lunedì 25 febbraio 2013

l’Unità 25.2.13
L’Europa ci guarda. Il voto italiano può spostarla a sinistra
Mai come questa volta c’è tanta attesa internazionale
Senza «ingerenze» si tifa per la stabilità e per chi può garantirla
Anche in Germania il confronto comincia a riguardare l’alternativa tra austerity e crescita
di Paolo Soldini


Nella cabina elettorale Dio ti guarda, Stalin no. Così recitava un memorabile slogan delle campagne elettorali democristiane negli anni ’50. Si potrebbe attualizzarlo così: nella cabina elettorale dell’anno di grazia 2013 è l’Europa che ci guarda. Anzi, non solo ci guarda ma è, per così dire, lì con noi. Oddio: può turbare qualcuno l’idea di portarsi dentro al seggio Angela Merkel, François Hollande, Cameron o Barroso e Van Rompuy.
O magari Barack Obama, sia pure in spirito. Ma è proprio come se ci fossero. Perché mai nella storia le elezioni politiche italiane sono state attese con tanta partecipazione, e anche una certa ansia, al di là delle Alpi e oltre il mare. E mai sono state così influenti sulla vita dei non italiani.
Certo, da quando è iniziata la faticosissima corsa dell’Europa verso il proprio compimento politico ogni elezione è stata importante non solo per i cittadini del paese in cui si teneva ma per tutti gli europei. È un fatto logico, che ci dovrebbe spingere a capire quanto sia più che mai insensato, qui e oggi, parlare di «ingerenza». Ma mai come questa volta la posta in gioco è decisiva per tutti. Basta guardare i maggiori quotidiani europei e navigare tra i siti per accorgersi dell’attenzione enorme, in qualche caso venata da un filo di inquietudine, che l’opinione dell’opinione pubblica continentale dedica al voto in Italia. E quasi tutti prendono posizione. In base alle loro preferenze politiche, è ovvio, ma con una certa onestà super partes. Come fa, per citarne uno solo, il notissimo editorialista del Financial Times e dello Spiegel Wolfgang Münchau, il quale invita i suoi lettori a immaginare che alle elezioni dovessero scegliere tra «un clown, un miliardario condannato in prima istanza per evasione fiscale, un politico burocrate di sinistra che non capisce nulla di economia e un professore di economia conservatore che non capisce nulla di politica». Lui tutto sommato ha più simpatia per il «burocrate di sinistra» e gli augura di vincere nettamente le elezioni per non dover cercare compromessi con il «professore conservatore» che qualche tempo fa bollò come del tutto «inadatto» a guidare l’Italia fuori dalla crisi. Non è l’unico, va detto, a esternare anche in campo conservatore simpatie più o meno moderate per il centrosinistra, che è un giudizio diffuso meglio garantirebbe le ragioni della stabilità.
Il voto italiano è guardato con tanto interesse anche perché cade a metà cammino d’una stagione che vede in discussione il potere e gli equilibri politici nei tre paesi più importanti dell’Europa continentale. Si è partiti dall’elezione di Hollande nel maggio scorso e si arriverà alle elezioni federali del prossimo settembre in Germania. Nel giro di sedici mesi nell’Unione europea e nella comunità dei paesi dell’euro è già cambiato molto e potrebbe cambiare tutto: la politica, le prospettive economiche, gli umori dei cittadini, le loro paure e le loro speranze. Si decide e si deciderà in che modo i governi e le istituzioni di Bruxelles dovranno affrontare la crisi che si sta mangiando il benessere e la fiducia degli europei: se la disciplina di bilancio dovrà essere tirata fino alle estreme conseguenze come s’è fatto finora e come prescriverebbe l’attuazione rigida del Fiscal compact o se si potrà andare a cercare margini e risorse per cambiare strada, guardare in primo luogo al lavoro e puntare sugli investimenti possibili anche in questa stagione di vacche magrissime.
Che l’alternativa vera, importante, sia questa lo ha mostrato la campagna elettorale in Italia come lo aveva mostrato quella della primavera scorsa in Francia. Anche da noi si è parlato di economia, anche se soprattutto di tasse e troppo poco di occupazione e redistribuzione delle risorse. Se ne è parlato, purtroppo, in un modo pesantemente condizionato dal peggior populismo di Berlusconi, che i leader e le pubbliche opinioni degli altri paesi temono come la peste, e di Grillo, la cui spinta disgregante non è stata, forse, compresa del tutto fuori dai confini d’Italia. In gioco c’è stata, c’è, l’alternativa tra due strategie per combattere la crisi fondamentalmente diverse.
Una parte dello schieramento politico ha cercato di tenerci dentro il pensiero unico economico che aveva dominato le classi dirigenti per tre anni, condizionando anche l’iniziativa dei progressisti. Ma il centrosinistra si è sforzato di rompere quella unicità, sorretto anche da un abbozzo di programma comune di tutta la famiglia socialista e democratica europea. Anche in Germania il dibattito tra gli economisti e il confronto tra i partiti si sta spostando sempre più verso il discrimine dell’alternativa possibile: la recessione indotta dall’austerity à la Merkel comincia a insidiare le certezze un tempo solide di queste parti e l’ora d’un cambiamento di strategia appare sempre più probabile, anche se la popolarità della cancelliera resta ancora molto alta. È ragionevole pensare che dopo le elezioni di settembre, comunque vadano, la politica economica di Berlino non sarà più la stessa.
Dalle urne italiane, stasera, potrebbe uscire la conferma che l’Europa si sta spostando a sinistra e che proprio dentro questa sua mutazione cerca la strada giusta per risollevarsi dal disastro economico. Sarebbe anche un’utile lezione per quelli che vanno gridando che destra e sinistra non esistono più, che sarebbero scomparse insieme nella notte della crisi in cui tutte le vacche sono nere. Ma sarebbe soprattutto la prova che l’Italia, nonostante le sue storiche debolezze, il suo debito pauroso, le disastrose cadute di credibilità del recente passato, i rischi e le vergogne del populismo sfrenato, può riprendere a crescere e a far crescere l’Europa.

Repubblica 25.2.13
Bersani: e ora c’è un Paese da cambiare
Il leader pd vota e avvisa Monti: discuto, non ubbidisco
E su Grillo: rabbia nel vicolo cieco
di Marco Marozzi


PIACENZA — Qualche suo amico, nelle chiacchiere dopo voto, fa notare a Pierluigi Bersani che sulla stampa straniera lui è dato senza troppi dubbi come vincitore, ma che i «mercati» sperano abbia bisogno dei «piccoli partiti» guidati da Mario Monti. Lui sospira: «Fin da prima che Monti si candidasse, ho detto che non escludo un rapporto con un soggetto politico moderato. Ma non è lui che può dettare il compito di un futuro governo. Può concorrere, non pretendere. Noi siamo disposti a discutere, non a ubbidire».
E’ un Bersani quasi sollevato quello che esce dalla cabina elettorale. «Dopo tanti mesi sempre sul filo del rasoio» raccontano i suoi vecchi compagni piacentini. Il segretario del Pd è partito questa mattina per Roma. Ad attendere i risultati elettorali con i vertici Pd.
La domenica l’ha dedicata tutta alla famiglia e a un relax incredibilmente favorito dalla nevicata cha ha spopolato Piacenza. Se ne è stato per tutta la giornata nella villetta di via Campesio. Bella costruzione in una zona di tranquilla eleganza borghese, «Ferrari » e «Bersani» sui campanelli. La signora Daniela Ferrari oggi resta a Piacenza, da lì saprà se il giovanotto che conobbe ragazza su una corriera scolastica sarà premier. «Per la prima volta il Pd al governo? Bellissimo - dice lui -. Ma se… il grosso viene dopo: non dobbiamo solo riformare il governo, ma l’intero sistema politico».
La signora Daniela, fra due figlie ragazze e due genitori anziani a Bettola, ammette di avere anche altri problemi: «Ho una famiglia complicata. Tanto contenta di quel che succede ma io ho molte cose da cui pensare qui a casa». Si è presentata a votare alle 11 insieme al marito alle scuole elementari Pezzani a duecento metri da casa, seggio 37. Dietro, in una passeggiata fra neve e pioggia, le figlie Elisa e Margherita. «Quando c’è il voto non c’è neve che conta» ride Bersani.
Qualcuno nei gruppetti in attesa dice di apprezzare Bersani, ma di essere colpito da Grillo. Lui con i suoi confessa amarezza e determinazione, mentre da Roma arrivano ipotesi molto alte sui 5 Stelle. «Non volete che sappia che Grillo raccoglie non solo rabbia, ma anche voglia di cambiamento?
Sento i giovani grillini, le loro attese. Solo che lui porta queste istanze su una strada senza soluzioni, irrealistica, tutta personalistica. Ma lo so bene che è molto difficile spiegare sul serio alla gente come si può uscire dalla crisi, il dolore e la speranza».
«Ora ci abbandonerai» insegue Bersani il fotografo Prospero Cravedi. «Ma no ti porto a Roma con me per fare le foto». «Cosa pensi di ‘Viva la libertà’?» chiede un altro amico, giocando sul film con Toni Servillo dove un leader politico scompare ed è sostituito dal gemello geniale e matto, o geniale perché matto, un “Oltre il giardino” italiano. Il segretario non ci casca: «Non l'ho ancora visto, mi dicono che è bellissimo. Appena ho tempo vado a vederlo».
«Pierluigi Bersani, un ex comunista che ha dimostrato una vena pragmatica nel sostenere le difficili riforme economiche del governo Monti» dicono le agenzie straniere che i dirigenti Pd si fanno mandare sui telefonini. «Non è soltanto questione dei mercati, ma di tutti i partner dell’Italia – dice Bersani – che dalle urne esca un segnale di certezza capace di unire lavoro e conti in ordine. E solo noi siamo in grado farlo».

La Stampa 25.2.13
L’Italia vota
Affluenza in picchiata: -7 per cento
Mezza Italia al voto sotto la neve. In controtendenza le regionali in Lazio (+9,8) e Lombardia (+8)
di Carlo Bertini


Il generale inverno che scuote la penisola in queste ore domina i pensieri dei leader: neve, pioggia e vento che imperversano in questi due giorni in tutta Italia terranno lontani dalle urne di più gli elettori di destra, sinistra o centro?
Un tempo si diceva che i partiti più penalizzati dal calo dell’affluenza fossero quelli con un elettorato meno schierato e ideologizzato, oggi però le carte sono così rimescolate e l’offerta politica è tale che nessun calcolo di questo genere è consentito, anche se di sicuro a tremare di più sono le forze che godono di maggiori simpatie tra anziani e pensionati e viceversa. Alle 22 di ieri sera il calo dell’affluenza era molto sensibile, pari a più di sette punti percentuali: a quell’ora, con quasi tutti i Comuni monitorati (ne mancavano appena 7) aveva votato il 55,18% dei 47 milioni di elettori, rispetto al 62,55% del 2008. Ma quando alle 15 di oggi si apriranno le urne e cominceranno a uscire le proiezioni in diretta su tutte le tivù, ben altri dati catalizzeranno l’attenzione: il risultato reale del Movimento 5 Stelle per capire quale sarà il profilo e la forza dell’opposizione da una parte; l’esito del voto per il Senato in Lombardia e Sicilia e quanti senatori avrà la lista Monti, due fattori da cui potrebbero dipendere le sorti della governabilità del paese. Lo scrutinio sarà fatto prima sulle schede del Senato e poi su quelle della Camera e la speranza è che in serata si possa avere un quadro della situazione: più difficile da ottenere rapidamente per la Camera alta, visto che oltre ad attendere i numeri da tutte le regioni dove viene attribuito il premio di maggioranza, va tenuto conto che l’attribuzione dei seggi restanti andrà diviso stavolta tra un numero maggiore di partiti rispetto al passato.
Ma la domenica di passione col cuore in gola è stata vissuta dai leader dei partiti anche con l’occhio incollato ai dati sull’astensione e l’orecchio alle voci sui dati di quegli instant poll che verranno lanciati a urne chiuse, realizzati in questi due giorni da molti istituti su chi era andato già a votare.
Il calo dei votanti sul 2008 registrato ieri è stato assorbito nei quartier generali dei partiti senza troppi patemi, per due semplici motivi: la crescita dell’astensione è un fenomeno ormai fisiologico da anni in tutta Europa e se oggi alle 15 fosse cresciuta anche di tre punti rispetto alla volta scorsa sarebbe considerato quasi normale da tutti gli esperti di flussi. Se viceversa la forbice sul 2008 dovesse ridursi in zona Cesarini sarebbe comunque una sorpresa che dimostrerebbe la voglia di partecipazione a dispetto di una campagna elettorale definita brutta e dei disagi del voto invernale.
Qualche segnale a dispetto del forte calo registrato nella serata di ieri arriva dalla crescita dell’affluenza alle elezioni regionali di Lazio, Lombardia e Molise. Se in Molise l’aumento è stato solo del 2% (41,49% contro il 39,48%), in Lazio la differenza con la precedente tornata di regionali ha toccato i dieci punti (il 9,8%), in Lombardia oscilla attorno agli 8 punti.
Va detto che in entrambi i casi il dato non è molto significativo, perché trainato dalla presenza di un election day che ha naturalmente spinto laziali e lombardi alle urne a dispetto del maltempo. Solo oggi capiremo se in questo dato c’è anche una domanda di cambiamento degli equilibri politici da parte dei cittadini in due realtà finora saldamente governate dal centro-destra o se invece, come potrebbe accadere, la gente avrà scelto la via del voto disgiunto. Del resto, comparando il dato sull’affluenza alle elezioni politiche, sia in Lazio che in Lombardia si registra comunque un calo rispetto all’ultima tornata. Più sensibile in Lombardia, meno in Lazio.

Corriere 25.2.13
L’affluenza crolla al 55%
Votanti in forte calo, oltre sette punti in meno
Più del freddo sui numeri pesa la disaffezione verso la politica
di Renato Mannheimer


Finalmente, dopo una lunga e non entusiasmante campagna elettorale, siamo giunti al momento del voto. Oggi, già nel pomeriggio, grazie alle proiezioni, sapremo i primi risultati e potremo immaginare la composizione del governo che verrà. Gli ultimi sondaggi, effettuati anche in queste ore, ci forniscono qualche idea, ma è indispensabile attendere la verifica finale sulla base di ciò che ci diranno le urne. Intanto è possibile fare qualche ragionamento sui dati, anch'essi inevitabilmente provvisori, relativi all'affluenza ai seggi. Che appaiono però di grande rilievo. È infatti confermato l'andamento già rilevato in occasione delle ultime tornate elettorali, vale a dire la progressiva diminuzione della percentuale dei votanti. Ma, almeno sulla base dei dati delle 22, il trend ha subito una improvvisa e molto consistente accelerazione: si è infatti recato alle urne addirittura il 7,3% in meno. Nei contesti ove si è votato anche per l'elezione del presidente della Regione, la partecipazione è maggiore se confrontata alle amministrative precedenti, ma non rispetto alle politiche. La competizione nazionale ha «trainato» quella delle regionali. Ma nell'insieme la partecipazione è diminuita. E di molto. Si tratta di un fenomeno che può essere ricondotto a due diversi ordini di motivi; il primo, per così dire, strutturale e il secondo, più importante, legato agli atteggiamenti dei cittadini. Innanzitutto, si deve registrare il progressivo invecchiamento della popolazione e, di conseguenza, la maggiore difficoltà per un numero crescente di persone a recarsi alle urne, specie con il cattivo tempo. Ma il fattore atmosferico — è la prima volta che si vota in inverno — avrà anche sicuramente frenato la partecipazione di cittadini di altre classi di età, già perplessi sul votare o meno a causa della disaffezione dai partiti e dagli affari pubblici in generale. Ed è specialmente quest'ultima a costituire il fattore determinante dell'aumento di astensionismo. Essa è legata al crescente disinteresse (finiti i tempi del voto di appartenenza, il seguire le vicende politiche e farsi un'opinione richiede un impegno cui molti, sempre di più, non sono disponibili) e, sopratutto, al disprezzo verso la politica. Vista come il ricettacolo di privilegi ingiusti, a fronte di una azione inefficace e, talvolta, non corretta se non addirittura illegale: i ripetuti scandali succedutisi anche in questi ultimi mesi hanno inevitabilmente allontanato i potenziali elettori dalle urne. In qualche misura, questa tendenza è stata «frenata» dalla capacità di attrazione del Movimento 5 Stelle, che tende a raccogliere e incanalare la scontentezza. Ciò vale però soprattutto per i più giovani, più orientati verso le proposte di Grillo, mentre nelle altre classi di età al disinteresse o all'insoddisfazione per la politica corrisponde una maggiore propensione all'astensione. Con la conseguenza di un progressivo minore afflusso alle urne. Un fenomeno che, ancora una volta, dovrebbe costituire un severo monito nei confronti dei partiti tradizionali e, specialmente, uno stimolo per essi a riconquistare la fiducia dell'opinione pubblica. C'è da sperare che coloro che siederanno nel prossimo Parlamento tengano conto di questi segnali.

La Stampa 25.2.13
Piepoli: «Ma alla fine il calo sarà più contenuto»
domande aNicola Piepoli sondaggista
di Fla. Ama.


Nicola Piepoli, il forte aumento dei votanti nelle elezioni regionali di Lazio e Lombardia è significativo?
«Non è così rilevante, quel dato è trainato dall’election day con le politiche. Certo, va capito quanti di questi voti trascineranno i voti a destra piuttosto che a sinistra e se dunque peseranno sul dato nazionale».
C’è la possibilità che molti elettori di quelle due Regioni votino in maniera disgiunta, ovvero alle nazionali per uno schieramento e alle Regionali per l’altro?
«Certo, ma questo fenomeno ci sarebbe stato anche a parità di votanti. Il risultato finale è apertissimo».
Lei è definito da tutti il decano dei sondaggisti: di elezioni ne ha viste tante, mai però con la neve. Quanto conta l’effetto maltempo questa volta?
«Io sono convinto che il calo alla fine sarà intorno al 2%. Arriveremo a circa il 78% dei votanti, oltre due terzi della popolazione, una media che resta comunque molto alta se pensiamo che in Gran Bretagna, invece, a votare va circa il 50%».
Insomma il voto di protesta non si manifesterà sotto forma di astensionismo massiccio. È così?
«Assolutamente no. Il calo che ci sarà è contenuto ed è solo parte di un normalissimo trend in discesa che non desta alcun tipo di preoccupazione. Gli italiani sono andati a votare comunque, è evidente che non è questa la strada che hanno scelto per manifestare la loro protesta».
Secondo lei quindi, nonostante il maltempo, si recheranno alle urne anche gli anziani?
«Senza dubbio. Loro sono gli elettori più assidui. Per loro è un dovere sacro».

Repubblica 25.2.13
Regionali, dopo gli scandali le politiche trascinano il voto
di G. C.


ROMA — L’election day ha fatto certamente da traino. Ma nelle tre Regioni in cui si vota, dopo gli scandali, le ruberie, il malcostume — Lombardia, Lazio e Molise — c’è stato un boom di elettori già nella prima giornata. Alle 22, l’affluenza alle urne era stata del 56,83 %in Lombardia: un lombardo su due è andato subito al seggio, mentre nelle precedenti regionali nel 2010, l’affluenza alla stessa ora era stata del 48,78%. Quindi c’è stato un balzo di votanti dell’otto per cento. Anche nel Lazio, c’è un +6%: si è passati da un’affluenza del 45,58% del 2010 al 51,77% di ieri sera. In crescita, anche se in misura minore anche in Molise: il 36,79% contro il 36,8 dell’ottobre 2011, quando si svolsero le regionali (poi annullate dal Consiglio di Stato).
L’attenzione mediatica, soprattutto su Lombardia e Lazio, è stata forte, e la fine disastrosa e anticipata delle giunte di Roberto Formigoni e di Renata Polverini hanno probabilmente scosso anche gli indecisi. A Milano città aveva votato alle 19 il 49,59% (alle precedenti elezioni il 34,33) e a Roma il 44,26% (contro il 29,55). In Lombardia tutti i leader hanno fatto una campagna elettorale capillare, perché qui si gioca una partita doppia: per ottenere il premio regionale per il Senato e per il consiglio regionale. La sfida regionale è tra il leghista ex ministro del-l’Interno, Roberto Maroni (per il centrodestra) e Umberto Ambrosoli (per il centrosinistra), ma della partita è anche il montiano Gabriele Albertini. Anche se alcuni altri candidati di “Scelta civica”, la lista di Monti, hanno annunciato il voto disgiunto, di appoggio a Ambrosoli, proprio per non consentire la vittoria della Lega. Il Pd lombardo è ottimista. «Tanta gente alle urne è un dato di buon auspicio: sperèm...», incrocia le dita Maurizio Martina, candidato democratico. La differenza la faranno i territori pedemontani, Varese, Co-
mo, Lecco, Bergamo, Brescia. L’inchiesta su Formigoni, l’ex governatore pidiellino, accusato di corruzione, può essere stata un danno per la Lega, a sua volta scossa dagli scandali sui rimborsi elettorali che portarono alle dimissioni di Bossi dalla segreteria.
Ancora più travagliato il capitolo- giunta laziale. I soldi pubblici dei rimborsi elettorali, gestiti per il Pdl da Franco Fiorito, e impiegati in feste e festini, diedero a settembre il colpo di grazie al governo della Polverini nel Lazio costringendola, dopo un braccio di ferro, alle dimissioni. «La sommatoria tra election day e la reazione degli elettori ha provocato l’exploit », ragiona Marco Miccoli, segretario democratico romano.

l’Unità 25.2.13
Miguel Gotor
«In Italia la destra, dal punto di vista sociale e antropologico, è più forte dei suoi partiti»
«Il voto all’ex comico è un voto auto-assolutorio, purificatore, che libera l’elettore dal dover fare i conti con le proprie responsabilità»
«Grillo è il frutto della cultura berlusconiana degli anni 80»
intervista di Maria Zegarelli


Parlare in queste ore con i candidati di centrosinistra vuol dire rassegnarsi a scrivere con parecchi condizionali. E con la certezza che ogni discorso sarà accompagnato da una buona dose di scongiuri. «Se vinceremo», «se il centrosinistra ce la farà anche al Senato»... Miguel Gotor, storico, candidato capolista in Umbria per il Senato, usa con moderazione i «se», tuttavia preferisce soffermarsi su questa lunga fase storico-politica del nostro Paese, più che sulle previsioni sul futuro. Gotor, siamo al tramonto del ventennio berlusconian-leghista o è solo una battuta d’arresto?
«Ho fondate speranze che ciò avvenga. Non parlerei però di ventennio sul piano politico perché Berlusconi e la Lega hanno governato per otto degli ultimi dieci anni, mentre negli anni Novanta Berlusconi ha governato per soli sei mesi». Quando è iniziata la trasformazione antropologica della politica? «Parlerei di un trentennio di egemonia culturale berlusconiana, iniziata negli anni Ottanta, e quel processo ce lo porteremo dietro ancora per diverso tempo. Ha cambiato un nostro modo di essere (anche a sinistra) e credo che il risultato di Grillo rientri in quell’onda lunga populista, sia cioè dentro il tramonto del berlusconismo».
Ci stiamo mettendo in linea con l’Europa, dove lo scontro è tra populismo e riformismo?
«Ormai è così in Italia come in Europa. Qui da noi, anche a causa dell’egemonia culturale del berlusconismo, il populismo si articola in forme variegate e sincretiche. La destra, dal punto di vista sociale e antropologico, è più forte e più estesa della sua rappresentanza parlamentare, è un dato della struttura profonda del nostro Paese. Il fatto che il grillismo sia il frutto della fase terminale del populismo berlusconiano dipende da una circostanza precisa: Berlusconi ha cambiato il dna dei moderati, li ha estremizzati e radicalizzati, ha fatto cioè il contrario della Dc che li governò a “fuoco lento”. Per questo non mi sorprende il successo di Grillo e prevedevo che la prospettiva centrista non avrebbe sfondato perché i moderati italiani sarebbero saliti su un altro carro a guida populista e carismatica». Un Paese di destra con spinte populiste. Analisi pessimista alla vigilia dei risultati del voto.
«Realista ma non pessimista e le spiego perché. Se noi vinciamo vorrà dire che siamo riusciti a spaccare in due il fronte populista, abbiamo cioè disarticolato la destra attraverso un’azione politica e parlamentare. Nel 1996 si prevalse perché Pdl e Lega si separarono, oggi perché si separano i reduci berlusconiani dal nuovismo grillino». Il Movimento 5 Stelle potrebbe essere addirittura il secondo partito del Paese. Secondo lei è un’ipotesi avventata? «Non credo, potrebbe accadere e devo dire che preferisco confrontarmi in Parlamento più con i 5 stelle che con i berlusconiani. Il Movimento 5 Stelle ha raccolto tutte le proteste possibili dando vita a un brand, attorno a un comico-istrione, una sorta di Gabibbo, ove istanze di destra e di sini-
stra si confondono e ove ciascuno ha le sue ragioni per esprimere un voto contro, anti-sistema. Ma attenzione, quello a Grillo è un voto auto-assolutorio, purificatore, che libera chi l’elettore dal dover fare i conti con le proprie responsabilità. È l’ennesima scorciatoia italiana che individua un capro espiatorio (la “casta”, i partiti) e impedisce a questo Paese di risollevarsi. Non è una soluzione, è la malattia, ma a rimetterci saranno i più deboli, l’operaio che vota Grillo, non l’avvocato».
C’è da rimpiangere la vecchia Dc?
«Non dico questo, penso però che quel partito ha saputo contenere i moderati e ha funzionato da filtro. Li ha depurati da estremismo, radicalismo e qualunquismo, i tre tratti ereditari che avevano dato il consenso al fascismo. Il fascismo italiano è stato al tempo stesso iperpolitico, cioè mobilitante, ma antipartitico. L’onda populista italiana è presente in altre forme anche in Europa ed è alimentata da un effetto catartico e giustizialista per cui la colpa è sempre di qualcun altro. Poi, in Grillo ci sono anche pulsioni antisistema di carattere libertario che derivano dalla tradizione della sinistra extraparlamentare e antiparlamentare italiana: il suo è un movimento complesso che tende a confondere destra e sinistra per annullarle. Ma i processi politici sono sempre molto complessi e inevitabilmente anche sociali».
Eppure dovrete farci i conti in Parlamento. Saranno tanti, secondo le previsioni. «Non mi spaventa. Con il Movimento 5 Stelle ci sono tante cose che ci separano (la violenza verbale, l’arroganza del capo), ma anche temi sui quali sarà possibile trovare dei punti di contatto (penso alla riforma dei costi della politica, alla semplificazione burocratica) mentre con i berlusconiani non ne vedo, è una negatività già sperimentata».
Veltroni ha definito queste elezioni di portata storica. Concorda?
«Lo sono per molti aspetti, uno di questi è che se vincesse il centrosinistra, per la prima volta dal 1861 andrebbe al governo un uomo di sinistra, per via elettorale, con un progetto riformista: non è poco, e comunque è la ragione del mio impegno».

l’Unità 25.2.13
Risultati in diretta, video e «seggiometro» su Unita.it
di Cesare Buquicchio


Ma insomma, chi ha vinto? Alla domanda del giorno risponderanno, o almeno ci proveranno, siti web e tv in una sfida ormai sempre più equilibrata, in quanto a mezzi, a seguito e a creatività, tra old e new media.
Unita.it inizierà oggi alle 8 del mattino una lunga diretta che andrà avanti ininterrottamente fino a mercoledì prossimo, quando il quadro sarà completo anche con i risultati delle elezioni regionali.
Sul nostro sito web ci saranno naturalmente i dati, dagli instant poll alle proiezioni, fino ai dati definitivi. Ma vista la delicatezza del voto al Senato su Unita.it sarà attivo anche l’innovativo “Seggiometro” (www.unita.it/seggiometro), un simulatore di seggi in cui l’utente, mettendo le percentuali ai vari partiti (anche non definitive), potrà calcolare da subito la composizione effettiva dell’emiciclo di Palazzo Madama.
Quello su cui la tv non può proprio contrastare il predominio della Rete è il rapporto diretto con i lettori. L’Unità sarà in dialogo costante con il suo “popolo” sulle sue piattaforme sociali, a cominciare da Facebook e Twitter, passando per YouTube e per il nostro spazio blog Com.Unita, e per finire con il nuovo network video Vine che stiamo per primi sperimentando in Italia con i suoi brevi messaggi video di 6 secondi facili da caricare e condividere. Per dialogare con noi, mandare le vostre riflessioni o domande, basterà citare nei vostri messaggi l’hashtag #VOTOUNITA.
Si continuerà con tutte le notizie, i video e le dichiarazioni dei leader politici e con due dirette video che potrete guardare in streaming su Unita.it a partire dalle 15. La prima sarà quella realizzata da YouDem dal quartier generale del Pd allestito a nella Casa dell’Architettura di Roma con aggiornamenti sui risultati, interviste e commenti degli esperti tra cui Claudio Sardo, Stefano Menichini, Gregorio Paolini, Michele Prospero, Filippo Sensi e tanti altri. La seconda si intitola #ITALIAVOTA, una produzione realizzata da Tiscali in collaborazione con Altratv.tv e Thelema press con tanti ospiti e uno sguardo particolare al web e ai social network.
La tv e la radio puntano sulle “maratone”. Sia la Rai, che La7, che Sky, dedicheranno all’election day l’intero pomeriggio e la serata con dirette dai comitati elettorali, ospiti in studio, instant poll e proiezioni. La Rai comincerà alle 14.50 con gli speciali del Tg1, del Tg2, del Tg3 e di RaiNews mentre, già dalle 14.45 prenderà il via la lunga diretta del Giornale Radio Rai. La serata di Rai1 sarà affidata a Porta a Porta e Tg1, con gli speciali delle altre testate e con Rai News. Programmazione che andrà avanti anche martedì, quando la TgR metterà in campo, nelle regioni al voto, due speciali elezioni. In tutto le ore di informazione dedicate al voto saranno circa 70. Oltre 33 ore di speciali su SkyTg24 che, tra le tante iniziative, attiverà una postazione live dalla Galleria Alberto Sordi nel cuore di Roma.
Per la maratona ’Il voto 2013’, il canale all news diretto da Sarah Varetto, metterà in campo oltre 100 giornalisti, 30 mezzi di produzione, 70 fra tecnici e producer, 3 registi, 4 studi tv e collegamenti con il Viminale, con i quartieri generali di tutte le coalizioni. A curare gli instant poll e le proiezioni Sky sarà l’istituto di rilevazioni Tecnè, presieduto da Carlo Buttaroni collaboratore fisso anche dell’Unità.
Su La7 dalle 14 ci sarà uno speciale condotto dal direttore del Tg Enrico Mentana che alle 21 lascerà il testimone a Corrado Formigli per una puntata di Piazza Pulita. Per quanto riguarda Mediaset, dalla chiusura dei seggi, Tg5, Tg4 e Studio Aperto si alterneranno per tutta la giornata con edizioni straordinarie e finestre informative all’interno dei programmi. Dalle 21.10 su Canale 5 in onda uno Speciale Tg5, che chiuderà alle 1.30. Su TgCom24 lunga no-stop dalle 16.

l’Unità 25.2.13
Le incognite che decideranno il Senato
Il quadripolarismo complica i calcoli
Sono Lombardia e Sicilia le chiavi di Bersani per avere una maggioranza autosufficiente
La tenuta di Monti oltre la soglia dell’8% potrebbe essere decisiva
di Virginia Lori

Il Porcellum assicura una maggioranza certa (55% dei seggi) alla Camera. In Senato invece la maggioranza resterà incerta fino alla fine dello scrutinio odierno. È la conseguenza del passaggio dal bipolarismo al quadripolarismo: con Beppe Grillo e Mario Monti in campo, oltre a Partito democratico e Popolo della libertà, chi perde in una Regione dovrà infatti dividere i seggi con gli altri sconfitti, e dunque vedrà ridotte le sue chance di poter governare.
L’altra certezza, scrive il professor Roberto D’Alimonte sul Sole 24 ore, è che Silvio Berlusconi sia pure nel caso in cui, sconvolgendo i pronostici, prevalesse alla Camera non riuscirebbe comunque ad aggiudicarsi la maggioranza assoluta al Senato, poiché alla coalizione di centrosinistra, per impedirlo, basterebbe vincere in Toscana, Umbria, Marche, Emilia e Basilicata.
Le chances di Bersani sono invece legate ad alcune Regioni-chiave: anzitutto Lombardia, Veneto e Sicilia. Il politologo ha effettuato alcune simulazioni, provando a tenere fermo il premio di maggioranza alla Camera per il centrosinistra e un risultato di Monti oltre la soglia dell’8 per cento (33 senatori in totale). In caso di en plein per il centrosinistra nelle tre Regioni clou, Bersani potrebbe con-
tare su 178 senatori: venti in più della soglia di maggioranza di 158 (con 60 per il Pdl e 42 per Grillo).
Perdendo solo in Lombardia il cosiddetto «Ohio d’Italia» ne avrebbe 162, 4 oltre la soglia di maggioranza (76 al Pdl e 42 a Movimento 5 Stelle). Più complicata la situazione con la vittoria lombarda ma la Sicilia presa da Grillo e il Veneto al centrodestra: un solo seggio di maggioranza (con Pdl a 70 e Grillo a 51).
Se invece, alla fine, Silvio Berlusconi riuscisse a tenere in Lombardia e in Veneto cedendo solo la Sicilia, Bersani si ritroverebbe senza la maggioranza a Palazzo Madama:153 seggi -sotto di 5- con il Pdl a 85 e Grillo a 42.
Ancora peggio per il centrosinistra, ovviamente, se all’ambo del Cavaliere si aggiungesse l’affermazione del comico genovese nell’Isola: 143 seggi per Pd e Sel, 86 a Berlusconi e 51 ai Cinque Stelle. Stessa situazione solo 143 seggi per il centrosinistra in caso di tripletta azzurra nelle Regioni fondamentali. Con l’aggravante che il Pdl salirebbe a 95 seggi.
Alle incertezze legate all’attribuzione del premio regionale, si aggiunge poi quella sulla tenuta di Scelta Civica. Nelle simulazioni infatti si attribuisce sempre almeno l’8% alla lista del premier. Se così non fosse in Regioni «pesanti», la possibilità del centrosinistra di garantirsi la governabilità attraverso l’accordo con Monti diventerebbe decisamente più ardua.

Repubblica 25.2.13
Il populismo in Parlamento
di Nadia Urbinati


LA DEMAGOGIA non si traduce facilmente in rappresentanza parlamentare. Vive di politica diretta e il suo più grande ostacolo è la normalità che segue il voto. Si adatta meglio ad una permanente campagna elettorale perché retta sull’espressività e sull’arte affabulatrice del leader, la ricerca dell’applauso e del contatto diretto con il pubblico. La demagogia si avvale di una retorica spesso aggressiva.
E rinasce ogni qual volta la distanza tra chi sta dentro e chi sta fuori i luoghi del potere si allarga fino ad aprire una falla nella quale si fa strada questa forma alternativa di espressione politica, la cui linfa vitale sono emozioni di opposizione, come la rabbia o l’esasperazione. La demagogia prende energia dalla relazione di vicinanza del leader con la folla: egli porta la massa dove vuole e deve farsi portare da essa per meglio eccitarla e averla sua. La demagogia non vive di azione differita, vuole un rapporto fisico diretto, come quello tra Beppe Grillo e le folle che si assembrano ai piedi del suo palco inscenando una drammatizzazione delle vicende politiche più problematiche e delle difficoltà sociali ed economiche che le accompagnano. Che cosa ci si deve aspettare dalla politica demagogica ora che le urne si chiudono e una folta pattuglia di eletti entra in Parlamento?
C’è un’incertezza palpabile su quel che sarà il post-elezioni dei movimenti populisti – certamente del M5S – proprio per l’oggettiva difficoltà a tradurre le emozioni delle folle in rappresentanza politica. Le ragioni dello scontento che fa da benzina al demopopulismo sono più che giustificate. È giustificato il disgusto urlato nelle piazze oceaniche che raduna Grillo per il modo con il quale amministratori delegati governano banche e imprese nel proclamato dispregio delle regole e con arbitrio – cloni di una classe politica che Mario Monti ha chiamato “cialtrona”. È giustificata l’angoscia per il domani anche a causa di politiche di austerità senza progetto che hanno impoverito troppi italiani, senza peraltro riuscire a risolvere i problemi che dovevano risolvere. È comprensibile il disagio di molti onesti cittadini di fronte ai potenti che vorrebbero appropriarsi del bene della giustizia per garantirsi impunità. Indignazione giusta e sacrosanta che però stenterà a trovare un’efficace rappresentanza se si affiderà alla guida demagogica.
La demagogia che riempie le piazze e i siti Internet ha il potere di attrarre consenso ma non ha probabilmente alcun interesse a creare stabilità nel dopo le elezioni. La sua forza (che si paventa molto consistente) può essere di impedimento alla formazione di una maggioranza duratura. La stabilità del governo è del resto il nemico dei movimenti demopopulisti, la cui aspirazione sono piazze piene di scontenti (che restino tali). La democrazia consente di tenere i giochi aperti; a questo serve la regola della ciclicità elettorale, a mediare stabilità e mutamento, apertura del contenzioso e sua temporanea chiusura. È questa regola fondamentale che la demagogia mal digerisce e fa di tutto per sovvertire, per essere forza mobilitante permanente.
Inoltre la demagogia non è rappresentabile; rabbia e indignazione sono emozioni difficili da tradurre in progetti politici condivisi. Anche per questo ha senso temere scenari di instabilità. Che cosa faranno i rappresentanti del M5S in Parlamento? Dove si posizioneranno in rapporto alla maggioranza che si formerà?
E che proposte porteranno avanti che possano rappresentare quella rabbia che il loro leader fa montare ogni ora che passa? È vero che il M5S ha dimostrato, nelle amministrazioni locali, di esprimere eletti di buon senso. Ma il Parlamento non è un consiglio comunale e i pochi punti di programma che Grillo propone non sono paragonabili in efficacia e per portata alla voglia azzeratrice che la sua retorica alimenta.
Il caos che un conglomerato di eletti non uniti in partito e, soprattutto, senza idee guida “in positivo”, ma uniti principalmente dalla rabbia anti-sistema, è purtroppo prevedibile. L’unica speranza è che, proprio a causa della loro inconsistenza come partito, gli eletti del M5S si sentano totalmente liberi di seguire il loro buon senso; che, insomma, rappresentino solo se stessi al meglio della ragionevolezza di cui sono capaci. Non si può non vedere il paradosso: gli eletti di questo movimento demagogico non devono dar conto a nessuno e proprio da questa assenza di mandato politico e di controllo dipende la stabilità del quadro politico post-elettorale. Portati in Parlamento sull’onda dell’emozione, dobbiamo sperare che molti di loro sappiano e vogliano esprimere l’indignazione e la rabbia con comportamenti ragionevoli, volti a promuovere stabilità per potere picconare per davvero gli effetti del malgoverno che si è accumulato in questi anni di cialtroneria sistemica.

il Fatto 25.2.13
Scandali & porporati
Mahony e altri peccati verso il Conclave
di Luca De Carolis


Ha deposto per quattro ore, sul suo passato pieno di buio. Presto potrebbe tornare di fronte ai giudici. Eppure il cardinale americano Roger Mahony, 77 anni, di saltare il Conclave non vuole saperne. Lo ha ribadito lui stesso ieri, in un tweet: “Poche, brevi ore prima della mia partenza per Roma”. Quasi uno sberleffo, quello dell’ex arcivescovo di Los Angeles, accusato di aver coperto 129 abusi su minori nella sua diocesi, negli anni ‘80, aiutando i sacerdoti coinvolti. Un caso che in queste ore si intreccia pericolosamente a quello di un altro cardinale, l’arcivescovo di St Andrews ed Edimburgo Keith O’Brien.
SECONDO la stampa britannica, tre sacerdoti e un ex prete lo accusano di “comportamenti inappropriati”, sempre negli anni ‘80. Condotte tali da spingere un prete “a smettere i panni sacerdotali, per salvare la sua integrità”, come riferisce la Bbc. Il portavoce della Santa Sede, padre Lombardi, ammette: “Benedetto XVI è informato del problema, e la questione ora è nelle sue mani”. Ieri O’Brien non ha celebrato messa nella cattedrale di Edimburgo. Ma i tempi sono strettissimi: abbastanza per rendere complicata una sua esclusione dal Conclave. Tra gli elettori del nuovo Papa ci sarà (quasi) certamente Mahony, che sabato ha deposto per quasi 4 ore su quegli abusi che avrebbe coperto. Il cardinale ha risposto alle domande degli avvocati delle vittime. “Pareva calmo, nel pieno controllo della situazione” racconta uno dei legali, che gli hanno chiesto conto di almeno una ventina di casi.
Il più grave, quello di un sacerdote messicano, Nicholas Aguilar Rivera, che avrebbe abusato di decine di minori. Uno dei casi più disgustosi che traboccano dal corposo dossier sulla diocesi di Los Angeles. Una montagna di vergogne e reati, che a Mahony è costata la carica di arcivescovo. “Parliamo di vicende brutali e dolorose” riassunse il suo successore, Josè Gomez, che il 31 gennaio ha rimosso Mahony da tutti gli incarichi pubblici. Sugli abusi, il cardinale aveva già testimoniato altre volte. Ma sabato è stata la prima volta, dopo che la stessa arcidiocesi di Los Angeles ha pubblicato migliaia di files sui 122 sacerdoti coinvolti. Documenti che, per il Los Angeles Times, provano le gravi responsabilità di Mahony: come l’aver incoraggiato alcuni preti a rimanere fuori della California e degli Stati Uniti. Presto i giudici di Los Angeles dovrebbero riconvocarlo, per chiedergli altre, e possibili spiegazioni
NEI GIORNI scorsi, l’associazione americana Catholics United aveva lanciato una petizione per sbarrare la porta del Conclave al cardinale. Ieri, rappresentanti dell’associazione hanno portato 9emila delle firme raccolte nella parrocchia a North Hollywood dove Mahony risiede attualmente. L’ultimo tentativo per spingerlo a non prendere l’aereo per Roma. Ma l’ex arcivescovo partirà. E su Twitter promette già di “cinguettare” spesso dalla città eterna. A rincuorarlo, le parole dell’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan: “Mahony deve partecipare al Conclave: è un cardinale e per questo ne ha tutto il diritto”. Nel frattempo la stampa internazionale ha dedicato titoli in serie alla messe di scandali e ombre che si affollano Oltretevere. Dai “dossier segreti” alla presunta “lobby gay”, è un fiorire di articoli e analisi. Con un unico filo rosso: in Vaticano è caos. Da tempo.

La Stampa 25.2.13
O’Brien, un’altra ombra sul Conclave
L’arcivescovo di Edimburgo accusato di “comportamenti inappropriati” da quattro sacerdoti
Il porporato conservatore Keith O’Brien ha condannato l’omosessualità e ha definito i matrimoni gay «dannosi per il benessere fisico, mentale e spirituale»
di Gia. Gal.


Nel 2005 nessuno impedì a Bernard Law di votare malgrado avesse coperto preti pedofili a Boston. Stavolta invece il «sexgate» estende sempre più minacciosamente i suoi rami velenosi sull’imminente Conclave. E ormai il dossier è arrivato sulla scrivania di Benedetto XVI, che oggi incontra Herranz, De Giorgi e Tomko, i tre inquirenti di Vatileaks che riferiranno le conclusioni della loro inchiesta alle congregazioni generali. Lo statunitense Mahony, l’irlandese Brady, il belga Danneels (per aver insabbiato abusi) e lo scozzese O’Brien (per averli commessi): l’ingresso nella Cappella Sistina dei quattro elettori più discussi imbarazza la Santa Sede e provoca petizioni di fedeli, mobilitazione dei mass media e proteste planetarie delle associazioni di vittime del clero. Accuse pesanti come macigni per chi deve eleggere il successore di Ratzinger, il Papa della «purificazione». È una bomba con la miccia innescata lo scandalo multiplo dei conclavisti «indegni», ultimo in ordine di tempo ma gravemente coinvolto in prima persona il primate di Scozia che respinge le accuse. «Il Papa è informato sul problema, la questione è ora nelle sue mani», dichiara il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, riferendosi proprio alla scabrosa vicenda di Keith O’Brien accusato di comportamenti «inappropriati» da quattro sacerdoti e seminaristi per fatti avvenuti negli Anni Ottanta. O’Brien è uno strenuo conservatore soprattutto in materia di omosessualità, che ha condannato come immorale e contro i matrimoni gay definiti «dannosi per il benessere fisico, mentale e spirituale». Avere interessato il Pontefice della situazione è il segno di quanto sia delicata la situazione. Il porporato aveva già annunciato la sua partenza per Roma per partecipare al Conclave. Ieri ha preferito non celebrare la messa della domenica, come invece era previsto, nella cattedrale di St. Mary a Edimburgo. «Non possiamo non essere addolorati per gli avvenimenti delle ultime 24 ore», ha commentato il vescovo Stephen Robson che ha celebrato la funzione religiosa al suo posto. Su quale linea tenere nei confronti degli «impresentabili», le gerarchie ecclesiastiche si spaccano. «La prassi vuole che si ricorra alla persuasione ma non si può mettere in discussione il diritto-dovere di entrare in conclave, poi sta alla coscienza del singolo decidere se partecipare o meno», osserva il cardinale canonista Velasio De Paolis, commissario papale dei Legionari di Cristo e membro della Cassazione vaticana. «Se la presenza crea difficoltà o imbarazzi, potrebbe essere opportuno rinunciare, la decisione però sta solo alla persona e alla sua coscienza», concorda il vescovo Gianfranco Girotti, ex reggente della Penitenzieria apostolica, il tribunale supremo della Chiesa per quanto riguarda i casi di coscienza. Da un punto di vista giuridico, precisa Girotti, «non c’è nessun impedimento», poi da un punto di vista morale la questione cambia». Però la «linea dura» trova forti resistenze. Niente veti alla partecipazione al Conclave, protesta l’arcivescovo di Baltimora William Lori che mette in guardia da cedimenti alle pressioni della pubblica opinione: «La Chiesa ha le sue regole su chi ha diritto al voto. Non possiamo imboccare un’altra strada solo perché c’è chi fa obiezione». Frena la spinta «giustizialista» anche il cardinale vicario Angelo Comastri: «I processi non si fanno nelle piazze». E c’è chi fa presente che se si preme tanto su Mahony, allora lo si dovrebbe fare anche per altri elettori. Per il primate d’Irlanda Sean Brady che ammise ed espresse ai suoi fedeli «vergogna» per aver coperto gli abusi di suoi sacerdoti e a cui recentemente il Papa ha affiancato un coadiutore. L’ex primate del Belgio, Godfried Danneels, interrogato per ore dalla polizia e accusato da registrazioni di aver spinto vittime a non denunciare gli abusi. E i conclavisti come Dziwisz, Re, Sandri che hanno difeso il fondatore dei Legionari di Cristo Maciel, sanzionato da Ratzinger per i suoi plurimi abusi e per la sua doppia e tripla vita con figli da diverse donne?

Repubblica 25.2.13
Bufera su O’Brien, cardinale anti gay quattro preti lo accusano: ci ha molestati
Il prelato diserta la messa aEdimburgo. “Papa informato, questione nelle sue mani”
di Enrico Franceschini


LONDRA — Doveva dire messa ieri mattina nella cattedrale di St. Mary a Edimburgo, per celebrare gli otto anni di pontificato di papa Benedetto XVI. Ma al posto del cardinale Keith O’Brien, massima autorità della chiesa cattolica in Gran Bretagna, sul pulpito è apparso un vescovo ausiliario, Stephen Robson. «Non possiamo non dirci rattristati dalle notizie delle ultime ore», ha detto ai fedeli. Notizie esplose come una bomba tra i cattolici del Regno Unito: l’accusa di molestie sessuali da parte del cardinale nei confronti di quattro preti, consumate nell’arco di trent’anni. Rivelati in prima pagina dall’Observer di Londra, gli «atti inappropriati » attribuitigli sono rimbalzati immediatamente in Vaticano, dove il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha reso noto che il pontefice «è stato informato» e «la questione è nelle sue mani».
Ma non solo nelle sue. La Chiesa cattolica di Scozia ha aperto un’inchiesta. E non è escluso che le vittime degli abusi si rivolgano alla magistratura per ottenere giustizia. In più, come nel caso del cardinale americano Mahony, accusato di aver coperto abusi sessuali, c’è il problema della partecipazione di O’Brien al Conclave per eleggere il nuovo Papa. In teoria, dovrebbe essere l’unico rappresentante britannico a votare per il successore di Benedetto XVI. Ma le sue vittime si augurano che non ci vada. Temono che, se al cardinale sarà concesso di prendere parte al Conclave, il Vaticano non risponderà adeguatamente alle loro accuse. «La chiesa è bella ma ha un lato oscuro», dice uno dei quattro. «Tende a coprire e a proteggere il sistema a tutti i costi».
I quattro sono tre preti e un ex sacerdote, appartenenti alla diocesi scozzese di St. Andrews ed Edimburgo. Hanno inviato le loro accuse a Londra, al nunzio apostolico Antonio Mennini, l’ambasciatore del Vaticano in Gran Bretagna, chiedendo le dimissioni immediate del cardinale dal suo incarico. Pare che il nunzio li abbia lodati per il loro «coraggio». Fonti vicine a O’Brien indicano che il cardinale contesti le accuse e abbia consultato dei legali su come comportarsi. Per ora tace, almeno pubblicamente. Il mese prossimo doveva andare in pensione, avendo raggiunto i 75 anni. In questo paese è noto per le sue rigide posizioni contro l’omosessualità, bollata come una pratica «immorale», contro l’adozione da parte dei gay e contro il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Ma nel privato agiva diversamente da quanto predicava, secondo quanto affermano i quattro prelati.
Uno di loro, stando al dossier ottenuto dall’Observer, racconta che, quando era un seminarista ventenne e O’Brien era il suo direttore spirituale, fu vittima di approcci «inappropriati» durante le preghiere serali. Troppo spaventato per denunciare il fatto, il giovane è poi diventato prete, ma ha lasciato il sacerdozio non appena O’Brien fu nominato vescovo perché sapeva che «avrebbe avuto totale potere su di me». Dice ora: «La gente pensò che mi fossi spretato per sposarmi, ma lo feci per mantenere la mia integrità ». E ha poi dovuto ricevere per lungo tempo assistenza psicologica per riprendersi dal trauma. Gli altri tre, tuttora preti, riferiscono incidenti analoghi, nel corso di preghiere serali o addirittura dopo una bevuta di alcolici a tarda notte. «Bisogna capire cos’è la relazione tra un prete e un vescovo», testimonia uno, definito “prete C” nel dossier pervenuto al nunzio. «Quando vieni ordinato sacerdote, fai una promessa di obbedirgli. Il vescovo è più del tuo capo. Ha un immenso potere su di te. Può trasferirti, congelare la tua carriera, controlla ogni aspetto della tua vita. Non puoi reagire con un calcio nelle palle».
Nominato arcivescovo nel 1985, O’Brien ha preso posizioni durissime non solo contro i gay ma anche contro l’aborto e il secolarismo. Nel 2003 fu Giovanni Paolo II a nominarlo cardinale. E ha fatto parte del conclave che ha eletto Benedetto XVI. La settimana scorsa ha sorpreso molti dichiarando che ai preti dovrebbe essere concesso di sposarsi, affermando: «Mi rendo conto che molti di loro fanno fatica a fare i conti con il celibato». Forse parlava anche di se stesso? Nel 2012 l’associazione britannica per i diritti degli omosessuali Stonewall lo ha nominato “bigotto dell’anno”. La denuncia da parte dei quattro preti è arrivata al nunzio una settimana prima delle dimissioni annunciate da Benedetto XVI. Chissà se anche questo ha contribuito alla decisione del pontefice.

La Stampa 25.2.13
Il cardinale Dolan “Mahony deve esserci Ne ha tutto il diritto”
di Francesco Semprini


T. Dolan L’arcivescovo di New York, 63 anni, è uno dei punti di riferimento della Chiesa statunitense

«Sono un po’ dispiaciuto, mi faceva piacere vedervi qui ogni settimana, temo che tra poco questi banchi rimarranno vuoti». Non rinuncia alla consueta ironia il cardinale Timothy Dolan, salutando la ristretta pattuglia di giornalisti assiepati tra gli scranni della cattedrale di San Patrizio, nel cuore di Midtown Manhattan. Sono le dieci e un quarto del mattino, quando inizia la messa celebrata, come ogni domenica, dall’Arcivescovo di New York, l’ultima prima della sua trasferta in Vaticano, che inizierà martedì, per partecipare al Conclave. La folla è quella delle occasioni importanti, grande l’attesa per l’ultima omelia prima dell’elezione del nuovo Pontefice. «Dobbiamo pregare per Benedetto XVI ma anche per il prossimo Papa», dice ai fedeli in un discorso tutto improntato al calvario e alla trasfigurazione di Cristo. Il riferimento è anche alle vicende della Chiesa? «Si è sempre in un momento di calvario, specie tra il venerdì santo e la domenica di Pasqua», spiega Dolan al termine della funzione religiosa. Ma il linguaggio dottrinale viene messo da parte quando gli viene chiesto se sia opportuna la presenza al Conclave del collega Roger Mahony: «Certo che deve partecipare, come cardinale ha tutto il diritto di andare». Le parole del capo dell’arcidiocesi di New York giungono il giorno dopo la lunga testimonianza dell’ex arcivescovo di Los Angeles sul presunto coinvolgimento nello scandalo dei preti pedofili. Deposizione, tra l’altro, fatta dinanzi a un tribunale civile e non penale confermando, quindi, che nei suoi confronti non esiste nessun rinvio a giudizio. Mahony, in ogni caso, a Roma ci sarà, o forse è già arrivato, come riferisce in un messaggio su Twitter. Al rientro dal Conclave, tuttavia, sarà ascoltato di nuovo: perché la sua deposizione sembra non aver chiarito tutte le circostanze dell’accaduto. Anche il cardinale Dolan, uno dei porporati su cui la Chiesa nordamericana punta per la successione a Ratzinger, nei giorni scorsi ha testimoniato a New York sulla bancarotta della diocesi di Milwaukee in Wisconsin, a conferma del momento delicato che sta attraversando la Chiesa, ancor di più dopo le accuse piovute ieri sul capo del cardinale scozzese Keith O’Brien un altro dei porporati con diritto di voto nell’elezione del prossimo Papa. Dolan al riguardo è perentorio così come sulla decisione del Santo Padre: «Ci sono tante voci e illazioni, a me piace pensare che quello del Santo Padre è stato uno straordinario atto di umiltà». E sul peso dello scandalo Vatileaks avverte: «Le insinuazioni rimangono insinuazioni, nulla può cambiare o appannare l’immagine che la gente ha del Papa». In merito alla preparazione del Conclave il cardinale spiega la centralità della preghiera: «Stamane ho visto l’Angelus, l’ultimo di Benedetto XVI, da una parte ho provato tristezza dall’altra mi ha rafforzato la motivazione a pregare con lui, per lui e per tutta la Chiesa, affinché venga presa la giusta decisione, perché questa è la più grande responsabilità che i cardinali abbiano mai avuto». Una battuta, infine, sulla scorta di burro di noccioline che il cardinale avrebbe fatto per la missione Oltretevere: «Non vedo l’ora di uno spaghetto - dice parlando in italiano a due fedeli di sua conoscenza - magari al pesto».

La Stampa 25.2.13
“Anche i peccatori possono votare il Papa”
Il vescovo che ha indagato sui preti pedofili: “Sbagliato puntare l’indice”
di Giacomo Galeazzi


Charles Scicluna Vescovo maltese, negli ultimi dieci anni è stato pubblico ministero del tribunale della Dottrina della fede

E’ loro diritto e dovere partecipare al conclave. Dio saprà mettere sulla loro bocca parole che sgorgano da un cuore umiliato e trafitto». L’altamente significativo «disco verde» all’ingresso nella Cappella Sistina dei porporati «impresentabili» arriva dall’autorità ecclesiastica che più di ogni altra ha lavorato con Joseph Ratzinger alla «tolleranza zero» contro gli abusi del clero. «La sapienza non viene data solo ai santi ma anche ai peccatori», spiega il vescovo maltese Charles Scicluna, negli ultimi dieci anni pubblico ministero del tribunale della Dottrina della fede.
E’ giusto che anche i quattro cardinali travolti dagli scandali-abusi eleggano il Papa?
«Siamo tutti peccatori, Dio saprà volgere al bene anche la loro presenza in conclave. Dobbiamo guardarci dal puntare l’indice accusatore. Del resto anche il primo collegio degli apostoli non era tutto da canonizzare, abbiamo tesori in vasi d’argilla. E la fragilità umana diventa spettacolo per il mondo. Non si possono dare patenti. Chi è degno? Nella liturgia proclamiamo continuamente la nostra indegnità. Ogni giorno incontriamo nella Chiesa una santità alla quale vorremmo partecipare. È stata finalmente spezzata la cortina di silenzio che spesso copriva i casi di abusi. Per porre rimedio alla caduta morale del clero, il principio-guida è che solo la verità rende liberi gli uomini».
Perché questi porporati hanno taciuto di fronte ai preti pedofili?
«Per paura dello scandalo. Non hanno capito che la prospettiva andava ribaltata. Il vero scandalo è non denunciare gli abusi. La percezione è cambiata: il silenzio è diventato scandalo. E il merito è di Ratzinger. Quindi facciamoli entrare in conclave. Come recita il salmo 51. quello del Miserere: «Pietà di me, Dio, cancella il mio peccato, riconosco la mia colpa». Il diritto di partecipare rientra nel rispetto della loro coscienza, mentre il dovere di esserci è assunzione di responsabilità. Chi è senza peccato scagli la prima pietra».
Qual è il modello?
«La purificazione posta da Benedetto XVI al centro del suo pontificato. Si riallaccia a Gaetano da Thiene che spese la vita per moralizzare l’età dei Borgia e Alfonso Maria De’ Liguori che irradiava santità sul conclave. Purtroppo allora come oggi i punti dolenti sono il sesto e il settimo comandamento: non peccare contro la purezza e non rubare. Occorre ripartire dagli insegnamenti del Vangelo, lì c’è la risposta per rinnovare la vita religiosa. Abbiamo appena celebrato il 50° anniversario del Concilio: la base per il clero deve essere quello che ha detto papa Ratzinger ai sacerdoti romani. Nel campo della lotta agli abusi sessuali commessi da esponenti del clero lascia al successore un’eredità incancellabile che segnerà il futuro della Chiesa».
Ratzinger sarà un fattore in conclave?
«Chiunque sarà eletto la sua azione non potrà che essere un continuazione della “purificazione”. Benedetto XVI non è una cometa che passa e muore. Lo ha detto lui stesso al suo biografo Peter Seewald. E’ la fine e l’inizio di un’epoca. Ratzinger è un esempio di libertà fino alla scelta della rinuncia. Il successore sarà capace di dare tutto se stesso, di essere non solo una figura alla quale guardiamo come ad un esempio ma anche una guida che sa prendere il timone e orientare la Chiesa. Sugli abusi del clero d’ora in poi nessuno potrà dire di non sapere. La determinazione di Benedetto XVI contro la pedofilia nel clero non rimarrà solo come un memoria, un ricordo, una testimonianza. Ormai è parte fondamentale della risposta della Chiesa agli abusi. Sarà programma di governo per chiunque sarà eletto nella Sistina».
Cosa è cambiato?
«Ora ci sono tutti gli strumenti per intervenire e agire contro la pedofilia nel clero. Benedetto XVI ha dotato i vescovi di quanto occorre per impedire che si ripeta quanto accaduto in passato. Gli va riconosciuto il coraggio delle decisioni. La solitudine anche nelle dimissioni. È monaco per vocazione feconda. La sua parola è sempre limpida, teologicamente fondata, di straordinaria ispirazione per tutti. Nell’impegno contro gli abusi non si può più tornare: è legge universale della Chiesa, prassi irremovibile. Non lo scalfirà certo la presenza in conclave di alcuni elettori discussi».

Repubblica 25.2.13
Weigel, vaticanista americano e biografo di Wojtyla
“Non sparate sui vescovi Usa la pedofilia è una piaga globale ma loro almeno hanno reagito”
di Paolo Rodari


ROMA — Scrittore statunitense noto in tutto il mondo per la biografia di Giovanni Paolo II dal titolo “Testimone della speranza”, con prefazione di Peter Seewald, George Weigel è in queste ore a Roma. In Vaticano, dove ha diversi attenti interlocutori, gira con la sua ultima fatica: “Evangelical Catholicism: Deep Reform in the 21st-Century Church”, il cui ultimo capitolo è intitolato “Reform of the papacy”.
Negli Stati Uniti si parla molto del Conclave, dei cardinali che vi partecipano e del fatto che nelle diocesi da cui provengono si sono verificati casi di pedofilia del clero. Ritiene che questi problemi blocchino sul nascere la possibilità di un Papa nord americano?
«La verità di cui nessuno parla è che i cardinali e vescovi statunitensi hanno fatto più di tutti gli altri contro il problema della pedofilia nel clero. Hanno messo in campo riforme strutturali per fare sì che questo fenomeno non si ripeta più, mentre così non hanno fatto altri gruppi di vescovi. Certo, molto ancora deve essere fatto. Ma il problema non è americano bensì mondiale. Serve una riforma nella Chiesa cattolica che parta anzitutto dal fatto che i preti pedofili devono essere esclusi».
Il Vaticano sembra attraversato da scandali e ricatti. Anche ai tempi di Giovani Paolo II era così?
«Difficile fare paragoni col passato. Di certo oggi la curia romana necessita di una riforma che deve iniziare da un cambiamento di mentalità. Perché esiste il Vaticano? Perché esiste questa benedetta Curia romana? Per aiutare il ministero del Papa quale pastore universale della Chiesa, non per altro. Se il ministero petrino è anzitutto evangelico e missionario, allora i membri della cosiddetta Curia romana devono concepire se stessi come servitori, non come dei manager della corte papale. Roma non ha bisogno di manager. Purtroppo alcuni curialisti concepiscono se stessi in questo modo, ma questo stato di cose va cambiato alla radice altrimenti è la fine della Chiesa cattolica».
Quale è stato il principale problema del pontificato di Ratzinger?
«I problemi che il pontificato ha avuto sono stati causati soltanto da una cosa: dal fatto che coloro che sono stati chiamati a servire il Papa troppo spesso l’hanno servito male».
Cosa pensa delle dimissioni di Ratzinger? Perché si è dimesso?
«Credo che si sia dimesso principalmente perché non crede, in coscienza, di poter dare alla Chiesa il servizio di cui ci sarebbe bisogno. Non credo ad altre teorie come i complotti ».

l’Unità 25.2.13
Spagna, arresti e feriti dopo la protesta contro i tagli
di Valerio Raspelli


Nell’anniversario del mancato golpe del 1981 la Spagna è scesa in piazza contro l’austerità imposta dal governo Rajoy e gli scandali che stanno squassando il Parito Popolare e la famiglia reale. Questa volta la «marea ciudadana», il nome scelto dai diversi gruppi che hanno organizzato la manifestazione, ha chiamato in piazza gli spagnoli contro il golpe finanziario che sta mettendo in ginocchio il Paese.
Il giorno dopo la grande manifestazione di Madrid si fanno i conti. Quarantacinque persone sono state arrestate e 40 sono rimaste lievemente ferite, fra cui 12 poliziotti, negli scontri scoppiati ieri durante la manifestazione a Madrid contro la politica di austerità. Il governo aveva schierato duemila poliziotti anitisommossa. La manifestazione è stata pacifica, ma quando a tarda sera la polizia è intervenuta per allontanare i manifestanti, alcuni cassonetti sono stati incendiati nelle zone di Atocha, della fonte del Neptuno e di Tirso de Molina, intorno alla stazione un ristorante è stato preso d’assalto e alcune persone hanno improvvisato una barricata lungo una via con i tavoli del locale.
Nel pomeriggio cortei colorati avevano invaso 80 città, tra cui Valencia e Barcellona. A Madrid i quattro cortei hanno marciato verso il parlamento chiedendo meno tasse e più spesa pubblica. I cartelli che andavano per la maggiore erano un «No» con le forbici dentro allo «O» e i cartelli gialli con l’acronimo del partito di Rajoy (Pp) che diventava Partito Peligroso (pericoloso). Ogni categoria sociale interessata dai tagli decidi dal governo, 150 miliardi di euro in tre anni, in un Paese in cui la disoccupazione è al 26% e oltre il 50 tra i giovani, ha indossato un colore diverso: gli insegnanti marciavano in verde, i medici e gli infermieri in bianco, i movimenti femministi in viola, gli indignados e i minatori in nero.
LO SCANDALO NOOS E LA CORONA
Il riferimento al giorno del golpe Tejero bloccato da Re Juan Carlos nel 1981 è voluto. Ora la famiglia reale è coinvolta in uno scandalo che si allarga sempre più. Il genero del re di Spagna e marito dell’Infanta Cristina, l’ex campione di pallamano Inaki Urdangarin, è comparso dinanzi a un giudice sull’isola di Mallorca per rispondere delle accuse di frode fiscale in un’inchiesta che coinvolge la fondazione da lui presieduta, accusata di appropriazione indebita per 6 milioni di euro. Urdangarin però ha cercato di scagionare la famiglia reale. Ha affermato che la Casa Reale «non autorizzò nè avvallò» in alcun modo le sue attività nell’Instituto Noos e che la moglie, l’Infanta Cristina, non ha nulla a che vedere con i suoi affari. Il Duca di Palma ha negato anche che ci fu una riunione al Palacio de la Zarzuela (la residenza dei re di Spagna) per preparare il vertice Valencia Summit 2004 (uno degli eventi organizzati da Noos e in cui la fondazione si sarebbe appropriata di milioni di euro pubblici); ha negato che possegga conti in paradisi fiscali o che utilizzi dei prestanome. L’inchiesta, seguita con grande attenzione in Spagna, ha eroso la popolarità della famiglia reale, un tempo inattaccabile.

Repubblica 25.2.13
Bulgaria, la rivolta dei più poveri d’Europa
Centinaia di migliaia in piazza contro il governo: “Diritto a una vita decente”
di Andrea Tarquini


BERLINO — Decine, forse centinaia di migliaia di persone in piazza, cortei e comizi in quaranta città. Ovunque slogan contro i partiti, copie della Costituzione bruciate in strada. E pochi slogan, ma efficaci: «Basta con i monopoli», «Fuori i partiti, basta con la mafia del potere», «Basta con miseria e corruzione», «Diritto a una vita decente». Dimenticata dall’Europa da decenni, la Bulgaria, uno dei più giovani e il più povero tra i membri dell’Unione europea, arriva improvvisamente alla ribalta. Con la rivolta sociale contro il carovita e lo strapotere degli oligarchi d’ogni colore — successori degli apparatcik di ieri più filosovietici di Mosca — oggi padroni del postcomunismo. Il governo del conservatore Bojko Borissov è già caduto, la crisi politica è aperta. L’esito delle elezioni anticipate — previste ad aprile o maggio — è più incerto che mai, e una nuova tempesta minaccia i Balcani e il sudest europeo già carichi di tensione, dall’ex Jugoslavia divisa alla Grecia stritolata dal rigore.
La chiamano «la rivolta delle bollette della luce». Perché la scintilla dell’ondata di protesta è stato il brutale rincaro dell’elettricità. «I monopoli ci strangolano, basta con il sopruso e la rapina», gridano i manifestanti in ogni città: dalla capitale Sofia a Plovdiv, secondo centro del paese, da Sliven a Varna. I monopoli sotto tiro sono i gruppi CEZ e Energo- Pro, cèchi, e l’austriaco Evn: hanno il monopolio della distribuzione di elettricità in gran parte del territorio. «L’ultima bolletta che abbiamo ricevuto », ha spiegato ieri la cinquantenne Mariana Rashkova, disoccupata, alla collega Vessela Sergieva della Afp, «ammontava a 400 leva (un leva vale 50 cents di euro, ndr), io sono a spasso e mio marito guadagna appena 700 leva al mese, e abbiamo mia mamma handicappata a carico». E quando il capo dello Stato, Rossen Plevneliev, si è affacciato dal palazzo tentando di calmare la gente, lo ha accolto una bordata oceanica di fischi.
Basta coi partiti, è il motto ovunque. Solo gruppi sociali di base e associazioni civiche guidano la protesta. Ovunque, le città sono state paralizzate dalla rivolta, che era cominciata qualche giorno fa nella capitale con violenti scontri, e un dimostrante morto, ucciso dalle cariche della polizia. Borissov, al potere dal 2009, aveva voluto una cura da cavallo di sacrifici per il risanamento, tagli all’esiguo welfare, liberalizzazione: ha obbedito ai soliti dettami di rigore dell’Unione europea e delle sue potenze-guida. Travolto e sorpreso dalla rivolta di piazza, ha gettato la spugna. Tentando abilmente di strizzare l’occhio ai dimostranti col pensiero alle elezioni: «Basta, non voglio guidare un governo che affama la gente e le manda contro la polizia».
È dubbio che il suo gattopardismo basterà a salvarlo. E non basta più ai bulgari il successo teorico del rigore: debito pubblico al 19,5 per cento del pil, disavanzo all’1,5 per cento, ma a costi sociali spaventosi. E sullo sfondo di una corruzione con pochi uguali. «Lavoravo all’amministrazione tributaria », dice alla Afp Nikolina Koleva, «mi hanno licenziata perché avevo tentato accertamenti sulle aziende in mano agli oligarchi». Riciclaggio del denaro, investimenti di comodo, povertà e disastri ambientali: le accuse della piazza sono molte. Quasi una generazione dopo la fine del comunismo — caduto qui con un colpo di palazzo gorbacioviano, poi col passaggio trasformista degli oligarchi al sistema occidentale visto a modo loro — non basteranno né le svolte di Borissov, né i dettami di rigore di Bruxelles o Francoforte, a far tornare pace in Bulgaria.

La Stampa 25.2.13
Tensione altissima mentre altri prigionieri sono in condizioni gravi per uno sciopero della fame
Muore detenuto, rivolta in Palestina
Era in carcere in Israele. Il padre: non è stato un malore, l’hanno seviziato
di Aldo Baquis


Arafat Jaradat, 35 anni era stato arrestato dopo un attacco contro veicoli israeliani Barricate e lanci di pietre e molotov nei Territori Netanyahu allarmato sblocca fondi per l’Anp

Israele e Anp sono venuti a trovarsi ieri nuovamente in rotta di collisione in seguito alla morte di un palestinese, Arafat Jaradat, 35 anni, in una cella di custodia dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interni, nella prigione di Megiddo (Galilea).
Anche dopo un’autopsia condotta assieme da esperti israeliani e palestinesi, l’atmosfera è rimasta surriscaldata. «Sulla salma non c’erano segni di violenza, a parte due costole rotte forse per gli sforzi di rianimazione», ha detto il ministero israeliano della sanità. «Il martire Jaradat - ha replicato il ministro palestinese per i prigionieri Issa Qaraqe - è stato seviziato a morte».
Tutto attorno, la protesta sta rapidamente montando. Migliaia di palestinesi reclusi in Israele hanno rifiutato il cibo. Quattro di loro, impegnati da mesi in scioperi della fame a oltranza, sono in condizioni di salute gravissime e rischiano la morte. La Cisgiordania è in fermento. Barricate, scontri con l’esercito, lanci di bottiglie molotov sono segnalati in molte zone.
Jaradat era, al massimo, un «soldato semplice» della protesta palestinese. A novembre, durante i combattimenti fra Israele e Hamas a Gaza, aveva forse lanciato pietre contro veicoli israeliani in transito in Cisgiordania. Il 18 febbraio è stato arrestato nella sua abitazione presso Hebron. La moglie, Dalal Ayayda, ha detto che è stato brutalizzato, che urlava di dolore. Tre giorni dopo il suo avvocato, Kamil Sabagh, lo ha visto ripiegato su stesso su una panca di una corte militare. La schiena gli doleva, ha spiegato, per essere stato obbligato dallo Shin Bet a restare a lungo con le mani ammanettate dietro la schiena.
Sabagh ha chiesto al giudice militare che Jaradat fosse sottoposto a visite mediche e psichiatriche. Troppo tardi. Il 23 febbraio Jaradat è morto a Megiddo, in quello che il servizio carcerario ha qualificato come «un apparente infarto». Nell’autopsia la causa immediata della morte non è stata stabilita. Ma il padre ha riferito di aver visto che il corpo del figlio appariva martoriato, come «se fosse stato colpito dalla testa ai piedi».
Le tecniche di interrogatorio dello Shin Bet - che secondo l’Anp hanno appunto causato la morte di Jaradat - sono il tema di un film-documentario israeliano («The Gatekeepers») candidato all’Oscar. Un ex capo dello Shin Bet orientato a sinistra, Amy Ayalon, ha commentato ieri che proprio i disordini in Cisgiordania possono fornire a Israele e Anp l’occasione di rilanciare trattative di pace. Un altro ex capo dello Shin Bet orientato a destra, Avi Dichter, ha invece accusato AL Fatah di aver ispirato le violente.
Il premier Benjamin Netanyahu ha intanto sollecitato ieri i dirigenti di Ramallah a riprendere subito le redini della situazione. E ha autorizzato, per allentare la tensione, il trasferimento all’Anp di 100 milioni di dollari di dazi doganali spettanti ai palestinesi e trattenuti da Israele come ritorsione contro atti di violenza. Ma adesso il rischio - titolano con trasporto i tabloid israeliani - è che si scivoli verso una terza intifada.

Repubblica 25.2.13
Muore un detenuto palestinese, rischio Intifada
L’accusa: “Torturato dagli israeliani”. E nei Territori esplodono gli scontri con l’esercito
di Fabio Scuto


GERUSALEMME — La morte di un detenuto palestinese deceduto in circostanze che restano oscure anche dopo l’autopsia, sta infiammando i Territori occupati, incidenti e scontri si moltiplicano nei principali centri della Cisgiordania con l’esercito israeliano chiamato a fronteggiare quella che nei titoli dei giornali è già “una terza intifada”. Gruppi di dimostranti hanno ingaggiato ieri battaglia con l'esercito a Hebron, Betlemme e Ramallah; decine di persone sono rimaste intossicate dai gas o ferite da proiettili di gomma. E ieri migliaia di detenuti palestinesi hanno osservato uno sciopero della fame, è il terzo in dieci giorni, contro le detenzioni amministrative – cioè senza un accusa specifica né un processo - e le condizioni di vita nelle carceri. Quattro prigionieri palestinesi, poi, da mesi rifiutano il cibo e le loro condizioni sono disperate, la morte di uno di loro potrebbe accendere ancora di più le tensioni. Il premier Benjamin Netanyahu, preoccupato del divenire degli eventi, ha avvertito l’Anp che suo dovere arginare gli incidenti ma sarà difficile anche per la polizia di Abu Mazen fronteggiare tanta rabbia.
Il caso del detenuto Arafat Jaradat è stata la miccia che ha dato il via a questa nuova
ondata di violenze. Jaradat, un benzinaio di 35 anni, sposato con due figli era stato arrestato il 18 febbraio dalla sicurezza interna israeliana – lo Shin Bet – con l’accusa di aver lanciato pietre contro una pattuglia dell’esercito. Per questo era stato rinchiuso nel carcere speciale di Megiddo, dove secondo le autorità israeliane sarebbe morto per un attacco cardiaco. Ma all’autopsia – eseguita dai due luminari forensi israeliani – era presente anche il dottor Saber Aloul, capo del dipartimento di patologia clinica dell’Anp. I pareri divergono completamente: per i medici israeliani è morto di infarto mentre per il medico palestinese sono evidenti i segni delle torture subite. Il 21 febbraio Jaradat aveva incontrato il suo avvocato, Kamil Sabagh: «La schiena gli faceva male e si è lamentato di essere stato costretto dallo Shin Bet a restare per ore in una posizione dolorosa». Sabagh aveva chiesto al giudice militare che Jaradat fosse sottoposto a visite mediche e psichiatriche. Ma non c'è stato tempo. Il 23 febbraio è morto “di infarto”.
L'esercito israeliano in Cisgiordania è da ieri nella massima allerta nel timore che la protesta possa dilagare. Oggi altri momenti di tensione si avranno quando vicino Hebron avranno luogo i funerali di Jaradat.

l’Unità 25.2.13
Albert Camus l’europeista
Il documento dello scrittore sul futuro del Continente
Nel 1955 l’intellettuale francese intervenne ad Atene sulle speranze del «puzzle» politico e geografico
Tesi profetiche e attualissime
di Anna Tito


IL FUTURO DELLA CIVILTÀ EUROPEA È UN TEMA DI STRAORDINARIA ATTUALITÀ, E SEMBRA CHE SOLTANTO SI PONGANO DETERMINATI INTERROGATIVI, MA NON È COSÌ: il 28 aprile del 1955, a dieci anni dalla fine del secondo conflitto mondiale l’Unione culturale greco-francese organizzò ad Atene un incontro proprio su Il futuro della civiltà europea, e quel confronto intellettuale ebbe una risonanza particolare perché invitato a parlare di Europa fra antiche ferite e nuove speranze era lo scrittore francese, nonché filosofo, uomo di teatro, giornalista, militante politico Albert Camus (1913 – 1960), autore di Lo straniero che due anni dopo gli valse il Premio Nobel, e di altri capolavori quali La Peste e Il mito di Sisifo.
L’editore Castelvecchi propone ora il testo della conferenza (Albert Camus, Il futuro della civiltà europea, pagine 54, euro 7,00), tradotto e curato da Alessandro Bresolin, saggista e specialista di Camus. Il volume ci permette di apprezzare l’approccio di un intellettuale in grado di affrontare, come nessun altro, i nodi cruciali del suo tempo e che, attingendo al proprio patrimonio culturale di «uomo europeo», parla a un’Europa che ancora stenta a risollevarsi dalla distruzione bellica.
Questa civiltà – a suo avviso – si fonda in primo luogo sul pluralismo, in quanto essa «è il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi».
Lo scrittore ci appare interessato al presente, inteso come «qualcosa che va al di là del giorno o dell’anno in cui siamo», alla sopravvivenza della civiltà europea, prima ancora che al suo futuro. Constata infatti, dopo due guerre mondiali, «la strana sconfitta morale di questa civiltà», e ritiene che si debba comprendere da dove proviene questa sconfitta, curare le ferite ancora aperte, prima di guardare oltre.
Fin dai tempi della guerra e della Resistenza cui aveva preso parte attiva, Camus concepiva l’Europa come un’unità geografica e culturale. Persisteva pertanto nel dichiararsi contrario alla divisione del continente in aree di influenza, pur consapevole del fatto che la storia stava andando in direzione opposta.
Da autentico socialista libertario, nutriva un’immensa fiducia nel federalismo europeo e mondiale, convinto che, per giungere alla pace, l’Europa dovesse da subito unirsi in un forte modello federale e non in una «tiepida» confederazione di Stati che avrebbe lasciato inalterato quell’anacronismo rappresentato dalle sovranità nazionali, specie in un contesto mondiale segnato dall’internazionalizzazione dell’economia.
Per sopravvivere, una società deve rispettare l’individuo, e di conseguenza difendere il pluralismo, elemento essenziale di un’unità rispettosa delle diversità. L’unificazione europea, per lui, andava pertanto subito realizzata, e constatava che nel decennio seguito alla Liberazione nel 1945, gli Stati non avevano fatto «altro che ristrutturarsi e organizzarsi, accordandosi solo per una blanda unione economica». Forse anche per questo motivo, dopo gli entusiasmi federalisti del 1944 – 1948, Camus si allontanò in seguito dalla politica europea, evitando qualsiasi commento sulla notizia della firma del Trattato di Roma nel 1957.
Da allora si sono compiuti molti passi in avanti, ma di fatto l’Europa è rimasta quella confederazione di Stati sovrani in cui ciascuno porta vanti «la propria politica e il proprio sterile patriottismo». In quest’ottica le parole di Camus appaiono di una stupefacente attualità: «L’Europa è costretta in una ventina di lacci in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare».

La Stampa 25.2.13
Nefertiti, la regina non è più un mistero
Svelata la sua fine: fece da reggente per Tutankhamon
di Marco Zatterin


La bella è arrivata È questo il significato del nome Nefertiti, confermato anche dal busto esposto a Berlino (qui a destra), che alcuni considerano un falso, realizzato nel 1912 con pigmenti ritrovati nella tomba

Nessun complotto o morte prematura. Nefertiti, moglie del rivoluzionario faraone Akhenaton, donna misteriosa e per quanto ne sappiamo bellissima, fu con ogni probabilità reggente del trono egizio se non regina a pieno titolo.
Successe intorno al 1330 avanti Cristo, mentre sulla terra del Nilo governava la XVIII dinastia. Le fonti sono incerte, ma fra il grande re che introdusse il popolo al culto monoteista del globo solare (Aton) e l’altrettanto celebre Tutankhamon, sul trono di Tebe ci furono uno o due sovrani. Un gruppo di archeologi belgi è giunto alla conclusione che la figura di collegamento sia stata Nefertiti. Ovvero, come recita il nome, «La bella è arrivata».
Harco Williams, 56enne professore di Egittologia alla Cattolica di Lovanio, è sicuro di avere le prove. Durante una sessione di scavi in Egitto, una sua ricercatrice - Athena Van der Pierre - ha trovato una preziosa iscrizione in una cava di arenaria a nord di Amarna, la capitale di Akhenaton, che parla di Nefertiti ancora quale prima moglie del faraone nel penultimo anno di regno.
La terza riga dell’iscrizione cita la «grande sposa reale, sua amata, signora delle due terre, Neferneferuaten Nefertiti» e precisa una data che colloca l’iscrizione al sedicesimo anno (terzo mese di Akhet, giorno 15, dunque settembre) dell’era di Akhenaton. Non una cosa di poco conto. Perché, sinora, la più avanzata citazione della regina risaliva al dodicesimo anno.
Proprio questa circostanza ha in passato alimentato le speculazioni sul destino della donna. Gli archeologi hanno scritto che a un certo punto Akhenaton scelse un co-reggente, più o meno nel momento in cui di Nefertiti si perdeva ogni traccia. Era morta? Le era stata preferita un’altra delle moglie dell’harem? Entrambe le soluzioni sono sempre state considerate poco probabili, anche perché la coppia di Amarna ha una fisionomia del tutto speciale tanto nella storia quanto nell’arte egizia.
Akhenaton, re difforme per malattia o gusto estetico, amava farsi ritrarre con moglie e figli. Ha fatto di tutto per tramandare il senso dell’amore per la sua regina e per la sua prole. L’archeologo John Harris, negli Anni Settanta, ha teorizzato che che Nefertiti non solo non era morta, ma aveva cambiato nome e rinunciato al ruolo di sposa reale a fianco del marito. Si sarebbe chiamata Neferneferuaten e quindi Smenkhkare, poi avrebbe lasciato il trono a Tutankhamon, figlio di Akhenaton e di una moglie secondaria, morto giovanissimo, di cui non sapremmo molto se l’inglese Carter non avesse trovato la sua magnifica tomba nel 1922. Ricca al punto da far ritenere che fosse stata allestita con i tesori destinati a un re.
«Ci sono chiare indicazioni che Nefertiti cambiò nome - assicura Willems -. Adesso sappiamo che rimase la moglie del faraone e che fu elevata al grado reale dopo il sedicesimo anno di regno del consorte». L’archeologo di Lovanio pensa che questi sveli il mistero dei due fantomatici successori di Akhenaton. Il cartiglio di Neferneferuaten, tra l’altro, si traduce come «efficace per suo marito». Le nuove informazioni, aggiunge Willems, indicano che Nefertiti regnò per un numero di anni sino a Tutankhamon (da sola, come la grande Hatshepsut, ndr) o ne sia stata una sorte di regina madre». La sua conclusione è ora «che si deve riscrivere la storia della XVIII dinastia». Almeno sino alla prossima scoperta.

Repubblica 25.2.13
La fabbrica del genio
Cina-Usa. La corsa al cervello perfetto
È l’ultima sfida tra super potenze. Usa e Cina alla conquista del cervello umano. Costruito in laboratorio. Con qualche rischio
di Federico Rampini


NEW YORK È l’equivalente della gara nello spazio che appassionò il mondo negli anni Sessanta e Settanta. Allora Stati Uniti e Unione sovietica si contendevano il primato nelle esplorazioni astronautiche. Le due superpotenze di oggi, America e Cina, si sfidano per la conquista di uno spazio molto più vicino: il cervello umano. Uno dei frutti di questa competizione potrebbe essere una Fabbrica dei Geni. La costruzione in laboratorio di super- cervelli: non computer, esseri umani. Il sogno del Superuomo è a portata di mano, con tutte le angosce e le controversie etiche che questo può sollevare. Non è un caso che nella stessa settimana siano uscite qui in America due notizie. Da una parte, Barack Obama ha annunciato “ The Brain Activity Map”, piano decennale per la mappatura del cervello umano. È un progetto che ricalca da vicino la ricostruzione del genoma umano, ma applicato alla nostra materia grigia. Ed è il più ambizioso piano federale per la ricerca scientifica che venga lanciato da molti decenni a questa parte. Incorpora altri sforzi già avviati da tempo, come lo Human Connectome Project (Harvard e Washington University) che studia le “autostrade neuronali” e tutte le connessioni a livello cellulare che sono l’architettura portante dell’attività cerebrale. In contemporanea, il Wall Street Journal ha svelato il progetto cinese per scoprire «la chiave genetica dell’intelligenza», andando a esplorarne il centro di ricerca di avanguardia. È un laboratorio pubblico-privato con sedi a Hong Kong e Shenzhen.
Lo dirige un enfant prodige della biogenetica, il ventenne Zhao Bowen, che è già stato definito «il Bill Gates cinese». L’organizzazione più direttamente coinvolta è la Bgi, azienda privata ma che tra i suoi azionisti ha diversi enti di Stato compreso il governo del Guangdong (la più ricca provincia della Repubblica Popolare). In un solo laboratorio di Hong Kong, descritto nell’inchiesta del Wall Street Journal, un centinaio di super-computer con software specializzati per ricostruire la sequenza dei geni, sono al lavoro su 2.200 campioni di Dna. Tutti prelevati da individui con un’intelligenza fuori del comune. Dal mondo intero. Il criterio di selezione per quei campioni di Dna è semplice: i “donatori” devono avere un “QI” (quoziente d’intelligenza) superiore a 160. Per capire quanto l’asticella sia stata messa in alto dai ricercatori cinesi, basta ricordare che il quoziente d’intelligenza medio è fissato a quota 100 per la popolazione mondiale. La media dei premi Nobel è a quota 145. Un QI a 160 si riscontra solo su un individuo ogni 30mila abitanti del pianeta.
La finalità del progetto cinese è chiara: scoprire i fattori genetici che spiegano queste intelligenze al di fuori del comune. E naturalmente non si tratta di una curiosità fine a se stessa. Una volta individuato «il Dna del genio», si apre la sfida successiva: come sfruttarlo, identificarlo prima della nascita, eventualmente replicarlo in provetta? Ecco la Fabbrica dei Geni. Naturalmente non mancano le obiezioni. Una volta messo a punto il “kit” per la diagnosi precoce delle intelligenze superiori, andremo verso una società sempre più gerarchica e ineguale, con percorsi di carriera riservati fin dalla nascita ai cervelloni? Chi può impedire che di queste informazioni s’impadroniscano le aziende a fini di reclutamento, selezione del personale? Prima ancora di arrivare sul mercato del lavoro, sarà il sistema scolastico e universitario a rimodellarsi secondo “classi differenziate”, velocità di apprendimento pre-determinate in base alla genetica?
Non è un caso che la Fabbrica dei Geni stia vedendo la luce in Cina: una società che ha portato fino alle estreme conseguenze la visione darwiniana applicata all’economia, la competizione sfrenata per il successo economico, la meritocrazia esasperata nelle università. La selezione della specie nel capitalismo cinese si sposa con un’antica cultura delle gerarchie etniche, il razzismo verso le minoranze. Ma la Fabbrica dei Geni della Bgi, a cavallo tra Hong Kong e Shenzhen, non è un progetto esclusivamente cinese, tutt’altro. Attira attenzione e risorse anche dalla superpotenza rivale. Agli americani fa comodo poter delocalizzare delle ricerche genetiche ad alto tasso di controversia, in un paese come la Cina dove ci sono meno controlli, meno remore etiche, zero resistenze religiose (è già accaduto qualcosa di simile per la ricerca sulle staminali). Così la Fabbrica dei Geni si avvale della collaborazione di uno scienziato fisico cino-americano, Stephen Hsu che si è formato alla University of Oregon e ora dirige tutte le attività di ricerca alla Michigan State University. Un altro scienziato occidentale coinvolto in quel progetto è Robert Plomin, studioso di “genetica del comportamento umano” al King’s College di Londra.
Grazie a loro, i campioni di Dna usati nel laboratorio di Hong Kong non sono soltanto cinesi. I migliori quozienti d’intelligenza dell’Occidente sono ben rappresentati nella campionatura genetica. Per la parte cinese, Zhao Bowen ha attinto soprattutto ai giovani che partecipano annualmente alle “Olimpiadi di matematica” organizzate nel suo paese. Il Professor Plomin del King’s College ha raccolto campioni di Dna negli Stati Uniti attraverso un progetto chiamato “Study of Mathematically Precocious Youth” che da quarant’anni va a caccia dei piccoli geni della matematica fin dalla più tenera infanzia. Il professor Hsu a sua volta ha lanciato appelli per reclutare donatori volontari in varie istituzioni: tra i dipendenti di Google, al California Institute of Technology, all’Accademia delle Scienze di Taiwan. È importante che il materiale genetico raccolto sia molto vasto. Gli scienziati coinvolti in questa ricerca pensano che si debba partire almeno da diecimila individui per ottenere risultati affidabili.
Di fronte alla Fabbrica dei Geni cinesi, com’è stata svelata al pubblico dal Wall Street Journal, un’obiezione forte è stata espressa dallo scienziato Jeremy Gruber a nome del Council for Responsible Genetics di Cambrdige, associazione che “vigila” sull’etica della ricerca. Secondo Gruber «il mondo della genetica è tuttora dominato da tendenze di pensiero deterministiche», c’è quindi il rischio che la ricerca sull’intelligenza si traduca in forme di discriminazione. I fautori della Fabbrica dei Geni non la pensano così, e sottolineano l’aspetto opposto: per esempio la possibilità di individuare precocemente attraverso i test genetici quei bambini che hanno difficoltà di apprendimento, per dedicargli attenzioni e metodi pedagogici adeguati.
Un’obiezione più fondamentale riguarda la misurazione del genio: i test sul quoziente d’intelligenza sono stati più volte contestati, la loro validità universale incontra molti detrattori. Forme di genio artistico e letterario rischiano di sfuggire a una misurazione che sembra dominata dalla dimensione scientifico- matematica. Il piano di Obama da questo punto di vista è più rassicurante. La mappatura del cervello umano annunciata dalla Casa Bianca, si prefigge in partenza degli importanti obiettivi medici. La cura del Parkinson e dell’Alzheimer, figura tra le priorità individuate dal presidente. Con una longevità media che continua ad allungarsi, “far durare” un cervello sano diventa un problema di massa, che ha ricadute sociali ed economiche di grande importanza. Prevenire le malattie cerebrali più distruttive, o allevare eserciti di intelligenze superiori? La sfida per la conquista della materia grigia è appena cominciata.

Repubblica 25.2.13
Gaetano Morelli, numero uno italiano per quoziente intellettivo (e tra i primi 30 al mondo)
“La superiorità dell’ingegno? Ti aiuta ad ascoltare gli altri”
di Elena Dusi


Gaetano Morelli ha 39 anni, vive a Caserta, è laureato in Ingegneria civile e lavora per un’azienda informatica. A giudicare dalla misurazione del suo quoziente intellettivo (169), è fra i trenta uomini più dotati del mondo. E il numero uno in Italia. Non dimentica mai dove ha parcheggiato la macchina, ha scritto un libro divulgativo sulla teoria della relatività, crede in Dio e ritiene che «uno dei segni dell’intelligenza sia il saper ascoltare, rispettando le opinioni altrui». Nella sua ditta si occupa soprattutto di formazione: «Penso di saper spiegare in modo semplice concetti complessi». Ma nella vita quotidiana parla «per il 99% del tempo di calcio, pesca e famiglia».
Secondo lei quanto conta l’ereditarietà dei genitori?
«Penso sia preponderante. L’ambiente stimolante è essenziale per l’intelligenza dei bambini. Ma anche se non saprei dare una percentuale precisa, secondo me la genetica conta di più».
La sua famiglia per esempio?
«Mio padre è un ingegnere elettronico, fece un test per il QI molti anni fa. Non ricordo il valore preciso, ma arrivò nel primo 2% fra i laureati con il massimo dei voti. Suo fratello, un medico, è pure molto in gamba. E così mio nonno. I miei figli hanno 6 e 3 anni e sono ancora piccoli per essere valutati. Vorrei che crescessero prima di tutto in un clima di modestia e umiltà».
Pensa che uomini e donne siano diversi?
«A livello medio no. Potrebbe non essere significativo, ma nei range elevatissimi gli uomini sono la maggioranza»
Come definirebbe l’intelligenza?
«Di certo è un dono da mettere a frutto, non qualcosa di cui vantarsi. E poi ci sono tante intelligenze: quella che ti permette di risolvere problemi di logica, di metterti nei panni degli altri, di afferrare la relazione spaziale fra gli oggetti, di intuire rapidamente il senso delle parole. È un concetto che va molto al di là dei test per misurare il quoziente, ma negli esami migliori le domande sono strutturate in modo molto articolato proprio per cercare di cogliere i vari aspetti dell’intelligenza».
Quali sono le situazioni in cui si sente più avvantaggiato?
«In tutte le circostanze, anche le più banali, usare l’intelligenza aiuta. Se si presta attenzione a come disporre gli oggetti in casa, per esempio, si eviterà di perdere tempo a cercarli. Lo stesso vale per i file nel computer. Nel fare i calcoli a mente l’intelligenza aiuta, ma il legame non è così scontato: molte persone con un QI alto sono in realtà lente. Frequento spesso altri individui molto intelligenti, soprattutto via internet. Facciamo discorsi di fisica, filosofia, letteratura. Mi piace ascoltare le loro idee».
A suo parere il web ci rende più intelligenti?
«Avere così tante informazioni è davvero straordinario: internet rappresenta un balzo in avanti per l’umanità. Però in Rete bisogna usare spirito critico. Quando leggevamo una voce dell’enciclopedia di carta eravamo sicuri che fosse corretta. Sul web non sempre è così».
A proposito di stimoli per sviluppare l’intelligenza, a cosa giocava da bambino?
«Mio padre mi ha insegnato gli scacchi e il bridge quando avevo 4-5 anni. Sfidava noi bambini a risolvere problemi di aritmetica, e io gli chiedevo che ne inventasse di sempre più complicati. Alcuni, quando avevo 6-7 anni, prevedevano già piccoli sistemi di equazioni. Adoravo il Monopoli, e mi divertivo a cambiare le regole per renderlo più articolato. A scuola avevo il massimo dei voti. Per il resto: soldatini, robot, macchinine e imitazioni di Goldrake insieme a mia sorella».

Repubblica 25.2.13
Il pianeta delle disuguaglianze
E’ l’ingiustizia che uccide la democrazia
di Zygmunt Bauman


Nel suo nuovo libro Bauman tratta il tema della ricchezza che non dà benessere
“La corsa al profitto individuale non è un vantaggio per tutti: le disparità crescono”

Uno studio recente dell’Istituto mondiale per la ricerca sull’economia dello sviluppo (World Institute for Development Economics Research) dell’Università delle Nazioni Unite riferisce che nel 2000 l’1 per cento delle persone adulte più ricche possedeva da solo il 40 per cento delle risorse globali, e che il 10 per cento più ricco deteneva l’85 per cento della ricchezza mondiale totale. La metà inferiore della popolazione adulta del mondo possedeva l’1 per cento della ricchezza globale. Ma questa è solo l’istantanea di un processo in corso... Notizie sempre più negative e sempre peggiori per l’uguaglianza degli esseri umani, e quindi anche per la qualità della vita di tutti noi, si susseguono di giorno in giorno.
«Le disuguaglianze planetarie attuali avrebbero fatto arrossire di vergogna gli inventori del progetto moderno, Bacone, Descartes o Hegel»: è la considerazione con cui Michel Rocard, Dominique Bourg e Floran Augagner concludono l’articolo “Le genre humain menacé” pubblicato a firma di tutti e tre in Le Monde del 2 aprile 2011. Nell’epoca dei Lumi in nessun luogo della terra il livello di vita era di più di due volte superiore a quello della regione più povera. Oggi, il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite di ben 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. E questi, non dimentichiamolo, sono confronti fra medie, che ricadono quindi nella storiella del pollo di Trilussa...
L’ostinata persistenza della povertà su un pianeta alle prese col fondamentalismo della crescita economica è già abbastanza per indurre le persone pensanti a fermarsi un momento e a riflettere sulle vittime dirette e indirette di una così ineguale distribuzione della ricchezza. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri e privi di prospettiva dai benestanti ottimistici, fiduciosi e chiassosi — un abisso di profondità tale che già è al di sopra delle capacità di scalata di chiunque salvo gli arrampicatori più muscolosi e meno scrupolosi — è una ragione evidente per essere gravemente preoccupati. Come gli autori dell’articolo appena citato ammoniscono, la principale vittima della disuguaglianza che si approfondisce sarà la democrazia, in quanto i mezzi di sopravvivenza e di vita dignitosa, sempre più scarsi, ricercati e inaccessibili, diventano oggetto di una rivalità brutale e forse di guerra fra i privilegiati e i bisognosi lasciati senza aiuto. Una delle fondamentali giustificazioni morali addotte a favore dell’economia di libero mercato, e cioè che il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune, risulta indebolita. Nei due decenni che hanno preceduto l’accendersi dell’ultima crisi finanziaria, nella grande maggioranza dei paesi dell’OCSE il reddito interno reale per il 10 per cento delle persone al vertice della piramide sociale è aumentato con una velocità del 10 per cento superiore rispetto a quello dei più poveri. In alcuni paesi, il reddito reale della fascia al fondo della piramide è in realtà diminuito.
Le disparità di reddito si sono quindi notevolmente ampliate. «Negli Stati Uniti, il reddito medio del 10 per cento al vertice è attualmente 14 volte quello del 10 percento al fondo», si vede costretto ad ammettere Jeremy Warner, caporedattore di The Daily Telegraph, uno dei quotidiani più entusiasti nell’esaltare la «mano invisibile» dei mercati che sarebbe capace, agli occhi tanto dei redattori quanto dei lettori, di risolvere tutti i problemi da essi creati (e magari qualcuno in più). Warner aggiunge: «La crescente disuguaglianza del reddito, benché ovviamente indesiderabile dal punto di vista sociale, non ha necessariamente grande rilevanza se tutti diventano contemporaneamente più ricchi. Ma se la maggior parte dei vantaggi del progresso economico vanno a un numero relativamente ristretto di persone che guadagnano già un reddito elevato — che è quanto sta accadendo nella realtà di oggi — si avvia evidentemente a diventare un problema».
L’ammissione, cauta e tiepida nel suo tenore ma piena di comprensione anche se solo semivera nel suo contenuto, arriva al culmine di una marea montante di scoperte dei ricercatori e di statistiche ufficiali che documentano la distanza rapidamente crescente fra quelli che sono in cima e quelli che sono in fondo alla scala sociale. In stridente contraddizione con le dichiarazioni dei politici, che pretendono di essere riciclate come credenza popolare non più soggetta a riflessione né controllata né messa in discussione, la ricchezza accumulata al vertice della società ha mancato clamorosamente di «filtrare verso il basso» così da rendere un po’ più ricchi tutti quanti noi o farci sentire più sicuri, più ottimisti circa il futuro nostro e dei nostri figli, o più felici...
Nella storia umana la disuguaglianza, con tutta la sua fin troppo evidente tendenza ad autoriprodursi in maniera sempre più estesa e accelerata, non è certo una notizia. E tuttavia a riportare di recente l’eterna questione della disuguaglianza, delle sue cause e delle sue conseguenze, al centro dell’attenzione pubblica, rendendola argomento di accesi dibattiti, sono stati fenomeni del tutto nuovi, spettacolari, sconvolgenti e illuminanti.

Repubblica 25.2.13
Le due facce di Costantino
Con lui la Chiesa libera e la Chiesa del potere
Nel 313 il suo editto consentì a tutti di professare la fede
Ma gettò anche le basi del rapporto che ancora stringe politica, affari e religione
di Paolo Rumiz


A diciassette secoli dall'editto di Costantino (Milano, febbraio 313) la Chiesa nella tempesta ha il coraggio di guardare in faccia l'imperatore che con quell'atto diede libertà ai cristiani, ma pose anche le basi delle tentazioni “temporali” del papato, delle origini fino alle laceranti divisioni dei giorni nostri. Un'operazione coraggiosa, che cerca la verità di un personaggio più complesso di quanto non dicano gli schemi scolastici, e non teme di rileggerne le trasfigurazioni mitiche e le manipolazioni interessate.
È il senso della monumentale Enciclopedia costantiniana della Treccani che sarà tra breve in libreria e vedrà una solenne presentazione ecumenica il 21 marzo all'Ambrosiana di Milano. Voluta dal cardinale Angelo Scola e portata a termine da 53 autori coordinati dalla Scuola di scienze religiose di Bologna, l'enciclopedia fa il punto sugli ultimi anni di studi e mostra, dice il curatore Alberto Melloni, «un uomo intelligente e crudele, che con gli anni diventa sempre più monoteista e cristiano; uno che dà alla Chiesa più libertà e alla fine mette mano al portafoglio restituendo e detassando i beni confiscati».
Figura inquietante e bifronte, l'uomo che nel 331 fa di Costantinopoli la nuova capitale della romanità, si mostra giusto verso ebrei e cristiani, ma orrendamente crudele verso figli e parenti stretti, e la statua in piazza della Vetra a Milano, copia fedele di un marmo antico, conferma l'immagine di un dominatore imponente, magnetico e carico di astuzia barbarica (era un balcanico), ma anche impregnato di romanità. In quel carisma, che si ripete nei busti sparsi nelle terre dell'impero, è già leggibile la trasfigurazione che ne faranno i pagani e i cristiani.
Egli è prima di tutto estetica, cerimoniale. Il bianco-panna del Papa e la porpora dei cardinali in conclave nascono da colori imperiali, imitano dunque la potenza terrena di Costantino. Quando l'algido Putin sulla porta del Cremlino si fa fotografare in posizione devota davanti al capo della chiesa moscovita, ricalca di proposito la postura di lui nelle icone. E persino il turco Erdogan, quando consegna al patriarca di Istanbul-Costantinopoli l'atto di restituzione dei luoghi di culto ortodosso, reinterpreta la politica del pacificatore religioso erga omnes che i sultani ereditarono dalla città di Costantino.
L'enciclopedia penetra il mito, a partire dalla battaglia di Ponte Milvio - in hoc signo vinces - dove probabilmente a trionfare non fu la Croce ma un'analoga insegna legionaria; rilegge l'antico falso della “donazione” dei territori imperiali alla Chiesa; evidenzia come forzata persino la lettura del clamoroso evento del 313. Ormai lo si sa: l'editto non fu tale, ma semplice lettera agli amministratori dell'impero; non fu di Milano, perché l'epistola fu vergata a Nicomedia, l'attuale città serba di Nis; e non fu nemmeno di Co- stantino, perché a emanarlo fu il suo omologo d'Oriente, l'imperatore Licinio.
Cosa sono allora le solenni parole di libertà riprodotte sulla prima delle cinque porte di bronzo del duomo di Milano? In quella città i due cesari effettivamente si vedono in febbraio, e lì Costantino, da poco padrone dell'Occidente, ordina a Licinio (che undici anni dopo avrebbe tolto di mezzo per diventare cesare di un impero riunificato) di diffondere la libertà di culto in generale, e non solo ai cristiani, anche nelle provincie orientali. La decisione viene ufficializzata a giugno, e solo per i territori dell'Est. L'Ovest non ne ha bisogno, perché la libertà di culto è già stata adottata; e non da Costantino, ma dal predecessore Galerio.
Don Federico Gallo, studioso dell'Ambrosiana, si attiene ai fatti. «Costantino fa costruire basiliche a Roma, a Gerusalemme e Betlemme. Convoca un concilio, quello di Nicea che condanna Ario come eretico, e persino lo presiede. Rende festiva la domenica, svolta decisamente epocale, e dà spazio ai cristiani. Ma attenzione: non fa lui stesso il devoto. Il suo primo interesse è la pax deorum, e cioè che le diverse fedi dell'impero coabitino sotto lo stesso pantheon». Assiste alla condanna di Ario, ma si fa battezzare in punto di morte da un vescovo ariano.
Resta imperatore prima di tutto, anche se dai cristiani riceve il titolo di epìscopos, e non somiglia affatto a Teodosio, che nel 380 renderà il cristianesimo religione obbligatoria di Stato, portando a termine la metamorfosi dei cri- da perseguitati a persecutori. Nel suo epistolario con sant'Ambrogio per esempio, dopo aver protestato per alcune sinagoghe bruciate dai cristiani, Teodosio finirà per farsi convincere dal vescovo di Milano della giustezza sacrosanta di quell'infamia. Mai l'uomo di Ponte Milvio avrebbe ceduto su questo punto.
È peraltro Costantino a gettare le basi di quell'inciucio fra politica e religione che spingerà la Chiesa a influire sul potere civile e persino a chiedere e ottenere esenzioni fiscali sulle sue proprietà (Imu). Ed è da Costantino che la Chiesa vive il rischio di «derive cesaropapiste e antisemite», come spiega l'esperto di ebraismo monsignor Piefrancesco Fumagalli. «L'imperatore che ci perseguitava con la spada oggi ci accarezza il ventre», ammoniva già nel quarto secolo Ilario di Poitiers. Da lì vennero il gran rifiuto degli anacoreti, la protesta ereticale, la rivolta di Dolcino, l'anatema dell'Alighieri, la protesta di Melantone, lo scisma luterano.
In Oriente è diverso. L'impero dura un millennio in più, riluce di ori e mosaici da Ravenna alla Persia, affascina con le sue liturgie i principi pagani della Russia e l'Islam delle origini. Fu scoprendo la lupa scolpita, spiega Andrea Piras nell'enciclopedia, che i khan dell'Asia centrale scoprirono affinità totemiche con Roma. Paradossalmente, la tolleranza costantiniana sopravvisse meglio a Istanbul che a Madrid: mentre Isabella la Cattolica espelleva gli Ebrei, il sultano li accoglieva e si dichiarava primo imperatore di “Rum”, la romanità. Le cancellerie di Costantino e del sultano, ricorda Anna Calia nell'Enciclopestiani, dia, erano entrambe «poliglotte e multiconfessionali». E non esiste città, ricorda la bizantinista Silvia Ronchey, dove una religione perdente «abbia conservato più luoghi di culto della Costantinopoli ottomana».
Ma come a Roma, anche nel mondo ortodosso il 313 è pretesto di una rilettura interessata. Costantino diventa il sigillo della symphonia, la simbiosi invincibile di stato e fede che secondo Josip Brodskij sta alla base dell'assolutismo zarista e bolscevico. E oggi, per i Greci, celebrare il 313 significa invocare la riconquista della Polis per mano di un nuovo Costantino. È cantando il suo nome che i Greci esuli dalla Turchia, sgozzano ancora un toro e ballano avvinghiati a icone, seguendo un ritmo arcaico come la tammurriata. «Per noi serbi – dice il liutista Sasha Karlic – Costantino risveglia anche musicalmente l'archetipo balcanico del guerriero di luce contro le tenebre».
Metamorfico e inafferrabile, ritrovi il suo fantasma dappertutto: nelle fondamenta bancarie di Milano, tra le pietre del Foro dove inizia la via Emilia, affrescato in una chiesa di Montreal assieme a Mussolini, riletto da un post comunista come Putin, mitizzato in senso fascista dal polacco Pilsudski o dal greco Metaxas. Lo riscopri nei canti che la Sardegna dedica a un santo col suo nome, nelle celebrazioni cattoliche di Aquileia, o in quelle ortodosse di questi giorni in Serbia, dove l'imperatore torna tra i vivi come simbolo di quell'identità perfetta di popolo, religione e Stato che tanti disastri ha inflitto ai Balcani.

Repubblica 25.2.13
“Sabbia e barchette, così curo i pazienti”
Lo junghiano Paolo Aite racconta un “gioco” che si fa in analisi
di Luciana Sica


«Cos’è il gioco della sabbia? Parlarne solo come di una tecnica terapeutica sarebbe banale. Perché invece è un modo diverso d’intendere la cura analitica, rompendo l’egemonia della parola a favore di un gesto originario che continua ad essere quello di ogni bambino. Creare delle immagini è un’inclinazione profondamente umana: da sempre esorcizza le paure e lascia affiorare emozioni tanto arcaiche quanto indicibili».
Paolo Aite è un bel nome dello junghismo italiano, ottantun anni portati con invidiabile lucidità. Il suo studio, non si direbbe però destinato alla cura dei pazienti. Sembra piuttosto un negozio di bizzarri giocattolini, le pareti coperte da una quantità di oggetti colorati in miniatura che si affastellano sulle scansie. C’è di tutto: elementi naturali come sassi, conchiglie, legni, muschi. E poi alberi, case, uomini, donne, soldati, animali domestici e feroci, macchine, barche... Ti guardi intorno e vedi anche il classico divano, e poi anche un paio di poltrone per il vis-à-vis, ma al centro della stanza c’è una sabbiera sul tavolo. Ed è lì - intorno a quella vaschetta azzurra - che si gioca, è dentro quel rettangolo che il paziente può inventare delle forme svelando qualcosa di sé e del suo rapporto con l’analista.
Allievo del mitico Ernst Bernhard - più guru che terapeuta di tanti personaggi della cultura: da Fellini alla Ginzburg, da Bobi Bazlen a Giorgio Manganelli -, sin dagli anni Sessanta Paolo Aite ha legato il suo nome al gioco della sabbia con saggi brillanti come Paesaggi della psiche (Bollati Boringhieri). Ora un suo scritto apre un libro a più voci proprio su quei Mondi in un rettangolo (sottotitolo: “Il gioco della sabbia: aperture sul limite nel setting analitico”, Moretti & Vitali).
È lei, dottor Aite, a invitare i suoi pazienti a giocare?
«Sì, almeno la prima volta, sono io a proporre il gioco. È molto importante come reagiscono, quel che dicono e che fanno, cosa scelgono, come si muovono e come dispongono gli oggetti sulla sabbia... Sono tutti elementi che rivelano qualcosa: ma-lesseri, affetti che non sempre la mente riesce a contenere ma che la costruzione di un’immagine può restituire. Si tratta di un linguaggio diverso, che affianca la parola e va sempre compreso all’interno della relazione analitica. A volte il gioco sarà solo episodico, a volte più continuo».
Con una buona dose di eresia... La tradizione psicoanalitica, come del resto la cultura occidentale, non è basata sul Logos?
Una certa ludicità non era stata confinata alla sola stagione dell’infanzia?
«Così è stato per Freud, e così per lo stesso Winnicott. Ma di tempo ne è trascorso, e oggi una “svolta iconica” investe anche il mondo freudiano. Noi invece, di orientamento junghiano, da sempre consideriamo centrale l’attività creativa in ogni sua declinazione. Le immagini potenti del Libro Rosso confermano come siano una metafora delle profondità della psiche, una possibilità di contatto con le sue zone più oscure e scabrose... Nel gioco della sabbia il ritorno alla materia può servire a raccontare diversamente una storia, diventa un’espressione dell’incontro tra coscienza e inconscio. Per dirla con le parole di Jung “spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente”».
Per dirla invece con Schiller, “l’uomo è totalmente umano solo là dove gioca”. Eppure - anche tra gli analisti - non prevale l’idea che ci vuole evoluti quando parliamo, e regressivi - se non primitivi - quando giochiamo?
«È la contrapposizione ad essere sbagliata. E comunque l’azione ludica non va confinata nella pura soddisfazione del desiderio, perché al contrario può aprire una strada nuova davanti a un problema irrisolto o a un’emozione soverchiante spesso inesprimibile in parole».
Può fare un nome di un qualche suo paziente illustre che ha giocato con la sabbia?
«Posso parlare esclusivamente di pazienti che non ci sono più. E il primo nome che mi viene in mente è quello di Giuliano Briganti. Vede quella barchetta di legno? È lui che l’ha costruita, tanti anni fa. Le sue sabbie mi ricordavano il mondo dell’Ariosto, tra battaglie, principesse, cavalieri... Sì, con lui ho fatto un gran bel viaggio».

Mondi in un rettangolo Moretti & Vitali, a cura di G. Andreetto e P. Galeazzi, pagg. 318 euro 20