giovedì 26 settembre 2013

La Stampa 26.9.13
«Se B. decade ci dimettiamo tutti...»
Le finte minacce, puro “gesto simbolico”
di Marcello Sorgi


La finta minaccia delle finte dimissioni di tutti i parlamentari del Pdl annunciate per il 4 ottobre, giorno in cui la giunta per le elezioni del Senato dovrebbe votare la decadenza di Berlusconi, ha tenuto banco fino a sera, quando gli stessi senatori e deputati, uscendo dall’assemblea che aveva comunicato questa decisione, si sono incaricati di derubricarla a «gesto simbolico», cioè al rango di un bluff che è subito precipitato nel ridicolo. Gente come Martino e Formigoni, con evidente imbarazzo, spiegavano che, se anche fosse vera, una mossa del genere sarebbe inattuabile. Perfino la Santanchè, uscendo dalla riunione, ne parlava con insolita cautela. Le dimissioni infatti, per prassi, vengono sempre respinte dalle Camere. E quando, dopo un paio di rifiuti, sono accettate, servono a far subentrare i primi dei non eletti. Tutto qui.
Perché allora Berlusconi ha voluto mettere in scena una tale commedia, dall’effetto sicuramente autolesionista, all’indomani della missione di Alfano al Quirinale e alla vigilia della verifica di governo, che dovrebbe compiere il primo passo nel consiglio dei ministri di domani? Per far capire, spiegavano sottovoce quelli che gli sono più vicini, che è sempre lui a comandare e che Napolitano può togliersi dalla testa di spingere i partiti della larga maggioranza a un nuovo accordo per tutto il 2014, senza coinvolgerlo. Il Cavaliere insomma non ha scelto di far saltare il banco, per andare a votare a novembre. Anzi pensa esattamente il contrario e vuol trovare il modo di far proseguire il governo. Ma non appena si delinea la possibilità che una decisione del genere possa essere presa senza il suo contributo, «dà di matto», come s’è fatto sfuggire a tarda sera uno dei partecipanti all’assemblea dei gruppi.
Così l’effetto pratico del turbolento pomeriggio pidiellino nella Sala della Regina, e dell’evidente umore ciclotimico con cui Berlusconi affronta la vigilia del voto sulla sua decadenza e dell’inizio della sua detenzione, sarà di rendere praticamente impossibile la verifica e il patto per il 2014. La palla torna a Letta. Perché oggi più di ieri il governo è condannato a navigare a vista.

La Stampa 26.9.13
Barca: “Se Renzi attacca Letta la colpa è del Pd”
Il partito deve essere un organo vivo con una strategia
intervista di Carlo Bertini


«Voglio ancora pensare che questa irresponsabile intenzione dei parlamentari del Pdl non sia mai esercitata, anche perché il paese, che chiede lavoro e servizi, non potrebbe tollerarla». Fabrizio Barca non vuole aggiungere altro sul tema e questa ritrosia a parlarne deriva dal dubbio che tutto ciò sia solo un’altra mossa per mettere in difficoltà il suo partito.
A destra risuonano tamburi di guerra, ma anche nel vostro campo non si scherza. Che ne pensa delle bordate continue di Renzi a Letta?
«Ma nella mia idea di partito separato dallo Stato, la responsabilità di qualunque cosa non sia avvenuta in questo governo è del Pd, non del suo premier. Il Pdl come partito ha chiesto cose molto precise, il Pd no, sia in questa fase che in campagna elettorale. Un esempio: se il Pd avesse detto che voleva un’immediata reintroduzione dell’indicizzazione delle pensioni sotto i 1400 euro, Letta sarebbe stato rafforzato e non indebolito. Ciò dimostra che il partito deve essere un organo vivo con una sua strategia anche quando esprime un premier».
Lei ha detto che Renzi può vincere il vostro congresso perché è un candidato dirompente dal punto di vista del cambiamento: si è conquistato pure il suo voto?
«No. Girando l’Italia in queste settimane sento che molti, di quelli che avevano pensato di appoggiarlo, si domandano se il rinnovamento significherà sostituzione di una filiera calata dall’alto o concorrenza tra i migliori. Cioè se si tradurrà nell’aprireun metodo diverso dentro il partito e quindi nella società. In altri termini, mi convinco sempre di più che la mia utilità consista nella franchezza delle domande a tutti i candidati: solo dopo matureranno delle scelte, magari la notte prima del voto. Registro che ancora non si discute di contenuti, tranne alcuni spunti. Per convincere le persone che puoi cambiare le cose devi prima convincerle che sei in grado di attuare le promesse fatte, su scuola, infrastrutture, e così via. La differenza non è nell’agenda, ma nell’avere un metodo per realizzare le tue intenzioni, perché a raccontarle sono buoni tutti».
La pensa come D’Alema sul fatto che Renzi non sia adatto a fare il segretario di un partito come il Pd?
«Faccio un esempio concreto: sono d’accordo i candidati con la mia richiesta di ridurre la direzione del Pd, cui è affidato l’indirizzo strategico del partito, da 200 a 20 persone? Una proposta di buon senso, che parte da qualche cognizione di organizzazione che ho maturato negli anni, perché non esiste organismo al mondo in cui la strategia la decidono duecento persone. Uno solo dei candidati mi ha risposto, Civati, dicendosi d’accordo. Cuperlo ha detto che bisogna rafforzare la dirigenza, Renzi non l’ha neanche presa in considerazione. Per me e per moltissimi altri, conteranno questi impegni concreti».
Anche lei come Cacciari teme che la scissione sia inevitabile nel Pd?
«No, non lo credo affatto. Una scissione sul piano dell’identità, questione purtroppo molto poco discussa, non ha ragione d’essere sul piano culturale, anzi oggi trovano conferma alcuni presupposti inesplorati della vicenda del Pd. Ci sono contrasti tra le persone, camuffati dall’ideologia. Ma non c’è questa presunta faglia tra socialcomunisti e liberaldemocratici. E credo che il partito non si farà prendere in giro da chi userà dei vessilli identitari per eventuali operazioni. La gente non ci casca, chi volesse fare simili operazioni troverebbe una significativa opposizione in giro».
Ritiene che Renzi e Letta si debbano alleare in un ticket per vincere alle urne?
«Bisognerebbe capire a che progetto comune dovrebbe essere finalizzato. Intendo dire che ci sono oggi tanti sindaci di grandi città molto validi, cinque-seicento sindaci di comuni minori molto capaci, due giovani presidenti di regione del Pd e mi riferisco a Zingaretti e Serracchiani, di assoluto valore. Ecco la squadra è questa e si può alleare non in base ad operazioni di potere ma su un grande progetto».

il Fatto 26.9.13
Il latitante. Commemorato in un’aula del Senato il governo dell’ex leader Psi
Napolitano omaggia Craxi mentre la figlia insulta i pm
Stefania Craxi: “Una presenza che sana molti dolori. Mio padre distrutto dai comunisti attraverso i giudici di Milano”
Il Presidente la applaude e la abbraccia, senza dire una parola
Macaluso: “Agitatrice”
di Paola Zanca


L’invito è arrivato alla fine del primo settennato. “Presidente, vorrà essere nostro ospite per il trentennale del governo Craxi? ”. Dal Colle rinviarono la risposta, facendo presente che quel giorno, il 25 settembre 2013, al massimo avrebbe potuto rendere omaggio al leader socialista solo un senatore a vita. Invece, ieri, seduto sulla poltrona in velluto color ocra, Giorgio Napolitano ha “sanato i dolori” della famiglia di Bettino e di un pezzo di storia d’Italia da Capo dello Stato in carica. Proprio così, “sanato i dolori”. Usa queste parole, Stefania Craxi per descrivere la “riconoscenza” che prova nei confronti di Napolitano. Perché è qui “in questa sala” del Senato (la Zuccari, a palazzo Giustiniani) “non già come autorevole protagonista e testimone delle vicende di quei tempi (era capogruppo del Pci all’epoca del governo Craxi, ndr) ma come massima istituzione della Repubblica italiana”. Seduta accanto al Presidente, c’è mezza classe politica travolta da Tangentopoli, da Arnaldo Forlani a Gianni De Michelis. E dal palco, Stefania, la pasionaria figlia del leader fuggito ad Hammamet, non lesina attacchi e insulti a quei giudici che hanno spezzato la carriera del “riformista”, “vincitore ideologico” del “becero sovietismo del Pci”. Suo padre poteva essere “il Mitterrand italiano” se “al-l’appuntamento dell’unità socialista” anziché “gli ex comunisti” non si fosse presentata “la Procura di Milano”. Suo padre è finito “distrutto” dal “volume di fuoco del partito comunista”: non per via politica, ma “attraverso la strada obliqua della magistratura”.
NAPOLITANO è lì a un passo. Ascolta senza mostrare cenni di disappunto, a meno di non voler azzardare interpretazioni sul ripetuto toccarsi l’angolo esterno dell’occhio sinistro. La Craxi parla per una ventina di minuti. Si scaglia contro “l’opera di rimozione della memoria, di cancellazione di ogni calendario, di annullamento d’ogni sua esperienza come la cancellazione di una peste, di un dramma che si vuole allontanare dalle proprie coscienze”. Attacca il professor Stefano Rodotà (lei lo chiama “signor”), “candidato in pectore dei conservatori un tanto al chilo”, che ha osato definire in tv “orribile” la politica economica del governo del ‘83. Sostiene che non c’è uno dei “centinaia di centri culturali e politici” del territorio nazionale che gli abbia voluto dedicare un convegno.

l’Unità 26.9.13
La nazione non è più un territorio
di Michele Ciliberto


Quando si affronta la questione dell’immigrazione, occorre essere consapevoli di un dato fondamentale: oggi è in corso di profonda trasformazione l’idea di nazione, un processo strettamente connesso alla crisi del modello moderno di Stato.
Cioè di quel modello imperniato su un rapporto organico tra Stato, nazione, territorio. Non a caso, la storia dell’Europa moderna, arrivata ormai alla sua conclusione, si configura proprio come una lunga vicenda di Stati nazionali territorialmente concepiti e costituiti.
È difficile periodizzare questo processo, e dire quando esso sia entrato in una fase di crisi. Per quanto riguarda l’Italia, è un fenomeno che diventa visibile negli anni Settanta, nel vivo di trasformazioni strutturali e culturali che investono in profondità il nostro Paese.
La vicenda della Lega si situa in questo contesto, ed è significativa in un duplice significato. Anzitutto perché è indice della crisi dello Stato nazionale moderno; in secondo luogo perché essa cerca di risolvere questa crisi attraverso la costruzione di una microentità statale di carattere regionale, territorialmente definita e rivendicata, fino ad assumere toni di carattere etnico, e addirittura razzista, quando la prospettiva politica della Padania viene meno. In altre parole, la Lega è stata, al fondo, una risposta di carattere reazionario alla crisi, di vastissime proporzioni, dello Stato nazionale moderno. Oggi appare chiaro che anche tutta la vicenda jugoslava va vista in questo quadro: come l’esito sanguinoso di una crisi che è esplosa in termini più violenti dove il paradigma della statualità moderna era più debole e più fragile.
La storia, anche recente, insegna che da questa crisi si può uscire in una duplice direzione: riproponendo in termini più ristretti e asfittici il principio statuale moderno; oppure lavorando a una nuova concezione della nazionalità, che si ponga oltre le barriere moderne della statualità e della territorialità.
Ma una sfida di questo spessore può essere affrontata solo ponendosi dal punto di vista dell’Europa e intrecciando un nuovo principio di nazionalità e la nuova idea dell’Europa, sganciando entrambi dalla interpretazione della territorialità come condizione della cittadinanza, sia italiana che europea.
È questo il salto culturale, etico e anche religioso che bisogna compiere oggi e nei prossimi anni, assumendo come punto di elaborazione e di iniziativa politica la dimensione della interculturalità e del dialogo fra le religioni.
È un mutamento radicale di visione che richiede un impegno decisivo a livello di coscienza, di cultura, di educazione, da cui deve scaturire un concetto di cittadinanza italiana ed europea capace di andare oltre gli stessi concetti fondamentali della civiltà moderna, come quello di tolleranza essenziale , certo, ma non non più sufficiente a definire il rapporto tra le differenti identità culturali e religiose, perché agganciato a forme di riconoscimento e di comunicazione tra mondi diversi che oggi devono essere, con forza e rigore, oltrepassate.
Non è il territorio che deve decidere oggi chi è italiano o europeo, chi è nativo e chi è straniero: ma la partecipazione a un comune vincolo civile, a una dimensione culturale condivisa, costituita da differenze in grado di risolversi in un condiviso senso di appartenenza. Nella costruzione della nuova Italia e della nuova Europa, la dimensione di valori comuni è decisiva, anzi è il banco di prova delle nuove identità nazionali ed europee che bisogna costruire.
Insisto sul temine nazione: dobbiamo lavorare a un nuovo concetto di nazionalità, non alla sua cancellazione. È vero il contrario. La nuova Europa da costituire richiede forme nazionali nuove ma potenti, in grado di arricchire con la loro storia la comune patria europea. La storia vive di differenze, non di uniformità.
C’è un nuovo mondo da costruire nel XXI secolo, oltre le barriere della «modernità», dalle quali non si riesce ancora ad uscire con la forza necessaria. Ed è in questo processo che va inserito il problema, grande e drammatico, della immigrazione. Padre Ernesto Balducci diceva che l’Europa era destinata ad essere travolta dall’Africa, se non avesse saputo fare i conti con i nuovi mondi che venivano alla luce. Aveva ragione: essi possono essere la condizione per un balzo in avanti della nostra comune civiltà in Italia ed in Europa oppure di una sua catastrofe. Certo, è una sfida che ha i suoi tempi e le sue tappe: è dunque giusto battersi per lo «jus soli» e per la eliminazione d leggi inique. Ma noi dobbiamo avere uno sguardo più lungo e riuscire ad avere una visione di quello che potrà essere il nostro futuro. La modernità, la statualità nazionale moderna, è ormai finita; sta alle nostre spalle.

La Stampa 26.9.13
In Piemonte troppi obiettori aborto sempre più difficile
Il 67% dei ginecologi non pratica l’interruzione volontaria di gravidanza Ci sono più medici che rifiutano l’intervento di quelli disposti a eseguirlo
di Marco Accossato

Cresce il numero di chi si oppone Nel 2012 sono state 8.856 le interruzioni volontarie di gravidanza: in un solo anno è aumentato in Piemonte il numero di medici che rifiuta di praticare l’aborto
Sei ginecologi su dieci, in Piemonte, sono contrari all’aborto e rifiutano di praticarlo. Quasi la metà degli anestesisti nelle strutture pubbliche, inoltre, non garantisce il rispetto della legge 194. «Un dato preoccupante, e soprattutto in crescita», denuncia Eleonora Artesio, consigliera della Federazione della Sinistra ed ex assessore regionale alla Sanità. «Al momento dichiara - non sembra che questo incida sulle liste di attesa al punto da superare i limiti temporali imposti dalla 194, ma la situazione non induce certo a stare sereni».
Non siamo forse ancora al ritorno degli aborti clandestini, ma i dati raccolti dalla Artesio fanno riflettere, perché in alcune strutture - come quelle dell’Asl To1 - il numero complessivo di ginecologi obiettori (11) è nettamente superiore a quelli disponibili a praticare l’aborto (2). Numeri che, di fatto, rendono molto più probabile il trovarsi di fronte a un ginecologo non disposto ad assistere una donna in un momento fisicamente e psicologicamente comunque sconvolgente della propria vita.
La situazione in Piemonte La situazione è identica un po’ ovunque, con tre casi clamorosi, stando ai numeri del 2012: all’Asl di Novara è disponibile un solo medico non contrario a praticare l’aborto, due all’ospedale di Alessandria, tre in quello di Cuneo. Al Sant’Anna i ginecologi obiettori sono 55 contro i 35 «attivi», mentre al Mauriziano - caso più unico che raro - gli obiettori sono invece la metà dei non obiettori.
È polemica. «La Regione - dice il presidente del gruppo regionale della Lega Nord, Mario Carossa - ha garantito e sempre garantirà un accesso alla sanità a chiunque, nella più totale libertà. Tutti hanno il diritto di essere curati e seguiti nel migliore dei modi, per cui vaneggiare di aborti clandestini come fa il capogruppo Artesio appare fuori luogo e del tutto irreale». La consigliera della Federazione della Sinistra ribatte parola per parola: «I numeri parlano chiaro, com’è chiaro il silenzio della giunta Cota, che naturalmente non ha avviato né una discussione sul tema, nonostante le richieste delle opposizioni, né attuato una politica di rafforzamento dei Consultori». Al contrario, «Cota ha sempre sostenuto i Movimenti per la vita».
Parlano i numeri Nel 2012 sono state 8.856 le interruzioni volontarie di gravidanza nella nostra regione. Polemiche a parte, parlano i numeri, e i numeri dicono che sommando tutte le Asl e le Aziende ospedaliere del Piemonte il totale dei ginecologi obiettori è di 273 medici contro i 131 dei non obiettori. «Con i pochi che non si rifiutano di applicare la 194 - fa notare sempre la Artesio -, che finiscono per occuparsi di aborti per tutta la vita, a scapito della propria professionalità e della carriera».
Dal 2011 al 2012 è cresciuto sia il numero dei ginecologi obiettori sia quello degli anestesisti. Siamo - è vero - al di sotto della media nazionale, ma il dato non consola.
La procreazione assistita Anche sulla questione della procreazione medicalmente assistita la Artesio contesta la Regione: «Nel 2009 una delibera della giunta Bresso aveva disposto la creazione di due nuovi centri pubblici ad Asti e a Novara, in un quadro in cui i servizi in Piemonte sono quasi esclusivamente in mano ai privati, con costi spesso proibitivi per la famiglia». Ma a distanza di quattro anni, «quei due centri non sono mai nati per mancanza di personale, e all’unico istituto accreditato è stato tagliato il budget, tanto che ormai opera solo più in regime privatistico».

Repubblica 26.9.13
Quelle 51 onne salvate da una legge in pericolo
Perché le manette sono solo il primo passo

di Michela Marzano

Si può veramente pensare di combattere la piaga delle violenze contro le donne senza prenderne in considerazione il carattere strutturale e limitandosi ad adottare una serie di misure repressive? C’è un’urgenza evidente di risposte immediate: è in gioco, nell’immediato, la vita di centinaia di persone. Ma il problema delle violenze contro le donne, in Italia, non è solo un’urgenza. Anzi. È soprattutto un problema strutturale che non si può sperare di risolvere introducendo l’irrevocabilità della querela nei confronti degli uomini violenti, l’arresto obbligatorio per maltrattamento e stalking di chi è colto in flagrante delitto, e con le molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e dei compagni previste nel decreto legge approvato l’8 agosto dal Consiglio dei ministri. C’è da rallegrarsi se davvero le forze dell’ordine cominciano in molti casi a intervenire in modo efficace per proteggere le vittime. Attenzione però a non sottovalutare il vero problema legato alle violenze di genere.
Ovvero le sue radici, le sue diramazioni, le sue conseguenze e la sua prevenzione. Continuare a normare solo gli interventi repressivi — che peraltro, in molti casi, sono già normati — significa infatti non capire che la violenza contemporanea contro le donne è la conseguenza immediata della profonda crisi identitaria che, al giorno d’oggi, riguarda non solo gli uomini e le donne, ma anche più in generale le relazioni intersoggettive.
Quando si capirà che, senza la promozione di una cultura della tolleranza e dell’accettazione reciproca, la violenza non sarà mai arginata? Quando si comincerà a proteggere davvero le vittime finanziando in maniera adeguata i centri anti-violenza che da anni chiedono risorse per le proprie fondamentali attività? Quando si affronterà il problema della presa in carico psicologica degli uomini che maltrattano le donne? Quando si deciderà di introdurre nelle scuole un’educazione mirata a disinnescare comportamenti violenti e alla gestione dei conflitti?
Problemi che il decreto legge non affronta. Tutte questioni che, finché non saranno trattate, non permetteranno di trovare soluzioni reali ed efficaci al carattere strutturale della violenza contro le donne.
In parte destabilizzati dalle recenti trasformazioni delle relazioni umane, molti uomini non riescono ad accettare l’autonomia femminile: insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, accusano le donne di mettere in discussione il proprio ruolo; narcisisticamente fratturati, pensano che le donne debbano aiutarli a riparare le proprie ferite, trasformandosi in persecutori di fronte ad ogni manifestazione di indipendenza, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità.
Ecco perché il problema delle violenze — ancora prima dei passaggi all’atto che questo decreto cerca di combattere — è un problema culturale e formativo: in assenza di punti di riferimento e di fronte alla frantumazione dei rapporti umani, ci si illude che, con la violenza, ci si possa riappropriare di un’identità e di un ruolo che non esistono più da molto tempo. Mentre l’educazione e la cultura permetterebbero di riscrivere la grammatica delle relazioni umane, aiuterebbero i ragazzi e le ragazze a prendere coscienza della propria dignità e del proprio valore, insegnerebbero ai più piccoli il rispetto delle differenze e dell’alterità.
Il dramma della violenza contro le donne comincia nelle famiglie e nelle scuole e viene rafforzato con le pratiche di discriminazione. Fino a quando non si affronterà il problema dell’educazione per insegnare l’uguaglianza e la pari dignità di tutti, del potenziamento dei centri anti-violenza per l’aiuto delle vittime, della diffusione di messaggi di odio e di intolleranza che violano la dignità delle persone, delle condizioni materiali di accesso al lavoro, e della presa in carico degli uomini maltrattanti per evitare che la violenza si trasmetta da una generazione all’altra, le misure legislative saranno sempre e solo dei palliativi. Certo necessari, ma mai sufficienti.

Repubblica 26.9.13
Shalabayeva, denunciati i funzionari del Viminale
Esposto della figlia alla procura di Roma: “Fu sequestro di persona”. Nel mirino anche i kazaki
di Fabio Tonacci


ROMA — Con una mossa che solleva il caso Ablyazov dal torpore in cui giaceva da settimane, i legali della figlia del dissidente kazako detenuto in Francia hanno depositato in procura a Roma una denuncia per sequestro aggravato di persona e ricettazione contro tre diplomatici del Kazakhstan e contro non precisati funzionari del Viminale. L’esposto, corredato da due foto (una del documento della figlia di Alma Shalabayeva, l’altra scattata sulla pista di Ciampino il giornodel rimpatrio), arriva oggi sulla scrivania del procuratore capo Giuseppe Pignatone.
«Nel provvedimento — spiega l’avvocato di Madina, Astolfo Di Amato — accusiamo l’ambasciatore kazako a Roma, Adrian Yelemessov, il suo consigliere per gli affari politici Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov». E chiedono però ai magistrati di individuare i funzionari del Viminale «che abbiano tenuto comportamenti contro la legge nella vicenda dell’espulsione della Shalabayeva e della figlioletta di sei anni Alua, perché siamo convinti che siano stati commessi abusi e omissioni gravi». Convincimento nato da quel cablo in cui l’Interpol di Astana chiedeva di “deportare” Alma, che pure non era mai stata oggetto di un mandato di cattura. E rafforzato dalla contabilità del tempo impiegato per espellere la moglie di Mukthar Ablyazov, dopo il blitz della polizia nella villa di Casalpalocco della notte del 28 maggio scorso: appena 66 ore. E 24 ore dal momento in cui è stato firmato il provvedimento della prefettura.
Khassen e Yessirkepov si vedono nella fotografia allegata alla denuncia, scattata dal pilota della compagnia privata austriaca Avcon Jet nel pomeriggio del 31 maggio, sulla pista di Ciampino. L’aereo riportò ad Astana Alma e la figlia, e nell’immagine parlano con tre uomini, forse poliziotti o funzionari del Viminale.
«Hanno organizzato l’espulsione illegale di mia madre — dice Madina Ablyazova, la maggiore delle quattro figlie del dissidente — Come può l’Italia permettere loro di continuare a godere della immunità diplomatica dopo che gli stessi hanno abusato pesantemente dei loro privilegi?». Ci sarebbe già un precedente, spiegano i suoi legali: quello di Abu Omar, in cui la Cassazione ha stabilito che l’immunità non può essere opposta in presenza di violazione dei diritti umanitari.
L’accusa di ricettazione è legata all’altra foto, molto recente, di Alua. L’immagine sul documento kazako utilizzato per l’espatrio, sembra uguale a quella del passaporto della Repubblica Centrafricana (la cui autenticità non è stata ancora provata). «Questo significa due cose — spiega Amato — o che sia la copia digitale della foto del passaporto centrafricano oppure che sia frutto dell’attività degli investigatori privati che hanno controllato casa della signora Alma. In entrambi i casi c’è un illecito: ricettazione o violazione della privacy ».
Stamattina Pignatone esaminerà la denuncia e valuterà se inserirla nel fascicolo già aperto a carico di ignoti dal pm Eugenio Albamonte, o se aprirne un altro ex novo.

il Fatto 26.9.13
Grecia, in migliaia contro i fascisti


Migliaia di greci sono scesi in strada ad Atene e in altre 20 città – nel 2° giorno di sciopero generale – per protestare contro l’uccisione, la scorsa settimana, del rapper antifascista Pavlos Fyssas, 34 anni, per mano di un militante del partito filo-nazista Alba Dorata, Giorgios Roupakias, 45 anni. Ansa

Corriere 26.9.13
Gruppi paramilitari con Alba dorata in Grecia torna l’incubo del Golpe
di Antonio Ferrari


In Grecia l'incubo si riproduce e la memoria torna agli anni 60, quando le squadracce fasciste terrorizzavano il Paese fino a produrre le condizioni per il colpo di stato militare. Dopo il delitto del rapper di sinistra Pavlos Fyssas, si scopre che il partito neonazista Alba dorata, secondo i sondaggi la terza forza politica greca, è il braccio parlamentare di «un'organizzazione criminale con le caratteristiche di un'associazione per delinquere e con una struttura militare». Parole pesanti quelle del ministro dell'Interno Ioannis Michelakis, a Roma per un vertice a sostegno della collega italiana Cécile Kyenge, bersagliata da attacchi razzisti. Nonostante le denunce di numerosi intellettuali, la politica greca aveva ridotto a fenomeno marginale le scorribande delle squadre d'assalto, che imitavano le «camicie brune» del nazionalsocialismo, ritenendolo al massimo la folcloristica appendice della protesta contro i sacrifici imposti dalla crisi. Visione miope, anche perché nessuno ha voluto riflettere su un dato agghiacciante: nelle ultime elezioni, come aveva denunciato il settimanale To Vima, più d'un poliziotto su due aveva votato per Alba dorata. E ora, grazie alle confessioni di uno dei fondatori del partito, To Vima ha scoperto l'esistenza di squadre organizzate e violente. Testualmente, «Alba dorata ha una struttura paramilitare di tremila uomini disposti a tutto. Inoltre è dotata di circa 50 falangi, con molti membri pronti a gettarsi negli scontri di piazza e altrettante squadre, di sei membri ciascuna, per compiere attacchi mirati sotto la guida di tre persone del partito». Tutto questo non sarebbe potuto accadere senza preziose complicità. Vengono i brividi a pensare che, seguendo le indagini sull'omicidio di Fyssas, vi sono state le dimissioni di due altissimi gradi della polizia, i generali Dikopoulos e Kaskanis. Durante un'operazione investigativa, a quanto pare, ad alcuni neonazisti è stato consentito di andarsene e di evitare l' arresto. Tardivamente, si sta cercando di correre ai ripari. È pur vero che l'assassinio del rapper ha interrotto la crescita di Alba dorata, ma ora ci si chiede se il partito possa sedere in Parlamento e se non debba essere dichiarato fuorilegge, visto che alcuni parlamentari sarebbero in stretto contatto con le strutture paramilitari e violente.

il Fatto 26.9.13
Confusione laburista. Il quid manca a sinistra
I leader dei partiti socialdemocratici europei sembranoincapaci di attrarre consensi
Dopo il caso Spd in Germania Miliband in crisi in Gran Bretagna
di Caterina Soffici


Londra Pare chiaro: la sinistra ha un problema di leadership. Non parliamo del nostro povero Letta nipote (faremo, diremo, è tutto a posto, la stabilità, la credibilità e altre chiacchiere varie). O di Guglielmo Epifani e delle miserie del Partito democratico. O dei socialdemocratici tedeschi, che ambivano a fare le scarpe a Frau Merkel e invece si ritrovano con il cerino in mano a decidere la Grosse Koalition e il loro candidato alla cancelleria Peer Steinbrück sacrificato in nome della realpolitik.
PARLIAMO DEL GLORIOSO partito laburista inglese che fu di Tony Blair, quando dettava la linea e faceva sognare la mezza Europa progressista e rosicare l’altra mezza, quella conservatrice, perché non aveva un leader così.
Che l’attuale segretario del partito laburista britannico Ed Miliband non sia fatto della stessa pasta, lo si sapeva. Il discorso tenuto a Brighton, in occasione del congresso annuale del Labour Party, ha confermato il grigiore e la pochezza del personaggio. Ha infiammato i suoi. E meno male, almeno quello. Ma non ha certo fatto colpo sul-l’elettorato inglese. Il Labour ha un piccolo vantaggio nei sondaggi, ma come leader del paese gli inglesi preferiscono ancora Cameron. Ed è tutto dire, visti i risultati del governo conservatore nel-l’affrontare la crisi e l’ultima clamorosa figura barbina incassata dal premier Cameron, il primo a memoria d’uomo a essere bocciato sonoramente dal Parlamento su una proposta di intervento militare in Siria.
ANCHE QUI INSOMMA, la sinistra manca la leadership. Ed Miliband, il fratello con la zeppola del vero Miliband (David, ex ministro di Tony Blair, adesso in esilio newyorchese), ha lanciato nel-l’aria un po’ di proposte: tariffe del gas e bollette della luce congelate per almeno due anni e l’abolizione della bedroom tax, la contestatissima tassa introdotta dai conservatori che penalizza chi tiene stanze sfitte nelle case popolari. Un milione di nuove case. Doposcuola gratuito per tutti i bambini delle elementari. E poi voto a 16 anni (ma questo è un vecchio cavallo da battaglia e quindi non contiamolo neppure). Tutte chiacchiere, ovviamente, perché non ci sono i soldi per realizzarle.
HA GALVANIZZATO i suoi, promettendo maggiori tasse ai ricchi per pagare questi bei sogni. Ma i commentatori (anche quelli di sinistra) hanno già raffreddato gli animi: il programma annunciato costerebbe 27 miliardi di sterline. Impossibili da trovare per chiunque. Quindi un programma che sulla carta è di sinistra (tassare i ricchi e colpire le banche per dare ai poveri) di fatto è solo uno scimmiottamento populista. Non c’è un sogno da vendere, solo chiacchiere.
Ancora più inquietante che Miliband abbia detto questo: “State meglio ora di come stavate cinque anni fa? La Gran Bretagna si merita di meglio, con noi al governo farà meglio di così”. Sapete chi aveva usato la stessa frase in una campagna elettorale tanti anni fa? Ronald Reagan. Non certo un campione nel Pantheon della sinistra.

Repubblica  e Cnn 26.9.13
“L’Olocausto è stato un crimine condanno i massacri dei nazisti”
Il presidente iraniano Rohani: ora nuovi rapporti col mondo
intervista di Christiane Amanpour


SIGNOR presidente Rohani, come ci si sente a essere il protagonista di questa Assemblea generale delle Nazioni Unite. Come ho anticipato, lei sembra essere al centro dell’attenzione e – cosa insolita per un presidente iraniano – la gente guarda a lei con un cauto ottimismo. Come ci si sente in questa posizione?
«Prima di rispondere alla sua domanda, vorrei estendere i miei saluti al popolo americano, che è molto vicino al cuore del popolo iraniano, e fargli i nostri migliori auguri per il futuro ».
Molti si aspettavano, forse con troppo ottimismo, che lei e il presidente Obama poteste almeno stringervi la mano alle Nazioni Unite. Nessuno si aspettava un incontro formale, però almeno un saluto, una stretta di mano, un modo per rompere il ghiaccio. Invece non c’è stato nulla. Perché?
«Si era parlato di organizzare questo incontro tra me e il presidente Obama, per avere l’occasione di parlare fra di noi, ed erano stati fatti anche alcuni preparativi in tal senso: gli Stati Uniti erano chiaramente interessati a fare questo incontro, e in linea di principio l’Iran, in certe circostanze, poteva essere d’accordo, ma io credo che non ci sia stato tempo a sufficienza per coordinare in modo adeguato l’incontro. Ma venendo al rompere il ghiaccio a cui prima accennava, direi che sta già cominciando a rompersi, perché l’atmosfera sta cambiando e il popolo iraniano è determinato a inaugurare una nuova era nei rapporti tra l’Irane il resto del mondo».
Lei è autorizzato ad avviare colloqui, un negoziato con gli Stati Uniti, lei è autorizzato dalla Guida suprema?
«La mia opinione è che il presidente iraniano abbia l’autorità, in tutti quei casi in cui è gioco l’interesse nazionale e quando è necessario, opportuno e indispensabile, di parlare e dialogare con altri allo scopo di promuovere i diritti della propria nazione. Per venire alle circostanze specifiche, la Guida Suprema ha detto che sedovessero rendersi necessari dei negoziati nell’interesse del Paese, lui non è contrario. E ha menzionato specificamente, in un recente discorso, che adesso non è ottimista riguardo ai colloqui con gli Stati Uniti. Però, quando si tratta di questioni specifiche, gli esponenti del Governo possono parlare con i loro corrispettivi americani. Ora, se si fosse creata, se si fosse presentata un’opportunità oggi, e se fosse stato fatto il lavoro preparatorio, molto probabilmente i colloqui avrebbero avuto luogo e sarebbero stati incentrati principalmente sulla questione nucleare e sugli sviluppi in Medio Oriente. Perciò le posso assicurare che la Guida Suprema ha dato al mio Governo l’autorizzazione a negoziare liberamente su questi temi».
Una delle cose che il suo predecessore era solito dire da questo palco era negare l’Olocausto e pretendere che fosse un mito. Voglio sapere qual è la sua posizione sull’Olocausto: lei riconosce quello che è stato? Cos’è stato l’Olocausto?
«Ho già detto che non sono uno storico, e quando si tratta di parlare delle dimensioni dell’Olocausto sono gli storici che dovrebbero fare considerazioni. Ma in generale posso dirle che qualsiasi crimine contro l’umanità avvenuto nella storia, compreso il crimine che i nazisti hanno commesso nei confronti degli ebrei, e anche di non ebrei, è riprovevole e condannabile. Qualsiasi atto criminale abbiano commesso contro gli ebrei noi lo condanniamo, ma sopprimere una vita umana è qualcosa di spregevole, e non fa differenza se la vita soppressa è di un ebreo, di un cristiano o di un musulmano: per noi è lo stesso. Sopprimere una vita umana è qualcosa che tutte le religioni rigettano, ma d’altra parte questo non significa che se i nazisti hanno commesso crimini contro un gruppo allora è giusto sottrarre la terra a un altro gruppo e occuparla. Anche questo è un atto che dovrebbe essere condannato. Di queste cose si dovrebbe discutere in modo imparziale».
Per concludere, può dirmi una frase che vorrebbe rivolgere al popolo americano?
«Vorrei dire al popolo americano che porto pace e amicizia da parte degli iraniani».
(Copyright Cnn. Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 26.9.13
Ora i due giocatori si guardano e la partita può ricominciare
di Sergio Romano


I negoziati cominciano quando ciascuno dei contendenti si accorge che la propria linea politica non è riuscita a modificare quella dell'avversario. L'Iran di Ahmadinejad credeva di potere realizzare il programma nucleare senza cedimenti, ed era convinto che le sanzioni non avrebbero piegato il Paese. Gli Stati Uniti speravano che le punizioni economiche inflitte all'Iran avrebbero suscitato la rivolta della società e intaccato la stabilità del regime. Nessuna delle due linee ha prodotto il risultato desiderato.
Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno rinunciato a pretendere impegni e garanzie che l'Iran ha sinora rifiutato, ma hanno dovuto constatare che le sanzioni non bastano e che il regime può addirittura confermare, con l'elezione di un presidente alquanto diverso dal suo predecessore, il buon funzionamento del proprio sistema politico. Restano beninteso gli ultimatum e il ricorso alla forza (extrema ratio di ogni negoziato fallito), ma gli amletici zig zag di Obama nella questione delle armi chimiche siriane hanno reso l'intervento militare molto più difficilmente credibile. Se speravano che l'America avrebbe rinunciato a pretendere garanzie, gli iraniani sbagliavano. Se sperava in una nuova «onda verde» o addirittura nella punizione militare dell'Iran (un chiodo fisso della politica neoconservatrice e della lobby filoisraeliana) l'America sbagliava.
Quello a cui abbiamo assistito nell'Assemblea generale dell'Onu è il dialogo a distanza fra due giocatori che debbono anzitutto sgombrare il terreno da tutti gli ostacoli sorti nel corso del tempo. Rouhani ha buttato via il lessico insolente e roboante di Ahmadinejad, ha detto di essere pronto a iniziare trattative limitate nel tempo e orientate verso risultati concreti, e ha ripetuto che il suo Paese non intende creare un arsenale nucleare. Ha persino riconosciuto, in un'altra circostanza, il genocidio ebraico, anche se l'agenzia dei Pasdaran (i Guardiani della rivoluzione) si è affrettata a correggere la versione della Cnn e a diluire le sue parole aggiungendo altri crimini nazisti a quello commesso contro gli ebrei. Ma ha detto altresì che le sanzioni economiche sono un atto di violenza e che l'Iran non intende rinunciare all'arricchimento dell'uranio. Obama, dal canto suo, ha cercato di coinvolgere l'Iran nell'intesa internazionale contro le armi chimiche siriane con un cenno ai soldati iraniani uccisi dai gas iracheni durante la guerra degli anni Ottanta. Ha detto di essere disponibile al negoziato e di averne dato l'incarico al Segretario di Stato. Nessuno dei due ha rinunciato al punto fondamentale della propria linea politica. Ma sembrano esistere ormai le condizioni per una nuova trattativa.
Esistono anche quelle per un accordo? Non ho mai creduto che l'Iran volesse costruire immediatamente un ordigno nucleare, ma ho sempre pensato che voglia essere nelle condizioni del Giappone, vale a dire capace di costruirlo e minacciarne l'uso, all'occorrenza, nel più breve tempo possibile. Cambierebbe idea, forse, se gli Stati Uniti fossero disposti ad adoperarsi per lo smantellamento dell'arsenale nucleare israeliano. Benjamin Netanyahu lo sa ed è per questo che ha definito il discorso di Rouhani «cinico e pieno d'ipocrisia». La minaccia di un nucleare iraniano è divenuta in questi anni la migliore giustificazione del nucleare israeliano. Prima o dopo gli Stati Uniti dovranno scegliere fra due posizioni possibili: convivere con un Iran potenzialmente nucleare o fare pressioni su Israele perché rinunci al proprio arsenale.

La Stampa 26.9.13
Commercio (e Web) libero Shanghai fa il grande balzo
Domani apre la zona economica speciale: parte la sfida a Hong Kong
Con i suoi 37 milioni e mezzo di abitanti Shanghai è la città più popolosa del mondo e ha una superficie di 6.340 kmq
Insieme a Macao Hong Kong è una delle due Regioni speciali della Cina: 7 milioni di persone vivono su una superficie di 1.104 kmq
di Ilaria Maria Sala


Una nuova vetrina all’occidentale per fare il balzo definitivo nell’economia globale. Molte delle ambizioni della nuova leadership cinese, a cominciare dal premier Li Keqiang, si concentrano a Shanghai, in particolare nel distretto di Pudong, che domani diventerà ufficialmente la nuova zona economica più avanzata della Cina.
Da vent’anni l’area urbana dedicata al commercio e al business sta crescendo davanti agli occhi di tutti. All’inizio è stata la Pearl Tower, la torre della televisione, costruita negli Anni Novanta e oggi diventata il simbolo della capitale cinese dello stile, poi un orizzonte di grattacieli spericolati. In pochi anni si è aggiunto l’aeroporto, il treno ad alta velocità MagLev che lo collega alla città, e ora, l’ambizione massima: la «Free Trade Zone», più di 29 chilometri quadrati di zona economico-finanziaria a statuto speciale che già comincia a inquietare Hong Kong. Domani il lancio ufficiale di questo che è il primo grande progetto a cui lega il suo nome il premier, responsabile delle politiche economiche nazionali.
All’inizio, saranno unite alcune zone che già da ora godono di liberalizzazioni commerciali e finanziarie come la duty free di Waigaoqiao -, poi saranno modificate le norme fondamentali legate alla finanza, dato che qui, nella futura «Free Trade Zone», la zona a libero scambio, la valuta cinese (normalmente non convertibile) potrà essere scambiata altrettanto liberamente che a Hong Kong, i prestiti bancari avranno restrizioni inferiori, e le banche cinesi che operano da qui avranno il permesso di fare affari offshore senza bisogno di sottostare alle leggi nazionali sull’esportazione di capitali.
Anche le aziende straniere avranno il permesso di stabilire gruppi di investimento senza bisogno di un partner cinese a maggioranza e dovrebbe essere possibile aprire anche agenzie di collocamento straniere che potranno operare da qui nel resto della Cina. I servizi, da quelli medici e assicurativi a quelli legati al turismo e ai trasporti marittimi, saranno liberalizzati, e anche il settore costruzioni potrebbe vedere una maggiore partecipazione straniera. Ma si va oltre, anche con liberalizzazioni ad alto valore simbolico: nella «Free Trade Zone» sarà possibile individuare case d’asta che potranno mettere in vendita antichità cinesi e poi esportarle (un favore alla casa d’aste Christie’s, che ha già annunciato di voler aprire proprio qui, dopo aver fatto la pace con la Cina donandole due teste di bronzo di epoca Qing di cui era entrata in possesso).
Nonostante nella «Free Trade Zone» la libertà politica non sarà maggiore Internet sembra sarà più libero: in particolare, Facebook, Twitter e il «New York Times» potrebbero essere accessibili, pur restando off limits nel resto della Cina.
Ancora non si sa se ciò potrà avvenire solo nei lounge dell’aeroporto o in luoghi simili, ma online già girano le battute: «Come si potrà mai far stare l’intera popolazione cinese nel Pudong? ».
La Cina delle riforme economiche si è sempre mossa così: dapprima una zona pilota, dove vengono messe alla prova alcune riforme più ardite, con l’opzione di estenderle anche ad altre aree del Paese se dovessero funzionare. Per Shanghai, poi, c’è l’obiettivo di divenire centro finanziario internazionale da qui al 2020. Ovvero, di ritornare ad avere il posto che occupava prima della presa di potere del Partito Comunista, questa volta, sotto al Partito Comunista.
È troppo presto per predire il successo di quest’iniziativa, dal momento che la Borsa di Shanghai da quasi quattro anni è piagata da scandali e da una testarda tendenza al ribasso, che rendono Hong Kong e New York più attraenti per le aziende cinesi che vogliono quotarsi e avere buona credibilità e, ovviamente, anche per quelle internazionali. Per quanto ci sia la volontà di «creare una Free Trade Zone», tanto i servizi che la finanza hanno bisogno di una trasparenza che, per il momento, non è una caratteristica né a Shanghai, né nel resto della Cina.

l’Unità 26.9.13
Così Napoli aprì la Resistenza
Parla Abdon Alinovi: «Quattro giornate cruciali per spiegare il biennio 1943-45»

Lotta di popolo e non un tumulto casuale, questo fu l’insurrezione partenopea tra il 27 settembre e l’1 ottobre 1943.
Un racconto di quei giorni
di Bruno Gravagnuolo


«NON FURONO QUATTRO MA MOLTE DI PIÙ QUELLE GIORNATE. SONO PRECEDUTE DA SCONTRI REITERATI COI TEDESCHI E DA UNA BATTAGLIA A SUD DI NAPOLI CHE DURA VENTI GIORNI...». Sfata un luogo comune Abdon Alinovi, 90 anni, vecchio leone togliattiano, segretario napoletano del Pci, deputato e presidente della commissione antimafia negli anni 80. E il luogo comune è che la rivolta - dal 27 e al 1 ottobre 1943 - sia stata puro tumulto. Episodico. Mentre, sostiene Alinovi, «aveva ragione Longo: dopo Napoli la parola insurrezione acquista valore e senso e diventa la direttiva di marcia per la Resistenza». Alinovi, nato a Eboli, è testimone indiretto. Ma stava nel cuore del teatro più vasto degli eventi: lo sbarco alleato a Salerno dell’8-9 settembre. Operazione «Avelange». Di lì, dalla piana del Sele, segue gli accadimenti l’allora giovane studente di legge a Napoli. Conquistato nel 1941 al comunismo da Mario Garuglieri, operaio fiorentino amico di Gramsci.
Su quei fatti Alinovi tornerà. Coi resoconti dei compagni dal cuore dello scontro e l’approfondimento storiografico. Questo il quadro: gli Alleati combattono da Paestum alla Costiera amalfitana, scontrandosi con una resistenza tedesca via terra che durerà venti giorni, tra Salerno e Nocera Inferiore. Immani distruzioni in quei 50 chilometri da sud verso nord, con il rischio che lo sbarco sia ricacciato in mare. Da Eboli dove stava Alinovi fino a Cava de’ Tirreni e Nocera, le fiamme della battaglia si vedono benissimo: artiglieria alleata che devasta e contrattacco tedesco. Con una testa di ponte sul Sele gli Alleati passano e iniziano la risalita. Coperti da mare dal fuoco amico. Frattanto Napoli dice Abdon«è stremata, sgarrupata, da 104 bombardamenti e 25mila vittime. E dopo l’8 settembre i tedeschi imperversano: i generali italiani fuggono. E civili e militari sono oggetto di rastrellamenti e uccisioni». Prime reazioni popolari (prima dei fatti di Boves nel cuneese) tra il 9 e il 12 settembre, quando il comandante Scholl proclama lo stato d’assedio. Eccole. Manifestazioni studentesche. Attacco a una autoblindo tedesco in Via Foria, con cattura di 20 soldati. Scontro armato al Palazzo dei Telefoni. Assalto popolare a Piazza Plebiscito, per impedire il transito di una colonna occupante, e liberare civili prigionieri. Ancora. Tre marinai e tre tedeschi morti. E rappresaglia: incendio della Biblioteca Nazionale. E uccisione di decine di militari italiani in strada, con sequestro di 4000 civili. E siamo allo stadio d’assedio del 12, seguito da un proclama del 13 che si chiude così: «Tedeschi vilmente assassinati, feriti e vilipesi in modo indegno da un popolo incivile».
Sì, annota Alinovi: «Hitler voleva fare fango e cenere di Napoli, e come i suoi ufficili pensava che Napoli fosse una città di “lumpen”. Di sottoproletari da annientare». Solo odio e razzismo? «No prosegue Abdon anche strategia. Far trovare Napoli distrutta agli Alleati che risalivano da sud. Un’enorme problema civile e logistico che avrebbe danneggiato l’avanzata. Invece la rivolta salvò la città, preservando le fabbriche e Bagnoli».
E siamo al cuore delle Quattro Giornate. Il popolo «incivile» insorge e «si leva gli schiaffi dalla faccia», per dirla in dialetto. Dà una lezione militare ai tedeschi, con un miracolo, spontaneo e strategico al contempo. Dopo l’ennesima uccisione di militari italiani 8 prigionieri in via Console e 4 marinai e finanzieri al Palazzo della Borsa e una retata di 8mila uomini il 27 settembre cinquecento napoletani armati aprono i combattimenti. Al Vomero, a Castel Sant’Elmo,
A Porta Capuana, a Capodimonte. Prima e durante il 27 vengono saccheggiati importanti depositi di armi. A Materdei, Vasto, Monteoliveto, e Maschio Angioino, ci sono scontri e posti di blocco armati. Dalle case piove di tutto sui tedeschi: dalle bombe alle suppellettili. Una resistenza grandiosa e formicolare, quasi impossibile, tosta e «organizzata».
Ma come e da chi? «La lotta spiega Alinovi cresce in progressione su se stessa. Si moltiplica ed è fatta da tante componenti distinte, che si mescolano: studenti e professionisti, militari, operai già antifascisti, popolo, donne, scugnizzi». Sono
tante figure locali ecco il punto che assumono il comando delle operazioni nei vari quartieri della città. Capipopolo che si coordinano e comunicano veloci tra di loro. In prima linea al comando, ci sono i militari che non hanno mollato, «come il tenente Enzo Stimolo, che a capo di 200 insorti saccheggia l’armeria di Sant’Elmo e impone la liberazione di numerosi ostaggi internati al Vomero». Una scena divenuta famosa col film di Nanni Loy del 1962 (tratto da un bellissimo libro di Aldo De Jaco).
Il 30 settembre racconta sempre Abdon i tedeschi «sgombrano e il professor Tarsia in Curia si proclama capo dei ribelli. Escono dalla città con la bandiera bianca ma faranno stragi nel Casertano e dopo aver appiccato il fuoco alle carte dell’Archivio di Stato nella Villa Montesano di San Paolo Belsito». Il primo ottobre arrivano gli Alleati. E i fascisti dov’erano? «Spariti in quei giorni oppure delatori, dopo che Scholl per un giorno fece riaprire il Pnf da un avvocato che si dileguò. Isolati e disprezzati!». Conclusione di Alinovi: «Le Quattro Giornate aprono ufficialmente la Resistenza dentro la fine della guerra europea. Anticipano la valanga di lotta appeninica, e danno l’esempio a Firenze, Genova, Ravenna, Milano, Torino». Conclusione nostra: quella fu la Resistenza nel suo nucleo più vero: guerra di Liberazione contro la guerra ai civili nazifascista. E fu Napoli a suonare la campana.

Repubblica 26.9.13
Politica e nichilismo
Quel mostro antico e nuovo che uccide la democrazia
Denaro che crea denaro che crea potere che crea denaro... Ecco l’uroboro, il serpente mitologico che si morde la coda e soffoca la Polis
di Gustavo Zagrebelsky


Si inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. Anticipiamo l’intervento di Zagrebelsky che sarà oggi alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati

Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros, dove ouràsta per “coda” eboròsstaper “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.
C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari: «crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit» (Giovenale, Satire, V, II, 140-1, che aggiunge: «Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.
Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici. Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio. Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.
Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza, irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.
Abbiamo udito, e forse qualcuno si ricorda, l’affermazione d’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solocon qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.
Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica, sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!
La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura,dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.
Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e ricostruita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.
Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute — è vero — dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme — quelli indicati nella prima parte della Costituzione — tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.
Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.
Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno,stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?

Repubblica 26.9.13
Eugenio Scalfari nell’incontro tra laici e credenti al “Cortile dei giornalisti” promosso da Ravasi
“È un papa rivoluzionario. Non ci sarà un Francesco II”
di Marco Ansaldo


Quanto sia importante la fede, o la mancanza di fede, nella vita dell’uomo è un concetto chiaro a tutti. Ma quanto può essere efficace l’uso di semplici parole religiose nella pratica di tutti i giorni? Moltissimo, spiega il cardinale Gianfranco Ravasi, che non è soltanto il ministro della Cultura vaticano, ma un teologo finissimo. «È curioso notare – rivela infatti questo instancabile propulsore di iniziative di dialogo a cavallo di più mondi – come il linguaggio informatico abbia mutuato i termini di noi teologi: icona, convert, justify». E allora perché non tentare di abbattere quelle barriere che ancora esistono tra informazione e religione, sfruttando proprio il piano della comunicazione? Chi sta cominciando a farlo con padronanza del mezzo è Papa Francesco. «È una figura rivoluzionaria. Temo non ci sarà un Francesco II», ha detto ieri Eugenio Scalfari. La recente lettera del Pontefice al fondatore diRepubblica e l’intervista aLa Civiltà Cattolica aprono un fronte nuovo, corroborato l’altro giorno dalla lunga risposta inviata dal suo predecessore Benedetto XVI allo scienziato ateo Piergiorgio Odifreddi, anch’essa pubblicata sul nostro giornale.
Di tutto questo Ravasi e Scalfari hanno parlato ieri al Tempio di Adriano a Roma, nel Cortile dei giornalisti, ultimo nato degli incontri fra credenti e atei organizzati dal Pontificio Consiglio della Cultura. Un dibattito vivace che ha visto in maniera inedita – e di questo va dato merito a padre Laurent Mazas, direttore esecutivo del Cortile dei gentili – la presenza di tutti i direttori delle principali testate giornalistiche quotidiane.
Ma nel confronto tra fede e ragione – è stato chiesto a Scalfari – c’è un percorso da fare insieme? «Per ragioni personali devo molto ai gesuiti – ha risposto il fondatore diRepubblica– e però sono innamorato dei francescani. Tutto questo mi ha posto il problema per quale motivo voi cattolici, dal Concilio Vaticano II, avete molta voglia di parlare con i non credenti. E poi mi sono posto il controproblema: perché i non credenti laici hanno voglia di parlare con voi. È, questa, la ricerca della verità. Che non si mette in tasca come un sasso, ma va appunto cercata. Che cosa dice Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. E lui nella crocifissione rinuncia all’amore per sé, per poter riscattare l’uomo. È vero, noi non possiamo rinunciare all’amore per noi stessi, ma io mi accontenterei se lo pareggiassimo con quello per il prossimo. Perché da diverso tempo l’amore per il prossimo è molto diminuito rispetto a quello per noi stessi. E il tasso di narcisismo oggi è patologico. Sono molto interessato a questo Papa, non solo per quello che dice, ma per come vive la persona di Papa. Temo che non ci sarà un Francesco II».
Di seguito, il direttore diRepubblica, Ezio Mauro, ha battuto sul tasto della responsabilità. «Che declino in due parole diverse – ha detto – onestà nei confronti dei lettori e della propria redazione; e ricerca del significato delle cose. Nel momento in cui nel flusso dell’informazione in rete un saggio di Habermas e uno sberleffo di 140 caratteri vengono messi sullo stesso piano, il giornale costruisce ogni giorno una sorta di Cattedrale in cui si può trovare il senso della giornata precedente. Oggi le notizie sono delle “commodity”, ma il giornale è un’altra cosa, non un semplice contenitore: deve far capire quello che è accaduto. Perché c’è una differenza tra l’essere cittadini informati, e l’essere invece cittadini consapevoli».
Mauro si è quindi soffermato sulla figura di Francesco, i suoi segni, i suoi gesti. «Un Papa – ha detto – che ha bisogno delle persone. Che mentre appare al balcone ed è appena vestito della dignità papale chiede aiuto al popolo. Poi rinuncia agli appartamenti papali, e nell’intervista aLa Civiltà Cattolica spiega che sono un imbuto che lo escludono dalla comunità in cui vuole stare, e qui c’è un rimando alla prima comunità dei cristiani ». Tutti questi gesti acquistano allora un significato coerente che sta nella scelta del nome, Francesco, «che lo obbliga terribilmente ». Però, oggi, la croce che «prima il Papa brandiva quasi come un monito: pentitevi », viene adesso aperta nell’abbraccio: «C’è l’accoglienza, l’interesse, l’amore per l’uomo. L’impronta umana di Cristo. E Cristo è relazione con gli altri, e tra gli altri ci siamo anche noi». Ai giornalisti il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha quindi raccomandato di non sentirsi mai «depositari della verità» e di farsi accompagnare dal «beneficio laico del dubbio». Mario Calabresi (La Stampa) ha invece affermato di «non credere alla verità assoluta dell’informazione, ma alla presentazione delle cose per quello che sono e nelle loro dimensioni corrette, il che è l’esatto contrario del sensazionalismo e dello scandalismo». Secondo Roberto Napoletano (Il Sole 24 ore)«la ragione allarga il suo orizzonte con la fede, perché la fede ti sorprende, ha lo sguardo sull’abisso». Per Virman Cusenza (Il Messaggero) come Bergoglio anche «il giornalista deve andare alle “periferie culturali”».
Il confronto, presente il direttore diAvvenire, Marco Tarquinio («quello che è accaduto » con l’elezione di Francesco – ha detto – «è certamente un qualcosa di storico, c’è stato un rivoluzionamento degli sguardi sui gesti della Chiesa, dovuto al grande carisma del nuovo Pontefice ma anche al grande gesto di Benedetto XVI») , è proseguito con citazioni bibliche. Il suggello, alla fine, lo ha messo il direttore dell’Osservatore Romano,Giovanni Maria Vian: «Il giornale – ha affermato – è la Bibbia laica. Ma molto più interessante è la Scrittura Sacra vera».