l’Unità 9.2.13
D’Alema: noi l’alternativa a populisti e tecnocrati
Il presidente dela Feps accoglie a Torino i leader progressisti della Ue
Oggi il video di Hollande e la chiusura di Bersani
di Simone Collini
«Ve lo dico come esponente del centrosinistra italiano, più che come presidente della Feps: la vostra presenza qui è molto importante, questa discussione si sviluppa nel vivo di una campagna elettorale molto rilevante per il nostro Paese ma anche per l’Europa». Massimo D’Alema accoglie leader di partito, studiosi e i vertici istituzionali di gran parte degli Stati comunitari mettendo subito in chiaro qual è la posta in gioco: è necessaria una svolta politica nell’Unione e la possibilità che si realizzi è legata anche all’esito elettorale di casa nostra.
Non che non lo sappiano, i capi di Stato e di governo e i leader progressisti arrivati a Torino per questa seconda tappa del progetto «Renaissance for Europe». A cominciare da François Hollande, che ha inviato un videomessaggio all’iniziativa, organizzata dalla Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps) insieme a Italianieuropei, alla francese Jean Jaurès e alla tedesca Friedrich Ebert Stiftung. Il presidente francese ha rotto per primo l’asse conservatore, ma ora deve poter contare su altri partner progressisti per portare avanti le battaglie contro l’austerity fine a se stessa e per la crescita.
Le difficoltà incontrate al vertice di Bruxelles sul bilancio Ue (i cui esiti non sono ritenuti dai partecipanti all’incontro così «soddisfacenti» come dice Monti, anzi) ne sono una riprova. E allora è proprio per questo che bisogna insistere sul punto: è interesse di tutti lavorare alla definizione di un progetto comune per il rilancio del processo di integrazione, e che ci sia, oggi in Italia e tra pochi mesi in Germania, una vittoria del fronte progressista.
Attorno al tavolo allestito al Teatro Regio di Torino siedono economisti, storici, esperti di diritto provenienti da Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, Slovenia, Portogallo. Tutte le ricette che espongono per far fronte alla crisi possono essere sintetizzate sotto il titolo: serve non meno, ma più Europa. «Per uscire dalla crisi bisogna dare a Bruxelles più potere, più strumenti, una fiscal capacity che oggi non ha, perché allora sarebbe anche inutile rimettere mano ai trattati», dice Giuliano Amato. Ma serve anche un’Europa diversa, più attenta ai diritti, come sottolinea nel suo intervento Stefano Rodotà. «Oggi c’è un’Unione inadempiente rispetto ai diritti da essa stessa affermati», dice il professore citando la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue sottoscritta dai vertici comunitari nel dicembre del 2000. Rodotà sottolinea «l’inadeguatezza della sola logica economica», che i trasferimenti di sovranità sono ben accetti e che però «diventano legittimi quando sono in grado di garantire un ampliamento della democrazia». È così, oggi? Ad ascoltare gli interventi degli studiosi provenienti da ogni angolo dell’Unione non si direbbe. E i rischi, se non si cambia rotta, sono pesanti. Dice D’Alema puntando il dito contro le posizioni antieuropee e populiste di Berlusconi e Grillo: «Il sorgere del populismo appare come l’altra faccia dei limiti tecnocratici della costruzione europea. Mostra cioè come l’Europa sia percepita: un luogo lontano, opaco, dove si assumono decisioni sempre più importanti per la vita delle persone, senza che possa esercitarsi quel controllo diretto e quelle forme di partecipazione che sono proprie della nostra tradizione democratica. Dunque, visione tecnocratica dell’Europa e populismi nazionalisti sono due facce della stessa crisi della democrazia europea. Se ne esce innovando, rafforzando l’unione politica, ma soprattutto la sua dimensione democratica. E, nello stesso tempo, cambiando le politiche dell’Unione». In questa seconda tappa del progetto «Renaissance for Europe» si discute soprattutto della prima questione e oggi, quando parteciperanno ai lavori anche il leader del Pd Bersani, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il segretario dello spagnolo Psoe Alfredo Peréz Rubalcaba, del francese Ps Harlem Désir e i primi ministri di Belgio, Romania e Croazia, si lancerà la proposta di presentare un candidato comune per la presidenza della Commissione Ue da far eleggere con le europee del prossimo anno (Monti?, domandano a D’Alema nel corso di un videoforum con la Stampa, e la risposta è «Si può candidare, visto che ci ha preso gusto»). Oggi verrà anche siglato un documento per una «Unione democratica di pace, prosperità e progresso». Un “manifesto di Torino” insomma, che fa seguito a quello di Parigi sottoscritto dai leader progressisti prima delle presidenziali francesi. Ora al voto va l’Italia, e una delle questioni fondamentali è “come si sta in Europa”, dice D’Alema: «Per noi è essenziale affermare una terza posizione. Non siamo con il populismo antieuropeo, ma neppure per un’Italia acquiescente nei confronti delle scelte conservatrici della signora Merkel».
Corriere 9.2.13
D'Alema: così il mondo torna a essere «rosso»
MILANO — «Oggi il mondo torna a essere rosso». Lo ha detto ieri il deputato del Pd, Massimo D'Alema, in un videoforum a La Stampa: «Intanto — ha spiegato — c'è Obama. E poi c'è il Brasile, che è governato a sinistra. È la vecchia Europa, quella in cui i conservatori sono ancora forti. Ma noi cercheremo di renderli meno forti». Ha poi ammesso: «Questa campagna elettorale l'abbiamo cominciata con il piede sbagliato. Il centrosinistra è partito con l'idea che avevamo già vinto e invece le campagne elettorali vanno combattute, sono una grande occasione per andare al dialogo con i cittadini, si imparano tante cose».
Corriere 9.2.13
Il Pd congela l'asse con il Professore. Nuova parola d'ordine: «bipolarizzazione»
di Maria Teresa Meli
ROMA — «O noi o loro»: i leader del Partito democratico hanno deciso di dare una svolta alle ultime due settimane della campagna elettorale. Anche perché l'idea di un inciucio già preconfezionato con Mario Monti non ha portato bene. Anzi, ha sottratto voti e simpatie al centrosinistra tutto. Regalando consensi sia a Beppe Grillo sia ad Antonio Ingroia. E quindi occorre puntare i riflettori sui due schieramenti principali, esattamente come va facendo da tempo Silvio Berlusconi. «Bipolarizzazione»: è questa la nuova parola d'ordine del Pd per recuperare voti. Pier Luigi Bersani attacca: «C'è un dato oggettivo — dice — o vinciamo noi o vince Berlusconi e quindi l'Italia va a sbattere contro un muro». Tertium non datur: Mario Monti non è in campo per vincere «ma per condizionare le nostre mosse». Anche Massimo D'Alema imposta la sua campagna nello stesso modo: «La vera sfida è tra Bersani e Berlusconi. Tutti gli altri sono personaggi rispettabili, ma non sono in corsa per vincere».
È un altro modo per chiedere il voto utile, per invitare gli elettori che non hanno ancora deciso che esprimersi a favore di Ingroia o Monti, tanto per fare due nomi non casuali, sarebbe un grosso errore, perché favorirebbe la ripresa dell'ex premier del centrodestra. Funzionerà? Difficile a dirsi: ma il rischio di arrivare sotto la percentuale ottenuta dal Partito democratico nel 2008 ha fatto sì che tutti i dirigenti di Largo del Nazareno si mobilitassero adottando questa linea. Ormai, del resto, a criticare Monti non è, come un tempo, solo Stefano Fassina, anche esponenti del Pd come Enrico Letta e Francesco Boccia, un tempo assai vicini al presidente del Consiglio, ora hanno preso le distanze e non gli risparmiano le loro stoccate.
Ma al di là della campagna elettorale che, necessariamente, si sta inasprendo, in realtà i leader del Partito democratico non perdono di vista l'approdo finale. Per Luigi Bersani lo ha ripetuto ai suoi in tutte le salse: «Il quadro istituzionale dovrà garantire il quadro politico». Traduzione: con i moderati, comunque vada a finire, una volta chiuse le urne bisognerà trovare un'intesa sin da subito sulle tre presidenze che vanno votate: quelle di Camera, Senato e, ovviamente, il Quirinale. E con i moderati vi sono prove di intesa cordiale in Lombardia per convincere i montiani a far sì che la regione «non finisca nelle mani di Maroni, della Lega e del centrodestra». Insomma, i centristi, alla fine, potrebbero in gran parte abbandonare Gabriele Albertini per votare Umberto Ambrosoli. Ovviamente l'operazione viene condotta con grande riservatezza e pare che il candidato alla presidenza della regione Lombardia Albertini non sia d'accordo con questa strategia.
In questa campagna elettorale in cui ogni giorno si prospetta una girandola di alleanze fa le sue mosse anche Antonio Ingroia: «Non ci siamo mai sottratti al dialogo con il Pd, ci rivedremo in Parlamento per capire se si può riaprire il confronto per un governo di centrosinistra senza Monti». È uno stratagemma, quello del leader di Rivoluzione civile, per annullare la strategia del Partito democratico a favore del voto utile. E per cercare di rosicchiare altri voti a Nichi Vendola, che ieri ha prospettato addirittura un complotto dei «grandi gruppi editoriali italiani» contro Sel.
Nel frattempo, nei corridoi di largo del Nazareno, impazza il toto ministri e sottosegretari: si fanno i nomi dei lettiani Francesco Boccia e Paola De Micheli e quello di Stefano Fassina.
l’Unità 9.2.13
«Conflitto d’interessi e leggi per i più deboli»
Bersani incontra lavoratori e imprenditori in Piemonte:
«Il primo Consiglio dei ministri dedicato a chi non ha da mangiare»
Proposte per il lavoro e gli ammortizzatori
di Simone Collini
Il primo Consiglio dei ministri dedicato a «chi non ha da mangiare», il conflitto di interessi come una delle leggi da approvare subito, un piano in cinque punti per creare lavoro e sviluppo. Pier Luigi Bersani fa tappa in Piemonte muovendosi tra Borgosesia, Biella, Torino, incontrando lavoratori, sindacalisti, imprenditori, parlando delle prime mosse che farà in caso di vittoria alle elezioni di fine mese. Un appuntamento è in un ristorante, un altro in un teatro, poi in una sala del Sermig, e cambiano gli scenari urbani, i settori di produzione, ma non cambia il senso dei discorsi che il leader Pd si sente fare: la crisi morde, e se non si volta pagina la situazione si fa drammatica. Ricette semplici non ce ne sono, promesse facili non ne fa, però Bersani agli interlocutori che di volta in volta si trova di fronte prospetta ciò che intende fare dovesse arrivare tra venti giorni a Palazzo Chigi.
Prima di partire da Roma manda un messaggio di adesione all'incontro organizzato da Articolo 21 per assicurare che il conflitto di interessi «sarà una delle prime leggi» che porterà ad approvazione, insieme a un pacchetto di norme sull'Antitrust, una riforma della governance Rai che sancisca una vera autonomia del servizio pubblico, una serie di provvedimenti utili a regolamentare l'intreccio delle diverse piattaforme tra telecomunicazioni, web, telefonia, radio e tv. Ma quando poi atterra a Torino e inizia a girare per i distretti industriali del Piemonte è soprattutto di lavoro e occupazione che parla. Incontra sindacalisti e imprenditori del distretto tessile di Biella, ascolta le difficoltà che il settore sta attraversando, le storie di cassintegrati ed esodati, e il discorso che poi fa è improntato al realismo, perché «questo Paese ce la farà, ne verremo fuori, ma dicendo la verità», e centrato sui bisogni di chi oggi non riesce a tirare avanti: «Abbiamo un problema di ammortizzatori non coperti. Vedo che ora tutti dicono che ci sono i miliardi. Visto che il governo è ancora in piedi, a me pare una cosa obbligata dare una copertura a gente che aspetta da novembre di avere i soldi degli ammortizzatori. E allora, se ci sono i soldi, li giriamo all' Inps». Un discorso che vale anche per i mesi a venire. «L'anno prossimo gli ammortizzatori non sono coperti e allora nel primo consiglio dei ministri si deve pensare a chi non c'ha da mangiare. Poi il secondo e il terzo vediamo cosa si può fare di altro».
In realtà un pacchetto di provvedimenti da approvare in tempi rapidi in caso di vittoria elettorale Bersani l'ha già messo a punto. Si tratta di un piano in cinque punti per far girare liquidità, creare occupazione, favorire il made in Italy. Ci ha lavorato il dipartimento Economia del partito insieme agli atri settori tematici coinvolti, studiato nel dettaglio per quel che riguarda le possibili coperture. Al primo punto c'è un rafforzamento finanziario delle imprese, da realizzare attraverso l'emissione di titoli del Tesoro sul modello Btp Italia per pagare i crediti arretrati delle piccole e medie imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. Al secondo punto c'è un piano di piccole opere che realizzino gli enti locali con una deroga al Patto di stabilità interno (l'idea è che possano partire subito rivitalizzando l'economia e che siano orientate soprattutto verso la riqualificazione di scuole e ospedali). Il terzo punto è dedicato a un rilancio dell'economia verde, di progetti per l'efficienza energetica e riqualificazione degli edifici a fini ambientali. Quarto, lo sviluppo della banda larga per portare l'Italia ai livelli delle altre realtà europee. E quinto, un piano che a Bersani piacerebbe chiamare «Industria 2020» e che prevede aiuti alle imprese anche attraverso il credito d'imposta per la ricerca, per rilanciare l'innovazione e il made in Italy.
Queste sono le proposte che Bersani lancia in questo rush finale di campagna elettorale, bollando invece come «favole» le cosiddette proposte choc di Berlusconi. «Dobbiamo vincere per imporre un cambio del sistema politico, perché se vince l'altra logica l'Italia va contro un muro, ne sono convinto». Per il leader del Pd «c'è un dato oggettivo»: «O vinciamo noi o vince Berlusconi. Sento divagazioni qui, qualcuno che dice “ha già vinto il Pd, allora diamogli un segnale”. No, guardate che si scherza con il fuoco. I voti hanno tutti uguale dignità, dopodiché c'è un solo voto utile per battere la destra ed è il voto a noi».
Bersani, che definisce «marginale» la risalita del Pdl nei sondaggi, oggi a Torino chiuderà un incontro a cui parteciperanno leader politici e capi di Stato e di governo provenienti da ogni angolo dell'Unione, e rispedisce al mittente l'accusa di puntare a un inciucio con Monti, sottolineando invece che il Pd ha in Europa una collocazione ben precisa, mentre non è chiaro se l'attuale premier faccia riferimento a quello stesso Ppe in cui siede anche Berlusconi. Poi, finita l'iniziativa, andrà allo stadio a vedere Juve-Fiorentina. Lui, tifoso bianconero, insieme allo sfegatato viola Matteo Renzi.
l’Unità 9.2.13
La sinistra non deve chiudersi
di Alfredo Reichlin
NON SERVE QUESTO GIOCO DI RECIPROCI VETI TRA MONTI E VENDOLA. NICHI CONSENTIRÀ a un vecchio amico di ricordare che la sinistra italiana (quella vera, quella che cerca di cambiare la storia) non ragiona così, non parte dai veti sui nomi ma dalle cose. Dalle situazioni in cui combatte e dagli obiettivi che si pone. Non sto a ricordare che se l’Italia non si lacerò in una sorta di guerra civile tipo Grecia e si trasformò in una Repubblica con questa straordinaria costituzione democratica fu anche perché Togliatti fece il governo Badoglio.
Consentendo così a noi, i giovani di allora, di prendere le armi non in nome di Stalin ma del Tricolore. Davvero i nomi non corrispondono alle cose. Così oggi.
Hai ragione, caro Nichi, che non ci servono gli «inciuci». Il Pd e il tuo partito si sono messi insieme per cambiare l’Italia e farla più giusta. E questo faranno, sapendo però che la cosa è impossibile se non salviamo il Paese dal degrado sociale e dalla regressione storico-politica che incombe sul suo destino. Questa è la «cosa». Ma noi una simile impresa la vogliamo affrontare sul serio? Come? Non credo che basti approfittare del fatto che l’attuale legge elettorale regala un largo premio di maggioranza a chi arriva primo e potrebbe quindi consentirci di governare da soli.
Ecco. Io vorrei dire la mia su cosa bisognerebbe intendere con questo «non da soli». Provo allora a dire qualcosa che va oltre il problema, certamente ineludibile delle alleanze politiche senza le quali sarà impossibile affrontare le grandi riforme. Ciò che vorrei aggiungere è che per affrontare questa dura prova dobbiamo dotarci di uno sguardo più vero e più profondo su ciò che è oggi il popolo italiano. L’interrogativo che mi pongo è questo. In un mondo in cui la potenza dell’economia finanziaria si è mangiata non solo l’economia reale ma ha distrutto larga parte delle funzioni pubbliche e delle capacità di governare utilmente gli interessi che sono in gioco, che cosa diventa il problema del riformismo? Tante cose, evidentemente. Ma nella sostanza e per dirla in breve io credo che il problema attuale del riformismo sia la costruzione di un nuovo potere sociale. Detto in altro modo, è il protagonismo della gente. Se guardo allora a questo Paese dove sono nato, sono cresciuto e ho lottato io non vedo solo la decadenza economica. Mi colpisce l’intreccio ormai inestricabile tra il collasso di larga parte delle strutture dello Stato e la precarietà del lavoro, la disoccupazione giovanile, la corruzione. Penso al Mezzogiorno e alla difficoltà da parte di tanta gente che conosco di impadronirsi della propria vita. Mi sembra chiaro che il Mezzogiorno non potrà risorgere se gli daremo solo un governo dall’alto. Non illudiamoci. Chiediamoci perché tanto popolo minuto e disperato non vota noi ma Berlusconi.
Noi dobbiamo ragionare così. Ed è alla luce di questi problemi che io non comprendo come si possa costruire un partito moderno del riformismo se si resta paralizzati dalla preoccupazione di non fare accordi con il partito di Monti. Il professore è troppo un tecnocrate e un conservatore? Può darsi, ma il problema che io mi pongo è capire il mondo fuori di noi. Io non capisco come la sinistra possa governare se non considera compito suo rimettere in gioco il mondo delle professioni e dell’impresa, del saper fare e dalla cooperazione, il mondo del capitale sociale e delle forze produttive. Le ricette degli economisti sono importanti ma, dopotutto, le conosciamo a memoria e in buona parte sono dettate dell’Europa. Ciò che mi serve è capire per fare un esempio perché l’Emilia è risorta così presto dal terremoto.
Ecco come io vedo i «compromessi» con il Centro. Il professor Monti può pensare quello che vuole, ma io parlo al suo mondo e noto che il suo partito va dal miliardario Cordero di Montezemolo alla gente straordinaria che lavora con la Comunità di Sant’Egidio. Perché allora il Pd non sarebbe compatibile con Nichi Vendola? Ecco perché mi è tornato in mente quel rapporto tra il movimento partigiano e il governo con Badoglio, senza il quale non so se avremmo potuto salvare l’Italia. E la conseguenza non è stata affatto quella di mettere acqua nel nostro vino.
La verità è che le dispute attuali restano molto al di qua dei problemi reali. Può essere giusto polemizzare con il sindacato ma con quale animo? Da un lato bisognerebbe prendere atto che è finita la «rappresentanza socialista del lavoro», cioè quella grande idea che è stata alla base del movimento operaio e socialista: lo sfruttamento del lavoro dipendente come base dell’accumulazione capitalistica, e quindi la liberazione del lavoro come via al socialismo (l’operaio che, spezzando le sue catene, prende il potere). Dall’altro lato la sinistra riformista non può pensare di declassare il tema del lavoro moderno a un problema sindacale, considerandolo solo come fattore più o meno flessibile dell’economia. Quelli che guardano solo alle regole del mercato del lavoro non vanno lontano. Il fatto su cui far leva è che la potenza sociale del lavoro un lavoro che presta sempre meno fatica fisica e sempre più intelligenza non è affatto diminuita. Io dico molto di più. In una economia che produce beni immateriali, conoscenze, reti, desideri, bisogni, e bisogni non più solo del corpo ma della mente, il lavoro crea ben più che un surplus per l’economia. Crea società, crea relazioni.
Il punto nuovo è questo. Su questa base poggia il nostro programma per l’Italia. Qui sta la debolezza di una certa tecnocrazia. Ma qui sta anche il ruolo storico dell’Europa, il luogo dove si affermò quella grande conquista del Novecento che abbiamo chiamato «civiltà del lavoro». Parlo di quell’insieme di diritti ma soprattutto del riconoscimento sia pure in linea di principio (ma non solo) di una pari dignità tra il lavoro e l’impresa. Finiva davvero il secolare rapporto tra padrone e servo, e questo dava alla democrazia politica il suo fondamento. Perciò io penso che si gioca qui, sui diritti del lavoro una partita decisiva non solo per la sinistra ma per la democrazia. E tuttavia per vincerla non basterà rimanere chiusi nei vecchi confini della sinistra. Perciò è così importante che tutti gli uomini che guardano alla sinistra e credono nel progresso lavorino per la vittoria di un partito come il Pd.
l’Unità 9.2.13
La protesta
Tutti contro i tagli al Fus
Dalla Cgil all’Agis fino all’Arci un coro contro i 21 milioni decurtati alla cultura
Orfini: «Scelta miope»
di Riccardo Valdes
DIMINUISCONO ANCORA NEL 2013, CON UN TAGLIO CHE È DI 7 MILIONI DI EURO SUPERIORE AL PREVISTO, LE RISORSE DEL FONDO UNICO PER LO SPETTACOLO. Dai 411 mln del 2012 si scende a poco meno di 390. Una mannaia da 21 milioni di euro.
Come sempre, il 47 per cento va alle Fondazioni Liriche (ma per effetto del taglio si divideranno 10,1 milioni di euro in meno). Il cinema vedrà il 18,59% e i teatri 16,4% con 3,4 milioni di euro in meno. Alla musica andrà il 14,10% del Fus. Molte e dure le reazioni. A cominciare dalla nota di Silvano Conti, coordinatore nazionale produzione culturale Slc Cgil : «Il finanziamento statale così ridotto si somma a una riduzione generalizzata delle risorse pubbliche decentrate destinate al settore (Regioni, Province e Comuni). Ho espresso la netta contrarietà allo Schema di Regolamento riguardante le Fondazioni Lirico Sinfoniche definendo l’operazione «la via corta di una selezione darwiniana delle Fondazioni» senza nessun profilo riformatore, auspicando di converso che nella prossima Legislatura si riprenda con vere riforme di sistema a partire dallo spettacolo dal vivo in cui inserire organicamente il segmento delle Fondazioni».
Anche Matteo Orfini, responsabile Cultura e Informazione del Pd stigmatizza l’operato del governo: «Pochi giorni fa Mario Monti aveva dichiarato al Sole 24ore che tra le priorità di un futuro Governo avrebbe dovuto esserci l'adeguamento dei fondi del Ministero per i Beni culturali a un livello più prossimo a quello di altri Paesi europei. E inveceil governo Monti ha deciso un nuovo taglio del Fus di 21 milioni di euro: certo questa non ci pare una dimostrazione di coerenza». «Semmai continua Orfini ancora una volta si dimostra chiaramente che la cultura, lo spettacolo, il cinema non siano considerati settori strategici per il futuro dell’Italia e per questo si continua a disinvestire, lasciando le consegne sull’indispensabile reintegro del Fus al governo che verrà». Il Fondo statale per lo spettacolo dal vivo e il cinema spiega ancora Orfini «era già stato tagliato con la Legge di stabilità a dicembre scorso, passando da 411 milioni del 2012 a circa 399 milioni per il 2013: dunque l’unica coerenza che si può registrare è quella dei tagli delle risorse pubbliche per la cultura e per la produzione culturale e creativa. Il candidato Monti forse si sdoppia, auspicando l’aumento delle risorse per la cultura da candidato premier, mentre le taglia da Presidente del Consiglio in carica».
I rappresentanti Agis componenti della Consulta dello Spettacolo, hanno manifestato al ministro Ornaghi la loro preoccupazione nei confronti delle attività culturali dello spettacolo, testimoniato dall’ulteriore taglio subito dal Fondo unico per lo Spettacolo. «Con l’assenza di risorse – hanno affermato i rappresentanti Agis si mette in discussione l’attività di molte imprese e dei loro lavoratori. Lo spettacolo, inascoltato, richiede da anni un serio rifinanziamento del Fus, indispensabile per riformare tutto il settore con leggi e regole incisive che possano finalmente semplificare i rapporti con la pubblica amministrazione e facilitino la capacità gestionale delle imprese». L’Agis chiede a questo punto che i candidati alle prossime elezioni si esprimano, con proposte da mantenere, sui finanziamenti e sul sostegno alla cultura e allo spettacolo».
Per l’Arci «siamo alle solite. Come già accaduto due anni fa con il Ministro Bondi, quando si vogliono coprire i buchi di bilancio una delle vittime preferite delle scelte del governo è il Fus , decurtato anche quest’anno di 20 milioni di euro. In un momento in cui la crisi mette già a dura prova il mondo della cultura e dello spettacolo l’annuncio del ministro Ornaghi è una vera e propria condanna a morte per decine di imprese e mette a rischio migliaia di lavoratori. Una pessima notizia che va ad aggiungersi ai tagli agli enti locali, di fatto non più in condizione di continuare a garantire politiche attive per la cultura sui territori, con l’inevitabile sacrificio di tante esperienze innovative, spesso di carattere associativo e partecipato, che hanno rappresentato un’originale ricchezza per questo Paese. Un Paese come il nostro, che ha un patrimonio culturale e artistico di straordinaria importanza, non può permettersi politiche miopi che, anziché fare di questo patrimonio uno strumento di traino per la ripresa e per uno sviluppo qualitativamente diverso, si limitano a mortificarlo sottovalutandone le potenzialità», conclude il comunicato dell’Arci.
E come se non bastasse piovono pietre: il mese di gennaio del 2013, infatti, ha registrato il peggior risultato degli ultimi 5 anni per gennaio, per il cinema in sala. Rispetto all’anno migliore, il 2011, calo è del 47%. Per i film italiani la quota biglietti venduti passa dal 48% al 34%.
l’Unità 9.2.13
Ritrovare insieme la forza degli ideali
Il contributo del Capo dello Stato nel libro dedicato al cardinale Ravasi
L’intervento integrale di Napolitano per il settantesimo compleanno del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Il comunismo venne travolto dal collasso dei regimi che ad esso si ispiravano
in Europa e in Urss
L’ideologia conservatrice ha assunto sempre più le sembianze di un fondamentalismo di mercato
«Vedo materia di dialogo tra credenti e non credenti»
MI ASSOCIO BEN VOLENTIERI ALL’OMAGGIO CHE VIENE RESO A SUA EMINENZA IL CARDINALE GIANFRANCO RAVASI, FIGURA EMINENTE DELLA CHIESA CATTOLICA E PERSONALITÀ PIÙ GENERALMENTE RICONOSCIUTA DEL MONDO DELLA CULTURA: uomo aperto a ogni dialogo, come ho potuto anche personalmente sperimentare. Spero dunque che questo mio contributo, senza avere come altri la dimensione e il livello dello «studio in onore» del festeggiato, possa essere accolto come proposta «di ulteriore dialogo», o di riflessione comune, su un tema che ci sollecita entrambi. Il tema, cioè, della «componente ideale» propria di una seria scelta politica.
Parlai, in una mia lezione (all’Università di Bologna) nel gennaio 2012, dell’«appannarsi di determinati moventi dell’impegno politico, inteso come impegno di effettiva e durevole partecipazione» (individuale e collettiva). E indicai, tra i moventi che si sono affievoliti, quella che anche moderni scienziati della politica hanno chiamato «la forza degli ideali». È un fenomeno che ha accompagnato il mio peraltro fisiologico distacco dall’attività politica o più concretamente partitica e che – nel tirare autobiograficamente le somme della mia lunga esperienza – definii «grave e allarmante». Impoverimento culturale della politica, sua «sfrenata personalizzazione – smania di protagonismo, ossessiva ricerca dell’effetto mediatico» – e nel contempo «perdita, da parte dei partiti, di radicamento sociale e di vita democratica nelle istanze di base», insieme col crescere di «una diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere».
Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale. E non è questa la sede in cui interrogarmi sul futuro, su una possibile, graduale ma netta, inversione di tendenza. Posso tutt’al più ribadire programmaticamente la mia fiducia nella conclusione che Thomas Mann suggeriva ai tedeschi nel pieno della catastrofe provocata dalla degenerazione estrema della politica, quella del barbarico totalitarismo e bellicismo nazista : «la politica non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e culturale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura».
Ma come – ecco quale può essere la materia di un dialogo rinnovato e approfondito – va intesa quella «componente ideale»? Come ha operato politicamente nel passato vissuto dalla mia e da altre generazioni «la forza degli ideali»? Ha operato, si può rispondere, nella forma delle ideologie, di grandi ideologie contrapposte, e oggi invece non è così che si può intendere la rinascita di una «componente ideale» come molla e guida dell’agire politico.
In effetti, non spiega molto, e non ha mai spiegato molto, la formula che a suo tempo diventò di moda: «la fine (o la morte) delle ideologie». Anche perché l’attenzione si concentrò, comprensibilmente, sul crollo di una ideologia: quella comunista, travolta nel collasso dei regimi che ad essa si ispiravano, in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica. Molto più limitata, e sfuggente, rimase ed è rimasta la rivisitazione – e la stessa ri-definizione – dell’ideologia che si era contrapposta a quella comunista: ideologia del libero mercato, ovvero di uno sviluppo capitalistico affidato al libero giuoco delle forze di mercato? O ideologia delle istituzioni liberal-democratiche dell’Occidente come punto d’arrivo della storia? Comunque, l’ideologia conservatrice è sopravvissuta alla fine del comunismo, assumendo sempre più le sembianze di quel «fondamentalismo di mercato», tradottosi in deregulation e in abdicazione della politica, che solo la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008 avrebbe messo in questione.
Certo, è stato impossibile – se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico – sfuggire alla certificazione storica non solo del fallimento dei sistemi economici e sociali d’impronta comunista, ma del rovesciamento di quell’utopia rivoluzionaria che conteneva in sé promesse di emancipazione sociale e di liberazione umana e che aveva finito – come, con fulminante espressione, disse Norberto Bobbio – per «capovolgersi», nel convertirsi di fatto nel suo opposto. Anche se può discutersi l’uso – a proposito del movimento comunista e della sua visione – del termine «utopia».
Vale senza dubbio, in riferimento allo svolgimento, sempre più involutivo, di quell’esperienza, il fondamentale avvertimento di Isaiah Berlin, che riconosceva tutto il valore delle utopie, ma aggiungeva che «come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali». In effetti, la dottrina e la prassi comuniste – che pure esprimevano una pretesa di scientificità («l’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza») – avevano proprio la rigidità, onnicomprensività e autosufficienza di una ideologia militante.
Ma non è possibile – ecco ancora un interrogativo attorno al quale varrebbe forse la pena di dialogare – secernere da ideologie contrapposte, riconsiderate nella loro ascesa e nel loro declino, riferimenti positivi per individuare quella irrinunciabile «componente ideale» della politica da cui sono partito in questo mio abbozzo, o proposta, di riflessione?
Non si può confondere, sia chiaro, «la forza degli ideali» o la motivazione ideale che spinge all’agire politico e dovrebbe sorreggerlo, con un approccio fideistico: e invece ritengo – basandomi sulla mia personale esperienza e memoria – che nell’adesione e nell’attaccamento di tanti al Partito Comunista, quale risorse in Italia dopo la liberazione dal fascismo, un elemento di fideismo vi fu, e venne anche dall’alto della sua dirigenza. In un singolare quanto spurio confronto – aggiungo – con il fideismo religioso: non si giunse (da parte comunista) in quegli anni di nuovo inizio, a parlare di «due fedi»? O – in termini già un po’ meno ideologici e più politici – di «due universalismi»?
Ciò di cui parlo è dunque altro: un pieno e limpido, razionale recupero a una visione laica della politica degli ideali della libertà (politica e anche economica), della giustizia, promozione e protezione sociale, della solidarietà come dovere e sentimento individuale e come responsabilità e prassi collettiva, del più ricco sviluppo della persona e della costruzione di un ordinamento fondato su ineludibili diritti e doveri comuni.
Non possono questi ideali, sottratti agli irrigidimenti e alle estremizzazioni di carattere ideologico, essere perseguiti attraverso programmi e indirizzi diversi, nel vivo di una competizione politica e culturale democratica, e costituire al tempo stesso il sostrato comune di un impegno costituzionale, al livello nazionale e al livello europeo? Non si può forse già cogliere un quadro di risposte tanto – per parlare dell’Italia – nell’impianto della Costituzione repubblicana, quanto nelle formulazioni di principio su cui si è fondata e si fonda la costruzione dell’Europa unita?
Vedo in tutto ciò materia di dialogo anche tra credenti e non credenti. Perché i credenti, e segnatamente i cattolici italiani, hanno il loro punto di vista da far valere e il loro contributo da dare. È un fatto che nei principi e negli indirizzi costituzionali sanciti sia in termini nazionali sia in termini europei (tra questi ultimi, quelli riassumibili nell’ancoraggio a una «economica sociale di mercato»), si sono calati valori sentiti come autenticamente cristiani. Quanto l’adesione a questi valori possa essere vissuta in termini di fede e in sintonia con la pratica religiosa, è aspetto non secondario dell’approfondimento e della riflessione comune che sollecito sulla possibile, necessaria rinascita della componente ideale e morale dell’agire politico. Approfondimento, riflessione, cui da pochi può venire un apporto alto e sereno come da Gianfranco Ravasi.
Corriere 9.2.13
Napolitano all'Osservatore: il comunismo ha fallito
MILANO — «Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale. E non è questa la sede in cui interrogarmi sul futuro, su una possibile, graduale ma netta, inversione di tendenza». Sono le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, contenute in un contributo — pubblicato ieri integralmente dall'Osservatore Romano — alla raccolta di scritti «Praedica verbum», in onore del settantesimo compleanno del cardinale Gianfranco Ravasi. Il capo dello Stato, storico dirigente del Pci, ha dunque scritto: «Certo, è stato impossibile — se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico — sfuggire alla certificazione storica del fallimento dei sistemi economici e sociali d'impronta comunista». Nel suo intervento sul giornale del Vaticano, il presidente si è concentrato quindi soprattutto sul rapporto tra etica e politica parlando chiaramente della fine di tutte le ideologie, a partire da quella comunista, ma non dimenticando che dall'altra parte si affermò anche un certo «fondamentalismo di mercato». «L'ideologia conservatrice è sopravvissuta alla fine del comunismo, assumendo sempre più le sembianze di quel "fondamentalismo di mercato", tradottosi in deregulation e in abdicazione della politica». Sempre sulla fine del comunismo, poi, Giorgio Napolitano ha parlato del «rovesciamento di quell'utopia rivoluzionaria che conteneva in sé promesse di emancipazione sociale e di liberazione umana e che aveva finito — come, con fulminante espressione, disse a suo tempo Norberto Bobbio — per capovolgersi, nel convertirsi di fatto nel suo opposto».
Corriere 9.2.13
Le spese fuori controllo del Lazio Quei 35 milioni in arredi e telefoni
Regione, quintuplicati in 5 anni i costi di consulenze e convegni
di Sergio Rizzo
Ogni giorno l'avvocato Giuseppe Rossodivita si alza e fa la stessa domanda: «Dove sono finiti i soldi?». La fa in televisione, su Facebook, nei comunicati stampa. A chi chiede una risposta? Ai responsabili dei gruppi politici del consiglio regionale del Lazio, che si aspetta mettano anch'essi mano al portafoglio, seguendo il suo esempio. Una settimana fa l'ex capogruppo radicale che è stato determinante nel sollevare il caso degli scandalosi finanziamenti pubblici ai politici della Regione Lazio ha appena restituito il fondo cassa rimanente del suo gruppo: 360 mila euro. Per capirci, siccome i radicali sono due, se tutti i 71 componenti di un consiglio sciolto da settembre 2012 avessero restituito 180 mila euro ciascuno, nelle tasche dei contribuenti sarebbero rientrati 12 milioni e 780 mila euro. Mica bruscolini.
Ma Rossodivita continua a fare quella domanda senza aver neppure letto la relazione che da qualche settimana i dirigenti della Regione si passano di mano in mano come ustionasse. E c'è da comprenderli. Si tratta di un rapporto di 334 pagine pieno di numeri e tabelle scritto da due ispettori della Ragioneria generale dello Stato che il Tesoro aveva spedito già nello scorso mese di giugno, dunque prima dello scandalo, a ficcare il naso nelle carte dell'ente. È quella che in gergo tecnico si chiama «verifica amministrativo-contabile». Colpo durissimo su chi ha gestito la Regione Lazio dal 2007, quando governava Piero Marrazzo, al 2011, quando c'era Renata Polverini. Una mazzata così forte che non poteva risparmiare il consiglio regionale. I numeri sono raggelanti. Con la freddezza delle cifre, gli ispettori Luciano Cimbolini e Vito Tatò fanno notare che in quei cinque anni le spese del consiglio sono lievitate del 43,1 per cento, da 80,4 a 115 milioni. Con punte di incremento semplicemente sbalorditive. È il caso delle consulenze e dei convegni, voce passata da 1,35 a 8 milioni di euro: + 493 per cento. Come se la Camera dei deputati, che ha un bilancio dieci volte maggiore, avesse speso 80 milioni. Poi le spese telefoniche, postali e di cancelleria, nonché per le attrezzature e gli arredi del consiglio: + 226 per cento. E qui i numeri fanno ancora più impressione, visto che dai 10,8 milioni del 2007 si è saliti a 35,2 milioni. Mezzo milione l'anno, o se preferite il vecchio miliardo di lire, per ogni consigliere.
Il bello è, dicono gli ispettori, che pur avendo speso soldi «a un ritmo assolutamente fuori linea» rispetto a tutte le altre voci del bilancio regionale, sono riusciti a mettere da parte, dal 2005 al 2011, ben 44 milioni. Soldi che sarebbero dovuti finire in un capitolo apposito, il numero 331504, «recupero dell'avanzo di amministrazione del consiglio regionale»: peccato soltanto che lo stesso consiglio, sono parole di Cimbolini e Tatò, «non ha mai provveduto al versamento effettivo delle somme». E anche qui: dove sono quei soldi?
La lista dei rilievi non si poteva certo limitare al costo degli apparati politici. C'è, per esempio, la «reiterata copertura dei disavanzi del settore sanitario attraverso le risorse del bilancio non sanitario, di per sé caratterizzato da una situazione di grave squilibrio». Come anche il «progressivo peggioramento della situazione economico-patrimoniale delle società partecipate». Sapete quante sono, considerando anche i cosidetti enti strumentali? Settantadue, sono. Una giungla terrificante e piena di sorprese. Per esempio, Lazio service: una società «utilizzata — scrivono gli ispettori — in modo improprio al fine di soddisfare esigenze occupazionali che non potevano essere poste a carico del bilancio regionale». Con costi, perciò, che sono lievitati come la panna montata: del 44% in tre anni quelli del solo personale. E queste società continuano ad aumentare. L'ultima, Lazio Ambiente spa, è nata addirittura il 18 novembre 2011.
Andiamo avanti. I debiti regionali sono saliti da 8 miliardi 482 milioni del 2007, che già non erano pochi, a 11 miliardi 234 milioni del 2011. E sorvoliamo su quelli della San.Im., un'altra società regionale costituita nel 2002, quando governava l'attuale candidato presidente del centrodestra Francesco Storace, per rilevare i debiti delle Asl: l'esposizione ammontava, alla fine del 2011, a un miliardo 95 milioni. Con una spesa di interessi, in un solo anno, di qualcosa come 64 milioni. Non bastasse, l'indebitamento non sempre è stato utilizzato per gli scopi «costituzionalmente» previsti, cioè gli investimenti. Si può definire forse un investimento un finanziamento straordinario di 5,4 milioni per il «recupero di edifici di culto»? Oppure i 20 milioni spesi a favore del patrimonio culturale di soggetti «privati»? O ancora gli oltre 5 milioni impegnati per il «riconoscimento della funzione sociale ed educativa degli oratori» (con tutto il rispetto per gli oratori, s'intende)? E si potrà mai considerare un investimento la stabilizzazione di lavoratori socialmente utili, pagata appunto, a quanto pare, con i debiti?
Per non parlare della redditività del patrimonio immobiliare. La Regione Lazio ha più di 500 immobili, per un valore a bilancio, senza contare le Ipab, di un miliardo e 360 milioni. Quanto rende tutto questo ben di Dio? Cinque striminziti milioni. Pari allo 0,003 per cento. Forse anche per questo motivo c'era nei piani regionali un piano di massicce alienazioni patrimoniali, dagli immobili alle aziende. Secondo i piani, si sarebbero dovuti incassare 75 milioni nel 2007, 175 l'anno seguente, 325 nel 2009, 720 nel 2010 e 800 (bum!) nel 2011. In tutto 2 miliardi e 95 milioni. Invece hanno incassato 104,8 milioni. Il 6,7 per cento di quello che avevano previsto.
In compenso, davano agli autisti due buoni pasto al giorno. E gli «monetizzavano» anche il terzo: 477.916 euro e 50 centesimi. Ma perché rischiare un calo di zuccheri al volante? Per così poco?
Corriere 9.2.13
I commissari rinunciano al concorsone
Compensi troppo bassi, le difficoltà per reclutare gli esaminatori
di Mariolina Iossa
ROMA — Affanno da concorsone. Commissioni completate all'ultima ora per le prove scritte che cominceranno lunedì e si concluderanno il 21 febbraio. Per 11 mila 542 posti da insegnante nella scuola pubblica, parteciperanno 88 mila 610 candidati, quelli che hanno passato il test preselettivo di dicembre. A questi vanno aggiunti i 7 mila ammessi con riserva dal Tar del Lazio, di cui oltre 6 mila rientrati in lizza solo ieri su ricorso dell'Anief (Associazione professionale e sindacale), che ha contestato il punteggio minimo richiesto dal Miur per superare i quiz.
Fino a ieri sera gli uffici regionali scolastici hanno lavorato senza sosta per completare la composizione delle commissioni. Per il reperimento dei presidenti e soprattutto dei commissari, il ministro Profumo ha dovuto prima riaprire i termini per la presentazione delle domande poi, visto che anche con la seconda chiamata non erano stati coperti i posti necessari, emettere una nuova ordinanza per consentire ai direttori scolastici regionali di nominare i presidenti e i componenti. Questa volta senza estrazione computerizzata con algoritmo come era accaduto il 22 gennaio. Ora le 212 commissioni sono complete, sia pure con qualche affanno, con 246 presidenti e 424 commissari.
Eppure le domande presentate non erano poche: oltre 12 mila quelle per i commissari e poco più di duemila per i presidenti di commissione. Che cosa è accaduto? Molti insegnanti si sono tirati indietro perché pagati troppo poco, appena 209 euro a ogni commissario e 251 al presidente, a cui vanno sommati 50 centesimi per ogni compito corretto. Ma non è solo questo. I commissari non avranno l'esonero dalla scuola e dovranno correggere i compiti nel tempo libero. Da qui la fuga in massa a dieci giorni dall'inizio della prova scritta.
«Non ci sono risorse? Non si può pretendere che la gente lavori quasi gratis, e per giunta in assenza di rinnovo del contratto bloccato dal 2009» denuncia Mimmo Pantaleo della Cgil scuola. «Così si svilisce la professionalità proprio quando si vorrebbe garantire trasparenza e alta qualità del concorso» è il commento del presidente dell'Anief Marcello Pacifico. «Non è ammissibile che i commissari per un concorso ordinario ricevano un'indennità di massimo 700 euro lordi — sono i calcoli che fa la Gilda degli Insegnanti — e senza esonero dal servizio. Ne va della qualità del lavoro».
La Sardegna è una delle regioni dove ci sono stati maggiori problemi per reclutare i commissari, assieme a Umbria e Liguria. Il preside dell'alberghiero Azuni di Cagliari, Peppino Loddo, ritiene che «i compensi sono disincentivanti, molti colleghi hanno pensato che non valesse la pena e hanno rinunciato anche dopo aver fatto richiesta». Per il preside del classico Dante Alighieri di Roma Carlo Mari «il compenso è irrisorio, sarebbe quasi meglio niente, sarebbe meglio destinare una quota alle casse degli istituti».
S'indigna Marina Cardin, docente di chimica dei materiali all'artistico Guggenheim di Venezia: «Facciamo orari incredibili pur di seguire i progetti e mantenere alta la qualità. Avrebbero dovuto darmi un compenso adeguato e sostituirmi a scuola. Chi lavora con passione già fa moltissimo». Ma al ministero ne sono consapevoli. Lucrezia Stellacci, capo dipartimento per l'Istruzione, ammette che «sono stati tantissimi gli insegnanti che, dopo aver presentato domanda per le commissioni, hanno poi rinunciato per le condizioni economiche: un regime di compensi più basso che in passato e senza esonero dal lavoro scolastico. Questo dovrebbe farci riflettere per il futuro».
Corriere 9.2.13
«Quattro anni fa l'eutanasia per Eluana Una legge per evitare che si ripeta»
Sacconi: chi l'ha paragonata a Martini ha fatto disinformazione
di M. Antonietta Calabrò
ROMA — Oggi è il quarto anniversario della morte di Eluana Englaro e questo giorno, in sua memoria, è diventato la Giornata per gli stati vegetativi.
Ieri al ministero della Salute, con il ministro Renato Balduzzi, si è riunito il Tavolo nazionale per fare il punto sull'assistenza a queste persone colpite da una gravissima forma di disabilità.
Maurizio Sacconi, senatore del Pdl — che quattro anni fa, nel 2009, era il ministro del Lavoro e della Salute del governo Berlusconi — ritiene che lo stanziamento di venti milioni di euro deciso dal governo Monti per l'assistenza a questi disabili sia assolutamente insufficiente: «Meno di un terzo di quello che avevamo stanziato noi». E torna a chiedere «una nuova legge che impedisca altri casi di eutanasia».
Perché una nuova legge?
«Perché il provvedimento giudiziario su Eluana ha "creato" un precedente rilevante. Le persone in stato vegetativo non sono in fine vita e idratazione e alimentazione non sono cure e tanto meno accanimento terapeutico. Non a caso tutti, anche i giornali stranieri, allora hanno titolato che il caso Englaro era il primo episodio di eutanasia in Italia. Eppure Eluana aveva attività cerebrale e tutte le funzioni vitali, potendo vivere a lungo in uno stato vegetativo che la scienza non sapeva e non sa definire dal punto di vista delle percezioni, della comunicazione con l'esterno e della possibile reversibilità. La stessa opera di disinformazione è stata fatta al momento della morte del cardinale Carlo Maria Martini, quando si è equivocato sul mancato accanimento terapeutico, che è persino doveroso ad un certo punto, e il ben diverso caso di Eluana, quello di una disabile grave che non era prossima alla morte».
Ma nella scorsa legislatura voi avevate la maggioranza parlamentare: perché una legge sul fine vita non l'avete fatta?
«Noi abbiamo quasi completato l'iter della legge: mancava soltanto il terzo e ultimo passaggio in Senato su alcune limitate modifiche apportate dalla Camera. Ma il centrodestra non era più al governo e il governo Monti non ha voluto affrontare la situazione, vista l'opposizione del Partito democratico».
Qualche giorno fa Monti è andato in tv da Lucia Annunziata: c'era Peppino Englaro, papà di Eluana...
«Lo stesso impaccio lo vediamo in questa campagna elettorale: quando deve trattare di temi eticamente sensibili, Monti non risponde direttamente agli interlocutori, ma legge delle risposte scritte già preparate. Si appella alla libertà di coscienza, ma in realtà si comporta come Ponzio Pilato».
Il ministro Balduzzi ieri ha annunciato fondi per circa 20 milioni di euro per l'assistenza a queste persone: a suo giudizio sono sufficienti?
«L'ho detto, è meno di un terzo di quanto abbiamo stanziato noi, e bisogna garantire alle famiglie, sulla base delle nostre linee guida, un'assistenza omogenea sul territorio che invece è a macchia di leopardo».
Da parte sua Monti vi accusa di usare i temi eticamente sensibili come clava politica...
«Gli rispondo che questi temi non sono poi così popolari, sono politicamente faticosi, impegnano a spiegare e motivare contro molti luoghi comuni. Tanto che lui evita di prendere posizione su di essi anche in vista di una possibile alleanza con la sinistra. Noi, che abbiamo una linea maggioritaria in favore della vita dal concepimento alla morte naturale, proponiamo, come qualche anno fa in Francia, gli Stati generali sulla bioetica affinché si diffonda l'informazione e si possa costruire una larga condivisione. C'è un nesso inesorabile tra i temi antropologici, tra la visione dell'uomo e le stesse politiche economiche e sociali».
l’Unità 9.2.13
La Tunisia si ferma per i funerali di Belaid
Nel giorno delle esequie uno sciopero generale ha paralizzato il Paese
Il presidente Jebali deciso a formare un governo tecnico
Aggredito un altro leader dell’opposizione democratica
di U. D. G.
Il Paese si è fermato per rendere l’ultimo omaggio a un «martire per la libertà». È stato sepolto al cimitero di El-Jellaz a Tunisi Chokri Belaid, il leader dell' opposizione laica tunisina assassinato mercoledì scorso. Un'autentica marea umana ha accompagnato le spoglie e ha assistito alle esequie mentre tutto il Paese nordafricano si fermava per lo sciopero generale. Secondo fonti giornalistiche tunisine, riportate da al Arabiya e al Jazira, addirittura un milione e 400mila persone avrebbe partecipato al rito funebre; una partecipazione impressionante, confermata dal ministero dell’Interno.
Con una decisione di enorme valore simbolico, perché sancisce il rango di «martire» del Paese dell'esponente politico assassinato, la salma di Chokri Belaid è stata portata dalla casa dei genitori, a Djebel Jelloud, al cimitero di Djellaz, a bordo di un camion scoperto dell’Esercito, sul cui pianale hanno preso posto uomini della polizia militare. Nel tragitto il camion è stato seguito da una vettura sulla quale hanno preso posto la moglie del politico assassinato, Besma Khalfaoui, e i figli. Dietro la macchina con i familiari, una lunga coda di vetture. Nonostante il forte vento e la pioggia battente, la folla ha accompagnato il feretro avvolto nella bandiera rossa tunisina e ricoperto di fiori nei tre chilometri e mezzo di tragitto dal centro culturale di Djebel Jelloud, su cui erano stati disegnati i grandi baffi neri simbolo del leader del Movimento dei patrioti democratici, fino al cimitero. Scaramucce e scontri si sono registrati lungo il percorso del corteo funebre, con la polizia che ha usato i gas lacrimogeni per disperdere la folla. Ovunque c’erano centinaia, migliaia di bandiere, ma solo della Tunisia.
L’ULTIMO SALUTO
Mentre la salma veniva inumata, migliaia di persone hanno gridato «Allahu akbar» (Allah è grande), prima di intonare l’inno nazionale tunisino e recitare il primo versetto del Corano. Le esequie hanno assunto a tratti il tono di una manifestazione contro il partito islamista al governo, Ennahda, accusato di essere il mandante dell'assassinio. La vedova di Belaid, Besma, ha innalzato le due dita in segno di vittoria quando, a più riprese, si è levato dai dimostranti il grido: «Il popolo vuole un’altra rivoluzione», e la figlia di 8 anni perdeva i sensi in mezzo a scene di caos. Tra i manifestanti risuonano anche slogan dedicati al generale Rachid Ammar, capo delle Forze armate tunisine, chiedendogli di intervenire. Ammar è famosissimo in Tunisia per essersi opposto alla richiesta di Ben Ali di schierare l’esercito contro chi chiedeva la caduta della dittatura.
Tunisi ha vissuto una giornata surreale, con quasi tutte le attività bloccate dallo sciopero generale proclamato dal principale sindacato, l’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (Ugtt). Il Paese è rimasto virtualmente isolato: l’aeroporto di Tunisi-Cartagine ha comunicato la cancellazione per l’intera giornata di tutti i voli, sia interni che internazionali, in arrivo e in partenza dallo scalo. La violenza è però riesplosa a Gafsa, nella Tunisia centrale: giovani dimostranti hanno aggredito un poliziotto, che è stato trascinato a forza fuori dalla sua auto e picchiato selvaggiamente: adesso è in stato di coma. Gli assalitori hanno anche appiccato il fuoco a un commissariato e hanno messo in fuga le forze di sicurezza. Violenti scontri sono scoppiati anche Sousse, dove forze di sicurezza e manifestanti si sono affrontati duramente.
Sul fronte istituzionale, la crisi resta aperta: il premier Hamadi Jebali, ha ribadito di voler dar vista a un nuovo governo formato da tecnici, nonostante la contrarietà espressa dai vertici del suo partito, il filo-islamico Ennahda. «Sono fermo alla mia decisione di formare un governo di tecnici e non ho bisogno del sostegno dell’Assemblea Costituente», ha affermato il premier, citato dall’agenzia Tap. «La composizione di questo governo è quasi pronta», ha aggiunto Jebali. La decisione di Jebali è stata accolta dall’opposizione e dalla società civile come una chance per far uscire il Paese dalla crisi Ma la violenza politica non si placa. In serata è stato aggredito il fondatore del Partito Democratico Progressista, Ahmed Nejib Chebbi.
il Fatto 9.2.13
Tunisia. Contro l'opposizione adesso è caccia all'uomo
di Rob. Zun.
AL ARABIYA: UN ALTRO POLITICO COLPITO. PIÙ DI UN MILIONE AI FUNERALI DI
BELAID. PAESE PARALIZZATO TRA SCONTRI E SCIOPERI, BLOCCATI I VOLI
Nonostante la partecipazione di massa ai funerali di Chokri Belaid e l’appello all’unità lanciato da Rached Gannouchi, leader di Ennahdail partito religioso al governo della Tunisia accusato di aver chiuso gli occhi di fronte alle intimidazione e violenze degli integralisti islamici contro esponenti politici dell’opposizione laica- ieri pomeriggio a Tunisi c’è stata un’ennesima aggressione. Un gruppo di “barbus”, il soprannome con cui vengono indicati gli integralisti islamici della corrente salafita, hanno attaccato l'automobile su cui viaggiava il segretario generale del partito laico Al-Joumhouri, Ahmed Nejib Chebbi. L’uomo, che stava rientrando a casa dopo avere partecipato ai funerali di Belaid è riuscito a sfuggire all’aggressione grazie alla prontezza di riflessi della sua scorta armata. I poliziotti hanno infatti impedito ai salafiti di forzare lo sportello dell’auto accanto a cui si trovava l'esponente di Al-Joumhouri. Non è la prima volta che Chebbi è vittima di minacce e tentativi di violenza ma nessuno si aspettava che potesse essere aggredito anche durante la prima giornata di lutto nazionale della Tunisia post Ben Alì. La tensione anziché smorzarsi, rimane pertanto altissima in tutto il paese e il primo sciopero generale dal 1978, in segno di solidarietà e protesta per l’omicidio di Belaid e per la devastante crisi economica, lo ha isolato ancora di più. Gli aeroporti sono rimasti chiusi e non si sa se riapriranno visto che lo sciopero potrebbe protrarsi. Non giova al clima di paura e incertezza anche lo scontro in atto all’interno di Ennahda. Il premier, Hamadi Jebali, membro del partito, ha affermato pubblicamente di voler procedere allo scioglimento del governo per varare un esecutivo di tecnici la cui formazione è "nell’interesse del paese". Questa determinazione creerà ancora più frizioni con la leadership di Ennahda che si era subito detta contraria all’idea di Jebali. Il sito web di Radio Mosaique, ha riportato nel dettaglio la spiegazione del premier in cui sottolinea che per il nuovo governo “non c'è bisogno dell’avallo dell’Assemblea costituente”, contraddicendo le dichiarazioni di alcuni membri del suo partito. Jebali ha concluso dicendo che la sua decisione ha come scopo la difesa degli interessi della Tunisia. Il braccio di ferro all’interno del partito vincitore delle prime elezioni post regime è dunque appena iniziato e chiunque la spunterà non potrà pensare di aver vinto la guerra: siamo solo all’inizio della battaglia tra oscurantismo e modernità.
La Stampa 9.2.13
Nigeria, assalto alla clinica Uccise 9 volontarie anti-polio
Curavano i bambini. Gli estremisti islamisti: vogliono sterilizzare i musulmani
di Giordano Stabile
Dal Pakistan, dalle remote valli dello Swat, la propaganda assassina contro i vaccini anti-polio ha viaggiato per migliaia di chilometri. Fino a una moschea della periferia di Kano, nord della Nigeria. Giovedì sera un imam si è scagliato contro i medici che conducono la campagna annuale per prevenire la malattia che nel Paese africano fa ancora centinaia di vittime all’anno: «Sterilizzano i nostri bambini, vogliono distruggere l’Islam, è un dovere dei credenti fermarli».
Le stesse parole che riecheggiano nelle madrase pachistane e afghane, lo stesso esito criminale. Ieri mattina uomini armati, probabilmente del gruppo islamista Boko Haram, hanno colpito due volte. Un primo agguato contro un ambulatorio vicino al centro della città: quattro morti. Mezz’ora dopo il commando, che si muoveva a bordo di un motociclo, ha colpito in una clinica distante pochi chilometri, a Hotoro: raffiche di mitra sulle volontarie che aspettavano i bambini in attesa di essere vaccinati. In tutto dieci vittime, nove donne.
La Nigeria è il Paese più colpito al mondo dalla poliomielite, una malattia infettiva causata da un virus che può portare alla paralisi completa. L’anno scorso, secondo il Centro per lo sradicamento globale della Polio sono stati registrati 121 casi. Seguono il Pakistan con 58 casi e l’Afghanistan, 37.
Un primato negativo che ha una forte radice culturale in comune: la disinformazione degli islamisti più radicali, che vedono nei vaccini un complotto dell’Occidente per sterilizzare i bambini e indebolire la nazione musulmana. Nell’Afghanistan dei taleban, negli Anni Novanta, la vaccinazione dei bambini venne bloccata. E lo è ancora, di fatto, nelle zone più remote del Paese e del vicino Pakistan, dove comandano gli studenti coranici.
La stessa propaganda ha frenato le campagne in Nigeria, in fase di islamizzazione forzata, con dodici Stati del Nord dove già vige la sharia. Le concessioni fatte dal governo centrale, guidato dal presidente cristiano Goodluck Jonathan, non sono servite a disinnescare la pressione degli estremisti. I Boko Haram, che in tre anni hanno causato la morte di 1400 persone, hanno alzato il tiro, e attaccato il 25 gennaio scorso l’emiro di Kano, Alhaji Ado Bayero, uno dei leader musulmani moderati più influenti e soprattutto figura di rilievo nella gerarchia musulmana in Nigeria, seconda solo al sultano di Sokoto.
L’81enne emiro era colpevole di indire preghiere in comune con i cristiani contro le violenze religiose e interetniche, si è salvato per un pelo dall’esplosione di una moto-bomba. Da allora è stato imposto ai motociclisti il divieto di trasportare passeggeri, proprio nel tentativo di impedire questo tipo di raid. Il venerdì precedente 150 persone erano morte in una mezza dozzina di attentati, in tre Stati diversi.
La strategia del terrore colpisce da allora nei giorni di preghiera, il venerdì o la domenica. Ieri ha cambiato bersaglio. E ha avvicinato ancor più il paesaggio africano a quello delle valli dell’Asia Centrale dominate dai fondamentalisti. Il temuto «Afrighanistan», l’Africa come nuovo Afghanistan, è una minaccia sempre più reale.
Repubblica 9.2.13
I crociati assassini del vaccino anti-polio
Quelle infermiere in prima fila per salvare vite con un sorriso
Dopo il Pakistan e l’Africa adesso è allarme a Kabul
di Alberto Cairo
DOPO il Pakistan la Nigeria: dodici operatrici della campagna anti-poliomelite sono state uccise ieri in due distinti attacchi nel Nord del Paese. Dietro agli attentati, secondo i media locali, ci sarebbe la mano del gruppo estremista islamico Boko Haram. Normale chiedersi se ora non toccherà all’Afghanistan, la rimanente delle tre nazioni al mondo ancora infestate dalla poliomielite. Durante gli anni trascorsi in Africa e in Afghanistan non sono mai stato un vaccinatore. In qualità di fisioterapista, ho visto e vedo invece ogni giorno la tragedia dei pazienti disabili che pagano il prezzo della mancata vaccinazione. Riabilitazioni dolorose e lunghissime, spesso a vita. Confesso di avere spesso invidiato i medici e gli infermieri che si occupano di immunizzazione, un lavoro che elimina il problema alla radice, un taglio netto, efficace. Ho ascoltato le loro storie, i racconti di viaggio, apprezzando gli straordinari risultati. Non scorderò mai due infermiere inglesi incontrate negli anni Ottanta a Juba, Sud Sudan adesso, allora
in guerra con Khartoum.
NON giovanissime, erano una alta e massiccia, l’altra minuta e scattante, entrambe con occhi azzurri e accento non facile. Impossibile trovarle separate, si muovevano insieme, parlavano completando le frasi dell’altra, come un copione concordato. Da decenni in Africa, ora formavano squadre di vaccinatori e controllavano i programmi.
Visitavano ogni clinica della regione, in macchina, in barca o a piedi, dormivano dovunque capitasse, talora trattate come regine, altre volte osteggiate da stregoni timorosi di vedere il proprio potere oscurato da delle bianche strane e sospette. Non infrequenti i momenti drammatici.
Una volta, cacciate e in procinto di andarsene, vennero riconosciute da una vecchia alla quale, tempo prima, avevano dato chissà quale medicina, guarendola. La donna convinse molte delle madri a fidarsi delle straniere e parte del villaggio vaccinò i figli. Sei mesi dopo, di ritorno, mentre si chiedevano non fosse opportuno evitare il villaggio, vennero raggiunte da un gruppo di guerrieri, scortate e accolte come maghe-guaritrici. Nessuno dei bambini vaccinati si era ammalato; degli altri, molti erano morti. Cominciò la battaglia per convincere che il merito era del vaccino, non loro personale. Non fu facile far credere che somministrato da altri avrebbe avuto lo stesso effetto. Dovettero promettere viaggi e visite regolari.
Dieci anni dopo, A Kabul, incontrai una delle due, quella alta. Tristissima, mi disse che la sua compagna era morta. Lei stava partendo per la provincia del Nuristan, stesso lavoro, vaccinazioni. Ancora una volta l’invidiai per il viaggio dove io mai ero potuto andare. L’Afghanistan era allora in piena guerra civile, a causa dei combattimenti spesso vaccinare era impossibile, i pericoli non mancavano, ma mai un operatore sanitario veniva attaccato proprio per le sue funzioni. In alcune province (ricordo quella di Khost, area di etnia pashtun al confine col Pakistan), alcuni mullah sostenevano che fosse il vaccino a causare la polio. Storie di ignoranza, mai di violenza: i vaccinatori venivano invitati ad andarsene, finiva lì.
In Pakistan e Nigeria è ben diverso. La Croce Rossa Internazionale ha da qualche anno lanciato la campagna mondiale “Health in danger”, la salute minacciata, per denunciare gli ostacoli che nei paesi in guerra medici e pazienti affrontano e battendosi per eliminarli. La situazione sembra peggiorare. Impossibile invidiare il lavoro dei vaccinatori adesso. Mi chiedo se non ci sarà una fuga dal mestiere. Guai sospendere l’immunizzazione, il disastro sarebbe sicuro e immediato.vra
La Stampa TuttoLibri 9.2.13
Ma a Maratona chi vinse davvero?
Uno storico ricostruisce la grande battaglia in cui Atene sconfisse l’impero persiano
di Alessandro Barbero
Richard A. Billows «Maratona. Il giorno in cui Atene sconfisse l’Impero» Il Saggiatore pp. 259, € 19,50
Nel 1851 lo storico inglese Edward Creasy inventò una categoria destinata a duratura fortuna: le battaglie decisive della storia. Le sue «Fifteen Decisive Battles of the World» descrivevano una traiettoria dalla direzione ben precisa. L’Europa si era difesa per secoli dalla barbarie, trionfando dei Cartaginesi al Metauro, degli Unni ai Campi Catalaunici e degli Arabi a Poitiers, e questo aveva reso possibile lo sviluppo di una civiltà cristiana e occidentale che agli occhi del pubblico vittoriano rappresentava ovviamente il vertice della storia umana. Nell’orizzonte europeo, la saggezza della Storia aveva poi creato l’Inghilterra con la battaglia di Hastings, l’aveva protetta con la sconfitta dell’Invincibile Armada, le aveva consentito di trionfare a Waterloo; anche se Creasy, che non è uno sciocco, considera altrettanto decisive le sconfitte inglesi, che hanno permesso ai rivali di sopravvivere e reso pluralista l’Occidente: dalla vittoria di Giovanna d’Arco a Orléans a quella di Giorgio Washington a Saratoga.
Nel secolo e mezzo che ci separa da Creasy sono apparse molte altre rassegne di battaglie decisive, ed è istruttivo scoprire come a seconda dei casi è stata modificata la lista: per gli storici americani del primo Novecento, ad esempio, le battaglie di Santiago e di Manila vinte nel 1898 contro gli Spagnoli, che portarono nell’orbita dell’impero americano Cuba e le Filippine, rientravano a pieno titolo fra gli scontri decisivi dell’umanità, e forse avevano ragione loro, anche se queste battaglie oggi nessuno le ricorda più. Ma la prima delle battaglie decisive è sempre, per tutti, la stessa con cui Creasy apriva il suo libro: Maratona, dove nel 490 a. C. diecimila opliti ateniesi sconfissero l’esercito mandato dai Persiani a sottomettere la Grecia, e «salvarono la civiltà occidentale».
Uno storico postmoderno, se gli fosse chiesto di scrivere un libro su Maratona, sarebbe tentato di verificare se questo venerabile luogo comune non possa essere rovesciato. Supponiamo che gli Ateniesi fossero stati sconfitti: e allora? I Persiani avrebbero preso e bruciato Atene, ma questo è esattamente quello che accadde dieci anni dopo, quando Serse ritentò l’impresa in cui suo padre Dario aveva fallito. Subito dopo gli invasori avrebbero incontrato un nemico alquanto più pericoloso degli Ateniesi, gli opliti spartani schierati ad aspettarli sull’Istmo di Corinto, e lì la «lancia doriese», che perfino l’Ateniese Eschilo, combattente di Maratona, menziona con timoroso rispetto nei Persiani, ne avrebbe fatto macello, esattamente come accadde undici anni dopo a Platea.
Ma vogliamo rovinarci: supponiamo pure che la vittoria persiana a Maratona fosse seguita dalla sottomissione delle poleis al Gran Re. Siamo proprio sicuri che la civiltà greca sarebbe stata soffocata nella culla, e con lei la civiltà occidentale? I Persiani, in un territorio così remoto, si sarebbero limitati a imporre dei governi a loro favorevoli e a riscuotere il tributo, come facevano con le città greche dell’Asia Minore, i cui guerrieri, marinai e ingegneri servirono fedelmente Serse. Quello persiano era un impero florido e tollerante, capace di suscitare affetto nei più rancorosi fra i popoli sottomessi: gli Ebrei, ad esempio, prosperarono sotto i Persiani, a tal punto che nel libro di Esdra si afferma chiaramente che è stato Dio a creare l’impero persiano, e nel libro di Isaia il suo fondatore Ciro il Grande è addirittura chiamato il Messia. Perché non avrebbero potuto prosperare anche i Greci?
Richard Billows, professore alla Columbia, non ha nessuna intenzione di avallare simili fatuità postmoderne. Il suo racconto è saldamente ancorato al presupposto che Maratona fu davvero una battaglia decisiva: se Milziade fosse stato battuto, la storia del mondo sarebbe stata un’altra, e noi non saremmo qui. E può darsi che sia proprio necessaria questa fede per affrontare ancora una volta il racconto di una battaglia su cui abbiamo un’unica fonte coeva, Erodoto. Come sempre, quando si racconta una battaglia antica le cui fonti sono già state passate al setaccio, c’è poco di nuovo da scrivere, e il libro si regge o cade sulla bravura narrativa dell’autore, e sulla sua capacità di immedesimarsi nell’esperienza vissuta dei protagonisti. Da questo punto di vista le pagine in cui Billows racconta il conflitto si leggono con grande piacere e profitto. Bisogna però avvertire che si tratta al massimo d’una cinquantina di pagine, perchè, con tutta la buona volontà, non è possibile tirarla più in lungo. La maggior parte del libro assomiglia piuttosto a un breve corso di storia greca e, in minor misura, persiana, fino al 490: alla fine, si rimane con la sensazione che sarebbe forse stata più istruttiva la versione postmoderna.
Repubblica 9.2.13
Il Quaderno di Gramsci? E’ solo voglia di scoo
Joseph Buttigieg interviene sulla polemica del taccuino scomparso del filosofo
di Simonetta Fiori
«Il taccuino segreto di Gramsci? Tutta questa faccenda mi lascia sconcertato». Dal suo dipartimento vicino a Chicago, dove insegna Letteratura comparata, Joseph Buttigieg interviene nella polemica sul pensatore sardo. Curatore dell’edizione critica dei Quaderni
per la Columbia University Press, lo studioso americano è presidente dell’International Gramsci Society, dove confluiscono gli specialisti sparsi in tutto il mondo. «Ho appena letto L’enigma del Quaderno, il nuovo libro del linguista Franco Lo Piparo. Ma se dovessimo assecondare questa nuova ricostruzione, ci troveremmo dinanzi a un caso di schizofrenia».
Perché, professor Buttigieg?
«Secondo Lo Piparo, il taccuino scomparso sarebbe un “quaderno delle cliniche”, scritto negli anni dei ricoveri tra Formia e Roma. E conterrebbe esplosive critiche al comunismo. Lo studioso trascura un dettaglio, che non è irrilevante: fu a Formia che Gramsci pose mano alle note dei suoi Quaderni.
Così da una parte va completando la sua opera più importante, senza peraltro correggere d’una virgola una complessa costruzione concettuale che per quanto eterodossa è sempre dentro l’orizzonte comunista; e nello stesso periodo — o immediatamente dopo — comincia un nuovo quadernino, che rinnega radicalmente l’opera precedente. Non sarebbe stato più logico intervenire sulle pagine già scritte, apportandovi modifiche e aggiunte?».
E tutte quelle discrepanze nella catalogazione dei Quaderni? Salti nella numerazione, il balletto sulla cifra dei taccuini...
«Ora, dal mio ufficio dell’University of Notre Dame, mi è difficile intervenire sulle incongruenze filologiche. Posso soltanto dirle che Valentino Gerratana, curatore nel 1975 dell’edizione critica, diede una descrizione plausibile della numerazione. E in un secondo momento Francioni e Cospito ne hanno fornito un’interpretazione convincente».
Ma ora Lo Piparo li contesta.
«Lo Piparo ha fatto un lavoro ineccepibile sulle carte. Il problema nasce là dove comincia la sua interpretazione, che appare del tutto romanzesca. Un salto di numerazione non significa necessariamente l’esistenza di un quaderno mancante. E l’esistenza di un quaderno mancante non significa necessariamente che Gramsci ripudiò il comunismo ».
Ma quel che si legge sotto traccia — non solo nei libri di Lo Piparo, ma anche in quelli di Luciano Canfora e di Carmine Donzelli — è che l’Istituto Gramsci avrebbe avuto interesse a non fare luce sul taccuino segreto perché materiale scomodo per il Pci.
«In tanti anni di frequentazione dell’Istituto non ho mai avuto sentore che mi si nascondesse qualcosa. La cosa assurda è che Lo Piparo abbia pubblicato il suo saggio senza aspettare l’esito dell’inchiesta promossa dalla Fondazione Gramsci. Mi sarebbe apparso più serio attendere i risultati. Peccato che Giuseppe Vacca, presidente del Gramsci, non abbia richiesto un impegno preciso in questo senso».
Secondo Lo Piparo, sarebbe stato Piero Sraffa a sottrarre tre quaderni a Tania Schucht. E Tania si sarebbe vendicata appiccicando su altri tre quaderni le etichette dei fogli rubati.
«Sì, ho letto di questo astutissimo stratagemma. Ma sarebbe stato molto più semplice denunciare l’accaduto una volta tornata a Mosca. Possibile che non ve ne sia traccia né nelle carte né nella memoria della famiglia Schucht? Anche qui mi sembra che Lo Piparo proceda sulla base di congetture prive di riscontro. Due parole, poi, su Sraffa: fu Gramsci a chiedere il suo aiuto, non Sraffa ad offrirsi. E senza il suo nutrimento intellettuale, Gramsci probabilmente non avrebbe scritto i Quaderni. E questo sarebbe “l’agente coperto” del Comintern, il “ladro” dei taccuini?».
Ma lei che idea si è fatto di tutta questa polemica?
«Si vuole separare l’autore dei Quaderni dal marxismo e dalla tradizione comunista. Anche in un precedente saggio, Lo Piparo riconduceva il concetto di egemonia agli studi di Gramsci sulla lingua: un contributo anche serio, ma che finiva per liquidare la sua formazione marxista. E ora siamo alla fine di questo circolo ermeneutico».
Però anche tra i sostenitori di Lo Piparo c’è chi non condivide questa lettura “liberale”. A parte questo, mi sembra di cogliere un giudizio severo sul rapporto tra la cultura italiana e Gramsci.
«Negli ultimi decenni sono usciti anche libri importanti, ma nel dibattito culturale Gramsci è rimasto sullo sfondo, se non per qualche improbabile rivelazione (Gramsci suicida, Gramsci convertito...). Fino all’improvvisa effervescenza dell’ultimo periodo, fondato per lo più sul sensazionalismo. Altrove l’autore dei Quaderni continua a essere un pensatore vivo, capace di parlare al presente: l’altro giorno l’inglese Michael Gove, ministro conservatore dell’Istruzione, ha indicato Gramsci tra i suoi modelli ispiratori».
Che cosa la irrita di più della nuova polemica?
«L’impressione è che si usi un cadavere per fare degli scoop. Il successo di questo genere di pubblicazioni — mi riferisco a Lo Piparo ma anche agli altri che procedono per supposizioni non suffragate da riscontri — è dovuto a una circostanza precisa: non possono essere confermate né smentite. Io non posso dire con certezza: Gramsci non ha mai scritto il trentesimo quaderno. E dunque questi autori avranno sempre ragione. Se ci pensa, noi stiamo parlando da mezz’ora di una cosa che non esiste. Hanno vinto loro».
Corriere 9.2.13
Lo strano rito dei Luperci. Il «San Valentino» dei romani
di Eva Cantarella
A Roma, ogni anno, il 15 febbraio, si celebrava un rito antichissimo, ai nostri occhi assolutamente incomprensibile. Quel giorno infatti i Luperci (membri di un gruppo le cui «selvagge riunioni — scrive Cicerone — erano state istituite prima della libertà e delle leggi») uscivano nelle strade nudi, coperti solamente da un perizoma e armati di una frusta, e inseguivano e fustigavano i passanti. Ma, come scrive Plutarco non tutti cercavano di ripararsi dai colpi: le donne adulte, al contrario, facevano di tutto per essere colpite. Strano rito, in verità. Che diventa peraltro comprensibile se si ripensa a un'antichissima credenza: fustigare era uno di modi per praticare la magia su persone e cose. In questo caso, a scopo demografico. Tra gli effetti favorevoli della fustigazione, infatti, stava la capacità di favorire la fecondità. Ecco perché le donne romane, il 15 febbraio, aspettavano con ansia che i Luperci uscissero, con le loro fruste: la sterilità, per loro, era la massima delle sventure, il segno di un totale, irrimediabile e imperdonabile fallimento. La frusta, invece, era una speranza di felicità. La loro assicurazione contro il rischio di venir meno al compito cui erano destinate.