domenica 23 giugno 2013

La Stampa 23.6.13
I sindacati contro il premier “Basta con le promesse”
Oltre centomila in piazza a Roma: “Non c’è più tempo. Il lavoro è democrazia”
di Raffaelo Masci


Più di 100 mila lavoratori hanno sfilato ieri a Roma sotto il cartello «Il lavoro è democrazia» per dire al governo Letta «che non c’è più tempo e che basta promesse». Ma le notizie, intorno all’evento, sono almeno tre: la prima è che Cgil, Cisl e Uil sono tornati a marciare divisi per colpire uniti, hanno cioè ritrovato un’unità di lotta dopo dieci anni. La seconda è che i sindacati hanno presentato all’esecutivo un pacchetto esigente di richieste in materia di politica fiscale, industriale, del lavoro e della previdenza, con l'avvertimento che se non avranno risposte rapide e certe «non saranno i partiti a mandare a casa il governo - ha sintetizzato Luigi Angeletti, leader della Uil - ma lo faranno i precari, i giovani e i disoccupati di questo paese» e che è insopportabile, ha aggiunto Raffaele Bonanni, numero uno della Cisl, che «mentre il Paese perisce, la classe dirigente si perda in chiacchiere». La terza notizia - un po’ paradossale - è che la controparte governativa, intesa sia come ministri che come forze politiche di maggioranza, è sostanzialmente d’accordo con i temi della protesta, col che non si capisce più con chi prendersela, se non con il demone senza volto della crisi. Ma andiamo con ordine.
Per non dover affrontare l’inclemenza del clima, la manifestazione è iniziata molto presto. Alle 8 del mattino sono cominciati gli assembramenti a piazza dei Partigiani (stazione Ostiense) e a piazza della Repubblica (stazione Termini). Alle 9,30 i cortei sono partiti. Alle 11 è iniziato a San Giovanni il comizio dei tre leader sindacali: i Angeletti - nell’ordine - Bonanni e Camusso della Cgil che ha chiuso a mezzogiorno in punto. Masse di lavoratori, esodati, cassintegrati, dipendenti di aziende in crisi hanno sciamato per la piazza con palloncini, striscioni, mongolfiere e cartelli che testimoniavano un’Italia in forte sofferenza: «Ho 59 anni, 39 e mezzo di contributi... non prendo una lira e sono senza lavoro», «la disoccupazione è peggio della morte, ti toglie la dignità», «An’ ’in pos piò» (non ne posso più) dice in dialetto reggiano la maglietta di un precario allo stremo. E via di questo passo: Indesit, acciaierie di Terni, lavoratori del Sulcis (tantissimi), un’Italia del dolore e della prostrazione sociale.
I sindacalisti sul palco sono stati brevi, ma ogni battuta è stato un colpo nello stomaco al governo e alla politica. «Siamo stufi di tante belle parole» su crisi, lavoro, emergenza disoccupazione giovanile, ha detto il leader della Uil, Luigi Angeletti, «stiamo andando verso un deserto di posti di lavoro: il Paese tornerà quello di 50 anni fa, un Paese di migranti». E poi il fisco: «Letta deve dimezzare le tasse e inasprire le pene per gli evasori fiscali - ha chiesto Raffaele Bonanni - questo è l’unico modo per rilanciare l’economia», «il governo deve avere più coraggio su questo fronte». Susanna Camusso ha ricordato come in questo paese la metà del Pil sia detenuta dal 10% dei cittadini ma come l’80% del gettito fiscale venga da chi possiede l’altra metà. Critiche comuni, infine, al pacchetto lavoro «una fuga dalle scelte vere».
Dopo di che è iniziato il coro delle reazioni, tutte sostanzialmente favorevoli, dal che si deduce che mancherebbe uan controparte in questa disputa. Guglielmo Epifani, segretario del Pd, era in piazza: «Questo è un grido di preoccupazione che va ascoltato, ma aspettiamo i provvedimenti che il governo prenderà». Ma anche Flavio Zanonato - il più volte evocato ministro per lo sviluppo economico - ha chiarito che in linea di principio «sto dalla parte dei lavoratori e dei loro sindacati». Perfino l’altrettanto citato ministro del lavoro, Enrico Giovannini ha detto di condividere «molte delle cose che sono state dette». Perfino la pasdaran berlusconiana Michela Biancofiore si è schierata con i sindacati: «Concordo che serve più coraggio nel riformare il fisco». Ma la predica di piazza San Giovanni per chi è allora?

l’Unità 23.6.13
Lavoro: centomila in piazza per cambiare
«Restiamo uniti, questa volta dobbiamo vincere»
Grande partecipazione alla manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil
«Basta parole, non possiamo più aspettare» dicono i leader sindacali al governo
Proposte su fisco, lavoro, sviluppo
di Jolanda Bufalini


ROMA Un mondo del lavoro colorato e multietnico si è dato appuntamento a Roma per dire che «non c’è più tempo» per i disoccupati, i cassintegrati, gli esodati, le aziende in crisi, per quelli che, perdendo il lavoro, sono precipitati al di sotto della soglia di povertà, per i bambini che abbandonano la scuola. Sono venuti in tanti, con i treni, con i 1400 pullman, sulle navi dalla Sardegna, con i propri mezzi, per richiamare l’attenzione del governo e, per la prima volta dopo 10 anni, sulla base di una piattaforma unitaria di Cgil Cisl Uil, 100.000 forse di più. Quando le teste dei due cortei arrivano a San Giovanni ancora scorre il doppio flusso da piazza Esedra e dalla Bocca della Verità.
I ragazzi neri che sostengono lo striscione di Caserta contro la camorra si confondono con i giovani operai sardi dell’Alcoa, in Cig da gennaio e, ormai, da quando si è rotto, il 12 giugno il filo della trattativa, senza più prospettive, della Vinyls, del Sulcis. Ci sono le bandiere della Fiom e c’è Maurizio Landini, insieme a quelle, colorate, delle tre organizzazioni sindacali.
UN LENZUOLO ROSSO
C’è il gigantesco lenzuolo rosso della Flc, i lavoratori della conoscenza, e ci sono gli operai che avrebbero potuto andare in pensione ma che la riforma ha bloccato: «40 anni in fabbrica sono tanti», dice un cartello, «43 sono troppi». C’è molta rabbia nello spezzone della Fillea, i lavoratori delle costruzioni. Le aziende sane chiudono, negli appalti non reggono la concorrenza di quelle che «giobbano» su sicurezza e contributi, «e questo governo, come gli altri, pensa di risolvere i problemi allentando i vincoli e senza mettere soldi», dice il segretario generale Walter Schiavella. La misura è colma e lo si capisce dalla durezza con cui si denuncia l’evasione fiscale, verso cui «si deve inasprire le pene», è questa la semplificazione che piace ai sindacati: poche regole chiare e severe per tutti. C’è rabbia contro i privilegi delle pensioni d’oro, difesi in nome dell’eguaglianza, quando non ci sono soldi per rivalutare le pensioni povere.
Al corteo ci sono tanti politici della sinistra, Guglielmo Epifani, Nichi Vendola, Cesare Damiano, Paolo Ferrero, Sergio D’Antoni. «Il lavoro è e deve essere una priorità», dice Epifani, «e sarebbe irresponsabile far cadere il governo». «Il governo faccia dice Vendola-osenevada».
Aprono gli interventi dal palco Luigi Angeletti, «ci vuole la riforma fiscale», e Raffaele Bonanni, «in Italia manca la politica industriale». Susanna Camusso è elegantissima, con una tunica-giacca color pavone, fa foto ricordo insieme ai delegati dei lavoratori. Quando prende la parola è salutata da una ovazione, «Siete bellissimi», esordisce rivolta alla piazza. «Questa Italia che vede i sindacati insieme, è qui perché vuole salvare il paese». Rivendica, citando l’accordo con Confindustria, che «il sindacato ci mette la faccia». Ma, aggiunge, «bisogna cambiare passo perché il tempo non è una variabile indipendente». L’imperativo è «fare presto cose giuste». «Bisogna scegliere», è l’attacco di Susanna Camusso al governo, «perché non si può andare avanti con gli annunci». E scegliere significa sapere dove prendere le risorse che mancano, «con l’Imu sulle grandi proprietà, con la riduzione delle spese militari», perché l’unico modo di far ripartire l’economia è «dare risorse ai lavoratori», mentre i privilegi di chi è già ricco «non servono a niente». Camusso non si unisce al coro che ha festeggiato «le manette a Equitalia», perché quello è lo strumento della lotta all’evasione: «L’Europa deve cambiare le regole, ma insopportabile è il paese in cui il 10 % detiene la metà delle ricchezze mentre metà della popolazione si impoverisce sempre più». E a Confindustria: «Non siamo sulla stessa barca, se Indesit delocalizza investendo gli utili in Polonia e Turchia», «le tasse non vanno ridotte a tutti ma solo agli imprenditori che investono e assumono». Il lavoro «è democrazia», «la democrazia e non solo l’economia è a rischio se cresce la disoccupazione, perché la gente perde, con il lavoro, libertà e dignità».
NO ALL’AUMENTO DEI TICKET
Il cahièr des doleànces è lungo, a cominciare dai decreti per le Cig in deroga, che non sono ancora stati firmati. A proposito degli esodati, dice «pacta sunt servanda», «non c’è spazio nuove lotterie». E sulle pensioni: «si deve distinguere fra lavori faticosi e chi si passa il tempo». «Basta», dice la segretaria della Cgil, con la «storia del conflitto fra generazioni, quando i nonni sono l’unico welfare». È la volta di rivolgersi ai ministri: «Non ci si chieda di rinunciare al welfare universale, no all’aumento dei ticket nel 2014, che già adesso c’è chi rinuncia a curarsi». «Bisogna far funzionare la scuola pubblica, i bambini poveri non vanno più a scuola», si colpiscono «i più deboli con i tagli agli appalti per le pulizie». Il pubblico impiego è stato insultato ma i sindacati chiedono « la riforma della pubblica amministrazione e servizi migliori ai cittadini». La sindacalista apprezza l’impegno sulla cittadinanza ma «cancellate il reato di clandestinità». Ce n’è per il ministro alle attività produttive Zanonato: «Non è possibile che tutte le situazioni di crisi si fermino al tavolo del ministero». Risponde il ministro: «Quando i sindacati sono in piazza, io sono dalla parte dei lavoratori».

il Fatto 23.6.13
Centomila in piazza per dare la sveglia a Letta
di Tommaso Rodano


I SINDACATI, UNITI DOPO DIECI ANNI: “IL GOVERNO DEGLI ANNUNCI ORA FACCIA QUALCOSA”. CAMUSSO: “NESSUNO TOCCHI LA CASSA INTEGRAZIONE”

Piazza San Giovanni, cuore rosso di Roma, è gremita come non succedeva da tempo. Cgil, Cisl e Uil tornano a parlare con una voce sola: è la prima volta in dieci anni, l’epilogo di una lunga stagione di contrasti e accordi separati. “Siamo centomila”, affermano i sindacati, “la partecipazione è andata oltre ogni previsione”. Nei due cortei che si incontrano in piazza sfila l’Italia dolente di una crisi che non finisce mai. L’Italia tutta: da Nord a Sud, dalla Liguria all’Emilia Romagna, fino a Puglia, Basilicata e Sardegna. Nella cartina geografica delle aziende che chiudono e del lavoro che scompare, nessuna area è risparmiata; nessuna regione è lasciata senza rappresentanza. Disoccupati, cassintegrati, esodati, precari: il vocabolario della crisi è sempre lo stesso, mentre il tempo passa e la sofferenza aumenta.
“Lavoro è democrazia”, si legge a lettere giganti sul palco di piazza San Giovanni. Sale il segretario della Cgil, Susanna Camusso, accolta da un’ovazione. Per la squadra di Enrico Letta non ha parole dolci: “Il governo deve cambiare passo. Quello di questi primi mesi non ci accontenta. Il Paese ha bisogno di risposte rapide, di coraggio per decidere ora, non fra qualche mese”.
IL TEMPO è già scaduto. Le buone intenzioni, spiega Camusso, non bastano più. A cominciare da quelle sugli ammortizzatori sociali: “Dopo l’annuncio sulle risorse stanziate per la cassa integrazione in deroga, perché non si firmano i decreti attuativi e non si sbloccano le risorse disponibili? ”. Poi l’avvertimento: “Se qualcuno crede di disfarsi degli ammortizzatori sociali o degli accordi sulla mobilità, si sbaglia di grosso”. Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, si rivolge direttamente al presidente del Consiglio: “Caro Letta, noi siamo disposti a fare un percorso positivo. Ma tu devi avere coraggio. O torna a prosperare l’Italia del lavoro, oppure questo Paese muore”. Più drastico Luigi Angeletti, leader della Uil, che prima ancora della partenza del corteo aveva dichiarato: “Il pacchetto di Giovannini e le misure di cui si legge sui giornali non servono a nulla. A staccare la spina al governo saranno i cortei di disoccupati”.
In piazza si è visto anche il segretario del Partito democratico, Guglielmo Epifani. Un mese fa, al corteo della Fiom, ritenne la sua presenza inopportuna. Stavolta non è voluto mancare: “Il Pd è a fianco dei sindacati e condivide i loro stessi obiettivi sul lavoro”. Nessuna polemica, però, sul lavoro di Letta e ministri: “Far cadere l’esecutivo in una fase così drammatica sarebbe da irresponsabili”.
IL SILURO sul governo, invece, arriva da una dichiarazione del vicepremier Angelino Alfano: “Il destino di questo esecutivo è legato al programma: se non riesce a realizzarlo, non andrà avanti a lungo”. Poi il diktat del Pdl: “Detassare le nuove assunzioni e evitare gli aumenti di tutte le altre tasse, a cominciare dall’Iva”. Immediata la replica stizzita del Pd, per bocca del viceministro Stefano Fassina: “Nel governo, di cui Alfano è il numero due, nessuno vuole alzare le tasse. Non è il caso di scaricare su di noi le tensioni accumulate da Berlusconi sul versante giudiziario”.

Repubblica 23.6.13
Che cosa va chiesto a Palazzo Chigi
di Luciano Gallino


VEDERE una piazza piena di lavoratori appartenenti alle maggiori confederazioni sindacali che manifestano il loro scontento per lo stato in cui versano l’occupazione e l’economia, mentre i segretari si alternano sul palco per chiedere che il governo assuma finalmente qualche iniziativa seria in tema di politiche del lavoro, è un buon segno per l’intera società – con una nube residua all’orizzonte che speriamo arrivi a dissiparsi.
La marcia in ordine sparso dei sindacati italiani, durata un decennio, è costata cara ai lavoratori e all’intera economia. Lo attestano sia i dati sia molte diagnosi sugli effetti della crisi nel nostro Paese. Fra il 1990 e il 2009 la quota salari sul Pil si è ridotta di quasi il 7 per cento in Italia, ma solo del 5 in Germania, del 4 nel Regno Unito, e meno del 3 in Francia. I sette punti in meno andati al lavoro, che in moneta corrente valgono oltre 110 miliardi, sono andati ai profitti e alle rendite. Ma non si sono affatto trasformati in investimenti produttivi. Per quasi tutto il periodo gli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari) sono regrediti, segnando un picco negativo nel 2008-2009. Dove sono finiti profitti e rendite? In prevalenza hanno preso la strada degli investimenti finanziari. Per alcuni anni, questi ultimi hanno reso molto di più degli investimenti nell’economia reale, per cui le imprese hanno destinato ad essi i profitti, in misura maggiore che non negli altri paesi Ue. Con una ricaduta che ha nuociuto anche alle imprese. Infatti almeno l’80 per cento del Pil è formato dai consumi delle famiglie, e se a queste vengono a mancare decine di miliardi l’anno, i risultati si vedono: migliaia di serrande abbassate e d’impianti fermi.
Se mai i sindacati pensassero di presentare unitariamente al governo dei temi su cui discutere, in luogo della pioggerella di miniprovvedimenti sul lavoro che esso ha finora escogitato, c’è solo da scegliere. In primo luogo bisognerebbe chiedere al governo di mettere al primo posto nella sua agenda il tema della piena occupazione. Può sembrare chiedere troppo, di fronte ai numeri della disoccupazione. Il fatto è che se lo scopo primo della politica economica è quello di puntare alla piena occupazione, molte altre politiche ne discendono a cascata in modo preordinato, a cominciare da quelle riguardanti la crescita. Nel caso che il Pil dovesse ricominciare a crescere, ma l’occupazione no — situazione assai probabile — quei tot milioni non ne trarrebbero nessun vantaggio. La piena occupazione non è nemmeno un obbiettivo di sinistra. Uno dei libri più acuti e concreti sull’importanza economica, sociale, politica di porre la piena occupazione in cima all’agenda governativa è stato scritto tempo fa da un grande liberale (William Beveridge).
Nell’agenda del governo i sindacati uniti potrebbero pure chiedere di inserire la distribuzione del reddito e della ricchezza. Il più drammatico mutamento sociale degli ultimi trent’anni è stata la redistribuzione dell’uno e dell’altra dal basso verso l’alto che si è verificata nella Ue come in Usa. La caduta della quota salari in quasitutti i paesi Ocse è stata soltanto un aspetto di tale redistribuzione alla rovescia, che facendo crescere a dismisura le disuguaglianze ha contribuito non poco a preparare la crisi esplosa nel 2007. I sindacati non hanno molti mezzi per premere in tale direzione, ma almeno uno di peso ce l’hanno: il contratto nazionale di lavoro. La sua funzione è stato ridotta dall’importanza che gli ultimi governi e una parte dei sindacati hanno inteso dare alla contrattazione decentrata. Ma se si vuole restituire ai lavoratori qualcosa di ciò che hanno perso negli ultimi vent’anni, è difficile individuare altre strade che non comprendano la contrattazione a livello nazionale.
Vi sarebbe ancora una richiesta da portare unitariamente al governo: elaborare una politica industriale. Ma non una politica qualunque. Piuttosto una politica che parta da una quasi certezza: i posti di lavoro andati persi dopo il 2007 non saranno mai più recuperati nei medesimi settori produttivi o affini. Il motivo va visto nel grande sviluppo che l’automazione di terza generazione ha avuto in pochi anni. Il suo punto di forza sono i robot intelligenti, capaci di fare moltissime cose che appena un lustro fa soltanto la mano dell’essere umano era capace di fare. Ora si dà il caso che l’Italia sia stato nel triennio 2010-2012 il maggior acquirente di robot industriali d’Europa, dopo l’irraggiungibile Germania. Cessata per ora, con qualche delusione, l’euforia per gli investimenti finanziari, le imprese hanno ripreso a investire in capitale fisso, dando però la preferenza ai macchinari che sostituiscono il lavoro umano. Una politica industriale che guardi un po’ più avanti dell’anno prossimo, dovrebbe quindi essere concepita per attuare una transizione ordinata di masse di lavoratori dai settori produttivi investiti dalla nuova automazione, ad altri settori sia tradizionaliche innovativi, purché essi comportino un’alta intensità di lavoro e una difficile sostituibilità da parte delle macchine.
Con proposte del genere, i sindacati di nuovo uniti potrebbero riempire l’agenda del governo per lungo tempo. Tra un intervallo e l’altro della discussione, potrebbero anche cercar di diradare la nube cui ho accennato all’inizio. Va bene l’unità al tavolo del governo. Ma per far avanzare qualsiasi genere di proposta non effimera, sarebbe necessaria anche l’unità ai tavoli dove i sindacati hanno di fronte le imprese. Tale unità al momento non esiste, perché una delle maggiori federazioni a quei tavoli non ha il diritto di sedersi, o di esservi rappresentata. Potrebbe essere giunto il momento di dar attuazione per legge all’articolo 39 della Costituzione, stando al quale tutti i sindacati registrati hanno uguale personalità giuridica.

l’Unità 23.6.13
Il Cav. pretende la soluzione giudiziaria. O salta tutto
Settimana decisiva per i destini dell’esecutivo
La scadenza per l’Iva coincide con il verdetto Ruby
Nuovo rinvio per decreti carcere e sicurezza
di Claudia Fusani


La chiamano Iva e Imu. Si traduce salvacondotto per Berlusconi. Daniela Santanchè, falchessa tra i falchi azzurri, fa il conto alla rovescia su twitter: «Meno nove giorni all’aumento dell’Iva». Il ministro-segretario Alfano, declassato da «colomba a piccione» dal direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, parla a nuora perchè suocera intenda: «Le questioni giudiziarie non sono state poste come condizionanti per il governo». Solo che il 30 giugno, giorno in cui scatterà l’aumento dell’imposta sui consumi salvo miracoli ad horas, sapremo anche a che punto è il profilo delle pendenze giudiziarie dell’ex premier.
Quando c’è di mezzo il Cavaliere il destino si diverte sempre a giocare con il calendario. A far coincidere date e scadenze. Di modo che si possa parlare di una cosa ma invece è l’altra che pesa sulla bilancia.
Così entro domenica prossima 30 giugno, ma anche prima perchè lo sviluppo Iva, in un senso o nell’altro, deve essere annunciato due e tre giorni prima, sapremo anche se e come Silvio Berlusconi è stato condannato per le cene eleganti con minorenni tra i commensali in quel di Arcore (verdetto atteso per domani). Se dovrà restituire del tutto o in parte i 560 milioni di risarcimento alla Cir che perse la Mondadori per un atto corruttivo tra giudici e avvocati (udienza in Cassazione giovedì 27). Lo stesso giorno comincia anche l’udienza preliminare a Napoli per i passaggi di danaro con Lavitola e l’allora senatore De Gregorio, l’ipotesi è corruzione.
Ora, va da sè che trovare i soldi per l’Iva in questo momento è un po’ come trovare il salvacondotto giudiziario visto che poi la vera partita sui processi può essere rinviata fino all’autunno quando la Cassazione giudicherà in maniera definitiva sulla compravendita dei Diritti tv (4 anni di pena e 5 di interdizione dai pubblici). Ma è chiaro che non trovare i soldi per l’Iva ora e per l’Imu entro agosto e andare avanti con lo stillicidio di sentenze «contrarie», porta il Paese dritto verso la crisi di governo.
Sarà, quindi, quella che comincia domani, la settimana più delicata per la sopravvivenza del governo Letta-Alfano. Nella cena di giovedì sera a palazzo  Grazioli Berlusconi ha detto a ministri-colombe e quadri di partito-falchi: «Dopo gli schiaffi arrivati dalla Consulta e quelli che arriveranno lunedì (domani, ndr) per Ruby non possiamo più permetterci altre mortificazioni. Quindi ora voglio i fatti sui temi economici». Una via di mezzo tra il ricatto e la minaccia. Anche perchè, nella stessa riunione, in quattro e quattr’otto, il Cavaliere ha lanciato lo state pronti per la campagna elettorale e ha messo nel mirino Renzi («il nostro vero competitor che nei sondaggi vale più di Napolitano»).
I ministri Pdl al governo non vivono ore piacevoli. Sanno di essere sospettati, dai compagni di partito e non solo, di «intelligenza con il nemico». Al tempo stesso hanno giurato fedeltà all’esecutivo. Il più in difficoltà è Alfano che ha fatto di tutto per avere gli Interni visto che non poteva avere la Giustizia. Ma ha sottovalutato il ministro Guardasigilli Annamaria Cancellieri. In questa situazione anche minimi spazi di manovra sono stati chiusi. L’ennesima leggina pro-Silvio è stata smentita da tutti, dall’avvocato Ghedini («fiction») e dal Guardasigilli («ipotesi fantastica»). Probabilmente è così adesso. Nel senso che tra decreto-carceri firmato Cancellieri e decreto-sicurezza firmato Alfano a nessuno venga in mente di infilare una riga di qua o di là nell’interesse di Silvio per evitare il pericolo interdizione dai pubblici uffici. Ma prima o poi ci proveranno, quando meno te lo aspetti, in qualche decreto che corre veloce.
Lo sa Cancellieri. Lo sa anche Letta. Lo sa soprattutto Alfano. Il risultato è, al momento, la paralisi. Il decreto-carceri per tirare fuori quattromila detenuti e di cui c’è bisogno come del pane perchè il sovraffollamento è benzina per il caldo estivo, rischia di non andare in Consiglio dei ministri neppure mercoledì. Eppure il ministro Guardasigilli lo ha promesso di nuovo venerdì: «È pronto e sarò approvato mercoledì».
Sono troppe le variabili a quel testo che possono ribaltare il tavolo: palazzo Chigi vuole il reato di autoriciclaggio e palazzo Grazioli no; il Viminale vorrebbe un testo unico ma via Arenula preferisce tenere distinte le pratiche. Non si sa mai. Ma tutto dipende da domani. Da come finirà Ruby.

il Fatto 23.6.13
Dario Ginefra (pd): Così imbarazza governo e partito
Troppa canoa: la Idem resta per noi
Risponde solo a tre domande. Oltre alle scuse, nulla
“Motivazioni inaccettabili: Io mi sarei dimesso”
di Wanda Marra


Josefa Idem dovrebbe valutare seriamente l’ipotesi di togliere il governo Letta dall’imbarazzo di dover scegliere per lei”. Così Da-rio Ginefra, deputato Pd (appena eletto coordinatore dei parlamentari pugliesi dei Democratici) scriveva ieri mattina su Twitter. A conferenza stampa del Ministro avvenuta, evidentemente le cose non sono andate proprio così.
Onorevole Ginefra, cosa si aspettava di sentire?
Mi sarei augurato che il ministro Idem potesse dire che nessuna delle cose che le vengono imputate sono vere. Invece, non è stato così: ha semplicemente affermato che erano altri a gestire i suoi affari, visto che lei era troppo impegnata.
Una giustificazione?
Noi come Pd chiediamo a chi ci rappresenta di essere irreprensibile. Un principio che abbiamo fatto valere in casi analoghi. Non si possono fare due pesi e due misure. Io apprezzo Idem come sportiva e come donna, ma motivazioni come quelle che ha dato non sono accettabili.
Quindi deve dimettersi?
Io al suo posto mi sarei dimesso. Ma non sta a me dirlo. Però avrebbe potuto valutare l’opportunità di evitare imbarazzi al governo e alla compagine politica che rappresenta.
Con la conferenza stampa il caso è chiuso?
Sta al premier Letta valutare. Ma penso che come parlamentari del Partito democratico ci dobbiamo porre la questione. Altri gruppi presenteranno mozioni di sfiducia. Dobbiamo fare una discussione anche noi.
Il Pd come ha preso questa questione?
Ho sentito molti colleghi in difficoltà.
ll ministro ha dichiarato che in Germania non ci si sarebbe dimessi per una cosa del genere.
Abbiamo avuto dimissioni in quel paese per una tesi di laurea copiata. E non credo che dobbiamo accettare dalla Germania anche lezioni di moralità. Idem è un ministro della Repubblica italiana.

La Stampa 23.6.13
“Cicci”, il marito-allenatore e quella gestione “opaca” della palestra di famiglia
Un’associazione paga 600 euro di affitto per l’edificio accatastato come abitazione
di Raphael Zanotti


Stipulato un protocollo d’intesa nel 2008 con una società che però è stata registrata al Coni nel 2009
L’uomo si è barricato in casa nel silenzio e attacca chi sospetta di lui: «Brutta gente»

Brillante, sanguigno, lavoratore: Guglielmo Guerrini, che qui tutti chiamano Cicci, è un romagnolo doc. Se potesse, in questi giorni, esploderebbe. Ma gli hanno messo la mordacchia. E lui è costretto a restare chiuso in casa, senza parlare. “Brota zênta…”, brutta gente, è l’unico commento che gli resta. Lui, Cicci, rischia di passare un po’ per quello che ha fatto il pastrocchio, se si vuole difendere il candore della moglie Josefa, ministro un po’ in affanno nelle ultime vicende. Ma Cicci Guerrini non è l’ultimo arrivato. Era già conosciuto prima che incontrasse Josefa. Nato a Bagnacavallo, centro alle porte di Ravenna, è il classico romagnolo che si è fatto da sé. Ex canoista, insegnante di educazione fisica nelle scuole, scriveva saggi sulla forza e allenava squadre di pallavolo quando, nel 1989, incontrò Josefa a Praga, durante un raduno sportivo. Un amore a prima vista. Un anno dopo erano già sposati e inseparabili: lei, l’atleta d’acciaio, lui il marito, padre dei suoi figli (Janek e Jonas) e preparatore atletico. Un brillante preparatore atletico, visti gli eccezionali risultati agonistici di Josefa. E così sono arrivati anche i lavori dal Coni, la nomina ad allenatore della nazionale femminile di canoa, l’incarico come responsabile del progetto di preparazione per la disciplina per le Olimpiadi di Londra. Ma per tutti, qui a Ravenna, è rimasto Cicci Guerrini.
Ora che la moglie è in difficoltà, per la questione della casa palestra di carraia Bezzi 104, è anche a lui che guardano. Perché quando intrecci in modo così indissolubile famiglia e professione, è facile che qualcosa vada storto. Che un’abitazione possa diventare palestra, che un’associazione di volontariato sportivo abbia sede nel tuo soggiorno.
Ha un bel ricostruire, l’avvocato Luca Di Raimondo, la storia della palestra JaJo in carraia Bezzi a Santerno. Proprietaria dei muri è Josefa Idem che nel 2004 ha stipulato un contratto di comodato d’uso con un’associazione dilettantistica, l’associazione Canoa Kayak Standiana (presieduta dal marito e fino al 2003 con sede nella loro casa in carraia Bezzi 102 dove ora abita Gianni, fratello del marito), la quale associazione ha poi siglato nell’ottobre 2008 un “protocollo d’intesa” con un’altra associazione dilettantistica (l’Asdilettantistica Sicul Motori e Sports) per la gestione della palestra. La quale paga un affitto di 600 euro per l’uso della palestra “personale” di Josefa in un edificio accatastato come abitazione. Chiaro.
Poi uno comincia a smontare i pezzi. Il protocollo d’intesa non è un contratto d’affitto. E quindi ci si domanda a che titolo il marito percepisca dei soldi per un bene che gli è stato dato in comodato gratuito. L’accordo, si dice, è stato raggiunto nell’ottobre 2008 (giusto un mese prima delle foto di Google Streetview che certificano l’esistenza della palestra almeno dal novembre 2008), peccato che la Sicul Motori e Sports risulti registrata al Coni solo dal 27 gennaio 2009, quindi successivamente. E con semplice codice fiscale, non con partita Iva. Quindi, teoricamente, senza poter svolgere attività commerciale.
Tutto un po’ in famiglia, com’è sempre stato. Alla buona, un po’ alla romagnola. Come quell’altra storia dell’assunzione, nella quale Cicci Guerrini il marito-allenatore-padre è diventato per un certo periodo anche datore di lavoro di Josefa. Giusto il periodo del suo incarico da assessore, con pagamento degli oneri da parte del Comune. L’avvocato spiega: rapporto di lavoro interrotto per le stesse ragioni per cui il ministro Idem lasciò l’incarico di assessore: famiglia e preparazione atletica. Ma qualcuno potrebbe chiedersi: e l’associazione? Sostituì la sua unica dipendente visto che ne aveva così bisogno? E con chi? Certo, non stiamo parlando di tangenti, case a propria insaputa o festini. Stiamo parlando di una palestra di 100 metri quadri tra le quattro case di Santerno. Ma si sa, se uno diventa ministro, è facile si scontri con quella “zênta brota”.

l’Unità 23.6.13
30-40 grillini in partenza «Se ne vanno per soldi»
In settimana il Restitution day
Cecconi: «Ma c’è chi ha preso il mutuo, chi ha contratto debiti»
di Claudia Fusani


Sarà una selezione naturale. Perché la prova dei soldi è come la prova del fuoco, o quella dei chiodi, la prova di sopravvivenza. Superata quella si può dire che il più è fatto. Ma è necessario superarla.
Sarà in questa settimana, tatticamente dopo il ballottaggio finale in Sicilia, ultime urne aperte di un ciclo iniziato a ottobre scorso (in Sicilia, appunto) e che ha cambiato quasi tutto. O forse nulla. E saranno dolori. «Le previsioni dicono che ne perderemo una ventina, tra Camera e Senato» ammette Andrea Cecconi, deputato Cinque stelle di Pesaro, consapevole e critico quanto serve ma fedelissimo ai principi. Soprattutto uno di quelli per cui in politica ci sono avversari ma mai nemici. Un esodo «fisiologico» aggiunge, «previsto e già messo nel conto». E provocato dai motivi più banali, e umani. «Alcuni di noi hanno già agganciato le indennità all’accensione e al pagamento del mutuo, altri hanno fatto debiti durante la campagna elettorale e devono rientrare, altri ancora hanno un sogno, legittimo, nel cassetto e non vogliono perdere questa occasione per provarci».
Snocciola nomi di colleghi che per rispetto della privacy è giusto non riportare: c’è chi ha finalmente ristrutturato casa e si è indebitato fino al collo; chi ha speso «fino a ventimila euro in campagna elettorale e deve ancora saldare il debito», chi sogna di «lanciare una fattoria modello con produzione a km zero», chi sognava di comprarsi casa per sposarsi «e finalmente lo può fare». Tutto legittimo, appunto. Ma fuori dai patti. «Li capisco, anche aggiunge Cecconi ma noi sulla restituzione dei soldi ci abbiamo fatto la campagna elettorale e non possiamo transigere». Chi non rispetta i patti è fuori. O esce da solo. O sarà espulso. Finora si sono dimessi in tre (Furnari e Labriola dalla Camera, De Pin al Senato) e ne sono stati espulsi due, i senatori Mastrangeli e Gambaro.
I team comunicazione l’hanno ribattezzato «Restitution day», il giorno della restituzione. «Ci è stato dato un Iban della banca d’Italia aggiunge Cecconi dove dovremo versare i danari in più, sia dell’indennità che della diaria. Vanno tutti in un fondo di ammortamento per il debito pubblico. Il giorno indicato entro cui fare il bonifico è il 25, ma sarà dato tempo fino alla fine della settimana, per l’accredito de gli stipendi di giugno». Poi nulla sarà più come prima.
Altri conteggi, più pessimisti, dicono che se ne andranno fino a 40-50 parlamentari tra Camera e Senato. Magari non tutti insieme. Sarà questione di settimane. Perchè l’altra prova del fuoco saranno i resoconti di spese della diaria. Pare che il capogruppo alla Camera Francesco Nuti, che ha l’incarico della verifica, ne abbia trovati di «parecchio fantasiosi», con voci «non previste». O
altre troppo «generaliste». I diretti interessati saranno chiamati uno ad uno a spiegare e giustificare.
Un altro momento della verità. Al cospetto, tra l’altro, di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio che dovrebbero incontrare i parlamentari questa settimana o la prossima.
Anche i cittadini eletti avranno qualche domanda da fare al guru mediatico e al megafono. Rassicurazioni, ad esempio, sul destino dei milioni destinati al gruppo Camera e Senato. Si tratta di 7-8 milioni di euro hanno fatto i conti i parlamentari Al netto del pagamento degli assistenti parlamentari, legislativo e segreterie, in tutto 70-80 stipendi, dove vanno gli altri soldi? «Cioè si chiedono se io devo fermarmi a 2.500 euro, tutti quei soldi a chi vanno?».
Ridurre la diaspora grillina ai quattrini è però riduttivo ( non a caso è quello che vogliono i duri e puri) e offensivo verso chi e sono parecchi è rimasto invece deluso dalla linea politica del gruppo. Dalle gogne mediatiche, dall’assenza di trasparenza e democrazia, dall’impossibilità di avere opinioni diverse, dai toni ultimativi e violenti. Dal non essere riusciti ancora a fare nulla. A non lasciare il segno. Grillo e molti altri più realisti del re continuano a dare la colpa a giornali e tv di cui si augura la chiusura (lo ha fatto ieri con L’Unità). E che continua ad insultare. «Pentitevi e vi daremo una nuova identità» è stato il ritornello di ieri diretti ai giornalisti. Non gli sfiora mai il cervello che qualcuno, non pochi, possano non condividere il suo messaggio e il suo stile. Che è con me o contro di me. Ma non è democrazia. E neppure «uno vale uno»

l’Unità 23.6.13
Adele Gambaro, una strega del terzo millennio
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


L’espulsione della senatrice Gambaro attraverso Internet ha destato in me sentimenti di sgomento e impotenza rispetto all’irrilevanza della presenza dell’«imputato» nel processo in Rete. Il pensiero è andato a Giordano Bruno, a Girolamo Savonarola, a Galileo e alle tante donne al rogo in quanto «streghe». MASSIMO DELLA FORNACE
Avevo scritto giorni fa, rispondendo a un altro lettore, che la discussione su Adele Gambaro si faceva alla luce del sole e che il M5S manteneva la parola data ai suoi elettori almeno su questo: sulla trasparenza delle scelte e delle procedure. Che cosa abbiamo visto, tuttavia, utilizzando questa trasparenza? La delusione, mia e non solo mia, è stata davvero grande. Sugli argomenti, prima di tutto, perché le accuse rivolte alla senatrice «infedele» dai «falchi» accusatori, mentre un piccolo gruppo di manifestanti gridava «viva Grillo» sulla piazza di Montecitorio, sembravano davvero un remake di quelle usate dall’Inquisizione per processare le streghe o dal Fascio per il suo Tribunale Speciale. Adele Gambaro non è stata affogata ovviamente («se fosse innocente, Dio la salverebbe» dicevano i sacerdoti che immergevano nell’acqua fino ad annegarle le presunte streghe, con mani e piedi ben legati) né avviata al confino («aver criticato il Duce vuol dire essere contro la rivoluzione fascista», dicevano i “giudici speciali”) perché molte cose sono cambiate in Italia da quando queste cose avvenivano. Quello che non cambia è il ragionamento malato per cui a non essere ammesse, pena l’espulsione, sono le critiche. Come accade sempre quando morte sono le idee cui un movimento politico, religioso o culturale si è ispirato.

il Fatto 23.6.13
Il deputato M5S Adriano Zaccagnini, deputato laziale, da tempo critico con il gruppo
“Caro Beppe, non basta una telefonata”
di Paola Zanca


È stato in “silenzio stampa” per dieci giorni. Ora risponde al terzo squillo.
Zaccagnini come sta?
Così.
“Così ” significa che domani lascerà il Movimento anche lei?
Sono sempre a disagio.
Ieri ha detto che l’espulsione della Gambaro è “una sciagura”.
Ho scoperto solo adesso che si occupava di transizione, proprio come me, che insegno Permacultura. Siamo in pochissimi a farlo in Italia. Quando l’ho saputo mi è dispiaciuto ancora di più.
Cacciata per un’intervista. Anche lei ha spesso fatto dichiarazioni critiche. Ha paura?
No, assolutamente. Lunedì scorso, il giorno prima che la Gambaro parlasse, avevamo fatto un’assemblea... anzi, un processo.
A chi?
A me e a Tommaso Currò. Hanno portato i ritagli di giornale con le nostre interviste. Ci hanno detto che se avessimo fatto altre uscite del genere saremmo stati espulsi.
Una minaccia?
La mozione per la nostra cacciata era già pronta, l’hanno ritirata. Poi sono usciti dicendo che c’era stato “un bel dibattito”. La verità è che sono state tre ore di fronte al tribunale del popolo.
Lei che ha fatto?
Sono stato zitto per dieci giorni. Ho accettato le regole. Si era detto: stiamo tutti calmi, dissidenti e talebani. La Gambaro non credo fosse presente a quell’assemblea, probabilmente nemmeno sapeva del diktat. Fatto sta che il giorno dopo, all’ora di pranzo, dice quelle cose. I capigruppo cominciano a sparare a zero. Sono loro che hanno rotto il patto.
Vuole le scuse dei suoi colleghi?
Vorrei che facessero un po’ di autocritica. Ma sono in un loop mentale: si autogiustificano su tutto. Non è vero che l’aria è cambiata. Il clima è ancora irrespirabile. Hanno solo fatto un cambio tattico, per non autodistruggersi (poi si corregge, “autodistruggerci”, ndr). Ma lo capisco dall’umore complessivo che non c’è alcuna voglia di cambiare registro.
Grillo ha telefonato ai dissidenti Pinna e Currò. Ha chiamato anche lei?
No.
Le dispiace?
Sinceramente uno che ti chiama dopo che ha ammazzato una persona... se lo avesse fatto 10 minuti prima di mandarla alla gogna, avrei capito. Ma se lo fai dopo che hai visto i risultati del sondaggio, quando hai capito che la Rete si è divisa... è tutta tattica, un mero calcolo di interesse. La verità è che l’emarginazione del dissenso continua .
Paola De Pin se n’è andata da sola. Secondo lei lo ha fatto per la diaria?
Questa è la linea comunicativa che vogliono far uscire. Sapevo da tempo che era a disagio. Io la capisco benissimo.
Diranno anche di lei che se ne va per i soldi.
Avranno poco da dire. Ho già l’Iban del conto dove fare il versamento. Rendiconto e faccio il bonifico di tutto quello che non spendo.
Davanti a Grillo, in assemblea, disse che non era d’accordo.
Lui ha parlato tre quarti d’ora di fila senza ascoltare nessuno e noi abbiamo avuto 5 minuti a testa. Diciamo che ha delle difficoltà ad approfondire il dialogo. Volevo spiegare le mie ragioni. Invece parlava solo lui.
Si rende conto delle accuse che lancia?
Continuerò a farlo.
Come fa a restare in quel gruppo?
Mi prendo il mio tempo, valuterò se ci sono elementi nuovi, vedremo...
Provoca?
Basterebbe dire mezza frase. Non ci vuole tanto a farsi buttare fuori.

Repubblica 23.6.13
M5S, i dissidenti sfidano Grillo “Al Senato dialogo con gli altri partiti”
Il leader attacca ancora i giornalisti: “Pentitevi”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Stanno passando il week end a organizzare scontrini, i parlamentari a 5 stelle. Il tempo per la rendicontazione e la restituzione di metà dell’indennità base e dei rimborsi non spesi scade martedì. Entro giovedì tutti i conti dovranno essere fatti, perché quel giorno – a Roma – arriva Beppe Grillo. L’incontro è stato rimandato per settimane, ma questa volta viene dato per certo dagli uffici di comunicazione di Camera e Senato, che stanno lavorando alacremente a un grande Restitution Day da usare dal punto di vista mediatico per oscurare i malumori seguiti alla cacciata di Adele Gambaro e alla “fuga” di Paola De Pin .
Ma la “trappola” ordita dai falchi, alcuni dei quali speravano che il momento della restituzione fosse quello in cui i dissidenti avrebbero deciso di andar via, non sembra destinata a funzionare. Adriano Zaccagnini, principale indiziato alla Camera, dice chiaro: «Ho l’iban, sto finendo la rendicontazione di maggio, restituirò quel che devo ». Paola Pinna conferma diaver già preparato i suoi conti, e di non aver nessuna intenzione di togliere il disturbo lunedì. Lo stesso vale per Alessio Tacconi, Walter Rizzetto, Aris Prodani, Tommaso Currò. Ancor più, il discorso tiene a Palazzo Madama. «Chi potrebbe lasciare sono alcune schegge impazzite – confida un senatore – non noi che abbiamo imparato a fare le nostre battaglie da dentro».
In effetti, la situazione del Senato è particolare: nel derby Nicola Morra-Luis Orellana il candidato dei falchi ha vinto ed è diventato capogruppo per due soli punti di vantaggio. Durante l’assemblea in cui si parlava di Adele Gambaro, tra i suoi colleghi la maggior parte non l’avrebbe mai mandata via. E l’aver dovuto subire la decisione dei falchi della Camera ha reso ancorapiù agguerriti i dialoganti del Senato: non andranno via, perché sono certi che presto riusciranno a condizionare il gruppo.
Non è una questione da poco, in un momento in cui si accendono i primi veri contrasti tra Pd e Pdl al governo. Avere presa sul gruppo significa poter essere decisivi nel momento in cui si tornasse a parlare di una nuova maggioranza, e di un esecutivodi segno diverso. È al Senato che servono i voti, è lì che si potrebbe trovarli. Nessuno si azzarda a dirlo così chiaramente, ma i dialoganti: si sentono più forti. «Non credo proprio che uscirà nessuno», dice Lorenzo Battista. «Confermo che non abbiamo nessuna intenzione di andar via», gli fa eco Francesco Campanella. Che spiega: «Nei giorni scorsi ho avuto come l’impressione che qualcuno cercasse di seminare zizzania, parlando addirittura dello statuto di un nuovo gruppo. Quello della De Pin è un caso personale». Quanto a Monica Casaletto, «magari ha espresso disagio, ma la sua intenzione – piuttosto che uscire – è quella di ridurre il disagio». La senatrice lombarda in effetti nega tutto: «Smentisco categoricamente di essere la “prossima” a voler uscire dal M5S – scrive la Casaletto - e di voler venir meno a qualunque impegno sottoscritto».
E quindi, una volta nella capitale, Grillo (che potrebbe essere accompagnato da Casaleggio) troverà un gruppo meno intimidito di quanto possa immaginare. Forse per questo, il suo atteggiamento degli ultimi giorni si è notevolmente ammorbidito. Almeno nei confronti dei suoi. L’obbiettivo delle ultime ore è la stampa: «Pentitevi», ha detto ieri ai giornalisti colpevoli di «diffamare » il Movimento, paragonando l’intero sistema dell’informazione - tv in primis - a un universo mafioso che avrebbe preso di mira i 5 stelle per fare gli interessi dei potenti.

l’Unità 23.6.13
L’Italia non è la Francia
di Carlo Galli


Modificare la Costituzione può significare l’attivazione del potere costituente, che realizza una piena discontinuità sistemica e ordinamentale: è quanto è accaduto, attraverso una guerra civile, nel passaggio dallo Statuto albertino alla Carta repubblicana. Oppure può significare una profonda sostituzione degli assetti materiali della costituzione vigente.
Un ri-orientamento di fatto dei poteri sociali verso nuovi rapporti e nuovi valori. È quanto è avvenuto nel travagliato passaggio dal compromesso keynesiano fra capitale e lavoro che reggeva la fase centrale e finale della Prima repubblica alla flessibilità e alla subalternità normativa del lavoro che insieme alla disciplina di bilancio imposta all’Italia dall’interpretazione austera delle regole dell’euro connota la Seconda repubblica. Infine, può significare la riscrittura, secondo le procedure previste, di alcune parti della costituzione, come si è iniziato a fare per un input governativo che avrà il suo esito conclusivo nella discussione e nella decisione parlamentare, in commissione e in aula.
Al di là del giudizio che si può dare sull’uso dell’art. 138 per modificare (sia pure senza stravolgerle) le stesse procedure della modifica, è chiaro che le trasformazioni della costituzione non possono essere troppo estese, perché se lo fossero si scriverebbe un’altra costituzione, il che non è possibile se non a patto di una lacerazione radicale dell’ordinamento. E non basta salvaguardare i Principi fondamentali della Carta: alla sua essenza qualificante appartengono tutta la prima parte e quelle Sezioni e quei Titoli della seconda in cui si delinea la fisionomia complessiva della repubblica. Ogni intervento non può che essere correttivo di questa fisionomia e dell’impianto complessivo dell’ordinamento, e non può rivoluzionarla.
Quindi, i suggerimenti di modificare la forma di governo da parlamentare a semipresidenziale sono di assai dubbia praticabilità, data la grande distanza che intercorre fra un’ipotesi che colloca il baricentro del potere nelle due teste del potere di governo, con due distinte forme di legittimazione (popolare per il Capo dello Stato che, dotato di caratteristiche iperpolitiche vicine al plebiscitarismo, orienta pesantemente l’azione dell’esecutivo; e parlamentare per il Primo ministro), e un’altra ipotesi, quella italiana, che fa del Parlamento il centro della politica. Se da molti segni si può sostenere che da gran tempo le due Camere hanno perduto centralità, e che quindi perché la crisi del parlamentarismo non blocchi l’intera vita politica del Paese è necessario rinvenire un diverso principio d’ordine che metta in sicurezza il processo politico e l’inerente capacità decisionale, non è per nulla detto che tale principio debba e possa essere il semipresidenzialismo, che sbilancia e riscrive l’intero ordinamento. È infatti sufficiente a tal fine che la figura del Presidente del Consiglio venga rafforzata con l’attribuzione del potere di nomina e di revoca dei ministri, e che si introducano la fiducia politica della sola Camera bassa, eletta a suffragio universale, e la sfiducia motivata. In tal modo il Presidente del consiglio si trasforma in primo ministro, relativamente al sicuro dall’instabilità parlamentare, ma al tempo stesso l’impianto dei poteri dello Stato resta equilibrato, e non va perduto il potere neutro di garanzia, a geometria variabile, del Capo dello Stato eletto dal Legislativo allargato. Si ricordi che la Francia può fare a meno del Capo dello Stato «neutro» solo perché ha nell’amministrazione un potere di fatto stabilizzante, sottratto alla politica e garante della continuità repubblicana; mentre nulla di simile ha il nostro Paese, che politicizzando radicalmente il Capo dello Stato otterrebbe verosimilmente risultati di instabilità sistemica e di assenza di garanzie per la neutralità dell’ordinamento.
E ci si ricordi soprattutto che se è ovvio che il sistema istituzionale non può essere riformato per cambiare il sistema elettorale, dovrebbe essere altrettanto ovvio che se il sistema politico (i partiti) non funziona (perché la costituzione materiale, modificata, è sfuggita di mano alla politica), se non è vitale il nesso fra i cittadini e la cosa pubblica, se questa collassa sotto poteri o privati o esterni al circuito politico nazionale, al controllo dei cittadini, allora il semplice cambiare la costituzione non ridarà forza alla politica; piuttosto, renderà l’Italia simile all’ammalato di Dante, che si gira vanamente nel letto credendo così di sfuggire al male, e «con dar volta suo dolore scherma».

l’Unità 23.6.13
G.Carlo Sagramola
Il sindaco di Fabriano, la città dei Merloni, è in allarme dopo la frattura sul piano che prevede 1.425 esuberi: «Rotto il rapporto con il territorio»
«Indesit, in bilico c’è un intero settore»
di Marco Ventimiglia


MILANO «Pochi giorni fa sono stato ricevuto a Roma dal presidente del Consiglio. Gli ho detto: “Questa dell’Indesit non è soltanto una vicenda drammatica ma è anche una vertenza pilota. Ci sono altre aziende che aspettano di vedere che cosa accade per prendere a loro volta delle decisioni. Per questo è ancor più importante che il governo giochi un ruolo importante”. In bilico c’è il destino di tanti lavoratori, non soltanto di quelli che hanno già visto o stanno vedendo lo spettro della cassa integrazione». Giancarlo Sagramola, sindaco democratico di Fabriano, la città dove ha sede la Indesit Company, si trova nell’epicentro di una delle crisi industriali più rilevanti, che venerdì ha registrato la rottura del confronto su un piano aziendale che prevede ben 1.425 esuberi con immediata proclamazione di uno sciopero in tutti gli stabilimenti del gruppo per il prossimo 12 luglio.
Sindaco, si aspettava il precipitare della situazione?
«Si è trattato di una conseguenza inevitabile di fronte all’atteggiamento con cui l’azienda si è seduta al tavolo. Se non un ripensamento era almeno auspicabile un’apertura al dialogo. Invece, di fronte ad una manifesta chiusura, ai sindacati ed ai lavoratori non è rimasto altro che reagire in questo modo».
In questo modo appare davvero problematico arrivare ad una soluzione in qualche modo condivisa...
«È vero, ma l’Indesit non può limitarsi a dichiarare che non licenzierà nessuno. Il ricorso agli ammortizzatori sociali equivale comunque ad una riduzione del 50% della forza lavoro, e quando sarà finita la cassa integrazione che cosa succederà? Il tutto all’interno di una situazione che faccio davvero fatica a definire una crisi aziendale».
Che cosa intende dire?
«Che un’azienda in crisi è quella che accumula perdite, mentre l’Indesit è un gruppo solido che anche quest’anno distribuisce decine di milioni di utili. Semmai c’è una difficoltà specifica relativa all’Italia, con un rosso dovuto ad una contrazione del mercato degli elettrodomestici, comune peraltro a quella di tanti altri settori industriali. Affrontare il problema delocalizzando la produzione all’estero per avere un minor costo del lavoro, tornando comunque in Italia per vendere gli elettrodomestici, mi sembra davvero una soluzione semplicistica, oltre che poco rispettosa della lunga storia che lega l’azienda al territorio».
Per quale motivo questo legame sta venendo meno?
«Un’azienda è fatta di persone, e con quelle che per tanti anni hanno lavorato e diretto l’Indesit sarebbe stato inconcepibile l’atteggiamento “padronale” che riscontriamo adesso. Ad esempio, qui a Fabriano c’è la sede centrale del gruppo ma di manager espressi dalla città ne sono rimasti ormai pochissimi. L’attuale proprietà dell’Indesit ha interrotto il dialogo con il territorio, e quando questo succede è molto più facile mettere in piedi piani di delocalizzazione che di certo rendono molto contenti gli esponenti della comunità finanziaria». Come si esce da una situazione così complicata?
«Io ho fiducia nell’operato del governo, e non certo perché all’Indesit debba essere riservato un trattamento di favore. Come ho detto, quanto sta avvenendo qui è destinato ad avere conseguenze su un intero settore, quello del “bianco”, che in Italia dà lavoro a 130.000 persone. Ed allora il ricorso agli ammortizzatori sociali può avere un senso soltanto se serve a trovare il tempo per allestire una strategia di rilancio. Con quali strumenti? Ce ne sono vari a disposizione. Si parla della minaccia di un aumento dell’Iva, ma non scordiamoci che quest’imposta è stata a volte ridotta proprio per rilanciare alcuni settori industriali. E lo stesso obiettivo si è perseguito con gli incentivi statali».

Corriere 23.6.13
Giuliano Giuliani «Su mio figlio Carlo verità da riscrivere»
intervista di Francesco Cevasco


Dopo un lungo silenzio parla Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, il ragazzo di 23 anni morto dodici anni fa a Genova durante gli scontri tra i manifestanti anti G8 (Carlo era uno di loro) e le forze dell'ordine. Giuliano Giuliani vuole riaprire il caso della morte del figlio. Rileggere quella storia. Ha studiato per un decennio foto, video, registrazioni telefoniche e adesso ha depositato al Tribunale civile di Genova una citazione. Cita l'ex carabiniere Mario Placanica che sparo' il proiettile di pistola che colpì Carlo e l'allora vice questore Adriano Lauro che coordinava le forze dell'ordine in piazza Alimonda dove Carlo morì. «Con una convinzione che va in direzione ostinata e contraria — dice citando Fabrizio De Andrè — chiedo che sia riconosciuta la verità».
Signor Giuliani, capisco che sto per dirle una cosa cinica, ma lei è capace di...
«Ho capito, non posso parlare di mio figlio come se non lo fosse, ma parlerò con lei come se mi interessasse soltanto la verità, come se mio figlio fosse figlio di un altro».
Bene, dica.
«Era il venerdì 20 luglio del 2001 quando Carlo, un ragazzo di 23 anni, morì. Morì ucciso, ufficialmente, da un colpo di pistola sparato in aria da un carabiniere ausiliario (cioè di leva). Ma come fa uno a morire per un colpo di pistola sparato in aria? Perché — ufficialmente — il proiettile intercettò un sasso lanciato dai manifestanti verso le forze dell'ordine e — Destino volle — che quel sasso modificasse la traiettoria del proiettile in modo tale da farlo arrivare proprio in faccia a Carlo. Nemmeno nei cartoni animati... Il carabiniere che aveva sparato, Mario Placanica, venne indagato per omicidio ma, quasi due anni dopo, fu prosciolto per legittima difesa...».
Che altro porta in tribunale?
«Intanto c'è un video che dura diciotto minuti e sedici secondi. Si racconta del contingente formato dalla compagnia del dodicesimo battaglione Sicilia dei carabinieri che si trova in piazza Alimonda al comando del capitano Claudio Cappello; con lui, come funzionario di pubblica sicurezza, c'è il vicequestore Adriano Lauro. Ci sono anche due "camionette" Land Rover Defender. Dentro una di queste c'è Placanica: non sta molto bene, ha respirato anche lui il veleno dei gas lacrimogeni, è stressato. Dopo aver tentato di caricare e disperdere i manifestanti, i carabinieri si erano rintanati lì. I carabinieri a piedi fuggono o erano già fuggiti. I due Defender si ostacolano l'uno con l'altro. Quello dove c'è Placanica resta bloccato. Un gruppo di manifestanti lo assalta sul lato destro. Dalla parte opposta arriva un ragazzo (non è Carlo) con un estintore vuoto. Lo lancia sul lunotto posteriore del Defender. Il vetro era già stato rotto dall'interno. L'estintore viene ricacciato per strada. Rotola a 4-5 metri dal Defender. Arriva Carlo. Placanica ha già la pistola puntata, linea di tiro orizzontale. Il braccio di Placanica è più in alto del volto di Carlo. Carlo solleva l'estintore. Il proiettile è entrato nel volto di Carlo dall'alto verso il basso, scriverà il medico autore dell'autopsia. A differenza delle foto "schiacciate" dal teleobbiettivo in cui sembra a 40 centimetri dalla camionetta, è a 4-5 metri. Mira al polso di Placanica. Non avanza verso la camionetta. Partono due colpi di pistola. Uno s'infila nello zigomo sinistro di Carlo. Ma Carlo non morirà in quel momento, ancora l'autopsia dice così. Il Defender riparte. Retromarcia: schiaccia il corpo di Carlo. Poi marcia avanti: lo rischiaccia. Ma Carlo non muore neanche in quel momento. Il sangue continua a zampillare dalla ferita. Chi ha il cuore fermo non emette sangue. Carlo è ancora vivo...».
E poi?
«E poi una foto in particolare. Accanto al viso insanguinato di Carlo c'è un sasso anch'esso insanguinato. E appuntito. Quando a Carlo toglieranno il passamontagna scopriranno che in mezzo alla fronte aveva una ferita, una ferita mortale. E scopriranno che sul passamontagna, all'altezza della fronte, non c'è traccia di lacerazione. Passamontagna intonso, fronte lacerata. Quel passamontagna l'ho io, me lo ha restituito il tribunale. L'unica spiegazione: a Carlo, steso a terra, gli hanno sollevato il passamontagna, lo hanno colpito con il sasso e se ne sono andati».
Lei nella citazione tira fuori anche una questione che riguarda la gestione dell'ordine pubblico quel venerdì 20 luglio del 2001.
«Certo che c'entra anche con la vicenda di mio figlio. Era diventata una vicenda di guerra, non di gestione dell'ordine pubblico... Questo per dire — come sostiene in giudizio l'avvocato Gilberto Pagani, rappresentante della nostra famiglia — che se le forze dell'ordine si fossero comportate secondo le regole e la comune prudenza il Defender sul quale si trovava Placanica non si sarebbe trovato nella situazione che in effetti si è verificata e Carlo non sarebbe stato ucciso».

Corriere 23.6.13
La strada in salita di Marino Oggi «tratta» con i partiti
di Alessandro Capponi


ROMA — Il sindaco ciclista forse non s'aspettava la partenza in salita. Dopo aver agevolmente scalato quella del Campidoglio neanche due settimane fa con la vittoria su Gianni Alemanno, Ignazio Marino invece di godersi la discesa della «luna di miele» con la città si è ritrovato alle prese col passo della Giunta. Queste ore rischiano di essere decisive: oggi Marino proseguirà le consultazioni, sottoporrà ai partiti una prima bozza di squadra, e poi incontrerà anche i consiglieri Cinque Stelle. L'ipotesi che filtra è che abbia intenzione di scegliere la metà degli assessori tra i tecnici e dare gli altri sei assessorati ai partiti. Quattro al Pd, uno a Sel (vicesindaco?) e uno alla Civica. Se lo schema basterà a placare le tensioni, naturalmente, è da vedere.
La maggioranza ha battagliato fino a ieri — la lista Civica Marino ha rimbrottato Pd e Sel: «Alzare asticelle e avanzare richieste di ogni tipo al sindaco è insostenibile» — e le due forze principali, appunto Pd e Sel, qualche giorno fa minacciavano (ufficiosamente) di ritirare dalla squadra i loro candidati se gli assessorati assegnati (per numero e «peso») non si fossero rivelati adeguati, capaci cioè di «garantire la stabilità dell'aula». Che la tensione sia cresciuta ora dopo ora lo testimonia anche la telefonata della segreteria del sindaco a Sel, venerdì in serata: si è parlato di equivoci e toni da abbassare, a dimostrazione della volontà di ricomporre un quadro che rischiava di complicarsi. L'invito in Campidoglio di oggi, rivolto alla maggioranza, segna una tregua dopo una settimana di tensioni: i partiti, che pure sostengono di non aver chiesto poltrone, si sono ritrovati nell'impossibilità di gestire la reazione delle varie anime di fronte alla prima ipotesi di Giunta (3 assessorati ai partiti). Anche la scelta dei suoi più stretti collaboratori ha fatto discutere la città: tutti con curriculum adeguato, alcuni selezionati in passato con dei bandi, ma nessuno romano. Di certo, tra le difficoltà incontrate dal neosindaco, anche i «no» incassati: si parlò di un posto per Stefano Rodotà, e poi sono arrivati i gran rifiuti del Sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Giovanni Legnini (al Bilancio), e quello del direttore di Radio3, Marino Sinibaldi (alla Cultura). Tra i politici, potrebbe avere un posto Michela Di Biase, migliaia di preferenze alle elezioni e lavoro sul territorio ma notorietà arrivata grazie al fidanzamento con Dario Franceschini. Ora, sia chiaro: il feeling di Marino con la città è buono, si sposta utilizzando bici o mezzi pubblici, e ad ogni occasione promette rinnovamento e discontinuità. Ma i partiti, oggi, lo attendono: la salita della Giunta, alla fine, potrebbe rivelarsi più ardua di quella del Campidoglio.

Corriere 23.6.13
Il Vaticano: «Attaccano Palatucci ma il vero bersaglio resta Pio XII»
Anna Foa difende il Giusto, ora dipinto come un persecutore
di Gian Guido Vecchi


«L' impressione è che in realtà la questione sia un'altra, quella della Chiesa di Pio XII, e che in Palatucci si voglia colpire essenzialmente un cattolico impegnato in un'opera di salvataggio degli ebrei, un supporto all'idea che la Chiesa si sia prodigata a favore degli ebrei, un personaggio sottoposto a una causa di beatificazione. Ma questa è ideologia, non storia». Fino ad oggi dal Vaticano non erano arrivate repliche alle accuse contro Giovanni Palatucci, questore reggente di Fiume morto a Dachau a 35 anni, dichiarato nel 1990 Giusto tra le nazioni a Yad Vashem per la sua opera di salvataggio degli ebrei, proclamato dalla Chiesa servo di Dio in attesa di diventare beato, ed ora tratteggiato da una ricerca del centro Primo Levi di New York come un complice della persecuzione. Un ritratto a tinte fosche, cui ribatte oggi «L'Osservatore Romano», con un ampio articolo che il quotidiano della Santa Sede ha affidato alla storica ebrea Anna Foa.
Già il titolo di prima pagina non la manda a dire: Per colpire la Chiesa di Pio XII, un riferimento alle polemiche sul comportamento di Papa Pacelli durante la Shoah. La storica parte dal «rivolgimento» della figura di un Giusto che «improvvisamente è stato trasformato in un persecutore di ebrei, in uno zelante esecutore degli ordini di Salò e dei nazisti». E aggiunge: «Mi auguro che il Museo di Washington, che ha immediatamente cancellato dai suoi siti e dalle mostre il nome di Palatucci, abbia avuto accesso alla documentazione e non solo alla lunga analisi che ne fa il centro Primo Levi». Un'analisi, nota, che peraltro può «al massimo ridimensionare» il numero di ebrei salvati (si parlò di cinquemila) da Palatucci, ma «non certo» trasformarlo in aguzzino.
Il punto, però, è distinguere le «interpretazioni» dalle «fonti» non ancora accessibili. Così, in attesa dei nuovi «documenti», Anna Foa sottopone a critica le accuse che ne deriverebbero. Il dossier demolisce la tesi dei salvataggi in massa di ebrei, ma «nulla dice dei salvataggi individuali compiuti», come «tace sulle testimonianze che li documentano», quelle «degli stessi ebrei salvati da Palatucci». Parla della sua adesione a Salò «ma nulla dice della possibilità, sostenuta da almeno una fonte, che egli abbia agito come membro del Comitato di liberazione nazionale sotto il falso nome di Danieli». E ancora afferma che i documenti dell'arresto di Palatucci menzionano solo la sua attività «a favore del nemico», ma non si chiede se all'epoca il salvataggio di ebrei «sarebbe stato nominato esplicitamente oppure compreso nelle attività a favore del nemico». E così via. Del resto c'è un problema di «mancanza di documentazione», ma le attività di salvataggio sono segrete: succede lo stesso per gli ebrei salvati nei conventi di Roma. «Vogliamo negarlo in base alla mancanza di documenti scritti?».
Certo, su Palatucci ci sono state anche «interpretazioni agiografiche». Ma la conclusione di Anna Foa è il sospetto di un pregiudizio negativo: «Ora come ora, in presenza di condanne infondate tanto definitive, ciò che è fondamentale è rispondere attraverso la documentazione a queste semplici domande: Palatucci ha o no salvato degli ebrei? Palatucci ha o no denunciato degli ebrei? Solo a queste domande ci aspettiamo che i documenti diano una risposta. Tutto il resto è commento».

l’Unità 23.6.13
Fascisti reali e pallonari
Dal caso Katidis a Di Canio il calcio è un’isola senza leggi
Saluti romani e simpatie dichiarate per l’estrema destra
Il calciatore greco punito in patria trova spazio a Novara. E nessuno si indigna
Il braccio teso di Radu non è valso neanche una squalifica
I busti di Mussolini di Aquilani e gli amici nerissimi di Abbiati
di Simone Di Stefano


FA NIENTE IL FASCISMO, GLI AFFARI SONO AFFARI E IL NOVARA LO HA FIUTATO NEL GRECO GEORGOS KATIDIS, CLASSE ’93 CON UN FUTURO DAVANTI. Non conta l’esultanza fascista, che la federazione greca lo abbia bandito a vita dalla Nazionale e neanche che la sua ex squadra, l’Aek Atene, lo abbia messo fuori rosa per tutto il resto dello scorso campionato. Tutte punizioni esemplari che non hanno però distolto il Novara dal concludere l’acquisto del campioncino greco. Del resto da noi fatti del genere si verificano all’ordine del giorno, nell’indifferenza della giustizia sportiva che fatica a sanzionare, oppure proprio non vuole. Un fatto simile a Katidis coinvolse infatti il terzino laziale Stefan Radu, colto nel marzo 2012 a rivolgersi verso la Curva Nord con un gesto a mano tesa che il pm federale Stefano Palazzi, interpretò di matrice fascista deferendo il romeno alla Disciplinare, che invece lo assolse per l’impossibilità di «chiarire l’essenza» del gesto. Altri appunti per il presidente della Figc, Giancarlo Abete: dopo l’irrigidimento in materia di razzismo sotto l’egida della Fifa, ora sarebbe bello che la Federazione mostri i muscoli anche contro i fascisti, la cui apologia in Italia è reato sanzionato dalla Legge Scelba, mentre nel codice di giustizia sportiva di fascismo non se ne parla, come se gli stadi fossero delle arene apolitiche.
Sappiamo però che non è così e basta guardare verso le curve ogni domenica. Simboli e cori fascisti e razzisti (spesso abbinati) e sono gli stessi calciatori a scimmiottare i tifosi, con saluti romani di cui il principe indiscusso in Italia resta comunque Paolo Di Canio, che più di Katidis porta anche al braccio un tatuaggio con la scritta “dux” e detiene il record di saluti romani, convinti e suffragati dalle sue stesse ammissioni. Dopo le clamorose proteste seguite al suo nuovo incarico di allenatore nel Sunderland, un club di Premier League di una città portuale e di sinistra, l’ex ministro degli Esteri britannico David Miliband si è dimesso dal board della squadra, ricordando proprio le parole di Di Canio: «Sono fascista ma non razzista». Di casi del genere ne abbiamo una vasta casistica di giocatori simpatizzanti con l’estrema destra. Per convinzione o semplice ignoranza, ambasciatori in campo degli ideali estremisti dei tifosi, per questo idoli facili, spesso ignorando la portata del messaggio politico.
Le simpatie nere sembrano attecchire tra i pali, così nel 2008 destò clamore l’outing del portiere milanista Christian Abbiati, la cui passione per il fascismo sfociò in un’intervista pubblica in cui disse: «Del fascismo condivido ideali come la patria, i valori della religione cattolica e la capacità di assicurare l’ordine». Una delle classiche frasi revisioniste sulle «cose buone del Regime fino al 1938», da associare alle sue frequentazioni con il leader del centro sociale di estrema destra Cuore Nero. Esempi «espliciti» come Di Canio e Abbiati non sono molti per la verità. In Serie A si preferisce «militare» nell’ombra e magari alla prima accusa irrigidirsi dietro asettici «non lo sapevo» o asfittici «pensavo che...». Furono interpretati così una serie di qui pro quo che videro protagonista il portiere della Nazionale Azzurra, Gigi Buffon. Dal numero 88 dalla controversa interpretazione («Heil Hitler» oppure SS, dipende dalla corrente di pensiero, ma comunque sempre nazista), segnalata dalla comunità ebraica romana, alla canottiera con il «Boia chi molla» fino alle feste per il mondiale 2006 al Circo Massimo davanti a uno striscione con croce celtica. Con lui c’erano Fabio Cannavaro e Daniele De Rossi, il primo venne visto anche sventolare un tricolore con fascio littorio dopo lo scudetto vinto a Madrid (sicché due indizi fanno una prova) mentre del romanista è risaputa la sua simpatia per Forza Nuova. Così come per l’ex suo compagno in giallorosso, Alberto Aquilani, il quale non ebbe remore ad ammettere di collezionare nella sua stanza mezzi busti di Mussolini che gli regalava lo zio. In alcuni di loro si legge la stessa ignoranza di tanti ragazzini che cantano «faccetta nera» senza sapere il perché. In campo si allenano e fanno la doccia con i compagni di colore, accettando a malincuore la convivenza con i nuovi italiani come Balotelli. Super Mario già lamentava nel campionato Primavera gli insulti da parte dei suoi avversari, lontani dall’occhio indiscreto di telecamere e taccuini è lì, nelle giovanili che si comincia a cantare «non esistono neri italiani».

l’Unità 23.6.13
«Quel fango di Falcone» Bufera su Fabrizio Miccoli indagato per estorsione
Fabrizio Miccoli con la maglia del Palermo. Giovedì compirà 34 anni
La frase shock captata in una intercettazione con il figlio di un boss. Libera: «Altro che calcio alla mafia»
di Salvatore Maria Righi


IL ROMARIO DEL SALENTO. PER QUALCUNO, ADDIRITTURA, «EROE RIBELLE DAL BARICENTRO BASSO». Non parliamo di quelli che in quella specie di Maradona de noantri hanno visto e raccontato l’ennesimo riscatto di un ragazzo per definizione del Sud, come i napoletani che come diceva Troisi per forza devono essere emigranti, non gli è dato fare un viaggio o essere turisti come tutti gli altri. È che ci ha fregati tutti, Fabrizio Miccoli. Le indagini della Dda di Palermo e le carte che lo riguardano descrivono una persona molto diversa da quella che ai tempi della Juve di Moggi si sentiva una specie di Che Guevara della trequarti, bannato e mobbizzato ci raccontava per i suoi tatuaggi e per il suo stile così poco bianconero. Il povero talento costretto ad abbandonare il sogno con la Signora, secondo quello che esce dal lavoro degli investigatori, non è esattamente solo un calciatore: è un guappo che vive di guapperie, sfruttando quel suo divino palleggiare e fraseggiare sul campo.
Le sue amicizie con rampolli di boss mafiosi e il suo disinvolto e torbido stile di vita, la sua sfrontatezza sigillata nella frase «quel fango di Falcone», colta nel corso di intercettazioni telefoniche, rivelano un sottobosco di rapporti ben radicati nel mondo dell’illegalità e in chi ne rappresenta punti fermi. Come il nipote del boss dei boss, Matteo Messina Denaro. O il figlio del padrino della Kalsa, Antonio Lauricella, catturato nel 2011. L’amicizia con Mauro Lauricella si sarebbe spinta fino a chiedergli il favo-
re di recuperare dei soldi da alcuni soci in affari nella gestione di una discoteca a Isola delle Femmine, e non è difficile immaginare quali metodi potrebbe usare il figlio di un boss. Per questo, i magistrati della Dda ipotizzano a suo carico due reati, estorsione e accesso abusivo a un sistema informatico, perché Miccoli è anche accusato di aver convinto il gestore di un negozio Tim a fornirgli quattro sim intestate a ignari clienti: una delle quali sarebbe stata usata da Lauricella jr e proprio seguendola gli investigatori sono arrivati alle amicizie pericolose e alle frasi sul giudice di Miccoli. Parlando con un amico al telefono, il calciatore avrebbe detto «vediamoci davanti all’albero di quel fango di Falcone». Tenendo d’occhio Mauro Lauricella, la Dda di Palermo ha scoperto quindi l’altra faccia di Fabrizio Miccoli che al suo amico diceva di non andare al campo di allenamento perché c’erano «nuovi sbirri». Il linguaggio, le sue amicizie e le frequentazioni, lo spregio verso una figura come Falcone: nell’inchiesta in cui Miccoli è indagato e come tale sarà sentito dai pm, emerge tutto fuorché il ritratto di un campione amato e ammirato dai tifosi (che ieri sul web lo hanno ripudiato in massa). La Procura Figc ha annunciatio l’apertura di un’inchiesta.
Maria Falcone, sorella del giudice trucidato 21 anni fa, ha trovato le parole più adatte: «Si vede che preferisce i boss alla legalità», ricordando con amarezza i gol dedicati a suo fratello e a Paolo Borsellino alle Partite del cuore. «Se venissero confermate sono affermazioni aberranti e inqualificabili, altro che calcio alla mafia» osserva Libera mentre Zamparini, come spesso gli succede, ha messo una pezza peggio del buco: «Queste cose però capitano a tutti i giocatori, mica sanno che balordi frequentano». Posto che un calciatore di solito non insulta un giudice simbolo dell’antimafia e se ha crediti va dall’avvocato, come tutte le persone per bene, vien da chiedersi: il presidente lo sa, chi frequenta?

«Ho sentito delle voci, ecco perché l'ho fatto»
Corriere 23.6.13
Acido in faccia e coltellate La vittima scelta a caso
L'aggressore si esercitava tirando su un manichino
di Riccardo Bruno


È stato aggredito alle spalle sotto casa, in pieno giorno, alle 11 di venerdì mattina, appena sceso dallo scooter in centro a Pisa, vicino al Duomo e a piazza dei Miracoli. Almeno cinque coltellate tra la schiena e la nuca. F. M., impiegato di 47 anni, ha provato a fuggire. Ma è stato raggiunto e colpito nuovamente, un bottiglietta d'acido gli è stata versata sul volto.
Inseguito come in un regolamento di conti. Tanto da parere inverosimili le prime parole della vittima agli inquirenti: «Non lo conosco, non so chi possa essere, non ho nemici».
È bastato poco agli uomini della Questura per capire che era proprio così. Un bersaglio scelto a caso. L'aggressore, tanto violento quanto goffo, nella furia aveva perso il portafogli, con dentro i documenti. Si chiama Enrico Mennucci, 38 anni, tossicodipendente, già noto alle forze dell'ordine. Nel suo fascicolo diversi precedenti per porto abusivo d'armi e lesioni. Un'indole violenta, anche contro l'ex compagna.
A Pisa iniziano un giorno e una notte di ricerche febbrili, trenta agenti della questura rafforzati dai vigili urbani battono l'intera città. A casa non c'è. Il timore è che possa colpire ancora, che l'azione folle sia solo all'inizio com'è accaduto a Milano un mese fa, il ragazzo con il piccone che ha lasciato una scia di morti e feriti.
All'alba di ieri mattina è lo stesso Mennucci a presentarsi al piantone della Questura: «Sono io quello che state cercando. Ho sentito delle voci, ecco perché l'ho fatto». Poi accompagna gli agenti sul luogo dell'aggressione e indica il giardinetto di un palazzo dove ha buttato il coltello, ancora insanguinato.
Fine dell'incubo per gli inquirenti, guidati dal capo della Squadra Mobile Rita Sverdigliozzi. Fine dei timori di nuove aggressioni, nate soprattutto dopo la perquisizione della casa dell'uomo. Pareti scrostate e sporcizia, un pannello di compensato con due pugnali conficcati. Accanto, un manichino, di quelli usati dalla sarte per provare gli abiti. Mennucci lo usava invece per perfezionare i suoi lanci di coltelli: il drappo bordeaux che lo avvolge è crivellato di tagli, così come i muri. Nell'appartamento, senza acqua corrente, altre armi bianche, felpe di colore scuro con cappuccio, mezzi guanti per lasciare libere le dita, flaconi di acido e metadone, barattoli per miscelare composizioni chimiche. E poi manuali sulle arti marziali e sul combattimento.
Era la sua palestra. Chissà da quanto tempo Mennucci si esercitava, con il progetto di scendere un giorno in strada e colpire il primo che sarebbe passato, il più sfortunato. Un'esistenza sul crinale della pazzia, esplosa all'improvviso venerdì mattina.
«Un episodio davvero inquietante — può finalmente dire a fine giornata il questore Gianfranco Bernabei —. È stato un caso che non sia finita in modo ancora più grave».
Mennucci era seguito dal Sert, il servizio sanitario per le tossicodipendenze. Negli ultimi tempi si era isolato ancor di più, soprattutto dopo la rottura con la compagna, dalla quale ha avuto un figlio, che è stata costretta a lasciare la città per paura di rimetterci la pelle dopo i maltrattamenti e le percosse che era stata costretta a subire.
Al curriculum criminale dell'uomo adesso si aggiunge della voce più grave, l'accusa di tentato omicidio.
È stato portato in carcere a Pisa, mentre la vittima è ricoverata all'ospedale Santa Chiara. I medici stanno valutando l'entità delle lesioni subite. Preoccupano in particolare quelle causate dal liquido corrosivo, non è escluso che le ustioni possano lasciare cicatrici permanenti. Un volto sfregiato solo perché è tornato a casa nel momento sbagliato.

Corriere 23.6.13
Tenta il suicidio Il padre crede che sia morto e si spara
di Andrea Galli e Gianni Santucci


VERBANIA — Mancava lui, là nel corridoio del pronto soccorso dell'ospedale «Castelli», dove uno dopo l'altro erano corsi gli amici, la madre, la sorellina, qualche parente, altri ragazzi della scuola, e il parroco don Egidio. Poche frasi e sguardi bassi, ad aspettare le parole dei medici, le notizie su quel ragazzo che poco prima s'era impiccato a una trave del sottotetto di casa, a venti metri dal lago Maggiore e dal vecchio imbarcadero, a Intra, frazione di Verbania. In ospedale mancava il padre. «Continua a non rispondere, andiamo a cercarlo a casa» dice a un certo punto il parroco. L'ha trovato inginocchiato, un cuscino davanti alla faccia. Si era sparato in viso con la pistola sportiva regolarmente detenuta. Aveva saputo, e forse s'è sentito in qualche modo responsabile, oppure non ha retto allo strazio. L'uomo, 51 anni, insegnante in una scuola della cittadina, è morto senza sapere che il figlio era, ed è, seppur in condizioni disperate, vivo. Il ragazzo ha cercato di uccidersi venerdì, poco prima delle 20 del 21 giugno, giorno del suo sedicesimo compleanno. Se lo spazio di questa tragica angoscia è facile da descrivere, tipico paesino di lago dai vicoli immacolati, adesso la Squadra mobile della Questura dovrà cercare di dare un ordine alle ultime ore della famiglia. Nel passato c'è una separazione, il padre che lascia l'appartamento nel palazzo di ringhiera e si sposta in un abbaino in affitto a trecento metri di distanza; un clima complicato ma che non si guasta, non degenera; una comunità dove i due genitori, insegnanti, sono amici di tutti; un ragazzo con qualche difficoltà, che non sembrano però drammatiche, l'inizio in una scuola superiore, il passaggio in un altro istituto, l'ultimo anno lasciato a metà, con il ritiro ad aprile. Fili di una storia che si sono incrociati venerdì. Qualcuno racconta di una lite tra padre e figlio, per telefono, e di uno scambio altrettanto intenso, rabbioso, di sms. Poi la madre che esce per una commissione in paese, il figlio che resta da solo in casa per una ventina di minuti; la donna rientra e lo trova in agonia, chiama il 118, i soccorsi arrivano subito e per questo il ragazzo è ancora vivo. La telefonata al padre dev'essere collocata pochi minuti dopo, e s'ignora chi sia stato ad avvertirlo, se gli amici o la moglie stessa, con la voce e le parole, con la rabbia e le accuse di una mamma che pensa d'aver perso il figlio. Le successive telefonate all'uomo, più tardi, col ragazzo in ospedale, cadranno a vuoto. Il professore cordiale, appassionato di sport, si è ammazzato. A Intra, quasi nessuno sapeva che avesse una pistola.

Repubblica 23.6.13
La Terra ora è multipolare guardiamola con filosofia
Perché il pensiero è chiamato a fornire nuove chiavi interpretative per fare luce sulle contraddizioni e i conflitti della globalizzazione
di Roberto Esposito


Un tempo il mondo era diviso in due. Non alludo tanto alla stagione della guerra fredda, quanto a qualcosa di più profondo e resistente che ha caratterizzato tutta l’esperienza moderna. Ad essere articolato in maniera bipolare appariva tanto il regime del potere quanto quello del sapere. Basti pensare alla distinzione classica tra pubblico e privato, a sua volta derivata dalla più antica partizione tra sfera della polise ambito dell’oikos. Non soltanto il processo di riproduzione della vita biologica non interferiva con il governo della città, ma ne costituiva il limite invalicabile. La stessa distanza separava il mondo in divenire della storia da quello ripetitivo della natura, secondo la frattura riprodotta nel corpo del sapere dalla divisione tra scienze naturali e scienze umane. Alla divergenza cartesiana dires cogitans eres extensa corrispondeva, nel pensiero politico, quella posta da Hobbes tra stato naturale e stato civile. Quando, inaugurando una nuova forma di riflessione dialettica, Hegel situava il conflitto tra servo e padrone all’origine della vita dello spirito, condizionava la stessa possibilità della sintesi ad uno scontro tra tesi ed antitesi.
Questa visione dicotomica, che per diversi secoli ha orientato il nostro modo di pensare, e dunque di agire, subisce prima una scossa e poi, negli ultimi decenni, un vero e proprio collasso. Diverse le sue cause, che vanno da mutazioni antropologiche ad altre di carattere sociale, politico, tecnico. Se già all’inizio del secolo scorso la vita biologica faceva il suo ingresso nei calcoli del potere, l’universo del lavoro sfonda i confini dell’economia fino a divenire questione politica centrale. Quanto poi alla dicotomia tra natura e storia, già messa in questione dalla categoria darwiniana di storia naturale, è stata a sua volta largamente smontata da procedure tecniche destinate a modificare anche quelle che erano considerate invarianti naturali. Il colpo finale, rispetto alla bipolarità tra mente e corpo, è venuto dalle nuove scienze neurologiche. Per non parlare della sovrapposizione tra virtuale e reale nello spazio immateriale della rete. Tutto ciò è stato in buona parte anticipato nella riflessione europea lungo traiettorie oblique rispetto agli assi portanti della filosofia moderna. Se la sostanza unica di Spinoza, dotata dei due attributi del pensiero e dell’estensione, giàrompeva con il dualismo cartesiano, il fronte filosofico che lega Nietzsche a Bergson decostruisce insieme realismo e idealismo. Soggetto e oggetto non costituiscono più potenze separate e concorrenti, ma si compenetrano in un flusso continuo che può definirsi “volontà di potenza” come “evoluzione creatrice”. Si tratta, comunque, di un processo irriducibile all’Uno come al Due e costituito piuttosto da una serie infinita di differenze. L’autore che compie questo percorso è Gilles Deleuze. Quelle che la tradizione metafisica ha considerato rigide dicotomie – tra essere e divenire, soggetto e oggetto, realtà e apparenza – diventano per lui forme di un movimento generativo di elementi molteplici. Tra l’Uno e il Due si inseriscono i molti, in una combinazione plurale, e sempre mobile, di singolarità.
Eppure se la forza di questi autori risiede nel potenziale critico che scaricano sul dispositivo metafisico della separazione, la loro eredità non è priva di contraddizioni e ambivalenze. Non è detto che lo smontaggio delle dicotomie moderne abbia di per sé un esito di emancipazione. Né che una costellazione di infinite differenze sia risolutiva di vecchie e nuove forme di esclusione. Certo il mondo contemporaneo non è né unipolare né bipolare, ma multipolare. Ciò tanto in filosofia che in politica. Il crollo del sistema sovietico non ha determinato l’egemonia di una sola potenza. La globalizzazione ha prodotto un tale sommovimento da destituire di fondamento non solo i concetti di centro e periferia, ma anche di interno ed esterno. Se quello che si è chiamato terzo mondo penetra nel primo, questo vede crescere a dismisura le proprie disomogeneità interne. Le derive localistiche che hanno portato a guerre interregionali nell’ex blocco sovietico sono esse stesse l’esito autoimmunitario di quella generale contaminazione costituita dalle dinamiche di globalizzazione. Questa si presenta come un insieme informe di universale e particolare, di integrazione e frantumazione. A tali contraddizioni bisogna dare forma sul piano politico e, prima ancora, filosofico. L’idea ingenua che il conflitto, innescato dalla ineguaglianza delle condizioni, possa essere neutralizzato da meri espedienti tecnici si è rivelata una illusione dannosa. Occorre ripensarlo in termini politici all’interno di un mondo irriducibile sia alla grammatica monoteistica dell’Uno che alla logica escludente del Due.

Corriere 23.6.13
Quei debiti rinegoziati della Germania
di Massimo Nava


La Storia si diverte a offrire coincidenze, forse per invitarci a riflettere. Il 28 giugno prossimo si terrà un vertice europeo che si annuncia di particolare importanza per il rilancio dell'Europa, in bilico fra rigore di bilanci e solidarietà, fra resistenze e disponibilità della Germania a uno sbocco politico della crisi. Ma il 28 giugno è anche la data dell'anniversario (1919) del trattato di pace di Versailles con il quale le potenze vincitrici (in testa Francia e Gran Bretagna) imposero alla Germania pesantissime riparazioni dei danni di guerra, 132 miliardi di marchi dell'epoca. Secondo molti storici, furono proprio gli oneri del conflitto, oltre alla crisi del '29, a tracciare l'autostrada politica e sociale per l'ascesa di Hitler al potere. Ma qui interessa ricordare che quel debito, dopo successive rinegoziazioni, venne ripagato in parte e fu considerato estinto dal Führer nel 1933.
La seconda coincidenza storica cade esattamente sessant'anni fa, con un'altra conferenza (Londra, 27 febbraio 1953) in cui venne negoziato un altro debito riparatore a carico della Germania, quello per i danni del secondo conflitto mondiale. Anche in questo caso, gli storici hanno analizzato controversie di varia natura. A Londra, ci si domandò se il debito dovesse ricadere sulle spalle della sola Germania federale o anche sulla ex Germania comunista. I negoziati portarono a una dilazione dei pagamenti e a una parziale riduzione. In piena Guerra Fredda, per europei e americani la rinascita e la stabilità della Germania federale era un obiettivo vitale di fronte al blocco comunista e quindi preponderante sulla riscossione totale del debito dei tedeschi.
Ricordare oggi il debito della Germania per i danni di due guerre non significa riaprire ferite storiche né rifare l'esame delle coscienze tedesche rispetto alle colpe del passato, per le quali le riparazioni non sono quantificabili. Dovrebbe però essere utile ricordare che la forza della Germania moderna non risiede soltanto sulla straordinaria capacità dei tedeschi di riorganizzare il proprio apparato produttivo e il proprio modello federale, ma anche sull'aiuto finanziario che il Paese ha ricevuto per risorgere. Un sostegno indiretto — a ben vedere — è arrivato anche durante il processo di riunificazione, da cui derivano in larga misura i passi avanti e i blocchi dell'Europa di oggi. Il presidente francese Mitterrand pensò probabilmente di «diluire» in Europa la potenza tedesca sostenendo la riunificazione in cambio della rinuncia al marco. Il cancelliere Kohl coronò il sogno dei tedeschi, sacrificò la moneta nazionale, ma probabilmente intuì che l'euro avrebbe avuto come riferimento costante l'andamento dell'economia tedesca e la politica di Berlino.
In questo scenario, è dei giorni scorsi una forte polemica della stampa greca che riapre il contenzioso su danni di guerra subiti dalla Grecia durante l'occupazione delle truppe naziste, citando un dossier di 190 mila pagine sull'argomento. Contenzioso di difficile soluzione e quantificazione, sia perché la Germania sostiene di non essere più in debito, sia perché si conteggiano anche prestiti forzosi e si cerca di valutare anche le spoliazioni compiute dalle truppe del Reich.
La Grecia probabilmente non otterrà soddisfazione. Ma si può comprendere meglio la disperazione del Paese, se ai torti del passato si sommano le recenti terribili imposizioni economiche che il Paese ha subito: non per avere combattuto e perso due guerre, ma per essere entrato in Europa e avere rispettato impegni e oneri in ambito Nato. (Sia pure con qualche ombra sui bilanci e importanti tagli del debito).
La Storia dovrebbe servire almeno a sfatare luoghi comuni. Come quello della Germania che si è fatta tutta da sola e che giustamente non vorrebbe pagare i debiti degli altri, soprattutto se spendaccioni e lassisti. Anche i debiti hanno una Storia e quella del passato dovrebbe illuminare meglio il presente, se i debitori di ieri sono diventati i creditori di oggi. E non solo dei greci.

il Fatto 23.6.13
Il G8 dei “leader per caso” in un mondo senza guida
di Furio Colombo


Un fotografo geniale ha ritratto i grandi del G8 nel meeting di pochi giorni fa a Enniskillen (Irlanda del Nord). Essi appaiono come figure di Magritte su un fondale di case e natura finte. E tutti (nove uomini e una donna) sono allineati su un asse di legno nero, una sorta di piedistallo elegante e artificiale che poggia su una strada disegnata per l’occasione. L’autore della fotografia, Matt Cardy, ha uno straordinario istinto per l’immagine. Questa è, allo stesso tempo, nuova, storica, e drammaticamente rivelatrice. Oppure il fotografo è un professionista fortunato: lui ha piazzato la camera, e il potere del mondo si è messo in posa senza camuffamenti e pretese. E ha mostrato che non esiste. Infatti voi vedete, da sinistra, Barroso, presidente della Commissione Europea, che non può dare alcuna direttiva, vedete Abe, il premier giapponese, che sta inutilmente accanto ad Angela Merkel come se fossero in viaggio per caso. Cameron è l’unico alto come Obama e come Letta. Ha accanto da una parte Harper del Canada e dall’altra Van Rampuy, di cui siamo abituati a dire che è presidente dell’Europa, titolo che non è né vero né falso. Hollande di Francia è il più piccolo, ma l’espressione è la stessa. Ognuno sta pensando a un suo tormentoso problema, che non riguarda gli altri. Il valore di questa immagine è grande perché la rivelazione è a due vie. La prima ci porta a capire che nessuno di loro può dare un’ordine, una direttiva o un aiuto agli altri, e controlla a malapena il proprio Paese. Ma ognuno di essi può commettere errori gravi e spingere fuori equilibrio almeno uno dei suoi vicini. Si aggira, nell’Europa qui rappresentata, molta solitudine, un forte potere negativo e nessuna influenza benefica, neppure di Obama. La seconda ci spinge in un vicolo cieco: se non loro, chi comanda ?
LA STRANA TROVATA del piedistallo nero per le figurine che vediamo stagliarsi contro un cielo nordico non promettente, sembra offrire le figurine di un gioco. Che cosa sappiamo del gioco? Poco, e con nozioni confuse. Faccio un esempio. Sappiamo che la più potente di quelle figurine è Obama. Ma sappiamo che deve negoziare tutto, e negoziando cambiare e cambiando cedere, e alla fine allontanarsi dallo scopo del negoziato. Prendete l’Afghanistan. Obama non può restare e non può andarsene. Mai stato più stretto e immobilizzato un grande potere? Faccio un altro esempio. La figurina di Letta, primo ministro italiano, è sostenuta dalla maggioranza più ampia che vi sia in un Paese democratico occidentale. Eppure il suo potere è minimo, quasi niente. Deve evitare movimenti bruschi, non commettere errori, parlare con rarefatta e calcolata prudenza e restare in attesa. Quello che conta lo deciderà per lui o un altro personaggio, che è fuori del governo e dunque - apparentemente - fuori dal potere esecutivo. Oppure la Magistratura, che è un potere diverso, e segue ragioni diverse che però potrebbero interrompere tutti il poteri di Letta in un istante per il quale nessuno (cittadini o governo) decide o vota.
Diciamo che noi siamo il caso più strano, un governo a termine, senza termine, un governo democratico che, per esistere e per finire non dipende dal voto. Esiste però un’unica regola per il gioco sull’asse nero fotografato nel villaggio di Enniskillen. Ognuno è in bilico fra margini minimi, deve restare in un equilibrio quasi perfetto e meno agisce, meno fa danno. Nessuno può soccorrere l’altro. E anche se ciò che avviene fuori da quel villaggio (Siria, Libia) può danneggiare tutti, nessuno può o deve risolvere il problema. Nessuno da solo, nessuno insieme. Diciamo che la guida americana è finita in Afghanistan, con quella strana maledizione (né restare né partire anche se tutti sanno che la conclusione sarà fare finta che la guerra sia finita). Però anche l’autorità, il prestigio, persino la credibilità della Nato, sono improvvisamente scomparse in Libia, quando l’assassinio collettivo, pieno di sangue, di una sola persona, ha spinto tutti nel caos, un caos che dura ancora, come se fosse, alla Macbeth, senza rimedio. Infatti tutti si sono allontanati in fretta per non spiegare, anzi per non sapere. Cameron? È dentro e fuori, furbo e assente, il suo miglior pregio è non fare, ma questo non lo distingue dagli altri. Hollande è esangue e quando la Francia ha uno scatto, è uno scatto locale, con effetti locali (e non grandi come in Mali ), con conseguenze limitate.
DEL CANADESE HARPER non sappiamo nulla, nel senso che non c’è stato evento di cui sia stato parte, autore, mediatore o anche solo presente. Ci restano i due “potenti”, regionale e mondiale, Merkel e Obama. Il potere della Merkel è fermo, nel senso di immobile. La sua visione del futuro ha il segno meno, non come visione di una vita diversa, ma come regola per gli altri. Merkel non ha fiducia e non dà fiducia. Si è incaricata di essere portiera severa di un edificio rigoroso. La felicità non è il suo compito. Conta il regolamento. La differenza fra Obama e gli altri non è neppure misurabile. Tutti, tranne lui, sono “carisma zero” (per ripetere il grido dei bambini in bicicletta nell’indimenticabile film E. T.). Eppure il forte carisma, il realistico istinto politico, la visione quasi profetica di questo presidente americano non sembrano toccare popoli delusi e scontenti che possono occupare ma non gestire spazi sempre più desolati. Chi comanda allora? Forse il complotto segreto di banche, finanza e malaffare. Forse nessuno, nel senso che le ricchezze sono già separate dagli uomini. E agli uomini (intendo dire: tutti noi) viene ricordato - forse in automatico, da voci pre registrate - che devono pagare di più e lavorare di meno. O per niente. Teoricamente è impossibile. Ma la gente continua a farlo, come sotto l’effetto di uno strano ipnotismo. Segno che per il momento non ci saranno ribellioni.

Corriere 23.6.13
Da Rio a Istanbul, se va in crisi il sogno di una nuova Società
di Giuseppe Sarcina


Gli psicologi direbbero: aspettative deluse. I giuristi, probabilmente, tradurrebbero con «deficit di cittadinanza». Le rivolte di Istanbul e di Rio de Janeiro si parlano e, in un certo senso, contribuiscono a rendere il mondo ancora più piccolo. Non importa se per le strade si riversa il ceto medio paulista. Oppure gli studenti e i giovani custodi della laicità kemalista. Non fa differenza se la rabbia esplode perché le autorità pubbliche aumentano le tariffe dei trasporti, oppure perché il governo vuole spazzare via un pezzo dell’identità nazionale dalla piazza simbolo del Paese.
Brasile e Turchia, in fondo, stanno correndo lungo la stessa rotta finora costellata di promesse, di rivincite a portata di mano e da qualche settimana, invece, invasa da gas lacrimogeni e poliziotti con il manganello facile. Si dice: sono due nazioni cresciute troppo in fretta. Gli squilibri sociali, le ineguaglianze stridenti ora presentano il conto. È davvero così?
Negli ultimi dieci anni le economie dei due Paesi si sono sicuramente dilatate a ritmi impressionanti, sulla spinta di riforme di struttura coraggiose e sperimentando soluzioni originali. Solo nel gennaio scorso, per esempio, il vertice del World Economic Forum a Davos aveva preso nota della «ricetta turca» per contrastare la disoccupazione giovanile. Dal 2009 a oggi in Turchia sono spuntati 4,6 milioni di posti di lavoro, mentre, più o meno nello stesso periodo, l’eurozona ne perdeva 7,6 milioni.
Il Brasile è partito dallo sprofondo. Nel 1993 un terzo della popolazione (51 milioni di cittadini su un totale di 157) viveva sotto la soglia della povertà (all’epoca 1,25 dollari al giorno). Nel 2008 (ultimi dati Ocse disponibili), i poveri (meno di due dollari al giorno per vivere) sono diventati 29,8 milioni su 191 milioni di abitanti. Certo, sia in Turchia che in Brasile le diseguaglianze restano profonde, ma tendono, sia pure lentamente, a ridursi, mentre quasi ovunque, Occidente compreso, stanno aumentando.
Difficile, dunque, spiegare le ribellioni di massa solo con i numeri dell’economia. In Brasile, per altro, la protesta è cominciata a San Paolo, cioè nella capitale di una regione che da sola copre il 30 per cento del Pil nazionale. Forse conviene ricominciare proprio da qui. La lunga stagione di Inácio Lula da Silva ha dimostrato ai brasiliani che povertà e marginalità sociale non sono malattie genetiche del loro Paese. Ma il dinamismo dell’economia insieme a qualche soldo in più hanno diffuso la speranza che il Brasile possa raggiungere presto gli standard di civiltà degli americani e degli europei. E se questo non accade è solo perché il governo centrale, le autorità regionali, le municipalità eccetera, spendono male la nuova ricchezza. Sono persone nuove quelle che protestano, o con una nuova consapevolezza.
Anche in Turchia è finito un lungo sonno. Il premier Recep Tayyip Erdogan aveva promesso di trasformare il Paese in un modello di democrazia (non solo per le primavere arabe), un nuovo paradigma etico-politico da affiancare a quello europeo.
Ed è precisamente qui che le classi dirigenti di quei Paesi si sono arenate. Dilma Rousseff sorpresa dalla crescita vertiginosa delle aspettative (anche di redistribuzione del reddito certo). Erdogan spiazzato dalla domanda di partecipazione civile del suo popolo. Tutti e due stanno reagendo nella stessa maniera, violenta e profondamente sbagliata: abbiamo la maggioranza con noi e dunque continueremo a modo nostro. È «la tirannia della maggioranza», il virus politico isolato nell’Ottocento da Alexis de Tocqueville che può portare alla rovina prematura anche la democrazia più promettente.

Repubblica 23.6.13
Aluã de Moura, leader del movimento “Passe livre”: “Per gli studenti e i poveri i bus costano troppo”
“È la rivolta contro sprechi e ingiustizie le violenze sono provocate dagli infiltrati”
intervista di Enrico Currò


SALVADOR DE BAHIA — Ieri, dopo le violenze di giovedì scorso sullo sfondo di Nigeria-Uruguay, il programma dei manifestanti della città da cui tutto è partito — a Salvador nel 2003 cominciò la protesta contro il caro trasporti in Brasile — appariva simbolico. Il percorso dei ventimila attivisti si snodava tra l’albergo che ospita i dirigenti della Fifa e il quartiere commerciale di Iguatemi, lontano dall’Arena Fonte Nova, dove l’Italia sfidava la Seleçao in uno stadio simbolo dello sperpero di denaro pubblico per il Mondiale 2014: spese moltiplicate fino a 225 milioni di euro, parte della copertura danneggiata un mese fa dalla pioggia, alcuni posti dai quali non si vede il campo.
Aluã de Moura, leader del movimento “Passe livre” (biglietto gratuito) che ha acceso la protesta, la situazione vi è sfuggita di mano?
«Niente affatto. In questa protesta i leader non esistono: è sovrapartitica. E gli obiettivi sono molto chiari».
La percezione esterna è diversa.
«“Passe livre” è nato nel 2003: il problema del caro trasporti è vitale, in un paese dove ci si sposta in bus. I poveri e gli studenti non se lo possono permettere. Questo era e rimane il fulcro della protesta».
Basta per mobilitare milioni di persone?
«Sì. Poi si sovrappongono la democratizzazione della politica edei media: oggi ogni impresario privato può finanziare massicciamente un partito e i media sono monopolizzati daRede Globo, nata sotto la dittatura e così potente da mistificare la realtà, incluse le proteste di questi giorni».
Sembra una rivolta del paese del calcio contro il Mondiale.
«Il problema è la necessità di indirizzare il denaro pubblico a sco-pi davvero utili. Nessuno di noi è così miope da non capire l’importanza del Mondiale e delle Olimpiadi per il Brasile. Ma quanta parte del Pil è stata destinata all’istruzione e alla sanità e quanta invece a stadi che non serviranno certo alla pratica dello sport quotidiano e in alcuni casi resteranno cattedralinel deserto?».
Come spiega le violenze che incrinano l’immagine del governo Rousseff?
«Non vogliamo la caduta di un governo progressista. Le violenze nascono dagli infiltrati, che radicalizzano la protesta: black bloc, estremisti neonazisti, punk. Ma il movimento è fatto da milioni di persone, pacifico e con istanze pacifiche».
Coagulate da Internet: vede analogie col fenomeno italiano del Movimento 5 Stelle di Grillo?
«Per me Twitter, Facebook e i blog non sono la rivoluzione. I social network offrono uno strumento in più, per comunicare rapidamente tra le persone. Ma funzionano di più il passaparola e la vera comunanza d’intenti: è così si resiste nel tempo. E “Passe Livre”, infatti, dura dal 2003».

Repubblica 23.6.13
La polizia usa la mano pesante per allontanare i manifestanti da piazza Taksim
Istanbul, liquidi urticanti contro la folla


ISTANBUL — Idranti con liquido urticante e gas lacrimogeni contro la folla: la polizia turca ha nuovamente usato la mano pesante ieri sera nel cuore di Istanbul contro gruppi di manifestanti pacifici che erano stati allontanati con gli idranti poco prima da piazza Taksim, dove a inizio serata migliaia di persone si erano riunite pacificamente con garofani rossi in mano.
Sono i primi incidenti nel centro di Istanbul da una settimana. Tra gli slogan scanditi dai dimostranti anche quello «aprite il parco, appartiene al pubblico», riferito al parco Gezi, da dove è partita la protesta e cheè stato chiuso e recintato dopo lo sgombro della scorsa settimana.
Solo nove membri della “Piattaforma” hanno avuto il permesso di recarsi nel parco per deporre i fiori in memoria dei tre dimostranti e del poliziotto rimasti uccisi negli scontri. Il Consolato generale d’Italia ha invitato i connazionali a evitare la zona.
Intanto il premier Recep Tayyip Erdogan ha di nuovo denunciato un complotto straniero contro il suo governo dietro le proteste delle ultime settimane, puntando il dito in particolare contro la «lobby dei tassi di interesse, nemica della Turchia».

Corriere 23.6.13
Linea maoista. Il presidente insiste nella campagna contro l’”edonismo” e vuole tagliare la spesa pubblicaXi mette in riga le banche cinesi: «Fatevi un bagno»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Il discorso del presidente Xi Jinping è arrivato ai dirigenti locali del partito comunista e dei governi provinciali in videoconferenza. «Guardatevi allo specchio, fate un bagno per ripulirvi dalle incrostazioni dei quattro venti della decadenza: formalismo, burocrazia, edonismo e stravaganza. Bisogna seguire «la linea di massa»: tornare ad essere vicini al popolo, nel popolo. La mobilitazione delle masse ricorda la strategia usata da Mao Zedong fino alla Rivoluzione Culturale. Erano anni che i leader di Pechino non usavano più questo linguaggio, preferendo slogan fumosi legati alla crescita industriale, come «sviluppo scientifico».
Questa nuova parola d’ordine, «fatevi un bagno», Xi l’ha lanciata martedì. Sembra un ritorno ai principi del maoismo per salvare il partito dall’implosione dovuta alla corruzione e alla crisi dell’ideologia. Ai quadri è stato annunciato che dovranno partecipare a sedute di studio e critica per rieducarsi.
E il giorno dopo abbiamo assistito a un «credit crunch» in zuppa cinese: i tassi d’interesse a breve sul circuito interbancario sono schizzati al 13,9% (quelli a un giorno) e al 12,4% (a una settimana). La stretta del credito ha provocato una crisi di liquidità immediata per le piccole e medie banche troppo esposte.
Ieri mattina inversione di tendenza: è stata immessa liquidità e a Shanghai i tassi a un giorno sono riscesi di 384 punti base (3,84%), quelli a una settimana di 351 punti, ma restano sempre doppi rispetto alla media dell’ultimo anno. Dietro questa altalena che fa perdere l’equilibrio alle borse mondiali non è difficile vedere la mano della Banca del Popolo cinese (la Banca centrale) che secondo gli analisti di qui ha voluto dare alle banche una «lezione di linea di massa» contro edonismo e stravaganze. Il credito/debito facile ora spaventa Pechino. La nuova leadership sembra volere un ritorno all’austerità maoista.
«È partito un messaggio chiaro alle banche: serve cautela nella gestione della liquidità, non si può espandere il credito facendo affidamento sul sostegno della Banca centrale», spiega al Financial Times Peng Wensheng, economista di China International Capital Corp.
Le province dell’impero cinese sono un pozzo nero del debito. L’ufficio di revisione dei conti di Pechino ha appena pubblicato questi dati: 36 amministrazioni locali a fine 2012 erano esposte per 3.850 miliardi di yuan, 500 miliardi di euro. Rispetto all’ultima indagine, del 2010, l’indebitamento è cresciuto del 12,9%. Per anni i governi provinciali hanno preso in prestito decine di miliardi dalle banche, dal mercato delle obbligazioni e anche dall’industria della «finanza ombra» per costruire infrastrutture, case, palazzi e migliorare i servizi. Tutto questo però, non proprio per «seguire la linea di massa» e «servire il popolo». Dietro l’indebitamento c’è lo spregiudicato gioco dei dirigenti locali, ansiosi di presentare dati del Pil locale prodigiosi, gonfiando la spesa pubblica. Per fare carriera. «È più che possibile che la politica di questi ultimi giorni della Banca centrale sia connessa alla campagna di Xi Jinping; questa volta l’azione del presidente cinese sembra più determinata rispetto alle brevi iniziative anticorruzione dei predecessori Hu Jintao e Jiang Zemin» dice il professor Willy Lam della Chinese University di Hong Kong.
Tutto chiaro? Forse no. Prima di dire che la Cina è arrivata in fondo alla sua strada di economia basata sulla spesa pubblica è meglio guardare a un piano annunciato proprio ieri: 767 miliardi di dollari per costruire 210 mila chilometri di statali e autostrade entro il 2030, raddoppiando la rete fino a 400 mila chilometri. Le spese faraoniche hanno ancora strada di fronte a loro.

Corriere 23.6.13
Jean-Paul Sartre
Intellettuali e tedeschi nella Parigi occupata
risponde Sergio Romano


Dopo il disastro militare del giugno 1940 l'intellighenzia francese prese vie diverse. Raymond Aron raggiunse de Gaulle in Gran Bretagna, Marc Bloc Resistente finì davanti a un plotone di esecuzione, pacifisti come Jono, estremisti come Maurras aderirono al governo di Vichy, Drieu de la Rochelle si suicidò e Robert Brasillach fu fucilato nel 1945. Di Sartre si sa invece molto poco. Soldato, fatto prigioniero dai Tedeschi, fu rimesso in libertà, tornò a Parigi e divenne professore in un liceo. Almeno per me è rimasto un mistero il suo atteggiamento politico in quei tempi bui. Mi piacerebbe saperne di più.
Carlo Bonaiti

Caro Bonaiti,
Ho già risposto a una lettera sullo stesso argomento qualche tempo fa e mi limiterò a dirle che la posizione di Jean-Paul Sartre e della sua compagna, Simone de Beauvoir, fu per certi aspetti ambigua e attendista. Collaborarono con piccoli movimenti della Resistenza e scrissero per giornali clandestini, ma Sartre rappresentò il suo primo testo teatrale (Les Mouches) grazie a un visto della censura tedesca e Beauvoir tenne per qualche tempo una rubrica alla Radio Nazionale. Credo che la loro attività nella Resistenza sia stata tanto più intensa quanto più la sconfitta della Germania diveniva probabile. In Francia, a questo periodo delle ambiguità sono state recentemente dedicate due mostre interessanti e coraggiose: la prima, composta da fotografie a colori di «parigini sotto l'occupazione», scattate da André Zucca, rappresenta una città normale, rilassata, elegante che sembra convivere felicemente con i propri occupanti. La seconda s'intitola «Archivi letterari sotto l'occupazione», si compone di libri, lettere, documenti e racconta il modo in cui editori, autori, impresari dello spettacolo e artisti continuarono a vivere e a lavorare dal 1940 al 1944. Il fenomeno non è soltanto francese.
Da un libro di Mirella Serri apparso presso Corbaccio nel 2009 (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte (1938-1948) emerge con chiarezza che l'anno di frontiera per la collocazione politica di molti scrittori e artisti italiani fu il 1942, vale a dire l'anno di El Alamein e dell'inizio della battaglia di Stalingrado.
Ancor più dell'ambiguità francese, tuttavia, sorprende, soprattutto nel caso di Parigi, l'ambiguità tedesca. Gli occupanti fanno del loro meglio per stringere rapporti cordiali con l'intellighenzia francese. Un diplomatico colto e intelligente, Otto Abetz, coltiva i rapporti con pittori, scultori, scrittori, poeti. Picasso è rimasto a Parigi, dove continua a lavorare indisturbato. La censura chiude gli occhi e permette la pubblicazioni di libri «eterodossi». Vi saranno momenti in cui i tedeschi, irritati da un attentato, daranno una stretta di vite, ma dal rapporto fra l'occupazione e il mondo degli intellettuali emerge talora l'impressione che il Terzo Reich abbia per la Francia della Cultura un atteggiamento reverenziale. La Germania vuole dominare l'Europa, ma sembra pensare che il suo dominio sarebbe incompleto se alla corte del principe tedesco non vi fossero anche gli intellettuali francesi. Su una scala più grande e con fini alquanto diversi questa ambizione del Terzo Reich sembra avere per modello i rapporti tra il Grande Federico e Voltaire quando il re di Prussia lo volle con sé a Berlino dal 1749 al 1752 e intrattenne con lui una intensa corrispondenza.

l’Unità 23.6.13
Storie nella storia. D’amore e di politica
La biografia di Iotti firmata da Luisa Lama
Il racconto di una vita a testa alta: lo studio duro la militanza, l’adesione al «partito nuovo»,
la consapevolezza del ruolo e della statura morale
Il libro contiene le lettere appassionate e fino ad oggi inedite tra la giovane donna e il segretario del Pci
di Sara Ventrooni


«LORO SANNO», DICEVA SUO PADRE EGIDIO ALLUDENDO, SENZA TROPPI COMPLIMENTI, ALLA BORGHESIA. LO STUDIO È L’UNICA ARMA A DISPOSIZIONE PER ESSERE PADRONI DELLA PROPRIA VITA. Così, il ferroviere di Reggio Emilia, un socialista prampoliniano, fa prendere alla figlia il diploma di maestra. Poi, con una borsa di studio per orfani (nel frattempo Egidio è morto) Leonilde si iscrive a Magistero, alla Cattolica di Agostino Gemelli.
Nilde Iotti, una storia politica al femminile di Luisa Lama la prima biografia, a quattordici anni dalla scomparsa comincia da qui. Da un’opposizione morale alle macerie umane del fascismo. Perché il riscatto di una ragazza di Reggio Emilia non è una questione privata, ma riguarda il destino del Paese.
31 ottobre 1942. Con il motto di suo padre in testa, a pochi giorni dal bombardamento di Milano, le ventiduenne Nilde attraversa le rovine di piazza della Scala e va a discutere la tesi di laurea: «L’attuazione delle riforme in Reggio Emilia nella seconda metà del secolo XVIII»
Da tempo Nilde segue con attenzione i discorsi di Dossetti, di La Pira, di suo cugino Valdo Magnani, un militante dell’azione cattolica che nel 1936 diventa comunista. Tutti riferimenti destinati, in futuro, a gettarla nel cono d’ombra del sospetto agli occhi di Secchia, responsabile dell’Organizzazione e premuroso confidente di Stalin sullo stato emotivo del segretario del Pci.
Ma Nilde, nel 1944 come ricorda Livia Turco è attenta soprattutto alla voce delle donne che protestano contro il carovita e sono già, di fatto, protagoniste della Resistenza; ed è attenta alla voce metallica, «gracchiante», di Palmiro Togliatti, quando alla radio, da Napoli, annuncia il «partito nuovo».
Sotto queste stelle lo studio, l’emancipazione delle donne e un partito capace di rimettere insieme i cocci dell’Italia si compie il battesimo politico di una giovane ancora acerba, ma con le idee chiare in testa.
Intanto, il Segretario si mostra consapevole: dal 2 al 5 giugno Togliatti incontra a Roma, in un teatrino di piazza Fontanella Borghese, le donne comuniste. A loro raccomanda ma l’auspicio è rivolto a tutto il partito: abbandonate qualsiasi tentazione settaria.
Prima ancora di conoscersi, dunque, Iotti e Togliatti condividono una visione. Non si tratta solo del dialogo con i cattolici («compromesso» è parola riduttiva, dice il Migliore, riferendosi all’accordo con Dossetti sull’articolo 7) o di una fiducia nell’alleanza delle forze antifasciste.
In ballo c’è qualcosa che va oltre le ragioni di parte: è la fibra di cui dovrà essere intessuta la democrazia.
Il racconto di Luisa Lama segue la parabola 1945-1979. Non si tratta di una narrazione adagiata sulla scansione biografica (1920-1999) quanto piuttosto di una ricostruzione dei nessi tra la «progressione» (parola che Nilde preferiva a «carriera») di una donna, un’intellettuale, una militante dell’Udi, una parlamentare comunista, una Costituente, e la nascita della Repubblica.
La ventura di Nilde Iotti è indissolubilmente legata a quella della Carta. Le due biografie si scrivono a vicenda: i Gruppi di Difesa della Donna; il primo incarico ufficiale per l’Udi quando, su mandato del prefetto Pellizzi, Nilde si occupa della distribuzione dei viveri a Reggio; l’acco-
glienza di 1500 bambini di Milano da sfamare e da vestire, lo sfollamento a Cavriago, dove nasce per Nilde «l’ispirazione politica».
La sua candidatura alle elezioni del 2 giugno è un esordio discreto. E discretamente orgoglioso. La formazione è tutto. E non si improvvisa in un giorno. Eletta con altre ventuno donne, Nilde fa il suo ingresso ufficiale nella Commissione dei 75 per la Costituente. Ha solo ventisei anni e un sorriso fermo ed elegante. Non teme il confronto con le altre, perché la passione politica è una ragione di vita. L’epopea delle «rivoluzionarie di professione» come Teresa Noce o Rita Montagnana, moglie del segretario, non la mette in soggezione. E così sarà, lungo tutta la sua «progressione»: la Commissione femminile; la battaglia per la pensione alle casalinghe; il dialogo, non sempre facile, con altre compagne, come Marisa Rodano, quando le donne dell’Udi e del Pci provano a misurarsi sui temi delle giovani, dalla fine degli anni Cinquanta: la contraccezione, l’aborto, il divorzio, la pillola o un libro di Simone de Beauvoir non ancora tradotto in Italia.
Non sorprende allora che il capitolo «Amore e lettere», dove si presenta il carteggio inedito Iotti-Togliatti, sia cucito nella filigrana della storia. Lo scambio epistolare è ficcato nella scansione di giorni concitati, quando l’Italia decide del proprio destino. I due innamorati ne sono protagonisti. Nilde, messa alle strette dai ricatti o la carriera o l’amore sceglierà di scegliere tutto: il suo uomo, e il suo partito. Si tratta, d’altronde, di un amore scritto su carta intestata «Assemblea Costituente».
Dell’esistenza del carteggio aveva accennato la stessa Iotti, durante una festa dell’Unità a Correggio, nel 1993. Dell’epistolario si era poi persa traccia, fino a che Marisa Malagoli Togliatti (figlia adottiva della coppia) non ha deciso di aprire il cofanetto di legno intarsiato. Nella scatola sono contenuti i biglietti e le lettere (anche quelle non spedite) che Nilde e Palmiro si scambiano dal 5 agosto 1946 al 26 agosto 1947. Dal loro primo incontro all’inizio della convivenza al sesto piano di Botteghe Oscure.
Se l’aneddotica è nota Palmiro, scendendo le scale di Montecitorio, carezza in silenzio i capelli di Nilde a leggere le spigolature colpisce la ferma determinazione a vivere l’amore dentro la storia ufficiale. Perché non c’è scampo: il loro incontro è «una vertigine davanti a un abisso», scrive Togliatti il 5 agosto.
Il segretario sa che non può, e non vuole, più fare a meno di lei, per questo scrive biglietti ultimativi a Eugenio Reale. Va sistemata la questione con la compagna Rita, perché Palmiro vuole andare a vivere con Nilde. E non importa se il concubinato è un reato.
Nel vai-e-vieni dell’estate ’46 (Togliatti è a Parigi, Nilde a Reggio) i due si rincorrono nel pensiero. Palmiro spera di trovarla a Roma, al suo ritorno, il 19 agosto, e ne resta deluso: «Non credevo che avrei tanto sofferto, di non ritrovarti, di non sapere quando ti ritroverò, di non avere nulla di te, di non sapere quando l’avrò. Ora mi pare che non potrò vivere così».
I due si rassicurano. Sono determinati. Scrive Togliatti il 28 settembre 1946: «Quanto ho fatto verso di te e con te non è mai stata un’intenzione frivola (... ) ho seguito un impulso più forte della mia volontà (... ) Mi pare che possiamo e dobbiamo solo andare avanti, come in certi passi difficili di montagna (... ) questa è la lettera più seria che ti ho scritto, cara, stracciala, bruciala, rendimela. Ma voglimi bene».
Chi legge oggi il carteggio rischia di venire sopraffatto dal titanismo di un amore fuori misura, e fuori paragone, scandito sui tempi della grande storia, dove perfino gli antagonisti hanno una parte da protagonista. L’ostacolo primo è, manco a dirlo, il partito: la Federazione di Reggio Emilia che non vuole ricandidare la Iotti; oppure quel Pietro Secchia che informa Stalin di una «crisi personale del segretario»; che insinua dubbi sull’ortodossia di Iotti; che vorrebbe spedire Togliatti al Cominform, a Praga, lontano dall’Italia. Ma Togliatti non ci sta.
La biografia si ferma alle soglie del 1979, quando arriva il riconoscimento di una vita. Nilde ha sempre saputo ottenere, con ferma eleganza, ciò che le spetta. Come quando, nel 1952, prende carta e penna e scrive a Longo, perché vede uno stallo nella sua «progressione politica».
Oggi molti la figurano solenne, serafica, sullo scranno più alto di Montecitorio. Nilde Iotti: una regale istituzione in tempi democratici. La prima donna presidente della Camera. Una madre della Repubblica. L’ultima scena del libro inquadra le scale di Montecitorio. Dove tutto inizia e avvolge, a ritroso, il nastro della vita: una mano nei capelli, scendendo le scale. Mentre insieme si rifa l’Italia.

Nilde Iotti Una storia politica al femminile, di Luisa Lama pag. 272 30,00 euro Donzelli editore

Repubblica 23.6.13
“Fino a quando mi amerai?”
La passione Togliatti-Iotti
di Simonetta Fiori


L’aria è particolarmente frizzante, in parlamento e nel Paese. Si costruisce una nuova Italia, e i vecchi capi comunisti — quelli che avevano subito le vessazioni del fascismo e temuto le purghe staliniane — cominciano ad assaporare il gusto della libertà, anche il piacere delle comodità borghesi. Non c’è più spazio mentale per le antiche compagne, quelle di taglia forte e scarpa 41, che gli erano state accanto nelle tante battaglie della clandestinità. Succede a Togliatti, ma anche a Longo e Terracini. E nell’estate del 1946 i rapporti tra Palmiro e la moglie sono incrinati da tempo, sin dagli anni del Comintern trascorsi a Mosca. Li divide anche la grave condizione fisica e psichica del figlio Aldo, che il padre fatica ad accettare. È in questa «situazione intollerabile», come lui dice, che arriva il sorriso di Nilde.
Il nuovo amore costringe Palmiro a un viaggio dentro di sé, lo stesso che loporterà a sfidare il partito e perfino il Cremlino. È tempo di bilanci affettivi, che non lo soddisfano. Fino a quel momento è stato un uomo in fuga dalle emozioni, «non sai tu quante immagini di donne ho respinto dal mio cuore». Addirittura una volta, pur di resistere alla seduzione femminile, aveva rischiato di morire per gli alti sentieri di montagna. Lui, il gran capo temuto e adorato, che scappa davanti a un’amica richiedente. Sempre a Parigi rivede Carmen, la comunista spagnola che dieci anni prima l’aveva amato nelle traversie della Guerra civile. Improvvidamente, rievocando l’antico sodalizio, vi fa cenno in una lettera per Nilde: «È commovente come una donna possa amare senza chiedere nulla». Poi ne straccia platealmente l’indirizzo, ma Nilde non è un’amante gretta né sprovveduta: «Ho pensato con un po’ di compassione a quella donna che certo ti ha amato. Quando non amerai più me, ti prego, non cancellarmi così».
È una storia d’amore «dolce e terribile », quella tra il segretario e la giovane parlamentare. Incontri furtivi, strette di mano in pubblico. Ma in novembre la stampa satirica comincia a bersagliarli, ritraendoli sul divanetto di Montecitorio in pose ridicole. A Botteghe Oscure i pettegolezzi si caricano di tinte velenose. E certo non resta a guardare la “marquisa” Montagnana. Alla Camera Nilde ne incrocia lo sguardo «duro, pieno di rancore e odio, appena filtrato dalle palpebre socchiuse ». Ma il nemico più temibile è il partito, un’entità entusiasmante e crudele che per mille motivi non accetta questo amore irregolare. In un momentodi malinconia Togliatti arriva a evocare «il povero Gramsci, anch’egli ha amato e voluto essere amato, e ha cercato tramite l’amore di essere compreso ». Chissà quante volte in passato la fragilità emotiva di Nino l’aveva indispettito. Ora no, perfino l’antico amico- avversario gli appare sentimentalmentevicino. Nel febbraio del 1947, una pausa inaspettata rallenta l’intensità del carteggio. Palmiro non risponde alle lettere, e Nilde scopre che è a casa ammalato, per giunta accudito dalla legittima moglie. «Sono certa che tu guariresti prima se potessi curarti io», incalza Nilde con modi quasi infantili. Sembra disposta a tutto, perfino a chiedere notizie all’autista-custode Armandino, che non le mostra grande simpatia. «Solo allora ho rinunciato a venire a casa tua», scrive a Palmiro in toni sommessamente minacciosi. In una lettera successiva accenna anche a un desiderio di maternità, «a volte vorrei davvero che qualche cosa di te restasse in me, forse allora capiresti ciò che sei per me». Dopo qualche anno quel figlio desiderato sarebbe stato concepito, ma il triste epilogo resta avvolto nel mistero.
In quegli stessi mesi, in parlamento, le sinistre combattono per una famiglia moderna, fondata sull’eguaglianza tra coniugi e sulla parità legale dei figli, nati dentro e fuori del matrimonio. Fortificata dalla sua stessa esperienza privata, Nilde resterà sul fronte a difendere i nuovi diritti. E il divorzio? No, su quel terreno non può battersi. C’è il rischio di una rottura con i cattolici, e Togliatti preferisce lasciar cadere. Ma nel privato — come già Longo e Terracini— prova a ricorrere alla “Sacra Rota Comunista”. Nel dicembre del 1953 fa domanda per risiedere almeno un anno a San Marino, dove il divorzio è cosa lecita. Ma sarà costretto a rinunciarvi, scoraggiato dal clamore mediatico che colpisce Longo. Sono i paradossi della doppia morale.
Nell’album della famiglia comunista, Nilde dovrà aspettare ancora molti anni prima di trovare ufficialmente posto accanto a Palmiro. Accadde nell’agosto del 1964. Ai funerali di Togliatti le viene concesso un ruolo d’onore, prima fila dietro il feretro. Se come sposa era rimasta invisibile, in qualità di vedova poteva ottenere l’agognato riconoscimento. La coppia, finalmente, non c’era più. La morale del partito salva per sempre.

La voce di Togliatti è contenuta in uno scrigno intarsiato, di quelli antichi dell’artigianato sorrentino. Non solo la sua voce, ma anche la sua emotività, la scoperta di sé, il tempestoso viaggio interiore di un uomo passato alla storia per la glaciale razionalità. Il mitico totus politicus alle prese con un sentimento terrorizzante quale l’amore. Quando credevamo di saper tutto di quella storia sentimentale, già consegnata ai polverosi annali del comunismo, affiorano quaranta lettere scambiate tra Palmiro e Nilde al principio della relazione. Il racconto del primo anno di segreta passione, dall’incontro a Montecitorio nell’estate del 1946fino alla convivenza nell’abbaino di Botteghe Oscure. Una vicenda che intreccia clandestinità, ostilità del partito e nascita dell’Italia repubblicana.
Amore e politica, per la prima volta parla Palmiro. E alla testimonianza di Nilde, arricchita negli anni con riserbo, si affianca quella del compagno. La loro storia sentimentale — gli affanni, il gioco e le gelosie, il lento scivolare l’uno nel bisogno dell’altro — ci viene raccontata anche da lui, il gran capo del comunismo italiano, allora ancora legato alla moglie Rita Montagnana. Una confessione a tratti sorprendente che si può leggere nella nuova e bellissima biografiaNilde Iotti. Una storia politica al femminile scritta da Luisa Lama, che ha avuto accesso al carteggio inedito ritrovato da Marisa Malagoli Togliatti, figlia adottiva della coppia.
Tutto cominciò da una «piccola carezza » azzardata sui capelli di Nilde, lungo lo scalone di Montecitorio. È il 30 luglio del 1946, da due settimane fervono a Roma i lavori per la nuova Carta Costituzionale. Ma nel retrobottega della grande Storia sta maturando la storia più minuta tra il mitico segretario comunista e la giovane deputata di Reggio Emilia. Li separano ventisette anni — 53 lui, 26 lei — e una gran quantità di cose: radici famigliari, formazione, status ed esperienza. Però lei è brillante, colta, di naturale eleganza. Chiacchierano di tutto, Ariosto, Boiardo e naturalmente politica. «Sei come una striscia di sole in una stanza buia», la corteggia lui in una delle prime lettere. Il tono è lieve, quasi allegro. Ma presto subentra il «sentimento di vertigine, come davanti all’abisso». Unosperdimento che lo abbaglia, Palmiro se ne ritrae piacevolmente spaventato. Non aveva mai provato quell’«impulso più forte della sua volontà», e teme di perderne il controllo. Da Parigi — dove è volato in agosto per parlare con Molotov del confine jugoslavo — arrivano i primi segni di resa. «Ho abbandonato me stesso a te come mai avrei pensato». E ancora: «Nec tecum vivere possum nec sine te». Né con te né senza di te. Pagine di block notes e fogli dell’Assemblea Costituente vanno riempendosi di parole d’amore, scritte a matita o a penna, mai con il leggendario inchiostro verde usato per il partito. «Nina mia». «Non posso più vivere così». No, questa è davvero un’altra storia.

“Senza di te non vivo più”
Palmiro Togliatti

ho fatto quegli ultimi cinque giorni a Roma? Da parecchio tempo non avevo più lavorato tanto e con tanta sicurezza di me. Credo se ne fosse accorto qualcuno dei compagni e qualcuno ne abbia inteso la ragione vera. Con tanta freschezza e impeto entrava il tuo sorriso nella mia vita che sembrava tutto rimuovere. Te l’ho detto una sera; come una striscia di sole in una stanza buia.
Parigi, 15 agosto 1946
Oggi ho avuto qualcosa da fare nella serata. Era festa e ho passeggiato con compagni e compagne della Spagna. Si ricordano del mio lavoro presso di loro e mi vogliono bene. Anche allora la mia vita era stata come è adesso, senza un istante di sosta per guardare dentro di sé, tutta presa dal combattimento...
Tu mi hai dato ciò che nessuna donna... Ho abbandonato me stesso a te come mai avrei pensato che avrei potuto fare. Forse era stata troppo forte la tensione continua di questi due anni e irresistibile il richiamo che da me stesso veniva. Ma forse è vera la cosa più semplice di tutte — che ti voglio bene. Senza di te non so pensare la mia vita.
Roma, 19 agosto 1946
Non credevo che avrei tanto sofferto, di non ritrovarti, di non sapere quando ti ritroverò, di non avere nulla di te, di non sapere quando l’avrò. Ora mi pare che non potrò vivere così...
28 settembre 1946
Quanto ho fatto verso di te e con te non è mai stata un’intenzione frivola... Ho seguito un impulso più forte della mia volontà. Mi pare che possiamo e dobbiamo solo andare avanti, come in certi passi difficili di montagna... Questa è la lettera più seria che ti ho scritto, cara, stracciala, bruciala, rendimela. Ma voglimi bene!
7 novembre 1946
Una cosa solo mi guiderà oltre a questa volontà, e voglio che tu lo sappia: il proposito di evitare a te che per l’affetto che tu mi porti, la tua vita possa essere più meschina di quella che la tua intelligenza e la tua devozione al Partito ti promettono.
18 agosto 1947
Nina mia cara, tu mi hai fatto il dono di te stessa, ma cosa ti ho dato io che sia degno di questo dono? Forse sono stato solo un grande egoista...

“Fino a quando m’amerai?”
Nilde Iotti

Tristezze in questo paese distrutto! Ho visto troppe rovine oggi. Questo senso di morte mi fa sorgere un monte di dubbi nel cuore. Fino a quando mi amerai?
23 agosto 1946
Se tu sapessi quanto sforzo io debba fare per parlare di me! E quale timore e quale angoscia io provo nel mostrare i miei sentimenti. Perché forse c’è stata sempre solitudine intorno a me. ... Quando ti dico che non ci sono stati uomini nella mia vita, tu non credi, ma è vero e la ragione forse è nel mio temperamento... Per la prima volta io non sono stata più sola e ho sentito cadere le sbarre della mia prigione, come per incanto... Non dire mai per me “voglio essere padrone della mia volontà” come hai fatto con le altre donne prima.
1 settembre1946
Ho immaginato come potrebbe essere la nostra vita. Un bel sogno, un bel ricamo della fantasia e null’altro, lo so.
4 novembre 1946
Oggi ho avuto una discussione con il segretario della nostra federazione (Reggio Emilia, ndr).È stato quasi un processo e sono venuta via profondamente umiliata... Eppure oggi mi sento di lottare con le unghie e con i denti per difendere un sentimento che è mio e solo mio.
Reggio Emilia, 9 febbraio 1947
Questa notte non ho dormito per niente in viaggio: mi martellavano nel cervello i nostri due nomi uniti nel silenzio dell’aula (nello spoglio per le elezioni di Terracini alla presidenza della Camera erano state contate due schede nulle: forse i due nomi di Nilde e Palmiro erano stati accostati da una mano non proprio amica, ndr). Ho creduto in quel momento di venir meno tanto mi sono sentita indignata e disgustata di così degenerato costume politico... Ho timore di tornare a vedere il tuo viso, di incontrare il tuo sguardo. Forse tu vorrai dirmi anche senza parole che non si può continuare, che bisogna troncare tutto? Non posso pensarci...
5 agosto 1947
Tu forse non ti sei accorto come ti guardavo in certi momenti, come ti seguivo con lo sguardo nei tuoi gesti, come a conoscerti in un nuovo aspetto per me, forse il più caro (s’erano trasferiti nella mansarda di Botteghe Oscure, ndr)...Ti amerò sempre come ti ho amato dal primo giorno, come ti amo oggi.

Corriere 23.6.13
La parità (farmacologica) dei sessi
Pronto il Viagra femminile, debutterà nel 2016
di Anna Meldolesi


Questa è la prima estate con il Viagra low cost, il brevetto è scaduto. Per la parità farmacologica di genere bisognerà aspettare ancora. Il pillolo è ancora un miraggio mentre il «Viagra rosa» potrebbe arrivare nell'estate 2016. Sarà un'altra rivoluzione sessuale? Trattandosi di donne è tutto più complicato. In un libro sulla scienza del desiderio femminile, Daniel Bergner sostiene che la quadratura del cerchio sarebbe trovare un farmaco «non troppo efficace», che sappia accendere la libido, senza sembrare una minaccia per l'ordine costituito.
Il sesso nell'era della sua riproducibilità tecnica (la definizione è di Pigi Battista) diventa più abbordabile con un tempismo perfetto, in sincrono con il calo del reddito degli italiani. Le prime confezioni sono già arrivate in farmacia e il primo giorno di vendita è andato benone, dicono. Parliamo del Viagra in versione generica, molecola identica (sildenafil) e nomi commerciali diversi. Quella del 2013 sarà la prima estate con le pillole blu low cost, perché il brevetto è scaduto. Per la parità farmacologica di genere bisognerà aspettare ancora. Cinquant'anni dopo la pillola anticoncezionale, il pillolo è ancora un miraggio. Per la compressa del desiderio il ritardo si profila più breve ma è ribaltato. La versione femminile potrebbe arrivare nell'estate 2016, diciotto anni e milioni di confezioni dopo il debutto del Viagra. Sarà un'altra rivoluzione culturale, sessuale e sociale?
L'industria farmaceutica insegue il «Viagra rosa» sin da quando è apparso chiaro che il blu sarebbe stato un campione di incassi. Ma trattandosi di donne anziché di uomini è tutto più complicato. Daniel Bergner ha pubblicato un libro sulla scienza del desiderio femminile («What do women want?» ovvero «Cosa vogliono le donne?») e sostiene che la quadratura del cerchio per big pharma sarebbe trovare un farmaco «non troppo efficace». Qualcosa che sappia accendere la libido, senza sembrare una minaccia per l'ordine costituito. L'idea che una pillola eccitante possa far collassare il modello monogamico su cui si basa la società in Occidente fa sorridere, ma la dice lunga sui sentimenti ambivalenti suscitati dalla sessualità femminile. Moralismi a parte, il problema tecnico finora è stato l'esatto contrario: riuscire a trovare una molecola che funzionasse meglio di una zolletta di zucchero, insomma meglio di niente. La fisiologia dell'eros mantiene ombre di mistero, anche se non mancano i volontari disposti a farsi scandagliare cervello e corpo con dispositivi indiscreti. Al bando gli stereotipi: gli uomini non sono solo ormoni e le donne non sono tutte psiche. Ma resta pur vero che rispetto alla disfunzione erettile maschile, la mancanza di desiderio femminile è una questione più mentale che meccanica. Negli ultimi anni diversi candidati farmaci hanno deluso le aspettative. Adesso fanno ben sperare due prodotti con un cuore attivo rivestito di testosterone al gusto di menta. Contengono una sostanza che stimola il flusso sanguigno oppure allenta l'autocontrollo. La prima sperimentazione, secondo il Journal of Sexual Medicine, è stata un successo. Se i prossimi trial lo confermassero e le agenzie competenti autorizzassero la commercializzazione a tamburo battente, cosa accadrebbe? Alcune donne probabilmente si libereranno da un peso, altre non proveranno neppure, alcune coppie forse scoppieranno e altre saranno felici. Un altro tabù sarà stato violato e l'estate del 2016 la passeremo a discutere: è vero che le donne sono più fedeli? Dicono ciò che fanno? E fanno ciò che vogliono?

l’Unità 23.6.13
Salviamo lo Yoga dall’Occidente
L’antica tradizione e le sue scuole rischiano di scomparire
C’è una frase di Wojtyla che definisce perfettamente la pratica: prendi in mano la tua vita e fanne una meraviglia
La proliferazione di tecniche «senza anima», di modelli fasulli in nome del dio denaro mette a rischio un vero e proprio patrimonio dell’umanità
Ne abbiamo parlato con l’insegnante Manuela Borri Renosto
di Stefania Scateni


IN ITALIA I PRATICANTI DI YOGA SONO CIRCA UN MILIONE E MEZZO E LE SCUOLE RICONOSCIUTE PIÙ DI OTTOCENTO (SOLO A ROMA SE NE CONTANO 147). Eppure le scuole classiche di Yoga rischiano di chiudere: sono poche e hanno gravi problemi di sopravvivenza. Ma, soprattuto, ciò che rischia di scomparire è lo Yoga stesso. Un paradosso segno dei nostri tempi, culto del corpo e della velocità, epoca del «tutto e subito» e dell’apparenza. Lo Yoga è una pratica antichissima, risale al secondo millennio avanti Cristo, e si riscontra già nel più antico dei Veda, il Rgveda con il significato di «unire», «imbrigliare». Si tratta di un insieme di tecniche che permettono di raggiungere l’unione dell’energia individuale con l’energia universale. Lo Yoga è un insegnamento racchiuso nelle sette tecniche della tradizione, al servizio di chiunque voglia intraprendere un percorso di conoscenza di sé, di consapevolezza e di armonia con il creato. Un patrimonio che, purtroppo, è stato saccheggiato, inquinato e smembrato. È un gran bel business: semplificato, ridotto a tecnica sportiva, edulcorato e contaminato, lo ritroviamo nei pacchetti delle palestre o in definizioni come il Trekking Yoga, il Kung Fu vs Yoga, il Totally Nude Yoga e altri modelli bizzarri. Oggi lo Yoga si fa in acqua, appesi a un’amaca, sfidando la gravità o con il cane (chiamato anche «doga», una via di mezzo tra la pet therapy e lo Yoga). A New York è di moda lo Slim Calm Sexy Yoga, mentre la California ha creato, insieme al richiestissimo Power yoga, una grande varietà di «yoga», modificati e brevettati. C’è lo Yoga «di» posseduto da Denise Austin, ad esempio, o «di» Karen Voight o «di» Linda Barker... e la lista potrebbe continuare a lungo.
Lo scenario odierno quindi è questo: lo Yoga, un patrimonio dell’umanità, viene costantemente azzannato e masticato a bocconi per motivi sostanzialmente di profitto. Come se chiunque avesse un trattore potesse portarsi a casa un muro affrescato di Pompei o una «mesa» della Monument Valley, per poi far pagare il biglietto a chi volesse vederlo. Per un’ironia del destino, la disciplina che «aiuta gli esseri umani a calmare la mente e a sconfiggere la dispersione mentale», in uno specchio rovesciato viene invece dispersa dalla bulimia della nostra società.
«L’Occidente non resiste alla tentazione di far proprio qualcosa, dargli un nome, metterci un’etichetta...» ci dice Manuela Borri Renosto, insegnante di grande tradizione e formatrice di insegnanti di Yoga.
Lei è stata una dei sei fondatori della Federazione Italiana Yoga. Con quale spirito lo avete creato? «Quando negli anni Settanta abbiamo fondato la Federazione, eravamo puri come angeli. Lo Yoga era già presente in diversi paesi europei e volevamo portarlo anche in Italia. E quando Gérard Blitz fondò l’Unione Europea delle Federazioni di Yoga trovammo necessario aderire al programma unico in Europa per le scuole di formazione. Eravamo tutti protesi alla valorizzazione e alla diffusione di questa disciplina»
Cosa è successo da allora a oggi?
«È difficile capire perfettamente cosa sia successo. Nonostante lo Yoga sia una disciplina che porta la consapevolezza verso il sé, bisogna anche vedere quanto coraggio ci si mette e quanto è forte l’aspirazione ad andare oltre... Nello Yoga si inizia un percorso che può non finire mai, e comunque non può fermarsi a un banale contentamento: bisogna aprire tante porte, guardare dentro di sé e trovare la lettura del libro antico della natura umana. Il primo degli incontri che lo Yoga permette di esperire è quello con le funzioni razionali della mente, l’Io, che va ascoltato, scandagliato, compreso. Una volta incontrato l’ego, ciascuno di noi può scegliere di tirar fuori tutto il suo coraggio per andare fino in fondo oppure fermarsi in uno dei vari condizionamenti. In tutti i tragitti di conoscenza del sé il percorso è questo. Cosa è successo nel mondo dello Yoga? È successo che è mancato un indirizzo dell’anima e si è data una enorme importanza alle tecniche, modelli utili ad espandere e rafforzare l’io, e non si è proseguito il cammino».
È per questo che alla fine degli anni Ottanta si è dimessa dai suoi incarichi nella Federazione?
«Sono sparita per 15 anni. Mi sono chiesta cosa volevo, se meritavo gli insegnamenti di Mére e dei maestri da cui ho imparato? Se ti accorgi che il tuo ego si è narcisizzato e senti che non è quello che vuoi, devi “ritirarti in grotta” e domandarti che cosa sei: faccio una carriera, faccio un lavoro o faccio una ricerca? Tutte tre le cose non puoi farle... E devi scegliere. Poi è accaduto di peggio: nel mondo sono nati 57 nuovi tipi di Yoga, che l’India rigetta, tutti costituiti di modelli, serie di tecniche. Sparisce il respiro, non se ne parla mai, figuriamoci la vibrazione. Proposte per una buona palestra, non per una scuola».
Lo Yoga, quindi, viene derubricato a disciplina. Per chi non lo conosce, può spiegare cos’è lo Yoga? «Lo Yoga è una disciplina che ha tecniche del corpo e del respiro che servono a scopo terapeutico; in questo scopo ci sono il movimento, il respiro, i suoni, vocali e consonanti... Non esiste “uno” Yoga, le tradizioni classiche indiane sono sette. Dalla mia scuola posso parlare solo dal punto di vista del Raja Yoga: la tipologia più antica e di natura psicologica. Il Raja indica a ognuno di cosa ha bisogno. Non esistono modelli buoni per tutti». Come ha cominciato?
«Nella via dello Yoga sono stata scelta dalle circostanze da amici e da un maestro bravissimo. Inizialmente, mentre ero in terapia junghiana con Mario Trevi e in contatto con il musicista e yogi Giacinto Scelsi. Poi ho capito che quel metodo che praticavo non era adatto a me e sono entrata in crisi. Poi ho incontrato una persona grazie alla quale ho potuto incontrare i testi antichi e cantarli, l’unico modo di comprenderli. Ho trovato ciò che era adatto a me, mi sono trovata a casa. E ho avuto una svolta, che ha portato alla decisione di lasciare tutto ciò che mi aveva dato un’affermazione sociale».
Ci racconta l’incontro a Pondicherry con Mére, la compagna di Sri Aurobindo?
«Pondicherry è stata una volata. Sono approdata all’hashram di Pondicherry con una lunga preparazione con Scelsi alle spalle. Eravamo un gruppetto, sei persone, i primi italiani ad andare in India. Mére non riceveva più nessuno da tempo a causa delle sue condizioni fisiche. Ma quella volta decise di vederci perché eravamo italiani e lei aveva un debole per la Toscana. Siamo stati con lei solo dieci minuti, ma mi ha toccato molto. Mi ha messo una mano sulla testa e mi ha detto: “Perché sei qui? Torna a casa, là è il tuo posto, hai tanto da fare”».
La sua scuola e il suo sito internet si chiama «Myoga»: non c’è modello e neanche definizione...
«A che linea d’insegnamento partecipi? Me lo chiedono spesso, ma contrariamente a quasi tutte le altre scuole, non ho una linea, un’etichetta, perché in realtà non c’è bisogno di un ombrello». Allora quali criteri si devono prendere in considerazione per scegliere una scuola di yoga? «Semplicemente basta avere una bella curiosità, un’attitudine aperta, bisogna fare come Alice, aver voglia di entrare in qualcosa ed esplorare, andarci dentro. All’inizio non è importante il tipo di scuola, perché non sapendo niente non si può scegliere, non si hanno gli strumenti per riconoscere quale tecnica sia la più adatta».
È vero che molte scuole hanno un problema di sopravvivenza?
«Purtroppo sì. Per attirare persone le scuole devono proporre tanti tipi di Yoga, “tecniche” allettanti o strane. Sono sicura che se proponessi il Kamasutra si iscriverebbero in moltissimi! Parlando seriamente il problema di fondo è che le persone sono state preparate male e le scuole di formazione sono diventate pian piano meno selettive. Come si salvaguarda la qualità? Lo Yoga ha bisogno di un percorso personale e che ci sia un insegnante, che trasmette».
Lo Yoga è uno stile di vita...
«Certo, ed è un lungo viaggio che ha bisogno di un solido addestramento che permetta il saper stare con se stessi e un’accettazione del limite che portino alla trasformazione. Un antico testo definisce lo Yoga la barca che permette di attraversare la grande acqua. La grande acqua rappresenta il mondo di ora e quello dell’eternità. E per poter navigare tu devi essere il nocchiero esperto, saperti orientare, conoscere le correnti e i venti. Devi essere creativo. Io sono atea ma guardo attentamente i vari pontefici che si sono succeduti. Wojtyla disse: “Prendi in mano la tua vita e fanne una meraviglia”. Questo è lo Yoga».

Hata, Mantra , Raja e non Trekking o Total Nude
La tradizione dello Yoga sono sette, raggruppate in due filoni: Bhavana Yoga, che comprende Jnana Yoga, Bhakti Yoga e Karma Yoga, che ricorre a ponderazioni psicologiche e a meditazioni; e Pransamyama Yoga, che comprende Mantra Yoga, Hatha Yoga, Laya Yoga e Raja Yoga con i quali, attraverso pratiche psicofisiologiche, si ottiene il controllo degli impulsi pranici. Tutto il resto, ovvero le 57 nuove «specie» di Yoga e altre «invenzioni» fantastiche in cui si usa la parola Yoga non sono Yoga, intendendo per questo la pratica di cui parlano i «Veda», l’antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XX secolo a.C. l’India settentrionale, tramandata dall’umanità fino ai nostri giorni. E che sicuramente sarebbe un bene prezioso per le generazioni a venire.

Corriere La Lettura 23.6.13
Tra l'Islam e i Lumi c'è di mezzo il Corano, il dialogo non esiste
di Hamid Zanaz


Sono la maggioranza i musulmani che ignorano la vera natura della loro religione. Invece che dal contenuto stesso del Libro, sono cullati da languide recitazioni del testo coranico. Per molteplici ragioni, ripetono di continuo frasi vaghe imparate a memoria, prive di fondamento, come per esempio: «L'Islam è una religione di pace, l'Islam è compatibile con la filosofia dei diritti dell'uomo, l'Islam non è misogino...». «Questo non ha nulla a che vedere con l'Islam!», protestano. Ma obbligare le donne a portare il velo, vietare che escano senza tutore, imporre una stretta separazione dei sessi, tagliare la mano al ladro, frustare i consumatori di alcol... tutto ciò è effettivamente nel Corano! Ogni religione porta in grembo l'integralismo che svela la sua vera natura. Secondo tutti i musulmani, nessun modo di vivere è valido o merita di essere sperimentato, se non quello definito dal Corano. E quindi, anche se tutti i problemi fossero risolti, l'integralismo sussisterebbe. L'Islam dei Lumi tanto atteso, tanto desiderato, l'Islam sognato è «impossibile». E non fa che sviare i giovani di origine musulmana dai valori universali, e attirarli ancora di più verso l'Islam, poi verso il fondamentalismo, infine verso il terrorismo. Nel suo libro scritto in arabo, Sulla divisione della terra secondo il fiqh islamico, Abdellah B., membro del Consiglio europeo della fatwa e della ricerca situato a Dublino, e non a Islamabad o a Riad, scriveva, nel capitolo dedicato alla jihad: «Fate la jihad contro i miscredenti con la vostra parola, la vostra persona, i vostri beni e le vostre mani». Ecco un buon consiglio di integrazione rivolto ai giovani di origine musulmana in Europa e in America! Messaggio già ricevuto perfettamente a New York, Madrid... e, di recente, a Londra e Parigi. Sono i jihadisti che «combatteranno sul sentiero di Dio, uccideranno e saranno uccisi...», come dice il Corano. Affinché «la parola di Allah rimanga la più alta», spiega ancora il libro sacro dei musulmani. Questa barbarie ha un nome: è l'ideologia islamica la cui essenza altro non è che la lotta contro tutto quello che non è islamico. «Se sei testimone di un'usanza non islamica, dice il profeta, falla cessare con la forza. Se non puoi farlo con la forza, condannala verbalmente. Se no, condannala nel tuo cuore». «Non ubbidire dunque agli infedeli, dice ancora Allah nel suo libro, e con questo (il Corano) combatti vigorosamente contro di loro». Non ci si può definire moderati quando si utilizzano nelle proprie preghiere simili versetti: «Combattete coloro che non credono né in Allah né nell'Ultimo Giorno, non proibiscono quello che Allah e il Suo messaggero hanno proibito e non professano la religione della verità — fra quelli che hanno ricevuto il Libro — finché non versino l'imposta di capitazione con le proprie mani, dopo essersi umiliati»; oppure: «Non esistono vicino a Dio animali più vili di quelli che non credono e che restano infedeli». Complimenti quindi a chi pretende di trovare una differenza essenziale fra l'islam e il suo «ismo». Ma con una sola frase, l'algerino Ferhat Mehenni smaschera tutti i film, libri, articoli, studi... che cercano di truccare la realtà, di creare una confusione semantica: «L'islam — dice Mehenni — è l'islamismo a riposo, e l'islamismo è l'islam in movimento».
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere La Lettura 23.6.13
Casaleggio
La democrazia va rifondata. Forza del web e «inerzia» della politica
«Un nuovo contratto tra cittadini ed eletti: referendum per sfiduciare i parlamentari»
«Oggi temo guerre per l'acqua o il petrolio»
di Serena Danna


Casaleggio, l'enciclopedia online Wikipedia definisce democrazia digitale «la forma di democrazia diretta in cui vengono utilizzate le moderne tecnologie dell'informazione e della comunicazione nelle consultazioni popolari». Si ritrova in questa definizione?
«No, la democrazia diretta, resa possibile dalla Rete, non è relativa soltanto alle consultazioni popolari, ma a una nuova centralità del cittadino nella società. Le organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate, alcune scompariranno. La democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato. È una rivoluzione prima culturale che tecnologica, per questo, spesso, non viene capita o viene banalizzata».
La democrazia diretta sostituisce il Parlamento?
«È più corretto dire che ne muta la natura, gli eletti devono comportarsi da portavoce, il loro compito è sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati. Ogni collegio elettorale dovrebbe essere in grado di sfiduciare e quindi di far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi in ogni momento attraverso referendum locali».
Lei ha sostenuto che la politica del futuro sarà fatta dai cittadini senza intermediazione dei partiti. Un sistema di democrazia diretta implica modifiche sostanziali della Costituzione, quali?
«Le più immediate sono il referendum propositivo senza quorum, l'obbligatorietà della discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, l'elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, l'abolizione del voto segreto, l'introduzione del vincolo di mandato. È necessario rivedere l'architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta».
In Italia un terzo della popolazione non è connesso a Internet. Tra i 40 milioni che si connettono almeno una volta al giorno, tanti ne fanno un utilizzo non funzionale alla partecipazione politica e al dibattito costruttivo. Come si coniuga il divario digitale con una politica mediata attraverso il web?
«Il digital divide in Italia è evidentemente voluto, se gran parte dei cittadini non può ancora connettersi alla Rete o non dispone della banda larga. Il MoVimento 5 Stelle ha ovviato a questo con incontri nelle piazze, attraverso banchetti presenti sul territorio e con il volantinaggio porta a porta. Si tratta in ogni caso di un periodo transitorio, nel tempo la maggioranza assoluta degli italiani sarà collegata in Rete. Internet diventerà come l'aria, come profetizzò Nicholas Negroponte».
In un sistema di democrazia digitale come avviene la selezione della leadership e della classe dirigente?
«La selezione deve essere fatta "dal basso", dai cittadini, che propongono le persone più adatte e di cui conoscono la storia e le competenze. Va considerato che il concetto di leadership è estraneo alla democrazia diretta. I movimenti di democrazia diretta rifiutano il concetto di leader. Occupy Wall Street, per esempio, ha coniato per sé stesso il neologismo leaderless, senza leader».
Una politica fondata sul non-luogo del web che rapporto ha con il territorio fisico?
«Il web non sostituisce il luogo fisico, ma lo integra e lo completa. Da anni si sta diffondendo la cosiddetta "realtà aumentata" che attraverso gli smartphone, i tablet e ora Google glass, consente di avere in tempo reale, mentre ci si sposta, informazioni su tutto ciò che ci circonda. In futuro sarà normale interagire con gli oggetti che ci circondano collegati in Rete. Lo stesso MoVimento 5 Stelle è nato dai cosidetti Meetup, attraverso un'applicazione di Rete di una società di New York che permette di incontrarsi in luoghi fisici sul territorio in ogni luogo del mondo e, allo stesso tempo, di condividere pensieri, documenti, filmati nel mondo digitale. Web e realtà sono destinati a fondersi».
Uno dei più grandi progetti di politica partecipativa di Obama, il portale aperto ai cittadini di petizioni online «We the People», ha raccolto in 3 anni solo 36 petizioni e la più votata può contare su 101 mila voti. Probabilmente la maggior parte degli elettori non ha e non vuole avere un'opinione su tutto: i cittadini non hanno né il tempo né le risorse cognitive per occuparsi delle politiche pubbliche e per questo delegano a esperti. Cosa ne pensa?
«In Rete, come nella realtà, è impossibile essere competenti su tutto. Però la Rete consente a gruppi con conoscenze e interessi simili dislocati nel mondo di mettersi in contatto e di formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto in tempi molto brevi, condividendo esperienze e fatti».
Si dice che il conflitto — il confronto tra posizioni divergenti — sia il sale della democrazia. Vale anche per la democrazia digitale?
«Le discussioni e i confronti in Rete sono continui attraverso i forum, le chat, i social media in una dimensione inimmaginabile prima nel mondo reale, e ciò avviene tra persone che vivono in ogni parte del pianeta. La domanda andrebbe rovesciata: "Il livello di confronto presente su Internet esiste nel mondo reale?"».
Segretezza (nelle trattative) e leaderismo sono due caratteristiche della politica. Crede che il web possa eliminarle? Perché è giusto farlo?
«La trasparenza è uno dei princìpi di Internet e credo diventerà in futuro obbligatoria per qualunque governo o organizzazione. Non è corretto che qualcuno decida per i cittadini in base a logiche imperscrutabili e senza renderne conto. Il parlamentare o il presidente del Consiglio è un dipendente dei cittadini, non può sottrarsi al loro controllo, in caso contrario non si può parlare di democrazia diretta e forse neppure di democrazia».
Nel video del 2009 «Gaia» viene annunciata la nascita di un nuovo ordine mondiale, dove vige un sistema di democrazia diretta basata sulla Rete. Il nuovo governo mondiale nasce il 14 agosto 2054. Lei è nato il 14 agosto 1954. C'è una relazione tra le date?
«Un gioco, come è stato un gioco la creazione del video, come è avvenuto per il video Prometeus che ipotizza il futuro dei media. Comunque che in futuro sia possibile una guerra mondiale — che non auspico — per le risorse come il gas, l'acqua e il petrolio, non sono certo l'unico a dirlo, e un governo mondiale con forti autonomie nazionali può essere nell'ordine delle cose».
Crede ancora — come si vede in «Gaia» — che nel 2020 ci sarà una terza guerra mondiale tra il blocco occidentale delle democrazie dirette (via web) e il blocco composto dalle «dittature orwelliane» di Cina, Russia e Medio Oriente?
«La Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l'accesso a un'informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un'organizzazione superiore. Può essere che si affermino entrambi. Certo, è molto più probabile che il controllo totale dell'informazione e l'utilizzo dei profili personali dei cittadini relativi a qualunque aspetto della loro vita avvenga nei Paesi dittatoriali o semi dittatoriali e che la democrazia diretta si sviluppi nelle democrazie occidentali e che queste aree in futuro confliggano».
L'idea di «intelligenza collettiva» descritta in «Gaia» implica un futuro (ipotizzato nel 2050) in cui i cittadini possano risolvere problemi complessi attraverso la condivisione di informazioni e dati online. Si ritrova ancora in quella visione?
«L'idea non è nuova e risale almeno all'inizio degli anni Ottanta, prima di internet. Nel 1983 partecipai a Stoccolma a una conferenza sui "sistemi esperti", applicazioni che condividevano i dati a livello mondiale per migliorare l'analisi su aspetti specifici, ad esempio sulle patologie del corpo umano. Con la Rete l'aggregazione di intelligenze a livello planetario potrà aiutarci a risolvere problemi considerati senza soluzione».
Lei è convinto che Internet e, in generale, le nuove tecnologie possano solo migliorare il rapporto dei cittadini con politica, economia, finanza. Gli ultimi anni hanno, in parte, smentito il tecno-ottimismo: attraverso il web si rafforzano anche gli estremismi; l'utilizzo massiccio del trading ad alta frequenza è stato tra le cause della crisi finanziaria del 2007-2008. Si sente ancora un «evangelista di Internet»?
«Non sono un evangelista di Internet, ma qualcuno che cerca di prevederne gli effetti sulla società, che possono essere positivi, ma anche negativi. In complesso, comunque, credo che internet apra all'umanità per la prima volta l'era della partecipazione e della conoscenza. Se questa porta verrà aperta o meno e come non posso dirlo, ma sono fiducioso».
Che idea ha di Julian Assange e dell'operazione Wikileaks?
«Ho un'ottima opinione di Assange. Ha rischiato e si è posto contro poteri enormi. La trasparenza in Rete è un'arma assoluta e lui l'ha usata. Spero di incontrarlo a Londra nei prossimi mesi».
Potrebbe indicarci dei punti di riferimento teorici per capire la rivoluzione digitale?
«La letteratura è molto ampia e multidisciplinare. Per avere un'idea della Rete e del suo impatto, è necessario rivolgersi ad autori provenienti da discipline differenti tra loro, come la matematica, la fisica, l'informatica, la sociologia, la statistica, le scienze politiche e della comunicazione, la linguistica. È necessario un approccio trasversale. Tra i testi che considero di riferimento vi sono Emergence di Steven Johnson, Six Degrees di Duncan Watts, Smart Mobs di Howard Rheingold, The Tipping Point di Malcom Gladwell, Free Culture di Lawrence Lessig e Linked di Albert-Laszlo Barabasi».
Nei lavori della Casaleggio Associati viene spesso messo in risalto il ruolo dei colossi del web (da Google ad Amazon) come intermediari della nuova produzione informativa e culturale. Non teme che la concentrazione di tecnica e sapere nelle mani di un oligopolio economico — come quello rappresentato dalle aziende in questione — sia una minaccia per il libero mercato e per una equa distribuzione di risorse?
«Il rischio è reale. Facebook e Google e altri colossi del web conoscono di noi più dei nostri amici e in futuro sapranno ancora di più. Queste informazioni possono essere utilizzate per vari scopi, non solo per proporci dei prodotti o dei servizi, come è stato evidenziato dal cosiddetto "Datagate". È opportuno un controllo più stretto sulla gestione dei dati personali da parte dei governi, un nuovo sistema di regole. I dati personali, a mio avviso, appartengono alla persona, non alla piattaforma che li usa o ai motori che li catturano attraverso le nostre ricerche, e dovrebbero essere sempre esterni alle applicazioni di Rete».
Lei scrive che la Rete è «anti-capitalista e francescana», eppure i colossi che la dominano sembrano essere i prodotti più avanzati del capitalismo neoliberista. Cosa ne pensa?
«Il capitalismo non è morto con internet ed è ovvio che lo sfrutti per ottenere il massimo di profitto, ma non credo che questa sia la tendenza nel lungo termine. In Rete le idee hanno un valore superiore al denaro. Il MoVimento 5 Stelle ne è una prova. Ha ottenuto un grande risultato politico senza soldi, grazie alla partecipazione diretta dei cittadini e alla condivisione delle proposte. Altri esempi sono il software libero, che permette a chiunque di scaricare dalla Rete gratuitamente decine di migliaia di applicazioni, o il copyleft (il contrario del copyright) su opere letterarie, video, immagini, brani musicali che ne consente l'uso senza alcun costo».
Il progetto Narvalo del team tecnologico della campagna presidenziale per la rielezione di Barack Obama ha fatto un massiccio uso delle tecniche di «data-mining» (estrazione e raccolta di dati) per convincere gli elettori prima a finanziare la campagna e poi a votare per il presidente. Tanti hanno descritto l'operazione come un esempio di innovazione politica, altri come una minaccia per la privacy dei cittadini. Lei cosa ne pensa?
«Con la Rete il vecchio concetto di privacy non è più realistico e lo sperimentiamo ogni giorno su noi stessi. Se i dati sono pubblici non ci sono violazioni, bisogna considerare che esistono decine di dati pubblici accessibili su di noi e che la loro aggregazione consente di ottenere un profilo molto dettagliato. Aggregatori come il sito americano Spokeo consultano in tempo reale decine di social network e di fonti pubbliche fornendo informazioni accurate in tempo reale sul profilo delle persone».
Il Partito Pirata tedesco, il primo in Europa a utilizzare la Rete come simbolo e strumento della propria battaglia politica, sta registrando nei sondaggi un fortissimo calo dei consensi. Molti attribuiscono il calo di popolarità del partito al focus su temi specifici. Ciò che è stato decisamente un punto di forza all'inizio, si sarebbe rivelato una debolezza: l'incapacità di dare risposte al cittadino su diversi temi cruciali della sua quotidianità avrebbe creato disaffezione. Qual è il suo punto di vista?
«Io credo che siano necessari, oltre al cambiamento legato a obiettivi specifici come il copyright, una forte capacità organizzativa, delle persone di riferimento e un progetto complessivo. Un progetto politico di Rete deve avere un respiro più ampio che non la sola soluzione di problemi contingenti, vanno ripensate le istituzioni e la società nel medio termine. Tutto cambierà. Il cittadino deve diventare istituzione. Le regole del gioco stanno cambiando».
La comunicazione via web del Movimento 5 Stelle sembra replicare un modello «broadcasting»: un blog-testata che comunica il messaggio dall'alto al basso, da uno a molti, per arrivare — effetto cassa di risonanza — su altri media: tv, radio, giornali. La presenza sui social media del M5S appare poco «social»: Beppe Grillo segue e ritwitta solo affiliati del movimento e non risponde mai su Twitter...
«La presenza di Beppe Grillo e del M5S è ovunque in Rete, non solo nel blog, ma in tutti i principali social media, nella piattaforma Meetup. La comunicazione, più che da uno a molti, avviene tra coloro che li frequentano. I post di Grillo sono l'avvio di una conversazione collettiva. Le domande più frequenti poste a Grillo in Rete spesso diventano materia di nuovi post che sono una forma di risposta altrimenti impossibile per i milioni di contatti».
È caduto il «divieto» per gli esponenti del Movimento di andare in televisione. Perché?
«Il divieto non è mai esistito nei confronti della televisione, ma verso i talk show, contesti nei quali non è possibile esporre le proprie idee in modo puntuale e che vivono di contrapposizioni suscitate ad arte per motivi di share. Il M5S ora è in Parlamento e la sua visibilità sarà necessariamente maggiore anche nelle televisioni che vanno considerate, comunque, un media in via di estinzione, anche per motivi economici legati alla diminuzione del gettito pubblicitario. Nel 2012 le sette principali emittenti nazionali hanno perso mezzo miliardo di euro e il 2013 è tutt'altro che incoraggiante».
Può dirci in che fase è la piattaforma di partecipazione politica del Movimento 5 Stelle e in cosa somiglierà e divergerà dal software LiquidFeedback utilizzato dal Partito Pirata tedesco?
«Il termine esatto è applicazione, più che piattaforma. Il software utilizzato consentirà ai parlamentari di presentare in anteprima le loro proposte di legge agli iscritti che potranno integrarle, commentarle, "complementarle" entro un periodo determinato; inoltre in futuro gli iscritti avranno anche la possibilità di suggerire nuove proposte di legge ai parlamentari. Già ora i parlamentari possono porre delle domande agli iscritti al MoVimento 5 Stelle in Rete e ottenere delle risposte. L'elezione dei candidati al Parlamento è stata fatta in Rete, così come i nomi proposti alla presidenza della Repubblica e l'elezione dei capigruppo e lo stesso è avvenuto per alcune votazioni comunali e regionali».
Distinguere il vero dal falso è una delle sfide più importanti per vincere la partita del web. Lei come si orienta e che bussola di orientamento propone?
«Per ogni informazione è necessario risalire alla fonte primaria e per le pubblicazioni in Rete purtroppo questo non sempre è vero. Anche per Wikipedia, che considera fonti attendibili i giornali e le riviste. Nel mio caso è stato pubblicato prima su una rivista e poi su Wikipedia che mio padre era un autista, ma, pur non avendo assolutamente nulla contro gli autisti, mio padre era un interprete di lingua russa».
L'esperienza maturata in questi primi mesi in Parlamento ha modificato la sua idea di Rete? Che cosa è cambiato da quando il Movimento è entrato nel «Palazzo»?
«Tutto quello che è successo, compresa la chiusura a riccio del Sistema per mantenere lo status quo e l'inesperienza dei neoparlamentari, era prevedibile, tranne l'attacco mediatico senza precedenti per l'Italia repubblicana, spaventoso, verso un nuovo movimento politico da parte dei giornali e delle televisioni. Nel medio-lungo termine sono comunque convinto che i movimenti prevarranno sui partiti, questo vale per il M5S ma anche per nuove formazioni che oggi non sono ancora visibili in Italia».
Qual è il più grande errore che ha commesso?
«La mia vita è piena di errori, scegliere è molto difficile».
E qual è il progetto di cui è più orgoglioso?
«In generale tutte le volte che attraverso il blog o il M5S siamo riusciti ad aiutare a dare voce agli emarginati o a chi era in difficoltà, come nel caso di Federico Aldrovandi (il diciottenne ucciso a Ferrara da poliziotti nel 2009, ndr). L'ultimo libro con Fo e Grillo, Il Grillo canta sempre al tramonto in cui si discute del senso del M5S, ne è un piccolo esempio attraverso la cessione dei diritti dei tre autori a un'associazione di bambini ciechi e a una di bambini sordomuti che versavano in gravi difficoltà».
Che cosa l'ha spinta a interessarsi di politica e del bene comune dei cittadini?
«L'indignazione per lo stato del Paese e la convinzione che un cambiamento era possibile grazie alla Rete».

Corriere La Lettura 23.6.13
Diamond sbaglia, i selvaggi non esistono. Un paragone controverso
Il direttore di Survival International critica la tesi che «le tribù vivano come fossili in stato di guerra perenne»
E gli abitanti della Papua Occidentale chiedono le scuse
di Stephen Corry


Il nuovo libro di Jared Diamond, Il mondo fino a ieri (Einaudi), mi dovrebbe piacere, pensavo. Dopo tutto, nella mia veste di direttore generale di Survival International, ho passato decenni a sostenere che abbiamo molto da imparare dai popoli tribali, e questo è il messaggio principale del libro «scientifico-divulgativo» di Diamond, almeno stando a quanto ci viene raccontato. Ma con la sua opera l'autore lancia due messaggi pericolosi che, se dovessero rimanere indiscussi, rischierebbero di riportare indietro di decenni i progressi compiuti nella difesa del diritto di 150 milioni di persone, appartenenti ai popoli tribali, a esistere e ad essere se stesse nel XXI secolo.
Il primo messaggio deriva da un pregiudizio molto comune, ma non per questo meno sbagliato: i popoli tribali sono dei fossili viventi, le ultime vestigia della società umana che fu. Secondo Diamond, questi popoli (che lui chiama «società tradizionali»), sebbene in parte modificati dal contatto, oggi vivono ancora più o meno come l'umanità visse «fino alla comparsa dell'agricoltura nella Mezzaluna Fertile, circa 11 mila anni fa».
La conseguenza logica di una simile argomentazione, spesso utilizzata dai governi per assimilare a forza i popoli tribali nella società dominante privandoli delle loro terre e risorse, è che, prima o poi, anche queste tribù dovranno «evolvere» e «progredire», proprio come hanno fatto tutti gli altri.
Ma l'idea che i popoli tribali contemporanei siano arretrati e vivano in qualche modo come gli antenati del genere umano è già stata contestata da molti scienziati e specialisti di preistoria. Come ogni società, anche quelle tribali cambiano costantemente nel tempo, anche se in modi differenti dal nostro; sono «moderne» e appartengono al XXI secolo esattamente come tutte le altre. Ed è naturale che siano cambiate, altrimenti non sarebbero sopravvissute.
Il secondo errore di Diamond (ed è incredibile quanto poco se ne stia parlando) è sostenere che «la maggior parte dei popoli tribali si trovano impegnati o intrappolati in uno stato di guerra perenne» e che, per questo, hanno bisogno dell'intervento benevolo del governo statale per smettere di uccidersi a vicenda. L'autore lo ripete all'infinito, sciorinando statistiche storiche calcolate in modo quantomeno discutibile e basando parte della sua teoria sul lavoro del contestato antropologo americano Napoleon Chagnon, che descrive gli indiani yanomami del Brasile come «scaltri, aggressivi e minacciosi», e impegnati «in uno stato di belligeranza cronica». Tutte queste affermazioni sono state ampiamente screditate da un gran numero di esperti.
Diamond sostiene fantasiosamente che la violenza diminuirebbe con l'avvento degli Stati-nazione e che il più grande vantaggio offerto dallo Stato sia quello di portare la pace. Tali affermazioni hanno suscitato l'indignazione degli abitanti della Papua Occidentale, un'area ben nota all'autore: lì, dal 1963, le autorità indonesiane hanno già ucciso circa 100 mila papuasi. Eppure, Diamond non ne fa neppure cenno. Dichiarandosi «scioccati» per il modo «fuorviante» con cui l'autore li dipinge, i papuasi hanno chiesto le sue pubbliche scuse. «Il numero dei dani (indigeni degli altopiani, ndr) morti per le atrocità commesse dall'Indonesia negli ultimi 50 anni è ben più grande di quello delle vittime fatte dalle guerre tribali dani in centinaia di migliaia di anni» ha dichiarato pubblicamente Markus Halukm, un membro anziano del Papuan Customary Council. «A causa delle operazioni militari, centinaia di migliaia di papuasi sono stati uccisi, torturati, sepolti vivi, incarcerati, rapiti, fatti sparire, e sono stati vittime di ogni altro tipo di violazione dei diritti umani. Il risultato è che l'etnia dei melanesiani della Papua Occidentale si sta estinguendo».
Potrei portare numerosi altri esempi dell'oppressione statale sui popoli tribali citati nel libro, tra cui il genocidio degli indiani a ché per mano dei coloni e dell'esercito paraguayani negli anni Settanta e le torture e gli arresti arbitrari inflitti ai giorni nostri ai boscimani del Botswana, colpevoli solo di voler cacciare nella terra ancestrale. Questo dimostra che, diversamente da quanto afferma Diamond, gli Stati non salvano i popoli tribali, ma che, anzi, l'imposizione del loro potere li uccide. Mettere a confronto i popoli tribali con le società industrializzate è sempre stata una questione di politica più che di scienza. Il modo in cui questi popoli vengono rappresentati e la maniera in cui sono trattati dagli estranei sono due aspetti strettamente connessi: le società industrializzate trattano bene o male le tribù a seconda del modo in cui le vedono, ma anche a seconda di quello che vogliono da loro.
Affermare che i popoli tribali sono «più violenti delle società industrializzate» ricorda le argomentazioni utilizzate da certi missionari, dagli esploratori e dai governi coloniali, dal XVI secolo in poi, per giustificare la «pacificazione» e la conquista dei «selvaggi» in terre lontane. Ma Diamond echeggia addirittura la propaganda imperialista quando afferma che, secondo lui, le tribù apprezzano questi interventi essendo «disponibili ad abbandonare il loro stile di vita della giungla» — un'affermazione contraddetta da un immenso numero di testimonianze e di prove raccolte nel corso di secoli. Queste idee sono tanto pericolose oggi come lo erano allora. Il mondo di ieri si ripeterà domani? Spero proprio di no.
(Traduzione di Francesca Casella)

Repubblica 23.6.13
Il sogno nel Rinascimento a Firenze
di Cesare De Seta


A me, proprio mentre guardavo questo profluvio di sciocchi di cui il nostro tempo abbonda, del tutto disgustato, venne in mente che per vivere secondo le mie abitudini il posto migliore è dove si rifugiano i sognatori »: queste parole Leon Battista Alberti le mette in boc-ca a Libripeta nell’intercenale del Somnium, introducendo un tema che affonda nella cultura più raffinata del Rinascimento e che avrà una sua restituzione visiva nel solare mezzogiorno e nel notturno e diabolico nord. Il sogno deve essere rappresentato: già, ma come? Visto che esso è inafferrabile persino a chi sogna e svanisce col sonno di chil’ha vissuto. Questa la temeraria sfida dell’iconografia nel corso di almeno due secoli, sfida che accettano molti artisti e mallo della mostra Il Sogno nel Rinascimento, a cura di Chiara Rabbi Bernard, Alessandro Cecchi e Yves Hersant, nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, a Firenze (fino al 15 settembre), catalogo Sillabe, con saggi dinon comune impegno e tenuta scientifica. Hersant nel testo fondante d’apertura, propone una tassonomia del tema innovativa, che ha il pregio di scompaginare le carte di una copiosa tradizione storico-artistica, avvalendosi, con understatement che apprezzo molto, di una lettura semiologica che è alla base delle sezioni che scandiscono la mostra.
Oltre settanta pezzi tra sculture, tele, manoscritti, disegni, libri ci raccontano il sogno, così come l’ha vissuto una cultura che affonda le sue radici nell’imitatio della natura, ma che dinanzi al sogno vive una renovatio che non è solo quella dell’Antico, ma un modo di vedere l’irrappresentabile. Combinando cioè fantasia e mimesi, termini che erano e potevano apparire inconciliabili.
Lorenzo Lotto nella tavola Sogno della fanciulla o Allegoria della Castità (1505 ca.) rappresenta un sereno paesaggio con alberi e montagne sul fondo, al cui centro sta una fanciulla vestita che sogna a occhi aperti, sulla cui testa piove una pioggerellina di fiori bianchi che sparge un Amore alato senza frecce o faretra. Una satiressa, dietro un albero, spia divertita un satiro: la composizione è un enigma, un filo teso tra voluptas e virtus.Virtù e voluttà sono per altro il tema del coevo Sogno del cavaliere di Raffaello, dove il Sanzio dispone il soggetto disteso a terra a occhi chiusi, alla destra una fanciulla con abito trasparente, e sulla sinistra un’altra con abito castigato e tra le mani una spadae un libro: l’allegoria è di trasparente evidenza e riprende il tema mitologico di Ercole al bivio. Il paesaggio è di una struggente malìa: poggi verdeggianti, un borgo e sul fondo un castello turrito, a sua volta allegoria della virtù. Ben altra l’iconografia adottata dal Correggio che inVenere e Amore spiati da un satiro (1521 ca.) fa sgorgare la sua sensualità nel corpo completamente nudo della dea, mentre Amore con ali e faretra dorme accanto: i riferimenti possono essere l’Arianna del Belvedere in Vaticano, Tiziano o Francesco Colonna delPolifilo.Il satiro sta a guardare la dea e l’ostentata bellezza del suo splendido corpo luminoso, ma essa dorme, ha occhi chiusi e induce alla contemplazione del bello e alla sublimazione dell’arte, come voleva Marsilio Ficino. Da associare e pressoché coeva il Risveglio di Venere, tela attribuita a Dosso Dossi: Cupido si scorge tra le nuvole e viene a destar la madre perché partecipi a una festa nuziale per assicurare fecondità all’unione. Assai diversa la tela con l’Allegoria di Pan (1528-32): opera complessa per le interpretazioni che sollecita. Una fanciulla nuda dorme, sotto un manto blu si scorge uno spartito, una vecchia tende le mani per proteggerla da Pan, pendant di un’altra fanciulla abbigliata: un grande albero d’aranci domina la scena e sul fondo si schiude un magnifico paesaggio sorvolato da amorini che scoccano frecce. Marco Paoli sulSogno di Giove di Dossi, Pacini Fazi editore, ha appena pubblicato un bel saggio molto pertinente al tema.
Ma se nel mondo mediterraneo i miti dell’Antico rivivono in forme sontuose che possono assumere forme erotiche e angeliche, nel nord dei Paesi Bassi il sogno assume fattezze diaboliche: il sogno diviene un incubo. Tale senza dubbio il caso di Hieronymus Bosch che nei quattro pannelli della Visione dell’Aldilà (1505-10) ci fornisce una versione postagostiniana e post-dantesca del Paradiso, con l’Ascesa all’empireo, la Caduta dei dannati e l’Inferno: sono queste due ultime tavole di una straordinaria drammaticità: sia per la scurissima cromia da cui emergono i mostri che tormentano i dannati, sia per il fuoco crepitante dell’inferno. Un’opera che è una sorta di premonizione di quanto si vedrà molti secoli dopo nella cultura simbolista e surrealista. La mostra ha anche il merito di offrire opere provenienti dai maggiori musei del mondo che in Italia di rado si sono viste.

Da sinistra, in senso orario, Dosso Dossi: Il risveglio di Venere; Sano di Pietro: San Girolamo appare a Sulpicio Severo e a Sant’Agostino;Francesco del Brina: Il sogno della vita umana; Fiammingo:Il sogno di Raffaello; Scuola di Bosch: Visione di Tondalo

Repubblica 23.6.13
Così Michelanelo creò Eva in quattro giorni
dipingendo sulla volta della Cappella Sistina
di Melania Mazzucco


Quelli che non si sentono all’altezza di un impegno, o non sanno lavorare sotto pressione e non riescono a concentrarsi se intorno c’è rumore, dovrebbero andare nella Cappella Sistina, fermarsi al centro dell’enorme sala, piegare il collo e guardare in alto. La volta interamente affrescata è un tripudio di colori e immagini — alcune, come laCreazione di Adamo, talmente famose che le conosce anche chi non le ha mai viste coi suoi occhi. Tutte quelle storie della Genesi, i Profeti e le Sibille, i Putti (o Geni), le scene bibliche nelle vele, gli Antenati di Gesù nelle lunette, le ha dipinte in circa 520 giornate un uomo solo, riluttante, quasi controvoglia e incalzato ogni giorno a sbrigarsi e concludere, anche con la convincente minaccia di essere buttato giù dall’impalcatura in caso di disobbedienza.
Quando Giulio II nel 1508 lo incaricò di affrescare il soffitto della cappella papale (allora più importante di San Pietro), Michelangelo tentò di sottrarsi. Non è la mia professione — si schermì, modestamente — sono uno scultore. Il papa non gli credette. Non era un teologo, piuttosto un politico e un generale, sicché non si effuse in spiegazioni dettagliate: si accontentava di qualche apostolo. Michelangelo — che aveva 33 anni — iniziò a pensare, studiare testi, disegnare, preparare i cartoni, poi montò i ponteggi in modo da non intralciare le funzioni religiose che dovevano continuare a svolgersi sotto di lui, e si accinse all’opera. Brontolando e protestando, litigò con tutti. Ma quell’impresa lo rivelò a se stesso — e presto anche al mondo. I suoi affreschisarebbero diventati un paradigma della storia dell’arte, e considerati opera quasi divina. Di eccezionale chiarezza, plasticità, espressività. Opera perfetta, sottratta al tempo, fonte e matrice di ogni pittura possibile. Ancora oggi, chi si sofferma sugli Antenati di Gesù nelle lunette resta sbalordito dalla modernità di quella galleria di famiglie e coppie, abbigliate in vesti dai colori acidi e iridescenti, colte in attitudini quotidiane, le donne mentre si pettinano i capelli o dondolano una culla, gli uomini mentre leggono o si accingono a una rissa — secoli prima di Degas, Vermeer e anche Pasolini, perché il primo ragazzo di vita l’ha dipinto Michelangelo nel 1512, coi ricci da pecoraro e gli orecchini da bullo.
La Creazione di Eva la dipinse nell’ottobre del 1511, quando ricominciò il lavoro dopo un’interruzione dovuta alla partenza del papa per la guerra. Procedeva a ritroso, dalle storie più recenti della Genesi verso l’origine. Così creò Eva prima di Adamo. Ma l’infernale fretta di Giulio II (non immotivata, peraltro: voleva vedere l’opera finita prima di morire, e vi riuscì a stento) aveva costretto Michelangelo a perfezionare la sua tecnica, la velocità esecutiva, la gestualità della pennellata (dipingeva in piedi, la «barba al cielo» e la testa arrovesciata, «con grande affanno e grandissima fatica», il pennello che gli sgocciolava sul viso), e anche a modificare il piano iconografico. Doveva semplificare l’immagine e ingrandire le figure, in modo che fossero perfettamente leggibili da terra, 20 metri più in basso, e scegliere con attenzione i colori — meglio se chiari e freddi — perché aiutassero adefinire le forme. Prima di Eva, però, dipinse gli Ignudi.
Come nelle scene precedenti (e in quelle successive), quattro Ignudi, ciascuno seduto su un plinto, incorniciano la scena biblica e sorreggono un medaglione bronzeo, che rappresenta a sua volta una scena biblica. Quei 20 giovani maschi nudi dalle carni sode, armoniosi, bellissimi — simmetrici e speculari, colti in ogni possibile torsione e inclinazione, in tensione muscolare, a riposo, simili e diversi come variazioni musicali — rappresentano il più straordinario campionario del linguaggio del corpo che sia mai stato realizzato. Non svolgono alcuna funzione narrativa, anzi volgono le spalle alla scena che inquadrano (o vi si intromettono con prepotenza): eppure non sono decorativi, ma necessari al senso dell’opera. Sono un omaggio alla bellezza del corpo dell’uomo — e dunque a Dio. Sono gli Ignudi a esaltare la bellezza della Creazione.
Nella pratica dell’arte il nudo maschile rappresentava una prova di virtù. Dal vivo o dalla statuaria classica, era oggetto di studio, tappa di ogni apprendistato. La penuria di modelli femminili e un inveterato pregiudizio di genere sulla superiorità dell’anatomia e della bellezza virile condussero all’eccellenza la raffigurazione dell’uomo. Ma il nudo maschile non era oggetto di contemplazione. Il nudo femminile seduce, il nudo maschile turba. Nel 1522 papa Adriano VI rimase scandalizzato da quell’esibizione di carne fresca sulla volta della Cappella Sistina. La definì «una stufa di ignudi», e ne sollecitò la distruzione (fortunatamente morì prima di attuarla). Mai maschi nudi hanno continuato a scandalizzare fino ai nostri giorni.
Solo dopo aver dipinto i 4 magnifici Ignudi — di cui merita menzione quello con la bocca tumida e la fascia tra i capelli, verde come gli occhi inquieti, di una bellezza quasi oltraggiosa — Michelangelo passò alla storia vera e propria. La creazione di Eva dalla costola di Adamo è troppo nota e non necessita commento. I cultori di una lettura tipologica della volta la interpretano come l’allegoria della nascita della Chiesa. Ma Michelangelo rese Eva molto umana. Ai contemporanei piacque l’attitudine modesta della donna, che nasce sottomessa, inchinandosi, le mani giunte in preghiera. Io apprezzo il paesaggio sommario (appena creato, ma già riconoscibile nei suoi elementi: acqua, cielo, erba, pietra) e la monumentale figura dell’Eterno — arcaica, come un ricordo di Giotto. Avvolto in un manto rosso-viola (in gergo “morellone”), intento a benedire con mano enorme la sua creatura, sembra compresso nello spazio pittorico, che non può contenere la sua immensità. Ma apprezzo ancor più l’efebico Adamo dormiente. Ancora un Ignudo, abbandonato nel sonno. Innocente e ignaro, poggia la schiena su un tronco — che prefigura l’albero della vita, e le sventure che la dolce compagna sta per attirargli. L’umiltà di Eva trasuda riconoscenza per la grazia ricevuta di esistere. Tutto ciò, Michelangelo lo dipinse in 4 giorni. L’Eterno in un giorno solo. Non credete ai proverbi. Non sempre la fretta è cattiva consigliera.

Corriere Salute 23.6.13
Perché rimane ancora attuale il «Giuramento» di Ippocrate
di Armando Torno


Chiunque apra un dizionario di filosofia scoprirà che abbiamo a disposizione, per comportarci nel migliore dei modi, numerose etiche. Qualcuno, ironizzando, sostiene che sono troppe. Negli ultimi anni si sono moltiplicate, ma una di esse riguarda tutti gli uomini: è quella della cura medica. Anche chi desiderasse ignorarla ne dovrà condividere, prima o poi, talune regole. Nella sua A Short History of Medical Ethics (Oxford University Press 2000) Albert R. Jonsen ha individuato tre temi principali che ne hanno contraddistinto la storia sin dalle origini, ovvero il decoro, la deontologia e l'etica politica. Si sta parlando di una medicina che non va confusa con quegli aspetti terapeutici della religione, né con le guarigioni praticate da maghi o da personaggi particolari. Elisa Buzzi, proprio partendo dal testo di Jonsen, ha da poco pubblicato una Etica della cura medica (La Scuola, pp. 160, 12) nella quale mette in evidenza come le questioni poste da tale materia coinvolgano tutti i settori della medicina e la società nel suo complesso, tanto che i tre temi ricordati «individuano altrettante sfere della filosofia morale». Mette in evidenza, tra l'altro, che quando si parla di etica della cura si delineano prospettive della filosofia del Novecento quali «la fenomenologia husserliana, l'analitica esistenziale di Heidegger, la riabilitazione della filosofia pratica, l'ermeneutica, l'etica dialogica e della responsabilità». C'è inoltre, per così dire, un antecedente diretto, vale a dire il pensiero femminista «e la sua critica ai modelli maschili di etica e bioetica». Il libro tocca poi gli innumerevoli aspetti che riguardano tale materia. Dalla relazione medico-paziente alla stessa definizione di malattia («problema centrale in medicina, non solo a livello teorico, con importanti ricadute pratiche nella clinica, complesse implicazioni sociali, economiche e giuridiche»), dai temi della sofferenza e della cura allo stesso ragionamento clinico. Il quale si può considerare, da Aristotele in poi, una delle espressioni migliori della ragione. Né si scordano le implicazioni etiche della cura medica, dove emergono temi quali la dignità della persona, il consenso, la fiducia. Oltre, naturalmente, il bene del paziente.
Ma se oggi noi possiamo parlare di tutto questo, porci questioni di bioetica, chiederci cosa dobbiamo intendere per malato o discutere di nuovi programmi di ricerca su taluni aspetti del dolore, il merito di aver posto razionalmente le prime domande — che oggi potremmo anche considerare in parte superate — va agli antichi Greci. L'origine della «medicina colta occidentale» è indissolubilmente legata al nome di Ippocrate, vissuto tra il 460 e il 377 circa dell'epoca precristiana. Il cosiddetto Corpus ippocratico non è una raccolta di opere organiche ma è costituito da scritti che vanno dalla fine del V secolo sino al primo della nostra era. Tra essi c'è il celebre Giuramento, punto di riferimento dei principi etici normativi; molte altre questioni sono affrontate nei testi chiamati deontologici (per esempio, La legge, I precetti) e anche in qualche trattato clinico (è il caso del primo libro delle Epidemie). Pur facendo riferimento a diverse scuole filosofiche, giacché nel mondo ippocratico esistevano numerosi orientamenti teorici e metodologici, stupisce la fermezza che caratterizza proprio le norme che si leggono nell'originale del Giuramento. Per fare degli esempi: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se sarà richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un simile consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo», oppure: «In qualsiasi casa mi recherò, entrerò in essa per il sollievo dei malati, astenendomi da ogni offesa e danno volontario e, tra l'altro, da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, siano essi liberi o schiavi»; e ancora: «Di quanto potrò vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori da esso riguardante la vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili». Principi che nascevano in un mondo in cui il medico era visto come una sorta di intermediario tra gli dei e gli uomini. I secoli non li hanno resi obsoleti, caso mai hanno diversamente interpretato le risposte da essi offerte, sovente si sono limitati a confermarli. E questo anche se taluni studiosi, tra i quali lo specialista di medicina antica Ludwig Edelstein (1902-1965), ritengono improbabile che il Giuramento abbia contribuito a diffondere un insieme largamente accettato di regole morali per i medici greci: sarebbe più ragionevole credere che lo status oggi attribuito a quel testo sia stato possibile soltanto in epoca cristiana.
Elisa Buzzi sottolinea che «l'aspetto più notevole dell'etica ippocratica è lo stretto legame tra metodo razionale e orientamento morale». Il Giuramento, che consideriamo un'epitome della deontologia medica, è stato ritenuto dal medesimo Edelstein (in Ancient Medicine, John Hopkins University Press 1967) un «manifesto pitagorico». In esso sarebbe confluito il sapere filosofico e religioso di una scuola che aveva fissato regole alimentari e comunicative molto severe e che si caratterizzava per le sue conventicole non aperte al pubblico. Potrebbe insomma essere che questo documento-base dell'etica medica occidentale altro non fosse che una formula di iniziazione per la confraternita elitaria che si ritrovava nel nome di Pitagora. Soltanto più in là nel tempo sarebbe diventato un punto di riferimento per l'umanità. È il caso di aggiungere in margine a queste osservazioni che il Giuramento potrebbe indicare la nascita della corporazione dei medici e che i processi di affinamento e di contaminazione da esso avuti nel tempo sono ancora materia di riflessione. D'altra parte, per fare un esempio, quando l'etica ippocratica incontrò la filosofia stoica la medicina diventò una professione. Fu Scribonio Lago, medico militare durante il tempo dell'imperatore Claudio, che aiutò codesta nascita, determinando ruoli e doveri di coloro che intendevano praticarla. Le virtù richieste allora erano misericordia e humanitas. Altre se ne aggiunsero e il Giuramento non fu più possibile dimenticarlo. Oggi, anche se si utilizza l'espressione «etica post-ippocratica», i principi dell'antica Grecia continuano a essere evocati, fosse anche per ricordare che essa non è più in grado di rispondere con le sue norme alle complesse questioni della medicina contemporanea, rivoluzionata dalla tecnica e dai nuovi orizzonti da essa disegnati. In tal caso si può dire che la crisi di una tradizione ne prova la sua grandezza, perché di essa è rimasta la magnifica morale.

Corriere Salute 23.6.13
Il dialogo fra medico e paziente


Oltre ad averci lasciato il «Giuramento», Ippocrate ha posto in evidenza l'importanza del dialogo tra medico e paziente. Inoltre ritenne che lo stato di malattia o di salute di una persona dipendessero da circostanze umane del soggetto stesso, non da interventi divini. Al suo nome resta legata quella che noi chiamiamo cartella clinica; teorizzò la necessità di osservare i pazienti prendendone in considerazione aspetto e sintomi, introducendo per la prima volta i concetti di diagnosi e prognosi. Ippocrate credeva che soltanto la considerazione dello stile di vita del malato permettesse di comprendere e, di conseguenza, di sconfiggere la malattia da cui era affetto. Va inoltre aggiunto che l'influenza delle prime considerazioni scientifiche presenti nell'area filosofica della Ionia (a cominciare da Talete e Anassimandro) resero più razionali le osservazioni tipiche dei medici itineranti greci, ricordati nei poemi omerici.

Corriere Salute 23.6.13
Polmoni salvati prima ancora che respirino
L'operazione alla 28esima settimana
di Riccardo Renzi


Si può salvare una vita anche mettendo un «tappo» in gola che faccia espandere i polmoni.
È possibile perché il paziente in pericolo ha una fisiologia diversa dalla nostra, non respira ancora. Perché la vita in questione è quella di un feto di 28 settimane.
Si tratta di un intervento nuovo per l'Italia e recente, non più di 10 anni, nel mondo. Serve a tentare di risolvere le conseguenze di una malformazione dello sviluppo fetale, l'ernia diaframmatica, che può colpire un bambino ogni 3 mila nati.
Poiché in Italia i nati ogni anno sono circa 600 mila, sono 200 all'anno i feti che presentano questo problema.
L'emergenza da affrontare è costituita da un'apertura, un foro, nel diaframma, il muscolo che separa il torace dall'addome. Tale apertura provoca la «risalita» dei visceri nella cavità toracica.
Questo spostamento avviene a danno dei polmoni, organi particolarmente delicati nel feto, che vengono compressi e rischiano di non svilupparsi a sufficienza.
Nella maggior parte dei casi, i bambini che presentano questa anomalia, identificata grazie all'ecografia, vengono operati subito dopo la nascita. Per questo intervento molti Centri italiani sono preparati e attrezzati. Nei casi più gravi, quelli in cui per il feto le probabilità di arrivare a termine sono molto basse, si può tentare di intervenire prima della nascita. In questo caso c'è un solo Centro, in Italia, la Clinica Mangiagalli di Milano, che può farlo.
«Operiamo in fetoscopia — spiega Nicola Persico, chirurgo fetale della Mangiagalli—. Inseriamo cioè una sonda (simile a quelle che si usano in neurochirurgia), dotata di telecamera, attraverso l'addome della mamma e la bocca del bambino. Il feto viene "addormentato" con un'iniezione, la sua prima puntura nella natica. Quando arriviamo alla trachea, viene espulso e gonfiato un palloncino, che va a occludere il passaggio e impedisce che i liquidi polmonari fuoriescano. L'accumulo di fluidi all'interno dei polmoni li mantiene in espansione. Il palloncino viene inserito alla 28esima settimana e verrà poi tolto, con la stessa procedura alla 34-35esima settimana, poco prima del parto».
È stato appunto Nicola Persico, ginecologo, studi a Bologna, a «importare» in Italia questa tecnica dopo quattro anni di specializzazione a Londra sotto la guida di Kypros Nikolaides, guru internazionale della chirurgia fetale.
Affiancato da una altrettanto giovane ricercatrice, Isabella Fabietti, e coadiuvato da una squadra di chirurghi-pediatri, neonatologi e anestesisti della Mangiagalli, ha organizzato un nuovo servizio ospedaliero specializzato nella più delicata delle chirurgie.
«Abbiamo cominciato da poco più di un anno — dice Persico — e siamo soddisfatti dei risultati. Nel primo anno abbiamo fatto 10 interventi, tanti, considerando che gli altri tre Centri europei che utilizzano da tempo questa tecnica (a Londra, Barcellona e Leuven, in Belgio) ne fanno 12-15 all'anno. Anche i risultati sono in linea con quelli degli altri Centri: trattandosi di casi molto gravi, c'è una sopravvivenza del 60%. Se non si intervenisse, potrebbero farcela al massimo 3 su 10: in pratica questa tecnica raddoppia la sopravvivenza».
Ma quanto soffre il feto? «Non so rispondere per quel che riguarda la sofferenza esistenziale, — dice Persico —, ma il dolore fisico certamente lo sente. Per questo operiamo in anestesia».
La cura «precoce» dell'ernia diaframmatica è così diventato il secondo intervento più frequente eseguito nel Centro di chirurgia fetale della Mangiagalli, uno dei tre esistenti in Italia.
L'intervento più comune riguarda un non raro problema che affligge i gemelli monovulari: alcuni di essi presentano uno squilibrio nella circolazione sanguigna, per cui uno dei due gemelli «assorbe» troppo sangue a scapito dell'altro, ma con gravi conseguenze per entrambi.
In questi casi il chirurgo fetale interviene a bloccare alcuni vasi bruciandoli con una sonda laser. Lo stesso strumento viene impiegato per bloccare la vascolarizzazione di rari tumori, scoperti attraverso l'ecografia. In altri casi il chirurgo interviene inserendo un tubicino che favorisce il drenaggio in caso di versamento toracico.
Come si vede la chirurgia fetale che ha a tutt'oggi una validazione internazionale è basata su interventi relativamente «dolci», meno traumatici possibile. Molte tecniche sono in sperimentazione (per la spina bifida, la vescica, persino sul cuore), ma non ancora certificate da studi definitivi.
«Per ora quello che si fa è soltanto la punta di un iceberg — precisa Fabio Mosca, direttore della Neonatologia e Terapia intensiva neonatale della Mangiagalli —. Ma è già qualcosa, perché salviamo delle vite, ottenendo non miracoli ma significativi miglioramenti. Abbiamo intanto dimostrato che in Italia si può fare e sappiamo farlo, grazie al lavoro di équipe multidisciplinari. Almeno per quel che riguarda l'ernia diaframmatica sono finiti i viaggi della speranza e questo è per noi motivo di orgoglio. E vorrei ricordare, di questi tempi ci sembra giusto, che tutto è gratuito, a carico del Servizio sanitario e che per le famiglie che vengono da fuori Milano abbiamo organizzato centri di accoglienza, supportati dalle organizzazioni di volontariato».

Foucault, Deleuze, Löwith, Gadamer, Pareyson...
Repubblica 23.6.13
Maestri, amori, disperazione del fondatore del pensiero debole
Gianni Vattimo
“La mia vita è piena di sensi di colpa finirò per fare il predicatore religioso”
“Quando capii la natura della mia sessualità mi venne un’ulcera”
intervista di Antonio Gnoli


Gianteresio “Gianni” Vattimo è nato a Torino il 4 gennaio 1936. Tra i più importanti filosofi italiani, negli ultimi anni si è dedicato anche alla politica

Ormai fa coppia fissa con Sancho. Mentre siamo a tavola davanti a un piatto di involtini primavera cucinati dalla domestica filippina — una suora laica, scoprirò più avanti — Sancho scuote pigramente la testa e guarda incuriosito l’intruso, che poi sarei io. «Non è geloso, glielo assicuro», dice Gianni Vattimo, «è solo che gli piace essere al centro dell’attenzione. I gatti sono così: un misto di curiosità, indifferenza e abitudine». La conversazione va avanti già da un po’. Prima nella penombra del salotto. Poi qui nella stanza dove ceniamo, ricompresa nel vasto appartamento torinese. C’è un poster colore rosso acido che attira la mia attenzione: ritrae Vattimo, sotto una frase di Keynes: «La repubblica dei miei sogni si colloca all’estrema sinistra della volta celeste». «Fu un dono di certi amici per i miei settant’anni», ricorda il professore.
Si sente anche lei all’estrema sinistra di qualcosa?
«Sono affetto da un sinistrismo legato alla mia militanza cattolica. A volte sogno un comunismo ermeneutico la cui verità si realizzi nel dialogo».
Non è più una posizione liberale?
«No, il mondo liberale è stato inghiottito dal liberalismo che ha cancellato ogni forma di verità e di dialogo. Il comunismo al quale io penso non è quello scientifico, con pretese positivistiche. Sono convinto che se Stalin avesse letto qualche pagina sul pensiero debole avrebbe probabilmente ammazzato molta meno gente».
Ho qualche dubbio.
«Lui ha fatto quello che da noi eseguono i governi tecnici: ciò che era necessario, in quel caso, per l’industrializzazione forzata dell’Urss. Bisogna guardarsi da coloro che si appellano all’oggettivitàdelle cose».
Realismo uguale repressione?
«Vanno a braccetto. Forse per questo i governi occidentali a quanto pare acquistano sempre più armi da antiguerriglia urbana».
Era una considerazione alla quale giunse parecchi anni fa Michel Foucault.
«Vedeva l’Occidente sempre più preda dei controlli. Sorvegliare e punire. E non solo nelle cliniche per matti o nelle carceri. Ma nei centri urbani. Si era invaghito della rivoluzione iraniana. Lo conobbi nel 1964, o forse era il ’65, in un’abbazia non lontana da Parigi dove si teneva un convegno su Nietzsche. Era abbastanza scostante, non cercò neppure di sedurmi».
Allude alla sua omosessualità?
«Scherzo, naturalmente. Anche perché allora non si sapeva niente di nessuno. Comunque arrivai fin lì da Heidelberg — dove studiavo con Löwith e Gadamer — mi presentai, con la mia faccia da ragazzino, a Gilles Deleuze, che era l’organizzatore. Mi squadrò sorpreso. Gli sembravo troppo giovane. Volle leggere la relazione prima, non si fidava».
Com’era Deleuze?
«Aveva certi unghioni stranissimi, sembrava un vampiro. Anni dopo ho introdotto in Italia qualche suo libro. Ma le confesso che del suo pensiero ho capito ben poco».
Si creano equivoche leggende.
«Un giorno fui invitato a Seattle a un convegno sull’architettura post-moderna. Un tizio mi introdusse e cominciò a citare i miei libri. Non capivo nulla di cosa stesse dicendo. Mi sembravano delle follie».
È l’ermeneutica quando impazzisce.
«Come la maionese. La filosofia può essere un bel gioco ma non tutti i giochi sono filosofici».
Lei con chi ha studiato filosofia?
«Mi sono laureato con Luigi Pareyson nel 1959. Mi ero allora invaghito di Adorno e dei francofortesi. Pareyson mi disse: “Ma perché vuole studiare questi qui? Si dedichi piuttosto a Nietzsche che è alla base di tutti loro”. Cominciai così. Poi nel 1960 comparve il libro di Heidegger su Nietzsche. Per leggerlo avrei dovuto conoscere il tedesco. E allora mi recai a studiare in Germania».
Prima della filosofia cosa era accaduto nella sua vita?
«Di rilevante il fatto che avessi lavorato in Rai. Entrai nel 1954 con un concorso. Me ne andai dopo qualche anno su sollecitazione del mio direttore spirituale che considerava l’ambiente televisivo un luogo corrotto».
Il direttore spirituale?
«Monsignor Caramello, grande studioso di San Tommaso.
Sosteneva che la mia vocazione era la filosofia. Naturalmente, sperava che diventassi un filosofo cristiano».
E lei l’ha deluso?
«Fino a un certo punto. Come si dice? Santi in chiesa e fanti in taverna».
Crede nell’aldilà?
«Sarebbe un’affermazione azzardata. Credo di più nella speranza di una giustizia divina senza la quale non muoveremmo neanche un dito nella storia. Poi, se l’anima esala e va da qualche parte, non lo so. Non si può spiegare tutto. Le confesso però che la sera, prima di dormire, recito delle parti del breviario. È la compieta».
È cosa?
«Nella liturgia delle ore è l’ultima preghiera della giornata. È molto bella».
Cosa le trasmette?
«Un senso di tranquillità. Ho cominciato a recitarla quando si ammalò il mio amico Giampiero. Mi faceva stare meglio. In fondo, è come se mi figurassi di quando ero piccolo e avevo più speranze nel futuro. La religione è un’abitudine infantile che ti porti dentro».
«Erano gli anni della guerra. Ricordo i fischi delle bombe a Torino in Borgo San Paolo. Distrussero la casa dei miei genitori. Decidemmo di raggiungere alcuni parenti di mio padre in Calabria. Mia madre aveva quarant’anni e si adattò a tutto questo stravolgimento. Restammo lì dal 1942 al 1945. Tornammo a Torino andando incontro alla povertà più assoluta. La mamma si mise a fare la sarta e io l’aiutavo nel sopraggitto: è un punto di cucito nel quale divenni particolarmente abile. In fondo, il mio provvidenzialismo si lega a delle situazioni di assoluta disperazione».
Disperazione anche quando scoprì le sue tendenze sessuali?
«Venivo pur sempre dal mondo cattolico, dove la repressione ha la sua importanza. Dicevo interi rosari con le mani sul pavimento sotto le ginocchia. Un male tremendo e avevo diciotto,forse vent’anni. Quando compresi la natura della mia sessualità mi venne l’ulcera. Mi operarono ed ebbi la fortuna di conoscere un ballerino cubano, con cui sono stato per un paio di mesi».
«No, perché in realtà già sapevo. Ma fu la liberazione. Era il 1968. Per lungo tempo degli orientamenti sessuali non ho parlato con i miei amici, con le persone che mi stavano più vicine».
Le sue scelte si rivestono, di solito, di un senso di ironia.
«Direi più di epicureismo. Gratta gratta, sono una persona che non è mai diventata padre. Mi considero più giovane di quanto in realtà sia e, a volte, mi comporto come un
che in un signore di quasi ottant’anni suona alquanto ridicolo».
«Certe volte, soprattutto in passato. Ma ora non più. E poi credo che uno debba vivere bene l’esperienza di figlio prima di averne di propri. E io non l’ho vissuta nel migliore dei modi. Ho sognato una sola volta che sciavo dietro mio padre; ma io mio padre non l’ho mai visto. Quando è morto avevo un anno e mezzo.Però posso dirle che ho un sacco di “figli di puttana”, o meglio, di giovani amici di cui sono diventato una specie di padre. Vengono spesso a mangiare qui, attorno a questa tavola. Mi spolpano».
«Un po’ sì. Ho sempre pensato che sia più facile dire sì che dire no. Non mi so difendere abbastanza dai legami che si incrostano e che, come dice un’amica, diventano delle spese fisse».
«Per molti anni non mi sono amministrato da me. Prendevo lo stipendio e lo consegnavo a mia madre. Era lei a darmi i soldi. Non ho mai fatto preventivi sul denaro. Finché ce ne è bene, poi si vedrà».
Accennava alla malattia di un suo compagno. Poi si è aggiunta quella di un altro amico. Cosa è stato per lei il dolore di vedere morire due figure così care?
«A volte mi rimprovero di essere diventato un po’ cinico. Esperto in un genere letterario un po’ particolare: i necrologi. Ma in certi momenti mi viene il magone. L’altra settimana viaggiavo in macchina con un giovane amico che aveva messo una canzonetta in cui c’entrava Fidel Castro. Improvvisamente mi sono messo a piangere. Non mi era mai accaduto. Almeno non così platealmente. E ho pensato: sto invecchiando. Poi mi è tornato alla mente che in quel famoso convegno su Nietzsche, quando fu il mio turno di parlare, Gabriel Marcel si mise a piangere. E io pensai: ma guarda che discorso commovente che sto facendo. Un collega guardandomi disse: non ti preoccupare, da quando è vecchio lui piange sempre se ascolta qualcuno al microfono. Un’amica psicologa dice che vivo di sensi di colpa. Li ho ormai così estesi che se di notte prendo un taxi mi scuso con il tassista se il percorso è breve».
«No. Tanto tempo fa, la moglie di Pareyson voleva che entrassi in analisi. Diceva: si sbrighi, che poi diventa vecchio».
«Come per tutte le cose, quando è tardi è tardi. Ma non sono un campione degli addii».
Che ne è del giovane brillante, il primo della classe, che stupiva i professori?
«È una zona del passato che ogni tanto mi piace rievocare. C’è sempre un tempo in cui il pugile ha danzato sul ring».
Dà l’impressione che non gliene freghi più molto della filosofia.
«Da quando ho scoperto la prassi sono un po’ distante dalla filosofia accademica. Vogliamo ancora dare un contributo a una nuova lettura di Heidegger? Boh. La verità è che non mi sento più a mio agio nei convegni troppo tecnici. Sto rileggendo Spinoza e in particolare il Aveva intuito e anticipato che la vera religiosità è postmoderna. La religione non ha niente a che fare con certe asserzioni, tipo Dio c’è o Gesù è resuscitato. Cosa ne sappiamo? Ma è laverso gli altri il solo modo di vivere l’amorintellettuale. Finirò col fare il predicatore in qualche comunità religiosa, magari concedendomi qualche libertà nei costumi».

l’Unità 23.6.13
Stanley Kubrik
A fine luglio nelle sale il primo film inedito

C'è un film inedito di Stanley Kubrick: «Fear and desire», il primo del grande regista angloamericano, che, girato nel 1953 e completamente autoprodotto segnò l'inizio della sua carriera. Ora quella pellicola («Paura e desiderio», nella traduzione italiana), arriva nelle sale cinematografiche italiane per tre giorni: il 29, 30 e 31 luglio prossimi. L'allora 25enne Kubrick lo realizzò in California su una sceneggiatura di Howard Sackler, con un budget limitato.