giovedì 24 gennaio 2013

l’Unità 24.1.13
«La vera sfida sarà quella sulle diseguaglianze»
di Maria Zegarelli


Laboratorio politico affronta i temi cruciali della campagna elettorale Gli interventi di Epifani, Folena, Cuperlo, Fassina, Damiano, Cardulli

Adesso, la campagna elettorale, e dopo, il governo. Bella sfida per il Pd e la sinistra con i numeri che ballano al Senato e lasciano temere l’anatra zoppa, il centro di Monti che è lì, futuro possibile-auspicabile-inevitabile alleato in una coalizione di governo, i grillini che preparano l’avanzata in Parlamento, un Pdl più disperato e dunque più agguerrito che mai. Non sarà facile la prossima legislatura e qui tra gli ospiti di questo seminario organizzato dal Laboratorio politico per la sinistra, «col Pd e nel Pd» (che raccoglie forze di sinistra con radicamento nel socialismo, cattoliche ed ecologiste), lo sanno bene. Ne discutono a lungo tra gli altri Stefano Fassina, Guglielmo Epifani, Cesare Damiano, Gianni Cuperlo, Alessandro Cardulli. Pietro Folena racconta quella in corso come una campagna elettorale particolarmente difficile rispetto a come qualche mese fa qualcuno poteva immaginarla. Ci sono Ingroia e la sua lista civica che erodono consenso a sinistra anche e soprattutto nelle Regioni fondamentali per il Senato; ci sono i grillini con i quali non sarà facile lavorare in Parlamento; c’è Silvio Berlusconi, l’eterno giocoliere costretto a tornare in politica perché i suoi interessi personali stanno andando a rotoli; e poi c’è Mario Monti sostenuto con lealtà dal Pd che ora non lesina critiche proprio al Pd perché i voti servono anche al Professore e perché sa che potrebbe essere l’ago della bilancia.
«C’è una linea di frattura sulla quale misurarsi in questo frangente osserva Fassina -: è la linea che separa le forze europeiste da quelle populiste e il nostro avversario non è solo Berlusconi, è anche Grillo». E poi c’è una linea di «distinzione secondaria» tra le forze europeiste: «Noi e i centristi di Monti e la pretesa di Monti di ritenere la sua proposta come l’unica alternativa di cambiamento è inaccettabile. Noi siamo l’unico vero partito che può guidare una stagione di cambiamento e tutto ciò che abbiamo fatto finora lo dimostra». Sono in molti a riconoscere il coraggio del segretario Pier Luigi Bersani nell’aver voluto le primarie per la leadership e quelle per i parlamentari, «nella prossima legislatura il Pd avrà circa 240 nuovi onorevoli», osserva Damiano. Buon segno, ovvio, ma anche tante esperienze da creare tutti insieme. Epifani se guarda alle prime battute di questa sfida elettorale non può che definirle «provinciali, un po’ indegne di un grande Paese. Se continuiamo a parlare solo di fisco e impresentabili dice è difficile alzare il livello».
I tasti su cui premere, secondo l’ex segretario Cgil, sono Europa, lavoro, Mezzogiorno, «i temi di cui gli italiani vogliono sentir parlare» per colmare quel deficit «di rappresentanza politica che ha raggiunto livelli ormai gravi e il Pd da solo non può farcela» se il sistema entro cui si muove va da tutt’altra parte, «con un tasso di leaderismo troppo alto». Epifani ritiene fondamentale vincere una sfida prima di ogni altra: le elezioni in Lombardia. Fassina guarda agli italiani: «Noi non saremo in grado di dare risposte immediate ed efficaci per tutti, non saranno facili i prossimi anni, ma proprio per questo dobbiamo aprirci alla società e dobbiamo essere un punto di riferimento costante con un gruppo dirigente nazionale e territoriale autorevole». Sono in molti a citare i dati Istat sulle diseguaglianze, tra chi ha molto e chi ha sempre di meno. Cuperlo ne fa il perno del suo intervento: «Una delle prime cose che proporrò al nuovo Parlamento sarà quella di istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle diseguaglianze nel Paese». È da lì che bisogna partire, da quella frattura che rischia di spezzare la coesione sociale. Ne parla Nicola Cacace, ci torna Cesare Damiano, «dobbiamo parlare di lavoro, pensioni, dobbiamo trovare l’anima di questa campagna elettorale». Chiede: «Siamo in grado di fare campagna politica contro il capitalismo finanziario? Vogliamo tornare a parlare della necessità di far ripartire i consumi creando più contratti di lavoro, sbloccando da subito le indicizzazioni delle pensione?».
Sergio Gentili, tra gli organizzatori del seminario, spiega che di incontri ce ne saranno ancora, anche durante la campagna elettorale, per confrontarsi sulla direzione da prendere nei prossimi mesi perché sullo sfondo c’è anche un altro tema: il congresso del Pd, fissato al prossimo autunno.

l’Unità 24.1.13
Swoboda: solo la vittoria di Bersani può cambiare l’Italia
di Marco Mongiello


Il leader dei Socialisti e Democratici: «Abbiamo bisogno di un Paese che funzioni, che persegua una politica economica diversa e che incida in Europa»
La sinistra europea segue la campagna elettorale italiana con grandi aspettative, perché una vittoria del Partito Democratico e di Pier Luigi Bersani cambierebbe gli equilibri a Bruxelles e aiuterebbe a modificare le politiche dell'austerità in direzione di una maggiore attenzione a crescita e occupazione.
Lo ha spiegato ieri a Bruxelles il leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento Ue, l'eurodeputato austriaco Hannes Swoboda, in un pranzo con i giornalisti italiani. «Abbiamo bisogno di un'Italia che funzioni, di un'Italia che persegua una politica economica diversa e che chieda all'Europa di cambiare direzione», ha detto, «noi Socialisti e Democratici siamo molto critici sull'attuale direzione della politica economica e sociale in Europa e ci aspettiamo che l'Italia dia un ulteriore contributo al lavoro per renderla più equilibrata già iniziato da Francois Hollande». Oggi, secondo Swoboda, «c'è un solo gruppo e una sola personalità che può cambiare il Paese: il Partito Democratico e Bersani».
L'eurodeputato austriaco ha spiegato di aver sostenuto Mario Monti quando «era l'unica possibilità di liberarsi di Berlusconi e del suo Governo», ma che dovendo scegliere tra Monti e Bersani non ha dubbi. In Europa, ha spiegato, i Paesi che sono economicamente più solidi, come l'Austria che ha il livello di disoccupazione più basso, ma anche come Germania e Olanda, hanno alle spalle diversi anni di concertazione tra la parti sociali e Bersani è la figura che più di chiunque altro in Italia può arrivare a questo risultato.
Swoboda inoltre si è detto «molto lieto» del fatto che anche Berlusconi stia seguendo l'esempio dei democratici nel ripulire il partito dalle figure dubbia. Peccato ha aggiunto che abbia fatto un'eccezione per se stesso».
Per i progressisti europei comunque l'eventuale alleanza con Monti non è un problema. «Non vedo differenze così grandi tra Bersani e Monti per cui non ci possa essere una coalizione dopo le elezioni», anche se ora che si è in campagna elettorale «è il momento di dire quali sono le alternative».
In ogni caso, ha precisato, tutti gli alleati di una colazione futura, «compreso Vendola», devono accettare gli impegni europei, dalla politica economica a quella sull'immigrazione e «il Fiscal Compact (il Patto di Bilancio, ndr) non è bello ma c'è». Altrimenti, ha ammonito, la coalizione «non dura».
Questo però non significa accettare supinamente le politiche di austerità e un'Europa «dove qualcuno dice qual è la regola e gli altri devono obbedire», ha precisato Swoboda.
Oggi, ad esempio, il Patto per la Crescita non ha lo stesso peso del Patto di Bilancio e noi, ha detto il leader S&D, «ci aspettiamo che l'Italia dia un contributo importante per l'applicazione del patto sulla crescita». Non si tratta solo far partire i prestiti della Banca Europea per gli Investimenti, ha spiegato, ma anche di far accettare a Bruxelles «la regola d'oro per gli investimenti», e cioè l'idea che alcuni investimenti pubblici specifici, mirati a creare posti di lavoro e a promuovere la crescita, possano essere esentati dal conteggio del deficit strutturale.
Swoboda ha citato lo studio “Analisi alternativa sulla crescita”, commissionato dal gruppo parlamentare a tre istituti indipendenti. «Si possono raggiungere gli stessi risultati di miglioramento del deficit e del debito pubblico perseguiti dalla politiche europee con maggiori investimenti». Questo è «il grande errore» dell'attuale politica europea: l'aver trascurato il ruolo degli investimenti non solo per la crescita e per l'occupazione, ma anche per la loro capacità di risanare i bilanci riducendo i debiti. L'austerità eccessiva, ha spiegato Swoboda, non è solo dura dal punto di vista sociale ma è anche inefficace.
In secondo luogo, ha aggiunto, i progressisti guardano con speranza all'Italia per la questione fiscale. «È un tema nazionale --ha detto Swoboda ma quello di cui abbiamo bisogno è di una lotta comune contro l'evasione e l'elusione fiscale». Gli studi commissionati dai Socialisti e Democratici hanno indicato che ogni anno in Europa gli Stati perdono mille miliardi di euro di mancate entrate a causa dell'evasione.
Infine, a Bruxelles aspettano che Bersani si sieda al tavolo del Consiglio europeo anche per superare le resistenze tedesche sul completamento dell'unione bancaria.
Il caso del Monte dei Paschi di Siena, ha detto Swoboda senza citarlo esplicitamente, «dimostra chiaramente quanto sia importante l'unione bancaria e il controllo europeo sulle banche». Questo è quello che serve, anche in Italia, ha detto l'eurodeputato austriaco, al contrario di quanto dice Berlusconi sul fatto che in Italia non c'è bisogno delle ingerenze di Bruxelles. «Non si tratta di ingerenze ha concluso Swoboda ma di regole e di un forte meccanismo unico di supervisione sulle banche che faccia il suo lavoro».

L’Huffington Post 24.1.13
Bersani: “Voglio il salario minimo garantito”

qui

Repubblica 24.1.13
Bersani all’attacco di Monti “È stato lui a creare gli esodati ora disoccupazione al massimo”
Renzi: sostengo Pierluigi, sarà il prossimo premier
di Giovanna Casadio


ROMA — «Non mi faccia le pulci chi ha creato gli esodati». Bersani non se lo tiene quel giudizio («Ho grande sfiducia in Berlusconi e Bersani»), che Monti ha buttato lì, l’altra sera in tv, livellando il Pd sul Pdl, nonostante i Democratici siano sempre stati leali con il governo dei tecnici e abbiano «votato cose che non ci sono piaciute». Anche solo per questo, il segretario e candidato premier del centrosinistra vuole «rispetto».
I toni dello scontro elettorale si alzano, e Bersani lancia il primo vero “affondo” contro il Professore, lo accusa di insensibilità verso chi vive in sofferenza e in difficoltà e di avere creato una disoccupazione record: «Non credo che né dal miliardario, né dal tecnico ci possa essere grande attenzione alla questione sociale, che è in atto. Non c’è più tempo, c’è troppa gente che ha bisogno e bisogna prendere in mano la questione». Non sono adeguati sia Berlusconi che Monti, denuncia Bersani. Dal forum di Davos, dove si trova nella sua veste di premier dimissionario, il Professore evita di contrattaccare e gioca di fioretto: «Sono salito in politica per tutelare le “vittime” di governi spesso deboli contro l’evasione fiscale, la corruzione, gli interessi particolari - spiega - sono in campo per riparare gli errori dei governi precedenti, che hanno aggravato la crisi, di cui soffrono molto i giovani». Rassicura sulla buona strada intrapresa, dalla quale non si tornerà indietro: «Il risanamento prosegue, oggi l’Italia è molto diversa da un anno fa».
E a dare manforte a Bersani contro Monti è Matteo Renzi. «Il Professore poteva fare il Ciampi e invece ha fatto Dini, poteva farlo ma doveva dirlo». A La7, intervistato da Daria Bignardi, il sindaco “rottamatore” (che ha sfidato Bersani alle primarie del centrosinistra per la premiership), aiuta il segretario in una campagna elettorale che, cominciata come marcia trionfale, riserva molte insidie: «La lealtà è importante», la rivendica a sé, Renzi. «Certo che bisogna votare per noi: penso che Bersani sarà il prossimo presidente del Consiglio, sono disposto ad andare ovunque a incontrarlo, anche al distributore di Bettola...». Boccia del tutto la scelta («senza senso») di Pietro Ichino, senatore democratico filo Renzi, passato in lista con Monti. Mentre di D’Alema dice: «Sono contento che D’Alema ora mi trovi simpatico e abbia cambiato idea su di me: io no». L’unica presa di distanza renziana dal Pd è sullo scandalo del Montepaschi. Ne approfitta per togliersi un sassolino dalla scarpa, quella cena a Milano con imprenditori e banchieri per le “sue” primarie, chiamati a raccolta dal finanziere Davide Serra e che provocò polemiche feroci: «Eccessi di ingenerosità».
Comunque, Bersani e Renzi faranno tandem a Firenze il primo febbraio, e poi in Lombardia e in Veneto. Parleranno di questioni concrete, punteranno a convincere gli indecisi che è il vero tallone d’Achille del segretario del Pd.
Per Bersani è molto più facile ora dire “cose di sinistra” (dopo il no agli aerei militari F-35, ieri rilancia la questione sociale) sottraendo argomenti a Ingroia, piuttosto che convincere i delusi e i moderati. Il segretario tiene comizi a Marino e Albano, nel Lazio, una delle regioni in cui è capolista, accompagnato da Enrico Gasbarra e da Claudio Mannarino dell’associazione “Liberidaiforti”. Se andrà a Palazzo Chigi, promette, la prima riunione nella Sala Verde sarà con le associazione, il Terzo settore, non con i poteri forti. Giudica Grillo «un fascistoide». Ingroia intanto gli rivolge un appello: «Smettiamo di farci male».

La Stampa 24.1.13
È saltata la tregua tra Monti e Bersani
di Marcello Sorgi


Le dure previsioni del Fondo monetario internazionale, che annuncia per l’Italia un altro intero anno di recessione, e lascia intendere che la cura adottata per i conti pubblici s’è rivelata insufficiente, sono diventate l’occasione per rompere la fragile tregua costruita a fatica tra Monti e Bersani. Da Davos, il presidente del consiglio ha reagito contestando l’analisi del FMI e sostenendo che un principio di ripresa economica dovrebbe già manifestarsi nella seconda parte dell’anno: ma per difendere le scelte del suo governo ha attaccato quelli che l’avevano preceduto e chi oggi insiste a far promesse elettorali, invece di spiegare agli elettori le difficoltà reali di trovare una via d’uscita dalla crisi e la necessità di mantenere una maggiore cautela.
Critiche a tutto campo, rivolte a destra come a sinistra: alle quali hanno subito reagito sia Alfano che Bersani. E mentre il segretario del Pdl rivendicava al Tg3 la decisione del suo partito di togliere l’appoggio a Monti, quando è apparso evidente che gli effetti dei suoi provvedimenti economici avevano, a giudizio del centrodestra, aggravato la situazione invece di risolverla, anche il leader del Pd è andato all’attacco con argomenti pesanti. Ha accusato il premier di aver approfittato dell’appoggio del suo partito al governo, salvo poi riversagli addosso in fiume di critiche in campagna elettorale, rifiutandosi di affrontare una “questione sociale” divenuta ormai allarmante e cercando di nascondere di aver creato il problema degli esodati.
Così Pdl e Pd marciano divisi (non risparmiandosi ovviamente neppure accuse dirette), ma sono uniti nel colpire Monti, e nel tentativo evidente di fare il pieno di voti ciascuno nel proprio campo, riducendo al minimo lo spazio elettorale per il Centro. A un mese dal voto, la campagna elettorale si prevede senza esclusione di colpi per il tempo che resta. Nel campo del centrodestra, le polemiche sull’esclusione dei candidati “impresentabili” e di gran parte degli ex-An dalle liste non hanno scalfito l’entusiasmo di Berlusconi, che diversamente da molti dei suoi arriva a considerare possibile, non solo la rimonta, ma anche la vittoria nelle urne. In quello del centrosinistra, resistono i timori per un rialzo delle quotazioni di Grillo, dopo il ritorno in campo del leader del Movimento 5 Stelle, e per la possibile crescita della lista di Ingroia, che nei sondaggi sta rosicchiando consensi a Vendola. Forse è anche per questo che Bersani ha deciso di alzare il tono della campagna, costi quel che costi: anche una rottura, che ormai pare irrecuperabile, con Monti.

Corriere 24.1.13
E l'incognita lombarda accentua lo scontro tra il premier e Bersani
di Massimo Franco


Il contrasto fra Pier Luigi Bersani e Mario Monti si sta allargando oltre le previsioni. Scopre i lati più puntuti del segretario del Pd e del presidente del Consiglio. E li contrappone sulla disoccupazione, la recessione, i cosiddetti «esodati». E probabilmente la gamma degli attriti si allargherà. Ma il vero punto di rottura fra il presidente del Consiglio e il suo principale contendente a palazzo Chigi è molto più localizzato. Si concentra sulla Lombardia, la regione che il centrosinistra vuole conquistare come conferma e quasi sublimazione della sua probabile vittoria nazionale; e che invece teme vada all'«asse del Nord» a guida leghista perché Monti ha candidato Gabriele Albertini. E non tanto a livello di governatore: l'inquietudine nasce dalla prospettiva che la distribuzione dei seggi faccia saltare al Senato la maggioranza Pd-Sel, e renda difficile perfino una coalizione con i centristi.
La prospettiva rende Bersani nervoso e abrasivo nei confronti del premier, benché i montiani sostengano che Albertini toglierà voti a Pdl e Carroccio. Perfino il Wall Street Journal, bibbia della comunità d'affari statunitense, si è accorto che Berlusconi punta molte delle sue carte sulla regione per ottenere non la vittoria ma un Parlamento ingovernabile. Il problema è che l'incognita lombarda sta spargendo veleni sull'ipotetico patto postelettorale fra Bersani e Monti. Il centrodestra continua a martellare su una loro intesa. E inserisce anche la grave crisi al Monte dei Paschi di Siena, con le dimissioni dell'ex presidente, Giuseppe Mussari, dal vertice dell'Abi, come indizio di un «patto scellerato» fra Pd e premier per favorire le banche. Ma all'ombra di polemiche che la campagna elettorale estremizza, le distanze fra i potenziali alleati aumentano.
Bersani avverte Monti: «Non accetto di vedermi fare le pulci da chi non pronuncia nemmeno la parola "esodati", il fenomeno che ha creato». Non solo: accomuna «il miliardario» Berlusconi e i «tecnici e gli illuminati» alla Monti, definendoli incapaci di «avere orecchio alla grande questione sociale»; e accreditando «l'unico partito popolare che è il Pd». Fa notare al premier che nell'anno e più che hanno governato insieme anche a Pdl e Udc, palazzo Chigi non sembrava così critico nei confronti del Pd.
Così, gli dà atto che lo spread (la differenza fra gli interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi) si è abbassato. Ma attacca Monti sulla disoccupazione record e la crisi. E fa proprie le parole del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri ha lamentato l'«emergenza economica e sociale». Ritenere che divergenze così profonde, e a un mese dalle elezioni, possano essere riassorbite dopo il voto del 24 e 25 febbraio è possibile, ma non probabile. Quando il capo del governo arriva a sostenere davanti alla platea del summit svizzero di Davos di condividere le perplessità di un populista come Beppe Grillo su un'Italia governata dalle coalizioni di Berlusconi o di Bersani, inserisce un altro cuneo; e in un consesso internazionale già diffidente nei confronti della sinistra italiana.
Naturalmente, Monti non tralascia di attaccare Berlusconi. Sostiene di avere presentato una lista elettorale per difendere «le vittime di governi e di politici che si sono impegnati in promesse irrealizzabili, e «hanno aggravato la crisi», alimentando «il nazionalismo e il populismo». E Angelino Alfano, segretario del Pdl, lo rimbecca subito sostenendo che il premier ha perduto la fiducia perfino della stampa internazionale. Cita in proposito un recente articolo del Financial Times, poi bilanciato da un commento favorevole a Monti del quotidiano londinese. Ma è soprattutto lo scontro con Bersani a colpire. Per essere un gioco delle parti fra premier e Pd, sta diventando un po' troppo ruvido. Cresce il sospetto di una legislatura più breve dell'attuale. Anzi, l'impressione è che certi toni nascano dalla convinzione trasversale di una precarietà destinata a proiettarsi oltre le elezioni.

La Stampa 24.1.13
Se non bastassero i seggi di Monti il Pd chiederà di rivotare al Senato
Già fissata la linea nel caso non si arrivi alla maggioranza nemmeno con i centristi
di Carlo Bertini


Solo a parlarne la reazione degli interlocutori ai piani alti è di quelle tipicamente scaramantiche, gli aggettivi si sprecano, chi la chiama ipotesi «sciagurata», chi «catastrofica», ma almeno in teoria potrebbe avvenire pure questo: che chiuse le urne, pur avendo una forte maggioranza alla Camera, il centrosinistra non abbia i numeri al Senato per governare neanche con i voti dei centristi. Sul punto i pareri degli esperti divergono, c’è chi sostiene che sondaggi alla mano è uno scenario impossibile, chi invece lo mette in conto: nel caso si perdessero le principali regioni a rischio e la lista Monti andasse molto meno bene del previsto, i voti dei centristi potrebbero rivelarsi insufficienti. O utili magari a far superare solo di poco la soglia di 157 voti necessari: rendendo impraticabile quella larga maggioranza necessaria a ricostruire il paese che Bersani vuole assicurarsi. E che nella plancia di comando del Pd abbiano tenuto in conto tutte, ma proprio tutte le opzioni, compresa quella più «sciagurata», lo dimostra il fatto che il candidato premier saprebbe già come regolarsi: con quella che gli uomini di Bersani chiamano «una decisione politica già presa». Ogni qualvolta che gli si pone un quesito del genere, il leader Pd risponde che «non esiste assolutamente» alcuna possibilità di larghe intese con Berlusconi sotto alcuna forma. E da questa linea della fermezza si può dedurre che sarebbe impensabile che il Pd possa accettare un eventuale appoggio esterno, o imbarcarsi in trattative per cedere Palazzo Chigi a Monti o la presidenza della Camera al Pdl; o tantomeno accordi sul Quirinale in cambio di più larghe intese. Insomma, Bersani ha già deciso che nel caso «più catastrofico» il Pd chiederebbe di sciogliere solo uno dei due rami del Parlamento e di tornare a votare per il Senato. Un’opzione che in due casi si realizzò, nel 1953 e 1958, quando la Costituzione ancora non prevedeva la stessa durata per le due Camere. Tanto che nel ’63 si approvò una riforma che portò a cinque anni la lunghezza della legislatura a Palazzo Madama. Ma sarebbe una soluzione di ardua praticabilità, se non altro per le resistenze che incontrerebbe negli altri attori della partita; senza contare il ruolo centrale del Capo dello Stato, al quale spetterebbe l’ultima parola. Insomma, sarebbe un guazzabuglio.
A tirar fuori per primo qualche giorno la possibilità di uno sbocco del genere in Senato, il politologo Roberto D’Alimonte. «Se Monti scende sotto l’8% in diverse regioni - spiega il professore - cambierebbe tutto lo scenario. Ma al momento, da quello che vediamo in molti sondaggi, compreso Ipsos, la coalizione di Monti è intorno al 14-15% su base nazionale: e sarei molto sorpreso se scendesse all’8% in alcune regioni. Dunque sulla base delle tendenze che vediamo ora, è molto improbabile che si verifichi».
Bersani le sta tentando tutte per assicurarsi una maggioranza assoluta, ha pure fatto presentare al piemontese Portas la sua lista col simbolo «I Moderati» al Senato in Lombardia e Sicilia, per rosicchiare qualche punto, dato che nelle regioni a rischio i giochi sono ancora aperti. E il leader Pd accentua gli attacchi nei confronti di Monti per competere con lui, pur sapendo che potrà aver bisogno dei suoi numeri. E in ogni caso è solo a Monti e non ad altri, neanche a Ingroia, che potrà rivolgersi dopo il voto, «perché il paese ha bisogno di un governo stabile e non di un governo che dura un anno e poi si rompe», dicono i suoi uomini. «Se lo mettano in testa tutti e non ci vengano a proporre una ipotesi del genere in nessun caso». E su questo punto, i massimi dirigenti del Pd sono concordi: trincerandosi dietro l’anonimato, confermano che nel caso più «malaugurato» si chiederebbe di rivotare al Senato: «Perché se il popolo dice con chiarezza chi vince alla Camera e per via del meccanismo contorto questa maggioranza non si esprime a Palazzo Madama, sarebbe legittimo fare una richiesta del genere», spiega uno dei pezzi grossi. «Ma anche se Berlusconi vincesse le 4 regioni a rischio noi e i centristi ce la faremmo da soli a governare. Certo tutto è possibile, ma in quel caso sarebbe un cortocircuito».

Corriere 24.1.13
L'endorsement del quotidiano dei vescovi: «Ecco i cattolici in lista, partito per partito»


MILANO — Un'analisi accurata coalizione per coalizione. E un endorsement forte e preciso: Avvenire scende in campo a fianco dei cattolici candidati alle Politiche. Critica «la presenza ridotta di new entry», causa «le ristrettezze del sistema elettorale che hanno imposto ai partiti di "salvare" innanzitutto gli uscenti e le dirigenze di partito» e va oltre. Riprende le parole di Gennaro Iorio, sociologo di riferimento del movimento dei Focolari, sulla necessità di uscire «dall'atomismo elettorale». Occhi puntati sulla lista Monti. «Il rischio "fiore all'occhiello" c'è, da verificare alla prova dei fatti», scrive il quotidiano. Con il Professore «accanto a presenze di chiara impostazione laica — laicista in taluni casi — una pattuglia di cattolici interessante». Molti i nomi presi in considerazione: «il ginecologo obiettore Lucio Romano, presidente di Scienza&vita; Andrea Olivero, ex presidente delle Acli; Luigi Marino, presidente di Confcooperative; Gian Luigi Gigli, il grande neurologo che si spese per la vita di Eluana Englaro; Mario Sberna, presidente dell'associazione Famiglie numerose; Mario Marazziti, portavoce della Comunità di sant'Egidio», solo per citarne alcuni. Secco il commento sul Pdl (a cui la testata dedica un altro articolo, ndr): «Nel partito di Berlusconi e Alfano la "battaglia" dei cattolici è stata soprattutto quella di salvaguardare la continuità di un impegno», spiega Avvenire nell'articolo a firma di Angelo Picariello. Più spazio per i nuovi volti nelle liste del Pd. «Il partito di Bersani ha esibito un poker di neocandidati di ispirazione cattolica — si legge —. Che in realtà sono di più. Spicca il nome di Edo Patriarca, ex presidente Agesci e portavoce del Forum del terzo settore». E anche quello di Ernesto Preziosi, segretario generale dell'Istituto Toniolo. Secondo il candidato pd, i cattolici «hanno corso il rischio, in politica, "di rimanere frantumanti da un sistema maggioritario aggressivo e muscolare, dove solo raramente la stessa fede è stata anteposta all'appartenenza di partito"». «Ed è questa ora la sfida», chiosa Avvenire.

Corriere 24.1.13
La «profezia» di Casini sulla (nuova) legislatura breve
di Francesco Verderami


ROMA — La nuova legislatura non è nemmeno cominciata e già c'è chi dice che è (quasi) finita. Ma un conto è che sia Grillo a prevedere il ritorno alle urne «l'anno prossimo», altra cosa è che sia Casini a insinuare il dubbio: «Ho l'impressione che non durerà mica tanto», confida il leader dell'Udc. È un presagio drammatico a un mese dal voto, è la dimostrazione di quanto sarà complesso arrivare a una stabilizzazione del sistema. È una riflessione dettata per un verso dallo studio dei sondaggi, e per l'altro da un'analisi del quadro politico che già si prefigura dopo la competizione.
Certo, la questione dei numeri al Senato sarà dirimente. Molto dipenderà dall'esito della battaglia nel Quadrilatero delle regioni chiave (Lombardo-Veneto, Sicilia e Campania), a cui ora si è aggiunta anche la Puglia, che i sondaggisti danno «in bilico». Ma l'interrogativo non è se Bersani sarà o meno autosufficiente a Palazzo Madama, siccome è evidente che dopo il voto il Pd si prepara ad allearsi con Monti. Il nodo è un altro, e l'impressione ricavata dal capo dei centristi è che «comunque» non sarà semplice costituire in Parlamento una «maggioranza ampia», specie se Vendola sarà determinante con i suoi seggi.
Il leader dell'Udc pone un problema di alchimia politica. Ma non solo. Perché il segnale è stato decrittato dal segretario democratico, secondo cui Casini vuol far sapere che «ci sono anch'io», che Monti non ha l'esclusiva nella rappresentanza della nuova coalizione. È un tema di non poco conto, se è vero che durante una riunione del Fli, Bocchino ha spiegato come sia «chiaro che Bersani vuole l'accordo con il Professore, mica con Casini». Ma Casini ha già preso le contromisure, proprio al Senato, dove un esperto come il professor D'Alimonte ha «scoperto» che — nella trattativa per le candidature — l'Udc è riuscita a garantirsi «almeno dieci seggi». Numero sufficiente per formare un eventuale gruppo autonomo a Palazzo Madama.
Il leader centrista, incalzato sull'argomento a «Omnibus», ha derubricato la questione in diretta tv: «Non ci sono seggi dell'Udc. Siamo tutti montiani». Poi però, durante una pausa pubblicitaria, ha sussurrato con aria sorniona: «Me ne attribuite solo dieci? Siete così pessimisti?». Et voilà, il gioco è scoperto. Casini voleva che lo diventasse, giusto perché Bersani capisse. E Bersani l'aveva capito da tempo, al punto da averne discusso con i dirigenti del partito, secondo i quali, dopo il voto, Monti «non sarà nelle condizioni di fare il capo della coalizione in Parlamento»: la previsione è che nel corso delle trattative per la formazione del governo ci sarà uno «sfrangiamento» nel rassemblement del Professore.
D'altronde già adesso l'unione centrista dà l'idea di un matrimonio d'interessi. Lo si nota sotto il profilo mediatico, per esempio, se è vero che fino ad oggi Monti Casini e Fini non si sono mai fatti vedere insieme, nemmeno quando il premier ha lanciato il simbolo, che pure li unisce al Senato. Possibile che — a campagna elettorale già iniziata — non abbiano ancora fatto una «photo opportunity»? Come non bastasse, Casini ha preso a distinguersi in modo marcato dal Professore.
Ieri ha lanciato tre stoccate, ché al confronto Bersani è parso più indulgente. La prima botta è che «senza l'Udc Monti non avrebbe salvato l'Italia», giusto per rimarcare il ruolo che hanno avuto i centristi in Parlamento. La seconda è che «se noi e il Fli abbiamo fatto le nostre liste, è perché c'è anche la buona politica», che non è quindi la bad company della coalizione. La terza è la più insidiosa: «Se alle elezioni l'alleanza dovesse restare sotto il 15%, sarebbe un risultato insoddisfacente». Un autentico affondo contro Monti, visto che i sondaggisti considerano quella quota un limite difficile da superare. Una sorta di avvertimento al Professore e a quella sua società civile che — sottolinea Casini — «quando entrerà in Parlamento si trasformerà in ceto politico, poche storie».
Si vedrà se la legislatura «non durerà tanto», come teme (o minaccia) il capo dei centristi. Il segretario del Pdl Alfano ritiene che «potrebbe durare cinque anni o cinque mesi», ma si capisce da ora che il quadro politico non sarà stabile. Meno che mai lo è il centrodestra, dato che Tosi ha preannunciato sulla Stampa il «divorzio» della Lega da Berlusconi, subito dopo il voto. Ma il Cavaliere in questa fase ha ben altro in testa. Chissà se davvero confida nella rimonta, sebbene la forbice dal centrosinistra non sia più così ampia: «sei punti», secondo l'ultimo report di Euromedia research.
Però il vero obiettivo di Berlusconi è diventare determinante al Senato per la futura maggioranza di governo. Impresa ardua. Secondo i calcoli del Pd «l'incubo» sarebbe scongiurato, a meno di una clamorosa rimonta del Pdl. Ma c'è un dettaglio che minaccia «il sogno» del Cavaliere: il voto disgiunto. Secondo uno studio che ha commissionato, il 10% dei votanti sarebbe propenso a differenziare la scelta nelle liste. E se gli elettori di Ingroia, immaginando che Rivoluzione civile non raggiunga il quorum al Senato, optassero per Bersani, la missione di Berlusconi fallirebbe.

Corriere 24.1.13
Amministrative, si vota 26 e 27 maggio


MILANO — Dopo l'election day del 24 e 25 febbraio, che vedrà più di 51 milioni di italiani alle urne per le Politiche e le Regionali in Lazio, Molise e Lombardia, 8.120.051 italiani saranno (ri)chiamati ai seggi per le elezioni amministrative di primavera. Ieri il ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, ha fissato per domenica 26 e lunedì 27 maggio la data di svolgimento delle consultazioni per l'elezione diretta dei sindaci e dei consigli comunali (e per l'elezione dei consigli circoscrizionali). L'eventuale turno di ballottaggio si svolgerà domenica 9 e lunedì 10 giugno. In tutto, sono da rinnovare 652 amministrazioni, delle quali 109 Comuni superiori ai 15 mila abitanti (10 mila per la Sicilia) e 543 inferiori. I Comuni capoluogo interessati dal voto sono 17: si vota a Brescia, Sondrio, Treviso, Vicenza, Udine, Imperia, Massa, Siena, Pisa, Roma, Viterbo, Isernia, Avellino, Barletta, Catania, Messina, Siracusa. Gli elettori, divisi in 9.346 sezioni, sono 6.093.703 (2.898.982 maschi e 3.194.721 femmine) nei 109 comuni superiori ai 15 mila abitanti e 2.026.348 (995.426 uomini e 1.030.922 donne) nei 543 comuni inferiori ai 15 mila abitanti.

il Fatto 24.1.13
Bentornata questione morale
di Paolo Flores d’Arcais


Dice l’on. Bersani che il suo partito si occupa di politica, non di banche, e la sua dichiarazione avrà certamente convinto chi crede alla befana, visto che il Monte dei Paschi di Siena è controllato dalle istituzioni locali di Siena, in mano al Pci, poi Pds poi Pd da oltre sessant’anni. Ma non è il momento di polemiche, si tratta invece di festeggiare un fatto inaudito: il ritorno della questione morale al centro della vita politica. Vittoria nostra, nel senso delle centinaia di migliaia di cittadini che, dal “Resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli al “Palavobis” di Micro-Mega, dai girotondi alle manifestazioni di piazza contro le mafie e le leggi vergogna, per finire col martellante giornalismo-giornalismo di questa testata, non hanno mai rinunciato alla passione e al sacrificio dell’impegno, insomma alla difesa della Costituzione e alla volontà di realizzarne i valori anziché infangarli e rovesciarli, che il regime e i suoi lacché massmediatici e la sua non-opposizione ingiuriavano come moralismo d’accatto, trinariciuto giustizialismo e sanguinario giacobinismo.
La scorsa settimana la questione morale ha vinto. Vittoria provvisoria, vittoria che gli stessi che “obtorto collo” l’hanno subita, cercheranno al più presto di neutralizzare. Ma vittoria vera e inaspettata. Sia chiaro: se il Pd cancella dalle liste tre impresentabili su dieci (e oltretutto i più potenti sul territorio) è soprattutto perché ha paura che altrimenti pagherebbe dazio. Se Berlusconi ostracizza dalle liste Cosentino e Dell’Utri è esclusivamente per un calcolo di convenienza (ed è assolutamente sincero quando dice che nell’escluderli ha sofferto come a “tagliarsi una mano”). Ma proprio questa è la “nostra” vittoria, che lo facciano per interesse, non per convinzione: dieci anni di lotte, e la solitudine con cui Il Fatto è riuscito a imporre il tema degli impresentabili come inaggirabile, non sono state inutili, non sono andate disperse, si sono stratificate nelle coscienze degli elettori, che ora esigono segnali di moralità, altrimenti puniscono nel-l’urna.
Detto altrimenti: al centro delle elezioni non c’è l’“agenda Monti”, c’è l’agenda “Mani pulite”, c’è l’“agenda questione morale”, e sarà questa, insieme al lavoro e ai suoi inalienabili diritti (art. 1 della Costituzione) il banco di prova e la cartina di tornasole con cui dovranno misurarsi nella prossima legislatura tutte le forze politiche, di fronte al tribunale di una società civile sempre meno rassegnata. Che ha scoperto che lottare paga.

il Fatto 24.1.13
Il caso Mps diventa politico attacco al Pd e a Monti
Bersani in imbarazzo per i legami tra banca e partito
“La mia opinione non conta”, la destra chiede al premier di riferire sui prestiti di Stato
E Bankitalia si difende dagli attacchi di Tremonti
di Stefano Feltri e Wanda Marra


Nessuna responsabilità del Pd, per l’amor di Dio... il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche”. Pier Luigi Bersani prova a cavarsela così, rispondendo al Fatto Quotidiano sul caso Monte Paschi e sulle dimissioni di Giuseppe Mussari, l’ex presidente, dall’Associazione bancaria italiana. Eppure il suo partito è il primo a essere chiamato in causa quando i problemi finanziari della terza banca italiana entrano nella campagna elettorale. Banca notoriamente rossa. In 9 anni il solo Mussari ha donato di tasca sua ai Ds e al Pd di Siena 700 mila euro. Per non parlare degli altri dirigenti e del legame a livello locale tra le generose casse della Fondazione (l’azionista di controllo) e la politica locale.
ADESSO IL LEGAME tra sinistra e Monte Paschi inizia a diventare fonte di imbarazzo, perché la nuova gestione di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola sta rivelando i disastri passati. Come il contratto segreto sul derivato Alexandria, rivelato dal Fatto Quotidiano, che sta causando perdite di almeno 220 milioni di euro. Peccati di un passato recente, quando presidente della banca era Mussari e il Monte era un pezzo importante del sistema di potere della sinistra.
Cosa pensa Bersani di quello che sta succedendo? “Non lo so, io faccio un mestiere, le banche ne fanno un altro”, dice ai microfoni del Fatto. Almeno una parola su Mussari? “Non è la mia opinione quello che conta. Il problema è capire quello che è successo lì”. E si dice sicuro che la questione non avrà effetti in campagna elettorale.
Niente di più sbagliato. Mps è già un argomento in mano agli avversari del Pd. Il nervosismo dei Democratici è evidente. Ieri, a Omnibus su La7, Matteo Colaninno ha perso la testa quando è stato interrogato in materia. E solo alla fine è riuscito a mettere insieme un “la politica deve stare fuori dalle banche”. Si chiude in un silenzio ermetico perfino Matteo Renzi. Proprio lui, che durante la campagna per le primarie, aveva denunciato il potere forte di Mps dietro Bersani (altro che il fondo del renziano Davide Serra, ora convertito a Monti), con tanto di comizio conclusivo della campagna a Siena. Ieri sera, alle Invasioni barbariche su La7, si è limitato a dire “Ci sono delle responsabilità della poitica e di chi ha governato la città”. Ma si è ben guardato dal coinvolgere in alcun modo Bersani e il Pd. .
IL TRACOLLO DI MONTE Paschi in Borsa, che anche ieri ha perso molto, l’8,4 per cento, suscita un panico che gli avversari del Pd cercando di scaricare su Bersani. Il montiano Benedetto della Vedova dice che “la sinistra deve assumersi le sue responsabilità”, Roberto Maroni della Lega chiede che “Monti e Bersani vengano subito in Parlamento per spiegare i favori a Mps e le responsabilità del Pd nella disastrosa gestione della banca”, alludendo ai cosiddetti Monti bond, un prestito da 3,9 miliardi concesso alla banca dal governo (che incorpora anche i precedenti Tremonti bond). Beppe Grillo, che oggi arriva a siena con lo Tsunami tour elettorale e domani parlerà all’assemblea dei soci Mps, sintetizza: “Il Pd non è più un partito politico. È una banca”.
Schermaglie elettorali. Più serio il rimpallo di responsabilità finanziarie. Da Twitter l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti accusa il nemico di sempre, Mario Draghi, all’epoca dei fatti governatore della Banca d’Italia: “Data la consuetudine di scrivere ‘lettere apostoliche’ e vecchia vasta competenza derivati, stupisce mancata ‘lettera vigilanza’ Draghi a Siena”. Fulminea la replica da via Nazionale: “La vera natura di alcune operazioni riguardanti il Monte dei Paschi riportate dalla stampa è emersa solo di recente, a seguito del rinvenimento di documenti tenuti celati all’autorità di vigilanza e portati alla luce dalla nuova dirigenza di Mps”. Lo ammette il nuovo direttore generale Fabrizio Viola, in un’intervista a Sky. Ora Mps sta collaborando con la vigilanza e con la Consob, cui assicura che i 500 milioni extra di Monti bond chiesti a dicembre sono sufficienti a coprire i buchi scavati dai derivati.
DI MPS PARLANO TUTTI, è un trend topic su Twitter. Tutti tranne il governo. Non un fiato da Mario Monti o da Vittorio Grilli, ministro del Tesoro, che pure dovrebbero essere i più coinvolti nella vicenda, per il loro ruolo. Inevitabile la polemica da Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia come dal Pdl, cui non pare vero di usare la banca toscana per attaccare due avversari, Bersani e Monti, con un colpo solo.

il Fatto 24.1.13
Siena come l’aereo più pazzo del mondo
Il panico solo dopo il taglio dei fondi per il Palio
E adesso i renziani preparano l’attacco
di Giorgio Meletti


Sembra di rivedere “L’aereo più pazzo del mondo”, film comico del 1980. Lì, nel momento culminante, con il velivolo del tutto fuori controllo, il panico tra i passeggeri esplode solo quando la hostess annuncia che è finito il caffè. A Siena il segnale che la festa è finita l’ha dato il presidente del Monte dei Paschi, Alessandro Profumo, cancellando con un tratto di penna i contributi della banca alle contrade del Palio. Un dramma sociale. Ieri il Corriere di Siena, diretto dal potente massone Stefano Bisi, ha dedicato due pagine di pensosa intervista a Fiamma Cardini, priore della contrada dell’Aquila: “Spero vivamente che questa decisione venga rivista. Credo non faccia bene a nessuno un distacco dal territorio”, ha scandito la pasionaria della cavalcata a pelo.
PIÙ CHE DI TERRITORIO bisognerebbe parlare di campo di battaglia. Lo spietato annuncio di Profumo è arrivato tre giorni prima delle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato sindaco. Le ha vinte Franco Ceccuzzi, sindaco uscente, già segretario dei Ds, già parlamentare Pd, già sodale nonché testimone di nozze del reprobo, Giuseppe Mussari. Ovviamente Ceccuzzi si propone come l’uomo del rinnovamento, e chi sennò? Ma il Pd è a dir poco sfasciato. Non solo perché alle primarie di domenica scorsa sono andati a votare in 2400, un terzo di quanti sono accorsi ai gazebo per il duello Bersani-Renzi. Non solo perché Ceccuzzi ha preso 1975 voti, meno dei tesserati Pd di Siena. Ma soprattutto perché tutti sanno che il 25 febbraio, finita la disciplina da campagna elettorale nazionale, contro Ceccuzzi partirà l’assalto dei renziani.
In campo contro Ceccuzzi c’è già Bruno Valentini, 58 anni, renziano anomalo perché proveniente dal Pci, di cui è stato anche funzionario. È sindaco di Monteriggioni, uno dei pochi comuni d’Italia così sani da avere 14 milioni di liquidità in banca. Valentini ha cercato di candidarsi alle primarie di coalizione, ma per partecipare gli hanno chiesto di raccogliere 1500 voti in due giorni e mezzo. Ne ha raccolto 2200 (più dei voti presi da Ceccuzzi, esentato dalla raccolta firme come candidato ufficiale del Pd) ma fuori tempo massimo. “Hanno chiesto 1500 firme in una città di 50 mila abitanti, in Lombardia Umberto Ambrosoli ne ha dovute raccogliere 3 mila su 9 milioni di abitanti”, protesta Valentini, che aspetta il 25 febbraio per decidere la propria mossa insieme a Renzi. Due le ipotesi: o il Pd annulla le primarie e si rifanno, oppure avanti con la lista civica contro l’apparato del rinnovatore Ceccuzzi. Su questa ipotesi c’è già un’idea di alleanza con Rivoluzioni civile di Antonio Ingroia e con la lista civica senese di Laura Vigni
TANTO ORMAI nel Pd senese è rimasto poco da sfasciare. La componente ex Margherita (cioè ex Dc) dei fratelli Alberto e Alfredo Monaci è già andata: Alfredo si candida al Parlamento con Mario Monti, dopo dieci anni di totale complicità con Ceccuzzi e Mussari. Sono i monaciani ad aver fatto cadere Ceccuzzi nel giugno scorso. Sono i referenti nazionali dei monaciani a essersi adoperati perché il governo Monti rinviasse all’infinito le elezioni senesi, che Ceccuzzi voleva subito, e adesso si capisce perché.
Sono praticamente già fuori i cenniani, seguaci dell’ex sindaco Maurizio Cenni. Sono ormai fuori da anni i picciniani, seguaci dell’ex sindaco Pier Luigi Piccini, oggi segnalato dalle parti di Fli. Cenni e Piccini sono stati i potentissimi sindaci selezionati dalla Cgil tra i funzionari del Monte. Ora è tutto cambiato. Ceccuzzi rivendica la sua natura di primo sindaco “laico” dopo i decenni dei bancari Cgil, e in versione “rinnovatore” si è guadagnato l’appoggio del capo nazionale dei bancari Cgil, il dalemiano Agostino Megale. Il capo dei bancari di Siena, Antonio Damiani, è contro Ceccuzzi e appoggia Valentini. Ma pezzi della Cgil di Siena stanno con il cardiochirurgo Eugenio Neri, candidato sindaco contro Ceccuzzi, imbarazzato dalla decisione di un pezzo del Pdl, spaccato a sua volta, di appoggiarlo.
Si scannano sulla politica, i senesi, perché sul Monte l’unico che può parlare è il Papa straniero, Profumo. E gliel’ha cantata: il Monte perde sui prestiti alla clientela locale, ha detto, e negli ultimi cinque anni ha fatto dieci milioni l’anno di utili veri, distribuendone centinaia come dividendi. Un banchetto al quale pochi senesi possono dirsi estranei.

La Stampa 24.1.13
Siena, di rosso restano i conti
“Un’epoca è finita per sempre”
di Gianluca Paolucci

qui

Corriere 24.1.13
La rocca isolata del leghismo rosso
di Dario Di Vico


La relazione che ha legato Siena alla sinistra italiana la si potrebbe catalogare sotto la fattispecie del «leghismo rosso», una sorta di rapporto museale con il territorio, un’osservanza quasi religiosa delle tradizioni che alla fine ha portato alle disgrazie di oggi.
Il Monte dei Paschi, infatti, paga il mito della sua unicità, non aver voluto partecipare al processo di aggregazione delle banche italiane perché la politica locale non sopportava l'idea che la Fondazione potesse scendere nel capitale della banca sotto il 51%. I primi no risalgono alla metà degli anni Novanta quando il sistema bancario italiano inizia a fare massa critica e passa via via dalle prime aggregazioni tra piccoli istituti ad operazioni più ambiziose che vedono sposarsi Cariplo e Ambroveneto, San Paolo e Imi e segnalano l'ingresso dell'Unicredit nelle Casse di risparmio di Torino, Treviso e Verona. Fuori da questi movimenti restano sostanzialmente due banche: la Bnl che per esplicita volontà del ministero del Tesoro non dà vita al polo con Banco di Napoli/Ina e proprio il Monte dei Paschi, fedele al vincolo statutario e alla supremazia della Fondazione. Quando Siena si muove già allora si registra un capitombolo: compra a caro prezzo la Banca del Salento e si infila in una vicenda complicata. I pugliesi amano la finanza d'assalto e il Monte si trova a vendere prodotti ad alto rischio, che finiscono per animare l'attività delle Procure.
Per il catenaccio imposto dalla politica locale e dalla Fondazione il Monte diventa, senza volerlo, una banca regionale mentre i concorrenti mettono su taglia e muscoli. I vari manager che si susseguono alla guida operativa della banca Mps si adeguano per quieto vivere e quando Luigi Spaventa arriva a Siena per tentare di venire a capo dell'anomalia locale, e comincia ad assumere dirigenti dall'esterno, la comunità organizza le barricate. Una società chiusa decide di difendersi e riesce a farlo con un successo. I gruppi dirigenti della sinistra da Roma osservano e capiscono tutto ma poi si girano dall'altra parte per paura di mettere a repentaglio i rapporti con uno dei più consolidati feudi elettorali.
Passa qualche anno e Carlo Azeglio Ciampi fa approvare una riforma delle Fondazioni per riordinare i rapporti con le banche e modernizzare il sistema. Il Monte riesce a fare eccezione ancora una volta, tutti si adeguano e Siena no. Al punto che un sindaco particolarmente estroverso come Pierluigi Piccini decide che, avendo terminato il suo mandato, gli piacerebbe traslocare alla testa della Fondazione per iniziare una nuova carriera. Il ministro del Tesoro Vincenzo Visco interviene da Roma con un tackle sull'uomo ed emette un regolamento che impedisce il trasloco del sindaco e il trionfo del leghismo rosso.
È da questa vicenda che parte l'avventura di Giuseppe Mussari, il primo non senese che riesce ad arrivare al vertice della Fondazione con l'idea, per di più, che quel modello non possa funzionare all'infinito. Ma quando nel 2007 parte il round decisivo delle aggregazioni bancarie che porterà a creare due player di taglia continentale (Intesa-Sanpaolo e Unicredit-Capitalia) c'è sempre una banca che resta fuori dal giro, il Monte. L'anomalia senese riesce a resistere a tutti e tutti, niente possono la sinistra o i governatori. Mussari però non si rassegna alla taglia mignon e crede di aver trovato la strada giusta. Per effetto di una carambola bancaria che vede coinvolti gli olandesi di Abn Amro, gli scozzesi della Royal Bank e gli spagnoli del Santander la banca Antonveneta viene messa sul mercato dagli iberici che ne erano diventati padroni. È l'ultima occasione che il mercato riserva a Siena per crescere e Mussari la coglie, pur di tornare ad essere la terza banca d'Italia. Peccato che la strapaghi e peccato anche che siamo ormai arrivati alla vigilia della Grande Crisi. Passa qualche mese e la tempesta finanziaria è davanti agli occhi di tutti, i prezzi delle banche crollano e il costo dell'operazione Antonveneta condizionerà negativamente tutte le mosse successive di Mussari e del Monte. Da anomalo il caso senese diventa patologico.

Repubblica 24.1.13
Gli acrobati del denaro tra massoni e Opus Dei
È il collasso del Sistema Siena tra Pd, Opus Dei e massoneria ma sui derivati a rischio altre banche
Montepaschi Story tra risse politiche e azzardi finanziari
di Alberto Statera


L’ARCIVESCOVO senese Sallustio Antonio Bandini che “la dottrina della libertà economica insegnò per la prosperità”, come recita l’iscrizione ai piedi della sua statua dinanzi al Castellare dei Salimbeni, dovrà assistere domani, marmoreo, all’assemblea della disfatta della banca più antica del mondo.

PERCHÉ il “groviglio armonioso” prima tra aristocrazia e plebe, poi tra politica e finanza, chiesa e massoneria, banchieri e grassatori, che per cinque secoli e quaranta decenni ha governato l’enclave felix di Siena, s’infrange ora fragorosamente su una turpe storia di derivati, investimenti folli, patti scellerati e conti truccati. Un disastro che già sta costando a tutti noi 3,9 miliardi di euro di aiuti di Stato sotto forma di Monti Bond. E — peggio — che rischia di proiettare il contagio a tutto il sistema bancario italiano, che si teme non abbia fatto sufficiente pulizia nei propri bilanci, né ricapitalizzato a dovere.
Il famoso “groviglio armonioso”, definizione soave che ci scodellò il potente capo della Massoneria toscana Stefano Bisi, era già da tempo diventato bituminoso per gli scontri tra “rossi” nella città più rossa d’Italia. Rossa da sempre, ma con un potere multicolore forte e compatto intorno alla banca, in un compromesso storico di ferro. Pci, Pds, Ds, i democratici governavano comunque si chiamassero, ma facendo tutti felici nel codice che funzionava garantendo la “centralità millenaria” della banca. A Rocca Salimbeni sono tutti rappresentati: partiti, chiesa, Opus Dei, massoneria, che a Siena è il partito della della borghesia, come diceva Benedetto Croce, e anche del ceto medio impiegatizio e commerciale, secondo Antonio Gramsci. Mancano soltanto i gay, che infatti, più di una volta hanno protestato: perché la Curia ha un posto in Fondazione e noi no? E tutti hanno il loro bel tornaconto. Se, per dire, il plenipotenziario berlusconiano Denis Verdini ha bisogno di qualche milione per far fronte alla bancarotta della sua ex banchetta personale e per le costose abitudini della sua famiglia, il Monte sovviene discreto e generoso. Per non dire dei 200 milioni o giù di lì, raccolti in tutta Italia, ma distribuiti dalla Fondazione a pioggia intorno a Piazza del Campo per garantire il benessere dei 55 mila abitanti.
Ma quando la banca entra in sofferenza, il “Sistema Siena” inevitabilmente si sfalda. Nel maggio scorso si dimette dopo pochi mesi dall’elezione il sindaco Franco Ceccuzzi per le risse tra le varie anime del Pd, dalemiani, bindiani, ex margheritini. In quegli stessi giorni, dopo le dimissioni di Giuseppe Mussari, arriva a Siena il nuovo presidente Alessandro Profumo, praticamente insieme a un plotone di finanzieri che, salita la Scala d’Oro realizzata dall’architetto Spadolini (così battezzata per i costi stratosferici), irrompe nel Sancta Santorum dirigenziale del Monte. Trovarono già allora le carte segrete dell’operazione Alexandria, tossiche obbligazioni “salsiccia” — piene di schifezze — per nascondere le cui perdite il Monte si è indebitato per 700 e passa milioni con Nomura? Possibile, visto che la notizia del contratto segreto con Nomura era già comparsa in un blog senese nel marzo precedente. O forse, quella cassaforte non si aprì allora ai finanzieri, che cercavano ancora prove sulle code della stagione dei furbetti del quartierino, quando il Monte acquistò l’Antonveneta dalla Santander: 9 miliardi, quasi 3 in più di quanto pochi mesi prima l’aveva pagata agli olandesi la banca spagnola vicina
all’Opus Dei. Corse una stecca da un miliardo e mezzo? O fu solo velleitarismo da piccola capitale bancaria del mondo, ansiosa di scalare la terza posizione tra le banche nazionali, dopo Intesa San Paolo e Unicredit? «Noi siamo lupi, non pecore o orsacchiotti, come diceva Troisi, non ci facciamo mangiare, siamo noi che mangiamo», ringhiò l’allora sindaco Maurizio Cenni. Lupi sospettati che non hanno perso il vizio fin da quando fu acquistata per 2.500 miliardi di lire la Banca del Salento e il dominus dalemiano Vincenzo De Bustis andò a sedersi a Rocca Salimbeni con tutta la sua corte.
«La nostra operazione su Antonveneta — ci disse allora Mussari — è stata fatta senza furbi, furbetti e furbacchioni». E allora perché? Forse in onore alla vocazione ecumenica del Sistema Siena che allineava in quell’operazione la banca veneta dei cattolici, i calvinisti olandesi dell’Abn Amro, gli opusdeisti spagnoli del Santander e infine, a prezzi d’affezione, i “rossi” senesi. Ma nonostante i disastri evidenti e il vulnus “reputazionale”, Mussari fu eletto presidente della potente Associazione Bancaria, pare con scarse opposizioni, tra le quali — a quel che si disse — quella del presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo, Giovanni Bazoli.
Il Sistema Siena, tra risse politiche e scandali finanziari, sembra ormai al collasso, in una condizione di depressione e incertezza dell’intero paese e alla vigilia di elezioni che non si sa se garantiranno non solo governabilità, ma un’effettiva volontà di arretramento della politica da tutto il sistema creditizio con le sue Fondazioni. Come non pensare che gli analisti del Fondo Monetario Internazionale, giunti in Italia proprio ieri, nel giorno del Monte, non si pongano qualche domanda sulla tenuta dell’intero sistema? Se il Monte fosse la punta di un iceberg? Da nord a sud molte banchette sono in amministrazione straordinaria per la gravità delle perdite patrimoniali o per violazioni normative. Ma anche le grandi non stanno tanto bene. La Banca d’Italia garantisce che la quota di derivati degli istituti italiani non supera l’1,6 per cento del valore complessivo dei tredici principali paesi, ma la Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme perché le grandi banche mondiali sono tornate a speculare sui mercati alla vecchia maniera, non hanno fatto pulizia, né ricapitalizzato a sufficienza confidando sugli aiuti di Stato.
Qualcuno ha detto che l’arretratezza del nostro sistema creditizio, fatto di banche piuttosto provinciali, ci ha salvato dai grandi default avvenuti altrove. Ma lo scandalo del Monte dei Paschi, con l’accordo segreto tenuto in cassaforte per anni, ridicolizza la tesi consolatoria. In due anni i crediti in sofferenza delle banche italiane sono raddoppiati: da 75 a 121 miliardi e non bastano più gli artifici contabili per salvarne i bilanci. Alcune hanno aumentato gli accantonamenti, ciò che chiede il Fondo Monetario, altre non lo hanno fatto a sufficienza. Se svalutassero correttamente i crediti dubbi, accuserebbero perdite per 23 miliardi, che potrebbero salire a 32 per la recessione e la crisi del mercato immobiliare. Per questo la Bri raccomanda “una sana azione pubblica” che imponga regole più stringenti sul controllo dei rischi e più partecipazione alle perdite degli azionisti e non dei contribuenti.
Lo scandalo di Siena fa nascere naturalmente altri sospetti. Infondati, è da sperare. Altrimenti non c’è che da rivolgersi alla Madonna della Misericordia affrescata da Benvenuto di Giovanni del Guasta a Rocca Salimbeni.

Repubblica 24.1.13
Stefano Fassina, responsabile economico del Pd: le scelte sono state fatte dai manager
“La politica non c’entra, troppi sciacalli in giro”
di R. Ma.


ROMA — Lo scandalo Mps non è anche un caso politico?
«No — risponde Stefano Fassina, responsabile economico del Pd — . Questa vicenda nasce dalle scelte dei manager e sarà la magistratura ad accertare se sono state corrette o meno. Non c’è alcuna matrice politica ».
Eppure c’è un intreccio fortissimo tra la banca, la Fondazione che ne è l’azionista di riferimento, e il Comune di Siena, da sempre espresso dalla sinistra, che a sua volta la controlla. Tutte colpe di Mussari o di un sistema di potere?
«Mps ha un legame con la sua Fondazione di origine bancaria come ce l’hanno tutti i grandi istituti di credito italiano».
Beh, nessun’altra ha quasi il 35 per cento.
«I legami sono molto stretti dovunque, al di là della quota azionaria ».
Certo attraverso le Fondazioni i partiti continuano ad esercitare un’influenza diretta sulla gestione delle banche. Questo è positivo?
«Io credo che le Fondazioni abbiano svolto un ruolo complessivamente positivo, sono stati investitori stabili e se il sistema bancario italiano è migliore rispetto a quello di altri Paesi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, affidato esclusivamente a meccanismi di mercato, forse lo si deve proprio al ruolo delle Fondazioni».
Pensa che ci sia la possibilità di un commissariamento del Monte?
«Grazie alle scelte coraggiose compiute dal sindaco uscente Franco Ceccuzzi, che ha affidato a manager indipendenti e capaci come Fabrizio Viola e Alessandro Profumo la guida dell’istituto, penso che il piano industriale sia in grado di far uscire Mps dalla sua crisi».
Insomma, tutta la responsabilità è di Mussari?
«La responsabilità è del management della banca. Pd o altri non c’entrano nulla».
C’è chi dice: si salva il Monte con i soldi dell’Imu.
«Chi fa queste affermazioni o è inconsapevole oppure è in malafede. Mps dovrà restituire i Tremontibond e lo Stato incasserà interessi molto alti».
La vicenda Mps peserà sulla campagna elettorale?
«Vedo tanti sciacalli che stanno cercando di strumentalizzare questa vicenda chiamando in causa il Pd. Mi dispiace che lo faccia anche chi dovrebbe avere una moralità diversa ».
Con chi ce l’ha?
«Ingroia ha detto cose molto pesanti, del tutto ingiustificate».

il Fatto 24.1.13
La Cgil ha l’agenda per Bersani: la patrimoniale
Il “Piano del lavoro” del sindacato punta a evitare l’abbraccio con il Prof
di Salvatore Cannavò


L’agenda della Cgil per Pier Luigi Bersani ha un sapore antico. Si chiama “piano del Lavoro” in omaggio al sindacalista Giuseppe Di Vittorio che ideò lo slogan nel 1949 per fronteggiare la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi. La proposta, che sarà illustrata in una conferenza programmatica venerdì e sabato prossimi al Palalottomatica di Roma – e che abbiamo letto in anteprima – avrà di fronte, molto probabilmente, un governo amico su cui il sindacato punta molto. La proposta della Cgil, però, costa almeno 50 miliardi, prevede una patrimoniale e mette in discussione alcuni trattati europei. In una prospettiva di alleanza con Monti non sarà agevole da sostenere.
IL PIANO è basato su interventi mirati alla creazione di posti di lavoro e, per questa via, alla rimessa in moto dell’economia. Una sorta di “New deal” ipotizzato per un periodo che va “dai tre ai cinque anni” in cui sono previsti diversi interventi. Da un lato l’assunzione diretta per la “bonifica” del territorio, ma anche “un concorso straordinario per l’assunzione di giovani nelle pubbliche amministrazioni”. Poi interventi strutturali: sulla cultura, nel paese “con il più alto numero di siti Unesco nel mondo”, sulla scuola pubblica, con la proposta di portare a 18 anni l’età scolastica obbligatoria, sul welfare introducendo ammortizzatori più universali come il “reddito di continuità” tra un lavoro e l’altro. Un ruolo centrale è dato all’edilizia: per prevenzione antisismica, messa in sicurezza degli edifici scolastici, riqualificazione urbana. Ma il lavoro va creato anche potenziando il trasporto pubblico locale, le infrastruture per la logistica, il sistema dei porti, le reti infrastrutturali. L’attuazione è de-mandata a “linee di cofinanziamento pubblico-pubblico e pubblico-privato”, supervisionate da Progetti operativi definiti da Stato, Regione e Enti locali. L’attivazione del Piano “potrebbe generare nuova crescita per 3,1 punti” del Pil, un aumento dell’occupazione del 2,9% e una riduzione della disoccupazione entro il 2015 al 7%”.
PROPOSTE impegnative, ma chi paga? La Cgil avanza una proposta dettagliata: 40 miliardi possono provenire da una “riforma organica del sistema fiscale” in cui lotta all’evasione, rimodulazione delle aliquote, imposta sulle rendite finanziarie al 20% si sommano alla proposta fondamentale: “L’imposta strutturale sulle Grandi Ricchezze (Igr) a sostituzione dell’Imu”. Insomma, la patrimoniale. La stessa che Bersani ha recentemente escluso. Altre risorse vengono indicate dalla “riduzione dei costi della politica e degli sprechi” (20 miliardi, anche se generici), dal riordino delle agevolazioni e trasferimenti alle imprese (10 miliardi) dall’utilizzo delle risorse “delle fondazioni bancarie” (nessuna stima), dall’utilizzo dei Fondi pensione verso i nuovi investimenti, dalla “Cassa Depositi e Prestiti” che deve utilizzare le proprie risorse per investimenti strategici. Infine, una proposta piuttosto “hard” su scala europea: “L’acquisto da parte della Bce – modificandone lo statuto e i trattati istitutivi – di titoli di Stato per 1.900 miliardi di euro” su scala europea, e il loro “contestuale annullamento”. Una sorta di “mutualizzazione” spiegano in Cgil, dello stock del debito che però “sarebbe fatta per la prima volta nell'interesse di tutti i paesi dell’Eurogruppo, Francia e Germania in testa”.
IL“PIANO”verrà presentato venerdì al quadro intermedio del sindacato, a economisti ma soprattutto agli interlocutori politici, Pier Luigi Bersani in testa. Il quale prenderà appunti e dovrà in qualche modo tenere conto dell’orientamento sindacale visto il supporto ricevuto sia alle primarie che nella campagna elettorale. L’obiettivo della Cgil è cercare di vincolare il più possibile il segretario Pd sperando di evitare l’abbraccio con Monti. Ma è sul sostegno al Pd che attacca la minoranza interna. Gianni Rinaldini va giù duro: “La Conferenza e il suo programma sono a titolo personale dei componenti la segreteria”. Parlando con Il Fatto è ancora più esplicito: “La campagna elettorale per il Pd è evidente con la speranza di poter avere un governo amico e magari Epifani ministro del Lavoro”. Rinaldini insieme con Giorgio Cremaschi, ha protestato per gli inviti alla Conferenza rivolti solo a Bersani e Vendola. Ma in Cgil respingono le accuse: abbiamo invitato tutti, anche Ingroia e Tabacci. Tra gli ospiti c’è anche Giuliano Amato, considerato interlocutore utile per la patrimoniale. Ma è ancora la minoranza interna a sospettare che dietro questa mossa ci sia un implicito appoggio a quella che potrebbe essere la prossima missione dell’ex presidente del Consiglio: la campagna per il Quirinale.

Corriere 24.1.13
Il «Piano del lavoro»
La Cgil fa la sua agenda. I dubbi nel Pd sull'«abbraccio» Da Bersani sostegno a Camusso Le perplessità di Fioroni e Renzi
di Maria Teresa Meli


Al Palalottomatica «Il Piano del lavoro. Creare lavoro per dare futuro e sviluppo al Paese»: è la conferenza programmatica della Cgil che si terrà al Palalottomatica di Roma domani e venerdì

Sarà il segretario generale Camusso a presentare il nuovo «Piano del lavoro» della confederazione, dopo quello del 1949 portato dall'allora leader Giuseppe Di Vittorio a Genova ROMA — Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola e Susanna Camusso. Tutti insieme, appassionatamente al Palalottomatica, dove domani e dopodomani la Cgil presenterà il «Piano Lavoro», che nelle intenzioni del più grande sindacato italiano dovrebbe essere adottato dal governo del centrosinistra che verrà.
Il primo commento a questa iniziativa che vede il Pd scendere in campo con la Cgil, criticata aspramente in questi giorni sia da Mario Monti che da Beppe Grillo, è affidato a poche incisive righe: dopo quella di Vasto «sarà scattata una nuova foto, al palazzo dello Sport dell'Eur. Tutta di sinistra». A mettere nero su bianco questa affermazione non è un Berlusconi furioso in una delle tante dichiarazioni che rilascia quotidianamente in campagna elettorale. E nemmeno il presidente del Consiglio nel tentativo di convincere i moderati che votare la sua lista non equivale a votare per il Partito democratico. No, queste parole rappresentano la chiusa di un articolo del vicedirettore di Europa, Mario Lavia, che è stato pubblicato ieri dal giornale del Pd.
Ed effettivamente il rischio di un «abbraccio mortale» che schiacci Bersani a sinistra c'è. Ne è ben conscio lo stesso segretario che in tutto questo periodo con sapienza e pazienza ha lavorato per evitare questo pericolo. Ma quello di Camusso era un invito a cui il leader dei Democrat non poteva certamente opporre un rifiuto.
È un'iniziativa, quella della Cgil, a cui prenderà parte anche il ministro Fabrizio Barca, che secondo una vulgata in auge a Largo del Nazareno potrebbe essere il prossimo segretario del Pd. Il sì, dunque, era scontato. E non solo per motivi di opportunità: impossibile marcare le distanze con la Cgil in una campagna elettorale in cui il Partito democratico deve fare il pieno a sinistra ed evitare che Antonio Ingroia strappi consensi nelle due regioni chiave di queste elezioni, ossia la Lombardia e la Sicilia. Lì dove Silvio Berlusconi sta puntando tutte le sue carte per ottenere il pareggio al Senato. Ed è infatti solamente per vincere in Lombardia che l'ex premier ha «sacrificato» Nicola Cosentino su consiglio della sua sondaggista di fiducia Alessandra Ghisleri. Le ragioni dell'abbraccio con Camusso, quindi, sono anche altre. Con tanto di nome e cognome: Guglielmo Epifani. L'ex leader della Cgil che il segretario del Partito democratico ha fortissimamente voluto nelle sue liste, mettendolo d'ufficio nell'elenco dei garantiti, dovrebbe essere uno dei ministri del governo del centrosinistra. Sul suo nome c'è, ovviamente, la convergenza di Susanna Camusso, ma anche quella del governatore della giunta regionale pugliese Nichi Vendola.
Sarà perciò interessante l'appuntamento dell'Eur. In quella platea faranno la loro parte il futuribile presidente del Consiglio Bersani, il suo vicepremier Vendola, il ministro Epifani e Barca, cioè il segretario che verrà sancito dal congresso del Partito democratico del 2013. Ma come sempre accade nel Pd non mancano le perplessità sull'abbraccio con la Cgil. Gli ex popolari con Beppe Fioroni mettono le mani avanti: «Nella prossima legislatura il Pd avrà più bisogno della Cisl che della Cgil», avverte il leader degli ex ppi, che preannuncia un'iniziativa di Raffaele Bonanni al fianco del candidato dei Democrat alla presidenza della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Ed effettivamente Bersani ha fatto di tutto per evitare di rompere con la Cisl e di regalare questo sindacato a Monti. Come dimostra la candidatura nelle liste del Pd del numero due di Bonanni, Giorgio Santini. Tiepido, per non dire freddo, anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi. Ma in questa fase il primo cittadino del capoluogo toscano ha deciso di non tirare troppo la corda, perciò evita lo scontro interno, anche se si lascia sfuggire un «comunque evitiamo di fare alzare troppo la cresta a Vendola». Ossia evitiamo di appiattirci eccessivamente a sinistra, anche se sono i voti di Ingroia quelli che adesso vanno cercati.
E che cosa ha da dire la parte più rappresentativa dell'ala filo-Monti del Pd? Per ora da Enrico Letta a Paolo Gentiloni i montiani del Partito democratico hanno deciso di aspettare di vedere quello che accadrà al Palalottomatica. Il loro timore è in realtà un altro e riguarda l'anno prossimo: nel 2014 la situazione dei rapporti tra Cgil e Pd sarà ancora più difficile da gestire, visto che per il diciassettesimo congresso del sindacato si sta scaldando a bordo campo l'attuale leader della Fiom Maurizio Landini.

il Fatto 24.1.13
Aerei F-35, l’accordo Italia-Usa firmato dal Pd


“BISOGNA assolutamente rivedere e limitare le spese militari degli F-35 perché le nostre priorità sono altre. La nostra priorità non sono i caccia ma il lavoro”.
(Pier Luigi Bersani 22/01/2013)

TAGLIARE le spese per l’acquisto dei cacciabombardieri F-35. Il segretario del Partito democratico azzecca la mossa elettorale toccando un tema sensibile per larga parte dell’elettorato, ma dimentica alcuni particolari del recente passato riguardanti il suo stesso partito. L’accordo Italia-Usa per l’acquisto degli F-35 - per esempio - risale al 2007 e porta la firma di Lorenzo Forcieri del Partito democratico. L’Italia, inoltre, ha già speso 2,7 miliardi di dollari per comprare i cacciabombardieri senza che il Pd si sia mai opposto e il ministero della Difesa, nel 2012, ha già ordinato tre F-35 impegnando 270 milioni con il pieno consenso in Parlamento del Partito democratico. Sempre nel 2012 (il 28 marzo) il Partito democratico ha poi votato contro una mozione che proponeva la cancellazione del programma F-35.

l’Unità 24.1.13
La Cassazione e l’assistenza sanitaria per i migranti
di Luigi Manconi e altri


La Corte Costituzionale, con sentenza numero 4 del 2013 ha dichiarato illegittima la legge 44 della regione Calabria (dal titolo Norme per il sostegno di persone non autosufficienti Fondo per la non autosufficienza), nella parte in cui stabilisce che, per godere dei benefici previsti da quella legge, le persone immigrate residenti in Italia devono essere titolari di «regolare carta di soggiorno».
Tale pronuncia richiama la numero 61 dell’anno 2011 in cui veniva stabilito che gli stranieri in possesso di un valido titolo di soggiorno dovevano poter godere, «senza particolari limitazioni», dei diritti fondamentali della persona come è previsto per i cittadini italiani. Viene specificato, inoltre, che la dicitura «carta di soggiorno», utilizzata nella legge calabrese in questione, è «atecnica» poiché superata dalla nuova denominazione «permesso di soggiorno di lungo periodo».
Ma c’è di più. La norma censurata non risulta rispettare l’articolo 41 del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, in cui i titolari di permesso di soggiorno di durata annuale sono equiparati ai cittadini italiani per quanto riguarda la fruizione delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale.
La Corte dichiara l’illegittimità anche per contrasto all'articolo 3 della Costituzione (diritto di uguaglianza): «... La discriminazione introdotta dalla disposizione censurata risulterebbe lesiva anche dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza (articolo 3 Cost.), essendo basata su un elemento di distinzione arbitrario. Come rilevato dalla Corte costituzionale in rapporto ad analoghe norme regionali (sentenza n. 40 del 2011), non vi sarebbe, infatti, alcuna ragionevole correlazione tra il requisito di accesso ai benefici (possesso, da parte dello straniero, del «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo») e le situazioni di bisogno e di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto di fruibilità delle prestazioni sociali».
Ed è proprio così. Chi necessità di cura ed assistenza, ed è in condizioni di reddito insufficienti a rispondere a queste esigenze, non può rinunciare a farvi fronte solo perché sprovvisto di quel tipo di permesso di soggiorno. La condizione giuridica non può prevaricare su quella psico-fisica.
Se così fosse, come proposto dalla legge della Calabria, si tratterrebbe, come è stato messo in evidenza, di misure ingiuste e irragionevoli. Per fortuna a denunciare tale iniquità è stato il Consiglio dei ministri che ha perciò chiesto il parere della Consulta nel febbraio del 2012. Finalmente, dopo quasi un anno, lo scorso 14 gennaio chiarezza è stata fatta.

Corriere 24.1.13
Il funerale di un brigatista: perché è meglio parlarne
risponde Sergio Romano


Mi chiedo se le pagine dedicate dal Corriere alla cronaca dei funerali del brigatista Gallinari non costituiscano apologia di reato. Una volta, quando i principi morali come il rispetto della vita altrui, costituivano i riferimenti del vivere sociale, le notizie sulla morte di un assassino non sarebbero mai state riportate sulle pagine di un giornale serio se non in quella dei necrologi. Ignorare l'avvenimento avrebbe costituito la giusta valutazione per le azioni disdicevoli commesse e per l'esecutore delle stesse.
Pietro Guariglia

Caro Guariglia,
Ho dovuto abbreviare la sua lettera, troppo lunga per questa rubrica, ma spero di avere salvato i suoi sentimenti e i suoi argomenti. Anch'io sono rimasto sorpreso dalla partecipazione al funerale di Prospero Gallinari, condannato all'ergastolo per l'assassinio di Aldo Moro. Ma non penso che un giornale nazionale abbia il diritto di censurare un avvenimento soprattutto quando serve a meglio comprendere quali furono i caratteri del terrorismo italiano e quanto grande il rischio corso dal Paese fra il 1968 e il 1982.
Abbiamo chiuso la partita e regolato i conti, sul piano giudiziario, con una buona parte delle persone che parteciparono agli attentati terroristici. Non possiamo dimenticare tuttavia che dietro quegli uomini e quelle donne vi fu un movimento di opinione, minoritario ma influente, che nasceva da una analisi politica, sia pure sbagliata, che sedusse molti intellettuali, creò intorno ai «militanti delle organizzazioni combattenti» (come erano spesso definiti) un'area di simpatia e una più larga zona di neutralità. In uno dei primi saggi storici apparsi dopo la fine di quella fase (Storia del partito armato, Mondadori 1986), Giorgio Galli ha ricostruito molto bene il clima intellettuale della fine degli anni Sessanta. Vi era un editore, Gian Giacomo Feltrinelli, che credeva nella minaccia di un colpo di Stato reazionario e proponeva la creazione di gruppi armati rivoluzionari in Sardegna, sugli Appennini, in alcune grandi città. Vi erano ambienti comunisti che pensavano nostalgicamente agli anni della Resistenza e volevano riprendere le armi per «completare l'opera». Vi era una galassia anticapitalista in cui erano finiti, alla rinfusa, trozkisti, stalinisti, ammiratori di Mao Zedong e della rivoluzione culturale cinese, di Fidel Castro e della rivoluzione cubana, di Che Guevara e del suo tentativo di dare fuoco all'America Latina. Vi era una componente cattocomunista, ispirata da attese messianiche. Vi era una componente anarchica e anarco-sindacalista per cui, come ricorda Galli, la migliore propaganda è il «fatto», vale a dire il ricorso all'azione armata.
Mi sembra che dal funerale di Prospero Gallinari emergano alcune constatazioni interessanti. La presenza di un folto gruppo di amici conferma che i militanti e i simpatizzanti furono numerosi. Sono in buona parte vecchi, e questo dovrebbe tranquillizzarci. Ma le loro idee continuano a circolare e riappaiono nei no-global, nei no-tav, in alcuni centri sociali e nei gruppuscoli rivoluzionari a cui la polizia ha dato la caccia negli ultimi anni. Vi è nella società italiana un virus anti-istituzionale che sarebbe pericoloso ignorare. Come potremmo ragionare di tutto questo, caro Guariglia, se il Corriere avesse censurato il funerale di Reggio Emilia?

l’Unità 24.1.13
Israele, Netanyahu cerca la grande intesa
Parlamento spaccato a metà. Il premier uscente ha una flebile maggioranza  e corteggia il centro
L’Anp: dialogo ma prima il riconoscimento
di Umberto De Giovannangeli


Doveva essere una «passeggiata trionfale«. Si è trasformata in una «Via Dolorosa» per Benjamin Netanyahu. Il nuovo Parlamento israeliano partorito dalle urne appare spaccato a metà: i risultati vedono il blocco dei partiti confessionali e di destra conquistare 60 seggi su 120. A uscire a sorpresa come il vero vincitore è invece il nuovo partito centrista laico Yesh Atid, del giornalista tv Yair Lapid. La ripartizione dei 120 seggi della Knesset è però ancora provvisoria. Ulteriori aggiustamenti saranno apportati nei prossimi giorni, dopo lo spoglio delle schede degli israeliani residenti all’estero e con la spartizione dei voti andati alle liste non rappresentate in parlamento.
LE DUE REALTÀ
La lista Likud-Beitenu frutto del patto tra Netanyahu e il suo ex ministro degli Esteri, il falco Avigdor Lieberman conquista 31 seggi. Subito dopo ci sono appunto i centristi di Lapid (19 seggi), mentre i Laburisti di Shelly Yachimovich si piazzano terzi guadagnando 15 seggi. Il risultato dell’altra star delle elezioni, il nazionalista religioso Naftali Bennett, di Bayit HaYeudì, si ferma a 11 seggi. Proprio come i religiosi dello Shas. A seguire la sinistra pacifista del Meretz (6 seggi); i centristi di Hatnuah dell’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni (6 seggi). Quattro i seggi per Hadash mentre Kadima, che rischia di non passare il quorum, si ferma a due. Tra la destra religiosa lo Shas avrà 11 deputati, la United Torah Judaism 7. Le formazioni arabe-israeliane hanno conquistato in totale 12 deputati: 5 la United Araab List, 3 Balad, 4 Hadash. La strada per il favorito Bibi come è familiarmente chiamato in Israele sembra dunque complicarsi e di molto.
Il premier già l’altra sera ha cantato vittoria («È chiaro che gli israeliani hanno deciso che vogliono che continui a fare il primo ministro»), ma si è subito premurato di avvertire che il suo dovrà essere un governo di coalizione, «la più ampia possibile». Le priorità del governo di cui Netanyahu si sente già premier sono cinque: «In primo luogo bisogna impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari». Gli altri pilastri della futura grande coalizione sono la «responsabilità economica» un modo velato per suggerire che non potrà cooperare con i laburisti di Yachimovich, fautori di un programma di interventi sociali e pubblici più robusti la «responsabilità politica», prendendo le distanze dalla destra più oltranzista, la necessità di puntare ad una «giustizia nel fardello» ossia alla necessità che i doveri, fra cui il servizio militare, siano spartiti in maniera più equa fra laici e religiosi zeloti e la lotta al caro vita, e in particolare all’emergenza casa. Netanyahu guarda in particolare a Lapid per formare il nuovo governo. Ma Lapid ha già fatto sapere che potrebbe rientrare in un esecutivo solo se questo si impegnerà ad apportare cambiamenti economici e a riprendere seriamente i colloqui di pace con i palestinesi, in stallo dopo i quattro anni di amministrazione Netanyahu. Al tempo stesso, il leader del secondo partito d’Israele ha escluso di voler formare un fronte anti-Netanyahu per guidare eventualmente un governo alternativo alla destra. Astro nascente, ma già politico «consumato», Lapid manda un messaggio a Netanyahu: se mi vuoi nell’esecutivo, il prezzo in programma e in dicasteri sarà molto alto. Si inaugura dunque una stagione di trattative e compromessi prima di arrivare alla formazione del nuovo esecutivo: esattamente il contrario di quello che si attendeva Netanyahu, che per tutta la campagna elettorale aveva chiesto una premiership forte con una nazione unita dietro di lui in modo da poter affrontare le numerose sfide che attendono Israele.
LA STAMPA
I quotidiani ieri mattina riferivano con titoli vistosi del successo elettorale del partito centrista Yesh Atid e della severa flessione patita da Likud-Beitenu di Benyamin Netanyahu e Avigdor Lieberman. Il filo-governativo Israel ha-Yom titola: «La sorpresa di Lapid, la delusione del Likud». Nelle pagine interne il giornale riferisce che «Il Likud è sotto shock: la campagna elettorale ha fallito». In maniera simile, Haaretz titola: «Successo drammatico di Lapid, delusione nel Likud». Così pure Yediot Ahronot: «Duro colpo per Netanyahu, il balzo di Lapid».
Le elezioni israeliane viste da Ramallah. «I palestinesi sono pronti a lavorare» con qualunque governo israeliano che riconosca «lo Stato della Palestina»: a dichiararlo è il ministro degli Esteri dell’Anp, Ryiad Al Malki. «La Palestina è pronta a lavorare con qualsiasi governo israeliano che sarà formato, a condizione che rispetti le risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu che ha reso reale lo Stato della Palestina, così come le frontiere precedenti al 1997», ha spiegato il ministro davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

l’Unità 24.1.13
Zahava Gal On
È leader del Meretz partito della sinistra laica e pacifista israeliana: alle ultime elezioni ha raddoppiato i propri seggi
«Il voto ha riaperto i giochi per il dopo Bibi»
di U.D.G.


Ora i giochi sono riaperti. Israele non ha consegnato il suo futuro a Benjamin Netanyahu. È possibile creare un governo alternativo a quello “Biberman”». A sostenerlo è Zahava Gal-On, la combattiva leader del Meretz, la sinistra pacifista israeliana. In queste elezioni, il Meretz ha raddoppiato la propria rappresentanza parlamentare, passando da 3 a 6 seggi.
Qual è il segno politico più significativo di queste elezioni?
«È il ridimensionamento dei disegni di grandezza di Netanyahu. Israele non ha affidato il suo futuro a un uomo che ha una concezione “proprietaria” del potere, un uomo che ha isolato come mai Israele nel consesso internazionale e che, sul piano interno, ha determinato, con una scellerata politica iper liberista, profonde fratture all’interno della società israeliana. Ora i giochi si sono riaperti. È possibile creare un governo alternativo a quello “Biberman” (Netanyahu-Lieberman, ndr)».
Aldi là dei calcoli dei seggi e delle manovre del dopo voto, qual è, a suo avviso, l’aspetto del voto che più le dà speranza?
«La maturità del voto. Il fatto che una parte significativa dell’elettorato israeliano abbia rifiutato di restare prigioniero di quel mix di paura e arroganza, di estremizzazione del concetto di sicurezza e di messianesimo religioso che connota l’ideologia della destra ultra nazionalista. In questa campagna elettorale, nei mesi che l’hanno preceduta, c’è chi ha lavorato per seminare odio, per dipingere l’avversario come nemico da mettere ai margini, con ogni mez-
zo. Dalle urne è emerso un Israele che investe sul futuro, che intende difendere i diritti sociali e civili, che non considera gli anziani, le madri single, i giovani che si battono per non essere condannati al precariato a vita, come dei fardelli di cui disfarsi. È l’Israele che non fa della religione un dogma assoluto, che contrasta l’idea che la Torah si faccia Stato. È l’Israele che crede sia più importante difendere Medinat Israel (lo Stato d’Israele) piuttosto che Eretz Israel (la Terra d’Israele). È l’Israele che non odia».
Nelle sue prime dichiarazioni post voto, Netanyahu parla da primo ministro in pectore e afferma di voler lavorare per realizzare un’ampia coalizione. Qual è la sua risposta?
«No, grazie. Il nostro impegno oggi è quello di verificare la possibilità di dar vita a un governo alternativo a quello Netanyahu. E se ciò non sarà possibile, costruire un’opposizione unita, capace di rappresentare da subito un’alternativa. Quanto alle avance di Netanyahu, voglio vederlo mettere allo stesso tavolo l’ultradestra di Naftali Bennett, gli ultraordossi di Shas e poi chiedere alle forze moderate, centriste di far parte di questa compagnia di ventura. Il collante usato da Netanyahu e Lieberman è quello della spartizione del potere, ma oggi quel collante è molto usurato».
Nel motivare la necessità di un’ampia coalizione, Netanyahu ha posto l’accento sulla necessità di far fronte alla minaccia iraniana.
«Siamo alle solite. Bibi agita la “Minaccia esterna” per giustificare l’emergenza nazionale. Per quanto ci riguarda, non cadremo in questa trappola».
In questa campagna elettorale la questione palestinese è stata rimossa. «Non certo da noi. Ai palestinesi dobbiamo offrire una chance negoziale, per dimostrare che esiste una terza via tra terrore e rassegnazione: la via del dialogo che porti all’unica pace possibile: quella fondata sul principio “due Stati per due popoli”. La nascita di uno Stato palestinese non è una concessione che Israele fa, tanto meno è un cedimento al “nemico”. È esattamente l’opposto: la creazione di uno Stato palestinese è l’unico modo per non erodere le basi della nostra democrazia. Perché non si possono rivendicare diritti a Gerusalemme e negarli a venti chilometri di distanza, a Ramallah».
Prima del voto, Netanyahu aveva ribadito che un governo da lui guidato non smantellerà neanche un insediamento. «Ragione in più per lavorare ad un’alternativa. Pace e colonizzazione sono tra loro inconciliabili. È bene ribadirlo oggi, quando i giochi politici si sono riaperti».

il Fatto 24.1.13
“Il premier nelle mani di Lapid”
L’analista Levy: la gente voleva un volto nuovo
di Roberta Zunini


Il volto affascinante alla George Cloney, la fama ottenuta grazie alla conduzione del più popolare talk show tv e la campagna elettorale basata sulla denuncia dell’iniquità fiscale e dei privilegi di cui godono gli ortodossi, esentati dal sevizio militare e stipendiati a prescindere dallo Stato, per poter continuare a studiare i testi sacri dell’ebraismo, sono stati, secondo Gideon Levy, gli ingredienti che hanno consentito a Yair Lapid di essere il vero vincitore di queste elezioni. Il noto commentatore politico del quotidiano Haaretz, legge il successo del partito Yesh Atid, fondato l’anno scorso dal giornalista, come un voto di protesta e di insofferenza nei confronti di Netanyahu e della politica. “La gente era stufa delle solite facce, di Netanyahu che incarna il mestierante della politica, delle agevolazioni date agli ortodossi che non pagano le tasse e vengono persino esentati dalla leva, così hanno votato Lapid. Il partito è, per ora, solo un suo riflesso”. Levy sostiene che la futura coalizione di governo non potrà prescindere dal nuovo leader del ceto medio. “È lui l’ago della bilancia. A mio avviso Lapid accetterà di entrare in coalizione e otterrà il ministero degli Esteri”.
L’ANALISI DI LEVY mostra un elettorato deluso dalla politica, arrabbiato nei confronti del premier uscente che ha ridotto lo Stato sociale attraverso le sue politiche economiche liberiste. “I giovani non riescono a pagare gli affitti mentre le tasse vengono alzate. Per questo buona parte degli elettori hanno scelto un partito senza ideologie, che promette attenzione per i problemi reali della gente comune”. E per depotenziarlo, tenteranno di dargli il ministero degli Esteri. “Visto che non potrà fare a meno della sua presenza, Netanyahu cercherà di usarlo come foglia di fico per smorzare la tensione tra lui e il presidente Obama, sulla questione dei negoziati con i palestinesi, anche se a lui in realtà non importa nulla del processo di pace, come del resto si è capito non importa alla maggior parte degli elettori israeliani”. Lapid infatti è perfetto come specchietto per le allodole: nel suo programma i negoziati non erano una priorità, non vuole smantellare le colonie e dice che è a favore dei due Stati solo per evitare che la crescita demografica araba metta in pericolo il carattere ebraico di Israele”.

il Fatto 24.1.13
“C’è futuro” per Netanyahu costretto alla coalizione di centro
Probabile accordo con il partito-sorpresa del presentatore tv
di Cosimo Caridi


Gerusalemme La prima telefonata di Netanyahu dopo la pubblicazione degli exit poll è stata per Yair Lapid, l’ex conduttore tv che da ieri sera tiene in scacco la politica israeliana. Al quartier generale del Likud Beitenu al solo sentire il nome di Lapid le facce si tendono. Tutti si aspettavano una vittoria secca della destra: i sondaggi, i media e gli analisti erano certi che Netanyahu non avrebbe potuto confermare i suoi 42 parlamentari, ma nessuno è risuscito prevede un 20% in meno.
La conta dei voti è: 60 seggi per la destra e 60 per la sinistra. Il partito dell’ex premier ha ottenuto la maggioranza relativa e ha dichiarato che formerà il nuovo governo. Su quali saranno le forze che comporranno la coalizione c’è solo una certezza: senza i 19 seggi di Yesh Atid (C’è Futuro) il partito guidato da Lapid, non sarà possibile creare una maggioranza stabile. La soluzione minima per arrivare a 61 seggi sarebbe in un governo a 3 gambe: Likud Beitenu, 31, Yesh Atid, 19, e La Casa Ebraica, 11. Resterebbero fuori i partiti ultraortodossi: Shas 11 parlamentari e Yahadut Torah 7.
Lapid, ribattezzato “il Clooney israeliano”, ha fondato il suo partito solo un anno fa e porterà con sé un numeroso gruppo di volti nuovi alla Knesset. Figlio di un ministro di Sharon, si presenta come il volto laico e moderato d’Israele.
La campagna elettorale di Yesh Atid era centrata sulle necessità della classe media, insistendo su alcuni punti apparentemente inconciliabili con gli interessi dei religiosi. Primo dei quali è l’esenzione automatica dal servizio militare per tutti gli studenti delle Yashivah, scuole rabbiniche. Questo è uno dei privilegi degli ortodossi, su cui esiste un confronto aperto nella società israeliana, la leva obbligatoria dura 3 anni per gli uomini e 2 per le donne. Shelly Yachimovich, leader del partito laburista, appena 15 deputati, ha lanciato un appello a Lapid chiedendo di essere lui stesso il premier di un governo di centro-sinistra.

Corriere 24.1.13
Uno spiraglio di pace
Israele, parlamento spaccato a metà
di Bernardo Valli


IL SORPRENDENTE risultato elettorale di martedi sera è per Israele una boccata d’aria fresca. Non rappresenta una svolta politica epocale. Questo no.
Ne è un raggio di luce che si accende sul grigio, anzi cupo, panorama mediorientale. Non è insomma un passo decisivo verso la soluzione dei principali e angoscianti problemi quali sono la questione palestinese e la minaccia nucleare iraniana. Sono in pochi a farsi delle illusioni. Non se ne fanno neppure coloro che si rallegrano per la risicata, corta vittoria di Benjamin Netanyahu, vista come l’inizio del suo declino politico. Attendono con evidente soddisfazione i tormentati compromessi cui il primo ministro incaricato dovrà scendere al fine di creare una maggioranza parlamentare. E soprattutto apprezzano l’arresto della crescita nazional-religiosa, ai loro occhi laici un’ombra minacciosa sulla democrazia israeliana. Ma gli avversari di Netanyahu pensano che lo scossone elettorale non sarà sufficiente per smuovere Israele dallo statu quo in cui è trincerato, protetto da una sofisticata superiorità militare, dalla dinamica della sua società tecnologicamente avanzata, e dall’alleanza con la superpotenza americana. Un’alleanza resistente a tutte le polemiche, anche allo sgarbo di Netanyahu di novembre, quando si è apertamente schierato contro Obama, durante la campagna per la rielezione. Israele è ed è destinato per Washington a restare un irrinunciabile “fortino occidentale” nel Medio Oriente instabile e complicato. (Ciò non toglie che Obama si sia in cuor suo rallegrato per lo schiaffo elettorale ricevuto da Netanyahu, del quale non ha una grande stima).
Ma perché parlare di una boccata d’aria fresca se prevale tanto scetticismo sugli effetti positivi del risultato elettorale? In barba a tutti i pronostici, l’ex giornalista televisivo Yair Lapid ha conquistato diciannove seggi nella Knesset, che ne conta centoventi. Quindi ha adesso in mano la chiave della nuova coalizione di governo, perché con i suoi soli trentun seggi Benjamin Metanyahu avrà bisogno di lui per creare una maggioranza parlamentare. Ma votando per Lapid gli israeliani non hanno puntato soltanto su un personaggio nuovo, ed anche giovane, perché Lapid non dimostra neppure i quarantanove anni che ha, ma hanno scelto l’apolitica, qualcosa di diverso dal soffocante dibattito in cui l’esigenza della sicurezza, usata anche come un ricatto, è sempre presente, più o meno sottintesa. Il voto a Yair Lapid è stata un’evasione dalla spirale della paura. Ed anche dalla politica. Un modo di mandare al diavolo la classe dominante, mi dice con espressioni più marcate un intellettuale di Tel Aviv. Il quale confessa di avere votato per Lapid con quell’intenzione. Non perché l’apprezza come uomo politico. Di politica l’ex giornalista non se ne è in effetti quasi mai occupato fino a qualche mese fa, quando ha deciso di affrontare le elezioni. È stato un animatore intelligente del reality show alla tv. Il suo carisma ha origini telegeniche. Hanno contribuito alla sua popolarità l’aspetto e la simpatia. La sua rubrica sul settimanale
Yediot Ahronot, il quotidiano più diffuso, aveva accenti più personali che politici e aveva come titolo “Dov’è il denaro”.
Gli autori dei sondaggi gli assegnavano la metà dei seggi poi conquistati pensando che i temi della sua campagna elettorale fossero banali, marginali, fossero quelli di una società normale, ad esempio le tasse imposte ai ceti medi urbani, su cui gravano le spese pubbliche, e in particolare quelle in favore dei religiosi, disoccupati volontari, perché dediti allo studio della Torah. Yair Lapid ha apertamente deplorato, e si è impegnato a combatterla, l’esenzione dal servizio militare degli studenti religiosi ortodossi. Perché noi siamo soggetti al fisco e loro sono assistiti? L’argomento ha avuto successo nella laica Tel Aviv, in generale nel ceto medio, emarginato dalla crescente sperequazione nei redditi. I giovani “indignati”, nel 2011 animatori di imponenti manifestazioni di protesta contro la situazione economica, sono stati i grandi elettori di Lapid nel 2013. La boccata di ossigeno è stata questa: appoggiare un candidato con la pacifica aureola della popolarità televisiva, ma in politica una faccia nuova, persino ingenua, che affronta, appunto, le preoccupazioni di una società normale, non assediata, non angosciata dal mondo circostante. Il partito di Lapid, collocato al centro dello schieramento politico, ha un titolo candido, significativo: “C’è un futuro”.
Per Yair Lapid la questione palestinese non dovrebbe costituire un grave problema nel caso di una partecipazione a un governo con Netanyahu primo ministro, e quindi a fianco del Likud, formazione di destra, e di “Casa Israele”, il partito ultranazionalista di Liberman, esponente della comunità russa. I quali non hanno nelle loro intenzioni una ripresa rapida del processo di pace. Lui, Lapid, è favorevole all’idea di uno Stato palestinese, come del resto è capitato di esserlo anche a Netanyahu almeno in un’occasione; e al tempo stesso, sempre come Netanyahu, Lapid è contro lo smantellamento delle colonie nei territori occupati e si oppone alla divisione di Gerusalemme. In sostanza non si pone troppo la questione palestinese. La schiva. Avrà invece un serio problema con il partito religioso Shas, indispensabile alla vagheggiata coalizione guidata da Netanyahu, che esige l’esenzione dal servizio militare obbligatorio degli studenti religiosi. E naturalmente anche le sovvenzioni alle scuole in cui si studia la Torah, condannate da Lapid, perché appesantiscono le tasse dei ceti medi. Questi sono i temi che hanno favorito il successo dell’ex giornalista televisivo.
Il diciannovesimo voto politico dalla nascita dello Stato ebraico non cambia la situazione mediorientale, ma ha fermato la svolta a destra della società israeliana. E quindi apre qualche spiraglio. Il successo dei partiti centristi, non solo di “C’è un futuro “ di Yair Lapid, ma anche del “Movimento” di Tzipi Livni, l’ex ministro degli esteri, che ha conquistato sette seggi, e l’affermazione di Meretz, la formazione di sinistra, che ne ha ottenuti sei, il doppio di quelli che aveva, sono piccoli squarci in un orizzonte politico fino a pochi giorni fa oscurato dall’annunciato successo dei partiti del rifiuto di ogni concessione ai palestinesi. Lo smacco subito obbligherà Netanyahu a venire a patti con partiti meno intransigenti del suo, anche se non ben determinati sulle grandi questioni. Il primo ministro ha perduto un quarto dei suoi seggi in Parlamento (da quarantadue è sceso a trentuno) perché la formazione di estrema destra “Focolare ebraico”, fondata da Naftali Bennet, campione dell’hi-tech e patrono dei coloni, gli ha sottratto l’ala più intransigente del suo elettorato. Ma la fragilità di Netanyahu risulta ancora più evidente se si pensa che il suo partito, il Likud, ha conquistato soltanto venti seggi se si sottraggono quelli dell’ultra nazionalista Liberman, suo alleato provvisorio. Egli si appresta a costruire una maggioranza da una posizione di debolezza e quindi si può dubitare che riesca. L’aiuta il fatto che, pur essendosi creato un equilibrio tra forze di destra e di sinistra alla Knesset, quest’ultima, la sinistra, non è in grado di offrire un’alternativa. Il partito laburista, grande protagonista della storia di Israele, ha ottenuto quindici seggi, meno del telegenico Lapid. La destra è stata fermata, ma una vera sinistra capace di offrire un cambiamento non c’è ancora.

Repubblica 24.1.13
Lo scrittore David Grossman: “Spero che i partiti di Centro condizionino l’ingresso nell’esecutivo alla ripresa del processo di pace”
“Bibi non potrà più fare l’estremista ora riparta il dialogo con i palestinesi”
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME — Non nasconde la sua soddisfazione David Grossman per la caduta di “King Bibi” Netanyahu, ridimensionato nel peso politico e nel ruolo dal voto che ha punito il Likud e premiato partiti nuovi nel panorama israeliano. «Un risultato sorprendente », dice lo scrittore israeliano, convinto sostenitore di una diversa politica sociale nel Paese, coraggioso interprete di quegli israeliani che vogliono chiudere dopo 45 anni col capitolo dell’occupazione della Palestina e aprire una fase nuova in Medio Oriente.
Secondo lei chi ha vinto e chi ha perso in questo voto?
«I risultati di queste elezioni dimostrano una forte volontà della maggioranza della popolazione di votare centro, di essere al centro dello schieramento politico. La nostra esperienza passata, purtroppo, dimostra però che tali partiti non sono riusciti a portare alcun cambiamento reale: il popolo esprime la volontà di un compromesso fra la sinistra e la destra, che ha come riferimento solo l’assetto politico interno, senza tenere conto di ciò che la nostra situazione difficile realmente richiede, che comporta la necessità di fare concessioni ai palestinesi e di risolvere finalmente il conflitto. È stata soprattutto la protesta economica e sociale a portare al vero calo del potere di Netanyahu».
I risultati sembrano però indicare che ancora una volta sarà ancora lui a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo.
«C’è una buona probabilità che ciò accada, del resto è il leader del partito di maggioranza. Ma gli sarà difficile, adesso, perseverare in una politica estremista come quella che ha condotto nei passati quattro anni perché gli equilibri politici sono cambiati».
Questo potrebbe allentare la tensione che si è accumulata in questi anni con un alleato strategico per Israele come gli Stati Uniti? I leader che guideranno i due Paesi nei prossimi quattro anni si detestano...
«I politici americani fanno una netta distinzione fra i rapporti personali e gli interessi del loro paese, e non ho alcun dubbio che il Presidente Obama faccia e farà ciò che considera giusto per gli Stati Uniti. Tuttavia Obama vuole fare dei cambiamenti e ha la possibilità di esercitare grandi pressioni su Israele. È stato appena rieletto e per almeno due anni, fino alle prossime elezioni del Senato, ha mano libera».
Sta per essere resa pubblica una proposta di pace franco-inglese, appoggiata dalla Germania e nella quale per il momento gli Usa non compaiono, con un invito a una conferenza di pace a Parigi a marzo ed un accordo basato sui confini del ’67, lasciando per ora sullo sfondo il problema di Gerusalemme.
«E dei profughi palestinesi».
Pensa che in questo nuovo clima che si è creato sarà possibile “convincere” Netanyahu a parteciparvi?
«La debolezza di Netanyahu dipenderà dalla forza politica e dalla fermezza dei partiti di centro. Sarà necessaria una forte pressione esterna, ed io mi auguro anche interna, per avere davvero una probabilità di successo. Spero che il partito di Yair Lapid o quello di Tzipi Livni, o addirittura il Labor condizionino il loro ingresso nel governo alla ripresa del processo di pace con i palestinesi, altrimenti non riuscirei veramente a capire perché si siano ostinati a farsi eleggere».
L’altra sorpresa di queste elezioni è Naftali Bennett, il giovane milionario ex-impenditore high-tech, capo del partito religioso nazionale dei coloni...
«Si presentano come i veri patrioti sionisti, ma in definitiva rappresentano un pericolo esistenziale per Israele e lo porteranno al disastro; perché creano sul terreno una situazione che impedisce di fatto la pace con i palestinesi e fa di Israele uno Stato dove c’è l’apartheid. Alla fine cercheranno di trasformarlo in uno stato bi-nazionale, e questo per me rappresenta la fine dello Stato d’Israele».

il Fatto 24.1.13
L’intervista a Etgar Keret
Il leader del Likud senza rotta
“È il prossimo capitano del Titanic”
di Alessandra Cardinale


Abbiamo eletto il prossimo Capitano del Titanic”. Esordisce così, al telefono da Tel Aviv, lo scrittore israeliano Etgar Keret, autore di “All’improvviso bussano alla porta” (Feltrinelli). Keret pensa che il prossimo sarà un governo di compromessi e fragile dove brilleranno i due neofiti della politica israeliana, Yahir Lapid, leader di un partito di centro e Naftali Bennett, capo dell’ala radicale dei conservatori laici. Per lo scrittore israeliano non sono buone notizie.
Soddisfatto o deluso?
È andata meno peggio di quello che mi aspettavo. I vincitori sono Yahir Lapid e Naftali Bennett, due giovani preparati e carismatici con zero esperienza politica. È chiaro che il voto a questi due outsider è stato un voto di protesta contro Netanyahu e la politica in generale. Se non sbaglio è una situazione molto simile a quella italiana.
Il partito di Lapid è la vera rivelazione. Cosa ne pensi?
Conosco Lapid personalmente, è un ottimo giornalista, molto talentuoso. Credo nella sua buona fede, sono d’accordo con lui quando dice che è necessario combattere la corruzione nella politica israeliana. Detto ciò, nel suo programma politico ci sono delle grandissime lacune. A esempio non si sa cosa pensi dell’Iran. Questa è una grave mancanza. Sono temi cruciali. È come dire vado dal medico perché ho un cancro ma lui si concentra su un brufolo che mi è spuntato in fronte.
L’altra grande novità è Bennett.
Naftali Bennett è per noi una novità assoluta. È un businessman del high tech, un miliardario che ha deciso di scendere in politica. Per voi italiani si tratta di un déjà-vu ma per noi è la prima volta. Comunque il programma politico di Bennett mi fa paura ed è molto più estremo di quello dei suoi predecessori. Se dovesse essere nominato Ministro della Giustizia sarei seriamente preoccupato.
Netanyahu con chi si alleerà?
Secondo me sarà una grande coalizione con Lapid, Bennett e Tzipi Livni. Significa che si prefigura un’alleanza di compromessi, frammentata e fragile che non arriverà a fine mandato.
Il partito laburista ne esce maluccio. Dove hanno sbagliato?
I laburisti hanno fatto un grave e madornale errore: quello di non aver presentato un’agenda politica di centro-sinistra. Per questo motivo hanno perso molti voti che sono confluiti nel partito Meretz e in quello della Livni. La loro leader, Shelly Yachimovich ha schivato del tutto il tema della pace e il problema dei coloni. Inaccettabile.
Chiuse le elezioni, Barack Obama tornerà a premere Netanyahu sul processo di pace?
Non c’è dubbio. Fino a ora Netanyahu non ha preso in considerazione le dichiarazioni di Obama trattando la più grande potenza mondiale come se fosse il Liechtenstein. Ed è stato l’unico primo ministro nella storia d’Israele ad appoggiare apertamente un candidato alla Casa Bianca, quello che poi ha perso. Non è solo Obama a chiedere a Netanyahu di negoziare la pace con i palestinesi. Più del 50% degli israeliani glielo sta chiedendo da anni.

il Fatto 24.1.13
“Fuori o dentro la Ue” il referendum col trucco di Cameron
Il premier britannico promette un voto popolare, ma soltanto tra 5 anni
di Alessio Altichieri


Da ieri c’è nebbia sulla Manica e, contrariamente a quanto amano credere gli inglesi, non è il continente a essere più isolato, bensì la Gran Bretagna stessa: David Cameron ha promesso un referendum sull’appartenenza all’Unione europea, perché i sudditi possano “dire che pensano”. Il referendum si terrà nella prossima legislatura, forse nel 2017, e non prima che Cameron medesimo, se sarà rieletto premier, abbia negoziato “un nuovo rapporto” fra Londra e Bruxelles. Mettendo entrambi i piedi nella tagliola che già azzoppò due primi ministri conservatori, Thatcher e Major, adesso Cameron dice che “è giunta l’ora di risolvere la questione europea” nella politica britannica. Davanti al nodo gordiano, impugna la spada dell’euroscetticismo, ma si cautela con “se” e “quando”. Il risultato purtroppo è ovvio: anni d’incertezza, un “euro-limbo” lungo un lustro.
Naturalmente le ragioni di Cameron sono più modeste, di cucina politica: oltre all’ala destra dei Tories, da qualche anno c’è un partito ancor più euroscettico, lo Ukip (United Kingdom Independence Party), che mangia consensi ai conservatori. Promettere il referendum, e scriverlo nel prossimo manifesto elettorale, dovrebbe spuntare la spina nel fianco. La scommessa è ardita: poiché i 17 membri dell’eurozona devono discutere nuove integrazioni per salvare la moneta unica, argomenta Cameron, questo è il momento di strappare alcuni poteri a Bruxelles e rimpatriarli a Londra. Già fuori dall’euro e dal trattato di Schengen, Londra quindi pretende altri “opt-out”: così i sudditi saranno placati.
Non è detto che funzioni: con sprezzo gallico, il francese Laurent Fabius s’offre, se Londra lascia l’Europa, di “stendere il tappeto rosso”. Angela Merkel, prudente, è “disposta a discutere”, ma il suo ministro Guido Westervelle avverte: “La scelta delle migliori ciliegie nel paniere (cherry-picking) non è un’opzione”. In parole povere: Londra non può godere del mercato unico europeo, ma rifiutare le norme che non le garbano.
PER UN ENTUSIASTA come il sindaco di Londra, Boris Johnson, che applaude Cameron (“Era ora di far parlare i cittadini”), ci sono parole più preoccupate dalla City: Martin Sorrell, capo del gigante della pubblicità Wpp, vede solo “un motivo in più per scoraggiare gl’investimenti”. Il vice di Cameron, il liberale Nick Clegg, riassume: “Così non si fa l’interesse nazionale”.
Eppure la decisione di Cameron, se pare meschina, risponde alla storia, perché da sempre l’Inghilterra aborrisce l’unificazione politica del continente: dove fallirono Napoleone e Hitler, pensano gl’inglesi, sta riuscendo oggi Bruxelles. Ma se un tempo bastavano le cannoniere di Lord Palmerston a garantire il libero commercio, oggi l’economia è più complicata: il successo si misura in Fdi (foreign direct investments) e la Gran Bretagna attira investimenti esteri perché sta nel mercato unico europeo, non perché Londra è più divertente, mettiamo, di Stoccarda. Ecco perché il Regno Unito è un grande produttore di automobili, benché non ci sia più un solo grande marchio (Mini tedesca, Land Rover e Jaguar indiane) in mani britanniche. Ed ecco perché 8 auto su 10 vengono esportate sulle nostre strade.
Cameron lo sa benissimo, ma è stretto fra tradizione storica ed economia moderna. Per divincolarsi, promette un referendum. Tra 5 anni, non oggi…

il Fatto 24.1.13
Il sogno di Mrs Jobs per i clandestini Usa
di Chiara Daina


I DIRITTI CIVILI per molte persone rimangono ancora un sogno. Era il 1963 quando Martin Luther King iniziò il suo discorso in difesa dei neri con l'espressione “I have a dream”. Dopo cinquant'anni Laurene Powell, la vedova del co-fondatore della Apple, trasforma l’oggetto nel soggetto e gli dà la carica dell’esistenza: “The dream is on”. La realtà del sogno è il sito internet www.thedrea  misnow.org   che raccoglie le storie (in formato video) di ragazzi under 30 e ancora clandestini. Ma che potrebbero chiedere la residenza negli Stati Uniti, se sono entrati senza documenti prima di avere compiuto 15 anni e hanno vissuto nel paese per almeno cinque anni, come prevede una legge americana promossa nel 2001, già pronta ma mai varata, chiamata “Dream act”(Development, Reliefe and Education for Alien Minors Act). Di nuovo, un sogno. Non sembra esserlo però per la moglie di Steve Jobs che, con un'iniziativa del genere, ha tutta l'intenzione di smuovere le coscienze di politici e cittadini promuovendo la regolarizzazione dei giovani immigrati. Nei video pubblicati online gli apolidi del 2013 si raccontano in un inglese fluentissimo: sono innamorati degli States, hanno amici e progetti e si sentono americani. Ma per le carte non lo sono. Negli Stati Uniti gli immigrati irregolari nel 2010 erano oltre 11 milioni. Per avere la cittadinanza in mano, basterebbe che frequentassero il college o intraprendessero la carriera militare, così recita il Dream act, che i Repubblicani hanno bloccato in Parlamento. La donna più ricca della Silicon Valley vuole anche l’abolizione delle restrizioni federali che al momento vietano ai singoli Stati di offrire agli studenti immigrati le stesse agevolazioni disponibili per quelli regolarmente residenti. L'appello è aperto a tutti. Su Twitter, con l'hashtag #thedreamisnow, chiunque può partecipare alla conversazione e sostenere il progetto. Sono ammesse anche le foto pro causa su Instagram. E dal web si passerà al grande schermo: Davis Guggeninheim, il regista della piattaforma, ha già in mente di farne un documentario.

l’Unità 24.1.13
«Il mio Di Vittorio»
Il ricordo di Bruno Trentin in una lettera inedita indirizzata alla sorella Franca
di Bruno Trentin


Il testo scritto all’indomani della morte del segretario della Cgil fa parte del nuovo libro «Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese»

Oggi la presentazione all’École Française di Roma
Sará presentato a Roma, ore 17, all’École française de Rome «Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese». Il volume, curato da Sante Cruciani, edito da Collection de l'Ecole Française de Rome, contiene, tra l’altro, una ricca documentazione dovuta all’opera preziosa di Iginio Ariemma (responsabile del gruppo di lavoro su Bruno Trentin inserito nella Fondazione di Vittorio). Interverranno alla presentazione Marc Lazar, Adolfo Pepe, Maurizio Ridolfi coordinati da François Dumasy. Nel libro c’è un inedito scritto in francese che qui vogliamo riportare. È una lettera di Bruno Trentin alla sorella Franca sulla morte di Giuseppe Di Vittorio. É il 27 novembre del 1957. Bruno ha 31 anni. L'uomo accanto al quale lavorava, nell'ufficio studi confederale, Giuseppe Di Vittorio è morto da pochi giorni. Bruno scrive alla sorella Franca, partigiana, docente, raffinata studiosa. Esce da questo testo in francese, qui in parte tradotto, il ritratto di un Di Vittorio sempre animato da «ottimismo intellettuale» che vedeva nella società capitalistica italiana «la ricchezza che poteva essere prodotta» e che non lo era piuttosto che la «povertà esistente». Scaturisce da questo breve e intenso scritto un ritratto del capo della Cgil animato da una profonda curiosità verso il futuro e le innovazioni, da proiettare a favore del suo mondo, il mondo del lavoro. Sono elementi che ricordano in qualche modo un altro grande personaggio della sinistra e della Cgil, Vittorio Foa. E che possono aiutare le nostre discussioni in queste difficili settimane. B.U.

ROMA, 27 NOVEMBRE 1957 MIA FRANCHINA, DOPO UN LUNGO SILENZIO POSSO SCRIVERTI E TRAMITE TE ANCHE A MARIO. Quest’ultimo periodo è stato convulso e sconvolgente, per me. Prima, il Congresso di Lipsia, con tutte le discussioni e le battaglie che ha comportato. Poi una serie di riunioni e di conferenze in Italia compresa la commissione elettorale del partito di cui faccio parte e dove si sono riaper-
te vecchie ferite dell’VIII Congresso. (...)
La morte di Di Vittorio ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito.
Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e retorica a parte semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre «provocatorio», come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta e in questi ultimi tempi, spesso questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun «sistema», in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente «la sua ragione d’essere».
Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana «la ricchezza che poteva essere prodotta» e che non lo era piuttosto che la «povertà» esistente. Ed era l’idea della «ricchezza» ad entusiasmarlo.
Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre «al corrente» delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir «escluso», di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea.
NESSUNO PUÒ SOSTITUIRLO
Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ «populistica» e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno.
Capisco, ora che è morto, quanto io l’amassi. Purtroppo non c’è nessuno del suo calibro a sostituirlo, i migliori hanno un respiro molto più modesto. Gli ultimi giorni sono stati occupati come puoi immaginare dalle discussioni sulla «successione». Sembra che sia stata adottata la soluzione migliore: quella di sostituire Di Vittorio non con un uomo ma con una nuova segreteria, con un collettivo di uomini nuovi, dopo aver eliminato tutte le «zavorre», tutte le mummie. Se si otterrà questo risultato, avremo fatto un grande passo in avanti.

La Stampa 24.1.13
Carluccio una matita nel Lager
di Bruno Quaranta


Al Museo della Resistenza di Torino i disegni che il grande critico realizzò nei campi di concentramento

Ottanta volte «se questo è un uomo». Sono i disegni di prigionia di Luigi Carluccio, la testimonianza «postuma» di una stagione che il critico d’arte, fra i maggiori del nostro Novecento, volle stipare in privatissimi cassetti. Sarà la consorte, signora Eva, scomparso il marito, a rivelarli in un volume a maggior ragione prezioso perché fuori commercio (80 copie), a cui seguirà l’edizione Allemandi, solo poco meno introvabile, in 150 esemplari.
Da oggi - inaugurazione alle 17, presente il sindaco Fassino - e fino al 5 maggio, il Museo Diffuso della Resistenza, in corso Valdocco 4a, Torino, espone le remote tracce artistiche di Carluccio, che non mancava di schermirsi: «Non sono stato mai pittore, anche se ho una dedica di un libretto di Bargellini “Al pittore Luigi Carluccio” perché ci sono due miei disegni».
Non lontano dalla Gazzetta del Popolo, che ne ospitò quasi quotidianamente le cronache («Io sono non lesinava l’orgoglio - del fronte della critica militante, spicciola, un lavoro umile ma che ti dà il continuo contatto con la realtà»), Luigi Carluccio attraverso le «segrete carte» invita a riscoprire un tempo perduto, costretto nel limbo, la Resistenza degli internati militari.
Il «segno» di questo Maestro smisuratamente antiaccademico si dispiega nel 1943, 1944, 1945, di campo di concentramento in campo di concentramento: da DebilnIrena in Polonia a Lathen-Oberlangen e a Wietzendorf, in Germania. Qui, il tenente di artiglieria alpina del II reggimento gruppo «Bergamo», curerà, Pasqua 1945, la sua prima mostra, esponendo opere, fra gli altri, di Mario Negri (che introdurrà i Disegni di prigionia) e di Leone Pancaldi.
Aspettando che i reticolati si sciogliessero, Luigi Carluccio non potè non riconoscere in Wietzendorf una sorta di cenacolo (sembrano avversità, ma sono opportunità, avrebbe detto Vittorio Foa attingendo in Vico). Di ora incerta in ora incerta accanto a Giovanni Guareschi, al pittore e illustratore Giuseppe Novello, al futuro segretario del Pci Alessandro Natta, a Giuseppe Lazzati, negli Anni Sessanta Rettore dell’Università Cattolica, al poeta Roberto Rebora, al giornalista Stelio Tomei, allo scrittore Raffaele Brignetti.
Autoritratti e ritratti, un’umanità dolente, agonica, assorta, irriducibile all’ozio (forse è lo stesso Carluccio la figura con il taccuino), ostaggio di un pensiero (magari acceso dai versi di Celan: «La morte è un fiore che una sola volta / fiorisce /ma fiorisce come nient’altro fiorisce»). Una galleria su cui, via via, si sono chinate pupille raffinatissime. Da Giovanni Arpino («Il grande critico si offre qui con la sua brace originaria») a Roberto Tassi («Un artista che, chiuso nel lager, sente i tempi dell’arte e si trova in sincronia formale con gli artisti della sua generazione, dispersi ovunque»). Da Giovanni Testori («Gli occhi di lui, Carluccio; loro sono che guidano la matita a deporre sui fogli quel segno, talvolta veloce, talvolta lento come un filo di bava o di sangue») a Marco Vallora (autore del saggio in catalogo: «Una coltre confondente di qualunquità rassegnata e diffusa scende su ognuno di loro: come una palpebra indolente alla personificazione. Sfigurandoli nella cenere del carboncino accanito»).
Da Wietzendorf al secondo dopoguerra. L’omaggio del Museo diretto da Guido Vaglio è insieme un’occasione per ritrovare le orme di Carluccio sotto la Mole. L’allievo di Augusto Monti (in classe con Giulio Einaudi) fedelissimo in primis agli antagonisti Felice Casorati e a Luigi Spazzapan, sollecitandoli a riconoscersi, magari inconsapevolmente, artefice di mostre che non cessano nell’odierno «inverno della cultura» - secondo la scudisciata di Jean Clair - di rischiarare: da «Il sacro e il profano nell’arte dei Simbolisti» a «Le Muse Inquietanti» (dove incontrare Scipione, fra le fonti dei «disegni di prigionia»), a «Il Cavaliere Azzurro».
Quella di Carluccio - scomparso il 12 dicembre 1981 a San Paolo del Brasile, dove si trovava in qualità di direttore della Biennale di Venezia - è la parabola di un «fratello italiano», come lo avrebbe salutato e accolto Giovanni Arpino. Ma non una certa, angusta Torino, di retroguardia come di avanguardia (l’avanguardia che - come sapeva Nabokov - «è conformarsi a qualche audace moda filistea»).
Il meridionale Carluccio (nato a Calimera, nel Leccese) patirà l’ostracismo indigeno: «Dico - è il rovello sempre coltivato, ancora in extremis manifestato a Umberto Allemandi quello che penso. Non ho devozioni reverenziali, gli altri sono sempre qualcuno con cui posso dialogare e che deve accettare il mio dialogo. Ma non è per questo che mi considero un “diverso”: in fondo io appartengo ancora un po’ alla razza degli immigrati. Dico “razza” perché altrimenti non si capisce».
Nel ricordo di un «carattere» che non stese tappeti rossi, che matissianamente di fronte all’arte non esitava a setacciare, a cestinare («Je gratte beaucoup»), come non rievocare la dedica a un catalogo in cui l’«artista di guerra», l’ultimo Cavaliere Azzurro, orgogliosamente si specchiava? «A Carluccio, qui trancha le chemin».

Repubblica 24.1.13
Saggi, diari, romanzi e memoir la biblioteca del Giorno della memoria
Dalla ricostruzione di Bensoussan alla fiction, ecco i titoli in uscita
di S. Nir.


Tra il 1939 e il ’45 il Terzo Reich, con la complicità di molti, ha sterminato sei milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. Volevano decidere chi doveva o non doveva abitare il pianeta segnando un capitolo, unico a tutt’oggi, teso a modificare la configurazione stessa dell’umanità. Georges Bensoussan, uno dei maggiori storici contemporanei, direttore de la Revue d’histoire de la Shoah, ha scritto un’imperdibile Storia della Shoah (Giuntina, pagg. 165, euro 12): in poche pagine riesce a illuminare il processo che nel pieno della modernità ha fatto precipitare la Germania e l’Europa tutta nella volontà del genocidio. L’americano Varian Fry scrisse Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazistiche esce ora per Sellerio (pagg. 311, euro 16) nel 1945. È la storia vera e coraggiosa di come egli stesso nel 1940, in missione segreta, raggiunse la Francia, in piena occupazione tedesca, con un elenco di rifugiati politici, intellettuali, ebrei ricercati dalla Gestapo che doveva aiutare a fuggire. Lo vedremo far uscire dalla Francia personaggi come Max Ernst, Golo e Heinrich Mann, Marc Chagall.
Primo Levi fu arrestato nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 1943 durante un rastrellamento contro i partigiani. Levi ha parlato poco di quei giorni in montagna, anzi li ha definiti «il periodo più opaco» della sua vita. Perché? Frediano Sessi ricostruisce quelle settimane ne Il lungo viaggio di Primo Levi. La scelta della resistenza, il tradimento, l’arresto. Una storia taciuta pubblicato da Piemme. Tra le uscite per il Giorno della memoria (27 gennaio) vale la pena di segnalare anche Il Male dentro di Thomas Khune (Altana) un’indagine sulle dinamiche che hanno spinto donne e uomini tedeschi a giustificare e a volere lo sterminio degli “altri”. E ancora, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia di Bruno Maida (Einaudi), il racconto storiografico della distruzione che li colpì, e insieme alla ricostruzione del mondo di allora attraverso i loro occhi. Un’operazione che affronta anche lo storico israeliano che rilegge la sua deportazione ad Auschwitz a 12 anni in Metropoli della morte (Guanda). Ne Il diario di Lena di Lena Mouchina (Mondadori), invece, l’autrice racconta il suo diario pochi giorni prima dell’occupazione nazista di Leningrado.
Da ricordare Il nostro appuntamento. Una storia vera dell’israealiana Ellis Lehman e sua figlia Shulamith Bitran (Piemme), l’impossibile promessa d’amore di due giovani olandesi divisi dalla persecuzione nazista. Anche La sposa di Auschwitz (Newton Compton) di Millie Weber e Eve Keller racconta un amore sotto il nazismo. Riesce Nudo tra i lupiscritto nel 1950 nella Ddr da Bruno Apitz (Longanesi). Ponte alle Grazie ha tradotto Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz di Göran Rosenberg, bestseller in Svezia. Infine è uscito Quando finirà la sofferenza. Lettere e poesie da Theresienstadt (Lindau): 60 poesie scritte da Ilse Weber, ritrovate dal marito nel campo, e ora presentate dal figlio.

Repubblica 24.1.13
Irriducibili
Perché gli ultimi terroristi fanno ancora discutere
di Benedetta Tobagi


Qual è il merito di chi si dichiara “coerente” con l’esperienza della violenza? Eppure il suo silenzio suona inspiegabilmente diverso da quello mafioso
Chi alzava il pugno alle esequie di Reggio Emilia cosa pensava (se ci ha pensato) degli uomini della scorta di Aldo Moro massacrati in via Fani?

Talvolta le nude parole, con le loro risonanze molteplici, hanno il potere di riportarci al cuore della realtà, dove esplodono le contraddizioni. «Che non si può ridurre, cioè rimpiccolire, restringere, ricondurre a una forma più semplice» è il primo significato di “irriducibile”. Suggerisce compattezza mono-litica e una sorta di integrità. «Che non si lascia piegare, inflessibile, accanito», recita un dizionario; «sostenuto da una fermezza o da un’ostinazione a tutta prova», leggiamo in un altro (sull’irriducibilità, non a caso, fondavano il proprio orgoglioso senso di sé i camerati fascisti dopo il ’43 e, dopo, i neofascisti). Subito dopo troviamo tra le definizioni del lemma il significato storico assunto dall’aggettivo, sostantivato per designare il terrorista o detenuto politico «che non recede dalle proprie convinzioni». Si parla di brigatisti “irriducibili” (come fu Prospero Gallinari) per distinguerli dai “pentiti” e i “dissociati” dal terrorismo, che i protagonisti insistono a chiamare «lotta armata» per godere dell’aura dei combattenti per la libertà sudamericani, di Che Guevara e dei vietcong per cui scese in piazza una generazione di giovani in mezzo mondo. Ma solo dicendo “terroristi” preserviamo il dato di realtà che spararono a persone disarmate e inermi, dentro un sistema democratico, per quanto (talora tragicamente) imperfetto, per intimidire, terrorizzare, ottenere a colpi di P38 un peso e una visibilità che con i numeri necessari in democrazia non avrebbero mai ottenuto.
La parola, tuttavia, collude sotterraneamente con loro. L’implicito rimando a convinzioni “irriducibili” è appannaggio dei cosiddetti “politici”, che lo vivono come un crisma di coerenza. I mafiosi che rifiutano di collaborare coi magistrati si tengono ben stretti alla categoria devastata dell’“onore”, ma restano semplicemente “omertosi”. L’applicazione delle leggi sui collaboratori di giustizia ha conosciuto distorsioni e abusi. Fondare una norma sul meccanismo utilitarista dello scambio, laddove è stato versato del sangue, crea una tensione tra ciò che si percepisce come giusto e una necessità codificata dalla legge. Eppure bisogna tenere fermo che questo meccanismo ha consentito di smantellare le organizzazioni terroristiche e criminali. Non solo: l’irriducibile non collabora, si dichiara vinto dallo Stato, ma non depone l’armamentario ideologico per riconoscersi nei principi dello Stato costituzionale. Che merito vi è nella “coerenza” ideale con un passato di violenza? Ciò nonostante, «non aver tradito i compagni» suona ancora, alle orecchie di troppi (non solo ex terroristi) diverso dal silenzio del mafioso, ed emotivamente più nobile. Anziché alla fedeltà del punciuto verso un boss, rimanda a patti inossidabili di amore e di amicizia.
Nelle sue memorie, un’ex terrorista parla con tenerezza struggente dei propri compagni, poi paragona i poliziotti a “insetti” da sopprimere. Chi alzava il pugno nell’ultimo saluto a Gallinari cosa pensava (se ci ha pensato) degli uomini di scorta assassinati in via Fani? I terroristi, talvolta giovanissimi, uccidevano forti della solidarietà di un gruppo chiuso e autoreferenziale, operando un meccanismo di scissione per “deumanizzare” la vittima, ridotta a simbolo da abbattere. Scaviamo ancora dentro la parola. Nei glossari psicologici, “irriducibili” sono i sistemi di convinzioni associate al delirio: incrollabili nel sistema di riferimento culturale, politico, affettivo di un soggetto, ma false o errate agli occhi dell’osservatore esterno rispetto alla realtà sociale condivisa. Questa chiusura, con la duplice rimozione, del contesto storico e dell’umanità dell’Altro, deve perdurare, per preservare il sistema di convinzioni su cui gli “irriducibili” e i loro simpatizzanti fondano la propria identità.
Gli scenari riproposti dai funerali di Prospero Gallinari, con gli slogan, i garofani rossi, i pugni chiusi, sono grotteschi e perturbanti perché tradiscono da parte dei “nostalgici” la persistente rimozione degli effetti devastanti del terrorismo sulla società e della pietra di scandalo dei morti innocenti. Che un esponente politico abbia invocato la pietas per giustificare la presenza di un proprio alleato a esequie così dense di simboli e richiami al passato brigatista accresce a dismisura lo straniamento.
Pietas evoca Priamo che implora Achille di rendergli il cadavere del figlio, la sfida di Antigone per garantire la sepoltura al fratello. Cosa c’entra con i funerali di Gallinari? Per inciso, la pietas resta il principale argomento dei revisionisti che vogliono equiparare nella memoria pubblica partigiani e salotini, rimuovendo ciò per cui combatterono in guerra. L’abuso del concetto pietas elude il vero problema. Col terrorismo, il corpo sociale ha subito fratture “irriducibili”, come dicono i medici quando non si può ricostruire la posizione normale. Chi ha responsabilità politiche deve tenerlo presente, se sceglie di partecipare a una cerimonia dove tanti rendono omaggio in forma pubblica al passato brigatista. Servono parole chiare, prima e non dopo.
L’irriducibile perpetua una fissità mortifera contro la mobilità connaturata alla vita che evolve, capace di includere prospettive differenti e l’umanità prima misconosciuta dell’Altro. Una capacità ben diversa dall’eludere lo scontro col passato, cambiare discorsi, maschere o bandiere per puro opportunismo. Dovremmo valutare che forse è talmente diffuso il disgusto per l’incoerenza e l’ipocrisia che, per contrasto, finisce per essere circonfuso di un alone cavalleresco chi resta irriducibilmente fedele anche a una causa sbagliata e terribile.

Repubblica 24.1.13
Dalla Resistenza al proletariato l’immaginario scippato dalla lotta armata
Una mappa mentale fuori della storia
di Marco Revelli


Proprio in quegli anni le fabbriche nelle quali avrebbe dovuto nascere la rivoluzione immaginata si stavano svuotando in un esodo biblico durato quasi un ventennio. L’operaio diventava un consumatore

Di fronte alle immagini dei funerali di Prospero Gallinari, mi sono interrogato anch’io su quello che rimane forse l’ultimo “mistero” delle Brigate rosse: sulle ragioni esistenziali che portarono, nell’Italia del tardo Novecento, un piccolo esercito a varcare quella soglia che separa la militanza politica dall’azione criminale. E il primo riferimento che mi è venuto in mente è stata una vicenda che per la storiografia può apparire marginale, ma che considero rivelatrice.
I fatti risalgono al novembre del 1981, quando alla Stazione centrale di Milano, dopo un conflitto a fuoco in cui muore un agente, vengono catturati due giovani. Uno si chiama Giorgio Soldati, appartiene a “Prima linea”: portato in Questura, sottoposto a un interrogatorio feroce, al limite della tortura, rivela alcuni indirizzi. Trasferito al carcere di massima sicurezza di Cuneo, nella sezione degli “irriducibili”, scrive una lettera al “proletariato combattente”, rivelando la propria “debolezza” e chiedendo di essere giudicato per questo. Il 10 di dicembre (appena cessato, sconsideratamente, l’isolamento) viene sottoposto a processo da parte di un’improvvisata “corte di giustizia” e condannato a morte. Dichiara di accettare la sentenza emanata in nome del “proletariato rivoluzionario”, chiede solo che l’esecuzione non sia troppo dolorosa. Viene “garrotato” in una latrina da quattro “compagni”, con una corda fatta di stracci e un frammento di specchio.
Giorgio Soldati aveva alle spalle, prima del grande salto nella clandestinità, un’esperienza di volontariato (una fotografia lo ritrae dopo il terremoto nel Friuli intento alla ricostruzione di una scuola), buone letture (tra i suoi appunti, in cella, una citazione di von Kleist) e la memoria partigiana della sua terra. Nella stessa sezione del carcere — inevitabilmente coinvolto in quella atroce sentenza — c’era Alberto Franceschini, del nucleo storico delle Br: quello che incomincia la sua autobiografia raccontando quando un vecchio partigiano gli consegna le sue due pistole e lui le nasconde nella Camera del lavoro di Reggio Emilia, di cui suo nonno era il custode. Anche qui una terra, anche qui una memoria. Come per la cascina emiliana dell’infanzia di Prospero Gallinari, che sembra uscita dal Novecento di Bertolucci, ferma nel tempo, dove (come racconterà egli stesso, continuando a definirsi un “contadino”) nei pochi metri dell’aia si confrontavano i mondi contrapposti del padrone e dei lavoratori, separati da un abisso secolare.
Forse sta in questa sorta di mappa mentale, la cifra che può dare accesso al nucleo più intimo di quella scelta: in questo composto eterogeneo di frammenti di storie e di citazioni distorte. In questo universo simbolico postumo, fatto di ombre cinesi in cui confluiscono un po’ tutte le vicende conflittuali del secolo (Rossana Rossanda parlerà appunto di “album di famiglia”), dall’epopea partigiana alla Rivoluzione d’ottobre, dal guevarismo latinoamericano al mito spartachista nella Berlino del 1920, sottratte tuttavia alla Storia e chiamate a invadere esistenzialmente il presente e occuparlo, sostituendosi ad esso in un mortale corto-circuito temporale, nella forma di una tragica “rappresentazione”. Spezzoni fuori contesto, che si sovrappongono al contesto storico e sociale, lo fagocitano, diventano un mondo immaginario in cui abitare. E colpire. Con tutta la carica mortifera che possiedono le cose morte quando escono dalla memoria e pretendono di farsi vita (saranno 80, alla fine, le vittime rivendicate dalle Br, e più di una decina i “propri caduti”).
È come se, a un certo punto, un gigantesco specchio fosse caduto a tagliare, verticalmente, il corso della storia e del secolo, cosicché l’immaginario non potesse trovare che riferimenti anteriori, replicare miti e simboli pregressi, in una coazione a ripetere che diventa mondo parallelo e deformato, mentre il mondo reale scorre, inesorabile, in direzione ostinata e contraria. Nello stesso momento in cui nel supercarcere di Cuneo si eseguiva quell’infame sentenza, le fabbriche nelle quali avrebbe dovuto nascere la rivoluzione immaginata si stavano svuotando in un esodo biblico durato per oltre un ventennio. Quel “proletariato” nel nome del quale si eseguiva la condanna stava subendo la propria metamorfosi epocale da “produttore” a “consumatore”. E dalla Federal Reserve americana si dava avvio al processo di produzione di denaro per mezzo di denaro che avrebbe portato al capitalismo finanziario di oggi. Sullo sfondo la “Milano da bere” di craxiana memoria. La finanza pubblica facile con gli interessi a due cifre dei Bot a comprare la fedeltà del ceto medio. I nascenti centri commerciali a sostituire le cattedrali della produzione. Senza che nulla di tutto ciò filtrasse nell’involucro impermeabile di quell’immaginario bloccato, che quanto più si divaricava dal corso storico, tanto più rendeva crudele e insensata la propria azione, fino a minacciare di estinzione ogni memoria e ogni conquista per quelle stesse classi sociali nel cui nome era iniziato il percorso.