martedì 12 febbraio 2013

l’Unità 12.2.13
Fecondazione: confermato il no alla legge italiana
Strasburgo boccia il ricorso di Monti
Respinto il ricorso: «La diagnosi pre-impianto va consentita»
Il governo aveva chiesto il riesame
di Gioia Salvatori


ROMA Avevano fatto ricorso perché a loro, fertili ma con una malattia ereditaria scritta nel dna, non era consentito di accedere alla diagnosi pre-impianto del loro embrione. La Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo aveva dato ragione alla coppia ordinando di rivedere la legge 40 ma il governo dei tecnici, nello stupore dei laici, si era messo di traverso facendo ricorso contro la sentenza a favore dei coniugi Costa-Pavan. Un atto inaspettato: perché un governo fortemente europeista fa ricorso contro una Corte europea? Perché un governo chiamato a risanare i conti si dedica con veemenza a un tema etico? Oggi, col senno del dopo salita in politica del senatore Monti, è facile rispondere.
Lo scorso 28 agosto, quando arrivò la sentenza europea e il ministro della salute Balduzzi annunciò il ricorso, si poteva solo sospettare. Ora un altro pezzo della legge 40 è smontato, ora il diritto alla fecondazione medicalmente assistita con diagnosi pre-impianto ce l’hanno tutti, non solo le coppie sterili, anche quelle fertili ma portatrici di una malattia ereditaria. La legge 40 viola il principio di uguaglianza e la Carta europea dei diritti dell’uomo, aveva scritto la scorsa estate la Corte Europea di Strasburgo intimando al Parlamento di riscrivere la legge. Ieri Strasburgo ha confermato tutto, respingendo al mittente il ricorso del ministro della Salute Balduzzi arrivato in corner, mentre il governo tecnico già traballava. Per i laici il respingimento del ricorso è un’altra vittoria, per l’ex sottosegretario Eugenia Roccella, Pdl, già animatrice dei movimenti cattolici pro-life, a un passo dalle elezioni il ministro Balduzzi dovrebbe emanare delle nuove linee guida della legge 40. A Roccella replica l’avvocato Filomena Gallo dell’associazione radicale Luca Coscioni sottolineando l’evidenza: e cioè che i tempi per le linee guida non ci sono; «il prossimo Parlamento – aggiunge non può più esimersi dal riscrivere la legge 40 tenendo presente che da quando è nata ad oggi sono arrivate 23 ‘decisioni’, cioè ordinanze di tribunali, sentenze internazionali e della Corte costituzionale, contro la legge 40. Di fatto aggiunge da oggi le coppie fertili potranno chiedere di accedere alla fecondazione medicalmente assistita con diagnosi pre-impianto senza più fare ricorso al tribunale di zona, forti di sentenze internazionali che danno loro questa facoltà. È una vittoria della cultura laica e un'affermazione dei diritti delle persone che vorrebbero avere un figlio», conclude il legale che ha seguito la coppia.
Della legge 40 resta ben poco, ci hanno pensato tribunali, corti nostrane ed europee a picconarla. Grazie a varie sentenze oggi è superato il limite tre embrioni da concepire e obbligatoriamente impiantare: a tutela della salute della donna, per evitare continui stimolazioni ovariche e prelievi, se ne possono formare di più e si possono pure congelare. Resta il divieto di fecondazione eterologa ma l’avvocato Gallo ricorda che diversi tribunali hanno detto che è incostituzionale e a breve risponderanno alla Corte Costituzionale che li ha sollecitati a «formulare meglio la richiesta di incostituzionalità del divieto di eterologa». Presto ci sarà altra giurisprudenza sul divieto di fecondazione con un gamete esterno alla coppia, dunque, perché anche su questo tema c’è qualcuno che studia nei tribunali di Firenze, Bologna, Catania e Milano «E speriamo che la politica non si faccia sostituire ancora una volta dai tribunali», è laconica l’avvocato Gallo.
Le reazioni alla sentenza non tardano ad arrivare: «È stato respinto un ricorso che non andava fatto», dice il vicepresidente del Pd, Ivan Scalfarotto. «La decisione della Corte di Strasburgo ha detto invece Anna Finocchiaropresidente dei senatori Pd conferma la necessità di riscrivere la legge40 sulla procreazione assistita per aiutare le giovani coppie». Aspettiamo la politica alla prova dei fatti, col prossimo Parlamento, quando una legge sbagliata sarà da riscrivere per dare a tutti gli stessi diritti, tutelare la salute della donna e i desideri di tutte le coppie che vogliono un figlio.

La Stampa 12.2.13
Fecondazione, l’Italia bocciata a Strasburgo
Per la Corte legge 40 da riscrivere. Eliminando gli ostacoli allaprocreazione
di Marco Zatterin


La famiglia Costa-Pavan ha vinto, il dossier italiano sulla procreazione assistita deve essere riaperto. La coppia, fertile e in dolce attesa, s’è vista proibire la diagnosi prenatale dell’embrione, chiesta per verificare la presenza d’una malattia ereditaria di cui i due sono portatori. Per questo, sono ricorsi alla Corte europea dei diritti umani, tribunale del Consiglio d’Europa, contro la legge 40/2004 che regola le gravidanze medicalmente assistite. I magistrati di Strasburgo hanno dato loro ragione. Due volte: a fine agosto, con un pronunciamento formale; e ieri, bocciando l’appello della Repubblica italiana.
La decisione delle toghe europee rende definitiva la sentenza emessa la scorsa estate. Di fatto suggerisce l’eliminazione di ogni ostacolo alla procreazione assistita, nonché alle diagnosi preimpianto per le coppie affette o portatrici sane di malattie genetiche. In agosto, la Corte aveva sancito «l’incoerenza del sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto». Ora ha respinto la richiesta delle autorità italiane, basata a suo modo di vedere su appunti procedurali e non di merito.
Un passo indietro. Nel 2006 i due coniugi hanno avuto una bambina affetta da fibrosi cistica: allora hanno scoperto di essere portatori sani della malattia, che si trasmette in un caso su quattro. Quando la donna ha intrapreso una nuova gravidanza, nel 2010, si è sottoposta alla diagnosi prenatale con esito positivo: di conseguenza, ha deciso di abortire. La coppia vorrebbe adesso un altro bambino, con la fecondazione in vitro per assicurarsi la certezza della sua sanità, cosa che si può avere con lo screening. Ma ciò è vietato però dalla legge 40, che riserva la pratica alle coppie sterili, o a quelle in cui il partner maschile abbia una malattia sessualmente trasmissibile, ad esempio l’Aids.
Per tutta risposta, i Costa-Pavan si sono rivolti a Strasburgo, asserendo che la normativa italiana viola il diritto alla vita privata (e familiare), e crea una discriminazione rispetto alle altre coppie. La Corte ha bocciato in agosto gli articoli 13 e 4 della legge 40. Il primo è quello che vieta «qualsiasi sperimentazione su embrione umano». Il secondo prescrive che «il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è circoscritto ai casi di sterilità, o di infertilità inspiegate, documentate da atto medico, nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico». Bocciando il ricorso italiano, Strasburgo invita a riscrivere la legge. Anche perché, si sottolinea, il ricorso alla fertilizzazione in vitro (e quindi allo screening) è ammesso in quindici Paesi europei. Mentre in Europa il divieto della diagnosi preimpianto è previsto solo in Italia, Austria e Svizzera.
Molteplici le reazioni. L’associazione Luca Coscioni, difensore della coppia Costa/Pavan, parla di «una vittoria della cultura laica e un’affermazione dei diritti delle persone che vorrebbero avere un figlio». Chiede all’Italia di adeguarsi al più presto. Antonio Palagiano, Presidente della Commissione d’inchiesta sugli errori in campo sanitario (candidato di Rivoluzione Civile), ritiene che «sia la fine della legge 40». Nichi Vendola, presidente di Sel, ha criticato la legge, «oscurantista». Mentre più voci del Pd chiedono la revisione totale della norma, il Pdl è manifestamente contro."Il testo attuale vieta in moltissimi casi le diagnosi preimpianto"

Repubblica 12.2.13
Legge 40, l’ultima bocciatura dell’Europa
Respinto il ricorso dell’Italia. “Deve permettere la fecondazione assistita alle coppie fertili”
di Caterina Pasolini


STRASBURGO — L’Europa boccia ancora una volta la legge sulla fecondazione assistita, e anche il governo italiano che aveva provato a cambiare le carte in tavola. La Corte europea dei diritti umani ha infatti deciso di non accettare il ricorso, presentato l’ultimo giorno utile in gran segreto a novembre, con il quale l’Italia ha chiesto il riesame della
sentenza con cui la stessa Corte ad agosto aveva cassato la legge 40. Definendola senza mezzi termini «incoerente col sistema legislativo e che viola il diritto alla la vita privata e familiare».
Col nuovo no dei giudici, la sentenza è diventata esecutiva e quindi la legge italiana dovrà adeguarsi alla carta europea e prevedere l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita a tutte le coppie fertili che possono trasmettere malattie genetiche ai loro figli. E che fino ad oggi erano escluse dalle tecniche e dall’assistenza a meno di non
appellarsi ogni volta ai tribunali.
Come Anna e Marco, portatori di fibrosi cistica che si erano rivolti alla Corte di Strasburgo chiedendo giustizia, sentendosi discriminati da un paese dove «con la mia malattia mi lasciano abortire ma non mi fanno fare la diagnosi pre impianto che potrebbe far nascere un bambino sano ed impedire il dramma di un aborto» aveva raccontato la donna. Proprio per questo motivo la Corte ad agosto aveva sancito «l’incoerenza del sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto «visto che con una legge, la 194 consente l’aborto per la patologia, e con un’altra, la 40, vieta accertamenti che potrebbero evitarlo». Un sistema legislativo, aveva aggiunto, «che viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare », condannando l’Italia a pagare 15mila euro di danni morali agli aspiranti genitori. La decisione della Corte ha provocato immediate reazioni in Italia, soprattutto contando che più di 80 parlamentari avevano scritto al ministro della Salute Balduzzi per invitarlo a non presentare ricorso. «Sono stati risolti i dubbi del ministro, Strasburgo boccia il suo ricorso, la legge 40 è da riscrivere» twitta il senatore Marino del Pd mentre Palagiano dell’Idv si augura che «il nuovo parlamento abbia il coraggio di riscrivere la legge garantendo alle donne italiane gli stessi diritti che nel resto del mondo». Questa è una vittoria importante per le donne ma il governo ha perso un’altra occasione per far bella figura, rinunciando a proporre il vergognoso ricorso».
Conosce bene le donne che lottano per avere un figlio Filomena Gallo, presidente dell’Associazione Coscioni, legale di tante coppie come l’avvocato Niccolo Paoletti, difensore della coppia che ha vinto a Strasburgo. «Questa è una vittoria della cultura laica, oggi è stata eliminata una dolorosa discriminazione nell’accesso alle cure ed è un motivo di gioia per tutti quelli che dopo anni di sofferenze sognano di avere un bambino che possa avere un vita possibile, nonostante le malattie di cui sono portatori sani. È un passo avanti nell’uguaglianza: sino ad oggi la legge 40 valeva solo per le coppie sterili o i portatori di patologie virali, come hiv ed epatite. Adesso quello che resta da fare è la battaglia perché la diagnosi pre-impianto sia possibile nelle strutture pubbliche, come prevede la sentenza di Cagliari di novembre, o al massimo su convenzione. Perché la tutela della salute, il sogno di un figlio non malato non deve essere un lusso da ricchi».

l’Unità 12.2.13
Bersani prepara il rush finale: «La sfida è tra noi e la destra»
Il leader Pd in Lombardia con Ambrosoli replica a Monti: «Dà bacchettate ma è suscettibile alle critiche. Rivoluzione liberale? La farà il Pd»
Lettera ai sindaci: «Autonomie locali decisive»
di Simone Collini


Domenica a Milano con Nichi Vendola e Bruno Tabacci, la prossima settimana a Palermo insieme a Matteo Renzi e Rosario Crocetta. E poi il passaggio in Campania domani e in Puglia sabato, perché se Lombardia e Sicilia saranno decisive per la conquista del Senato anche in queste altre due regioni non si può abbassare la guardia. Pier Luigi Bersani va al rush finale della campagna elettorale chiamando alla mobilitazione militanti, simpatizzanti ma anche i sindaci del Pd, e soprattutto lanciando questo messaggio: «In Italia abbiamo avuto destre stataliste, populiste, demagogiche, qualche volta autoritarie, ma mai liberali. Io intendo fare una rivoluzione liberale. Un po’ l’ho fatta dice ricordando i provvedimenti adottati da ministro su mutui, energia, treni, assicurazioni e ora intendo riprenderla».
Bersani sa che la partita è sul filo di lana, che il vero avversario, Silvio Berlusconi, non ha chance di vittoria e che però a rischiare di mandare tutto all’aria è la presenza degli altri protagonisti in campo. Come Mario Monti, che pur sapendo quale intreccio ci sia tra regionali e politiche in Lombardia ha deciso di appoggiare Gabriele Albertini, col rischio che a conquistare la Regione sia il leghista Roberto Maroni. Per questo Bersani insiste sul fatto che la partita è tra centrosinistra e centrodestra, stigmatizzando chi propone invece quello che il leader Pd definisce un «voto semi-utile».
In quest’ultima decina di giorni di campagna elettorale Bersani continuerà quindi a colpire a testa bassa Berlusconi: «Parla di donne come fossero bambole gonfiabili», dice riferendosi alle battute a doppio senso fatte dall’ex premier a un’impiegata della Green power durante una manifestazione. Ma il leader del Pd non risparmierà stoccate all’indirizzo dell’attuale presidente del Consiglio, che con la sua «Scelta civica» può condizionare a favore di Berlusconi le prossime elezioni: «Lo vedo un po’ suscettibile, ma non si può pensare di dare bacchettate e ricevere carezze, tante ne dai, tante ne prendi, sennò uno sta fuori dalla politica», dice all’indomani della battuta di Monti sull’uscita «infantile» di Bersani riguardo all’esito del vertice europeo sul bilancio («una vittoria di Pirro»). Il leader del Pd replica anche nel merito a quell’«infantile» pronunciato dal capo del governo, spiegando: «Non è una critica infantile ma adulta, perché io son ben contento se l’Italia spende un euro in meno e prende un euroinpiù,manoncistoadirechela prospettiva di bilancio europea va bene così. L’Italia così non va da nessuna parte». Per il leader del Pd l’accordo siglato a Bruxelles la scorsa settimana è stato raggiunto «dando retta agli inglesi e a qualche alleato nordico» ed avendo tagliato la gran parte delle risorse destinate a crescita e sviluppo è tutto nel segno del «ripiegamento». Basta guardare a un dato: «Il bilancio federale degli Stati Uniti rappresenta il 22% del Pil Usa, quello europeo l’1% del Pil Ue».
Parole che Bersani pronuncia proprio nella penultima tappa che fa in Lombardia, muovendosi tra Vimercate e Bergamo insieme ad Umberto Ambrosoli. Il prossimo appuntamento sarà domenica, insieme anche a Vendola e Tabacci, a Piazza Duomo, perché il risultato regionale dipenderà in gran parte anche dalla capacità del centrosinistra di fare il pieno di voti a Milano. Ci sarà anche Giuliano Pisapia a lanciare la volata alla coalizione dei progressisti e democratici. E non sarà il solo sindaco che in questi ultimi giorni di campagna elettorale schiaccerà il piede sull’acceleratore.
SOTTO IL SEGNO DI BERLINGUER
Bersani ha scritto a tutti i sindaci del Pd una lettera in cui si sottolinea che l’Italia potrà salvarsi se torneranno al centro della scena le autonomie locali. Formalmente è un ragionamento su ciò che serve per superare la crisi e ciò che il Pd al governo intende fare per raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che l’iniziativa risponde anche all’esigenza di coinvolgere quante più risorse possibili per vincere le elezioni. Un’operazione che andrà avanti con lettere scritte ad altre categorie istituzionali e professionali, ma anche e soprattutto con l’invito a militanti e simpatizzanti del Pd a dare una mano nei prossimi giorni con campagne di porta a porta e volantinaggio nelle principali piazze italiane. Il messaggio che sta facendo girare per arruolare volontari è sotto il segno di Enrico Berlinguer, citato in queste parole: «Proseguite il vostro lavoro... casa per casa... strada per strada».
Bersani sa che la vittoria è a un passo, ma anche che non si potrà stare «seduti su una sedia», perché «l’Italia è suggestionata dai populismi, dalla demagogia» e «serve una battaglia di civilizzazione». Lo dice parlando a Bergamo, nel corso di un’affollata iniziativa insieme ad Ambrosoli: «Sono convinto che vinciamo, ma attenzione che saremo comunque in un’Italia che sarà suggestionata da populismi, demagogia. Serve una battaglia di civilizzazione, non si può star seduti su una sedia». Anche per questo, dice, i voti sono sicuramente «tutti utili», ma per «battere la destra» e voltare finalmente pagina dopo vent’anni di berlusconismo c’è una sola scelta possibile, il Pd e il centrosinistra: «Il meccanismo elettorale fa vincere chi arriva primo, c’è poco da discutere. Tutti i voti sono utili, ma se vuoi un voto per vincere, per battere la destra, ce n’è uno solo. È matematica, non è un’opinione».
E a Monti che insiste nel criticare i partiti e la «vecchia politica», Bersani prima di chiudere il tour lombardo lancia un paio di messaggi. Il primo, escludendo accordi pre-elettorali: «Non ho intenzione di far tavoli o tavolini». Il secondo: «Il governo tecnico ci ha tenuto fuori dal precipizio. Con il nostro aiuto. Sarebbe meglio che il Professore se ne ricordasse».

l’Unità 12.2.13
«+ sapere = sviluppo». Oggi a Roma il convegno di Left
Studenti, ricercatori e docenti al Teatro Eliseo per discutere di risorse pubbliche e politiche per l’innovazione con esponenti di Pd e Sel
di Mario Castagna


Ci sarà spazio per il cahier de doléances, le lamentazioni sullo stato comatoso dell’università italiana. Ma gli organizzatori hanno pensato alla giornata di oggi come un momento per discutere del futuro dell’Italia attraverso il futuro dell’università e della ricerca del nostro Paese.
Oggi al Teatro Piccolo Eliseo a Roma si ritroveranno studenti, ricercatori, docenti chiamati a raccolta da Left. «+ Sapere = Sviluppo» è il titolo di questo grande appuntamento che il settimanale offre alla coalizione guidata da Pier Luigi Bersani per confrontarsi con un mondo troppo bistrattato dalle politiche degli ultimi governi.
A poche settimane dalla scadenza elettorale gli operatori della conoscenza chiederanno precisi impegni alla politica. In primis, uno stop alla contrazione delle risorse pubbliche, per le quali l’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi Ocse. Poi, un nuovo slancio per la ricerca pubblica, fondamentale per l’innovazione tecnologica, insieme a nuove politiche industriali. E una riforma del sistema di valutazione, tanto importante quanto oggi inefficiente. Infine, un nuovo sistema per il diritto allo studio, su cui il ministro Profumo ha recentemente redatto un decreto di riforma duramente contestato dagli studenti.
«Oggi, riprendendo discussioni interrotte in passato, serve interrogarsi sul ruolo del sapere come motore di sviluppo di un Paese, indipendentemente dalle logiche mercantilistiche, ma non svincolato dalla sua funzione originaria di strumento capace di innovare e di migliorare le condizioni sociali ed economiche delle persone ci racconta Luca Spadon, portavoce del sindacato studentesco Link negli ultimi anni il dibattito pubblico sull’università si è concentrato principalmente intorno ai temi dell’organizzazione delle strutture universitarie. Sarebbe ora di parlare della funzione dell’università nella costruzione del nuovo modello di sviluppo».
Oggi, nel mondo dell’università e della ricerca, sono molti a pensare di avere ormai oltrepassato il punto di non ritorno. I dati divulgati dal Cun sul crollo delle iscrizioni universitarie e sui tagli al finanziamento hanno portato all’attenzione di tutti la drammatica situazione. Ma la vita quotidiana di studenti, ricercatori e professori è costellata da tempo di prove tangibili del declino. Anche se colpita da mille problemi che la affliggono ogni giorno, però l’università italiana non è solo una storia di lacrime e sangue. I redattori di Roars negli ultimi mesi hanno fatto della loro piccola rivista telematica una grancassa di idee purtroppo poco diffuse sui grandi giornali. Hanno messo insieme i numeri e hanno ribaltato tanti luoghi comuni. Le università italiane sono troppe e alcune vanno chiuse, si legge spesso sulle colonne dei grandi quotidiani italiani. Peccato che l’Italia abbia 1,6 atenei per milione di abitanti contro i 2,3 dell’Inghilterra, i 3,4 dell’Olanda, gli 8,4 della Francia e addirittura i 14,5 degli Usa. La ricerca italiana produce poco e i soldi investiti sono risorse buttate, si dice spesso giustificando i tagli di bilancio. Ma a guardare bene le classifiche internazionali, gli atenei italiani hanno un buon livello medio, senza grandi eccellenze ma con tante università di buona qualità su tutto il territorio nazionale. Le classifiche internazionali sulla produttività scientifica collocano l’Italia sempre nelle prime posizioni. Se poi il sostegno pubblico fosse maggiore l’Italia potrebbe anche primeggiare in molte discipline.
Di chi è quindi la colpa del declino italiano? Sicuramente di qualche barone e del nepotismo che domina poche facoltà. Ma soprattutto del declino degli investimenti privati nei settori della ricerca e dell’innovazione.
L’Italia è agli ultimi posti in tutte le classifiche sulle industrie innovative, sull’occupazione dei giovani laureati e sul numero di ricercatori occupati nel settore privato. Anche per questo Left ha scelto di mettere dall’altra parte del tavolo non solo chi nel Pd e in Sel si occupa di questi temi, ma anche Stefano Fassina, che per i democratici si occupa di lavoro ed economia. Per ribattere all’assunto di berlusconiana memoria che se abbiamo le scarpe più belle del mondo, possiamo anche fare a meno delle nostre università.

La Stampa 12.2.13
Il timore di Thorne: la sinistra rischia di non fare le riforme
L’ambasciatore: potrebbe non avere una maggioranza solida
di Maurizio Molinari


L’ America si aspetta una vittoria del centrosinistra nelle elezioni italiane «ma l’interrogativo è se avrà una maggioranza solida»: ad affermarlo è l’ambasciatore Usa a Roma, David Thorne, intervenendo al summit «L’Italia incontra gli Stati Uniti» organizzato dall’«Italian Business & Investment Initiative».
Thorne partecipa ad una sessione dell’evento assieme all’ex premier Giuliano Amato ed al ministro del Tesoro Vittorio Grilli quando il moderatore del «Council on Foreign Relations», Gideon Rose, chiede delle previsioni sull’imminente voto. «Ci sarà una maggioranza di sinistra ed è meglio di una maggioranza di destra» risponde Amato, assicurando al parterre di analisti e diplomatici che «le riforme continueranno in Italia con il nuovo governo e saranno nell’agenda dei prossimi due anni». È una previsione che punta a rassicurare l’amministrazione Obama e pochi attimi dopo Thorne interviene, descrivendo l’approccio degli Stati Uniti al voto. «All’inizio il nostro timore riguardava la nascita di un nuovo governo» esordisce con franchezza, facendo presente che «è rientrato» perché «è evidente che i cambiamenti intervenuti con le riforme sono destinati ad essere permanenti». È un riferimento alle assicurazioni che il centrosinistra ha dato a Washington sulla continuazione delle riforme iniziate dal premier Monti. «Il centrosinistra vincerà - afferma Thorne - ma sarà forte abbastanza per sostenere le riforme? ». È su questo interrogativo che si sofferma, aggiungendo: «Serve una maggioranza solida, noi speriamo che durerà». Tale augurio si lega non solo alla convinzione che le riforme debbano continuare per il risanamento dell’Italia, ma anche al fatto che «siete una nazione determinante per rendere forte l’Europa» e il bisogno di «leader politicamente forti nell’Unione Europea» è anche nell’interesse degli Stati Uniti «perché il nuovo Segretario di Stato John Kerry vuole rafforzare la partnership atlantica».
A conferma del valore dell’alleanza fra i due Paesi, Thorne definisce «molto utile sotto innumerevoli aspetti il ruolo svolto dall’Italia in Nordafrica» a fianco degli Stati Uniti «nella stagione delle primavere arabe» e, rivolgendosi ad un pubblico di imprenditori, suggerisce di «investire in Italia» premiando non solo la «vivacità delle aziende locali» ma anche «la riforma della Giustizia» intrapresa dal governo Monti «perché ha conseguenze molto importanti e positive» anche sull’economia. Riguardo all’incontro di venerdì alla Casa Bianca fra i presidenti Giorgio Napolitano e Barack Obama, Thorne lo definisce «un omaggio alla carriera» del Capo dello Stato italiano, sottolineandone in particolare il merito del «costante sostegno alle riforme» da cui dipendono il risanamento e la crescita. Soffermandosi a più riprese sul ruolo di Napolitano «a favore delle riforme», Thorne è apparso indicarlo come una sorta di garante durante la transizione verso il nuovo esecutivo.
In precedenza Amato aveva criticato, davanti a Grilli, il recente accordo sul bilancio dell’Unione Europea lamentando «l’aver accettato la prevalenza dell’austeritàsenza l’inserimento della crescita in maniera tale da non essere positivo neanche per la Germania». Amato ha inoltre incalzato il ministro affermando che «è un errore cercare le risorse per gli stimoli nel bilancio nazionale mentre bisognerebbe sfruttare meglio gli strumenti sovranazionali». Grilli ha evitato di rispondere, soffermandosi piuttosto sulla «volatilità dei mercati», definendola «normale prima delle elezioni» e confermando che «la ripresa è prevista nel secondo semestre dell’anno anche se è presto per indicare quale sarà la sua entità».

Repubblica 12.2.13
L’endorsement Usa al centrosinistra “All’Italia serve una maggioranza forte”
L’apertura dell’ambasciatore Thorne. Lo stop al Cavaliere
di Federico Rampini


NEW YORK — «Occorre che un esecutivo di centro-sinistra sia abbastanza forte per governare. L’Italia ha bisogno di una forte maggioranza. La cosa peggiore, sarebbe un governo che non riesca a durare». È insolitamente esplicito l’ambasciatore americano in Italia, David Thorne. Forse perché sta parlando in casa. È a New York, davanti a una platea fatta prevalentemente di suoi colleghi, operatori che vengono come lui dal mondo del business. È un campionario di investitori americani (o italo-americani) dall’industria e dalla finanza.
Lontano dalla tensione della campagna elettorale italiana, l’ambasciatore fa capire chiaramente su quale scenario punta l’Amministrazione Obama. Partendo dalla «ragionevole previsione di una maggioranza di centro- centro-sinistra» che ha evocato davanti a lui Giuliano Amato, l’ambasciatore ripete più volte quell’aggettivo: «Strong». Bisogna che quella maggioranza sia forte, «per proseguire sul cammino delle riforme, perché il governo Monti nel primo anno ha fatto un buon lavoro, ma un anno non basta». L’uscita di Thorne avviene, non a caso, a pochi giorni dall’arrivo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Washington.
Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha confermato che Barack Obama riceverà Napolitano questo venerdì mattina alle dieci nell’Oval Office, la stanza degli eventi più solenni. Napolitano viene definito nel comunicato della Casa Bianca «uno stretto alleato e un amico degli Stati Uniti», e Obama attende di vederlo per «rafforzare i legami tra le due nazioni». Anche se la visita di Napolitano ha il sapore di un «saluto di addio», le elezioni saranno al centro di quel colloquio. Lo stesso Thorne è stato richiamato in patria anche per questo incontro fra i due presidenti. Ha avuto modo di confrontarsi col Dipartimento di Stato sulle elezioni italiane. Il suo messaggio arriva durante il summit economico Italia-Usa organizzato dalla Italian Business & Investment Initiative a New York con la partecipazione di Amato, del ministro dell’Economia Vittorio Grilli, di amministratori delegati di Alitalia, Enel, Eni, Wind.
Dietro le parole di Thorne sulla «strong majority» affiorano lo scenario desiderato, e quello più temuto da Casa Bianca e Dipartimento di Stato. Nel rendere omaggio al lavoro compiuto da Monti come presidente del Consiglio, al «grande miglioramento dei rapporti tra i due governi» che si verificò dopo l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, l’ambasciatore allude al fatto che per Obama l’arrivo del governo Monti nel novembre 2011 significò l’avvio del graduale superamento di una crisi acuta dell’eurozona. Sono risultati che Washington non ha dimenticato. Con il partito democratico italiano i rapporti sono antichi e solidi, e Napolitano sarà ricevuto da Obama con affetto: una lettera personale di stima da parte di Obama venne recapitata al Quirinale a dicembre, a ridosso dello scioglimento anticipato delle Camere in Italia.
Le minacce insite nel nostro voto per Washington sono rappresentate dalle forze demagogiche e anti-europee, quelle che potrebbero riaprire un focolaio di crisi italiana nell’eurozona. Di qui l’importanza che la futura maggioranza di centro-sinistra «sia forte», ed esprima «un governo capace di durare». Sembra l’identikit implicito di un governo Bersani-Monti. Thorne aggiunge un riferimento geostrategico: «L’Italia ha un ruolo critico da svolgere per stabilizzare Tunisia, Libia, Egitto».
Il summit economico di New York, ospitato al Peterson Hall del Council of Foreign Relations, offre anche una sintesi della futura agenda di governo che gli investitori americani vorrebbero vedere realizzata in Italia. È un sondaggio compiuto in una platea importante: molti di questi investitori sottolineano che «i capitali Usa potrebbero salvare un pezzo di media industria italiana, quella che rischia di scomparire quando arriva la successione generazionale, oppure rischia di soccombere perché non ha le risorse finanziarie per affrontare la competizione delle potenze emergenti».
Imprenditori e gestori di fondi che prendono la parola nell’affollatissima riunione elencano una serie di ostacoli all’investimento estero nel nostro paese. Nell’ordine di successione degli interventi, ecco un campione rappresentativo. Un coro quasi unanime. «L’euro è troppo caro, insostenibile, a questi livelli rischiamo di strapagare le acquisizioni
di aziende italiane, ci conviene comprare aziende Usa». «Investite poco nell’istruzione ». «Non state proteggendo le vostre capacità manifatturiere, il vostro saper fare, anche artigianale ». «Avete un problema di cultura civica, la corruzione è diffusa, i politici strapagati, manca trasparenza anche nel vostro capitalismo». «La vostra burocrazia ha un’avversione all’economia di mercato, siete il solo paese dove il braccio destro dell’imprenditore è il suo commercialista ». «Le vostre piccole imprese conoscono poco i mercati globali, a volte non parlano neppure l’inglese». Thorne nel trarre le somme aggiunge due elementi. «L’Italia — dice l’ambasciatore Usa — ha fatto troppo poco per proiettarsi tutta intera nell’economia digitale, l’alfabetizzazione a Internet è ancora in ritardo, anche nelle piccole imprese. Avete anche bisogno di riformare la giustizia civile, perché i tempi siano equiparabili agli altri paesi avanzati, e i cittadini così come gli operatori economici possano avere delle certezze».

La Stampa 12.2.13
«Lui rappresenta la società civile».
In Lombardia Ingroia si schiera con Ambrosoli
C’è chi calcola che un centrista su tre può andare col candidato del centrosinistra
di F. Pol.


Il leader del Pd «I voti sono tutti utili, ma lì o vinciamo noi o Maroni»

La partita vera si gioca in Lombardia. Ma chi contro chi è ancora tutto da vedere. Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia che a livello nazionale se la vede da sola, in Regione si schiera con il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli: «Lui rappresenta la società civile». Gabriele Albertini che corre per il centro di Mario Monti e a questo punto nemmeno tutto, fa il nervoso: «Adesso tutti i giustizialisti sono con Ambrosoli. Ma le uscite isolate e personalistiche non sposteranno di nulla gli equilibri elettorali». Sarà. Ma l’endorsement dei montiani - a partire dalla capolista di Scelta Civica nel collegio di Lombardia 1 per la Camera Ilaria Borletti Buitoni - rischia di scompaginare quel testa a testa dato per certo fino a pochi giorni fa tra Roberto Maroni, aspirante Governatore per la Lega e il centrodestra tutto, e Umberto Ambrosoli che a questo punto può contare sull’appoggio di Pd, Sel, Idv, Rivoluzione Civile e pure sulla diaspora montiana.
Mancano meno di due settimane al voto e i giochi rimangono aperti. E proprio per questo la chiamata alle armi si fa più forte. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani assicura di non voler aprire alcuna trattativa con la compagine di Mario Monti «Né tavoli, né tavolini» - ma si capisce dal suo appello che vuole solo schiacciare sull’acceleratore: «I voti sono tutti utili, ma se uno vuole un voto utile per battere la destra e vincere ce n’è solo uno e in Lombardia appare chiarissimamente. O vince Ambrosoli o vince Maroni... ». Ma a questo punto conta anche la ricaduta che può avere a livello nazionale e mica solo per i decisivi voti che attribuiranno seggi al Senato lo spostamento dei singoli schieramenti su un candidato o un altro. C’è chi calcola - quando i sondaggi non sono già più possibili - che un centrista su tre potrebbe andare con Ambrosoli. Mario Monti, il primo a fare l’endorsement verso Gabriele Albertini si ripete: «Ogni elettore è libero di votare come vuole ma il nostro candidato per la Lombardia rimane Albertini». E almeno a parole pure Roberto Maroni sembra non temere gli effetti di un voto disgiunto dei centristi pronti a schierarsi col suo antagonista: «Se uno è un moderato che vota Monti poi non può scegliere chi è sostenuto dalla sinistra».

Repubblica 12.2.13
Il leader di “Fermare il declino” si dice contrario al voto disgiunto: “Ma la Regione ha bisogno di cambiare”
Giannino apre al candidato del centrosinistra “Pronto a collaborare, è meglio di Maroni”
Se un elettore sceglie me in Parlamento e il candidato del centro sinistra al Pirellone merita rispetto
Nel centrodestra a guida berlusconiana lo smottamento sarà inevitabile, il Carroccio doveva guardare oltre
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Oscar Giannino non ha dubbi: Umberto Ambrosoli è meglio di Roberto Maroni. Contrario al voto disgiunto, il giornalista e leader di “Fermare il declino” non nasconde però di preferire il candidato del centrosinistra nella sfida per la regione Lombardia. Di più, a due settimane dal voto regionale per scegliere il successore di Roberto Formigoni, Giannino si dice pronto a collaborare con Ambrosoli «sui singoli provvedimenti».
Diversi montiani sono usciti allo scoperto, annunciando un voto disgiunto a favore di Ambrosoli.
«E’ una circostanza che mi colpisce, perché quattro settimane fa hanno dato vita a una nuova formazione e oggi dicono a chi pensa di votarli che si può scegliere il voto disgiunto».
Eppure tempo fa lei disse di apprezzare Ambrosoli, mentre fu critico con Maroni.
«Il giudizio lo riconfermo, ma non sono nelle condizioni di chiedere di sostenere Ambrosoli e di non votare per il nostro candidato».
E allora come si concretizza questa preferenza per il candidato del Pd?
«Il miglior aiuto che possiamo dare a una coalizione di Ambrosoli è avere quanti più consiglieri regionali possibile, in modo da permettere alla Regione di fare passi avanti, ad esempio sulla sanità».
Questo significa sostenere un governo regionale di centrosinistra?
«Dobbiamo mettere i nostri consiglieri regionali nelle condizioni di dare un sostegno sui singoli provvedimenti, per cambiare lo schema dopo 18 anni di politiche
unidirezionali. Cosa diversa è invece il voto disgiunto, perché in questo caso daremmo una mano a partiti zoppi. Bisogna superare l’attuale schema, in questo senso il voto disgiunto non lo capisco».
E cosa si sente di dire a un elettore che sceglie Giannino in Parlamento e Ambrosoli in Regione?
«Gli elettori hanno sempre ragione. A differenza di Berlusconi, io ho il massimo rispetto per gli elettori: sono liberi di anteporre il proprio giudizio a tutto il resto, ci mancherebbe...».
Teme che una vittoria di Maroni possa far traballare gli equilibri nazionali?
«Questo non lo credo, perché nel centrodestra a guida berlusconiana ci sarà comunque uno smottamento inevitabile. L’errore di Maroni è stato di prospettiva. Ha fatto male a tornare sui suoi passi, alleandosi di nuovo con Berlusconi. E’ una prospettiva senza futuro, il segretario della Lega doveva guardare oltre».
Con le Politiche ci sarà un cambio di direzione a livello nazionale?
«La vera novità di massa è Grillo. Poi ci siamo noi, anche se siamo appena nati. L’importante è che ci sia in Parlamento un quinto, forse anche un quarto del totale di parlamentari “nuovi”. Questo cambia la situazione. Pensate a uno come Amato: non ce la farà ad andare al Quirinale e non per una questione di numeri, ma per la pressione fortissima che ci sarebbe nel Paese».
Allo stesso modo serve un cambio di rotta in Lombardia.
«La Regione ha bisogno di cambiare. In fondo è lo stesso motivo per cui il centrosinistra ha scelto Ambrosoli dalla società civile ».

La Stampa 12.2.13
Militari e volontari così la Cina addestra gli “hacker rossi”
di Ilaria Maria Sala


Di nuovo viene lanciato l’allarme per l’hacking dalla Cina, vista ormai da più parti come il «Paese più pericoloso», come ha detto il direttore di Google, Eric Schmidt, pochi giorni fa. Abbiamo chiesto a Xiao Qiang, direttore del progetto China Digital Times, a Berkeley, di parlarci degli hacker cinesi:
Chi sono gli hacker cinesi?
«Ci sono due grandi categorie da contraddistinguere. Una è quella di cui si parla forse di più, che costituisce un tipo di hacking favorito da sponsorizzazione governativa e militare. Su questo, per ovvi motivi, le i n fo r m a z i o n i sono un po’ più difficili da ottenere, anche se la loro azione è visibile. Poi ci sono invece gli altri hacker, quelli che possiamo definire come i “patrioti”: persone che decidono in modo indipendente di dedicarsi a danneggiare siti esteri, in particolare, o di dissidenti, o di intercettare le informazioni altrui, che si tratti di quotidiani stranieri o giornalisti che per questi lavorano o gruppi in esilio che vogliono combattere. Questi, si chiamano “hacker rossi”, hong ke in cinese».
Come agiscono questi «hacker rossi»?.
«Una persona di mia conoscenza è stato per un certo periodo un hacker rosso: un giovane informatico brillante, motivato dal “patriottismo” e dall’emozione dell’hacking. Di solito questo tipo di hackers, contrariamente a quelli governativi, non ha nessun incentivo a mantenersi discreto, per questo si può capire qualcosa di loro andando su uno dei loro tanti website, che danno un’idea della loro ideologia e delle loro attività: come quelli di chinahacker.com, iper-nazionalisti, una comunità di hackers che lavora sia dentro che fuori dalla Cina ma che ha come loro principale obiettivo quello di portare avanti azioni che danneggiano chi determinano essere i “nemici della Cina”».
Quali sono i loro obiettivi?
«Principalmente colpiscono il Giappone, gli Usa e Taiwan. Non tutti restano in questo campo per sempre, e spesso attirano l’attenzione del governo: quello che conoscevo io, per esempio, dopo diversi anni ha lasciato, ed ha aperto una piccola azienda informatica, legittima. Poi, è stato avvicinato dal governo, affinché tramite la sua azienda fornisse computer gratuiti alle Ong. Di sicuro è un modo per controllarle, non è neutro che sia un ex hacker a essere incaricato di queste attività da parte del governo, in modo indiretto. Ma è un’evoluzione naturale: spesso queste persone dopo un periodo da freelance lavorano per il governo, anche se non tutti sono così espliciti nelle loro attività».
E gli hacker «istituzionali»i?
«Lo Stato sponsorizza l’hacking in modo estremamente aggressivo, e lo indirizza verso ogni tipo di obiettivo possibile. La strategia è ad ampio raggio. Non si tratta necessariamente di persone che sono in Cina in modo fisico, possono lavorare anche dall’esterno, anche se per la maggior parte sono per l’appunto cinesi, e in ogni caso sponsorizzati dal governo cinese».
Pechino non teme ricadute negative a livello internazionale?
«Abbiamo visto anche la Corea del Sud essere presa di mira in modo concertato da attacchi che probabilmente hanno origine in Cina. In certi casi, lo sforzo è per portare avanti hacking cancellando il proprio percorso, e dare l’impressione che queste azioni originino altrove, spesso da Taiwan, per screditare e confondere le acque».

Repubblica 12.2.13
Gallimard pubblica il nuovo libro del fondatore del “Nouvel Observateur” Che racconta un incontro con il grande autore
Lo sguardo di Camus
Quando Albert trovò la felicità nel deserto
di Jaen Daniel


Sulle alture intorno a Tangeri un tempo c’era una scogliera detta del «kif», perché il locale, alquanto rudimentale, che vi sorgeva sopra forniva da fumare questa cannabis un po’ grossolana. Quello che sorprende, su questa collina che sovrasta l’oceano, è vedere dei banchi accatastati gli uni sugli altri, come se ci si trovasse di fronte a una scena teatrale o dentro una scuola. Lo spettacolo è l’acqua a perdita d’occhio, di qua l’oceano, più a est il mare. Su questa scogliera i giovani sognano. Io credevo che lo facessero soltanto i vecchi. Hanno il desiderio di perdersi in questa distesa indistinta, dove nulla interrompe lo sguardo. Stanno là, pietrificati e felici, come ne ho visti spessissimo, come mi sono visto talvolta, di fronte al deserto.
Un giorno Camus ha invitato un uomo giovanissimo a passare da lui alla Nouvelle Revue Française.
Mi ha scelto senza conoscermi veramente, sembrava smanioso di parlare. Tornava dal deserto algerino. Non ricordavo di aver mai conosciuto un uomo tanto raggiante. Sembrava innamorato. E in effetti era posseduto dal suo viaggio. Usava termini religiosi. Era stato visitato e ne tornava accompagnato. Quanto l’ho amato quel giorno! Quanto sono stato felice che mi confidasse quella grazia! Ma Camus ha terminato il racconto di quella trance con un aneddoto. Passando da Algeri era andato a rivedere la baia delle sue felicità, dall’alto di quello che si chiamava il balcone Saint-Raphaël. Lì aveva incontrato un algerino molto modesto, un uomo di mezz’età, dal viso grave, dolce e segnato, e che notandolo, dopo aver terminato la sua meditazione di fronte alla calma degli Dei, gli aveva detto: «Tu guardi, tu guardi come se conoscessi». Perché conosco, ha risposto Camus. L’arabo lo ha contemplato a lungo, combattuto fra lo scetticismo e la simpatia. Poi gli ha accordato un sorriso di benvenuto e di benedizione. Camus raccontava tutto questo felicissimo. «Quell’arabo e io sapevamo tutto quello che serve sapere sul mondo», mormorò per concludere. In seguito ho capito che cosa volevano dire, lui e quell’arabo. Un tuffo nell’Oceano primordiale, estraneo e allo stesso tempo materno, un inserimento nel grande vuoto che è anche il grande tutto e l’impressione inebriante di far parte del cosmo.
Non so se sarei riuscito a fumare del kif in un posto diverso da Tangeri. E non so nemmeno se avrebbe avuto lo stesso effetto. Credo che quella città sia un po’ folle. Mi ha dato le vertigini. In quel momento è la sola città del Nordafrica che sia veramente libera, nella sua allegria e nella sua giovinezza. Si sveglia intorno alle sei della sera e a quel punto comincia ad abbandonarsi a una serie ininterrotta di rappresentazioni. I tangerini sono dei sonnambuli, nel duplice senso della parola. Sono instabili, come il sole sullo Stretto, incerti come i venti che esitano fra due mari, brulicanti come le onde che si susseguono sulle spiagge immense, deserte, infinite. Nella folla brunastra e sensuale passano a volte correnti bionde di vichinghi e valchirie. La capigliatura che ricade sulle spalle, la criniera alta, la schiena carica di un enorme zaino da campeggio, tenuto fermo con delle cinghie sulle cosce nude. Queste correnti circolano nell’indifferenza generale, tanto non suona strano da queste parti lo straniero, tanto si sente a casa propria in questa appendice cosmopolita dell’Africa, questo istmo britannizzato dell’Andalusia. Ho anche l’impressione che l’effetto del kif non sia lo stesso nei giorni in cui l’Atlantico si infervora e nei giorni in cui regna il Mediterraneo.
In ogni caso, è Tangeri che mi ordina di ritornare a Blida.
Da noi gli anziani dicevano e il padre ripeteva cose ben diverse. Per esempio, e Dio sa quant’erano solenni allora, che non si poteva giudicare riuscita la propria vita se non si invecchiava nella propria città e non si moriva in casa propria. Bisognava andare a consultare il patriarca a casa sua, bisognava che i bambini diventati adulti fossero presenti per chiudergli gli occhi una volta arrivata la sua ora. La città natale e la casa di famiglia sono i rifugi del sacro. Credevo di aver relegato l’attaccamento alla città e alla casa avita nella polvere dei continenti scomparsi quando d’improvviso, grazie a una pipa di kif, ho preso a pensarvi, ripensarvi e poi a sognarli. Ho cominciato ad assomigliare sempre più all’hidalgo della Mancha, che confonde i ricordi e i progetti, il fantastico e il reale e che non può avere altra cornice di vita che l’immaginario. I miei personali romanzi cavallereschi si sono trasformati in quelli di un piccolo borgo diventato capitale, di una piccola casa diventata castello e di tutti i personaggi romanzeschi che per me hanno contato quanto degli amici veri.
Allora, poiché non sogno di essere bocciato alla maturità perché non riesco ad afferrare il concetto di valenza nella chimica, poiché non sogno di essere contemporaneamente campione di tennis, direttore d’orchestra e grande attore, eccomi improvvisamente proiettato a casa mia, e sento il rumore delle cascate e delle sorgenti nelle montagne affacciate sul mare, nella città degli avi e nella casa di famiglia. La sospensione della pena è terminata.
L’intervallo è finito. L’esilio dimenticato. Vengo a prolungare la stirpe. Prolungo la continuità. La vita non si interrompe, si perpetua grazie alla vitalità delle radici. Ci saranno tanti rami che cadranno insieme alle foglie, ma l’albero rimarrà, unico ed eterno. Ma a ogni modo la casa è la trasmissione, la durata, non è la morte. Tutto continua. Eccomi. Arrivo. Riapro la bottega chiusa il giorno prima da mio padre. Riprendo l’eredità. Ho indossato il grembiule grigio che gli serviva per proteggersi dalle nuvole di farina. Sento mia madre che grida «Jules» dal balcone, e la vedo che mi sorride quando si accorge che sono a fianco di mio padre. Vestito come lui. Al mio posto. A svolgere la mia funzione. Là dove serve. Là dove si deve. Tu non volevi che io restassi. Per lo meno è quello che dicevi. Per favorire le mie partenze dicevi: «Va, figlio mio». Ma mi facevi scrivere: «Quando tornerai, non avremo più il diritto di essere infelici ». Tu pensavi alla guerra e al fatto che io potessi scamparvi, non al mio ritorno fra voi. Ma eccomi: sono qui. Ti faccio rivivere attraverso il mio ritorno, e non hai più il diritto di essere infelice. Perché non sono tornato a mani vuote. Non sono un viaggiatore senza bagaglio. Metto ai tuoi piedi tutte le ricchezze della mia vita vissuta e della mia vita sognata. Ho radunato tutto. Non lascio dietro niente. Niente e nessuno. Qui a Blida, Ourida piccola rosa, ritrovo tutto a sessant’anni di distanza, la piazza d’armi attorno a cui passeggiano gruppi diversi e chiedono notizie gli uni degli altri ogni volta che si incrociano, a distanza di qualche minuto. Ho ritrovato Badigel, il principe guercio e ruffiano, i piccoli lustrascarpe più informati di tutti, la strada degli ottonai, del ciabattini, dei mozabiti, e poi il mercato arabo, dove per la prima volta mi sento a casa, mentre quand’ero bambino mi era ostile. Mi indirizzano verso il giardino Bizot, oggi giardino Lumumba.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © Editions Gallimard (Parigi), 2013

Repubblica 12.2.13
I manoscritti
Online i tesori della British


LONDRA — È una delle più grandi collezioni di libri medievali al mondo: 25mila volumi che risalgono tutti a prima del 1600, tra cui numerosi papiri e veri e propri tesori. Fino ad ora, per vederli, bisognava venire di persona alla British Library di Londra. Ma da ieri la grande biblioteca pubblica ha cominciato a mettere online gratuitamente, i suoi gioielli del Medioevo, seguendo il mantra secondo cui niente (o quasi) in una biblioteca dovrebbe essere inaccessibile. Tra i primi titoli finiti sul web c’è un Vangelo secondo Luca
del nono secolo in latino, un libro dell’Apocalisse in spagnolo, un Petit Livre d’Amour
e l’unico manoscritto di Beowulf sopravvissuto a un incendio nel 1731. (E.F.)

l’Unità 12.2.13
Non compreso, ma parla a noi
Il contrasto al relativismo, sfida anche per i progressisti
di Mario Tronti


Ecco una notizia! Mi colpisce, come un fulmine, a metà mattinata.
Il tempo è grigio, freddo e piovoso, non promette nulla di buono. Apprendo che è un fulmine, a ciel sereno, anche per il cardinal Bagnasco. Si tratta quindi di una decisione maturata e presa in interiore homine, secondo le indicazioni del suo amato Agostino. Mi dispiace. Mi ero abituato alla presenza mite, riservata, sottile, nel linguaggio come nel pensiero, di Papa Ratzinger. Temo il peggio, come accade troppo spesso per le novità che irrompono in questa triste epoca.
Pochi come Benedetto XVI erano rimasti così fedeli al nome e alla figura che aveva portato con sé prima di salire al soglio pontificio. Una vita di studi e di opere a livello teologico, che non aveva abbandonato una volta assunta la responsabilità pontificale. L’aveva solo adattata, in modo molto personale, alle dovute esigenze pastorali. La narrazione storiografica della vicenda terrena di Gesù era in realtà il suo modo di parlare ai fedeli, quasi intrattenendoli nelle forme di un messaggio di consapevolezza e però anche di speranza. Non disdegnava certo la pratica di gestione dell’istituzione Chiesa, nel lungo periodo di cura della Congregazione che aveva in cura la propagazione della fede, e nel ravvicinato rapporto operativo con Papa Woityla. Ma si vedeva che era di più, e qualcosa di diverso da tutto questo.
Si notava come un impaccio nel suo rapporto con la folla, si scorgeva un desiderio di ritrarsi presto dall’esposizione pubblica, per tornare nella penombra a coltivare la sua passione per la musica. Del resto non si può frequentare quotidianamente la parola della grande musica senza rassegnarsi a convivere con i segni di una mesta melanconia del vivere. Mi piace pensare che a motivare questa più che eccezionale scelta sia stata meno la stanchezza del corpo e in maggior grado una stanchezza dello spirito. Ha detto, annunciando di lasciare il palcoscenico del mondo, di volersi ritirare in una vita di preghiera. Quanto infatti è concesso a un pregare intenso e prolungato in quella funzione politica di Papa-re, che la Chiesa si ostina ad assegnare al pontefice romano? Sì, l’eremo in un recesso del Vaticano, in un luogo che è stato di clausura, molto più che il balcone su piazza San Pietro, sembra adatto a Papa Benedetto.
Se lo stile è l’uomo, questo gesto rivela un tipo di umanità non comune. Decidere di scendere volontariamente dal soglio più alto, per abbassarsi ad essere un semplice strumento del Signore in contemplazione, è un atto di esemplare nobiltà d’animo, che questo tempo del volgare apparire non riuscirà neppure ad comprendere. Un atto di kenosi, di svuotamento di sé, della propria presunta onnipotenza. Da rileggere, per il caso, l’inno paolino in Filippesi 2, il Cristo che «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini». Lo so che anche questa volta si chiacchiererà intorno a motivazioni più terra terra intorno ai segreti del Vaticano, ma per un momento prendiamoci una pausa di meditazione. Fa bene in questa concitazione dei giorni.
Papa Ratzinger non è stato ben compreso. Fin dalla sua elezione ha pesato su di lui l’immagine di guardiano dell’ortodossia, in quanto proveniente dall’Ufficio erede del Tribunale dell’Inquisizione. È stato visto come sostanzialmente ostile alla svolta del Concilio, quando ne era stato un protagonista, chiuso alle altre dimensioni religiose, mentre si sforzava di portare avanti il dialogo più aperto possibile. Specialmente il mondo laico, cosiddetto progressista, ha seguito in modo assai distratto il suo fondamentale contrasto nei confronti dell’egemonia in atto del relativismo, in ogni campo, dalla sostanza della storia alla pratica della vita. Del tutto in ombra è stata lasciata la sua iniziativa innovatrice negli equilibri della gerarchia ecclesiastica. Eppure è proprio attraverso Benedetto XVI che è passata, soprattutto nella Cei, l’assunzione di quella frontiera che vede nell’unità dinamica di questione sociale e questione antropologica un punto strategico fondamentale per una ricostruzione civile e morale, dopo la devastazione degli ultimi anni e decenni. E c’è solo da sperare che da qui non si torni indietro.
«La sofferta decisione» recita il tempo di uno degli ultimi quartetti di Beethoven, quelli straordinariamente innovativi per la musica dell’avvenire. Non possiamo che pensare a questo, di fronte all’evento. Chiniamoci con rispetto e cerchiamo di capire.

l’Unità 12.2.13
Le forze di un Papa
La Chiesa è stata posta davanti a un bivio storico, ma questa domanda non riguarda solo i credenti
di Claudio Sardo


I SONO EVENTI CHE METTONO I CRONISTI DAVANTI A UNA STORIA PIÙ GRANDE DI QUELLA CHE SOLITAMENTE RACCONTANO E COMMENTANO. Le dimissioni di Papa Benedetto dal soglio pontificio sono questo. E non tanto perché in duemila anni di vita della Chiesa di Roma i precedenti si contano sulla punta delle dita. Non è certo Celestino V il metro di paragone.
L’impressione piuttosto è che il Papa teologo, rimasto ormai senza le forze che lui stesso ritiene necessarie per proseguire il ministero, abbia posto anzitutto alla Chiesa, e quindi al mondo, una domanda cruciale e drammatica sulla fede nella modernità, sulla comunione nel secolo dell’individualismo, sul ruolo delle istituzioni nel divenire della società. Una domanda posta con la libertà che nessuno pensava potesse prendersi un Papa. Peraltro un Papa che ha avuto non pochi problemi di comprensione con il mondo contemporaneo.
Da marzo Benedetto XVI non sarà più Pietro. Ma continuerà a pensare, a pregare, a vivere nella comunità dei cristiani, dunque a condividere la testimonianza e la fede. E il suo magistero non è svanito, anzi per molti aspetti resta incompiuto, e continuerà a vivere nella Chiesa-comunità mentre un nuovo Papa si affiancherà al vecchio. Non sarebbe stato possibile un gesto come quello a cui ieri abbiamo assistito senza il Concilio Vaticano II, senza la sua novità, senza che fossero abbattute le barriere di una sacralità separata che impedivano di guardare la sacralità del mondo. Forse le forze mancanti al Papa non sono solo quelle dovute all’età o alla malattia: forse le forze mancanti riguardano la capacità di tutta la Chiesa di procedere sulla strada del Concilio, di tenere insieme la Verità con le antenne e le sofferenze del mondo, di conservare lo spirito critico verso il moderno senza perdere la carità. Forse il Papa ha preso questa decisione perché ha percepito la straordinarietà del momento, e anche delle decisioni inedite che la Chiesa dovrà assumere per rinnovare se stessa e contribuire a rilanciare un umanesimo, nel tempo in cui i mercati, la finanza, le tecnoscienze sembrano aver conquistato il potere sull’uomo.
Viene persino da chiedersi se ciò che si sta aprendo in Vaticano è un conclave, o addirittura un Concilio. Viene da chiedersi se Papa Benedetto abbia colto la necessità di un confronto a questa altezza, arrivando alla conclusione che, per compiere il passo, è necessario appunto un nuovo Papa, un nuovo «pronunciamento dello Spirito». In fondo l’allontanamento dalla Chiesa di tante persone soprattutto nelle società più ricche e secolarizzate, lo scandalo della pedofilia in diversi continenti, persino il caso clamoroso del corvo vaticano che ha portato al Papa sofferenze indicibili sono fenomeni che alludono ad un conflitto irrisolto tra la Chiesa e un mondo dove le reti di solidarietà si stanno corrodendo, dove la politica rischia di essere solo immanenza (solo presente, senza passato e senza futuro), dove il valore e il desiderio dell’individuo si misurano con la ricchezza economica.
Ma la Chiesa cosa fa? Cosa riesce a testimoniare? Quanto è coerente? Che capacità di comunione, di carità, di fratellanza, di povertà esprime? Papa Benedetto per anni ha cercato di offrire alla società ormai multiculturale e multireligiosa, e anche alla cultura laica, un terreno di confronto sulla ragione dell’uomo. Spesso è stato inseguito, ingiustamente, da un pregiudizio di anti-modernità. Ma il moderno non è subalternità alla vulgata dominante. Senza spirito critico non c’è l’uomo, né la comunità. La fede religiosa può essere un antitodo al liberismo dominante. E all’individualismo radicale che ne è l’essenza culturale.
Queste dimissioni sono certamente un atto di libertà. Un gesto personale, che appartiene anzitutto al legame inscindibile tra la coscienza di un Papa e la Chiesa. Ma da oggi questo gesto è una sfida alla Chiesa e un interrogativo a quel mondo che intende ancora coltivare un pensiero critico. Tra i temi irrisolti del post-Concilio c’è sicuramente la collegialità dei vescovi e dunque il governo mondiale della Chiesa. Fin qui si è cercato di far convivere la centralità della Curia romana con il parziale coinvolgimento del Sinodo, con la relativa autonomia delle Conferenze episcopali, con l’apertura ai laici nella gestione delle comunità locali. Qualcuno ha detto in questi anni il cardinal Martini lo disse anche alla vigilia dell’ultimo conclave che sarebbe stato necessario aprire un nuovo Concilio per ridare slancio evangelico della Chiesa. Non un Vaticano III, disse Martini, ma concili tematici. Compreso uno sulla famiglia e sui temi che riguardano la morale sessuale. La collegialità della Chiesa da marzo avrà un testimone che nessuno potrà dimenticare: il vecchio Papa dimissionario che vive accanto al nuovo Papa. È impossibile dire cosa accadrà. Certo, siamo davanti a un bivio storico. Che riguarda i credenti e l’attualità della loro fede. Ma che non può lasciare indifferente chi cerca un riscatto dell’uomo sulla povertà, la solitudine, l’ingiustizia, la sudditanza ai poteri che si ritengono indiscutibili.

l’Unità 12.2.13
Una domanda sull’uomo che non riguarda solo i credenti
di Vincenzo Vitiello


LA NOTIZIA HA COLTO DI SORPRESA TUTTI, DAI CARDINALI A CUI BENEDETTO XVI SI È RIVOLTO PER ANNUNCIARE LE SUE DIMISSIONI, ai giornalisti, ai politici, alla gente comune. Un fatto che non accadeva da secoli, da quando il povero Pietro da Morrone, passato alla storia col nome di Celestino V, investito di un compito superiore alle sue forze, si ritirò, colpito dalla dura sentenza di Dante. Il gesto di Papa Ratzinger è stato invece accompagnato da unanimi giudizi di profondo rispetto per il coraggio dimostrato nel rinunciare ad un compito storico troppo oneroso per i suoi anni. Interrogati sull’evento, storici della Chiesa e «vaticanisti», uomini di varia cultura credenti e non, hanno più o meno detto le stesse cose: lo stupore per l’inatteso, le previsioni sul futuro conclave, i dubbi sulla presenza di un Papa dimissionario «accanto» a quello che verrà eletto, e così via.
Esemplare la conferenza stampa di padre Lombardi subito dopo l’annuncio delle dimissioni: esemplare per le domande rivoltegli e per le risposte da lui date, tutte rivolte al mondo storico. Per carità, non era certo quella la sede per una discussione teologica. Ma aveva preannunciato le dimissioni un pontefice, non un presidente della Repubblica, una regina, un capo di governo! Un pontefice, che è eletto così almeno dice la Chiesa cattolica sì dai prìncipi di questa Chiesa, i cardinali, ma in quanto ispirati dal Santo Spirito. Non è in questione la fede che pure sarebbe doveroso chiedere a uomini di Chiesa, o a storici, giornalisti e politici, che si dichiarano cattolici -; è in questione il rispetto non formale, ma sostanziale, di «contenuto», del punto di vista di chi quelle dimissioni ha annunciato. Rispetto che riguarda tutti quelli che si interrogano su questo evento, che ha un indubbio spessore teologico.
Perché riguarda sì il mondo storico, i nostri giorni e le nostre opere, ma in relazione a quanto è «oltre» il nostro tempo e il nostro operare, e lo accompagna, ispirandolo talora, contrastandolo talaltra. Bene: quale rapporto mettono in giuoco queste dimissioni? Il rapporto orizzontale interumano, o quello verticale tra uomo e Dio? L’evento è straordinario per questo, e non perché sono poco più di settecento anni che non accadeva! C’è quindi da chiedersi per il rispetto non formale di questo Papa teologo, studioso di Agostino e della storia del cristianesimo, della Teologia trinitaria quali dubbi abbiano inquietato i suoi giorni riguardo al rapporto tra la sua elezione come capo della comunità dei credenti e la provvidenza del Dio in cui crede, con una fede che ha sempre inteso portare a ragione, e cioè umanamente giustificare. Dubbi che non sono soli suoi e dei credenti della sua Chiesa e della sua fede. Sono di quanti guardano alla storia degli uomini, al mondo degli uomini con sguardo puro, senza certezze e senza disperazione, nella consapevolezza che la storia, il mondo degli uomini, è attraversata da una differenza che inquieta ogni «pensante»: la differenza tra accadimento e azione, che non è lo stesso che dire: provvidenza e tempo storico.

il Fatto 12.2.13
Papato e cinema. Marco Bellocchio
“Una piccola rivoluzione, diversa dal film di Moretti”
di Malcom Pagani


Da ateo perplesso sulla contaminazione tra vita e finzione, Marco Bellocchio non crede nelle profezie: “Habemus Papam, il film di Moretti, traduce in fantasia di fuga la rottura traumatica di un uomo che sente il peso dell’investitura. L’addio di Ratzinger è un’altra storia e lo spirito dei due rifiuti, diverso. Il papa meditava l’abbandono graduale e non si è certo svegliato ieri annunciando: ‘Ragazzi, basta, me ne vado’”. Sempre ancoràto alla sponda laica della luna, il regista non trascorre notti insonni: “È un gesto eccezionale e politico che con buon senso, restituisce alla Chiesa il suo ruolo di ramificata potenza mondiale alla costante ricerca di un’energia che l’attuale Papa, forse malato, non possiede più. Ratzinger non vuole scendere dalla croce da morto come Wojityla, né pensa di essere il vicario di Cristo in terra. Mette in equilibrio fede e ragione e distingue la funzione dall’essere Joseph. Un signore di 86 anni che si discosta dai predecessori, pontefici che esponevano la sofferenza ai fedeli come esempio di sacrificio e sopportazione. Quasi un martirio a cui Ratzinger, con una scelta umana e quindi più laica, si sottrae. Riconosce i limiti dell’esistenza. Il crudo dato: invecchiando si declina. E fare il papa tra uno scandalo e l’altro è un mestiere massacrante”.
La notizia è rilevante.
Ma a me, le dico il vero, turba relativamente. Nel percorso intrapreso con me stesso molti anni fa mi accorsi che non c’era spazio per la religione. Così adesso pur avendo avuto un’educazione cattolica, osservo da fuori. Dall’esterno, non dico con indifferenza, ma da spettatore. Pur essendo molto interessato alla biografia di certi santi o a figure come Dossetti, tra le mie curiosità non c’è mai stato il percorso di Ratzinger.
Perché?
Lo rispetto e so che è un serio teologo, ma è distante dal mio immaginario. Per noi cresciuti con Bianco Padre: “Siamo arditi della fede / siamo araldi della croce / a un tuo cenno / alla tua voce / un esercito all’altar”, i papi erano, anche nella più fiera opposizione ideologica, grandi personaggi. Pio XII, intransigente anticomunista. O Giovanni XIII. L’ho sentito e risentito. Tratto gentile, delicato, aperto. Di Ratzinger, anche sforzandomi, non mi vengono in mente momenti in cui abbia prestato una particolare attenzione a quel che diceva.
Ratzinger incontrò il mondo del cinema.
Non andai. Pur nutrendo curiosità intellettuale, senza esprimere alcun giudizio e stimando la quasi totalità dei cineasti che si recarono ad ascoltarlo sotto la volta della Cappella Sistina. Mi piacque sottrarmi. Non esserci. Disse cose che non mi parvero illuminanti per il lavoro di un artista. A titolo personale, presenziare mi sembrò un gesto di ossequio che preferii evitare.
Siamo abituati a vedere l’abdicazione coincidere con la morte.
A Ratzinger auguro anni di cammino felice e di studio, ma nell’indubbia novità, è un funerale anche questo. Con gli onori riservati a un capo che si sfila. A un funzionario che si dimette. Siamo soliti vedere il papa in carica fino all’ultimo istante. In un certo senso si afferma un princìpio democratico. In una Chiesa che impiega secoli per riabilitare Galileo e che da secoli coniuga il perdono del peccato e la difesa della proibizione, l’addio anticipato è una piccola rivoluzione. Poi c’è un’altra cosa.
Quale?
Ha azzerato la campagna elettorale. Un sollievo. Ripetono da mesi le stesse cose in una recita noiosissima. Il principale attore, quello che se la cava meglio con le menzogne, forse cova altri colpi di scena. Per qualche ora Ratzinger gli ha tolto il proscenio.

il Fatto 12.2.13
In gioventù arruolato nelle truppe di Hitler


FIGLIO di un commissario di gendarmeria, Joseph Ratzinger (giovane, nella foto di fianco) è cresciuto nella diocesi di Passavia, nella Bassa Baviera.
In seguito agli ordini di Hitler che rendeva obbligatorio per tutti i giovani di età compresa fra i 14 e i 18 anni arruolarsi nella Hitlerjugend, all’età di 16 anni venne assegnato in un reparto di artiglieria contraerea esterno alla Wehrmacht che difendeva gli stabilimenti della Bmw a Monaco. Fu assegnato per un anno a un reparto di intercettazioni radiofoniche. Con il peggioramento delle sorti tedesche nel conflitto fu trasferito e incaricato allo scavo di trincee. Con la disfatta tedesca, nell’aprile 1945 Ratzinger fu recluso per alcune settimane in un campo degli Alleati, vicino a Ulma, come prigioniero di guerra e rilasciato il 19 giugno 1945.
Lo scrittore nobel Günter Grass sostiene di aver conosciuto Ratzinger in quel periodo: “Nel campo di Bad Aibling – racconta – tre sigarette Camel mi fruttarono un cartoccetto di cumino, che masticai in ricordo del maiale con cavoli al cumino. E un po’ di cumino barattato lo passai al mio compagno, assieme al quale stavo accovacciato al riparo di un telone sotto la pioggia. Si chiamava Joseph, e non riesce a uscirmi di mente. Io volevo diventare questo, lui quello. Io dicevo che esistono più verità. Lui diceva che ne esiste una sola. Io dicevo di non credere più a niente. Lui insellava un dogma dopo l’altro. Io esclamavo: ma Joseph, non avrai in mente di fare il grande inquisitore o qualcosa di più? Lui faceva sempre qualche punto in più e giocando citava Sant’Agostino, come se avesse davanti le sue confessioni nella versione latina”. Non è confermato che il giovane Joseph incontrato da Grass fosse il futuro Papa.

Repubblica 12.2.13
Lo storico: “Benedetto XVI si ritira dalla modernità Qui sta la forza plurisecolare del cristianesimo”
Le Goff “Abdica come i re Una rivoluzione quel trono vuoto dopo 600 anni”
“Dimissioni” è un termine che riguarda le democrazie. Credo sia più opportuno usare un altro termine
“Nel gesto del Papa si compendiano lucidità, modestia e la speranza di consentire alla Chiesa di rimontare la china”
di Giampiero Martinotti


PARIGI Jacques Le Goff è stupito e affascinato dal gesto di Benedetto XVI, uno di quei rarissimi eventi che, secondo il grande storico, dimostrano la forza plurisecolare del cristianesimo.
Professor Le Goff, la rinuncia del Papa fa pensare al trono vuoto: è un’immagine adeguata a riassumere il gesto del pontefice?
«Sì e no. Personalmente, non è un’immagine che mi tocca molto, ma è importante per una religione: fa vedere che anche se la religione non ha una testa umana da mostrare, c’è sempre il trono che simboleggia l’esistenza di un re nel cielo, Dio. Di conseguenza, il trono vuoto è il simbolo della continuità. È uno degli atout del cristianesimo, che ha sempre evitato le rotture e per cui l’unica rottura è stata l’incarnazione di Gesù. Ci possono essere crisi, svolte, catastrofi, ma il trono di Dio è sempre lì. Questa eterna associazione fra il cambiamento e la continuità, incarnata dal trono vuoto, è una delle virtù del cristianesimo».
Come ha reagito alle dimissioni?
«Non si tratta di dimissioni, perché le dimissioni vengono date davanti a un’assemblea davanti a cui si è responsabili. È un termine che riguarda le democrazie, non esiste per il Papa. Credo si debba ritornare alla parola abdicazione come per i monarchi».
Perché lo ha fatto, secondo lei?
«Lui dice che è per l’età e la fatica, ma fondamentalmente si ritira davanti al mondo moderno. Si sente incapace di padroneggiare questo mondo, di far sentire sufficientemente la voce del Dio dei cristiani e della Chiesa cattolica in questo mondo. Nel suo ritiro si compendiano la lucidità, la modestia, la speranza di permettere alla Chiesa di rimontare la china e di affrontare meglio il futuro».
E adesso cosa succederà?
«È la domanda più importante: cosa farà il conclave? Certo, non lo so, non sono cardinale, né ecclesiastico e nemmeno uno specialista della chiesa contemporanea. Come storico guardo al passato: non c’è mai stato un papa che si sia ritirato fra il XV secolo e oggi. Nel Medioevo ci sono stati due casi. Si parla soprattutto di Gregorio XII, papa nel periodo del Grande Scisma, che si può dire si sia dimesso davanti al concilio di Basilea: nel Medioevo c’era chi pensava che il concilio fosse superiore al papa. Prima ancora, nel 1294, c’è stato Celestino V, di cui parla Dante nella Divina Commedia
come colui che fece “il gran rifiuto”. Malgrado le differenze molto grandi, c’è qualcosa di comune a Celestino V e a Benedetto XVI».
A più di sette secoli di distanza vede una somiglianza fra i due casi?
«Celestino V era un eremita tradizionale, Ratzinger un teologo tradizionale. Penso ci sia qualcosa di paragonabile. Celestino V pensava di essere incapace di guidare la Chiesa perché apparteneva profondamente al cristianesimo medievale tradizionale, quello dominato dal monachesimo, l’anacoretismo, mentre la cristianità si era profondamente modificata, aveva conosciuto uno sviluppo rurale e urbano considerevole e alla fine del Duecento era diventato un mondo nuovo. Vedo una rassomiglianza tra allora e questo inizio del XXI secolo. Mi vien da pensare a una cosa che come storico mi ha sempre colpito, anche se non sono credente: penso che una parte dell’Occidente abbia avuto fortuna ad avere come religione il cristianesimo».
Come mai? Cosa c’è di così diverso dalle altre religioni?
«Essenzialmente per due ragioni. La prima è che il cristianesimo distingue quel che appartiene a Dio e quel che appartiene a Cesare, non mescola religione e politica. La seconda ragione è che, nonostante i ritardi e le lentezze, nonostante la crisi che colpisce tutte le religioni, è sopravvissuto piuttosto bene, perché ha saputo adattarsi alle mutazioni profonde di questo mondo. E credo che in queste ore stiamo assistendo a uno di quegli avvenimenti plusirisecolari caratteristici del cristianesimo».
Lei ha detto che Ratzinger si ritrae davanti alla modernità, eppure il teologo che veniva catalogato come reazionario se ne va con gesto moderno.
«Era successa la stessa cosa con Celestino V: non si era mai visto niente del genere e per questo Dante ne parla. Ratzinger non rende omaggio alla modernità, perché al tempo stesso il suo gesto è un rifiuto della modernità: il papa che abdica se ne ritira».

La Stampa 12.2.13
Padre Georg e la “sua” famiglia lo seguiranno in un monastero all’interno del Vaticano
di Luca Rolandi, Mauro Pianta


Il primo Papa dimissionario dell’era contemporanea ha trovato casa in un monastero di clausura. Una volta lasciato il soglio pontificio, il 28 febbraio prossimo, Joseph Ratzinger si trasferirà per un breve periodo nella residenza estiva di Castel Gandolfo per stabilire nuovamente la propria residenza in Vaticano, nel monastero «Mater Ecclesiae», dentro le mura leonine. Non sarà solo, l’(ex) papa Ratzinger. Con lui, infatti, secondo quanto trapela da ambienti di Oltretevere, si trasferirà anche una parte dell’attuale «famiglia» pontificia: alcune delle Memores Domini, le consacrate di Cl che hanno prestato servizio nel suo appartamento in questi anni. E per un certo periodo, nell’appartamento attualmente in fase di ristrutturazione, potrebbe trovare posto anche il suo segretario, mons Georg Gänswein.
«Non sarà in clausura», ha spiegato ieri padre Lombardi rispondendo ai giornalisti. «Non credo che debba essere considerato recluso in nessun modo - ha detto -. Avrà la sua normale libertà. Certo è una situazione inedita, vediamo come la vivrà. Non posso dire tutto quello che farà», ma «più volte lui ha detto di voler dedicare l’età anziana alla scrittura, allo studio e alla preghiera».
Il monastero, collocato lungo le mura che papa Leone IV (847-855) fece erigere nell’847 per proteggere la basilica di San Pietro dall’attacco dei Saraceni, nacque nel 1994 per volontà di Giovanni Paolo II il quale affidò alla religiose il compito di accompagnare, con le loro preghiere le attività del Pontefice e della Curia Romana. Le monache Visitandine, presenti dal 2009, hanno lasciato la struttura nel novembre del 2012 quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione. Oltre al supporto spirituale le religiose hanno fornito al Pontefice i prodotti della terra coltivati nel grande orto del monastero: sulla tavola di Ratzinger arrivavano peperoni, pomodori, zucchine, cavoli e aranci.
L’orto è una delle parti più belle del monastero che si estende su quattro livelli con ambienti comunitari, dodici celle monastiche, un’ala nuova di 450 metri quadri, una Cappella, il Coro per le claustrali, la biblioteca, il ballatoio, una siepe sempreverde e una robusta cancellata per delimitare la zona di clausura. Dall’esterno la struttura appare semplice: il collegamento con l’ambiente circostante avviene attraverso una scalinata immersa nel verde ed un loggiato coperto; una siepe ed una cancellata precludono le zone di clausura all’introspezione; mentre due percorsi differenti, perimetrali consentono l’accesso dei fedeli al monastero, rispettivamente nelle zone della Cappella e della portineria. La cappella è spartana: le vetrate artistiche e il crocifisso dello scultore Francesco Messina la abbelliscono.
Papa Ratzinger ha più volte dimostrato di apprezzare il «Mater Ecclesiae», tanto da aver celebrato qui la messa in tre occasioni diverse: nel 2005, nel 2006 e infine nel 2009. Dal 13 maggio 1994 - giorno del tredicesimo anniversario dell’attentato subito dal Papa polacco in piazza San Pietro - il complesso ha ospitato quattro diversi ordini: fino al 1999 quello delle Clarisse, dal 1999 al 2004 quello delle Carmelitane, dal 2004 al 2009 quello delle Benedettine e dal 2009 al 2012 quello delle Visitandine. Dalla metà di aprile 2013, invece, l’inquilino più celebre: Joseph Ratzinger, il pontefice che diede le dimissioni.