venerdì 22 marzo 2013

l’Unità 22.3.13
Bersani pronto alla sfida: «Un governo per cambiare»
Oggi l’incarico. Il leader Pd illustra la sua proposta. Napolitano: motiverò le mie decisioni
Il leader fiducioso dopo l’incontro al Quirinale
La strada indicata è quella di una verifica che avvenga nelle Camere, con il voto di fiducia
Piano B? «Neanche quello A, decide il Colle»
«Siamo la prima forza del Paese, sia alla Camera che al Senato, checché ne dica qualcuno»
«Confronto con tutti ma proponiamo riforme che la destra ha impedito anche nell’ultimo anno»
di Simone Collini


ROMA La prima parola: cambiamento. La seconda: Parlamento. Il ragionamento che ha fatto Pier Luigi Bersani al Capo dello Stato si è sviluppato attorno a questi due punti: perché non è che serve un governo qualsiasi e perché la strada per uscire dall’impasse dopo le elezioni di febbraio passa per un voto delle Camere. Dopodiché il leader del Pd, salito al Colle per le consultazioni insieme ai capigruppo Luigi Zanda e Roberto Speranza, si è rimesso alle decisioni di Giorgio Napolitano. Che oggi darà un incarico tenendo conto delle due giornate di consultazioni e dei numeri di Camera e Senato.
Ed è proprio partendo dal risultato elettorale e dall’equilibrio di forze presente in Parlamento che Bersani ha illustrato al Capo dello Stato la sua posizione. Ovvero dal fatto che il Pd è il partito che ha preso più voti alle elezioni e che ha la maggioranza assoluta a Montecitorio e quella relativa a Palazzo Madama («Siamo la prima forza di questo Paese, checché ne dica qualcuno», ha sottolineato più tardi incontrando i giornalisti nella Sala della vetrata con riferimento polemico al Movimento 5 Stelle, che in mattinata aveva detto di aver incassato alle elezioni più voti di tutti). Il secondo passaggio sottolineato da Bersani durante l’ora e un quarto trascorsa a parlare con Napolitano è stato sulla necessità di tener conto non solo dell’«esigenza» di dare all’Italia un governo, ma anche di quella, «inscindibile», di dar vita a un governo che possa «davvero realizzare il cambiamento» (sottinteso: cosa che non potrebbe avvenire ripetendo l’esperienza delle larghe intese con il Pdl). Il terzo passaggio: la possibilità di farlo non passa per esplorazioni per così dire extraparlamentari, tese a verificare se esistano maggioranze precostituite, ma per una verifica che avvenga in Parlamento, con il voto di fiducia.
Ora Bersani aspetta con fiducia un pronunciamento da parte di Napolitano, che dovrebbe arrivare per questo pomeriggio. I toni del colloquio e lo sviluppo del ragionamento fanno indulgere il leader Pd all’ottimismo. L’ipotesi di un mandato esplorativo a una figura istituzionale (si è parlato di Pietro Grasso o di un ex presidente della Corte costituzionale) dopo la giornata di ieri sembra infatti perdere quota. Mentre al quartier generale del Pd si aspetta con fiducia il possibile incarico. Che, se dovesse arrivare, Bersani intende svolgere arrivando al voto parlamentare. Come del resto si capisce dalle parole che pronuncia di fronte ai giornalisti, dopo il colloquio con Napolitano.
«Le nostre riflessioni partono da quel che viene dal Paese, che chiede un governo e il cambiamento», ha detto il leader democratico incontrando i giornalisti nella Sala della vetrata del Quirinale. «Ci si aspetta attenzione immediata ai temi sociali più acuti, una moralizzazione della vita pubblica, riforme istituzionali. Il Pd si mette al servizio di questa esigenza. Come? Lavorando per la possibilità di un governo che presenti al Parlamento proposte precise per un avvio di legislatura nella chiave del cambiamento». E non è l’unico riferimento alla via parlamentare che fa Bersani. Proprio perché dalle elezioni di febbraio non è uscita una maggioranza in entrambe le Camere, il leader del Pd è convinto che non si debba passare per un’ulteriore esplorazione con le altre forze politiche, ma che sia giusto andare alla verifica parlamentare. «La situazione è nota, sono noti risultati e meccanismo elettorali. Fossimo in un altro Paese non saremmo di fronte a certi problemi ha detto facendo riferimento alla legge elettorale da noi vigente e per noi la soluzione si può trovare mettendo il Parlamento di fronte a un’assunzione di responsabilità».
Il piano di Bersani in caso di incarico (benché dica di non avere «né piano A né piano B» perché ieri si è limitato a presentare le proposte del Pd a Napolitano, al quale ora tocca la decisione) prevede dunque la presentazione in Parlamento degli otto punti, con un’offerta di «corresponsabilità» a tutte le forze politiche. «Non rincorriamo nessuno», ha precisato con evidente riferimento al Movimento 5 Stelle, criticato anche per l’atteggiamento mostrato nell’elezione dei vicepresidenti delle Camere («Noi abbiamo mostrato rispetto per i loro elettori, loro non hanno dimostrato rispetto per i nostri»). E ha anche sottolineato che tutte le proposte programmatiche, tutta la discussione sulla nuova legge elettorale, sulle riforme istituzionali, sulle misure per far fronte alla questione sociale, saranno aperte a tutte le forze parlamentari, Pdl compreso. «Naturalmente ci sono punti del nostro programma che dalla destra sono stati impediti in questi anni, e anche in quest’ultimo anno, quindi immagino che su questi ci sarebbe una singolare via di Damasco».
Apertura a tutti, che non significa la disponibilità a sostenere un governo insieme al Pdl. È proprio per questo che Bersani ha insistito, tanto con Napolitano quanto successivamente incontrando i giornalisti, sulla necessità di dar vita non solo a un governo, ma a un «governo di cambiamento». In quest’anno e mezzo, con la strana maggioranza che ha sostenuto l’esecutivo Monti, non è stato possibile approvare le misure necessarie per far fronte alle questioni sociali e a una «moralizzazione della vita pubblica». Ripetere l’esperienza, è il messaggio consegnato da Bersani, sarebbe molto pericoloso: «Un governo senza possibilità di dare cambiamento porterebbe il Paese a guai peggiori di quelli che vediamo oggi». E se il Capo dello Stato decidesse di dare l’incarico a qualcun altro? Bersani, sorridendo prima di lasciare il Quirinale: «Penso e spero di poter dare una mano a trovare una soluzione. Non metto davanti problemi personali. Sento, e il mio partito sente, di avere una responsabilità da esercitare, di fare qualcosa per il Paese». La parola a Napolitano.

l’Unità 22.3.13
I conti sbagliati di Grillo: primo partito è il Pd, non M5S


Il Movimento 5 stelle ha ribadito nelle consultazioni con Napolitano di essere «il primo per numero di voti alle ultime elezioni». È un’affermazione che Grillo e i grillini ripetono dal giorno successivo alle elezioni e che in certi giornali e tv sta diventando «senso comune». Peccato (si fa per dire) che non sia vero.
Sono i dati ufficiali del Viminale a rivelarlo, già nella giornata del 26 febbraio, all’indomani delle elezioni. Il primo partito per numeri di voti è infatti il Pd. Alla Camera secondo i dati del Ministero dell’Interno c’è una differenza di 148.116 mila voti a favore del Pd. Più precisamente: M5S 8.689.458 (in Italia) + 95.041 (voti italiani estero) = 8.784.499
Pd 8.644.523 (in Italia) + 288.092 (voti italiani estero) = 8.932.615.
Ecco anche i dati del Senato: M5s 7.285.850 + 89.562 = 7.375.412 Pd 8.400.161 + 274.732 = 8.674.893.
In altre parole il M5S, continua a non tenere conto del voto degli italiani all’estero, nonostante Grillo ne abbia segnalato l’importanza, sul suo blog.

La Stampa 22.3.13
Il Pd teme il flop, rischio implosione
Fronda anti-Bersani anche tra i “giovani turchi” pronti a sostenere Renzi se si andasse alle urne
Gentiloni: «Se ci chiede di bocciare un esecutivo del presidente, il partito si spacca sicuramente»
I fedelissimi del leader ammettono: «Siamo preoccupati, c’è stato qualche sfilacciamento»
di Carlo Bertini


«Pierluigi non andrà mai in Direzione a chiedere che il Pd mischi i suoi voti con quelli del Pdl in un qualsiasi governo, questo film non verrà mai proiettato su nessuno schermo», garantisce uno dei consiglieri più fidati del leader.
Il momento è grave, «le prossime 48 ore saranno cruciali», racconta uno dei segretari regionali di rito bersaniano che insieme ad una cinquantina di fedelissimi del leader, parlamentari e non, è stato convocato ieri mattina presto da Davide Zoggia in una saletta nei pressi della stazione Termini per un summit di corrente, mirato più che altro a serrare le fila intorno a Bersani. Il quale proprio nel momento clou risulta per paradosso sempre più isolato nel suo partito. Perché in caso di fallimento del piano A, «se Bersani venisse mai a chiederci di non dare i voti del Pd ad un eventuale “governo del Presidente” il partito si spaccherebbe certo», prevede Paolo Gentiloni. E non solo: se l’unica subordinata del segretario fosse quella di un approdo verso le urne - «piuttosto che governare col Pdl meglio il voto», dicono i suoi - di sicuro non sarebbe questa la soluzione preferita da una buona fetta del Pd.
La fronda trasversale, composta da «lealisti» pronti a mollare il segretario al suo destino, dai 50 renziani che scalpitano, dagli ex Ppi, ex dc e liberal vari, già affila le armi: e pur partendo da posizioni diverse, nel caso si andasse a votare, tutti ormai concordano che «non si andrebbe di certo con Bersani leader». Bensì con Matteo Renzi, che a precise condizioni potrebbe contare anche del sostegno dei suoi storici nemici alle primarie, i «giovani turchi». «Si è vero, si potrebbe andare con Renzi candidato premier alle urne, ma in un’ottica di accordo con altre forze, Sel e Scelta Civica, per battere Grillo e Berlusconi e nel quadro di un accordo politico condiviso, in cui tutti pagheremmo un prezzo molto alto... », ammette Matteo Orfini insieme ad Andrea Orlando in un angolo del Transatlantico. Facendo capire che il sindaco di Firenze dovrebbe spostare di qualche grado a sinistra la sua linea politica in cambio di un superamento della pregiudiziale contro di lui di una buona fetta del partito.
«Ma se Renzi vuole lanciare un’opa ostile sul Pd, allora andiamo a contarci alle primarie e avrà di fronte un Barca o una Boldrini che sono pure più “nuovi” di lui», avvisano i due leader «turchi». E che le ultime vicende interne, come la nomina del capogruppo alla Camera, abbiano lasciato strascichi e peggiorato il clima intorno a Bersani, lo dimostra il fatto che lo stesso Orlando nei conversari privati, abbia manifestato tutto il suo disappunto per esser stato prima indicato come candidato a quel ruolo, poi scartato senza neanche essere avvisato.
«Certo qualche sfilacciamento c’è stato, è vero che siamo preoccupati», ammettono i bersaniani doc riuniti a conclave prima della salita del loro leader al Colle.
Dunque guardando in prospettiva, visto che pochi credono ad una legislatura che duri più di un anno, Renzi è sempre più sugli scudi e quelli che contano nel Pd valutano il sondaggio riservato Swg, secondo cui una coalizione con Sel e i montiani a guida Bersani è quotata al 29 per cento, ma se guidata dal «rottamatore» i consensi salirebbero al 44 per cento, pure lasciando fuori i vendoliani.
Insomma, due domande assillano in queste ore dirigenti e maggiorenti del Pd: se Bersani dovesse fallire, reggerà sulla linea del mai un governo col Pdl? E basta farsi un giro in un Transatlantico per capire che come minimo il Pd rischia di spaccarsi a metà se Bersani dovesse mai portare questo interrogativo al voto nei gruppi o in Direzione.
Tanto per fare due conti in un gruppo di 280 e passa deputati, anche se Franceschini dice no ad una coalizione per governare col Pdl, i suoi uomini sono divisi e sono una quarantina solo alla Camera; Letta ne ha una ventina, Fioroni e Veltroni ciascuno poco meno, la Bindi una decina e i renziani sono un’altra cinquantina. E anche loro, di fronte al bivio, entrerebbero in crisi, ma difficilmente darebbero una mano a Bersani «che con i suoi ci ha portato fin qui, il pasticcio lo hanno fatto loro... ».

Corriere 22.3.13
Pd col fiato sospeso sulla missione di Bersani
I giovani turchi: è finita una fase. Franceschini: se sbatte lui, a rischio il partito
Nel Pd c’è scetticismo sulle possibilità di Bersani nel riuscire a formare un governo
di Giovanna Casadio


ROMA — «Da quattro giorni non apro bocca, nessun commento di politica nazionale neppure su Facebook, mi sembra il modo più serio per lasciare passare questa fase qua...». Matteo Renzi è straordinariamente cauto: adda’ passa’ ‘a nuttata. Ma nel Pd appeso alla riuscita del tentativo Bersani di guidare il governo, si respira aria di fronda. Già si pensa al “dopo”: il partito è diviso tra chi vuole al più presto un passo indietro del segretario per un “governo del presidente” e chi è disposto a seguirlo fino all’epilogo delle elezioni anticipate, a patto che non sia lui a guidare la prossima partita per la premiership. Soprattutto temono che la voglia di Bersani di andare fino in fondo possa “impiccare” il partito e penalizzarlo per la prossima sfida elettorale. «Un processo è finito, Pier Luigi si prepari a cedere il passo», hanno deciso i “giovani turchi” capitanati da Orfini, Orlando, Fassina dopo colloqui e riunioni.
Atmosfera plumbea nel Pd, altro che primo giorno di primavera. Una situazione che apre la strada al congresso e al cambio della guardia alla guida del partito. Walter Veltroni, il più convinto sostenitore di un “governo del presidente”, in un colloquio si è sfogato: «Era evidente che con Grillo andava a finire così...». Insomma in molti, ad eccezione dei fedelissimi, temono che quello di Pierluigi sia una strada senza sbocco: se anche il leader del centrosinistra portasse la sua “missione impossibile” fino in fondo, sarebbe l’esecutivo più fragile della storia della seconda Repubblica. Walter Verini, ex braccio destro di Veltroni, rimarca: «Tutto il Pd, a partire da Bersani, sarà responsabile e pronto al passo indietro se, malauguratamente, il suo tentativo non andasse in porto ». Anche i più bersaniani, come Dario Ginefra ammettono tristemente: «Vada in fondo Pierluigi , però siamo consapevoli di essere alla fine di un percorso». Ci si prepara dunque al “dopo” nelle file democratiche. Roberto Speranza, il neo capogruppo, bersaniano di ferro, afferma in tv: «Renzi? È una risorsa straordinaria, è una delle figure su cui puntare per il futuro, è una delle risorse migliori in campo». Di Renzi, del partito e di cosa accadrà nelle prossime ore discutono sia Enrico Letta che Dario Franceschini. E’ evidente che quanto accade nella partita di governo ha un riflesso diretto sul Pd. In un vertice di Areadem, Franceschini spiega: «Non possiamo mollare Pierluigi, non è solo una questione di lealtà, è un ragionamento politico. Se sbatte Bersani, si sfracella anche il Pd, al contrario di quello che pensano i “giovani turchi”. Il destino del segretario è in questo momento il destino del partito».
Non c’è una vice presidenza delle Camere per i “turchi”. Matteo Orfini, nella riunione della corrente, ha rifiutato di fare il vice di Speranza. «Però mi piacerebbe - chiede al capogruppo e ai commessi d’aula - avere lo scranno numero 26 di Montecitorio, quello che fu di Togliatti». Neppure quello. Nella loro giornata nera, i “giovani turchi” ricevono mail di fuoco dalla comunità armena che chiede cambino nome per rispetto delle vittime del genocidio. «Se il segretario propone di andare alle elezioni lo appoggiamo di sicuro - afferma Orfini . Però è chiaro e l’abbiamo detto subito, che non può essere Pierluigi il candidato premier, nessuno ha due chance di questo livello ». Una fase è finita. Quella che sta per cominciare è tutta da scrivere e non esclude un asse giovani turchi-Renzi nel nome del rinnovamento generazionale. È possibile? «Vedremo come si comporterà il “rottamatore” - ragiona Orfini -. L’offerta politica ormai si consuma in fretta, e se Matteo andasse alle primarie per la premiership con la stessa impostazione dell’autunno 2012 non vincerebbe. Noi allora gli contrapporremmo Boldrini o Barca». Orlando - che era il capogruppo più accreditato fino all’altro giorno - condivide l’impostazione: «È evidente che noi siamo bersaniani fino in fondo perché non c’era altra strategia possibile, ma sappiamo che qualsiasi sia la conclusione della partita - ci sia un governo Bersani oppure no - la situazione è così fragile per cui occorre guardare al “dopo” ». C’è una classe dirigente da ricreare, un partito da far navigare. E il segretario lui stesso ha scommesso sulla “ruota che gira” . Fassina è per la verità più prudente: «Oggi mi concentro sul tentativo di Bersani, poi vediamo ». Il renziano Matteo Richetti si limita a osservare: «Siamo in ballo, e balliamo, una cosa è il film con Bersani incaricato, altra se l’incarico va a un altro».

l’Unità 22.3.13
Grasso e Boldrini si tagliano le spese e metà stipendio


Il presidente del Senato, Pietro Grasso, si è dimezzato lo stipendio, come ha scritto ieri l’Unità, e si è ridotto la scorta. Lui stesso ha illustrato nel dettaglio i tagli di spesa: «Per quel che riguarda il mio compenso, fatte salve le indennità irrinunciabili, ho deciso di tagliare completamente tutto il resto (diaria, rimborso spese generali e rimborso spese per l’esercizio del mandato), passando dai 18.600 euro netti previsti a circa 9.000 euro netti». Un risparmio annuo complessivo di euro 111.960 su 223.169,76 euro. «Rinuncio anche agli appartamenti e agli autisti», mentre per la scorta, dal maxiprocesso una «dolorosa necessità e non un privilegio» ha deciso di «dimezzare quella prevista dal Ministero dell’Interno per il Presidente del Senato». Tagliato del 50% il costo lordo del Gabinetto del Presidente e del fondo consulenza,
quasi 1 milione e mezzo di euro l’anno, che scende a circa 750.000 euro. «Il risparmio complessivo sarà di circa 861.960 euro l’anno». Grasso ha voluto dare l’esempio e auspica che «lo stesso metro possa essere adottato da tutti i componenti dell’Ufficio di Presidenza di un Senato che intendo convocare dal lunedì al venerdì».
Anche la presidente della Camera, Laura Boldrini, si dimezza lo stipendio, come ha scritto in una lettera al segretario generale, Ugo Zampetti, chiedendo di dare corso subito ai tagli: «Rinuncio all’uso dell’alloggio di servizio e al rimborso delle spese accessorie di viaggio e telefoniche», ha scritto al segretario generale di Montecitorio, Ugo Zampetti chi, e chiede che «l’indennità di funzione connessa alla carica di presidente della Camera e il mio rimborso delle spese per l'esercizio del mandato parlamentare siano ridotti della metà». L’eliminazione degli sprechi è «una necessità imprescindibile», secondo la presidente, che ieri ha salutato i cronisti parlamentari a Montecitorio.

l’Unità 22.3.13
Tagli non solo ai parlamentari ma anche ai manager
di Massimo Mucchetti


Caro direttore, c’è qualcosa che non torna nella rincorsa a chi taglia di più di emolumenti dei parlamentari. I presidenti del Senato e della Camera si autoriducono la paga del 30%? Bene, ma ecco che il Grillo furioso inarca il sopracciglio e tuona: «Troppo poco, si tagli al 50%!». Ma perché il 50, dico io? Non sarebbe meglio il 60%?
Insomma, vogliamo avviare da epigoni del Sessantotto più scadente il triste gioco del «più uno» o vogliamo cercare risposte convincenti alle domande vere: perché, a quale scopo e in base a quali parametri si debbono decidere questi tagli? E poi: solo Pietro Grasso e Laura Boldrini, con le assemblee elettive da loro presiedute, devono un tale atto al Paese o anche altri personaggi dovrebbero avvertire lo stesso dovere? Per altri personaggi intendo gli alti esponenti dell’economia, della finanza e dell’accademia, le star dello spettacolo e dello sport, i guru dell’informazione che negli ultimi trent’anni hanno esercitato sul Paese un’influenza non certo inferiore a quella della politica: non inferiore, e in molti casi nemmeno migliore.
Proviamo a ragionare un po’. Ci fu un tempo nel quale il suffragio elettorale era ristretto alle classi agiate e i parlamentari non percepivano alcunché. Erano ricchi signori che vivevano di rendita. La remunerazione degli incarichi politici elettivi nasce con la democrazia. Diversamente, un povero, ancorché geniale, non potrebbe partecipare al governo e al Parlamento. Di più, una remunerazione troppo bassa aumenta l’esposizione del parlamentare alle tentazioni che provengono dalle lobby. Banalità? Sì, banalità. Ma le vite scandalose di un numero troppo alto di politici in un Paese che soffre rischiano ormai di cancellare quelle premesse della democrazia e di aprire la strada a un’ansia di punizione che, pur comprensibile, acceca e può aprire la strada a nuove forme di oligarchia. Il Movimento 5 Stelle è un soggetto politico in formazione, al vertice del quale siede un ricco signore proprietario del marchio e del megafono e, sotto, un gruppo parlamentare che dovrebbe essere composto, in teoria, di persone senza i mezzi per rendersi centri autonomi di elaborazione. Non è detto che il M5S resti immutato per sempre. Ma oggi così è.
Ora, il Parlamento e il governo possono fare del gran bene o del gran male al Paese. Averli formati da personaggi pagati mille euro al mese non assicura di per sé buoni risultati. Il problema vero è come selezionare una classe dirigente adeguata, e certo l’attuale legge elettorale risulta inadeguata allo scopo. Ma, se per un attimo, immaginassimo un Parlamento finalmente degno, quale dovrebbe essere la remunerazione dei suoi membri? E quale dovrebbe essere il più generale costo di produzione dell’attività parlamentare?
Luca Ricolfi, su la Stampa, scrive degli arricchimenti possibili con la politica. Ma rispetto alle professioni e ai mestieri della vita precedente, ci sarà sempre un parlamentare che, con l’incarico, ci guadagna e un altro che ci perde. Forse, i nuovi piagnoni andrebbero riascoltati una volta lette le loro vecchie dichiarazioni dei redditi. Forse, più che il quantum per testa andrebbe drasticamente tagliato il numero delle teste che percepiscono, superando il sistema bicamerale. E certo assicurata la massima trasparenza.
Quanto al costo del Parlamento non va dimenticato che si tratta della più importante tecnostruttura del Paese. Certo, ha accumulato privilegi corporativi da rimuovere senza se e senza ma, tuttavia il Parlamento concentra anche professionalità di prim’ordine e altre ne dovrebbe attirare per poter meglio partecipare al processo legislativo europeo dal quale, invece, siamo oggi in larga misura assenti. Il taglio dei costi va bene. Se finalizzato allo sviluppo e a nuovi investimenti, va meglio.
Detto questo, non ho alcuna difficoltà ad applaudire alla decisione di Grasso e Boldrini purché costituisca la premessa di uno scatto d’orgoglio della politica e non il cedimento a una specie di grillismo democratico. Il M5S e dicoM5SenonGrillo-èun soggetto politico da trattare con serietà, senza pregiudizi ma anche senza sconti.
Gli italiani non solo gli elettori del M5S, ma anche tanti altri sono disgustati dai cattivi esempi e dagli sprechi arroganti delle assemblee elettive nazionali e regionali. In molti c’è un desiderio di punizione contro un’intera categoria, senza discriminare i buoni dai cattivi. Chi, come il sottoscritto, entra adesso nelle aule parlamentari lo sa e ne tiene conto. Ma la Casta resta tale per definizione e per sempre, trasformando la denuncia in retorica, o le assemblee elettive possono ritrovare l’onore, che è stato macchiato a Roma e in tante Regioni? Un certo numero di italiani dirà sempre che la Casta resisterà a tutto. C’è un cinismo nazionale che non intende dare mai credito agli altri per giustificare le proprie non innocenti evasioni.
Ma nell’elettorato del M5S e di altre aree politiche, a cominciare dal centro-sinistra, è forte la speranza in una politica che faccia il dover suo. E allora, riformate le modalità di finanziamento dei partiti e la legge elettorale che seleziona i parlamentari, avrà ancora senso sorvegliare e punire? Sorvegliare, direi, ha senso sempre. Punire, non l’avrebbe più. E tuttavia chi si trova alla guida politica del Paese dovrebbe comunque destinare una quota della sua remunerazione, adeguata al ruolo, all’impegno e alle responsabilità, a un fondo pubblico speciale. Al termine di ogni anno, e fino a quando dura la crisi, questo fondo riverserà i proventi ottenuti dai parlamentari al fondo ammortamento del debito pubblico o ad altri utilizzi stabiliti dal Parlamento. La punizione cede il passo alla solidarietà, alla condivisione della sofferenza di un popolo. Ma questo fondo dovrà avere una speciale caratteristica: essere aperto ai versamenti volontari degli italiani che contano (e guadagnano molto di più dei politici e dei massimi dirigenti della tecnocrazia parlamentare) nella finanza, nell’economia, nell’accademia, nelle professioni, nello sport e nell’informazione. Versamenti volontari, abbiamo detto, Ma anche nominativi, da comunicare ogni anno on line. Il potere non l’ha esercitato solo la politica. E quanti sono, ai vertici dei cosiddetti poteri forti, quelli che possono scagliare la prima pietra? Nell’Italia, dove l’ascensore sociale è fermo da anni e la concentrazione della ricchezza sta cancellando il ceto medio mentre i poveri diventano sempre più poveri, la coesione nazionale richiede esempi che vengano da tutti. Politici e non.

l’Unità 22.3.13
Grillo, insulti e diktat: a noi il premier o Copasir e Rai
I Cinque stelle: non voteremo la fiducia a nessun altro governo, neppure a Grasso
L’opzione Vigilanza
di Andrea Carugati


«Siamo il partito più votato, il governo lo vogliamo fare noi, niente accordi con chi ci ha fatto stalking». Il messaggio che la delegazione grillina consegna nella prima mattinata al Capo dello Stato è secco. «Altrimenti vogliamo il Copasir e la Vigilanza Rai». Nessuna disponibilità a fare accordi con altre forze politiche, «con chi ci ha definiti fascisti e demagoghi». «Non possiamo neppure prendere in considerazione i programmi di Pd e Pdl, che in larga parte coincidono, come sulla Tav e il nucleare...».
Al suo primo appuntamento istituzionale, Grillo arriva vestito di grigio, con una cravatta blu e un cappotto scuro, a bordo di un grosso Suv nero. Con lui i fedelissimi capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi. Niente Casaleggio, come previsto. All’entrata del palazzo del Quirinale il leader 5 Stelle mima il gesto dei soldi con le dita, poi svicola dentro il cortile zitto zitto. All’uscita, mentre i due capigruppo parlano dal piccolo podio dello studio alla Vetrata, lui non si fa vedere e scappa da una scala interna. Niente show, e neppure parole da leader politico. Prosegue la strategia della fuga, che in termini mediatici gli rende moltissimo. Prima di uscire dalle stanze del presidente, si lascia scappare una battuta: «Io dai giornalisti non ci vado, quelli sono pazzi, io parlo col New York Times...». Poi si fa una foto ricordo nel cortile, prima di infilarsi nel Suv che si infila a tutta velocità nel traffico della capitale inseguito da decine di fotografi in scooter, arrivando al Senato sulla corsia riservata ai bus, tra lo sconcerto e i fischi dei vigili.
L’incontro col Capo dello Stato è meno surreale di quanto immaginato. L’ormai ex comico si comporta da uomo di mondo, mette sulla scrivania il programma in venti punti del M5S, insiste per ottenere un incarico per un suo esponente ma non fa nomi. Consapevole che la sua è una strada senza uscita, che Napolitano non può affidare l’incarico a chi non ha neppure lontanamente i numeri in Parlamento. Persegue la strategia dell’isolamento. «ll M5S non accorderà alcuna fiducia a governi politici o pseudo tecnici con l’ausilio delle ormai familiari “foglie di fico” come Grasso», spiega poi sul suo blog. «È la linea ribadita dal giorno delle elezioni. Fare di tutto per favorire la nascita di un governo Pd-Pdl e poi gridare all’inciucio.
E tuttavia lo stesso Grillo, nel faccia a faccia, non nasconde il paradosso della situazione: «Caro presidente, se un comico prende il 25% vuol dire che nel Paese è successo qualcosa di incredibile...». Secondo il racconto (trasmesso in parte in diretta streaming) fatto poi da Crimi ai suoi senatori, «Beppe ha cercato di raccontare a Napolitano la rivoluzione che sta avvenendo, di spiegargli che tutto il mondo sta cambiando, i vecchi paradigmi e il modo di fare politica non vanno più bene». «Abbiamo cercato di spiegargli che gli italiani questi partiti non li vogliono più, che la maggioranza assoluta è composta da noi e dagli astenuti», dice Crimi.
Non manca una gaffe, che rimanda al nomignolo affibbiato da Grillo al Capo dello Stato, «Morfeo». «Napolitano non si è addormentato, Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio», racconta Crimi divertito ai grillini (poi è costretto a chiamare il Colle per scusarsi). Lo stesso Grillo, prima di congedarsi, ha assicurato: «Presidente, non la chiamerò più Morfeo».
Secondo Crimi, anche il presidente avrebbe «dato atto che questi partiti di oggi non sono come quelli delle origini, che avevano degli ideali, ma sono ingrigiti e appiattiti. Ci è sembrato conscio della crisi dei partiti». E aggiunge: «Al Quirinale abbiamo trovato un apparato impressionante, anacronistico, uno stuolo di persone». E sui partiti dice: «Con che faccia ora vengono a dire che vogliono parlare con noi? Con che coraggio?». Quanto all’incarico, il grillino si dice convinto che «il percorso va verso un governo Bersani, ma dopo il voto lui avrebbe dovuto andare a casa e dire “signori ciao”».
Nel pomeriggio, Camera e Senato votano i vicepresidenti e i questori. Grazie ai voti del centrosinistra, vengono eletti i grillini Luigi Di Maio (studente di legge, campano, 26 anni, metà degli esami passati) come vice a Montecitorio e Laura Bottici come questore in Senato. «Se mi vedete salire in auto blu linciatemi, io vado solo in metro o autobus», esordisce Di Maio. «Sarò un vicepresidente di garanzia per tutte le forze politiche. Non siamo arrivati per stravolgere le cariche istituzionali, altrimenti non saremmo qui nelle istituzioni». Per i 5 stelle, il bottino raccolto è decisamente insufficiente. Soprattutto per la mancata elezione della 26enne Laura Castelli a questore della Camera, il vero colpo grosso a cui miravano. «Chiediamoci come mai questa figura non viene data a noi», si lamenta Castelli. «Se Dini e Pisanu dicono che qui ci sono delle “caramelle” io le voglio vedere tutte». Alcuni deputati si sfogano in Transatlantico: «A un partito del 25% spettava di più», dice Alfonso Bonafede. «È prevalsa la logica degli scambi, e infatti i montiani hanno ottenuto più di noi anche se hanno solo il 9%».

l’Unità 22.3.13
Crimi, il gentleman che si fa beffe dell’età
Il capogruppo 5 Stelle ride con i suoi di Napolitano «tenuto sveglio», poi è costretto a scusarsi
Allora insulta i giornalisti: «Mi stanno sul cazzo»
di Rachele Gonnelli


Èdifficile parlare di bon ton in quest’Italia post epoca d’oro berlusconiana, infatuata dei social network e della politica grillina, dove si sta per lo più soli davanti allo schermo di un computer a scambiarsi facezie e scarni commenti politici mentre si prepara il sugo, inchiestine online e ricette per zuppa di cozze. In quest’Italia qui non si sa nulla di decoro istituzionale e l’etichetta è solo quella che si taglia via dai vestiti appena comprati perché fa prurito.
Quanto al buongusto, quasi sempre sinonimo di educazione, nella melassa televisiva degli ultimi anni se n’è perso lo stampo. Così non si deve essere troppo duri contro Vito Crimi, il capogruppo Cinque Stelle al Senato, per la brutta gaffe in cui è incappato ieri. Riferendo ai neoparlamentari del MoVimento dell’incontro appena avuto al Colle insieme all’omologa della Camera Roberta Lombardi, parlando ai suoi a porte chiuse anche se ripreso in diretta streaming urbi et orbi, Crimi ha avuto parole sprezzanti nei riguardi di Giorgio Napolitano. «Non si è addormentato», «Beppe cioè Grillo lo ha tenuto sveglio». Non voleva essere offensivo verso la più alta carica dello Stato, come ha spiegato in serata.
Forse quando si è catapultati in primo piano sulla scena politica nazionale si tende a sminuire i protagonisti sulla ribalta per attenuare l’ansia da prestazione. Infatti nel tardo pomeriggio, dopo una lavata di testa metaforica, s’intende del capogruppo del Pd Luigi Zanda e una ridda di messaggi indignati sotto i post dei grillini, Crimi ha detto che si scuserà con lo stesso Napolitano, che non voleva, non era sua intenzione essere offensivo, anzi, aveva rimarcato il tono cordiale e «amichevole» del colloquio al Quirinale.
Peccato che nella replica non sia riuscito a fare di meglio. Ha infatti voluto rimarcare, per ammorbidire l’approccio supponente «estrapolato dal contesto» dai perfidi giornalisti, di aver anche fatto riferimento, nella sua relazione al gruppo, a quanto «amichevolmente» detto dallo stesso Beppe «direttamente al Presidente». E cioè che «dopo averlo conosciuto non utilizzerà più appellativo di Morfeo» bontà sua per riferirsi al capo dello Stato. L’ha detto davvero, visto che il portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella, twitta seccato: «Evidentemente non aveva nemmeno idea di che pasta fosse Napolitano...». Qualcuno aggiunge: «Magari parlava di Morpheus di Matrix», il capitano di Zion che cerca l’Eletto. Alla fine, per Crimi meglio tornare a dare tutta la colpa alla stampa, naturale scorciatoia di ogni politico in difficoltà. Cosa pensa in dettaglio dei giornali, il capogruppo della «principale forza politica del Paese» che si candida per un governo monocolore di minoranza, lo ha detto durante un programma radiofonico registrato ieri per La Zanzara. «I giornalisti e le tv li sto rifiutando tutti perché mi stanno veramente sul cazzo, cercano solo il gossip», ha detto Crimi, dimentico o inconsapevole di partecipare, per l’appunto, ad un programma di scherzi radiofonici e gossip politico di qualità. Ha anche detto che lui per le istituzioni ha un rispetto «immenso, non per le persone che le hanno frequentate, per quelli zero rispetto, non lo meritano...».
Quindi ha ammesso qualche disorganizzazione e arronzamento nel Movimento. C’è Casaleggio dietro tutto? «Tutte minchiate», ha rassicurato con il suo solito aplomb. Funziona così: «Io lo sento due tre volte a settimana, solo per questioni di comunicazione. Ti chiama la mattina e ti dice “guarda, ieri avete fatto questa cosa. Avreste potuto farla meglio. Fai il video”», frasi semplici, chiare. «Siamo molto meno organizzati di come sembra, infatti anche noi spesso ci chiediamo come ci siamo arrivati qui», confessa.

l’Unità 22.3.13
Il codardo oltraggio
di Pietro Spataro


C'ERA UNA VOLTA UN PARTITO CHE FACEVA DELL'OFFESA LA CIFRA DELLA PROPRIA presenza politica. È inutile ricordare le parole uscite dalla bocca di Bossi e dei suoi uomini nel corso dell' ultimo ventennio perché ognuno ne ha memoria. Oggi il Senatur è in disparte e un suo emulo tenta di ripeterne, in forme diverse, le gesta. A differenza di allora, però, Grillo ha l'incombenza di gestire un risultato elettorale che è di gran lunga superiore a quello leghista e che contiene segnali diversi, non tutti assoggettabili alla formula della guerra totale al sistema.
Per questo motivo le parole pronunciate dal capogruppo al Senato Vito Crimi nei confronti di Napolitano non sono solo inaccettabili, ma sono un altro esempio della «politica dell'oltraggio» che contrassegna sin dall’inizio la marcia grillina. Fa davvero pena vedere il video, postato su Facebook da un senatore del M5S, nel quale il valoroso Crimi riferisce ai suoi compagni di partito che «Napolitano non si è addormentato perché Beppe lo ha tenuto sveglio». Parole volgari che però suscitano divertite risate in sala. Una scena indecente.
C'è davvero poco da ridere. Perché quell’offesa non solleva soltanto una questione di rispetto che non sarebbe male animasse deputati e senatori della Repubblica. In fondo è la spia di un sentimento pre-politico che si addice più a un movimento protestatario extraparlamentare che non a chi sostiene di essere il portabandiera del cambiamento in Italia. Grillo e gli eletti del M5S sembrano rimasti fermi in campagna elettorale. E oggi cercano di nascondere, proprio con la ripetizione delle offese, le loro difficoltà politiche così evidenti in una situazione abbastanza complicata. Una tecnica un po' infantile.
Quando scoppiò il caso dei senatori ribelli che votarono per Grasso presidente del Senato, Grillo cercò prima nuove armi di distrazione di massa (l'«inciucista D'Alema» che vuole occupare il Quirinale), poi disse che Grasso era fastidioso come un «raffreddore» e lui e la Boldrini «foglie di fico» di partiti finiti. Insomma, arrivati al dunque lui alza sempre l'asticella. Per cui, solo per fare un esempio degli ultimi, se i presidenti delle Camere si tagliano lo stipendio, non basta: ci vuole di più. Uno stile provocatorio che ci ha riservato nei mesi scorsi anche un Bersani soprannominato Gargamella o definito un «morto che cammina» e via oltraggiando a destra e a manca. Per Grillo sono tutti uguali, tutti «pezzi di merda, ladri, papponi e mignotte» al servizio di «Rigor Montis» o del «presidente Morfeo» come va ripetendo in giro per il Paese.
Tra chi lo ascolta c’è chi si diverte. Ma in quelle risate rischia di consumarsi, poco per volta, la spinta propulsiva di un movimento che ha raggiunto un traguardo importante e ora non sa come andare oltre. Anche ieri al Quirinale la delegazione del M5S ha buttato la palla fuori campo. Dovevano rispondere alla semplice domanda se e in che modo contribuire alla nascita di un governo e hanno risposto, giocando con i numeri, che il governo spetta a loro.
È difficile dire per quanto tempo ancora sia sostenibile una linea politica che unisce il «codardo oltraggio» all'attacco provocatorio, senza fare mai i conti con la realtà e con le scelte che la democrazia richiede di volta in volta. Ma quando si passa dalle piazze alle aule parlamentari la musica cambia per tutti. Né l'offesa e né i fumogeni seminati lungo la strada serviranno per fare un passo avanti.

Corriere 22.3.13
Gli Stellati che non brillano in educazione
Se la trasparenza vale solo per gli altri
Domande vietate e arroganza sulle regole. Gli elettori «stellati» non si fanno sentire?
di Beppe Severgnini


«Per sfuggire ai giornalisti, ai cameramen e ai fotografi che lo inseguivano a bordo di moto e scooter, l'auto di Beppe Grillo, uscita dal Quirinale, è passata 3-4 volte col rosso, ha preso la corsia preferenziale di corso Rinascimento e ha effettuato un paio di inversioni a U dove non era consentito». Dettaglio della cronaca di ieri, che sottoponiamo agli elettori del Movimento 5 Stelle. Si fossero comportati così Berlusconi, Bersani o Monti avreste detto, giustamente: l'arroganza del potere davanti alle regole. Poiché lo ha fatto Beppe Grillo, nessuna obiezione. O almeno non ne abbiamo ancora lette, tra le migliaia di commenti sulla giornata. Anzi: traspare un certo orgoglio davanti alle gesta del capo, campione di slalom urbano e variazioni democratiche (a quale titolo era al Quirinale? Non si sa).
Grillo capisce di comunicazione, non c'è dubbio. Ma quello che capisce lui ormai lo abbiamo capito anche noi. L'uomo ha intuito il valore della scarsità in tempi di eccesso. Meno si fa sentire, più viene ascoltato. Meno si fa vedere, più diventa prezioso. Le fotografie artigianali col cellulare e le immagini ballonzolanti di una diretta streaming diventano gioielli, per i media ricchi di canali d'uscita e poveri di informazioni in entrata. Produrre vetro e venderlo come diamante: il sogno erotico-professionale di ogni uomo di marketing.
Capiamo che ogni paragone tra Grillo e Berlusconi possa risultare indigesto ai sostenitori del primo. In effetti i personaggi non potrebbero essere più diversi, come storia, psicologia, ideologia e tricologia. Ma come venditori sono entrambi dei fuoriclasse. E, quando si tratta di non rispondere, sono due campioni. Perché diciamolo: tra un blog senza contraddittorio e un videomessaggio non c'è poi molta differenza.
Detto ciò: che Grillo ci provi, non è bello; ma ci sta. La delusione è vedere i suoi elettori entusiasti di queste tattiche. Non dev'essere per forza così, lo hanno dimostrato loro stessi. Dopo essersi ribellati in Rete al diktat del capo, che minacciava punizioni per i voti in Senato a Pietro Grasso, gli stellati — gli elettori del Movimento 5 Stelle — hanno ottenuto subito un risultato. Grillo ha ammorbidito i toni, nessuna punizione o espulsione. Perché non far sentire la propria voce anche in materia di trasparenza, comunicazione, accessibilità?
Risposta facile: poiché in Italia, in queste materie, siamo immaturi. Gli elettori di un partito ragionano come tifosi di una squadra: i propri colori vanno difesi sempre e comunque, alla faccia dell'evidenza, della logica e del buon senso. Pensate ai comunisti degli anni 70, ai socialisti degli anni 80, ai leghisti negli anni 90, agli azzurri berlusconiani negli ultimi vent'anni. Gli stellati sono nel solco della tradizione: una brutta tradizione, però.
Prendiamo le inesattezze — al limite della falsità — ripetute come un mantra, sperando che diventino verità. Ieri la coppia Crimi-Lombardi ha spiegato: abbiamo chiesto l'incarico al presidente Napolitano «in quanto primo partito del Paese». Questo, semplicemente, non è vero. Non solo il M5S ha 162 parlamentari su 945, ma è il secondo partito anche come numero di voti: 8.784.499 contro 8.932.615 del Partito democratico. Ma chi l'ha fatto notare, in Rete, è stato sbeffeggiato. Gli stellati più educati si sono limitati a dire: al primo posto Pd si arriva calcolando anche le circoscrizioni estere, e quelle non contano. Perché? «Perché Striscia ha dimostrato che sono truccate», spiega @ludopice. E va be'.
Gli esempi non sono limitati alla giornata di ieri. Abbiamo visto conferenze stampa col divieto di porre domande. Interviste riservate alla stampa straniera. La tattica — un po' leninista, diciamolo — di pretendere ogni apertura dal sistema che si cerca di infiltrare e conquistare; chiudendo invece la porta sulla propria organizzazione e i propri metodi.
Tutto questo cambierà solo quando iscritti, elettori e simpatizzanti del M5S lo chiederanno: non prima. Ci sono persone giovani, oneste e preparate, all'interno del Movimento. Hanno l'autorità, la serenità e il tono per chiedere un cambio di passo. Non devono farlo per compiacere i media. Devono farlo per diventare grandi: ormai è ora.

l’Unità 22.3.13
La rivoluzione, la fatwa e gli opportunisti
di Sara Ventroni


VOGLIAMO TUTTO. COSÌ PARLÒ BEPPE GRILLO SALENDO AL COLLE, SCORTATO DAL FEDELE CHAUFFEUR WALTER VEZZOLI. Al termine dell’incontro il capo si concede una foto-ricordo, poi sparisce come un divo dietro i vetri fumé del suv. Il volenteroso Crimi ci informa: durante il colloquio, Grillo avrebbe spiegato a Napolitano la rivoluzione. In assenza di Gianroberto Casaleggio, il Megafono fa anche la parte del profeta, illuminando il presidente della Repubblica sulla morte della democrazia dei partiti. In nome della salvezza nazionale, il Movimento non accetta la trattativa. Regola numero uno: non si fanno mediazioni. Non si concede legittimità al primo che passa, tipo Bersani. Non esistono interlocutori. Come insegna Roberta Lombardi, non si parla con la stampa. Tutt’al più la si convoca per un rapido monologo.
La rivoluzione del «non-statuto» non ammette deroghe. Massimalisticamente lanciato verso il 100% del Parlamento, il minimo che il Mov. può chiedere a Napolitano è un governo monocolore a Cinque Stelle. L’M5S è il primo partito, calcolando anche i non-voti dell’astensione. Dice Crimi.
E non importa se non è vero, dal momento che sommando i voti degli italiani all’estero il Pd è la prima forza politica del Paese. E non importa se, un minuto dopo essersi presentati come apostoli del nuovo ordine pauperista, si fa scivolare sul tavolo del Quirinale la poltrona del Copasir, una vicepresidenza e un posticino da Questore. Non è la solita spartizione in proporzione ai voti. Qui si reclama una missione. In nome del popolo sovrano.
I cinquestelle non sono stati eletti per governare. Sia chiaro. Sono inviati per controllare, dall’alto, i gironi più bassi del Parlamento. Fanno foto. Video. Con la matita rossa e blu bacchettano i colleghi, anche quelli che si impegnano. Ma non va bene. Non si è mai abbastanza puri. O si è fuori, o si è dentro il Movimento. Regola numero due.
I saggi dicono che bisogna capire il momento storico. Assecondare il vento, prima che il vento travolga tutto. Siamo già travolti. Stiamo raccogliendo i pochi averi, i beni davvero comuni, della Repubblica. Tra cui i partiti.
I cinquestelle non vogliono essere chiamati onorevoli. Sono cittadini, più cittadini degli altri. Non socializzano. Impareremo ad annuire, con le mani alzate, fingendo di esserci arresi. Siamo al mito del cyborg: da oggi si fa a meno della libertà di coscienza, un costo aggiuntivo, buona solo per l’inciucio. Molto più pratico appellarsi a un vincolo di mandato. A un contrattino firmato per accedere alle elezioni. Un patto privato. L’uniforme interiore è già una divisa spartana. Maoista. Un pugno di riso contro la bouvette. Tutto deve essere visibile, a costo di farsi trapassare da una scomunica, prima di accogliere la direttiva del capo, emanata con un post bilioso, notturno.
Il mondo è cattivo e i Cittadini sono ancora in rodaggio. Basta mettere un Grasso contro uno Schifani e il tranello è pronto. Beppe lo sa, e perdona. Ma si deve comunque passare sulla graticola espiatoria. D’ora in poi ci saranno i portavoce dei portavoce, Claudio Messora per il Senato e Daniele Martinelli per la Camera. Nessuna parola sarà lasciata al caso. Nemmeno gli scherzi telefonici, troppo umani per essere decifrati dal microchip d’ordinanza, non ancora settato per l’ironia e la convivialità. Non ci si deve mischiare.
A poche ore dall’investitura, i due ottimizzatori della comunicazione sono già in silenzio stampa per protestare contro la macchina del fango. C’è del marcio nei media. Solo Beppe Grillo, titolare del marchio e monologhista di successo, ha libertà di espressione, di insulto e di espulsione. Solo a lui la rivoluzione concede la patente del teppismo intellettuale. La sua macchina del fango è a norma di rivoluzione.
Ma l’elezione di Pietro Grasso gli ha fatto passare la notte in bianco, come un Amleto assalito dai dubbi, con un regno sconosciuto tra le mani. Grillo lancia la fatwa a notte fonda, poi la ritira in mattinata. Ha letto, ed emendato, i commenti dei dissidenti.
Intuisce il peso della responsabilità. E gioca a sottrarsi, alzando la posta. Ma il gioco non può durare. Grillo sa che tra i suoi elettori c’è di tutto. Puristi massimalisti, sinistrorsi, post leghisti, disillusi, seguaci, protestatari, fascistoidi, qualunquisti, persone perbene.
Non potrà accontentare tutti. E l’Italia affonda. La rete è perfetta per mobilitare le masse, ma è ancora inadatta per governare. Grillo lo sa. E tampona come può. La sua democrazia diretta prevede consultazioni permanenti. Ma non tutti sono titolati al rango di cittadini. Lo streaming è ancora una promessa a venire. Il popolo, di cui i cinquestelle sono portavoce, potrebbe esprimersi a favore di un governo di alto profilo promosso da Bersani. Sarebbe una beffa. Per ora la missione degli Eletti è rendere conto. Come se uno scontrino bastasse a salvare l’Italia.

l’Unità 22.3.13
Questore e vicepresidente
il Pd lascia due ruoli ai grillini
Alla Camera il giovanissimo De Maio, al Senato Laura Bottici
Ma l’M5S non ricambia la cortesia
di Claudia Fusani


Con un occhio e mezzo alle consultazioni al Quirinale, i trenta incarichi che completano la macchina parlamentare vengono assegnati con criteri che tengono aperte tutte le porte al governo che Bersani vorrebbe far nascere. Incarichi votati per dire a M5S e Scelta Civica che lavorare insieme si può. I Cinquestelle hanno avuto «il questore= controllore» al Senato mentre quello della Camera, più ambito da M5S, è andato all’ex magistrato antiterrorismo Stefano Dambruoso eletto nella lista Monti. I grillini hanno avuto anche uno dei quattro scranni di vicepresidente della Camera assegnato al giovanissimo Luigi Di Maio, 26 anni, ancora a metà strada per raggiungere una laurea in Giurisprudenza ma attivissimo da anni nel Meet up di Napoli. «Noi non chiediamo nulla, sono posti che ci spettano di diritto con il 25 per cento dei voti» hanno ripetuto in questi giorni per concludere nel solito autismo politico: «Noi votiamo solo i nostri». Con infinita pazienza in serata Pier Luigi Bersani rivendica il voto del Pd per i candidati M5s alla vicepresidenza della Camera e per il questore del Senato. «Ho sentito cose curiose, che noi dobbiamo votare i loro per rispetto degli elettori, ma loro non votano i nostri. Noi oggi abbiamo mostrato rispetto per i loro elettori, loro non hanno rispettato i nostri». Così, se Ettore Rosato (Pd) dice di «aver votato per un grillino alla vicepresidenza della Camera e un montiano come questore per garantire il pluralismo», i senatori Cinquestelle osservano che «il posto di questore gli spetta di diritto perché hanno avuto il 25% dei voti». Non funziona così e qualcuno glielo deve spiegare. Funziona che in Parlamento e in democrazia i voti si cercano. Ogni volta.
Trenta incarichi, quattro vicepresidenti, tre questori e otto segretari d’aula per ogni ramo del Parlamento. Funzioni diverse ma tutte decisive per il funzionamento della macchina. Lo spoglio è finito tardissimo. A Montecitorio diventano vice Marina Sereni e Roberto Giachetti per il Pd, Luigi Di Maio per M5S e Maurizio Lupi per il Pdl. I nuovi questori sono Paolo Fontanelli (Pd), Stefano Dambruoso (Sc).
A palazzo Madama diventano questori la carrarina Laura Bottici, 41 anni (120 voti), Lucio Malan indicato da Pdl e Lega (113) e l’Udc Antonio De Poli, il più votato con 144 voti. A Pd-Pdl-Lega e Scelta civica le quattro vicepresidenze. Tutta la complessa scacchiera delle nomine tiene conto, anche, delle varie anime del partito democratico.
Contro la lunghezza della procedura il senatore Cinquestelle Lorenzo Battista ha lanciato un’idea via twitter: «Ma se facessimo le votazioni online sulla intranet per l’ufficio di presidenza, quanto tempo risparmieremmo».
Buona per la prossima volta.
Il senso delle nomine di ieri va cercato soprattutto nei tentativi di dialogo istituzionale con il popolo dei Cinquestelle. Dove dialogo non significa sottostare a logiche spartitorie di poltrone ma capacità di convivere pur con posizioni diverse cercando una sintesi. Qualcosa, a dir la verità, sembra stia cambiando tra i neoeletti grillini. Il giovane Di Maio, ad esempio. Giacca blu e camicia e righe, taglio di capelli perfetto (anche la toilette vuole la sua parte) già durante lo spoglio scambia due parole con i giornalisti in Transtlantico con un piglio da parlamentare navigato. «Se sarò eletto dice saprò essere responsabile e vicepresidente di tutti. Noi M5S non siamo arrivati per stravolgere le cariche istituzionali, altrimenti non saremmo qui nelle istituzioni». Non vede l’ora, aggiunge, di «collaborare con i funzionari della Camera, che sono i più bravi dello Stato» ed è pronto a farlo «nel miglior modo possibile». Così come non vede l’ora di «parafrasare il discorso del presidente Boldrini e attuare con lei i propositi di trasparenza e solidarietà di cui ha parlato». Quasi non si crede alle proprie orecchie. Compreso il commento sul presidente Napolitano: «Ha un grandissimo compito».
Un po’ di amaro resta per il posto di questore della Camera. Laura Castelli, giovane emiliana ma a suo agio nei bilanci come un topo nel formaggio. «Chiediamoci come mai questa figura non viene data al Movimento 5 Stelle e perché Dini e Pisanu vedono con terrore la nostra presenza nelle commissioni sui Servizi segreti e sulla Vigilanza Rai, Il mandato che ci hanno dato i cittadini è di andare a controllare cosa succede nei posti che contano». Se castelli non potrà spulciare nel miliardo e 300 milioni di spese correnti della Camera, Laura Bottici lo potrà fare da oggi nei due miliardi di spese del Senato.

il Fatto 22.3.13
Messora e Martinelli
Casaleggio rimette a posto i “comunicatori”
di Emiliano Liuzzi


Due cose, oltre all'incontro al Quirinale, premevano a Beppe Grillo: azzerare ipotetici franchi tiratori e ridimensionare il ruolo di quelli che dovevano essere gli assistenti alla comunicazione Daniele Martinelli e Claudio Messora. Il primo problema Grillo lo ha risolto, o comunque pensa di averlo limitato, in pochi minuti: la riunione per decidere se votare la fiducia a un ipotetico governo che verrà, sarà trasmessa in diretta streaming. Se ci sarà una votazione, come è stato per la presidenza del Senato, sarà sotto gli occhi di tutti. “Votare in un modo davanti alle telecamere, poi andare in aula e fare altro diventa tutto più difficile”, ha spiegato Grillo ai suoi. “Sono sicuro della coesione, ma è giusto che coloro che hanno posizioni diverse da quella che è prevista dal regolamento lo dicano apertamente e a tutti gli iscritti del Movimento”.
Sulla comunicazione è stato Gianroberto Casaleggio a intervenire. E le prime vittime sono stati i due coordinatori della comunicazione parlamentare scelti solo due giorni fa. A Daniele Martinelli, scelto per la Camera, ha parlato direttamente in maniera chiara: il tuo ruolo è quello di fare le riprese video. Niente altro. Le stesse che poi verranno girate sul blog. Ancora in bilico, invece, la posizione di Messora, designato per lo staff comunicazione del Senato, che almeno fino a oggi, a Roma non ha ancora messo piede e rischia di non arrivarci proprio. A Grillo e Casaleggio non sono piaciute le dichiarazioni fatte a nome del Movimento senza avere una carica elettiva: i comunicatori sono assistenti, nel senso che il ruolo di portavoce resta al capogruppo alla Camera e a quello del Senato. Loro rilasciano interviste sulle posizioni del Movimento 5 stelle, visto che sono stati eletti dai loro colleghi, anche se resteranno in carica per tre mesi. Il ruolo dello staff è quello di un normale ufficio stampa. A scatenare le polemiche la disorganizzazione e i silenzi che hanno provocato rumorosi botta e risposta con i giornalisti. Scene che non piacciono ai vertici del Movimento 5 stelle, preoccupati di non inanellare più brutte figure e passi falsi. I giornalisti sono “spala-merda” e “da domani non parlerò più con nessuno” le esternazioni del blogger tra i fedelissimi dello staff e che non sono piaciute a molti. La discussione in rete ha provocato il terremoto e ora la probabile scomunica. I giornalisti ci sono, le telecamere e le domande da ricevere pure e il Movimento ha bisogno di spalle forti per fronteggiare la valanga. E bisogna mettere da subito in chiaro i ruoli, chi frena le polemiche e invece chi non fa che aumentarle. “Il Movimento 5 Stelle”, ha scritto sul blog Grillo, “in Parlamento ha come unici portavoce i capigruppo di Camera e Senato. A loro supporto vi saranno due strutture di comunicazione coordinate da due responsabili il cui compito sarà di sviluppare l'interazione con i cittadini e promuovere le iniziative dei parlamentari del M5S in Rete e attraverso i canali tradizionali. I due responsabili non hanno quindi, né avranno, funzioni di portavoce”.

il Fatto 22.3.13
Paoli: “Beppe si sente il depositario della verità”


“È UN MIO AMICO, dice sempre delle cose molto giuste, quello che gli rimprovero è di essere così sicuro di essere il depositario della verità. E con le persone che sono depositarie della verità io non riesco a parlare”. Gino Paoli, a Un Giorno da Pecora, commenta così il successo elettorale di Beppe Grillo, suo concittadino genovese. Per questo, il cantautore auspica che Napolitano dia l’incarico a Pier Luigi Bersani, “una brava persona, onesta. Purtroppo - aggiunge - non è un personaggio televisivo: quando c'è stato il confronto tra i candidati delle primarie del centrosinistra, lui ha detto che se avesse vinto avrebbe dovuto chiedere altri sacrifici. Dire una cosa così è da persona onesta e pulita, ma in campagna elettorale, credo, non si dovrebbe dire”.

il Fatto 22.3.13
Il nuovo governo
Ciò che i cittadini non capiscono
di Roberta de Monticelli


Provo a mettermi nei panni di un cittadino di buona volontà, privo di qualunque appartenenza partitica, cresciuto alla scuola de “Lo Stato siamo noi” (così, in omaggio a Piero Calamandrei, si intitolava lo smilzo libretto di educazione civica che avemmo in dotazione alle medie – molto tempo fa). Non è difficile, perché l’identikit mi corrisponde. Un cittadino così oggi ha molto di cui rallegrarsi. Ma siccome non è vero che quelli che studiano (“gli intellettuali”) hanno solo certezze, come qualcuno sorprendentemente ha detto, ecco la lista dei suoi “Io non capisco”.
Non capisco questo gioco al massacro contro Bersani, che innegabilmente sta tentando di creare un governo magari a breve termine per fare alcune riforme urgentissime, col sostegno circoscritto dei parlamentari del movimento che queste riforme avrebbe nel proprio programma, e poi ritirarsi. Ora si lascerà che ci provi?
NON CAPISCO però neppure perché di tanti dirigenti del Pd – fino a ieri – solo Luigi Zanda ha firmato l’appello sull’ineleggibilità di Berlusconi, citato anche nella nostra lettera aperta, che ha raggiunto 200.000 firme. Se c’è una legge, e se finora a torto non è stata applicata, che non lo sia stata finora è forse una ragione per non applicarla ora? Errare è umano, perseverare diabolico.
Non capisco perché lo stesso presidente della Repubblica è caduto ancora una volta nella trappola di credere alla buona fede degli esponenti Pdl che gli avevano promesso di rinunciare alla marcia sul Palazzo di Giustizia di Milano, per poi sostenere che le sue parole bipartisan erano state male interpretate. Agirà ora in modo da rendere evidente che l’interpretazione era quella sbagliata, e non quella giusta?
Non capisco perché l’attuale capo del Movimento 5Stelle non parli con la stessa chiarezza con la quale ha parlato ogni volta che ha denunciato corruzione, illegalità e collusioni improprie. Se parlasse con la stessa chiarezza dovrebbe pur dire qual è il rischio che corriamo ora se si tornerà alle elezioni, e cioè non che “la destra” torni al potere, ma che una vera e propria ondata di rabbia riconsegni il Paese a quel manipolo di fuorilegge di cui ormai sappiamo che non esitano a marciare sui Tribunali della Repubblica.
Non capisco perché, nel momento in cui potremmo essere vicini a realizzarlo, le sue parole non esprimano più un ideale – che sia resa finalmente possibile una catarsi vera delle coscienze e un vero rinnovamento della vita politica e civile italiana, sulla base di una moralizzazione della politica e di una serie di riforme sui diritti, sui bisogni sociali e per la salvezza del territorio/paesaggio.
NON CAPISCO perché le sue parole ora esprimano invece soltanto ambiguità. Ad esempio scopre Ernesto Rossi e la sua polemica contro il meccanismo che chiude i partiti su se stessi, e poi infuria contro il voto segreto in Parlamento, che tanto spesso – e comunque certamente ieri – tutela dal potere di controllo dei partiti o dei capi le coscienze individuali, per permettere loro di rispondere liberamente ai cittadini.
Infine c’è una cosa – in verità di importanza minore – che non capisco. Ma per dirla devo riprendere la mia fattuale benché irrilevante identità. Ma perché diavolo in tanti sui media e fuori continuano a diffondere, a proposito della Lettera aperta che firmammo in sei prima e in circa 90.000 poi, l’assurdità che i firmatari sarebbero un compatto drappello d’obbedienza pidina? La maggior promotrice mi è sempre parsa l’incarnazione dello spirito di assoluta indipendenza, erede di una tradizione intellettuale e morale che con l’odierno Pd c’entra come i cavoli a merenda. Di quattro professori, uno non lo conosco, ma so che è uno storico del diritto di fama internazionale, e porta il nome di un uomo che fu un ministro dell’Economia e osò dire chiaro in faccia al mondo che non pagare le tasse era bruttissimo. Uno, grande storico della filosofia, sta metà dell’anno a Los Angeles e da lui io ho imparato che una democrazia è finita quando gli intellettuali servono altro che la loro passione per la verità, di cui la giustizia è parte. Un altro, grande storico dell’arte, ha attaccato più amministrazioni Pd per la loro sciagurata connivenza con i dissipatori di Paesaggio che tutti i grillini messi insieme. Un terzo infine, che è anche editorialista di questo giornale, è stato appena insignito di un’onorificenza della Repubblica per aver salvato dal saccheggio la Biblioteca dei Gerolamini: e che c’entra con Bersani?
MI FERMO QUI, perché basta e avanza. No, solo un’ultima cosa. Quell’inerme cittadina che non capisce, poveretta, non è invece riuscita neppure a fare un graffio all’amministrazione pidina più che sciagurata che sta devastando la Riva degli Etruschi, fino a lasciare che si sposti la foce di un fiume, il Cecina, per accogliere nuove immense colate di cemento, roba che neppure Burlando, re del “partito del cemento”. Ma ci ha tentato per due anni, e disperatamente. Forse avrebbe dovuto ascoltare il consiglio di Paolo Mieli, invece: e imparare a distinguere la scienza dalla coscienza. Tanto quest’ultima a cosa serve? I ladri rubano, le cosche cementificano, le democrazie finiscono. Che ci vuoi fare?

il Fatto 22.3.13
Caimano ineleggibile. L’altra piazza di MicroMega
Mentre il Pdl sfila contro i giudici, sempre domani, a Roma, Milano e Genova si chiede il rispetto della Costituzione
di Chiara Ingrosso


Non saranno manifestazioni di protesta, ma di rispetto, quelle che si svolgeranno sabato prossimo nelle piazze di Roma, Genova, Milano e Palermo. Prenderà così forma l'appello virtuale lanciato da Micromega per dichiarare Silvio Berlusconi ineleggibile e lasciarlo fuori dalla politica della XVII legislatura. Già 230mila cittadini hanno firmato affinché si rispetti la famosa legge 361 del 1957 che regolamenta il conflitto d'interessi. Berlusconi non può candidarsi in Parlamento, perché beneficiario di una concessione statale “in proprio o come amministratore”. Le manifestazioni saranno all'insegna della semplicità e della partecipazione. Per questo sono state definite dagli stessi promotori come “francescane”. si svolgeranno grazie all'esclusiva volontà popolare e alla collaborazione, senza alcuna sovvenzione economica o organizzazione strutturata. Solo il passaparola che risuona nella rete, dai social network alla comunicazione via mail. Centro della scena saranno i palchetti allestiti alla buona, per dare uno spazio alla voce dei cittadini.
Come ha spiegato in questi giorni Micromega, non c'è solo la volontà di ribadire l' indignazione per la disuguaglianza e la politicizzazione delle leggi italiane. C'è soprattutto il desiderio di scendere in piazza per confermare la passione e l'amore per la Costituzione.
MILANO la prima a partire alle 13.30 in Piazza Cairoli. A Genova l'appuntamento è alle 17 davanti alla Prefettura di Via Roma. Stessa ora davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo.
La manifestazione centrale sarà quella romana, coordinata da Moni Ovadia, in Piazza Santi Apostoli a partire dalle 17. Personaggi di spicco della società civile insieme ai cittadini leggeranno i 139 articoli su cui si fonda la Repubblica italiana. Non solo. I promotori ritengono efficace la lettura di alcuni testi, come ad esempio gli articoli di Sciascia contro la mafia e le poesie di Calamandrei sulla Resistenza, perché il nostro Paese abbia memoria della sua storia e delle sue difficoltà, come delle vite di coloro che provarono ad oltrepassarle.
In molti hanno già dato la loro adesione all'appuntamento romano, tra cui Marco Bellocchio, Fabrizio Gifuni, Francesca Comencini, Andrea Rivera, Elio Germano, Curzio Maltese, Ascanio Celestini, Paolo Virzì, Natalia Aspesi, Lidia Ravera, Andrea Purgatori, Salvatore Borsellino, Furio Colombo, Dom Giovanni Franzoni, Pino Corrias, Isabella Ferrari, Articolo 21 e Libertà e Giustizia.
Sono tanti anche gli elettori del Molise, collegio scelto da Berlusconi, che come da loro diritto stanno presentando ricorso per l’ inelegibbilità del Cavaliere alla Giunta per le elezioni. Ma la politica, purtroppo, resta la grande assente dell'evento. Dal 1994 ad oggi, i membri del centrosinistra non hanno mai sottoscritto gli altri appelli per la stessa causa, né votarono “si” all'ineleggibilità durante la seduta della Giunta per le elezioni. E' difficile capire il perché di tanta ostinazione. Questa volta, però, c'è un autorevole eccezione che lascia ben sperare per una più larga adesione dei parlamentari di centrosinistra. Luigi Zanda, capogruppo del Pd al Senato, ha firmato l'appello di Micromega ed ha dichiarato apertamente più volte che se sarà in giunta il suo voto sarà per mettere definitivamente Silvio Berlusconi fuori dal Parlamento.
NON PARTECIPERANNO alla manifestazione, ma si fanno comunque promotori della stessa causa gli eletti del MoVimento Cinque Stelle, che considerano il rispetto della legge sul conflitto d'interessi un’ assoluta priorità della loro attività politica e annunciano a gran voce che voteranno anche loro si all'ineleggibilità. Altro autorevole assente sembra, per ora, essere il servizio pubblico televisivo Rai. Paolo Flores D'Arcais, Direttore di Micromega, ha scritto una lettera ai neo presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, affinchè valutino la situazione di “censura”. La Rai, intanto, non manca di dar rilievo a quella che sarà l'altra manifestazione di sabato a Roma. Infatti, il caso vuole che in Piazza del Popolo alle 15 il Pdl abbia indetto una manifestazione parallela, il cui slogan è “Tutti con Silvio” per protestare “contro l'oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria”. Un bel paradosso.

il Fatto 22.3.13
Il Cavaliere non è nulla rispetto al Csm
di Bruno Tinti


CERTE volte si ha proprio voglia di gettare la spugna. B. non lo ammazzi nemmeno con le cannonate; in Parlamento c’è restata una trentina di pregiudicati e indagati e di governo non se ne parla. E il Csm viola la legge e si spartisce i posti di potere. Dovevano essere sostituiti 2 segretari e 1 addetto all’ufficio studi, tutti magistrati. Posti ambiti. Com’è andata? Per capirlo, qualche avvertenza preliminare.
1) Il Csm governa tutti i magistrati, nessuno escluso. Dunque anche quelli che non sono iscritti a nessuna corrente.
2) Al Csm ci sono solo i magistrati iscritti alle correnti; sicché in un confronto tra un correntizio e un peone (chi farà il presidente del Tribunale di Poggio Ameno?) l’esito è scontato.
3) Le pratiche per stabilire chi farà il presidente del Tribunale di Poggio Ameno sono preparate dai magistrati segretari; pareri e delibere nelle più varie materie sono preparati dai magistrati dell’ufficio studi. Tutti sono nominati dalle correnti in base ai voti ricevuti: 3 a me, 2 a te e via così.
Siccome questa cosa fa abbastanza schifo, nel 1990 (L. 94) si stabilisce che segreteria e ufficio studi siano organizzati come la Camera e il Senato: funzionari di carriera al posto dei magistrati. Sia mai! Si riesce a rinviare fino al 2006, quando la L. 269 stabilisce che la sostituzione si potrà fare solo quando sarà emanato l’ultimo dei decreti legislativi previsti dal nuovo ordinamento giudiziario (L. 2005/150). Anno dopo anno sono stati emanati tutti; meno uno: un testo unico previsto per la disciplina transitoria, “se necessaria”, e norme “eventualmente” occorrenti per il coordinamento con altre leggi e l’abrogazione di quelle incompatibili. Questo decreto non si fa: ovviamente perché di coordinare e abrogare non c’è bisogno. Ma il Csm (cioè le correnti) si precipita a dire che la sostituzione dei magistrati con funzionari di cancelleria non può essere fatta perché la legge diceva che dovevano essere emanati tutti i decreti e uno, guarda un po’, non è stato emanato. Ma non doveva esserlo! Non ce n’era necessità! Fa niente, non è stato emanato. Risultato: nessun magistrato segretario è sostituito con funzionari.
Un eretico consigliere del Csm (Nappi) azzarda: va bene, se proprio volete così (ma avete torto), almeno non potremmo scegliere, previo regolare concorso, i segretari tra tutti i magistrati che ne fanno domanda, correntizi o no? Uh per carità, è attività squisitamente politica (politica al Csm?), le specificità delle correnti, i valori, la tradizione. Una fuffa micidiale. I tre nuovi sono selezionati con il consueto criterio: appartenenza e voti. E siccome vanno via in 3, 2 di Area e 1 di Unità per la Costituzione, i nuovi toccano a queste correnti. E attenzione, ce li scegliamo noi: mica ogni correntizio va bene, solo i più fidati. Così è finita. Poi, di fronte al coro di critiche della base (i peones): va beeene, forse c’è un difetto di trasparenza, un problema potrebbe esserci. Studieremo e, la prossima volta, vedremo.
Debbo dire che B. non è proprio nessuno, questi lo superano di 10 lunghezze.

il Fatto 22.3.13
Indagine Ior, caso diplomatico tra l’Italia e la Santa Sede


Secondo il settimanale L’Espresso, in edicola oggi, a fine febbraio la Guardia di Finanza ha fermato all’aeroporto romano di Ciampino monsignor Roberto Lucchini e l’avvocato Michele Briamonte. “Il primo - riferisce una nota diffusa dal settimanale - è uno dei collaboratori più fidati del segretario di Stato Tarcisio Bertone, mentre il legale, partner dello studio torinese Grande Stevens, è da anni consulente dello Ior”.
Secondo il settimanale “Briamonte e Lucchini si sono opposti alla perquisizione esibendo un passaporto diplomatico vaticano. Dopo una convulsa trattativa e numerosi contatti telefonici con la Santa Sede - prosegue la nota - l’avvocato e il monsignore hanno potuto lasciare l’aeroporto senza consegnare ai militari le loro borse”. Pochi giorni dopo l’incidente di Ciampino, il partner dello studio Grande Stevens si è visto perquisire casa e ufficio (ma non è indagato) su richiesta della procura di Siena per un presunto caso di insider trading. “Malevola versione” replica Briamonte. “I bagagli miei e di monsignor Lucchini, che viaggiava con me”, dice l’avvocato, “sono stati sottoposti a un normale controllo con cane poliziotto che, come riportano i verbali redatti dai militari operanti, veri fino a querela di falso, ha dato esito negativo. Non è mai esistito, dunque, alcun decreto di perquisizione, al quale mi sarei senz'altro assoggettato, e l'identificazione è avvenuta mediante i rispettivi passaporti. Dunque nessun incidente e nessun mistero”.

Repubblica 22.3.13
Vaticano-Mps, caso diplomatico con l’Italia
L’Espresso: monsignore eavvocato fermati dalla Finanza, la Santa Sede s’infuria
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — Non c’è pace tra la procura di Roma e l’Istituto per le Opere di Religione. Risale a circa un mese fa un altro contrasto, l’ennesimo. Momenti di tensione raccontati ora dall’Espresso. È una mattinata di fine febbraio, monsignor Roberto Lucchini, braccio destro di Bertone, e l’avvocato Michele Briamonte, pupillo di Grande Stevens e legale dello Ior, oltre che consigliere di amministrazione di Mps, atterrano a Ciampino con un jet privato proveniente da Torino. Mentre camminano verso l’uscita vengono fermati dalla Guardia di Finanza che chiede di poterli perquisire. Un controllo disposto dalla procura di Roma. Attimi di tensione, i due mostrano i passaporti diplomatici del Vaticano: Briamonte non vuole aprire la valigetta che stringe tra le mani. Le Fiamme Gialle non sono convinte, non capiscono perché l’avvocato abbia quel documento di identità che lo rende “immune”. La procura che aveva organizzato il controllo sostiene che in base alla Convezione di Vienna nessuno dei due possa avere lo status di diplomatico. Nemmeno Lucchini. I due fanno diverse chiamate. Il Vaticano si muove in fretta. Il tono della Segreteria di Stato è perentorio: nessuna perquisizione se non si vuole aprire un caso diplomatico tra Italia e Santa Sede. I finanzieri desistono e i due se ne vanno con le borse, “inviolate”, sotto braccio.
Una vicenda che promette sviluppi e che fa luce su un nuovo filone di un’inchiesta molto delicata, quella sullo Ior. Aperta nel 2009, arriva a una svolta nel settembre 2010 con il sequestro di 23 milioni di euro (poi dissequestrati) e l’iscrizione dei vertici, il presidente Gotti Tedeschi e il direttore generale Cipriani, nel registro degli indagati con l’accusa di riciclaggio. L’inchiesta va avanti nel massimo riserbo; il procuratore aggiunto Nello Rossi e il pm Stefano Fava fanno fronte comune con l’Uif di Bankitalia. Nel frattempo ci sono i tentativi dello Ior di entrare nella white list e le disposizioni di Benedetto XVI sulla necessità di adeguarsi a criteri trasparenza. Parole il cui seguito, però, è il trasferimento di tutti i conti correnti Ior su banche estere. E risale a pochi mesi fa, fine 2012, la decisione di Deutsche Bank Italia di ritirare i bancomat agli esercizi commerciali di Oltretevere: scelta imposta, ancora una volta, da Bankitalia che aveva attivato alcuni controlli su richiesta dei magistrati romani. E ora, questo nuovo attrito.
«Occorre molta fantasia per trasformare un normale controllo doganale in un caso diplomatico », ha detto l’avvocato Michele Briamonte, partner dello Studio Grande Stevens e in questa veste consulente legale dello Ior smentendo «una non notizia, una malevola versione di un fatto accaduto all’aeroporto di Ciampino».

l’Unità 22.3.13
In nome dei nostri figli no alla scuola diseguale
di Mila Spicola


A LAURA BOLDRINI E PIETRO GRASSO,
COME TUTTI GLI ITALIANI SONO RIMASTA COLPITA E COMMOSSA DALLEV OSTRE PAROLE. Da docente di una scuola media di una delle tante periferie del nostro sud avrei dovuto godere intimamente al giusto cenno sulle «condizioni difficili in cui si esplica oggi l’attività degli insegnanti», eppure ammetto di aver pianto di vera commozione alle parole «i nostri figli». I vostri figli sono i nostri alunni e oggi vivono insieme a noi in tutte le scuole d’Italia quelle condizioni difficili. Non mi convince la retorica dell’insegnante come eroe perché eroi dovrebbero essere anche i nostri ragazzi, che vivono con noi problemi, freddo, mancanze. Mancanze di cui noi adulti abbiamo ogni responsabilità. Vorrei si parlasse di professionisti per dotarli di strumenti adeguati. Qualche sera fa a Palermo ho scorto due miei ex alunni a uno spettacolo teatrale in memoria di Peppino Impastato. È stato più commovente per me vedere il Alessio e El Medhi spontaneamente lì, due ragazzi della periferia lontana del regno, che vedere gli attori. Allora ci riusciamo a trasferire valori, mi sono detta... Così come diceva Lei, Grasso. Riusciamo a trasferire valori, ma non sono sicura che riusciamo a fornire quel che oggi è necessario: un’istruzione di qualità a tutti i nostri ragazzi. Il sogno costituzionale della scuola per tutti lo abbiamo realizzato, adesso rimane quello della rimozione degli ostacoli per far sì che tutte le personalità si esplichino al meglio. Non solo per il loro futuro personale ma per il nostro futuro collettivo. L’istruzione e i saperi qualificati oggi più che mai hanno una funzione sociale oltre che individuale. Non in chiave strumentale «per dare un mestiere» ai nostri figli, ma per arricchire il Paese. Nel segno della competenza e dell’eccellenza: questa è la sfida richiesta oggi ai sistemi d’istruzione. Siamo obbligati come Paese a potenziare i talenti dei nostri ragazzi sui banchi di scuola. Questo sogno oggi è stato compromesso ed è bene riconoscerlo. I divari e le iniquità tra ricchi e poveri, tra Sud e Nord denunciati 40 anni fa da Don Milani sono ancora vivi e potenti. La scuola italiana non riesce a rimuoverli: il successo scolastico per troppi ragazzi è un miraggio e la nostra scuola non riesce a rimuovere gli ostacoli contestuali. Sia primo compito di questo Parlamento combattere le iniquità sociali che comporta una scuola diseguale.
È necessario ridare ruolo sociale e prestigio a chi finora non lo ha avuto per la cecità di chi ha governato: gli studenti e le studentesse del nostro Paese. Il nostro impegno più vero sia per loro. Per far questo non possiamo procedere rattoppando le pezze e aggiustando un edificio che cade a pezzi. Sono necessarie azioni strutturali di qualità educativa prima che economica e di lunghissimo periodo. Obama ha dichiarato che se un Paese è un aereo in difficoltà l’istruzione è il suo motore: per volare alto e sicuro elimino la zavorra non il motore. Negli ultimi 30 anni si è proceduto in Italia smantellando il motore. Si è affidato uno dei sistemi sociali più complessi a professionisti della politica non dei sistemi d’istruzione. Le scelte compiute dal ministro di turno, propinate come frutto di «buon senso» si sono rivelate errate. Medicine quasi letali per un malato grave. Il buon senso non è la ricetta nel funzionamento scientifico degli organismi sociali complessi, specie quando comportano allocamenti ingenti di risorse: la terra sarebbe ancora piatta e al centro dell’universo ad ascoltar il buon senso. Scelte di tipo passatista e deleterio: grembiulini, maestri unici, rapporti errati docente/alunni, materie eliminate, formazione, selezione e aggiornamenti dei docenti ferme da decenni. Politiche scolastiche prive di visione hanno recato il segno dell’incompetenza e non hanno prodotto innalzamenti nei rendimenti dei nostri ragazzi. In una parola: solo e soltanto tagli effettuati da chi di scuola ne sapeva meno di zero, non riforme assunte in seguito a sperimentazioni, programmazioni a lungo termine o necessità educative. La necessaria cultura della valutazione non ha comportato scelte conseguenti ed è ridotta a un doloroso spreco. È rimasta schiava dell’inefficacia del «buon senso» politico o mediatico senza dare nulla in più al nostro Alessio e anzi, togliendogli tantissimo. Quello che togliamo ad Alessio lo togliamo al nostro Paese. In termini di qualità, di professionalità, di competenza. Spero che sia finito quel tempo. Vi chiedo dunque di vigilare affinché le decisioni prese per la nostra scuola siano finalmente al rialzo non al ribasso. Per far spiccare il volo persino a El Medhi dalla più oscura periferia d’Italia.

l’Unità 22.3.13
Settimana antirazzismo
La bella Italia che accoglie
Viaggio nel Paese che solidarizza con i migranti
«Stazione Mediterraneo» è un reportage voluto dall’Unar con la voce narrante di Erri De Luca. Il lavoro di operatori e coop sociali che ogni giorno battono le discriminazioni
di Luciana Cimino


EDRIS MAHMUODZADEH HA LASCIATO IL SUO PAESE PER MOTIVI POLITICI, «MI AVEVANO CONDANNATO A MORTE». È PASSATO PER LA TURCHIA, POI HA CAMMINATO SULLE MONTAGNE «PER SETTIMANE, MANGIANDO LE FOGLIE DAGLI ALBERI». Arrivato in Italia con documenti falsi, è stato arrestato. Appena uscito dal carcere, dopo due anni, è andato a chiedere asilo politico alla questura di Padova. L'ha ottenuto e oggi è mediatore nella cooperativa sociale Agorà Kroton, in Calabria. Anche Lassad Azzaabi ha deciso di fare il mediatore «dopo aver subito una ingiustizia dalla questura di Caserta», «ho cominciato a lottare per chiedere più diritti per le persone nella mia condizione». Oggi lavora a Napoli per la cooperativa sociale Dedalus. «Il nostro è un lavoro fondamentalmente politico – spiega Giacomo Marrazzo, della cooperativa partenopea – la nostra azione quotidiana, il nostro contrastare le discriminazioni avviene lavorando».
Sono alcune delle voci raccolte nel reportage Stazione Mediterraneo – storia dell'Italia che accoglie e include realizzato da Nelpaese.it con Giornale Radio Sociale, Visioni sociali (e in collaborazione con Redattore Sociale), presentato ieri a Roma dall'Unar, l'ufficio nazionale anti discriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio per la «Settimana di azione contro il razzismo».
Il titolo parte da una frase dello scrittore Erri De Luca, voce narrante del film, «l'Italia è la stazione centrale del Mediterrano». Il reportage attraversa il Sud, partendo dalla Calabria e arriva a Roma attraversando Napoli. Al centro il lavoro quotidiano di centinaia di operatori e cooperative sociali impegnate in progetti di accoglienza, inclusione e inserimento per immigrati, richiedenti asilo, rifugiati politici, donne vittime di tratta e comunità rom. Passando per la situazione difficile di alcuni territori a causa delle intimidazioni mafiose, come a Crotone, o della gestione della prostituzione da parte della criminalità organizzata, come per la cooperativa Dedalus di Caserta. «La Calabria all'inizio ha risposto con il volontariato puro spiega Pino de Lucia, presi-
dente di Agorà Kroton non c'erano risorse ne' leggi a darci indicazioni, nonostante questo è nata una cosa bella perché Badolato è diventato il primo paese ad accogliere migranti». «Le cooperative danno risposte immediate, dando una accoglienza che è diversa da quella istituzionale: i nostri governi hanno fatto i Cie, una cosa abominevole, noi invece integriamo, facendoli lavorare anche sui beni comuni. Non sono immigrati passivi che vengono accolti ma persone che si danno da fare per migliorare la qualità della vita di tutta la comunità».
Il reportage si sofferma su quei migranti che sono diventati a loro volta operatori e lavorano con le stesse cooperative che li hanno accolti. «Nonostante le difficoltà e la crisi delle risorse pubbliche per le politiche sociali, organizzazioni, operatori e giovani propongono un’altra Italia che s’impegna contro ogni forma di discriminazione nella grande Stazione Mediterraneo dice Giuseppe Manzo, direttore di Nepaese.it Un’Italia che va raccontata attraverso un’informazione responsabile: Nelpaese.it, Giornale Radio Sociale, Visioni sociali e Redattore Sociale sensibilizzeranno tutti network radio-televisivi e web per la diffusione del reportage».
Per Pietro Barbieri, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore, Stazione Mediterraneo è «una testimonianza straordinaria di come nel nostro paese i diritti umani siano lontani dall'essere applicati per tutti e racconta come le organizzazioni del terzo settore italiano siano in frontiera per esplicitare questa mancanza e trovare strategie per superare una fase tanto complicata». Per Barbieri «L'Unar dovrebbe essere ancora più indipendente dalla Presidenza del Consiglio». «Una vera agenzia “indipendente” per i diritti umani nel nostro paese non c'è, in gran parte d'Europa si, come se da noi tutto funzionasse a meraviglia su questo campo. Il monitoraggio invece deve essere affidato a pezzi di società civile riconosciuti dalla Stato». Ma prima occorre un governo che faccia innanzitutto una cosa: «riconoscere almeno la cittadinanza alle persone nate in questo paese, se si deve ricominciare a valutare le modalità di accoglienza e inclusione bisogna partire da qui, è il livello minimo».

Repubblica 22.3.13
Il bambino conteso di Cittadella
Le vere vittime di una sindrome che non c’è
di Massimo Ammaniti


IL BAMBINO di Cittadella conteso dai genitori può finalmente lasciare la casa-famiglia in cui era stato inserito, che gli avrebbe dovuto consentire di riprendere i rapporti col padre, e ritornare a casa della madre e frequentare la sua scuola dove ritroverà tutti i suoi amici. Questo è avvenuto in virtù della sentenza della Cassazione che ha annullato la sentenza di primo grado ripristinando l’affi-damento alla madre. Purtroppo è una vicenda che sancisce il fallimento di entrambi i genitori nel loro ruolo educativo e protettivo, perché hanno dovuto entrambi ricorrere al Tribunale per far valere i propri diritti sul figlio. E poi perché non sono stati in grado di vedere con gli occhi del figlio quello che stava succedendo in famiglia, mettendo da parte odi, risentimenti, ripicche e vendette.
Un bambino di 10 anni ha evidentemente bisogno per crescere di entrambi i genitori, della loro guida, della loro protezione e del loro affetto, potremmo dire del codice materno e di quello paterno. Troppo spesso i conflitti di coppia coinvolgono anche il loro ruolo genitoriale per cui i figli diventano il terreno di scontro per far prevalere le proprie ragioni.
Ma con questa sentenza si è determinato anche il fallimento di una categoria diagnostica che era stata utilizzata nella sentenza di primo grado, la sindrome da alienazione parentale che ancora non ha ricevuto una conferma empirica in campo scientifico. Secondo questa sindrome un genitore ricorrerebbe ad ogni mezzo per escludere l’altro dalla vita del figlio manipolandolo e controllandolo con ogni mezzo. La logica conseguenza di questo approccio diagnostico è il ricorso da parte del genitore escluso al Tribunale per rivendicare i propri diritti sul figlio, anche se questo comporta traumatiche lacerazioni come è avvenuto con il bambino di Cittadella che è stato portato via di peso dalle forze dell’ordine. Non dimentichiamo che una volta imboccata la via giudiziaria non ci si ferma più tra esposti, denunce, ricorsi e richieste di perizie. La sindrome di alienazione parentale rappresenta una semplificazione che non riconosce la complessità delle dinamiche fra i due genitori non solo a livello esplicito, ossia di atti consapevoli, ma anche implicito, ossia di comunicazioni inconsapevoli, che continuano a mantenere in vita un rapporto irrisolto che lega uno all’altra nonostante siano ormai separati o addirittura divorziati. Più che l’intervento giuridico è più opportuno aiutare a districare con l’intervento psicologico questo fitto intreccio relazionale in cui entrambi i genitori sono rimasti invischiati e quel che è peggio anche i figli, che diventano le vittime di uno scontro più grande di loro.

il Fatto 22.3.13
L’India ci mette in riga: i marò tornano a New Delhi
In realtà il sequestro dellambasciatore Mancini ha fatto saltare tutto
di Alessandro Ferrucci


Dal governo lo spacciano come “accordo”, frutto di un “negoziato”. Dicono di aver evitato la pena di morte. Nei corridoi della Farnesina lo traducono come “l’ennesima figuraccia, mai come prima”. Nessun sofismo, cancellata ogni regola diplomatica, all’angolo le figure metaforiche: al ministero degli Esteri giudicano la questione marò, e il loro rientro in India come “la presa di coscienza della nostra totale incapacità nel gestire le strategie internazionali. Siamo dei poveretti, siamo noi il terzo mondo e New Delhi ce lo ha sbattuto in faccia”.
Passo indietro. Nella tarda serata di ieri arriva un comunicato di Palazzo Chigi: “Sulla base delle decisioni assunte dal Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, il Governo italiano ha richiesto e ottenuto dalle autorità indiane l’assicurazione scritta riguardo al trattamento che sarà riservato ai marò e alla tutela dei loro diritti fondamentali. Alla luce delle ampie assicurazioni ricevute, il Governo ha deciso che torneranno in India domani (oggi) ”.
STAFFAN DE MISTURA ha poi precisato: “Il governo indiano ha garantito che non ci sarà la pena di morte nei loro confronti” e poi ha aggiunto, con un tentativo di orgoglio nazionale: “La parola data da un italiano è sacra: noi avevamo sospeso” il loro rientro “in attesa che New Delhi garantisse alcune condizioni”. Bene, questa la parte ufficiale. Il “non detto” tra Governo e Quirinale racconta di telefonate infuocate, di messaggi tutt’altro che amichevoli. Di accuse ricevuto da Mario Monti e dai suoi di palese incapacità, specialmente dopo il sequestro subito dall’ambasciatore Daniele Mancini.
Lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, avrebbe più volte manifestato il suo disappunto alla Farnesina e alla Difesa - in special modo al ministro Giampaolo Di Paola, quest’ultimo coinvolto per il caso degli appalti Finmeccanica. Soldi, eccoli lì. Giorni fa il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, aveva dichiarato: “In ballo ci sono i contratti”. Vero. L’India, infatti, ha fatto pesare gli accordi commerciali già stretti con le aziende italiane e non è neanche stata indiretta nel dire “qui salta tutto, noi non scherziamo, siete più voi ad aver bisogno di noi”.
E pensare che il ribaltamento delle forze era già stato testato in un recente passato, negli ultimi mesi della gestione esteri di Franco Frattini. In quell’occasione la delegazione italiana non riuscì a giustificare una spedizione in India: più volte l’omologo indiano dell’allora ministro pidiellino non diede a sua disponibilità per un incontro bilaterale a causa di una agenda già troppo fitta di impegni. Impegni più interessanti rispetto al nostro. “Ora è difficile capire chi ha più colpe, di certo c’è chi ha cercato di accreditarsi con il centrodestra”, proseguono dalla Farnesina. Così escono fuori gli incontri di Giulio Terzi di Sant’Agata, ex fedelissimo finiano, con Silvio Berlusconi al Circolo degli Scacchi. O l’atteggiamento trionfale di Di Paola, come a dire: se i marò restano, è merito della mia diplomazia. E invece ecco l’effetto “catapulta”: ieri dal Pdl e non solo si sono scatenati nelle dichiarazioni. Insulti, sbeffeggi, accuse verso il governo Monti e i suoi ministri. Il neo capogruppo Renato Brunetta spiega: “È una decisione sconcertante, inaccettabile, dannosa per l’immagine e la credibilità dell’Italia, ma anche per i nostri marò”. A ruota Fabrizio Cicchitto, Adriana Poli Bortone e Carlo Giovanardi. Ancora peggio Giorgia Meloni, che si sbilancia in un consiglio: “La più grande umiliazione diplomatica dalla nascita dello Stato italiano. Propongo di spedire Monti e Terzi in India al posto dei marò”. Impossibile, al massimo ci potranno essere delle dimissioni.
INTANTO, i due militari saranno imbarcati oggi dopo che ieri sono stati convocati e ci sono volute cinque ore per convincerli. Gli è stato dato giusto il tempo per salutare i propri cari. Mentre altri parenti si dicono più sereni: “Abbiamo passato dei giorni atroci – racconta la famiglia Mancini – ma ora sembra finita. Certo ci dispiace per i marò, sarà dura”. Resta una vecchia lezione impartita da Ugo Grozio nel XVII secolo: pacta sunt servanda, i patti vanno rispettati. E l’India sembra averlo insegnato al governo italiano.

l’Unità 22.3.13
Obama ai palestinesi: «Meritate uno Stato»
Il presidente a Ramallah, tra rabbia e speranza
Abu Mazen: «Stop alle colonie o niente negoziati»
di Umberto De Giovannangeli


Al presidente del «Nuovo Inizio» chiedevano parole chiare sugli insediamenti e sulla possibilità di coltivare ancora, e con ragione, la speranza di uno Stato. Barack Obama e la Palestina. Barack Obama in Palestina. Il viaggio a Ramallah è una strada in salita per il presidente Usa. Il sentimento che accomuna la gente palestinese è un misto di rabbia e delusione. A raccontarlo sono le trecento persone che inscenano, agitando le scarpe, una manifestazione di protesta davanti alla Muqata, il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese in cui si svolge l’incontro tra il capo della Casa Bianca e il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
«I palestinesi hanno diritto ad un loro Stato sovrano», ribadisce Obama durante la conferenza stampa a Ramallah, tenuta congiuntamente con Abu Mazen. «Non dobbiamo smettere di cercare una soluzione pacifica» ha continuato il presidente Usa, aggiungendo che gli Stati Uniti sono decisamente favorevoli alla soluzione dei «due stati». La Palestina deve avere uno Stato «indipendente e in grado di sostenersi» nell’interesse sia dei palestinesi sia degli israeliani. Anche se risolvere la situazione degli insediamenti non porterà direttamente ad un accordo di pace con i palestinesi, continua Obama, «questo non vuol dire che la questione degli insediamenti non sia importante», ma, puntualizza Obama, significa che «non esistono scorciatoie» e che il modo migliore per portare la pace è quello di riaprire i «negoziati diretti» fra le parti. Per questo gli Stati Uniti hanno detto al premier Benjamin Netanyahu che la modalità con cui si porta avanti il progetto per nuovi insediamenti israeliani nella zona «E-1» non è appropriata per giungere ai negoziati di pace, rimarca Obama.
I CONFINI DEL ‘67
Una ripresa dei negoziati non è possibile senza un congelamento degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza», avrebbe detto Abu Mazen a Obama nel corso delle due ore e mezza di incontro a Ramallah, secondo quanto riferito dal consigliere politico del leader palestinese Nemer Hammad. Concetto che, sia pur in modo più sfumato, è stato rimarcato dallo stesso Abu Mazen. I palestinesi vogliono che sia rispettato il loro diritto «all’indipendenza, alla libertà e alla pace», ribadisce il presidente palestinese in conferenza stampa a fianco di Obama. Abu Mazen rivendica il diritto per il popolo palestinese a vivere in una terra «secondo i confini del 1967 e con Gerusalemme est come capitale». Dopo aver ringraziato il presidente Usa per aver espresso la richiesta di riaprire i negoziati, il leader dell’Anp ha detto che per arrivare alla pace ci vuole «coraggio» e non «violenza, arresti, occupazioni e insediamenti» e «l’assedio» da parte dello Stato di Israele. I palestinesi, sottolinea Abu Mazen, sono «pronti a rispettare le promesse fatte e i loro obblighi» per la soluzione dei «due Stati», ricordando da parte sua che «la chiave per la pace» risiede nel trovare unità di intenti «tra Hamas e Fatah».
«Chiediamo al governo israeliano di fermare gli insediamenti, per discutere tutte le nostre questioni e le loro preoccupazioni», incalza Abu Mazen al fianco di Obama. Questi ha sottolineato di aver fatto presente al premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che la strategia di continuare a sviluppare gli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi non è «costruttiva, appropriata, e non fa compiere passi avanti alla causa della pace». Abu Mazen, da parte sua, si è detto «convinto» che il presidente Usa e il segretario di Stato, John Kerry, sapranno «eliminare tutti gli ostacoli nel cammino verso la pace». Il presidente americano ha condannato il lancio di razzi Qassam da parte dei miliziani palestinesi contro il sud di Israele condanna reiterata dallo stesso Abu Mazen, proseguito anche nelle ore precedenti al suo arrivo a Ramallah. Al’alba le sirene d’allarme erano risuonate a Sderot, la città di confine dove Obama era stato nel 2008, quando era solo un candidato alla presidenza Usa, seguite dall'arrivo di quattro razzi (uno caduto nel cortile di un’abitazione). Non ci sono stati né danni, né feriti.

Corriere 22.3.13
«Israeliani, guardate con occhi palestinesi»
Obama sprona i giovani delle università. E ad Abu Mazen: «Sì ai due Stati»
di Massimo Gaggi


GERUSALEMME — «Mettetevi nei loro panni, guardate il mondo coi loro occhi. Oggi a Ramallah ho incontrato ragazzi palestinesi che sono come voi: stessi desideri, stessi sogni. Non è giusto negargli il diritto di avere un loro Stato, né farli crescere con la presenza costante di un esercito straniero che controlla i loro genitori. Non è giusto impedire ai contadini di curare la loro terra, costringere molti a lasciare la loro casa, impedire ai giovani di muoversi liberamente in Cisgiordania, lasciare impunite le violenze di alcuni coloni». Nella giornata «clou» della sua visita in Israele e nei Territori palestinesi, ieri Barack Obama ha vissuto una giornata di straordinaria intensità, culminata nel discorso pronunciato davanti a una platea di giovani ebrei che ha invitato ad agire, a far sentire la loro voce per costringere i politici a uscire dallo stallo nel quale è finito il dialogo tra i due popoli.
Il presidente ha parlato con una franchezza — e in qualche passaggio una durezza — mai sperimentate da una platea israeliana in un'occasione così solenne. Eppure Obama è stato applaudito con calore perché nel suo discorso, attentamente calibrato, ha ribadito il sostegno assoluto e incondizionato per la sicurezza di Israele, anche e soprattutto sulla questione del nucleare iraniano («Non avranno mai la bomba e noi sosteniamo la protezione antimissile dai possibili attacchi col sistema "Iron Dome"»). Ha, poi, reso omaggio a un Paese con una storia millenaria di lotta per la libertà e di martirio; una nazione che può essere «motore di prosperità per tutto il mondo». E' arrivato ad abbracciare l'idea base del sionismo: il popolo libero che vuole vivere in una sua patria, la «Terra promessa» che diventa rifugio dalla diaspora.
La libertà va, però, curata, soprattutto nel Medio Oriente delle tensioni esplosive, ora accentuate anche dall'ayatollah Ali Khamenei che minaccia di distruggere Tel Aviv e Haifa se verranno colpiti gli impianti nucleari iraniani. «Spetta a voi decidere come restare sicuri e democratici» ha detto Obama. «Per me, alleato che sarà comunque al vostro fianco, sarebbe più facile non intervenire, evitare discorsi che a molti non piacciono. Ma io vi parlo con la confidenza di un amico: la pace è l'unico modo per garantirvi davvero la sicurezza. E la pace va negoziata. Decidete voi come. So che è difficile e frustrante, che molti tentativi hanno avuto esiti negativi».
Ma Israele, ha incalzato Obama, è il Paese più potente dell'area: «Dovete avere la saggezza di capire il mondo com'è, ma anche il coraggio di vederlo come dovrebbe essere». Di coraggio il presidente americano ieri ne ha usato molto: prima è andato a Ramallah, a incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. Una visita difficile con la contestazione di alcuni dissidenti palestinesi e quelli radicali di Gaza che hanno ricominciato a lanciare razzi contro il territorio israeliano. Obama non ha concesso nulla ad Abu Mazen, chiedendogli di riprendere il dialogo con Israele senza condizioni, pur riconoscendo che lo sviluppo di nuovi insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania è un grosso ostacolo alla pace.
Poi, però, davanti a una platea tutta ebraica, ha avvertito che, anche se Israele ha buone ragioni per essere diffidente, commetterebbe un errore se non sfruttasse lo spiraglio che si è aperto con Abu Mazen e il premier palestinese Fayyad. Sulla cui buona fede Obama scommette senza riserve. Certo, anche se coraggioso e nobile, quello del presidente Usa è pur sempre un discorso dietro il quale non si vede un piano. Lo stesso Obama ha ammesso che la situazione è assai complicata: ma, scavalcando il premier Netanyahu, ha invitato i giovani d'Israele a far sentire la loro voce spingendo il governo sulla via delle concessioni e del negoziato. «Ve lo dico da politico», ha scandito: «Noi non facciamo scelte difficili, non prendiamo decisioni impopolari se non veniamo spinti dalla gente».
E, per convincere una platea che si è spellata le mani sulla creazione dei due Stati indipendenti, ma è stata molto più tiepida sui riconoscimenti al popolo palestinese, Obama ha usato le parole del «falco» Sharon: Israele può avere molto, ma se pretende troppo rischia di perdere tutto. L'avvertimento di un amico, non della superpotenza che impone la trattativa. Obama, leader di un'America che presto sarà indipendente dalle forniture energetiche del Medio Oriente, si affida ai popoli e ai giovani. Con parole ispirate quasi quanto quelle del Cairo, 4 anni fa, ma un atteggiamento più disincantato.

l’Unità 22.3.13
La rinascita di Gramsci
Due convegni in Francia rilanciano le sue opere
Oggi e domani convegno a Parigi sui Quaderni e gli scritti gramsciani. Dopo un silenzio che durava dagli anni 60, ora sono molti gli estimatori tra gli intellettuali d’oltralpe
di Francesco Giasi


IL CONVEGNO LA «GRAMSCI RENAISSANCE»: REGARDS CROISÉES FRANCE-ITALIE SUR LA PENSÉE D’ANTONIO GRAMSCI È STATO ORGANIZZATO DALLA FONDAZIONE ISTITUTO GRAMSCI, dalla Fondation Gabriel Péri e dall’Università Paris 1 col proposito di discutere sui recenti studi in Italia e sulla presenza di Gramsci nella cultura italiana e francese. Il convegno si terrà oggi alla Maison d’Italie e domani alla Sorbona ed è stato preceduto da un seminario sull’Edizione nazionale degli scritti di Gramsci organizzato a Parigi dalle due fondazioni nel maggio dello scorso anno. Emerse in quell’occasione la volontà di misurare la penetrazione di Gramsci in Italia e in Francia.
L’espressione Gramsci Renaissance fu usata per definire il diffuso interesse per l’autore dei Quaderni del carcere nella Francia della seconda metà degli anni Sessanta. Una stagione durata poco più di un decennio, caratterizzata da vivaci dibattiti in un Paese che sino ad allora aveva quasi del tutto ignorato Gramsci. Si trattò, infatti, più di una «nascita» che di una «rinascita», come ha sottolineato André Tosel, tra i protagonisti di quella stagione. A parte i rituali interventi apparsi in occasione dei decennali della morte, Gramsci è stato del tutto assente dal dibattito culturale promosso dal Pcf e dagli intellettuali comunisti francesi sino a quella data.
Negli anni Quaranta e Cinquanta gli studi sulla attività politica e sul pensiero di Gramsci furono pochi e poco significativi. Le traduzioni furono tutt’altro che esaurienti: una scelta dalle Lettere dal carcere e un’antologia di scritti che offriva ai lettori francesi un Gramsci molto parziale. Le ragioni di questa sfortuna vanno ricercate innanzitutto nella particolare ortodossia del Partito comunista francese, interessato a prendere le distanze dal «revisionismo» togliattiano e perciò per nulla convinto dell’utilità di mettere in circolazione l’eterodosso marxismo di Gramsci. L’avvio della prima stagione di studi di Gramsci in Francia fu certamente dato dalla pubblicazione, nel 1965, di Pour Marx e Lire Le Capital di Louis Althusser che contenevano una dura critica all’umanesimo e allo storicismo gramsciano. Le tesi di Althusser furono vivacemente discusse – non solo in Francia – e animarono per alcuni anni il dibattito su Marx (giovane e maturo), sul marxismo e i suoi interpreti. Ma al di là del dibattito suscitato dalle critiche di Althusser, ben presto prese corpo una approfondita discussione sulle originali teorie di Gramsci. Al pensatore italiano furono dedicati studi finalmente approfonditi. Molti contributi furono tradotti anche in Italia, mentre sempre più fitto si faceva il dialogo tra gli studiosi francesi e quelli italiani come dimostra il volume di Christine Buci-Glucksmann su Gramsci e lo Stato pubblicato in Francia nel 1974 e tradotto in Italia l’anno dopo. In quegli stessi anni uscirono i volumi di scritti politici di Gramsci, tradotti ed egregiamente annotati da Robert Paris per la prestigiosa Bibliotèque de philosophie di Gallimard.
Si era al culmine di quella proficua stagione di studi e Gramsci sembrava quanto mai appassionare gli intellettuali francesi. Non è un caso che nel giugno del 1975 sia stato deciso di presentare i Quaderni nell’edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana proprio a Parigi. La traduzione dei Quaderni prese avvio immediatamente, sempre per Gallimard e a cura di Paris, con il primo volume pubblicato nel 1978. Ma la fortuna di Gramsci iniziò più o meno allora a declinare. Negli anni Ottanta in Francia, come in Italia, Gramsci fu messo «in soffitta». La Gramsci Renaissance francese fu oggetto di discussione al convegno internazionale di Formia dell’ottobre 1989 e se ne parlò come di una stagione ormai lontana.
Ma, negli stessi anni, il pensiero gramsciano iniziava anche a mostrare un’inedita vitalità. Al convegno italo-francese tenuto a Besançon un mese dopo, quando il Muro di Berlino era stato da pochi giorni rimosso, si diede l’eloquente titolo di Modernité de Gramsci. L’89 segna simbolicamente l’inizio di una rinnovata e generalizzata diffusione del pensiero di Gramsci nelle più diverse aree culturali e linguistiche e da allora si potrà finalmente parlare di Gramsci Renaissance di carattere internazionale, accompagnata dalla significativa ripresa degli studi gramsciani in Italia.

l’Unità 22.3.13
La grande luce di Tiepolo
Nei suoi dipinti «in chiaro» anche un trionfo di atletismi
di Renato Barilli


I colori della seduzione Tiepolo e Veronese a cura di L. Borean e W. Barcham
Udine, Castello, fino al 1° aprile. a cura di G. Bergamini, A. Craievich, F. Pedrocco, Passariano, Villa Manin, fino al 7 aprile

LA GRANDE ARTE DI GIAMBATTISTA TIEPOLO (1696-1770) PROMANA SENZA DUBBIO DA VENEZIA, MA È COME UN INCENDIO APPICCATO POI IN TANTI ALTRI LUOGHI, chiese e palazzi di città italiane ed europee. Tra queste, un luogo di eccellenza spetta senza dubbio a Udine, dato che l’artista allora trentenne vi fu chiamato ad eseguire, nel Patriarcato, un ciclo di affreschi di tema biblico che furono la prima e piena manifestazione del suo talento, poi destinato ad espandersi in infinite repliche, Forte di questo suo buon diritto, il Comune udinese dedica all’artista appuntamenti annuali, l’ultimo della serie riguarda un altro capolavoro, il Mosé salvato dalle acque, finito ad Edimburgo, che dunque ritorna nei nostri lidi, completato da un riquadro che ne fu staccato da tempo, un «Alabardiere» ora conservato a Torino. A completare questa radiosa epifania del genio tiepolesco si aggiunge anche Villa Manin, nella non distante Passariano, che riesce a proporne un enorme numero di tele, bozzetti e disegni, una raccolta quasi perfetta, anche se mancante dei metri e metri quadrati di realizzazioni parietali, in cui peraltro risiede il meglio dell’artista.
Una produzione enorme, che si deve avvicinare con due avvertenze: si tratta di uno stile impiantato senza dubbio nel barocco, il movimento che in pieno Seicento assicurò l’identikit della migliore arte europea, partito dall’Italia dei Carracci, ma subito ripreso dall’italianizzante Rubens e da tante altre propaggini. Tuttavia questa «coiné», alla fine del secolo, era già alquanto boccheggiante, ci voleva una riforma interna per renderla ancora sostenibile, e anche per prepararla a reggere la temibile concorrenza dell’età dei Lumi.
A questa ridefinizione provvide il napoletano Luca Giordano, che comprese che da quel momento bisognava «andare in chiaro», riversare fiotti di luce su scene che inizialmente risentivano di un certo tenebrismo. Inoltre l’illuminazione doveva anche essere accompagnata da un alleggerimento, da una velocizzazione dei tratti, così bene espressi nel nomignolo rimasto appiccicato al Giordano, «Luca Fapresto». Ebbene, il Tiepolo fu il perfetto erede di questa svolta, inondando i suoi dipinti di un chiarismo straordinario, portando fuori i grovigli di eroi antichi o di santi dalle nicchie degli interni, per farne svolazzare i panni in un plein air quasi di gusto pre-impressionista, a sfida del tonalismo del cognato Francesco Guardi. Tutto alla luce del sole, ma anche in un trionfo barocco di atletismi, di impennate ginniche, di rovinose cadute di corpi, come se assistessimo a uno spettacolo di paracadutismo. Il tutto in una sfacciata sollecitazione dei nostri sensi, senza il timore di giungere a sfiorare il kitsch.
Per questa totale adesione tiepolesca alle coordinate del barocco non è del tutto valida l’accoppiata proposta dalla mostra di Udine che paragona la tela del Tiepolo ai dipinti del Veronese, dato che il grande maestro della classicità cinquecentesca manteneva le sue architetture e figure ben dritte, impalate, seppure trattandole con una tavolozza sensuale, con un colorismo senz’altro anticipatore del tardo seguace. Il quale invece da parte sua è come se avvertisse una scossa tellurica, non cercando per nulla di resistervi, ma anzi abbandonando con voluttà i corpi ad arrancare nel vuoto.
In tal modo egli fu il campione insuperabile di quello che si dice anche tardo-barocco o barocchetto o rococò, uno stile cui però si andavano chiudendo gli orizzonti, rimanendone confinata la pratica solo ai Paesi ultracattolici, come tutta l’Italia del Nord, e poi l’Austria di Wüzrburg, altra sede famosa dove il Tiepolo, nella Residenza del Vescovo, fece mirabilia, e poi nella Spagna dei Borboni, dove fu costretto a recarsi in tarda età, dal 1762 fino alla morte, mentre la Francia, l’Inghilterra, e ben inteso da sempre i Paesi che avevano aderito alla Riforma protestante rifiutavano quello stile considerato troppo ampolloso e magnanimo. Del resto, perfino a Madrid egli si sentì assediato dall’arrivo di oppositori, il Mengs, il Bayeu, cognato di Goya che già si stava scaldando i muscoli. I Lumi chiedevano un’arte più dimessa, un andare non solo in chiaro ma anche in piccolo. Giambattista si era portato dietro il figlio Giandomenico, e sarà lui a intendere la necessità di un cambiamento. Quei trapezisti spericolati ormai dovevano atterrare, comportarsi da «cittadini» della Rivoluzione francese in arrivo.

La Stampa 22.3.13
Vedere in diretta l’Universo bambino
Presentate ieri a Parigi le straordinarie immagini del satellite Planck
di Antonio Lo Campo


La radiazione cosmica di fondo osservata da Planck: è l’immagine della luce più antica, impressa quando l’Universo aveva appena 380 mila anni
Primo scatto LA PRIMA SCANSIONE DELL’UNIVERSO «GIOVANE» RICOSTRUITA DA PLANCK NEL 2011 SULLA BASE DELLE DIVERSE SORGENTI ENERGETICHE
Lo strumento LANCIATO NEL 2009, «PLANCK» È IN ORBITA A 1,43 MILIONI DI KM DALLA TERRA. I SUOI SENSORI SONO PROGETTATI PER RACCOGLIERE L’ECO DEL BIG BANG
Le galassie UNA MAPPA REALIZZATA CON L’EFFETTO «SUNYAEV-ZELDOVICH», CHE SI BASA SULL’INTERAZIONE DEL PLASMA CON LA RADIAZIONE COSMICA DI FONDO
LE NUOVE ISTANTANEE Si spingono indietro nel tempo fin dove non si era mai arrivati prima

È stato un po’ come togliere il «velo» all’Universo. I nuovi dati dal satellite europeo «Planck» presentati ieri nella sede ESA a Parigi ne hanno fornito una nuova mappa più dettagliata rispetto a quella già elaborata nell’estate 2010. E per prima cosa si scopre che l’Universo ha 13,8 miliardi di anni.
Ma le sorprese sono molte. Per la nostra galassia, la Via Lattea, è stata realizzata una mappa dell’emissione delle polveri prodotte dalle stelle alla fine della loro vita, e una mappa dell’emissione degli elettroni liberi presenti tra le stelle. Per il cosmo intergalattico c’è ora una mappa della radiazione diffusa dal gas caldissimo degli ammassi di galassie, anche da quelli così lontani da non essere mai stati osservati prima.
Ma il dato più sorprendente è il prospetto della radiazione dei primi istanti dopo il big bang: «È come analizzare le acque alla foce di un grande fiume», spiega Paolo de Bernardis, responsabile delle attività di Planck presso l’Università La Sapienza di Roma, «e farlo talmente bene da poter risalire precisamente ai contributi di ciascuno dei suoi affluenti. Le nuove mappe di Planck permettono di stabilire per la prima volta quanta radiazione proviene dalla nostra galassia, dall’universo extragalattico e dall’universo primordiale».
Planck è un satellite dell’ESA lanciato nel maggio 2009 con un razzo Ariane 5 e inviato in un punto dello spazio a circa 1 milione e mezzo di chilometri dalla Terra; alcuni apparati del satellite operano a -253 gradi, altri a -273. Si tratta di quella sorta di «membrana» molto sensibile ma necessaria per rivelare i segnali testimoni della nascita dell’universo.

La Stampa 22.3.13
L’estrema semplicità del momento iniziale
di Marco Bersanelli


Dopo vent’anni di attesa e lavoro, dopo tre anni di osservazioni da un angolo sperduto dello spazio a un milione e mezzo di chilometri dalla terra, dopo migliaia di ore d’impegno di un piccolo esercito di brillanti scienziati di tutto il mondo (molti italiani), ieri abbiamo finalmente mostrato i primi risultati della missione Planck dell’ESA. Guardare indietro verso l’alba del tempo e catturare l’immagine più nitida mai realizzata dell’universo appena nato, questo l’obiettivo di Planck. Oggi possiamo dirlo: missione compiuta. Planck è una sorta di macchina del tempo. Poiché la luce, per quanto veloce, impiega molto tempo ad attraversare le distanze cosmiche, osservare oggetti a grande distanza nello spazio significa anche vederli come essi erano indietro nel tempo. Planck porta questa situazione alle estreme conseguenze: i suoi sofisticati strumenti catturano luce (che oggi vediamo sotto forma di microonde) che ha viaggiato quasi per l’intera età dell’universo, circa 14 miliardi di anni, e dunque ci restituiscono un’istantanea di come si presentava il cosmo all’inizio, quando la sua età era lo 0,003% di quella attuale. È come vedere un bimbo a poche settimane di vita rispetto a un adulto di 50 anni.
Gli strumenti di Planck sono i più potenti ricettori di microonde mai costruiti. Grazie alla loro sensibilità e risoluzione angolare ci hanno permesso di registrare con estrema precisione le piccole fluttuazioni di densità che agitavano il plasma infuocato che riempiva l’universo primitivo. Si tratta di oscillazioni acustiche (onde sonore) i cui effetti gravitazionali hanno dato il via alla formazione delle strutture. Per la prima volta Planck ha captato per intero questa «sinfonia cosmica», la cui analisi ha permesso di misurare con precisione senza precedenti le caratteristiche dell’universo.
I risultati ci offrono un misto di conferme e di sorprese. Anzitutto Planck ha verificato in modo spettacolare la validità del modello cosmologico standard. Significa in pratica che i tratti essenziali del nostro universo sono descritti molto bene da una manciata di parametri: sei numeri in tutto. L’universo iniziale era di una semplicità disarmante. Impressiona considerare come quello stato semplicissimo iniziale sia stato terreno fertile per lo sbocciare della complessità e della ricchezza che troviamo nell’universo presente. Planck ha anche precisato il valore di quei parametri che fissano l’abbondanza degli ingredienti di materia-energia, la geometria dello spazio, la dinamica dell’espansione. Troviamo che la materia «ordinaria» (della quale sono fatte le stelle, le galassie, e tutto il mondo conosciuto, compresi noi stessi) costituisce solo il 4,9% del contenuto dell’universo. La presenza della materia oscura non solo è confermata, ma «pesa» più del previsto: è il 26,8% del totale, un quinto in più di quanto si pensava. Il resto è il contributo dell’energia oscura, la misteriosa forza responsabile dell’accelerazione cosmica. Inoltre troviamo che la famosa costante di Hubble, che misura il tasso dell’espansione, ha un valore inferiore a quello dedotto da altre osservazioni astronomiche. Tutto ciò fornisce anche una data di nascita ben precisa per il nostro universo: 13,82 miliardi di anni, con la pazzesca precisione dello 0.4%.
Ma non è tutto. Le mappe di Planck hanno anche rivelato alcuni indizi che potrebbero essere sintomo di qualcosa di più profondo. Uno dei pilastri della cosmologia moderna è il cosiddetto principio cosmologico, ovvero l’assunto che su grande scala l’universo è in sostanza ovunque uguale a se stesso. Planck ha rivelato qualche crepa: si osserva una lieve asimmetria tra un emisfero e l’altro del cielo; inoltre si nota la presenza di un’ampia regione «fredda» difficile da spiegare come una semplice fluttuazione statistica; e altre piccole stranezze.
E’ straordinario vedere in diretta l’universo neonato con una definizione mai vista prima. E l’avventura non finisce qui. Questi risultati riguardano solo i primi 15 mesi di osservazioni, abbiamo ancora molti dati nel cassetto, compresa l’analisi sulla polarizzazione che promette altre novità. Arrivederci nel 2014!
Università degli Studi di Milano
Instrument Scientist e Deputy PI di Planck-LFI

Repubblica 22.3.13
Voyager
Oltre il sistema solare così l’uomo varca i confini dell’ignoto
di Elena Dusi


Dopo 35 anni e oltre 18 miliardi di chilometri percorsi la sonda sta per entrare nello spazio intergalattico A bordo la musica di Beethoven e altri suoni della Terra. Ma la Nasa frena: il passaggio non è ancora compiuto

Ha rotto il guscio, si è affacciata fuori e ha osservato il vuoto. A 18,4 miliardi di chilometri da noi, la sonda Voyager 1 sta superando l’involucro del sistema solare per penetrare nello spazio intergalattico. È il primo oggetto con l’impronta dell’uomo capace di uscire dal “giardino di casa” di cui fino a poco tempo fa ci consideravamo il punto centrale. Dopo 35 anni di viaggio, schizzando via a 46mila chilometri all’ora, l’“autobus con le antenne” progettato dalla Nasa per funzionare solo un decennio riesce ancora a parlare con la Terra. I suoi segnali impiegano 15 ore a raggiungerci. Quello che ci trasmettono è il “suono del silenzio” che viene dallo spazio profondo e mai prima d’ora avevamo ascoltato in diretta.
Le batterie atomiche al plutonio, secondo la Nasa, manterranno Voyager 1 in vita fino al 2020. La sonda in questo momento ha raggiunto i limiti della spiaggia e sta per tuffarsi in un oceano di cui nessuna cartina è stata disegnata. La prossima stella si trova a 40mila anni di distanza. Se mai Voyager dovesse raggiungerla e incontrare una qualche forma di vita, gli alieni troverebbero al suo interno un disco d’oro con incise le musiche dei terrestri, i suoni della natura, le immagini della doppia elica del Dna o dello spermatozoo che feconda l’ovulo, oltre ai discorsi del presidente Usa Carter e del segretario dell’Onu Waldheim. Il compendio di vita terrestre resterà intatto per un miliardo di anni e potrà essere letto anche quando, esaurito il combustibile, la sonda sarà un relitto alla deriva nell’universo.
Su quale sia l’esatto discrimine fra spiaggia e oceano, a dir la verità, gli scienziati non hanno le idee del tutto chiare. L’annuncio che Voyager era uscito dal guscio del sistema solare è stato diffuso ieri dall’American Geophysical Union (Agu) citando uno studio dell’università del New Mexico. Ma è stato smentito subito dopo dalla Nasa. “Voyager 1 ha lasciato il sistema solare” titolava il comunicato stampa iniziale dell’Agu, attenuato dopo un paio d’ore in “Voyager 1 raggiunge una nuova regione dello spazio”. Nell’intervallo Edward Stone, responsabile scientifico della missione presso la Nasa, aveva dichiarato che per annunciare il tuffo nello spazio interstellare di Voyager manca ancora un ultimo requisito: il cambiamento di direzione del campo magnetico.
Il sistema solare è avvolto da una sorta di pellicola molto turbolenta. Come nella risacca del mare, in questa zona detta “eliosfera” il vento solare emesso dalla stella si scontra con i raggi cosmici che provengono dallo spazio intergalattico. Voyager è penetrato nell’eliosfera già da diversi anni, con i suoi strumenti che registrano grossi sbalzi di particelle ad alta energia e il campo magnetico che si comporta come un mare in tempesta. Improvvisamente però, il 25 agosto del 2012, i sensori della sonda hanno visto precipitare di cento volte la quantità di particelle cariche emesse dal Sole, mentre i raggi cosmici provenienti dal cosmo sono raddoppiati. Tutto è avvenuto nel giro di una manciata di giorni e l’analisi di questi dati, pubblicata su Geophysical Research Letters
(la rivista dell’Agu) ha spinto gli scienziati a dare l’annuncio del salto compiuto. La contraddizione rispetto alla tesi della Nasa è stata alla fine risolta con diplomazia: «Siamo al di fuori dell’eliosfera, questo è sicuro» ha spiegato Bill Webber, l’astronomo dell’università del New Mexico attempato come ormai tutti i pionieri della missione. «Siamo arrivati in una regione dello spazio completamente nuova, dove tutto è diverso ed entusiasmante».

Repubblica 22.3.13
Se i nostri ragazzi si sentono brutti
L’anticipazione / Il saggio di Charmet sull’incubo degli adolescenti
di Gustavo Pietropolli Charmet


I ragazzi afflitti dalla bruttezza non hanno scampo, devono trovare una soluzione e ci pensano tutto il giorno, ma anche quando la scorgono essa non è mai a portata di mano, anzi è quasi sempre fonte di ulteriori delusioni, non solo perché inefficace ma perché spesso peggiora lo stato già al limite della sopportazione. Ci pensano moltissimo, e sono dominati dall’emozione della bruttezza, che si installa nella loro mente prendendo il sopravvento su qualsiasi altra ideazione, acquisendo nel corso del tempo le caratteristiche della ruminazione ossessiva, lugubre, ostile, senza vie di uscita, disperata, il più delle volte solitaria e tenuta segreta a tutti. [...] La bruttezza sta prendendo il sopravvento sulla ricerca gioiosa della bellezza, a volte tronfia e supponente, che caratterizzava l’adolescenza fino a qualche anno fa. Ora la crisi della bellezza è evidente e tutti ne sono a conoscenza: è diventata cara, difficile a trovarsi, quasi impossibile da conservare a lungo, minacciata da insidie che provengono da più parti, dal cibo, dall’ambiente, dalla metropoli, dallo stress, dal tempo che passa, dalla depressione che si diffonde, dalle passioni tristi, che sono le ultime rimaste, e dalla fluidità delle relazioni che un tempo erano solide e ora si stanno dissolvendo.
Nel corso degli ultimi anni mi è sembrata quasi un’epidemia la diffusione della convinzione di essere brutti fra i ragazzi.
Non è facilissimo accorgersene perché, mentre la bellezza si sfoggia, la bruttezza si cela, e il suo portatore si nasconde e cerca tutti i modi per evitare di essere intercettato dallo sguardo sociale che può smascherarlo e farlo morire per la vergogna e per la rabbia impotente che derivano dal sopruso perpetrato dall’incurante e beata superficialità irridente del gruppo dei coetanei e dalla inconsapevole mancanza di riguardo e competenza da parte degli adulti di riferimento. Questi ultimi diventano inevitabilmente un ostacolo per l’odiosa inconsapevolezza della gravità della situazione che si è venuta a creare non per colpa loro ma sicuramente sotto lo sguardo pigro e incurante di chi avrebbe dovuto vigilare ed evitare la metamorfosi.
Non è facile accorgersi che i ragazzi soffrono per la loro incurabile bruttezza, perché se ne vergognano. L’emozione della bruttezza è senza parole, quasi come l’emozione estetica, che però è socialmente condivisibile. La bruttezza rimane muta, segregata nel dolore senza parole, nella solitudine della relazione con lo specchio, implacabile come la bilancia e il riflesso improvviso della vetrina che rimanda l’immagine del gemello brutto che non vuole scomparire del tutto.
Senza parole, ma ricca di azioni e comportamenti: la bruttezza si cela e parla di sé attraverso le pratiche cui i ragazzi ricorrono per mitigare il dolore che essa provoca e per scavarsi una nicchia sociale dalla quale scrutare, senza essere notati, ciò che succede nel resto del mondo, dove si rincorrono leggiadri i ragazzi belli o quelli che non si sono mai posti il problema e non sanno nulla della propria bruttezza, perché pensano che ce l’abbiano solo gli altri, che comunque sono fatti così e questo non ha una grande importanza.
Me ne sono accorto lentamente, ma ora penso di aver capito, anche se non so come si possa riuscire per lo meno a renderla pensabile. I ragazzi convinti di essere brutti erano nascosti dentro comportamenti che pensavo fossero innescati e alimentati da altre motivazioni. Pensavo che i tentativi di suicidio fossero ispirati da sentimenti di colpa, rabbie repentine e incontenibili, desideri di vendetta, bisogni dolenti di comunicare il segreto e la sofferenza — e infatti queste sono concause frequenti, operative nel determinarsi del tentativo di uccidersi in adolescenza — , ma poi ho cominciato a notare che ciò che accomuna i diversi destini dei ragazzi che flirtano con la morte è la loro convinzione di essere brutti, di esserlo diventati a seguito di un trauma o di esserlo sempre stati, pur avendo vissuto sotto le mentite spoglie del bambino prodigioso e splendente. Il loro sentimento di imbarazzata mancanza di valore è alimentato dalla rappresentazione della propria bruttezza amorosa e sociale, dal farsi pena per quanto si è inadeguati a vivere, una convinzione dolente e abissale, quasi biologica, di essere radicalmente privi di fascino, ingrediente indispensabile se si sente il bisogno di essere amati o almeno tollerati dalla persona che si desidera. [...] Anche i ragazzi eremiti, ritirati nella cameretta, devoti a Internet e ai suoi riti notturni, lasciano intendere, senza poterlo confessare nemmeno a se stessi, che all’inizio della loro marcia verso la solitudine concreta e la socializzazione virtuale c’è l’intuizione lancinante dell’impossibilità di lasciarsi guardare dai compagni di classe per troppe ore al giorno [...]. Gli adolescenti eremiti metropolitani all’inizio dell’abbandono scolastico e dell’isolamento sociale addebitano al corpo difettoso l’impossibilità di socializzare la propria mente, ma sanno di usare il pretesto della malattia per alludere alla vera ragione della necessità di ritirare il corpo dall’invasività degli sguardi, del desiderio e della riprovazione dell’altro.