martedì 11 giugno 2013

l’Unità 11.6.13
La democrazia malata
di Carlo Galli


Dal voto buone notizie. Gli italiani premiano il Pd, gli dimostrano fiducia, nonostante le catastrofi elettorali e postelettorali; del governo con il Pdl danno la colpa al Movimento Cinque Stelle, mentre ai democratici riconoscono semmai spirito di responsabilità; della destra danno un giudizio molto negativo.
Dunque, non siamo morti e anzi siamo più vivi e vivaci di Grillo e di Berlusconi. In parte è vero, certamente; ma è anche vero che qui c’è, invece, parecchio da riflettere. La legittima soddisfazione per i risultati conseguiti e per la fiducia di cui il Pd ancora gode, a livello amministrativo, non deve infatti far dimenticare l’altro dato, forse ancora più importante e anzi strategico, di questo passaggio elettorale: che metà dei cittadini non partecipa al voto. Una circostanza non facilmente aggirabile come una curiosità o come una casualità.
Si può sostenere, al riguardo, e lo si è fatto, che il voto locale è sempre meno partecipato di quello politico nazionale; che nelle grandi democrazie del Nord e dell’Ovest basse percentuali di affluenza sono la norma, e che ciò, lungi dall’essere un dramma, va letto come un assenso di fatto alla vita civile e alle sue regole: il disincanto della democrazia non è quindi di per sé un suo rifiuto. Noi latini dal sangue caldo dobbiamo insomma cominciare a pensare in termini di democrazia fredda, di democrazia per default, fisiologicamente data per scontata e proprio per questo non minacciata.
Si tratta di un’analisi sostanzialmente errata. Non solo non vanno mitizzati gli altrui comportamenti elettorali, anch’essi da molti interpretati come segnali di intorpidimento della vita civile. Ma, soprattutto, va notato che il bassissimo dato di partecipazione italiano non è normale, non nasce da una lunga assuefazione a una democrazia funzionante e condivisa, e si manifesta anzi, sempre più vistosamente, come la conseguenza dell’intrecciarsi della crisi economica con la crisi dei partiti e del sistema politico. Non è, insomma, un silenzio-assenso ma un silenzio-dissenso, un tacito rifiuto del gioco elettorale, un chiamarsi fuori dalla fase decisiva e decisionale della democrazia (il voto) proprio perché la base materiale della democrazia (il lavoro) e anche la sua base ideale (l’umanesimo moderno e le sue progettualità) appaiono perdute o minacciate di irrimediabile erosione.
Perché in quelle basi della democrazia non si ha più fiducia, o quanto meno non si ha fiducia nei soggetti politici che dovrebbero garantirle: i partiti.
Non disincanto della democrazia, quindi, ma disagio della democrazia, insoddisfazione per la democrazia così com’è, per il volto soltanto elettorale, non sostanziato di vita civile, di coesione sociale, di progresso morale che presenta ai cittadini. Per metà degli elettori la cittadinanza democratica attiva l’esercizio del diritto di voto non è più interessante perché la politica è debole, perché non risolve i problemi, perché non li nomina o li nomina invano.
E non c’è nulla di freddo anzi c’è una altissima temperatura potenziale in questa astensione; non c’è assuefazione alla democrazia ma una minacciosa insofferenza verso di essa; non c’è fisiologia ma patologia in questo sciopero elettorale che crea di fatto una massa maggioritaria di italiani che si chiama fuori perché si sente fuori, perché è fuori, dal sistema politico, ma non certo dalla politica. È infatti, una massa di manovra a disposizione dell’imprenditore politico che saprà unificare con pochi simboli potenti e vincenti le molte e disparate ragioni di sofferenza e di insofferenza che oggi se ne stanno mute, acquattate nel fin troppo chiaro enigma dell’astensione.
Se la buona notizia del voto è che il Pd è la speranza della maggioranza di coloro che ancora sperano nella democrazia, la cattiva notizia del non-voto è che questi, nel tempo delle crisi, non sono più, o quasi, la maggioranza degli italiani. E che la democrazia stessa sta diventando non tanto fredda quanto piuttosto un’opzione minoritaria, un orizzonte che si va restringendo e forse perdendo.
Se la politica, i partiti, il Pd, non corrono ai ripari.

Repubblica 11.6.13
L’amaca
di Michele Serra


Niente di personale contro Gianni Alemanno, ma che a Roma non ci sia più un sindaco che viene dal neofascismo è una notizia di rilievo mondiale. Roma — come New York, Parigi, Londra e pochissime altre — è città che appartiene al mondo, e non solamente alla nostra precaria e smemorata democrazia, che aveva riportato i saluti romani sugli scaloni del Campidoglio. Che a Treviso sia stato sindaco un figuro che inveiva contro “i negri” fa parte solo della miserabile (e anche ridicola) cronaca locale, e al di là del confine a nessuno poteva importare qualcosa. Ma Roma è Roma, e l’esito nero delle amministrative precedenti (dopo la ricandidatura suicida di Rutelli) è stata una delle catastrofi simboliche della sinistra italiana. Ora speriamo che Ignazio Marino, eletto da tanti dei pochi romani che sono andati a votare, non consenta al Pd di equivocare sul risultato, magari attribuendolo all'avvenuta digestione delle “larghe intese” da parte di un elettorato sempre prono. Marino era un candidato anomalo, poco partitico, molto irrequieto sul fronte della riforma della politica. Tenga duro perché adesso molti di quelli che persero Roma cinque anni fa cercheranno di attribuirsi il merito della sua vittoria.

il Fatto 11.6.13
Casse vuote urne vuote
di Antonio Padellaro


Le larghe intese non c’entrano nulla, la catastrofe Pdl è la fotografia di un partito padronale che quando il padrone non scende in campo è costretto a schierare vecchi catorci o giovani nullità e i risultati si vedono. La destra perde a Brescia a furor di popolo, tracolla a Imperia dove l’ex potente Scajola è finito in un buco nero e crolla a Treviso dove quel Gentilini che voleva sparare agli immigrati è finito impallinato lui. Poi c’è Alemanno, il peggior sindaco che si ricordi, con la Capitale ridotta a una discarica attraversata da bande di raccomandati e grassatori. Le larghe intese non c’entrano nulla, il 16 a 0 del centrosinistra è frutto di candidature mediamente decenti che al confronto con gli impresentabili dell’altra sponda fanno per forza un figurone. Poi c’è Ignazio Marino, marziano a Roma, come Pisapia a Milano o De Magistris a Napoli o Zedda a Cagliari solo che questa volta il Pd ci ha messo il timbro. Chirurgo di fama, dovrà amministrare una città con immensi problemi dove per la prima volta nella storia repubblicana ha votato meno della metà degli elettori. Ma questo è anche il ritratto di un Paese, massacrato dalla crisi e imbrogliato dalle false promesse, che fugge velocemente dalla politica. C’è un nesso strettissimo tra le casse vuote e le urne vuote. L’Italia amava votare ed era in materia la prima della classe in Europa. Adesso non è più così, ma i politologi del reparto frenatori dicono: niente paura e parlano di fenomeno fisiologico, come se fosse una botta di cattivo umore collettivo e non il segno di un disgusto sempre più profondo. E perché mai non dovrebbe essere così? Mentre il progressivo calo del Pil è il segnale di un declino industriale forse irreversibile, il governo galleggia nell’incertezza, convalidata dai segnali del Quirinale che un giorno sì e l’altro pure fissano un termine all’esperienza del giovane Letta. Una politica degli annunci che si sposa a quella del rinvio, mentre lo Stato ha già speso i soldi destinati a tutto il 2013. In queste condizioni, votare non è dunque un atto eroico?

il Fatto 11.6.13
Dinastie. Nel giorno della “cacciata”, la moglie finisce al Viminale con Alfano
Lacrime e casta, così saluta il sindaco
Fino all’ultimo Alemanno: licenziato lui, sistemata lei
di Fabrizio d’Esposito


Il Campidoglio liberato dopo 5 anni di disastri e clientele: “Tutta colpa mia” (e infatti B. lo aveva mollato già da tempo). Isabella Rauti nominata consulente per il femminicidio

Tra la tangenziale di Roma e piazzale delle Province, il civico uno di via Giano della Bella è un sito di archeologia industriale. Da ieri è anche un simbolo di archeologia politica. Perché è qui che Gianni Alemanno ha organizzato il suo comitato elettorale ed è qui che il sindaco uscente si mette a piangere quando il disastro delle urne è chiaro da subito. Alemanno, che i suoi camerati definiscono “un combattente con due palle così”, si abbatte tra le braccia di Antonio Lucarelli, il capo della sua segreteria, ed esplode in un pianto dirompente. Sconforto, rabbia, stress. Qualcuno, sottovoce, azzarda una battuta consolatoria: “Poteva andare peggio”. Cioè, non arrivare nemmeno al trenta per cento.
Ma anche quando capitola, il potere nero della Capitale mantiene la sua sfrontatezza. Stavolta al fianco di Alemanno c’è la moglie Isabella Rauti fu Pino. Dio, casta e famiglia. Nel giorno in cui il marito perde la poltrona, lei ne guadagna una grazie al ministro amico dell’Interno. Angelino Alfano, del Pdl come Alemanno, la nomina consulente contro i femminicidi “per l’alta professionalità e l’impegno costante nel settore”.
FORMULETTA di prammatica per giustificare l’incarico alla Rauti. Almeno potevano scegliere un giorno diverso. Poi dici l’arroganza della casta. Le agenzie battono la notizia che l’intera famiglia Alemanno (Gianni, Isabella e il figlio adolescente Manfredi, camerata come il papà e il nonno materno) è radunata nel comitato elettorale. Sono le 13 e 30. Una pausa pranzo comunque mesta. Da giorni i fatidici sondaggi che non si possono divulgare sui media annunciano la catastrofe del sindaco uscente. Il primo ad ammetterlo, a urne chiuse, è Andrea Augello, sveglio senatore del Pdl con la nomea del Goffredo Bettini di destra. Il modello Alemanno, però, tramonta dopo soli cinque anni a colpi di astensionismo e scandali. Augello è il coordinatore della campagna elettorale e fa il profeta di sventura che sono le 15 e 30: “La sconfitta è evidente, Marino è il nuovo sindaco”. Qualche ora più tardi integrerà, tra calcoli di voti e astensioni, tra realtà e autoconsolazione: “È l’unico sindaco al mondo con l’opposizione al 70 per cento”. L’ormai ex sindaco è circondato da fedelissimi e alleati. È il momento di cominciare a mettere la faccia sulla sconfitta. Tra le prime, al comitato, a farsi intervistare dalle tv è Barbara Saltamartini, deputata del Pdl e alemanniana d’acciaio. Ripete come un mantra le due parole d’ordine che poi saranno riprese da tutti gli altri: “Aprire una riflessione” e “Pensare al radicamento”. Riflessione e radicamento, a oltranza. Lo stesso Alemanno vuole riflettere. La sala stampa è quasi all’aperto. C’è il sole. Il marito della nuova consulente di Alfano si presenta alle sedici passate: “Ho appena telefonato a Marino per fargli le mie congratulazioni e per mettermi a disposizione. Il risultato è netto, è evidente che l’astensionismo è stato troppo forte, il numero delle persone che hanno votato per me è sostanzialmente lo stesso tra primo e secondo turno. Il problema vero è il comprendere l’allontanarsi dei romani dalla partecipazione politica. Occorre aprire una riflessione nella destra su Roma e sul piano nazionale”.
PER IL COMITATO vagano tante facce note della politica nazionale e romana. C’è l’ex finiano Andrea Ronchi che parla con due donne. Più in là, l’ex udc Luciano Ciocchetti, ras delle preferenze, non smentisce la sua fama di uomo concreto. Tiene banco in un capannello e chiede brusco ai suoi: “Ahò, Marchini quando seggi ha preso? Se lui rinuncia chi entra in consiglio? ”. Ognuno ha un orto da curare e sorvegliare. Alemanno ritorna dai giornalisti dopo le diciotto. Mostra il petto agli sfottò della sinistra. Vuole morire in piedi: “Mi assumo io tutte le colpe e le responsabilità, non voglio fare lo scaricabarile. Ma questo non è un De Profundis, non scompariremo, c’è ancora bisogno di noi”. Saluta e ringrazia l’onnipresente moglie Isabella e l’applauso finale è quasi un’ovazione. Il convitato di pietra in questo comitato è Silvio Berlusconi. Salvezza e dannazione, allo stesso tempo, del centrodestra. Il solito Augello chiarisce: “Non è colpa di Berlusconi questa sconfitta. Sono tutte speculazioni tattiche. Un nuovo partito? Non serve e Gianni rimarrà a fare il consigliere comunale. Qui il problema è recuperare i delusi. E lo fai se crei reti nuove, non altri partiti”. Vincenzo Piso è un duro che viene dalla destra sociale di An, la stessa corrente di Alemanno. Oggi è coordinatore regionale del Pdl. Dice: “Il Pdl mi ricorda il Napoli di Maradona e quando Maradona non giocava erano guai”. Maradona, ovviamente, è il Cavaliere.
ALLE SETTE DI SERA si smobilita ed ecco materializzarsi un’altra scena forte del disastro romano. La sala stampa è vuota e Francesco Storace della Destra si siede dove prima c’era Alemanno. Si mette a scrivere sull’Ipad. Un editoriale per il suo quotidiano online, il redivivo Giornale d’Italia. Ha le idee chiare: “È mancata la faccia del Capo. Qui c’è gente che se farebbe ammazzà pè lui e lui invece se n’è fregato”. Il Capo è il Maradona di prima. Alemanno ha perso. Di chi è la colpa?

Corriere 11.6.13
La Chiesa pragmatica «Molto dipende da quello che farà»
Tarquinio: ha fatto un discorso misurato
di Aldo Cazzullo


«Marino è contro la vita e la famiglia» era scritto sui manifesti di Gianni Alemanno. «Roma è vita» era scritto su quelli di Ignazio Marino. Al di là dei duelli verbali, che non hanno appassionato più di tanto gli elettori, resta un dato: nella capitale si apre una stagione di coesistenza forzata tra il Vaticano, la Chiesa italiana, il mondo cattolico da una parte, e dall'altra l'uomo che rappresenta l'avanguardia del Pd sui temi dei diritti civili, delle unioni gay, del fine vita.
La Chiesa non è stata presa di sorpresa. E l'atteggiamento è di attesa. Non rilasciano dichiarazioni ufficiali né il vicario di Roma Vallini, né il presidente della Conferenza episcopale Bagnasco, né monsignor Fisichella, punto di riferimento culturale dei rigoristi («sono a New York...»). Nei colloqui privati, tuttavia, si deduce che la Chiesa avrà un comportamento pragmatico. Rispettoso della scelta dei cittadini romani e della responsabilità di Marino, fino a quando questa non confliggerà con i «valori non negoziabili». «La mia previsione è che saremo pragmatici noi e sarà pragmatico lui» sorride un alto prelato. «Dipende da come si comporterà il sindaco» sintetizza nelle conversazioni private Marco Tarquinio, il direttore di Avvenire.
Il quotidiano dei vescovi italiani ha pubblicato un intervento delle associazioni cattoliche, che rivolgevano a Marino tre domande - su famiglia, diritto alla vita, libertà educativa - alle quali lui non ha risposto direttamente. Lo ha fatto in qualche modo, però, nel confronto tv con Alemanno, quando ha precisato che «il sindaco non fa le leggi nazionali», e quindi non intende aprire il fronte del matrimonio omosessuale e dell'eutanasia, con iniziative che certo gli darebbero grande visibilità sui media ma dalle gerarchie sarebbero considerate «propagandistiche». «Anche il discorso della vittoria è stato molto misurato, con le parole pesate una a una» osserva Tarquinio; in particolare Marino si è detto consapevole di essere stato votato da una minoranza, il che ovviamente non scalfisce i suoi poteri, ma a maggior ragione lo impegna a essere il sindaco di tutti i romani, a dialogare con le varie sensibilità e le varie culture della città, a cominciare da quella cattolica. Finito il discorso, Marino come prima cosa si è avvicinato alla sedia a rotelle di suor Maria Bertilla, popolare personaggio romano (e romanista), con cui ha conversato a lungo. E alla festa per lui in piazza di Pietra c'era Gianluca Scarnicci, già uomo di collegamento tra l'amministrazione Alemanno e la Santa Sede.
La Chiesa non si è certo mobilitata per il sindaco uscente, e neppure le associazioni, tranne quelle più tradizionaliste. Dopo l'apertura di credito iniziale, su temi come il «quoziente Roma» che puntava ad allentare la pressione fiscale sulle famiglie numerose, la questione morale emersa nell'ultima parte del suo mandato non è passata inosservata né Oltretevere né in Laterano. Dove però non è stata certo vista con favore la candidatura Marino, considerata quasi una seconda provocazione dopo quella di Emma Bonino alla Regione (forse ancora più temuta, perché avrebbe coinvolto anche la gestione della sanità, che nella capitale tra il Gemelli - università cattolica - e il Bambino Gesù - Vaticano - è di fatto in mano alle istituzioni ecclesiastiche). Né ha giovato alla causa del nuovo sindaco il suo riferimento al cardinal Martini, che qualcuno ha apprezzato ma che all'interno della Cei è parso strumentale: una forzatura.
Sarebbe sbagliato pensare che la nuova stagione inaugurata da Papa Francesco porti un diverso atteggiamento dottrinario. Ma non c'è dubbio che Oltretevere si respiri un'aria diversa: pochi mesi fa l'elezione di Marino avrebbe provocato una reazione differente. Lo stesso discorso riguarda la Conferenza episcopale: non perché ci sia una frattura tra la gestione di Ruini e quella di Bagnasco (che hanno anzi un buon rapporto personale), ma perché la scelta di campo della Cei in favore del centrodestra è oggi alle spalle, più per l'inconcludenza dei governi e delle amministrazioni espresse da quello schieramento politico che per l'evoluzione del centrosinistra. Le posizioni di Alemanno incrociavano quelle del mondo cattolico sulla sussidiarietà, quelle di Marino hanno trovato sostegno negli ambienti direttamente interessati alla solidarietà. I prossimi saranno i giorni delle congratulazioni, che arriveranno da tutti, a cominciare dal vicario del Papa, il cardinale Agostino Vallini. Poi cominceranno i giorni della vigilanza, più o meno guardinga a seconda dell'atteggiamento del nuovo sindaco. È probabile che la curia romana non si discosterà dalla linea che si è dato con Pisapia l'arcivescovo di Milano Angelo Scola, fedele all'«insegnamento di san Paolo: l'autorità legittimamente eletta dal popolo viene ultimamente da Dio. Finché non ci sono atti o leggi contrari alla legge di Dio, massimo rispetto, massima apertura. La Chiesa cerca rispetto per la verità».

il Fatto 11.6.13
Disgusto e critica: gli italiani non votano
di Marco Palombi


AFFLUENZA AL 48,5%: SINDACI ELETTI DA MENO DELLA MET DEGLI AVENTI DIRITTO. UNDICI PUNTI IN MENO DEL PRIMO TURNO. RECORD NEGATIVO A ROMA, ANCONA E BRESCIA

Meno della metà degli aventi diritto, per la precisione il 48,5% su base nazionale: questi sono i votanti che ieri hanno eletto 67 sindaci al ballottaggio (erano stati il 59,7% ad andare alle urne al primo turno, undici punti e più in meno). A tirare giù il dato – un record negativo - ci ha pensato Roma: al 44,9% l’affluenza nella capitale contro il 63,1% di cinque anni fa. C’è chi ha fatto peggio: le percentuali più basse si registrano a Cinisello Balsamo (35,6%), Viareggio (36,77) e Marano di Napoli (40,02). Le più alte, invece, sono ad Acceglio (Cuneo, 76%), Caroviglio (Brindisi, 70,4%) e Campagna (Salerno, 69,8%). Al di là dei picchi in alto o in basso, comunque, il calo è generalizzato rispetto alle scorse amministrative e, in qualche caso, spettacoloso: ad Ancona si è passati dal 62,1% al 41,9 di ieri; a Brescia dall’84% al 59,2; a Barletta dal 77 al 49%; a Siena dal 76,6 al 54,9%; a Treviso dal 79,6 al 58,6%. Avellino, invece, fa segnare il calo più corposo, una vera e propria emorragia, tra il primo e il secondo turno: dal 76,9 al 53,9%. Ben ventitrè punti percentuali in meno. “Oramai l’astensionismo ha raggiunto vette più americane che europee”, dice il politologo Alessandro Campi, un tempo ideologo di Gianfranco Fini: “È vero che al secondo turno si registra un calo fisiologico, ma qui il dato è davvero preoccupante. E a preoccuparsi di più deve essere il Pdl, meno radicato sul territorio e con gli alleati della Lega in crisi evidente”. Le cause sono molte, insiste, ma tra queste va di certo citata “la sensazione di disgusto che oramai provoca la politica ‘tout-court’ negli italiani, con la disistima che accomuna genericamente chi la rappresenta. E poi, c’è la frustrazione che nasce dalla convinzione sempre più radicata che votare serve a poco”.
SU TUTT’ALTRA linea Piero Ignazi, docente all’università di Bologna: “Me lo lasci dire così: stiamo calmi. Sulla partecipazione elettorale influiscono moltissimi fattori. La ‘posta in gioco’, ad esempio, è uno di questi: quanto conta l’elezione a cui sto partecipando? Poi, dando per scontato che al secondo turno si vota meno dappertutto, Francia compresa, va ricordato che abbiamo appena votato per le politiche e per il primo turno delle comunali”. Insomma, “non c’è alcuna delegittimazione” dei sindaci eletti con basse percentuali: “C’è un fisiologico calo della partecipazione, non drammatico comunque, che sta in una tendenza pluridecennale che si osserva in tutte le democrazie consolidate. Anzi, in questo gruppo noi siamo ancora nella fascia alta per affluenza”. Stavolta, pare non abbia funzionato il richiamo del Movimento 5 Stelle, che a febbraio riuscì a portare alle urne molti cittadini tentati dall’astensionismo: “Ma quella base d’opinione, diciamo la spinta antipolitica, in questo paese esiste – nota Ignazi - e si ripresenterà in altre occasioni”. Forse, risponde invece Gian-franco Pasquino, politologo a Bologna anche lui e autore del recente Finale di partita. Il tramonto di una Repubblica: “Il M5S s’è un po’ impelagato in faccende secondarie come gli scontrini perdendo in carica motivazionale rispetto al proprio elettorato”.
Anche lei è convinto che si tratti di un calo fisiologico della partecipazione? “Beh, anche la febbre è fisiologica, ma quando si alza penso al modo di curarla – risponde Pasquino - è una tendenza che secondo me sta diventando preoccupante. Si possono immaginare risposte politiche più raffinate delle attuali, ma i partiti non li dirigo io, e forse anche risposte tecniche tipo il voto per posta o l’eliminazione dei certificati elettorali”.
SI TRATTEREBBE, insomma, di rimuovere alcuni ostacoli alla partecipazione che colpiscono in particolar modo gli anziani, una fascia di popolazione sempre più vasta in Italia. “L’affluenza da noi scende senza interruzioni dal 1979 – dice Elisabetta Gualmini, presidente dell’Istituto Cattaneo – ma questo non è necessariamente un male. Da un lato, infatti, in paesi come Usa e Gran Bretagna già vota da anni circa metà della popolazione, dall’altro questo che registriamo è un astensionismo critico, consapevole: non si tratta di persone che non sono in grado di valutare l’offerta politica, ma di elettori che compiono una scelta razionale punendo l’inefficienza del loro partito di riferimento o che non trovano alcuna lista soddisfacente. Diciamo così: ormai gli elettori hanno bisogno di ragioni e facce validissime per uscire di casa e andare a votare”. Insomma, non voto da “disgusto” o da mancanza di “facce validissime”. Forse Enrico Letta, che invoca “una riflessione di tutti sul segnale d’allarme dell’astensionismo”, potrebbe partire da qui.

il Fatto 11.6.13
Sicilia, notte ai seggi Pdl disintegrato e grillini in picchiata
di Sandra Rizza


DOPO IL SUCCESSO DI POLITICHE E REGIONALI I “CITTADINI” VANNO BENE SOLO A RAGUSA

Palermo Alle dieci di sera lo spoglio-lumaca è ancora lontano dall’esito finale. Ma a Catania, il Pd Enzo Bianco (51%) pare vicino a surclassare al primo turno l’uscente del centro-destra Raffaele Stancanelli (35%). Analogo risultato per il Pd Felice Calabrò (52%), che a Messina è ad un passo dalla vittoria, seguito da Renato Accorinti (21%), leader del movimento No Ponte, che per tutta la notte spera in un incredibile ballottaggio. A Ragusa, invece, si profila il primo duello Pd-M5S: se Giovanni Cosentini, candidato del Megafono (28%), andrà davvero al ballottaggio con il grillino Federico Piccitto (16%). E a Siracusa, il renziano Giancarlo Garozzo (31%) è in testa e dovrebbe passare al secondo turno con il candidato di centro-destra Ezechia Paolo Reale (27%).
ANCHE se la lunga giornata elettorale delle comunali siciliane non sarà conclusa prima di questa mattina, il centrosinistra è ad un passo dalla vittoria a Catania e Messina, e corre in testa nelle città principali: il governatore Rosario Crocetta, inventore del Megafono (la lista che appoggia il Pd) gongola: “La rivoluzione siciliana – dice il presidente – si fa strada”. Gli fa eco il senatore Beppe Lumia, sostenendo che “il modello Crocetta va avanti”. E Antonio Ingroia, a Catania Azione civile è con Bianco e il Pd, osserva che “da una prima analisi del voto, in Sicilia emerge il crollo del centrodestra”. Ma il M5S resta a bocca asciutta. E se non è un flop, poco ci manca. Con l’unica eccezione di Ragusa, i candidati “grillini” non superano il primo turno nelle grandi città e lo scarno bottino di voti nei 140 comuni siciliani segnala che il flirt del movimento con gli elettori dell’isola si è raffreddato: un risultato che in serata spinge il capogruppo all’Assemblea regionale Giancarlo Cancelleri ad una cauta riflessione: “Siamo un movimento giovane e ci sta se abbiamo sbagliato qualcosa, comunque dobbiamo ripartire dalla Sicilia”.
Si è già chiusa la stagione “grillina” da questa parte dello Stretto? Di certo, la Sicilia, da ieri, non è piu’ quella roccaforte pentastellata, che ha visto raddoppiare i consensi dal 15 per cento delle ultime regionali (ottobre 2012) al 31 per cento delle politiche (febbraio 2013). Al traguardo delle 100 sezioni scrutinate, a Messina la grillina Maria Cristina Saja si ferma sotto il 4 per cento; più o meno la stessa percentuale della collega Lidia Adorno a Catania. E il tempo delle analisi, condite da inevitabili polemiche, sembra appena cominciato. Crocetta si mostra benevolo: “Verso il M5S mantengo alta l’attenzione, proseguiremo sulla strada del dialogo”, ma oggi in cima alle sue priorità c’è la ridefinizione dell’alleanza del Megafono col Pd: “Dobbiamo pensare ad una federazione – dice il governatore – il Pd deve contaminarsi con i movimenti”.
Si impone, dunque, per i pentastellati di Grillo una riflessione: c’è già chi attribuisce la responsabilità dello stop elettorale alla spaccatura tutta siciliana che ha portato nei giorni scorsi alla fuoruscita di Antonio Venturino, vicepresidente dell’Assemblea regionale, allontanato dal Movimento dopo aver contestato la prassi della rendicontazione, e oggi fondatore di un altra sigla: “L’Italia migliore”. Spietata l’analisi del senatore grillino Mario Giarrusso, che parla di “intese sotterranee” che avrebbero penalizzato i cinque stelle, di “pezzi del Pdl a sostegno di Bianco” a Catania, e di proposte della società civile “finalizzate a neutralizzare il M5S con finti movimenti di cittadini a sostegno di candidati molto addentro il sistema politico”.
LA VIA CRUCIS del dopo-voto, insomma, è solo all’inizio. E se a Palermo il governatore siciliano si sente ancora più saldo a Palazzo d’Orleans (“Nessun rimpasto – ha dichiarato – il governo regionale oggi è più forte”), a Messina l’entusiasmo per l’affermazione del Megafono arroventa gli animi, al punto che nel pomeriggio un candidato della lista di Crocetta (come riporta l’Adnkronos) si fa arrestare per resistenza a pubblico ufficiale. Su tutto, comunque, domina l’astensionismo: l’affluenza si attesta al 66,07 per cento: un elettore su tre, in pratica, non ha votato. Un dato, osserva Cancelleri, che “la dice lunga su quello che è l’appeal della politica nei confronti dei cittadini”.

il Fatto 11.6.13
Corazzieri e aiutanti di campo
Scusaci, Macaluso, se noi siamo liberi


Infastidito dall’esistenza di un giornale libero che impedisce all’inciucio Pdl-Pdl patrocinato dal suo santo protettore Napolitano di avere il 100% della stampa ai suoi piedi, Emanuele Macaluso accusa il Fatto, sulla fu Unità, di fare “il gioco sporco”. L’aiutante di campo ad honorem di Re Giorgio ce l’ha con Furio Colombo (che ha chiesto indietro il suo voto al Pd) e Barbara Spinelli (che osa farsi intervistare dal Fatto). Non capisce “perché Colombo parli a nome di 10 milioni di elettori del Pd” (forse perché i 10 milioni di elettori del Pd han votato contro B., sennò votavano Pdl). E non è stupito dal “fatto che i Grillo e i Travaglio giochino con le istituzioni. Stupisce invece che, con la loro storia di democratici moderati, giochino a cambiare le carte in tavola”. In realtà l’unica Carta cambiata è quella costituzionale, stravolta dall’idolo di Macaluso. Che, lui sì, gioca con le istituzioni per patrocinare l’inciucio salva-Silvio. Ma Macaluso vuole farci credere che Napolitano è rimasto sul Colle contro lo spirito e la prassi costituzionale per “sacrificio personale e senso del dovere”, per “salvare il salvabile”. E il governo Pdl-Pd non aveva “altre alternative” (sic) perché i 5Stelle han bocciato l’appetitosa offerta di un governo Bersani “col sostegno di pezzi del gruppo dei grillini”. Ecco: il Pd chiede ai 5Stelle che hanno appena vinto le elezioni se abbiano niente in contrario ad andare in “pezzi” e scilipotizzarsi per sostenere il monocolore di chi le elezioni le ha perse, e quelli non si eccitano neanche un po’. Che strana gente. Naturalmente Macaluso sa benissimo che l’alternativa c’era eccome. Specie con la candidatura Rodotà al Quirinale: bastava che il Pd lo votasse, e il governo sarebbe nato l’indomani, come dissero Grillo e la Lombardi. Ma per Macaluso “è una balla” perché “i franchi tiratori del Pd sarebbero stati 250”. E di chi è la colpa se il partito di centrosinistra non vuol saperne di votare un presidente di centrosinistra? Del Fatto.

il Fatto 11.6.13
Web. Rodotà e Boldrini contro gli insulti in Rete


Chi si aspettava fuoco e fiamme è tornato a casa deluso: né il presidente della Camera Laura Boldrini né Stefano Rodotà, nell'incontro su Internet e censura dal titolo “Parole libere o parole d'odio?, ha affrontato l'argomento beppegrillo.it  . Piuttosto il giurista, ex candidato del Movimento 5 stelle al Quirinale, ma anche ex presidente del Pds e per 15 anni parlamentare, ha fatto un vago riferimento allo strumento della rete come mercato. Ma si riferiva all'insieme, non al blog della Casaleggio associati. “No alla censura”, ha detto Boldrini, “ma il web può essere luogo di istigazione all’odio. Non siamo qui per occuparci della libertà della rete, ma delle parole d’odio che può contribuire a diffondere”, ha premesso smentendo chi ha sollevato il dubbio che il dibattito potesse essere “la censura di chi critica le istituzioni e la repressione del dissenso”. “È - ha sottolineato - una distorsione della realtà, tanto più per chi si è speso per anni in difesa delle libertà. Non è necessario prevedere nuove norme e non occorre censurare la libertà di espressione, bisogna tutelare il dissenso, ma impedire ai violenti di agire”. Il concetto è quello che ha espresso più o meno Rodotà, e cioè che deve essere punibile o sanzionabile l'online come e non meno dell'offline. “Bisogna interrogarsi”, ha detto il giusrista, “perché il tema è vero e difficile, il linguaggio violento è soprattutto il segno di un disagio sociale. E anche il tema dell'anonimato non può e non deve essere liquidato con facilità, perché l'anonimato in una certa forma può garantire anche la libertà di pensiero politico”. Il ministro Josefa Idem, invece, ha annunciato che è stato aperto un tavolo contro l'istigazione all’odio in rete come “prima risposta per arginare la diffusione su internet della discriminazione, delle intolleranze, delle varie forme di cyberbullismo”.
e.liu.

La Stampa 11.6.13
M5S
Ieri l’assemblea a Montecitorio
Tregua dei dissidenti “Veniamoci incontro”
Ma i fuoriusciti avvertono: presto altri addii
di Andrea Malaguti


Storie parallele. Nell’istante esatto in cui i parlamentari del Movimento Cinque Stelle si ritrovano per l’ennesima riunione congiunta - questa volta con un ordine del giorno che recita: comportamento da tenere rispetto alle decisioni assembleari - al terzo piano della Camera, i neo fuoriusciti Alessandro Furnari e Vincenza Labriola, seppelliti dagli insulti di una rete feroce e avvelenata - «schifosi», «venduti», «corrotti» -, entrano negli uffici del Misto per confrontarsi con Pino Pisicchio, il loro nuovo capogruppo. «Ovvio che siamo qui. Domani c’è aula. E mentre loro sono riuniti noi lavoriamo». Loro. Noi. Scene postmatrimoniali. Da divorzio venuto male. «Io ho staccato il telefono e non ho guardato il computer in questo fine settimana», spiega la Labriola con la voce che le esce come un soffio leggero. Mentre Furnari, lasciando il Palazzo verso le otto e mezza di sera, decide di sfogarsi davanti alle telecamere di Cecilia Carta di «Agorà». Dice che il Movimento è solo fumo. Parole. Caos. Che la parabola è già alla fine. «Il Movimento sta implodendo? È inevitabile. Molti altri vogliono uscire ma non hanno il coraggio. La gogna mediatica è troppo forte. A Taranto ci sono stati quattro anni di parole. Ma nemmeno un fatto. La verità è che il Movimento non è in grado di dare risposte. Casaleggio, il grande comunicatore, non sa nemmeno chi siamo. Ha fatto sbagli enormi. E glielo dice uno che non è un dissidente. Quelli i dissidenti - se ne andranno, ma io sono diverso e questo dovrebbe fare riflettere le persone che ci hanno guidato fino ad ora». Fumo. Fumo sulle macerie. E chissà se l’oscurità della mente - la rabbia, l’amarezza ha davvero a che vedere col buio della notte che lentamente lo circonda e sembra circondare il suo ex Movimento. «Il dissolvimento è solo una questione di tempo. In questi mesi ho visto cose incredibili». Quali? «Presto verranno a galla».
Nella sala dei gruppi di Montecitorio, intanto, Riccardo Nuti, da pochi giorni portavoce al posto di Roberta Lombardi, invita i colleghi a fare attenzione alle interviste (un’ossessione). A non sfogarsi con i giornali per evitare di danneggiare il Movimento. La collega Laura Castelli è più dura di lui, ma in questa ulteriore notte delle contraddizioni anche i supposti ribelli, più banalmente i «dialoganti», decidono di sotterrare l’ascia di guerra. «Veniamoci incontro». È una tregua. La fine dello scontro è ancora lontano. L’idea dei dialoganti è quella di ribaltare i rapporti di forza all’interno del gruppo, di mettere in minoranza gli ultraortodossi, di ridurre il peso di Grillo, di invitarlo persino a fare un passo indietro limitando gli interventi sul blog. Un risultato l’assemblea però lo ottiene. I soldi da restituire saranno destinati al fondo di ammortamento del debito pubblico. E la politica? Se ne parla un’altra volta. Forse. E se si può.
"L’obiettivo dei dialoganti è di ribaltare i rapporti di forza per mettere in minoranza i fedelissimi"

Corriere 11.6.13
M5S
«Nuovi allontanamenti? Tutto è possibile»
Crimi: per la prima volta parliamo con chiarezza su alcuni atteggiamenti
di Emanuele Buzzi


MILANO — Risponde trafelato Vito Crimi. Per il primo capogruppo del Movimento 5 Stelle a Palazzo Madama, ormai prossimo al passaggio di consegne, queste sono ore concitate. In corso c'è l'assemblea-confronto tra i 5 Stelle in Parlamento, fedelissimi e dissidenti, la «resa dei conti» come qualcuno l'ha chiamata su Internet.
Ma il senatore precisa subito: «Non c'è nessuno scontro, il clima è sereno e forse per la prima volta ci stiamo confrontando con grande chiarezza e tranquillità su alcuni atteggiamenti. Vogliamo tutti migliorare il clima che si è creato».
Ci saranno espulsioni?
«Assolutamente no».
E nuovi allontanamenti?
«Per quello che ci stiamo dicendo in questo momento la risposta è no, poi tutto è possibile».
A quali conclusioni siete giunti?
«Non abbiamo deciso nulla. Si sta delineando la linea: mantenere una posizione condivisa nelle uscite pubbliche».
Ma non vi sono state critiche per il vostro comunicato sull'uscita dal gruppo di Alessandro Furnari e Vincenza Labriola?
«Guardi, alcuni hanno detto che il comunicato era troppo forte, altri troppo debole: proponevano di chiedere le dimissioni dall'incarico da parlamentare di Furnari e Labriola in quanto eletti con i voti del Movimento. Probabilmente vuol dire che era il giusto mezzo».
La base però via web si lamenta, vi chiede di abbassare i toni.
«Questo bisognerebbe dirlo a chi ritiene giusto per far sentire le proprie istanze affidarle all'esterno aumentando la pressione mediatica e le frizioni».
Cosa dice dei risultati delle Amministrative? Anche in Sicilia il Movimento ha percentuali inferiori alle aspettative, con alti e bassi in diverse aree.
«È la dimostrazione che sono diverse dalle Politiche»
Ma il bilancio è magro?
«No, siamo passati da zero a due comuni. Va benissimo così».
Ha sentito le parole di Epifani? Ha detto: «Il Movimento è in flessione, tocca a loro valutare ma se prendi tanti voti e li metti in congelatore è chiaro che una parte dei voti torna indietro».
«Mi dispiace per lui: cosa si aspettava da noi?»
Domani (oggi, ndr) ci sarà il voto per il suo successore come capogruppo a Palazzo Madama. Terrà una relazione sul suo mandato?
«Sono impegnato al Copasir, ma spero di riuscire a fare in tempo per partecipare allo streaming e parlare di persona con il gruppo. In ogni caso, ci sarà un video».
Come valuta questi mesi?
«Sono soddisfatto. E in questi giorni ho ricevuto la massima solidarietà e gratitudine da parte dei nostri parlamentari. Hanno preso atto delle difficoltà nel gestire un momento tanto delicato come l'ingresso in Parlamento».
Qualcosa che non rifarebbe?
«Solo un'intervista a un settimanale. L'hanno fatta apparire come un servizio posato».
E ora cosa farà scaduto il mandato?
«Il senatore. Lavorerò nelle commissioni in cui sono impegnato, farò proposte di legge come tutti».
Nel caso vincesse il ballottaggio come capogruppo Luis Alberto Orellana potrebbe candidarsi come vice?
«Si libererebbe il posto di Orellana, certo. Non escludo questa ipotesi, ma non credo mi candiderò: voglio concentrarmi su altro».
Oggi (ieri, ndr) c'è stato un convegno con Stefano Rodotà a Montecitorio: pochi i 5 Stelle presenti...
«Per quello che mi riguarda non sapevo fosse in programma e non sapevo della presenza del professor Rodotà».
Un'occasione persa per ricucire lo strappo delle scorse settimane?
«Nessuna occasione persa. Vedremo cosa ha intenzione di fare Rodotà e poi ci confronteremo con lui».

Repubblica 11.6.13
Tutti i perché del caso Italia
Un saggio curato da Ilvo Diamanti sul voto e sul fenomeno Grillo
di Sebastiano Messina


Ci sono dei momenti nella vita – dopo la vittoria di Berlusconi del 1994, per esempio, o dopo il risultato-choc di Grillo del 2013 – in cui tu ti fermi, sconcertato, e ti fai tre domande. La prima: cosa diavolo è successo, esattamente? La seconda: ma come è potuto accadere? La terza: perché nessuno l’aveva previsto? Vuoi capire, renderti conto di quello che accade intorno a te, e magari provare a immaginare quello che può capitarti domani, giusto per non arrivarci – ancora una volta – impreparato.
Sull’avvento del berlusconismo è già stato scritto tutto, anche se sono passati quasi vent’anni e ancora non siamo riusciti a liberarci dall’incantesimo che paralizza la democrazia italiana. Anche sulla sorpresa Grillo si è cimentato qualcuno, ma non con il rigore del politologo che mette in campo Ilvo Diamanti con quello che lui definisce “instant- book” ma che è in realtà un saggio lucidissimo e documentato sulle elezioni che hanno cambiato lo scenario politico italiano: si intitola con elegante autoironia
Un salto nel votoLaterza, 230 pagine, 15 euro) ed è, come annuncia il sottotitolo, un vero “ritratto politico dell’Italia di oggi”.
Un ritratto eseguito da un professore – Diamanti insegna Governo e comunicazione politica all’Università di Urbino, oltre a essere il presidente della Società italiana di studi elettorali e a commentare su Repubblica tutto ciò che si muove sul complicato scacchiere della politica italiana – con l’aiuto di Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini e altri professori ed esperti. I contorni vengono definiti con precisione neorealista: a dispetto dell’immagine quasi goliardica dell’assalto grillino al Palazzo, i risultati ci consegnano un Movimento 5 Stelle che è un vero partito nazionale. È il primo in 50 province, nota Diamanti, contro le 40 del Pd e le 17 del Pdl (la Lega svetta solo a Sondrio). Non solo, ma il movimento dell’ex comico è ormai un partito di massa, perché è il più votato tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi (44 per cento), tra gli operai (38 per cento) ma anche tra i disoccupati (40 per cento) e tra gli studenti (28 per cento). Attenzione dunque, avverte Diamanti, «a considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento ma transitorio, che è possibile riassorbire con strategie tradizionali».
No, siamo davanti a un fenomeno, che ha cambiato lo scenario della politica italiana in modo profondo. Fino a ieri, persino con l’avvento di Berlusconi, la frattura ideologica che tracciava il confine tra uno scheramento e l’altro era quello dell’anticomunismo. Il Movimento 5 Stelle ha imposto una nuova frattura, quella dell’antipolitica (significative le motivazioni di voto dei suoi elettori: solo il 13,3 per cento l’ha scelto perché ha fiducia nel leader, mentre il 30 per cento ha voluto dare “un voto contro i partiti”). Il boom di Grillo ha fatto saltare il bipolarismo, facendo crollare la percentuale dei due maggiori partiti (sommati insieme) al 59 per cento, ben 21 punti al di sotto della soglia minima toccata dal 1994 in poi (l’80 per cento).
Questo è successo, il 24 febbraio. Ma come è potuto accadere? Il libro non ha la pretesa di trovare una risposta definitiva, però indica significativamente un dato: contrariamente a quello che vorrebbe farci credere Grillo, la televisione è stato anche stavolta lo strumento determinante. Il 90 per cento degli elettori l’ha usata “spesso” per avere informazioni sulla campagna elettorale, e il 20 per cento si è servito “solo” di essa. Il web ha avuto un’impennata (+15,8 per cento) come strumento di informazione e di propaganda, ma non a scapito della tv. È ai giornali (-10,7), ai volantini elettorali (-22,3), ai manifesti (-14,9) e persino al porta-a-porta (-8,8) che Internet ha rubato lo spazio. E arriviamo alla domanda più spinosa, per un politologo come Diamanti. Come mai nessuno aveva previsto che Grillo avrebbe fatto il botto? Perché i sondaggi, tutti i sondaggi, 20 giorni prima delle elezioni stimavano il Movimento 5 Stelle tra il 13 per cento (Piepoli) e il 18,8 (Swg), mentre accreditavano Bersani di una percentuale variabile tra il 33,6 della Tecné e il 37,2 dell’Ispo? Nando Pagnoncelli azzarda una risposta. Con tre spiegazioni. La prima è che molti elettori hanno cambiato idea all’ultimo momento (il 29 per cento a meno di sette giorni dal voto). La seconda è che gli elettori che passavano dal centrosinistra a Grillo erano riluttanti ad ammetterlo. La terza è che ormai nove elettori su dieci si rifiutano di rispondere alle domande dei sondaggisti, e dunque le previsioni sono fondate sulle preferenze del decimo, con quel che ne consegue sulla precisione.
Chi vuol capire, capirà, leggendo il libro. Ma se lo scopo è quello di riuscire a prevedere dove andremo a finire, allora vale l’avvertenza di Diamanti: «Il futuro, di questi tempi, non ha futuro. Meglio non fare previsioni. Il futuro è ieri».

IL LIBRO Un salto nel voto di Ilvo Diamanti (Laterza pagg. 230 euro 15)

Repubblica 11.6.13
Golpe contro la Costituzione
Obama non ha giustificazioni
di Daniel Ellsberg


Che equivale di fatto a un “golpe esecutivo” contro la Costituzione Usa. A partire dall’11 settembre la Carta dei diritti per la quale questo Paese lottò più di 200 anni fa è stata revocata — dapprima segretamente, poi in maniera sempre più aperta. In particolare il quarto e quinto emendamento della Costituzione Usa, che tutelano i cittadini contro l’arbitraria intrusione del governo nella loro esistenza privata, sono stati praticamente sospesi.
Il governo sostiene di aver agito con un mandato del tribunale emesso sulla base della Fisa (Atto sulla sorveglianza e l’intelligence straniera). Quel mandato, ampiamente incostituzionale, proviene però da un tribunale segreto, lontano da ogni effettiva supervisione e quasi completamente sottoposto all’esecutivo. È dunque assurdo che il presidente dichiari che tutto sia avvenuto sotto il controllo giudiziario — così come assurda è la presunta funzione di controllo esercitata dai comitati di intelligence del Congresso. Il fatto che i leader del Congresso siano stati “convocati” su questo aspetto senza aprire alcun dibattito, proporre udienze o indagini e sottraendolo quindi a qualsiasi effettiva possibilità di un vero e proprio confronto, dimostra solo quanto in questo Paese il sistema dei controlli e dei contrappesi si sia spezzato.
Naturalmente gli Stati Uniti non sono diventati uno stato di polizia. Se scoppiasse una guerra capace di scatenare un movimento pacifista su larga scala — come quello che nacque per contrastare la guerra in Vietnam — o, com’è più probabile, se subissimo nuovamente un attentato della magnitudine di quello dell’11 settembre, oggi avrei motivi di temere per la nostra democrazia.
La segretezza, e in particolare la segretezza dell’intelligence delle comunicazioni, si basa su motivazioni legittime. Ed è questo il motivo per cui Bradley Manning ed io scegliemmo di non rendere pubblica alcuna informazione ritenuta tale.
Né il presidente né il Congresso possono revocare, da soli, il quarto emendamento — ed è per questo che quanto rivelato da Snowden sino ad oggi era stato tenuto nascosto al popolo americano. Nel 1975 il senatore Frank Church parlò dell’Agenzia per la sicurezza nazionale in questi termini: «Ha la capacità di instaurare in America una tirannia totale, e dobbiamo assicurarci che questa agenzia e tutte le agenzie dotate di questa tecnologia operino all’interno della legge e vengano opportunamente controllate ». Ciò su cui Church ci metteva in guardia era la capacità dell’intelligence americana di raccogliere informazioni. Grazie alle nuove tecnologie digitali, oggi Nsa, Fbi e Cia possono controllare i cittadini con una precisione che la Stasi — la polizia segreta dell’ex Ddr — non si poteva nemmeno sognare. Snowden ci rivela che la cosiddetta “comunità dell’intelligence” si è trasformata nella Stasi Unita d’America.
Siamo dunque precipitati nell’abisso tanto temuto dal senatore Church. Adesso che Edward Snowden ha rischiato la propria vita per farci sapere cosa sta accadendo, con un gesto di coraggio civile che probabilmente indurrà altri individui in possesso di dati analoghi e dotati di una coscienza e un patriottismo simili al suo a fare altrettanto — nella sfera pubblica, nel Congresso, nello stesso ramo esecutivo — intravedo l’inattesa possibilità di risalire, e uscire, dall’abisso.
Facendo pressione sul Congresso affinché costituisca un comitato apposito per indagare sulle rivelazioni di Snowden, un’opinione pubblica informata potrebbe ricondurre sotto un’effettiva supervisione la comunità dell’intelligence, limitandone il campo d’azione e ripristinando così le garanzie sancite dalla Carta dei diritti.
Snowden ha fatto ciò che ha fatto perché ha visto i programmi di sorveglianza della Nsa per quel che sono: un’attività incostituzionale e pericolosa. Questa invasione su larga scala della privacy dei cittadini americani e stranieri non contribuisce alla nostra sicurezza, ma mette a rischio le stesse libertà che desideriamo tutelare.
© The Guardian — La Repubblica (Traduzione di Marzia Porta)

il Fatto 11.6.13
Iris: storie di cinema
Il genio di Antonioni non fu profeta in patria
di Patrizia Simonetti


Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà e sotto un’altra ancora, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta e misteriosa, che nessuno vedrà mai”. Questo era il cinema per Michelangelo Antonioni, esploratore dell’intimo più profondo dell’animo umano e del suo manifestarsi pubblico e privato. Scomparso a Roma il 30 luglio 2007, il cineasta ferrarese è il protagonista questa sera su Iris delle Storie di cinema di Tatti Sanguineti, giornalista, critico e autore savonese, che lo definisce “uomo riservato e misterioso, cantore della borghesia che rifiutò l'estetica neorealista” e che ricorda come fosse “molto amato dai francesi e dagli inglesi, mentre in Italia spernacchiato” e infine come nel 1985, colpito da un ictus che gli tolse la parola, con “il volto come accoltellato da una lacrima”, dopo Orsi, Leoni e Palme d’Oro, Nastri d'Argento e David di Donatello, gli fu conferito l’Oscar alla Carriera. Il viaggio comincia dalla sua città che ne ha appena celebrato il centenario della nascita con la mostra Losguardo di Michelangelo Antonioni e le arti curata dallo scrittore e critico francese Dominique Païni che ne ha ripercorso la carriera non solo attraverso film e sceneggiature, ma passando “al di là delle nuvole”, sconfinando nella pittura, che per Antonioni non era che un “approfondimento dello sguardo”, e nella fotografia, perché “fotografando e ingrandendo la superficie delle cose intorno a me - raccontava - ho cercato di scoprire quello che c'era al di là”.
A PARLARCI DELL’UOMO e del regista anche l’amico e collaboratore Carlo di Carlo, che ne aveva raccolto le recensioni di quando era ancora un critico cinematografiche nel libro Sul cinema (Ed. Marsilio), e le interviste televisive degli anni 80, dal Maurizio Costanzo Show a Domenica In, nel film Antonioni su Antonioni.
La notte l’opera prescelta su cui soffermarsi, il film pluripremiato del 1961 con Jeanne Moreau, Marcello Mastroianni e Monica Vitti, scritto e sceneggiato con Ennio Flaiano e Tonino Guerra, capolavoro di mezzo tra L’avventura e L’Eclisse nella “trilogia dell’incomunicabilità”, la crisi di una coppia per raccontare quella di una società. Finale a sorpresa con una video-lettera di Sanguineti a Jovanotti, reo di aver peccato in gioventù preferendo Lo chiamavano Trinità a Zabriskie Point. “È pericolosissimo - ammonisce il critico - ti invito pubblicamente a chiacchierare di cinema nel mio programma: parleremo anche della tua moto, che aveva incantato Fellini”.

La Stampa 11.6.13
Norman Mailer
Il demonio esiste: dico sul serio
di John Freeman


Un incontro con lo scrittore americano scomparso nel 2007 a pochi giorni dall’uscita del suo ultimo romanzo dove ha raccontato i primi diciassette anni di vita di Hitler
Norman Mailer ha dedicato il suo ultimo romanzo all’adolescenza di Hitler, visto come il diavolo.

C’è stato un tempo in cui Norman Mailer parlava molto frequentemente del Grande Libro. L’argomento era sfuggente come Moby Dick per il capitano Achab: si faceva vedere in acque periferiche nelle interviste degli anni Cinquanta, ricompariva in superficie e poi spariva in acque profonde e oscure, dalle quali tornava a fare capolino solo all’avvicinarsi della data di pubblicazione di un nuovo libro.
Passavano gli anni, e ad ogni romanzo, da Un sogno americano aIl canto del boia, sembrava che finalmente Mailer sarebbe riuscito a trascinare la sua preda a riva.
Joan Didion sostiene che Mailer ce l’ha fatta a catturare il suo grande trofeo, addirittura quattro volte, secondo quanto ha scritto sulla New York Review of Books, ma il grande leone non ne sembra davvero convinto. A ottantaquattro anni, il più «pugilistico» degli scrittori americani ha cominciato a fare qualcosa di stravagante: dire che probabilmente non ce la farà mai.
«Posso aver detto qualcosa, cinquant’anni fa, sul tipo di libro che avrei scritto» dice Mailer nella sua casa di Provincetown, nel Massachusetts, villaggio di pescatori sulla punta estrema di Cape Cod oggi diventato una frequentata meta turistica. «Ma non ho alcuna intenzione di star dietro a quelle promesse».
La cosa davvero curiosa è che Norman Mailer pronuncia questa frase pochi giorni prima della pubblicazione del suo trentaseiesimo libro, Il castello nella foresta, un romanzo temerario che racconta i primi diciassette anni della vita di Hitler attraverso gli occhi di D. T., l’assistente del diavolo in persona. Mailer ha lavorato a questo libro abbastanza a lungo da non ricordare più il momento esatto dell’inizio. Nel frattempo le sue ginocchia hanno cominciato a cedere, e ormai è costretto a camminare con l’aiuto di due bastoni. Durante l’intervista rimane seduto per tutto il tempo. [... ]
Mailer ha scritto un libro decisamente dirty, sporco, che tra le altre cose fa tornare indietro le lancette dell’orologio della cosmologia americana di circa sessant’anni. Nella visione di Mailer il mondo è governato da un triumvirato: Dio, l’uomo e il diavolo; e Hitler, in quest’ottica, sarebbe stata la risposta del demonio a Gesù Cristo.
La scena più vivida del Castello nella foresta è la descrizione dell’osceno, turbolento e incestuoso concepimento di Hitler, con il diavolo che si trasferisce nell’anima del giovane Adolf nell’istante esatto dell’orgasmo. Potrebbe sembrare una provocazione, ma Mailer dice di fare sul serio. «In qualche modo riusciamo a capire Stalin. Una delle sue caratteristiche era l’essere uno degli uomini più forti di tutta la Russia. Ma Hitler non era affatto un duro: è come se una serie di oscuri “talenti” gli siano stati forniti in un momento straordinario».
Norman Mailer sostieneche tali doni, senza dubbio, non possono che provenire dal demonio, una forza costantemente al lavoro. «Ogni anno ci sono mille, forse un milione di persone contaminate dal diavolo. Poi alcune danno frutti, altre non ne danno».
Hitler è stato, secondo l’autore del Castello nella foresta, uno dei punti più alti dell’operato del demonio, un fatto di cui sua madre era certa fin dall’inizio. «Mia madre aveva molta paura di Hitler» dice. «Quando ancora avevo nove anni, mia madre aveva capito, molto prima dei politici dell’epoca, che Hitler si sarebbe rivelato un disastro, un vero mostro, che avrebbe fatto fuori metà degli ebrei, se non addirittura tutti».
Norman Mailer ha pensato molto a questo libro, ma prima ha voluto cimentarsi con Il Vangelo secondo il Figlio, che racconta la storia di Cristo in prima persona. L’idea gli è venuta in una camera d’albergo parigina quando, una notte, non riuscendo ad addormentarsi, ha preso in mano la Bibbia: «Ho pensato: “Ecco un libro davvero buffo. Ci sono frasi degne di Shakespeare, ma nel complesso è orrendo”. Poi ho pensato ancora: “Ci sono almeno cento scrittori al mondo che potrebbero fare di meglio… E io sono uno di loro”».
Così Mailer ha riscritto il Vangelo, i critici l’hanno fatto letteralmente a pezzi, e oggi lui stesso è disposto ad ammettere che sapeva «di non aver fatto un buon lavoro. Era come se non mi sentissi all’altezza del materiale che avevo di fronte» dice, mostrando, tutto sommato, un certo buon senso.
Ma con Adolf Hitler questo problema non si è posto. Innanzitutto passare del tempo con un uomo terribile non è poi così difficile, come lo scrittore ha potuto sperimentare appieno nel suo lavoro su Lee Harvey Oswald per Il racconto di Oswald. Un mistero americano. «Sai che i personaggi non sono lì per farti contento con la loro bontà d’animo o con la loro umanità. Puoi anche scrivere di un mostro, ma nella misura in cui ti piace scrivere, ti piacerà il prodotto del tuo lavoro».
Mailer era abituato a delle vere e proprie maratone di scrittura, ma al momento riesce a scrivere per cinque o sei ore al giorno al massimo, talvolta senza interrompere per il pranzo se è concentrato sul testo.
Il libro contiene una bibliografia piuttosto estesa, ma in molte delle sue parti Mailer si è divertito a pescare nel torbido. «Si sa molto poco dell’infanzia di Hitler. Lui stesso ha cercato, nei limiti del possibile, di far sparire ogni traccia». E così Mailer ha avuto mano libera.
All’inizio della sua carriera avrebbe potuto risentire dell’ansia che un tale progetto può procurare, essendo a conoscenza del tipo di critiche cui ci si espone. Oggi dice di non averci neanche pensato. «Uno dei vantaggi della vecchiaia è che davvero non te ne frega più niente di niente. Cosa vuoi che mi possano fare, venire qua ad ammazzarmi? Accomodatevi! Fate di me un martire! Rendetemi immortale! ».
In qualità di scrittore ebreo, Mailer ha deciso di affrontare Hitler a mente fredda. «Ricordo la prima volta che sono stato in Germania, negli anni Cinquanta. Ero sempre in allerta». Ma ora non più, e alla luce degli eventi in corso crede che per gli americani ci possa essere qualcosa da imparare.
«Ho la sensazione che tutte le nazioni possano diventare dei “mostri”. Negli ultimi anni non dico che l’America lo sia diventata ma, per la prima volta nella nostra storia, credo sia un esito possibile».
In altre parole, il diavolo non è l’unico responsabile dell’ascesa di Hitler al potere: alcune circostanze l’hanno resa possibile. La parola chiave è vigilanza. «Date le condizioni terribili in cui versava la Germania dopo la prima guerra mondiale, e non parlo solo della vergogna e dell’umiliazione per aver perso la prima guerra mondiale in modo così bruciante, così totale» dice Mailer nel tratteggiare il contesto sociale dell’ascesa di Hitler «ecco… dato tutto questo, c’erano i presupposti perché un mostro potesse prendere il potere».
Tuttavia le circostanze non sono sufficienti a creare un nuovo Hitler, secondo Mailer. «Non posso certo giurarci. Quello che voglio dire è che non riusciremo a capire tutto ciò finché non torneremo a pensare che alla fine Dio e il diavolo esistono davvero!».

Corriere 11.6.13
Già la guerra civile di Atene «arruolava» i suoi storici
I fautori dell'oligarchia contro i partigiani democratici
di Paolo Mieli


Il secolo d'oro di Atene, quello di Pericle (495-429 a.C.) e della ricostruzione del Partenone (447-432 a.C.), si concluse con due trionfi degli oligarchi e una catastrofe. Le affermazioni degli oligarchi furono quella dei Quattrocento (411 a.C.) e quella, più spietata, dei Trenta (404-403 a.C.)
Ad esse, a ciò che le preparò e a ciò che ne seguì, è dedicato un libro di Luciano Canfora, La guerra civile ateniese, che sta per essere pubblicato da Rizzoli. Libro interessante anche per i possibili (e ben individuabili) raffronti con cose accadute in un recente passato e perfino nei tempi attuali. Ma soffermiamoci sulla guerra civile che, scrive l'autore, «è un conflitto in cui si combattono a morte gruppi e schieramenti che pretendono di richiamarsi agli stessi valori, che partono da presupposti molto simili, e che cercano di rimarcare le rispettive differenze accusandosi reciprocamente di tradimento rispetto a quei principi ed inasprendo il conflitto militare». Quella che per Cleocrito era «la più vergognosa, la più dura, la più empia, la più invisa agli dei e agli uomini». E che nelle città greche — come scrisse a metà Ottocento Numa-Denis Fustel de Coulanges — era «lo stato abituale, regolare, normale: si è nati, si vive, si morrà in essa; non vi è atto, ambizione o pensiero che non si rapporti ad essa». Concetto Marchesi la definì «la più sincera di tutte le guerre». Ma non per nobilitarla. «Occorre guardarsi dalla ingannevole nobiltà delle guerre civili», aveva scritto François Mauriac nel 1936 quando i franchisti aggredirono la Repubblica in Spagna, «esse sono ispirate, più spontaneamente delle guerre tra stranieri, da duelli di idee, da conflitti di dottrine o di mistiche; e forse è questo che dà loro quell'atroce carattere di violenza passionale». Sono, proseguiva Mauriac, «le più impure di tutte le guerre e quelle che generano le più ineluttabili sequele di crimini, quale che sia il grado di sincerità o di eroismo di coloro che le combattono».
Due episodi restano a simbolo della guerra civile spagnola, la più importante del Novecento (1936-1939). Uno, del tutto incidentale, accadde tre anni prima che il conflitto iniziasse: nel novembre 1933 il giornale madrileno «El Sol» diede notizia che un giovane socialista, José Ruiz, aveva ucciso un militante di destra che portava il suo stesso nome e cognome, anche lui José Ruiz. Il secondo, più noto è quello del caso che schierò su fronti opposti i due fratelli Machado: Antonio, che non poteva abbandonare la numerosa famiglia, con i repubblicani; Manuel con i franchisti. I due riuscirono a non dividersi, quantomeno nei sentimenti. Restano i versi scritti da Antonio nella fase più drammatica dello scontro: «Mia Siviglia infantile, talmente sivigliana!/ il tempo morde la tua memoria invano!/Così nostra! Avviva il tuo ricordo, fratello/ Non sappiamo di chi sarà il domani». Antonio morirà nel '39 in Francia, dopo aver varcato i confini assieme ai fuggitivi dalla Catalogna appena occupata dalle truppe franchiste e Manuel lascerà ogni cosa per correre a piangerlo sulla sua tomba. Eppure un grande storico italiano, Franco Venturi, ha detto che le guerre civili sono le uniche che vale la pena di combattere. Anche se il francese Ernest Renan un secolo prima aveva ben chiarito che, poi, le nazioni, per stare assieme, sono obbligate a dimenticare buona parte dei «fratricidi consumati per farsi paese».
Ma torniamo all'Atene di duemilacinquecento anni prima. Nella guerra civile, nota Canfora, «si esaspera la contrapposizione delle posizioni ideali e si inferocisce il tono»: ciò è dovuto al fatto che si è passati alle armi, talché l'estremizzazione delle posizioni ideali serve a giustificare questa circostanza. Ma fino a qualche tempo prima questa implicazione feroce della diversità di posizioni ideali non era nemmeno presa in considerazione; «anzi si riconoscevano talora anche gli aspetti ragionevoli di alcune posizioni dell'avversario».
E forse sta proprio in questo il carattere di fondo di una guerra civile, guerra che scatta quando non si riconoscono più neanche una sola volta gli «aspetti ragionevoli di alcune posizioni dell'avversario». È il fatto che la guerra civile con il suo «carattere semplificatorio» e con la sua «programmatica esaltazione del non-dialogo, con l'arma inevitabile ma deformante della demonizzazione dell'avversario, rende impossibile, anzi preclude, di porsi in termini di comprensione storico-politica non preconcetta né faziosa verso le ragioni della parte risultata perdente in un feroce scontro». Finita la guerra, il nemico con il quale ci si è scontrati, non più con le parole della politica ma con le armi, viene destinato unicamente alla damnatio, viene cancellato, caricaturizzato, caricato di nefandezze presentate come suoi caratteri strutturali». Per un lunghissimo tempo «non se ne può parlare storicamente e scatta anche una sorta di reciproco controllo vagamente ricattatorio a non fargli "concessioni" tra coloro che, coalizzandosi, combatterono insieme contro l'avversario demonizzato e lo ridussero a disvalore assoluto». La guerra civile «finisce con l'assumere il significato e il valore di una seconda fondazione della democrazia, di qui anche la schematicità e grossolanità delle sue categorie e della ricostruzione tramandata». Parole che sembrano essere state scritte solo per la vicenda di Atene che nel 404 si vide imporre (con il proprio consenso) la dittatura dei Trenta tiranni dopo che colui che era stato mandato come ambasciatore plenipotenziario a Sparta, Teramene, aveva preso tempo e si era messo d'accordo con lo spartano Lisandro. Lisandro poi, ottenuta la capitolazione di Atene e l'instaurazione di un regime oligarchico filospartano, aveva, però, parteggiato per il super tiranno ateniese Crizia (al cui fianco furono, pur in fasi diverse, Socrate, Platone e Senofonte) a danno di Teramene. Poi Crizia, dopo aver fatto fuori Teramene, nell'estate del 403 sarebbe stato sconfitto dai «partigiani del Pireo» guidati dall'ateniese Trasibulo (e sostenuti dallo spartano Pausania). A seguito di questa vittoria di Trasibulo (e di Pausania), i sopravvissuti dell'esperienza dei Trenta — forti di un'amnistia concessa dai vincitori democratici — si sarebbero ritirati a Eleusi. Dove due anni dopo sarebbero stati crudelmente sgominati in violazione all'amnistia stessa e con pretesti davvero ridicoli.
Questi, in sintesi, i fatti della guerra civile che divise non solo ateniesi e spartani ma, come si è visto, fazioni dei primi in combutta con fazioni dei secondi e in urto irriducibile tra loro. Conflitto assai complicato, a cui sarebbe seguita un ben più lunga «guerra civile tra storici» che, a saper leggere, è il vero tema del libro di Canfora.
Uno dei momenti centrali del libro è costituito dal processo a Teramene che, come abbiamo visto, aveva consegnato Atene agli spartani, partecipato alla fase iniziale della «tirannide» dei Trenta per poi finire sotto processo ed essere messo a morte. Un processo, il suo, simile a tanti ai quali assisteremo in seguito, per secoli e secoli. Anche le dittature più atroci, scrive Canfora, «hanno dato una parvenza di legalità ai processi politici, e quello imbastito, a sorpresa, contro Teramene, lo è sotto ogni rispetto: a cominciare dall'architrave stesso dell'accusa … L'imputato viene "smascherato" come "traditore per natura", dall'inizio della sua carriera; a quel punto non ha scampo, è l'abc dei processi politici».
È Senofonte, che ebbe un ruolo di rilievo in quell'esperienza oligarchica, ad insistere per dividerla in due parti: quella «buona» in cui Teramene e Crizia andavano d'accordo e quella cattiva da mettere per intero sul conto di Crizia. «Nel primo tempo di quel governo», riferisce l'autore dell'Anabasi, «Crizia andava del tutto d'accordo con Teramene e gli era amico». Tutto questo, scrive Canfora, serve a far intendere al lettore dell'opera di Senofonte che «l'avvio di quel governo fu "normale", bene accetto e meritorio, e che anche il (futuro) genio del male (Crizia) era ben schierato, al principio, al fianco del (futuro) martire e uomo-simbolo della giusta politica (Teramene)». Ciò che «serve a mostrare che la liquidazione di Teramene fu davvero il fatto principale, decisivo, dell'esperienza oligarchica: che quella vicenda poteva andare diversamente se Teramene avesse prevalso (e certo aveva un suo seguito); che comunque non vi era stata contraddizione tra quell'impegno nel governo del "male" e la successiva ostentata moderazione politica dell'autore». Insomma da parte di Senofonte un tentativo riuscito di nobilitare il proprio passato politico, ancorché tutto interno alla stagione tirannica dei Trenta.
Soffermiamoci adesso sul processo a Teramene. Le accuse che gli furono rivolte per il modo con cui era venuto a patti con Sparta furono innumerevoli. La sua sosta di tre mesi presso Lisandro fu definita «criminale» dai suoi concittadini. «Gli altri mantengono il segreto con il nemico, lui nasconde ciò che dirà al nemico», fu il rimprovero che gli venne rivolto pubblicamente in assemblea. Per questa trattativa il radical-democratico Lisia gli addebitò la colpa di tradimento. Tutto ciò per aver trattato «in segreto». L'avversione per la diplomazia segreta era qualcosa che caratterizzava la mentalità democratica. Democratici, definiti da Canfora, «ambiziosi, rovinosi, demagoghi», contrapposti ai «dottrinari senza scrupoli alla Crizia». Nondimeno, fa notare Canfora, alcune personalità di rilievo dell'antica Grecia, «insofferenti del politicamente corretto», individuarono in tale rifiuto della dimensione segreta della politica una grave limitazione alla loro possibilità di operare per il bene. Ad esempio, tempo dopo, Demostene, nella sua lunga battaglia contro Filippo il Macedone, si infastidì di «non poter fare politica con le mani libere e senza le pastoie non di rado paralizzanti dell'assemblea popolare»; più specificamente si dispiacque di non disporre della libertà d'azione di cui godeva, invece, il suo avversario. Teramene — che, un secolo prima, la pensava come Demostene — provò a ribaltare la tesi che faceva da architrave alle accuse dei suoi avversari politici: «Coloro che pretendono la pubblicità del dibattito finiscono con il mettere tutto nelle mani del nemico; io, invece, voglio che siate voi gli arbitri!». Come dire: lasciatemi fare e giudicatemi alla fine.
Alla fine lo giudichiamo noi e giungiamo alla conclusione che la sua trattativa fu sì condotta in modo tale da giungere ad una pace tra Atene e Sparta, ma a tutto vantaggio di quest'ultima (ma forse non si sarebbe potuto fare altrimenti). Ed ebbe, in ogni caso, un vasto consenso popolare. Almeno in quel momento. Ma il compenso non fu quello sperato. Teramene aveva portato Atene, costretta alla capitolazione per fame, tra le braccia di Lisandro. Con ciò pensava di aver creato le premesse per diventare «l'uomo di Lisandro» ed entrare in tal veste nel governo d'emergenza imposto dal vincitore. Ed effettivamente entrò in quel governo per una sorta di diritto acquisito; ma «l'uomo di Lisandro» fu Crizia, che con Teramene aveva conti in sospeso, talché forse, per quest'ultimo, sarebbe stato addirittura meglio tenersi fuori da quella compagine.
Quanto al governo dittatoriale del 404, nelle Elleniche Senofonte sottolinea che «fu il popolo a decidere» il varo del decreto che affidava tutti il potere ai Trenta. Nell'opuscolo Sulla pace (355 a.C.), Isocrate sostiene che anche nel 411 era stato il popolo a stabilire «che si instaurasse l'oligarchia dei Quattrocento» perché «disgustato dalla ribalderia dei capi popolari». Allo stesso modo sarebbe stato il popolo, nel 404, ad acclamare la dittatura ma anche poi, nel 403, a decretare la fine del sistema oligarchico di Crizia: «Noi tutti diventammo addirittura più filodemocratici persino degli uomini di Trasibulo, grazie alla follia dei Trenta», scrive Isocrate. Ciò che induce Canfora a un'interessante considerazione: «Anche i più radicali regimi che hanno puntato alla limitazione della cittadinanza, hanno voluto l'avallo dell'assemblea popolare, un riconoscimento del principio secondo cui pur sempre in quel "popolo" riunito in veste di organo decisionale risiede la sovranità e quindi anche la legittimazione». Può apparire «una contraddizione in termini che gli oligarchi sentano il bisogno di farsi legittimare dal popolo... Resta però il fatto che quel basilare riconoscimento della fonte ultima della sovranità ha avuto come conseguenza che, mutata la situazione concreta, anche la delegittimazione dei governi oligarchici avviene (ed è effettivamente avvenuta) attraverso un ritorno sulla scena dell'assemblea popolare; la quale si riappropria del diritto di decidere sul destino e sulla possibile revoca del governo che essa stessa ha avallato».
È un fatto che nel 404 Crizia «ha vinto perché in quel momento, al termine di anni di sofferenze crescenti per tutta la popolazione dell'Attica, il regime democratico sembrava ormai giunto a un fallimento epocale». Il bilancio di una lunga stagione di regime democratico fu un disastro militare seguito dalla morte per fame di migliaia di cittadini. E con questo consuntivo «la formazione di un governo che prometteva di rompere con il passato diventava una scelta vincente... Crizia incarnò, per un certo tempo, la speranza di un nuovo ordine, di una politica non più suicida». E impose la tirannide con il consenso delle masse. Contò, questo è certo, «l'incombenza spartana sull'assemblea», ma «l'assemblea era composta da gente stremata». E quel popolo logorato, sfinito, accolse Crizia con entusiasmo, come se fosse il «liberatore dagli incubi prodotti dalla democrazia».
Lo stesso era accaduto per le trattative di Teramene con Sparta, tutte all'insegna della capitolazione. Gli ateniesi imploravano Teramene di portare a casa un risultato positivo. A qualsiasi costo. Erano pronti «ad una pace a qualunque prezzo purché finisse l'assedio». Del resto «un regime che porta il Paese al disastro, nell'immediato viene odiato, non viene né difeso, né, per un po', rimpianto». E in quel momento, nel 404, non c'era nessuno, ma proprio nessuno, che mostrasse una qualche nostalgia per i tempi della democrazia. Non è una buona cosa, sentenzia Canfora, «ma così accade e solo dopo molto tempo (o forse mai) si rettifica il tiro». Ed è accaduto molte volte nel Novecento anche se gli storici amano poco soffermarsi su queste circostanze.
In tema di assonanze storiche, Canfora mette in risalto il fatto che dieci dei Trenta, secondo Lisia (ostile, come si è detto, a Teramene), furono scelti «tra i presenti». Questa designazione, osserva lo storico, è «quasi comica nella sua ipocrisia»: è «l'equivalente dell'odierno camuffamento del ceto politico che arruola personalità dalla "società civile", cioè tra gli elementi che già gravitano nella propria orbita, ma non sono fino a quel momento apparsi in prima fila». Fu tramite i «presenti» (oggi li definiremmo «tecnici») che il clan di Crizia prese il sopravvento su quello di Teramene. Poi Teramene fu fatto fuori e qualche tempo dopo fu la volta di Crizia, eliminato, nel settembre del 403, dal democratico Trasibulo. Al quale si accodarono in molti. Peraltro si sa che l'esercito dei combattenti per la democrazia e la libertà «si ingigantisce, non di rado, a liberazione ormai avvenuta», ironizza Canfora. «Caso da manuale quello di Agorato che si procurò delle armi e si infilò nel corteo dei partigiani che saliva sull'Acropoli per festeggiare il "rientro in città"». Fu immediatamente creata ad arte la versione del popolo che «si era liberato con le proprie forze». Ognuno sapeva che il principale merito della vittoria andava al re spartano Pausania, osserva Canfora, ma ormai, scomparsi dalla scena gli «alleati», «contavano i rapporti di forza all'interno del variegato schieramento dei vincitori». Ma poi quale era stato il reale comportamento degli ateniesi al tempo della tirannide dei Trenta? La formula secondo cui in quei mesi «il popolo andò in esilio» e fu poi Trasibulo a «riportare il popolo in città» è messa in dubbio da Canfora sulla base di un'acuta esegesi degli storici antichi. La verità fu che in una lunga fase iniziale il popolo, dopo aver favorito (o quantomeno non aver in alcun modo ostacolato) l'ascesa al potere dei Trenta ne apprezzò l'empito moralizzatore. Quando poi lo scontro ai vertici divenne evidente, la «gente di Atene» si schierò su una posizione attendista. Solo alla fine passò, nei modi che abbiamo descritto, dalla parte dei «partigiani del Pireo». E neanche tutti. Dopo la «liberazione», si ebbe una qualche difficoltà «nello sforzo di trattenere in città gli abitanti, di evitare cioè che tanti preferissero trasferirsi nella repubblica oligarchica di Eleusi anziché restare nell'Atene "liberata"».
Dopodiché Trasibulo, forse anche per impedire questo esodo verso Eleusi, impose il Patto dell'oblio, che vietava di «rivangare il passato» anche a quei cittadini che avrebbero avuto tutti i titoli per vendicarsi, «anteponendo alle rivalse private la salvezza della città». Il Patto però non chiariva quali eventuali sanzioni fossero previste per chi lo avesse violato.
«Secondo l'accordo stipulato», riassume Maurizio Bettini in un bel saggio che appare nel libro, a cura di Marcello Flores, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, edito da Bruno Mondadori, «nessuno aveva più diritto di "ricordare" a qualcun altro il "male" che aveva ricevuto e di cui lo riteneva responsabile; la rappacificazione passava attraverso l'esplicito divieto di ricordare; pur se da tale cancellazione erano esclusi i reati di sangue». Nella Costituzione degli ateniesi, Aristotele riferisce che ci fu un solo caso in cui fu eseguita una sentenza di morte per violazione di quel patto («un provvedimento a dir poco inaudito», lo definisce Canfora, anche perché la condanna fu inflitta senza processo) e tanto bastò perché «nessuno mai in seguito cercasse di vendicarsi». Ma lo stesso Bettini sottolinea come quel risultato politico sia stato reso possibile da «una forte riattivazione della memoria e del passato»: la riconciliazione promossa da Trasibulo, scrive, «venne realizzata selezionando, tramite la memoria della città, le connessioni identitarie che favorivano l'unità tra gli ateniesi e cancellando invece, attraverso l'oblio, le connessioni identitarie che ne avrebbero perpetuato la divisione».
Parole che hanno attirato l'attenzione di Stefano Rodotà il quale, in Il diritto di avere diritti (Laterza), si sofferma sulla circostanza per la quale, «sottolineando che il ricorso alla memoria o all'oblio non implica una incompatibilità tra queste due categorie, evidentemente il tema della verità viene relativizzato, diviene funzione del modo in cui si vuole perseguire il fine della riconciliazione». Qualcosa di simile, nota Rodotà, si sarebbe riproposto quasi duemila anni dopo con l'Editto di Nantes, emanato da Enrico IV il 13 aprile 1598, nel porre fine alle guerre di religione in Francia. Il primo articolo dell'editto stabilisce che «sia estinto e sopito il ricordo di qualsiasi azione compiuta dalle due parti dal principio del mese di marzo 1585 fino alla nostra accessione alla corona, durante altri precedenti disordini e in occasione di essi, come se nulla fosse accaduto; e non sarà permesso ai nostri procuratori, né ad alcun altro pubblico o privato che sia, in qualsiasi momento, per qualsiasi occasione, di fare riferimento ad essi o di avviare un processo o un'inchiesta». E all'articolo 2: «Proibiamo a tutti i nostri sudditi, di qualsiasi stato o condizione, di rinnovarne la memoria, di aggredirsi, risentirsi, ingiuriarsi, provocarsi l'un l'altro, rimproverandosi per quel che è avvenuto, quale che sia la causa o il pretesto, e di litigare, discutere, accusarsi o offendersi con fatti o parole, ma di dominarsi e vivere insieme in pace come fratelli, amici e concittadini, prevedendosi per tutti coloro i quali contravvengono a questi divieti la punizione prevista per chi viola la pace e perturba la quiete pubblica». Rodotà nota le assonanze tra il Patto dell'oblio (403 a.C.) ed Editto di Nantes (1598). Si può ben dire che anche a fine Cinquecento, scrive, «malgrado i toni decisi e la minaccia di sanzioni, la memoria del passato non è del tutto cancellata, dal momento che l'Editto si sviluppa riconoscendo diritti ai protagonisti dei passati conflitti proprio sulla base delle posizioni e delle identità aggressivamente ribadite in quelle occasioni». Si potrebbe, anzi, aggiungere che, a differenza di quanto era avvenuto ad Atene, «la riconciliazione non si ha sulla base del riferimento ad un'identità comune, bensì legittimando la diversità dei sudditi che professavano la "cosiddetta religione riformata"». Talché si potrebbe concludere con Bettini che, in realtà, il risultato della riconciliazione venga realizzato «utilizzando sia le risorse dell'oblio che quelle della memoria» stessa.
Resta il fatto che il Patto dell'oblio del 403 funzionò in un modo del tutto particolare. Agli eredi di Crizia, dicevamo, fu consentito di ritirarsi ad Eleusi. Dove vissero relativamente in pace per due anni. Finché non furono raggiunti dagli uomini di Trasibulo e uccisi in massa. Singolare modo di onorare il Patto. A giustificare tale violazione fu creata la leggenda secondo cui, gli eredi dei Trenta tiranni «non sopportando la libertà altrui», si accingessero ad arruolare soldati atti a muovere guerra contro Atene. Dal momento che le «democrazie», grandi e piccole, «fanno — com'è noto — soltanto guerre giuste», irride Luciano Canfora, «anche in quel caso si dovette inventare un pretesto per l'intervento, e fu presto trovato: "Arruolano mercenari!"; dunque preparano la revanche, dunque bisogna intervenire e prevenire il loro attacco... Naturalmente era del tutto inverosimile che quelli di Eleusi, abbandonati e traditi da Pausania, tentassero la riscossa». In ogni caso essi furono sterminati. Senza pietà. Platone, nel commentare l'episodio, fu sarcastico: «Oh, con quale moderazione posero fine al conflitto con quelli di Eleusi!». Aristotele fu invece elusivo a parlò di «quelli della città» che si erano finalmente «messi d'accordo anche con quelli di Eleusi». Scrisse proprio così: «messi d'accordo». Isocrate assolse i massacratori di parte democratica presentando il loro gesto come la giustizia «minima indispensabile». Quell'Isocrate che, intervenuto più volte sulla vicenda dei Trenta, ha contribuito non poco alla formazione della «vulgata» demonizzante del loro regime. Del resto lui aveva patito direttamente gli effetti del loro governo (la sua famiglia ne era stata rovinata sotto il profilo economico) e non era nuovo, scrive Canfora, «a tali manipolazioni». In questo caso lo può fare con facilità dal momento che «i Trenta sono i dannati per eccellenza e il rientro dei democratici è diventato una leggendaria vittoria del bene sul male anche in una tradizione poco incline ad apprezzare la democrazia ateniese quale, ad esempio, la storiografia e la politologia romana».
Nella Roma di Cicerone, Trasibulo (soprattutto per merito della biografia scritta da Cornelio Nepote) diventa un personaggio di riferimento. Ed è alla sua amnistia che si ispira Cicerone dopo l'uccisione di Cesare alle idi di marzo del 44 a.C. In realtà, scrive Canfora «l'amnistia del 403, come sappiamo, non contemplava affatto il condono dei reati di sangue; Cicerone lo sa e perciò adopera abilmente e disinvoltamente il celebre precedente storico: non parla di reati di sangue da assolvere bensì di discordie da obliare, ma in realtà sta cercando di far rientrare nel patteggiamento contemplato dalla sua proposta di amnistia per l'appunto un gigantesco reato di sangue quale è l'uccisione del console in carica, in Senato». Trascorrono i secoli e l'«ultimo passaggio, in queste vertiginose evoluzioni della storia sacra, si produce con Seneca». Nel De tranquillitate animi, il riferimento ai Trenta tiranni «diventa veicolo dell'apoteosi di Socrate come unico loro oppositore (e Trasibulo scompare)». Il cerchio si chiude: «Il mito negativo dei Trenta tiranni è definitivamente stabilito, ma la democrazia (già deprecata da Cicerone) non è meno colpevole e viene condannata anch'essa... Sola sussiste, e prevale, la tradizione "socratica", tutelata e trasmessa dai suoi grandi eredi, e fatta propria dalla cultura romana».
Canfora, infine, non rinuncia a scherzare a proposito del conteggio degli uccisi dalla guerra civile. Con consuntivi delle vittime (centinaia? Migliaia?) che ballano per anni, decenni, secoli. Secondo Isocrate i Trenta avevano fatto fuori più persone di quante ne fossero state condannate a morte o comunque uccise durante tutto il tempo in cui fu in vita l'impero di Atene. Certo, uccisioni ce ne furono. E si configurarono come un «massacro di ceto», contro i ricchi che sostenevano i democratici ed erano considerati, in quanto tali, «nemici del buon governo», della «rivoluzione» si sarebbe detto in tempi a noi più ravvicinati. Il dissenso di Platone nei confronti di Crizia (suo parente), ricorda Canfora, «riguardò per l'appunto l'uso della violenza omicida ("sterminatrice" avrebbe detto Antonio Gramsci) per attuare il buon governo». Ma i morti probabilmente non furono tanti quanti vennero sommariamente elencati dopo la caduta dei Trenta. Le battaglie propagandistiche, scrive Canfora, «si vincono a colpi di libri neri». Le cifre «assolute, sempre tonde, vengono scaraventate addosso a chi ha perso la partita e la parte vincente di solito "si ripulisce"». La storia «sacra» in temi come questo «non va mai per il sottile». E anche in questo caso si parla del 403 a.C. ma i riferimenti al Novecento sono oltremodo espliciti.