Col de Joux guardo oggi la foto del monumento a quei caduti sullo schermo del computer, il silenzio della lapide intorno al segreto brutto non sembra corrispondere — in ultima istanza — a una forma di occultamento, e meno che mai a una bugia… Non va forse considerato anche lui, il diciassettenne che nell'ultima sera della sua vita, all'albergo Ristoro di Amay, aveva manifestato idee comuniste, un martire della Resistenza?». E qui sono particolarmente intense le pagine di Partigia dedicate al racconto di un recente incontro tra l'autore e un nipote di Zabaldano, Davide, il quale spiega perché, pur avendo intuito cosa accadde a Col de Joux in quelle prime ore del 9 dicembre del '43, non ha voluto riaprire il caso: «Vorrei soltanto capire che cosa è successo e perché», gli dice. Per il resto, niente scandali postumi, è sufficiente il risarcimento del 1946.
Più complicata la storia post mortem di Fulvio Oppezzo, che deve il suo recupero a un prete del suo paese, don Ferrando, e alla madre («una specie di professionista del lutto», scrive Luzzatto, che «insisteva con tutti, batteva a tutte le porte affinché al figlio venisse intitolato un qualche luogo di memoria»). Operazione riuscita. Tant'è che oggi anche a lui sono intitolate — sia pure con un nome sbagliato, «Opezzo» (senza una p) — una piazza e una scuola di Cerrina Monferrato.
Ma torniamo al protagonista di questo racconto. Una storia particolare, quella del ventiquattrenne ebreo Primo Levi, dalla Resistenza ad Auschwitz. Nell'agosto del 1943, Levi era stato in vacanza a Cogne. Poi aveva deciso di prolungare la sua permanenza in montagna, all'albergo Ristoro di Amay assieme alla madre e alla sorella, in attesa che le cose, dopo l'armistizio dell'8 settembre, si chiarissero. Allora non c'era la percezione di quel che sarebbe potuto accadere: «Pare che la situazione ebraica continui a migliorare», scrive in quei giorni sul suo diario Emanuele Artom, sulla base del fatto che il governo Badoglio aveva abrogato il divieto agli israeliti di pubblicare necrologi, di tenere a servizio «domestici ariani», di frequentare le stazioni di villeggiatura.
In quel momento i pericoli corsi dagli ebrei erano qualcosa di «assolutamente evidente, ma anche di amministrativamente impreciso», scrive Luzzatto. Almeno fino al 30 novembre, quando il ministero dell'Interno della Repubblica sociale italiana diramò l'ordine di polizia numero 5, che ne disponeva l'arresto. Certo, già a metà settembre, il suo zio paterno e suo cugino, Mario e Riccardo Levi, erano stati (assieme ad altri loro correligionari) arrestati e uccisi dai tedeschi sulle rive del Lago Maggiore. Ma lì in montagna, fino al 30 novembre, ci si sentiva quasi al sicuro. Anche se le persone del luogo avevano individuato in quelli come Levi «un'insperata opportunità economica, essendo gli ebrei tanto più disposti a pagare per il vitto e l'alloggio in quanto non facevano turismo ma lottavano per la sopravvivenza». Sicché quei valligiani imposero loro quelle che Luzzatto definisce «tariffe di ospitalità indistinguibili dallo strozzinaggio». Poi, dopo l'ordine di polizia numero 5, per gli ebrei «il problema della scelta si restrinse a un'alternativa secca: o nascondersi da qualche parte, o diventare partigiani… e la secchezza dell'aut aut contribuisce a spiegare perché gli italiani di origine israelita infoltirono i ranghi della Resistenza ben al di là della loro proporzione numerica sul totale della popolazione nazionale».
Va dunque chiarito che Primo Levi, pur essendo già schierato da almeno un anno contro il fascismo, «non era salito in montagna per votarsi senza indugio alla macchia e alla guerriglia, poiché sarebbe stato illogico farlo portandosi appresso la sorella minore e la madre cinquantenne; né era salito per rispondere alla chiamata ideale di una resistenza antifascista, poiché una chiamata del genere si era a malapena sentita all'indomani immediato dell'8 settembre, la resistenza degli uni o degli altri non era divenuta da subito una Resistenza con la lettera maiuscola». Ed è, dunque, in conseguenza all'ordine di polizia numero 5 che, ai primi di dicembre, Levi si unì alla banda partigiana. Per un'esperienza durata pochi giorni, quelli che intercorsero prima che fosse preso dai soldati della Rsi e tornasse a essere soltanto un ebreo.
Ma perché, una volta catturato, si dichiarò ebreo? Aldo Piacenza (arrestato con Levi, poi fuggito e tornato a combattere nella Resistenza) —, un uomo che pure, osserva Luzzatto, «durante la campagna di Russia aveva assistito con i suoi occhi a terribili scene di Soluzione finale del problema ebraico» — poteva ancora ritenere che Primo Levi rischiasse conseguenze più gravi da partigiano attivo che da ebreo nascosto, «da ribelle più che da imbelle». Da ebreo «imbelle», in altre parole, pensava di correre rischi minori. Non poteva credere che «l'occupazione tedesca avesse reso l'Italia di Salò un territorio di caccia analogo all'Europa orientale, un luogo come un altro della geografia continentale dello sterminio». Sicché Piacenza «poteva illudersi di far cosa generosa insistendo sulla condizione di israelita dell'amico, e presentandolo ai saloini come totalmente innocuo dal punto di vista politico e militare». E gli uomini stessi della Repubblica sociale «potevano, al limite, accomodarsi nell'ambiguità della situazione… Potevano non farsi troppe domande sul destino degli ebrei arrestati e avviati al campo di concentramento di Fossoli di Carpi». Così il 20 gennaio del 1944, Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro — per volontà anche e soprattutto del prefetto Cesare Augusto Carnazzi — partirono da Aosta alla volta di Fossoli, tappa intermedia sulla via di Auschwitz.
Per gli altri, rimasti in montagna, la guerra continuava. Quello del 1944 fu un inverno di azioni militari. Nell'estate, dopo la liberazione di Firenze in Italia, di Parigi e Marsiglia in Francia, da noi a Nord si continua a combattere. La piega che ha preso la guerra nel mondo infonde «nuova energia agli uomini delle bande», però maschera appena «la debolezza di zone libere, sì, ma isolate»: sono «enclaves antifasciste in una Valle d'Aosta che resta saloina e germanica lungo l'asse principale».
Va detto che «la libertà dei partigiani non coincide necessariamente con quella dei valligiani». Come potrebbero questi ultimi «ritenere libere zone dove i viveri sono prelevati forzosamente, gli animali vengono requisiti, i beni più preziosi (i grassi, il sale, la legna per l'inverno) vengono gestiti dai ribelli nemmeno fossero roba loro»? E come potrebbero guardare con favore a guerriglieri i quali, attaccando i tedeschi e i fascisti, ne provocano le sanguinose rappresaglie?
L'estate del 1944 «segna così un massimo di espansione territoriale del movimento partigiano, ma anche un contrasto sempre più acuto fra il grosso delle popolazioni montanare e quanti un professore ribelle in Valtournenche, Ettore Passerin d'Entrèves, prima ancora della Liberazione definirà (mettendoci lui le virgolette) gli "idealisti", i "pochi eletti"». Passerin d'Entrèves descriveva quella del «partigia», soprattutto nel «tragico autunno» del 1944, come una «tragica figura» alla Don Chisciotte. «Il vile buon senso dei più», scriveva, «tende decisamente a disapprovare la "follia" dei pochi che impegnano la gioventù in disperate avventure». Questo per mesi e mesi di combattimenti.
Finché arriva il 25 aprile del 1945, la Liberazione. Finita la guerra, si è costretti a registrare, scrive Luzzatto, «il sovrappiù di rabbia, di odio, di brutalità documentato dalle cronache di quella primavera italiana, il dantesco contrappasso che venne inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Queste le parole che usa Luzzatto: «contrappasso inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Nell'Italia della Liberazione, prosegue, «la vendetta era tanto assaporata quanto per un quarto di secolo era stata sospirata la giustizia». E a essere brutalmente passati per le armi non furono solo coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò. La liberazione di Casale, ricorda Luzzatto, costò cara, per esempio, a Mario Acquaviva, «un antifascista di lungo corso — da comunista si era fatto anni di galera sotto il regime di Mussolini — che pagò con la vita la sua dissidenza dal partito di Togliatti, e il suo ruolo di dirigente in una piccola compagine trockijsta, il Partito comunista internazionalista». L'11 luglio del 1945, Acquaviva fu raggiunto per strada, vicino alla stazione ferroviaria di Casale, da due killer a volto scoperto che gli spararono al torace e all'addome. Gli assassini non vennero mai identificati, ma, scrive Luzzatto, «si ha ragione di ritenerli sicari operanti per conto del Pci astigiano».
Siamo dunque a Casale Monferrato, che è un po' la retrovia di questa storia. Da Casale a fine ottobre del 1943 si erano mossi i fratelli Francesco e Italo Rossi, che, assieme a Guido ed Emilio Bachi, avrebbero acceso la miccia della Resistenza nell'intera regione. Da Casale il comandante della piazzaforte germanica, Wilhelm Meyer, aveva ordinato l'8 ottobre del 1944 l'eccidio di Villadeati, in Valcerrina. A Casale, a metà gennaio del 1945, sarebbe stata sgominata e trucidata dai nazisti la banda partigiana di Antonio Olearo (nome di battaglia, «Tom»). A Casale nel settembre del 1947 un gruppo di ex partigiani avrebbe occupato la città per protesta contro la mancata condanna a morte degli uccisori di «Tom». «Indomiti o ingenui, risoluti o patetici, i casalesi provarono a fare come se la Resistenza non fosse ancora finita», scrive Luzzatto recuperando le vivide descrizioni dei fatti del '47 di Giovanni Giovannini sulla «Stampa». E da Casale viene quel Giampaolo Pansa (che ha raccontato come da bambino vide l'ingresso in città del capo partigiano Pompeo Colajanni, «aspetto fiero e splendidi baffi», talché lo scambiò per uno dei moschettieri, Porthos) con le cui tesi Sergio Luzzatto si misura in modo sorprendentemente aperto. Sorprendentemente perché Luzzatto, che ha sempre duramente contrastato l'autore del Sangue dei vinti, tratta adesso Pansa con grande rispetto e considerazione.
A ridosso della Liberazione, scrive Luzzatto, tutto finì, secondo la «vulgata revisionista», in «un calderone di vendette individuali e collettive, punizioni infamanti, esecuzioni sommarie, stragi nascoste dove nulla si inventa (almeno sotto la penna di Pansa, che ha rispetto per la storia), ma dove tutto si somiglia, senza considerare la specificità dei contesti che resero ciascun episodio della primavera 1945 diverso da ogni altro». Laddove è evidente che si opera una distinzione tra la «vulgata» e gli scritti di Pansa, ai quali va un riconoscimento che più esplicito non si potrebbe. Dunque, scrive uno studioso animato in partenza da devozione alla «vulgata resistenziale», negli scritti di Pansa «nulla si inventa» e, soprattutto, c'è «rispetto per la storia». Una mano tesa. Un modo di (provare a) superare gli schieramenti che da oltre dieci anni si sono creati sui modi di raccontare quel che accadde dopo il 25 aprile.
È lo stesso Luzzatto a riferire di essersi a lungo interrogato sul «fenomeno Pansa» come «sintomo di una crisi dell'antifascismo». Sintomo di cui ha rinvenuto traccia «insegnando all'università, trovandomi di fronte studenti sempre più equidistanti, estranei ai valori dell'antifascismo quasi altrettanto che ai disvalori del fascismo». È stato il «fenomeno Pansa» a determinare in lui «l'intenzione di misurarmi — da figlio e da padre, da cittadino e da insegnante — con questo snodo della moderna storia d'Italia, con il dramma della nostra guerra civile». E lo ha fatto andando, proprio, a scavare in quelle pieghe della storia che negli ultimi venti anni hanno attirato l'attenzione di Giampaolo Pansa.
Interessanti, in questo quadro, sono le pagine dedicate ai processi del dopoguerra contro l'ex prefetto Cesare Augusto Carnazzi, che trovò, disposte a difenderlo, molte persone insospettabili di connivenza con i nazifascisti. Come Guido Usseglio, primario alle Molinette, capo partigiano in val Sangone, che, quando gli avevano arrestato il fratello Sebastiano, era andato da Carnazzi per farlo liberare (ciò che aveva ottenuto), trovandolo «una figura aperta, leale, buona», e avendo la sensazione di potersi «fidare di lui». Ancor più colpito è l'autore di Partigia dall'aver rinvenuto in archivio, «dopo aver maturato una mia idea di Carnazzi come funzionario antisemita se non come antisemita militante», una lettera del 7 agosto 1945 di sette componenti della famiglia ebraica Gerber, che attestavano «con cuore commosso» la loro «perenne gratitudine» a Carnazzi per aver ottenuto la revoca della condanna a morte di uno dei figli, il ventiduenne Ladislao, atto che definivano «la sua opera buona e generosa con la quale ha salvato la vita di un giovane e ciò senza alcun interesse ma solo per grande bontà». «Il partigiano ebreo salvato dal prefetto antisemita: sembra una storia inventata, ma non lo è (o non lo è del tutto)», quasi si sorprende Luzzatto.
Curiose furono anche le condizioni in cui il 4 maggio del 1946 si svolse il processo a Cagni, l'uomo che aveva tradito Primo Levi e lo aveva fatto arrestare. Processo a dir poco frettoloso: i testimoni, riepiloga Luzzatto, «deposero a un ritmo tale che non sempre i cancellieri ebbero il tempo di registrarne correttamente le generalità». Giuseppe Barbesino, che accusava Cagni di averlo torturato, figura negli atti del dibattimento come «Barbesino Vincenzo», sindaco di Gerolamo d'Alba, un paese che non esiste. L'avvocato Camillo Reynaud, che aveva creato la banda di Col de Joux, fu identificato come «Reynaud avv. Vincenzo». Luciana Nissim, figlia di Davide, divenne «Nissi Luciana di Domenico», e le furono attribuiti 33 anni invece dei 26 che aveva. Anche a Primo Levi, all'epoca ventiseienne, l'età fu aumentata a 32 anni e il suo mestiere di chimico fu trasformato in quello di «ingegnere».
«Decisamente la storia aveva fretta, nell'aula del Tribunale di Aosta, fra il mattino e il pomeriggio di quel sabato primaverile», scrive Luzzatto. Fretta di punire in un primo tempo, di dimenticare poi. In mezzo c'era stata, il 22 giugno del 1946, l'amnistia voluta dal guardasigilli, nonché leader del Pci, Palmiro Togliatti. Profondamente diverso è il paesaggio dei dieci anni successivi alla Liberazione. «Un decennio abbondante», scrive Luzzatto, «durante il quale l'aver combattuto per la Resistenza poté sembrare, allo sguardo di un numero imprecisato di italiani, un titolo di demerito piuttosto che di merito… Anche perché la scommessa azzardata dal segretario comunista Togliatti attraverso l'amnistia — competere con la Democrazia cristiana sul terreno di un'integrazione politica degli ex fascisti — si ritorse contro il movimento resistenziale, avendo suggerito una forma di equiparazione giudiziaria tra collaborazionisti di Salò e partigiani delle montagne, cosa che legittimò presso l'opinione pubblica moderata un'immagine della guerra civile quale scontro fra due fazioni analoghe per natura, se non comparabili per sistemi di valori».
Così Cagni viene condannato una prima volta (1946) a morte, una seconda (1947) a trent'anni, una terza (1949) a venti, e poco dopo (1950) può uscire di galera. Luzzatto dimostra che, però, anche quando avrebbe dovuto essere in prigione, nella seconda metà degli anni Quaranta, in realtà Cagni si muoveva da uomo libero, con il nome di «Sognatore italico», per riorganizzare i fascisti, in combutta con i servizi segreti alleati. Dopodiché, «maestro consumato del doppio o del triplo gioco, mostro romanzesco di bravura e di perfidia», Cagni riesce a eclissarsi, pur se qualche sua traccia si rinviene ancora negli anni Settanta. È una storia a un tempo normale ed eccezionale di un «collaborazionista scampato alla giustizia dei fucili e consegnato alla giustizia delle toghe». E da queste messo in condizioni di tornare in libertà, sparire e farsi arruolare, come ai tempi del «Sognatore italico», da nuovi padroni.

Repubblica 16.4.13
Il segreto di Primo Levi dimenticato dalla Resistenza
Quell’episodio dimenticato della Resistenza
Lo storico Sergio Luzzatto ricostruisce l’esperienza dello scrittore all’epoca della guerra partigiana
di Gad Lerner


AVREI validi motivi per tenermi il disagio e non scriverne: le confidenze sulla sua fatica di vivere che Primo Levi mi aveva concesso; la familiarità con il paese di Cerrina, in Monferrato, dove Fulvio Oppezzo viene ancora ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria.
Avrei validi motivi per tenermi il disagio e non scriverne: le confidenze sulla sua fatica di vivere che Primo Levi mi aveva concesso; la familiarità con il paese di Cerrina, in Monferrato, dove Fulvio Oppezzo viene ancora ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria, mitragliato di spalle insieme a Luciano Zabaldano, per opera di un capo della piccola banda partigiana in cui militava lo stesso Primo Levi, all’alba del 9 dicembre 1943 su un campo innevato del Col de Joux, sopra Saint-Vincent; la tessera dell’Anpi conferitami a Casale Monferrato dai superstiti di quella stagione, giustamente preoccupati che ancora si voglia infangare la loro scelta antifascista; e da ultimo mettiamoci il ritorno a Auschwitz-Birkenau, solo dieci giorni fa, per accompagnare i miei figli là dove Levi sopravvisse fortunosamente per undici terribili mesi mentre la maggioranza dei suoi compagni di sventura venivano eliminati. Mi forzo a scrivere, invece, per interrogarmi sulla natura dell’“ossessione” di Sergio Luzzatto che quell’episodio drammatico lo scruta in più di trecento documentatissime pagine; traendone, lui storico autore dell’Einaudi, un volume edito da Mondadori perché la casa editrice torinese che fu di Primo Levi non l’ha pubblicato: Partigia. Una storia della Resistenza.
Mi permetto di adoperare il termine “ossessione” sapendo che l’autore non si offenderà perché lo scrive due volte egli stesso per motivare la spinta a un’indagine che non ha molto da rivelare sul piano storico — le atrocità della Resistenza come guerra civile sono già dissodate — sollecitandoci invece a una discutibile revisione iconografica e sentimentale.
Dunque Luzzatto dichiara di provare “ossessione”, “curiosità”, “passione” per la Resistenza. Un’ossessione, precisa, acuitasi dacché dilaga il “fenomeno Pansa”, cioè il successo dei libri che Giampaolo Pansa dedica al sangue dei vinti, da lui citati “come sintomo di una crisi dell’antifascismo”. Non basta. Luzzatto dichiara, testuale, «un’altra mia ossessione» per la figura di Primo Levi. Quasi che un impulso morboso lo spingesse a misurare fino a dove giunga la sua capacità di “devozione civile” e di “venerazione letteraria” per il testimone, l’intellettuale rigoroso, lo scienziato che attraversato l’inferno non smette di ammonirci: scegli il raziocinio, diffida dalla visceralità anche nella scrittura.
Ecco allora Sergio Luzzatto afferrare un passaggio cruciale del Sistema periodico, cioè l’unico libro in cui Levi descrive la sua breve esperienza di partigiano antifascista nell’autunno 1943, prima di essere catturato con Luciana Nissim e Vanda Maestro, ebree come lui e insieme a lui deportate ad Auschwitz. Sono dodici righe che descrivono lo stato d’animo del ventiquattrenne Levi e degli altri maldestri partigiani catturati il 13 dicembre 1943 nel corso di un rastrellamento, pochi giorni dopo la condanna a morte di Fulvio Oppezzo, 18 anni, e Luciano Zabaldano, che neppure li aveva ancora compiuti. Si trovano nel capitolo intitolato “Oro” e conviene riprodurle per intero: «Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza a eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda a esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù».
Cosa pretendere di più, in sincerità e tormento? Primo Levi al tempo stesso riconosce qui, per ragioni di «nostra coscienza», la condivisione di una sentenza — per indisciplina grave, minacce armate, forse anche un furto — e l’abiezione che ne derivò. Con un mitra Beretta furono abbattuti alle spalle, e poi sepolti, due ragazzi sbandati che le circostanze avevano reso incompatibili con le regole della guerra partigiana. Una tragedia ripetutasi più volte in quella come nelle altre guerre, l’atrocità del fuoco amico ricoperta quasi sempre dal velo della reticenza. Non dimentichiamo la fisionomia razionale che percorre l’intera testimonianza di Primo Levi, anche nei resoconti del lager, là dove neanche una singola figura di boia sterminatore s’è concesso di enfatizzare, scegliendo la chiave della compostezza anche di fronte all’inenarrabile.
Spiace che Luzzatto si avventuri in una contestualizzazione della presunta autocensura di Levi motivandola con la pubblicazione del Sistema periodico nell’anno 1975, cioè nel pieno delle celebrazioni del trentennale della Resistenza. Adopera qui anch’egli il termine dispregiativo «vulgata resistenziale» che tanto gratifica gli iconoclasti (già me li vedo intenti finalmente a demitizzare il grande scrittore della Shoah). Ipotizza cioè che Levi abbia pagato “pedaggio” — che parola! — perché all’epoca non era consentito presentare la Resistenza come fenomeno in chiaroscuro, dovendosi separare nettamente i torti dalle ragioni. Così, lungo tutto il corso della sua ricerca di microstoria — dalla morte assurda di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano alle contraddizioni interne al movimento partigiano fra Casale Monferrato e la Val d’Aosta; dall’indulgenza di cui godranno nel dopoguerra i fascisti artefici del rastrellamento fatale, all’impegno di testimonianza in cui si cimenta Levi non appena tornato in Italia nell’ottobre 1945 (Vanda Maestro, catturata insieme a lui, morirà ad Auschwitz) — sempre è sul concetto di ambiguità che indugia Luzzatto.
Credo possa ritrovarsi qui la radice delle due “ossessioni” dell’autore per la Resistenza e per Primo Levi, quasi che di fronte a eventi e personalità cui deve alcuni punti fermi della sua formazione culturale, gli risultassero troppo stretti i panni dello storico per addentrarsi nei misteri della natura umana. È come se Luzzatto avvertisse il bisogno di rivolgere contro Primo Levi la teoria della “zona grigia”, magistralmente teorizzata ne I sommersi e i salvati da quest’ultimo, riducendola a logora metafora sulle infinite sfumature tra il bianco e il nero. È certo avvincente il suo racconto dei partigiani e dei loro persecutori tra le valli alpine e la pianura, ma non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento.
È sulla personalità tormentata di Primo Levi, alla fine, non accontentandosi della sua rigorosa testimonianza, che l’autore si concentra. Per dimostrare cosa? Luzzatto rintraccia l’eco tragico di quell’alba valdostana in alcuni cenni iniziali di Se questo è un uomo; e poi nell’amarezza della poesia dedicata da Levi ai Partigia, il termine gergale con cui in Piemonte venivano chiamati i combattenti antifascisti. Diretta è, infine, l’analogia fra l’episodio di «giustizia sovietica» (parole di Luzzatto) perpetrato il 9 dicembre 1943 sul Col de Joux e l’eliminazione del giovane ribelle Fedja ad opera della banda partigiana ebraica di Ulybin, così come Levi l’ha narrata nel romanzo Se non ora, quando? Quali conseguenze dovremmo noi osare trarne, vincendo il disagio e abusando dell’indiscrezione, sulle scelte di vita (o perfino di morte) di Primo Levi? Stiamo parlando di un intellettuale sempre misurato nei suoi giudizi storici, a costo di tenersi dentro il suo tormento, proprio perché sentiva il dovere di restituire un giusto senso delle proporzioni agli avvenimenti immani di cui era stato testimone. Quel trauma vissuto prima della deportazione, trentadue anni dopo inciso sinteticamente ma senza autoindulgenza nel Sistema periodico, Levi aveva buone ragioni per ritenere non dovesse schiacciare la prospettiva della sua opera complessiva. Non possono essere ingrandite, quelle dodici righe del capitolo “Oro”, pur con il dramma che custodiscono, fino a oscurare la scelta partigiana così come Levi la descrive nella pagina precedente, con la medesima, magistrale asciuttezza: «Nel giro di poche settimane (dopo lo sbarco alleato in Nord Africa e la vittoria russa a Stalingrado) ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori e operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna». Così anche Primo Levi è divenuto per noi, e resterà, un maestro.

Repubblica 16.4.13
Estasi matematica
Così Cèdric Villani insegna a fare l’amore con i numeri
di Piergiorgio Odifreddi


Medaglia Fields nel 2010, direttore dell’Istituto Poincaré, lo studioso sfata le leggende sulla sua disciplina: “Il piacere è simile a quello del sesso, eccetto per il fatto che dura più a lungo”

Chi abbia visto una volta Cédric Villani, difficilmente lo dimentica. E chi lo veda senza conoscerlo, può facilmente scambiarlo per un baronetto uscito da un romanzo di Jane Austen: non solo per il suo aspetto fisico e i suoi lunghi capelli lisci, ma anche per il suo singolare abbigliamento, che consiste sempre di giacca (spesso a tre quarti) e panciotto, una colorita cravatta Lavallière o Ascot, e una vistosa spilla a ragno. Chi lo conosca per il suo lavoro, invece, non potrà che ammirarlo per la sua originalità intellettuale, premiata nel 2010 con la medaglia Fields: l’analogo del premio Nobel per la matematica. Alla cerimonia di consegna della quale, al Congresso Internazionale dei Matematici tenutosi a Hyderabad, il suo abbigliamento spiccava, in aperto contrasto con i costumi tradizionali della presidente della Repubblica Indiana e dei suoi dignitari. Cosa ci sia nella testa di Villani, sotto la chioma e sopra la cravatta, è difficile immaginarlo. Ma a permettere di gettarci uno sguardo fugace è ora il suo libro Il teorema vivente. La mia più grande avventura matematica (Rizzoli, traduzione di Paolo Bellingeri), la cui copertina lo ritrae con acconciatura e uniforme di ordinanza, e il cui retro promette: «Il romanzo di una scoperta matematica».
Il libro mantiene la promessa solo in parte, e dunque soddisferà solo una parte del pubblico potenziale. A essere soddisfatti saranno coloro che si interessano al lato umano e umanistico delle cose, e dunque all’“avventura” e al “romanzo”: cioè, per fortuna dell’autore e dell’editore, la stragrande maggioranza dei lettori. A essere delusi saranno invece, paradossalmente, coloro che si aspettano di finire il libro capendo qualcosa del “teorema” e della “scoperta”: cioè, per sfortuna loro, la minoranza di matematici professionisti o dilettanti.
I primi, cioè coloro che costituiscono il vasto pubblico, vedranno sfatati i loro pregiudizi più comuni sui matematici e la matematica. Perché la gente pensa, da un lato, che i matematici siano persone avulse dalla realtà e dalla vita normale, chiuse al mondo e ai suoi piaceri, perse nei loro pensieri, e incapaci persino di legarsi le scarpe o di soffiarsi il naso. E, dall’altro lato, che la matematica sia una disciplina per pochi eletti, ai quali improvvise e folgoranti intuizioni permettono di squarciare il grande velo che nasconde al resto del mondo i significati dei teoremi e le ragioni della loro verità.
Villani mostra loro, invece, che i matematici (o, almeno, quelli come lui) sono persone piene di vita, di interessi e di fantasia. Sognano (come tutti), prendono appunti sui loro sogni (come pochi), e li pubblicano nei loro libri (come quasi nessuno). Inventano fiabe, e le raccontano non solo ai loro bambini, ma anche ai loro lettori. Portano e vanno a prendere i figli a scuola, a turno con le madri. Passano con loro serate e weekend, anche se spesso continuano a pensare al proprio lavoro nel retro della mente. Viaggiano di qua e di là nel mondo, soli o con la famiglia, per lavoro o per piacere. Leggono fumetti e ascoltano canzonette, di cui riportano nei loro libri lunghi elenchi, e addirittura le liriche. E, naturalmente, mangiano di gusto. Al punto da non riuscire a immaginare di poter vivere troppo a lungo nei “barbari” Stati Uniti, a causa della scandalosa mancanza di baguettee formaggi decenti. E da rifiutare per questo un’offerta di lavoro fisso all’Istituto degli Studi Avanzati di Princeton, tempio della ricerca teorica, i cui membri sono poeticamente pagati solo per pensare, senza dover prosaicamente insegnare o pubblicare. Poco male, visto che oggi Villani dirige l’Istituto Poincaré di Parigi, un analogo francese un po’ meno prestigioso di quello statunitense, ma situato in una terra culinariamente più “civile”.
Quanto all’immagine del genio matematico «tutta ispirazione e niente sudorazione », è solo una sciocchezza romantica: persino menti inarrivabili, quali Isaac Newton o Bernhard Riemann, hanno dovuto fare sforzi sovrumani e spaccarsi la testa con calcoli tremendi, come dimostrano le loro carte. E il libro di Villani offre il suo contributo a sfatare la leggenda. Lo vediamo infatti intuire, dubitare, rivedere, ricredersi. E combattere insieme al suo coautore una battaglia epica che, dopo un paio d’anni di lavoro, li porterà a una dimostrazione finale del loro teorema di ben 180 pagine.
Il tutto attraverso lunghe ore d’insonnia, nervose passeggiate notturne, improvvisi crolli di stanchezza, dormite diurne sul pavimento dell’ufficio, e ben un centinaio di successive riscritture delle bozze dell’articolo! Una delle quali, considerata definitiva dagli autori, fu rifiutata dagli impietosi referee della rivista a cui era stata sottoposta, a dimostrazione che nella scienza non ci sono vie regie. Nemmeno per una futura medaglia Fields, che un giorno non lontano vedrà i suoi sforzi ricompensati dalla fatidica telefonata che annuncia il riconoscimento che tutti i matematici sognano di ricevere. La citazione letta alla cerimonia della premiazione di Villani recita: «Per la sua dimostrazione dello smorzamento non lineare di Landau e la convergenza verso l’equilibrio dell’equazione di Boltzmann ». Ed è a questo punto che i lettori interessati al lavoro, e non solo alla vita, dei matematici avrebbero desiderato di saperne qualcosa di più. Ma lui non ci prova nemmeno a spiegar loro di cosa si tratta, all’insegna del motto che certe cose «intender non le può chi non le prova». E si limita a inserire nel libro molte mail scambiate con il suo coautore nel corso della ricerca, e varie pagine di alcune bozze del suo lavoro: tutte completamente inutili, eccetto che per coloro per i quali sono superflue.
Peccato, perché entrambi gli argomenti sarebbero stati degni di approfondimento. Si tratta, infatti, di due problemi centrali dell’elettromagnetismo e della termodinamica: cioè, delle due discipline fondamentali della fisica dell’Ottocento, che evidentemente non erano ancora ben comprese neppure dopo un secolo. Entrambi i problemi riguardano il modo in cui i sistemi elettromagnetici o termodinamici evolvono verso la stabilità: nel caso dell’equazione di Boltzmann, il famoso stato di massima “entropia” o di massimo “disordine”, previsto dalla seconda legge della termodinamica. E i risultati di Villani mostrano il modo preciso in cui questa evoluzione avviene. Ma probabilmente egli non ha voluto correre il rischio di dover spiegare ab initio i fondamenti delle due discipline, per poter arrivare ad accennare ai suoi risultati soltanto nelle ultime pagine, come troppo spesso fanno gli stereotipati libri di divulgazione anglosassoni. Prodotti che sfamano lo stomaco, come il pane o i formaggi dei supermercati statunitensi, ma che non elevano lo spirito, come quelli che si trovano nelle panetterie e nelle formaggerie francesi: ad esempio, quella descritta dal Calvino di Palomar nel racconto Il museo dei formaggi.
Villani ha dunque preferito mantenere la matematica divulgativa sullo sfondo del suo libro e relegarla alle impressionistiche vignette sui matematici che lo hanno ispirato e ai quali si sente affine. Boltzmann e Landau, anzitutto, ai quali ha dedicato la sua ricerca. Ma anche il suo eroe John Nash, che egli giustamente ricorda non come lo schizofrenico protagonista del film A Beautiful Mind, ma come uno dei più grandi matematici del Novecento. O André Weil, l’eminenza grigia della matematica francese dello stesso secolo, del quale Villani ricorda il motto: «Il piacere della matematica è simile a quello del sesso, eccetto per il fatto che dura più a lungo». E se c’è qualcosa che traspare, e che rimane, dalla lettura di Il teorema vivente, è appunto questa sensazione di piacere quasi sessuale per il pensiero in generale, e la matematica in particolare. Se l’eccitazione e l’entusiasmo di Villani potessero essere trasmessi ai giovani e agli studenti, oltre che ai lettori del suo libro e ai visitatori del suo sito (cedricvillani.org), il mondo sarebbe sicuramente molto diverso, e probabilmente molto migliore.

Il teorema vivente. La mia più grande avventura matematica, di Cédric Villani (Rizzoli, pagg. 282, euro 19)