venerdì 18 gennaio 2013

 DAI GIORNI PRECEDENTI:

Repubblica 14.1.13
La parola di Gesù sul lettino di Freud
In una nuova edizione le originali tesi dell’analista Françoise Dolto
di Massimo Recalcati


Alla fine della mia lettura de I Vangeli alla luce della psicoanalisi di Françoise Dolto, ripubblicato dopo circa trent’anni da una nuova piccola casa editrice milanese et al./edizioni, ho pensato: “ecco un gioiello!”. A suscitare il mio entusiasmo diverse ragioni. La prima è la sua autrice: Françoise Dolto. Amica e allieva di Jacques Lacan, originalissima psicoanalista con una propensione particolare alla cura dei bambini, profondamente interessata ai processi di umanizzazione della vita e agli snodi principali dello sviluppo psicologico del soggetto (infanzia e adolescenza), sino alle angosce e alle responsabilità che investono i genitori, ma anche attenta alle trasformazioni della vita collettiva e ai virtuosismi del desiderio e alla sua declinazione femminile, Dolto non si è mai rifugiata in un linguaggio esoterico o specialistico, ma ha sempre cercato di rendere trasmissibile il proprio pensiero. La sua originalità nel mondo della psicoanalisi è consistita anche dal fatto che non ha mai nascosto la sua fede cristiana e la sua militanza cattolica. Fatto raro per uno psicoanalista che si rifaceva all’insegnamento di Freud, seppur ripreso da Lacan. Per il padre della psicoanalisi, infatti, l’uomo religioso è abbagliato da una illusione narcisistica. A partire da Freud – forse con la sola eccezione significativa di Lacan – la tradizione psicoanalitica ha sostenuto compattamente l’idea della religione come “nevrosi” o, addirittura, come “delirio dell’umanità”. L’uomo religioso è l’uomo che rifiuta la responsabilità di affrontare le asprezze reali della vita per rifugiarsi nella credenza illusoria di un “mondo dietro il mondo” – come direbbe Nietzsche – , regredendo allo stato di un bambino che trasferisce su Dio tutti quei tratti di infallibilità e di perfezione che prima attribuiva al proprio padre. Rispetto a questo schema Dolto rappresenta una importante alternativa.
È questa la seconda ragione del mio entusiasmo di lettore. Dolto non entra mai nel merito di una difesa di ufficio della religione contro la psicoanalisi. Ella pensa e ragiona da psicoanalista interessata non tanto al fenomeno dell’uomo religioso o della credenza religiosa – interesse che ha invece calamitato il pensiero di Freud – , ma alla lettura diretta dei Vangeli. Il suo discorso vira così da una psicoanalisi del sentimento religioso in generale alla parola di Gesù. La lettura dei Vangeli viene descritta come “un’onda d’urto” che mette a soqquadro la nostra rappresentazione ordinaria della realtà. Dolto mette con decisione l’accento su Gesù come maestro del desiderio: «Gesù insegna il desiderio e trascina verso di esso», verso quella che Dolto definisce provocatoriamente «una nuova economia dell’egoismo». Cosa significa? Gesù ci insegna a non avere paura di accogliere la forza e la trascendenza del desiderio che ci abita e che spinge la vita umana al di là del campo animale del soddisfacimento dei bisogni. L’egoista non è chi segue con fedeltà la chiamata del suo desiderio, ma colui che pretende che gli altri si uniformino al suo. Chi invece segue con decisione la chiamata del proprio desiderio, come fa, al limite della truffa, il fattore disonesto raccontato in una parabola dall’evangelista Luca, non è un egoista in senso dispregiativo, ma qualcuno che sa rendere la sua vita generativa. Per questo Dolto vede nel completamento cristiano della Legge ebraica una sovversione radicale del rapporto tra Legge e desiderio. La forma più alta e liberatoria della Legge non entra in conflitto repressivo col desiderio perché coincide in realtà con il desiderio stesso.
In questo senso Gesù insegna il desiderio, insegna a non rinunciare al proprio desiderio. Com’è liberatoria questa versione della parola di Gesù rispetto alla sua riduzione ad un ammonimento morale! Ecco allora l’ultima ragione – quella decisiva – per la quale la lettura di questo librogioiello mi ha entusiasmato. È il modo in cui Dolto ribalta le interpretazioni più canoniche delle parabole applicando l’arte dell’analista alla parola stessa di Gesù. Prendiamo come esempio quella nota a tutti del buon samaritano. L’interpretazione catechistica la riduce al fatto che tutti noi dovremmo dedicare del tempo a chi giace inerme e ferito sulla nostra strada, al nostro prossimo più sfortunato. Dolto invece identifica il prossimo non con lo sventurato che chiede aiuto, ma con chi offre in modo disinteressato il suo aiuto. Strabiliante!
Il prossimo è il buon samaritano!
Ed è per questo, per come ci ha soccorsi e donato il suo tempo senza esigere riconoscenza alcuna, né farci sentire in debito, che occorre amarlo, amare il samaritano come nostro prossimo. Per questa ragione l’amore cristiano non ha nulla di consolatorio, non è un rifugio illusorio, non è una negazione del carattere spigoloso del reale. L’amore in Gesù è – come avviene nell’incontro con il buon samaritano – una forza che ci scuote e che porta con sé la necessità dello strappo e della separazione. Nella celebre parabola del figliol prodigo tra i due fratelli il peccato più grande – il solo che conta – l’ha compiuto chi si aspettava che l’eredità fosse semplicemente una questione di clonazione, di fedeltà passiva al passato. Il figlio che resta accanto al padre è il figlio nel peccato perché non accetta la Legge del desiderio che è la Legge della separazione. Gesù è l’incarnazione pura di questa forza separatrice («Non sono venuto a portare la pace ma la spada!»). Molte delle parabole commentate da Dolto mettono il dito nella piaga mostrando il rischio che il legame familiare scivoli verso un legame incestuoso che impedisce lo sviluppo pieno della vita. È questo il caso dei racconti delle resurrezioni, come quella del figlio della vedova di Nain, della figlia di Giairo o dello stesso Lazzaro. La parola di Gesù risveglia dalla morte perché strappa la vita da legami mortiferi che non la fanno accedere alla potenza generativa del desiderio. “Vieni fuori!” – il grido che Gesù rivolge a Lazzaro – deve essere preso come un nuovo imperativo categorico che consegna la vita umana alla Legge del desiderio. “Vieni fuori!” significa: non stare nel riposo incestuoso, non evitare il rischio della perdita, non delegare il tuo desiderio a quello dell’Altro, non smarrire la tua più singolare vocazione!
È questo il volto di Gesù ritratto da Dolto che ribalta un altro luogo comune che vorrebbe liquidare la verità del cristianesimo come un evitamento dell’incontro col reale (la morte, il sesso, la malattia, l’angoscia, ecc). La lettura di Dolto rovescia anche questo pregiudizio mostrando come il reale scaturisca proprio dall’incontro con la parola di Gesù perché questa parola spinge ciascuno di noi ad assumere la Legge del proprio desiderio. Gesù non vuole proteggere la vita dalle ustioni del reale, non si offre come riparo consolatorio, né tantomeno pretende di guidare le nostre vite. Egli è l’incarnazione della Legge del desiderio; non ci guida, ma ci attrae a sé.
È causa del desiderio e non emissario di una Legge sadica che opprime il desiderio.

Repubblica 12.1.13
L’illusione economica
Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, è la Borsa il luogo dove si definisce la verità
Qualunque dottrina che volesse presentarsi come collezione di nudi fatti si ridurrebbe a mero arbitrio
di Maurizio Ferraris


Nel Conflitto delle facoltà (1798) Kant mette in scena una contesa tra, da una parte, la medicina, la giurisprudenza e la teologia, che definisce "facoltà superiori" (perché offrivano sbocchi di lavoro, compresa la teologia che avviava alla professione di pastore) e, dall´altra, la "facoltà inferiore" rappresentata, manco a dirlo, dalla filosofia. Kant si augurava che sarebbe venuto il giorno in cui la facoltà inferiore avrebbe preso il sopravvento. Non poteva sapere che un suo contemporaneo, Adam Smith, professore di filosofia morale a Glasgow, con l´Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) aveva gettato le basi di quella che oggi è la facoltà superiore per eccellenza, che detta legge anche al diritto, alla medicina e alla teologia: l´economia.
In un certo senso, la storia degli ultimi due secoli è la vicenda della ascesa politica di questa scienza, i cui cultori diventano consulenti del sovrano e poi sovrani essi stessi. Ancora per tutto il Novecento, si direbbe che la tecnica propedeutica alla politica rispetti la tripartizione delle funzioni della tradizione indoeuropea studiata da Dumézil: guerrieri, sacerdoti (ossia anzitutto tutori delle leggi) e agricoltori. Tolti gli agricoltori (per i quali solo i fisiocrati e Tolstoj avevano immaginato un posto di comando), la leadership va naturalmente alle prime due categorie. Si pensi ai responsabili della politica all´inizio del secolo scorso. Ai vertici c´erano ancora dei sovrani per diritto ereditario e soprattutto molti militari. Accanto a loro c´erano i giuristi, che traevano il loro potere dall´essere insieme uno strumento tecnico dell´attività legislativa sia un´istanza di controllo, tanto a livello nazionale, quanto – in organizzazioni come le Nazioni Unite – internazionale. Così, tra i presidenti della Repubblica italiana (compreso De Nicola) abbiamo sette laureati in giurisprudenza, due in economia, due in lettere. La prevalenza dei giurisprudenti si ritrova anche tra i presidenti Usa del dopoguerra: sei laureati in legge, quattro militari, un attore, un economista.
Ma non è difficile prevedere che fra qualche anno molti dei premier e dei capi di stato saranno economisti. Forse possiamo anche datare il momento della svolta. Correva l´anno 1992, durante la campagna di Clinton contro Bush padre, e lo slogan clintoniano era: «The economy, stupid!». Solo tre anni prima non sarebbe stato uno slogan praticabile: perché non c´era nessuna possibilità di universalizzare l´economia, vista l´ovvia persistenza dei due blocchi, uno dei quali subordinava apertamente l´economia alla politica. Scomparso quel blocco, sembra che non si possa fare politica senza economia, e soprattutto l´economia è diventata ciò con cui la politica deve misurarsi come di fronte a una oggettività ineludibile.
Perché il punto è proprio questo. L´economia non trae prestigio dalla propria efficacia terapeutica (come avviene, poniamo, per la medicina), ma dall´idea che è lei a stabilire il principio di realtà con cui si devono misurare i politici e i cittadini. Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, della competizione a colpi di razzi e astronavi, finito il mondo del diritto internazionale come alternativa alla guerra, il luogo in cui si definiscono i valori, a partire ovviamente da quello pregiato della oggettività, della realtà e della verità è il mercato finanziario. Un mercato, che, per inciso, è stato l´autentico veicolo della globalizzazione: un impero in cui letteralmente non tramonta mai il sole. Nel 1886, in Al di là del bene e del male, Nietzsche aveva scritto che «i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l´"a che scopo" degli uomini (…) Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza». Questi filosofi non si sono fatti avanti, e in tutta sincerità non ne sentiamo la mancanza. Ma – nell´epoca dello spread e delle agenzie di rating – molto di quello che dice Nietzsche sembra applicarsi al ruolo dell´economia come principio di realtà dell´epoca contemporanea.
Tuttavia siamo sicuri che l´economia sia il candidato più attendibile a incarnare il principio di realtà? Se c´è un ambito in cui vige il principio "non ci sono fatti, solo interpretazioni", questo è proprio la sfera dell´economia. Così, in Creare il mondo sociale (Raffaello Cortina, 2010), il filosofo americano John Searle non esita a dire che la recente crisi economica dimostra come il denaro sia frutto di una massiccia immaginazione. Come dire che se c´è un campo in cui i fatti sembrano di gran lunga superati dalle interpretazioni, questo non è, come un po´ futilmente sostenevano molti epistemologi del secolo scorso, la fisica, ma l´economia. Un ambito in cui si dice, per esempio, che "non ci si può più permettere lo stato sociale" con la stessa sicurezza con cui diremmo che la terra ruota intorno al sole o che la fotosintesi produce glucosio e ossigeno, sebbene (lo ricorda recentemente Federico Rampini in Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!, Laterza) si tratti, molto più che di un fatto, di una interpretazione.
Ora, esattamente come il diritto (cioè come il suo immediato predecessore in quanto tecnica e principio di realtà della politica), l´economia ha a che fare con degli oggetti sociali, ossia con oggetti che dipendono dai soggetti. In fondo, come ricorda a giusto titolo Giuseppe Zaccaria in La comprensione del diritto (un altro illuminante libro uscito recentemente da Laterza) la giurisprudenza sarebbe un mero arbitrio se si volesse presentare come una collezione di nudi fatti non accompagnati da interpretazioni. Così, nessuno certo si sognerebbe di negare che esista una realtà economica, proprio come esiste una realtà giuridica. Ma è anche necessario sapere che questa realtà, così come tutti gli ambiti in cui si assiste alla produzione di oggetti sociali, deve essere sistematicamente interpretata e relativizzata. È qui, e non nel mondo degli oggetti naturali, che c´è un grandissimo bisogno di ermeneutica, ed è singolare che ce ne sia così poca, dopo tutto il turbinio di interpretazioni che ha caratterizzato la filosofia del secolo scorso.

DALLA STAMPA DI OGGI:

l’Unità 18.1.13
Bersani: non li faremo tornare
il Pd chiuderà, il ventennio berlusconiano
Il leader Pd comincia dai giovani: «I partiti personali cancro della democrazia»
Il segretario inizia tra i giovani il tour elettorale: «I partiti personali sono il cancro della democrazia»
«La nostra arma atomica? I 3 milioni delle primarie Li faremo partecipare alla campagna elettorale»
di Simone Collini

ROMA La personalizzazione della politica è un tumore della democrazia e il Pd è la sola forza che può chiudere il ventennio berlusconiano. Pier Luigi Bersani apre la campagna elettorale insieme a un paio di centinaia di ragazzi e ragazze che a febbraio voteranno per la prima volta, menando fendenti a chi in questi anni ha provocato nel Paese anche una «deriva morale» e non risparmiando stoccate a chi si limita a «invocare rabbiosamente» il rinnovamento, a chi con troppa leggerezza dice che non ci sono più destra e sinistra perché «il qualunquismo porta inevitabilmente verso posizioni fascistoidi».
L’appuntamento è al teatro Ambra Jovinelli di Roma e anche per Bersani è un ritorno sul luogo della sua prima volta: è da qui che si è candidato a segretario del Pd, nell’estate del 2009, e ora è da qui che parte la sua corsa per Palazzo Chigi. L’avversario da battere è non solo Berlusconi, che pure viene accusato di aver inaugurato una politica «fatta di spot, personalizzazione, inganno, leggerezza insostenibile e anche di deriva morale», ma il berlusconismo che proprio come una malattia si è diffuso anche al di là dei confini del Pdl, facendo spuntare nuove «formazioni politiche senza meccanismi di partecipazione e democrazia che generano una democrazia ingessata, inefficiente, impotente, sistemi organizzati su una persona che spesso si sceglie da sola e che sono un tumore per il sistema». E ora bisogna voltare pagina.
«Qui facciamo vedere all’Italia cosa abbiamo fatto in termini di rinnovamento, come abbiamo sconfitto il Porcellum», dice chiamando accanto a sé sul palco tre candidati under 30 che hanno vinto le primarie e diventeranno presto parlamentari. E poi è tutto sulle contrapposizioni tra Pd e avversari che insiste: i giovani contro quelli che «ci hanno portato sull’orlo del baratro e ora vogliono tornare», un candidato premier «scelto in una discussione a cui hanno partecipato oltre tre milioni di persone che non mette il proprio nome nel simbolo» contro quelli che «si sono scelti da soli e hanno messo il loro nome nei simboli», chi lavora per una «riscossa civica e morale» contro i responsabili della regressione. Ma anche le forze progressiste che sanno che «rigore e austerità sono la necessaria condizione da affiancare a politiche per la crescita» contro chi pensa che siano «un obiettivo in sé». E anche «agende» contro «lenzuolate». Ovvero, non c’è da fare pianificazioni, c’è da abolire le principali leggi ad personam e c’è da approvare appena si insedierà il prossimo governo leggi contro la corruzione, sul conflitto di interessi, sui costi della politica, per la cittadinanza ai figli degli immigrati, per le unioni civili per le coppie omosessuali, per combattere il precariato perché «il lavoro è la libertà e la dignità di una persona».
BASTA POLITICA CABARET
È di questo che parlerà Bersani nelle prossime iniziative che farà in giro per l’Italia (domani sarà a Milano e a Brescia insieme ad Umberto Ambrosoli) perché, come dice lui stesso, vuole «parlare testardamente dell’Italia e degli italiani»: «Questa campagna elettorale si sta mettendo fuori dai binari e io sono abbastanza stanco di dover essere tutti i giorni registrato su temi come io e Monti, la desistenza, il Senato e compagnia cantante. Sono abbastanza allibito del fatto che ci sia il cabaret per avere un titolo, mentre siamo davanti a un Paese che ha bisogno di essere ricostruito».
La ricostruzione dovrà essere sul piano politico, economico, sociale e si potrà fare soltanto con il lavoro del Pd. Bersani ribadisce che punta al 51% ma governerà come se avesse il 49% (cioè insiste sul fatto che aprirà a un confronto con le forze centriste anche se i progressisti dovvessero ottenere la maggioranza in entrambe le Camere) perché i problemi da affrontare saranno tanti e tali da sconsigliare «settarismi». Ma Bersani mette anche in chiaro che il Pd e il centrosinistra sono l’unica «alternativa a questi venti anni».
NO AL MERCATINO DEI MINISTRI
Non vuole parlare di questioni «politiciste», appunto, delle sfide decisive in Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia per il Senato, del rischio che la vittoria contro la destra sia azzoppata dalle operazioni al centro. Però la scelta di Monti di «salire» in politica la giudica «soprendente» e la decisione di candidare alcuni ministri poco trasparente: «Mi è anche dispiaciuto in qualche caso, ma noi abbiamo mantenuto la parola e non abbiamo candidato ministri. Abbiamo detto che questo era un governo tecnico di transizione, non può essere il mercatino che uno prende di qua e uno di là».
Mancano poco più di cinque settimane per vincere la sfida. Bersani si dice sicuro di vincere «perché siamo capaci di suscitare le nostre forze e questa volta le nostre forze sono in grado di farci vincere». Il leader del Pd è pronto anche ad usare la «nostra arma atomica». Quale? Gli oltre tre milioni di elettori che hanno votato alle primarie. Saranno tutti contattati per chiedergli di essere «protagonisti e non soltanto spettatori» in questa campagna elettorale.

Sette del Corriere 18.1.13
Perché i sondaggi sopravvalutano il Pd
Bersani e Monti si metteranno d’accordo
E ciò provocherà un travaso di voti da sinistra al centro
Ma il Professore sta sbagliando campagna
di Aldo Cazzullo

qui

Repubblica 18.1.13
Ma adesso il Pd si riprenda la scena
di Curzio Maltese


Una parte di responsabilità l’abbiamo noi dei media. Vent’anni di berlusconismo hanno abituato tv e giornali a campagne elettorali dove i problemi reali sono banditi per lasciare il posto a un carnevale di trovate e annunci, un festival di gesti simbolici e battute. Un terreno sul quale il berlusconismo e i populismi nati al seguito sguazzano in allegria. Non saremmo qui a parlare tutti di Berlusconi se non vi fosse stato il duello rusticano ad Annozero che ha risollevato le sorti di un contendente ormai in teoria fuori gioco. Si è trattato di un puro evento televisivo, fatto di pantomime e sceneggiate, cioè di nulla. Nel corso della trasmissione, un mediocre avanspettacolo senza contenuti, non è emersa una sola novità concreta sul programma del centrodestra. È stato soltanto uno show personale di Berlusconi, di fronte a presunti nemici. Eppure tanto è bastato per espellere dalla campagna elettorale ogni tema serio. L’Europa e il mondo guardano al voto italiano con preoccupazione, in attesa di sapere come una grande nazione pensa di salvarsi dalla bancarotta, e in Italia si dibatte se tizio o caio abbiano fatto migliore figura alla corrida televisiva quotidiana. I conduttori di talk show vanno a caccia delle clownerie di Berlusconi o di Grillo come gli impresari del circo inseguono la donna cannone, per vendere i biglietti. E purtroppo i giornali vanno loro dietro, in un continuo gioco al ribasso.
Ma una volta ammesse le nostre colpe, Bersani e il Pd dovrebbero riconoscere che se non fanno notizia è anche per propria incapacità. Alla vigilia del voto per le presidenziali, in Francia per settimane non s’è parlato d’altro che delle figura di Hollande e dei provvedimenti annunciati. Bersani e il Pd non riescono invece a occupare la scena, a inventarsi un modo per comunicare il programma e per restituire serietà e concretezza al confronto politico. Finora hanno fatto da spettatori scettici alle trovate degli avversari, sicuri comunque di vincere. Magari troppo sicuri di vincere, com’è accaduto già in passato. La creatività politica del Pd e del suo leader pare essersi esaurita nel cammino verso le primarie. Nel confronto con Renzi, Bersani aveva messo in campo idee e progetti e finalmente un po’ di carisma. Il duello fra i candidati del centrosinistra sembrava perfino aver imposto un nuovo stile alla tele politica, con il successo del confronto all’americana. Il tono e i contenuti dello scontro si erano di conseguenza distaccati dall’anomalo carnevale elettorale all’italiana, per avvicinarsi alla norma delle grandi democrazie. A parte il tema populista della rottamazione, presto archiviato dopo i gesti simbolici di Veltroni e D’Alema, si era discusso di problemi veri: tasse, lavoro, politica industriale, diritti, riforme, laicità. Ma al pronti via, cominciata la vera campagna elettorale, il Pd e Bersani sono tornati nella nebbia dell’indefinito. Quali sono le ricette per rilanciare il Paese? Che cosa ci attende con Bersani a Palazzo Chigi dalla prossima primavera? Gli elettori non lo sanno e a questo punto non importa se per propria ignoranza o per inadeguatezza del Pd.
Le novità interessanti con le quali il centrosinistra aveva caratterizzato la corsa delle primarie sono sparite e la scena è regredita ad arena per vecchi trucchi di anziani gladiatori. A guardare il teatrino televisivo quotidiano di un leader di settantasei anni, viene quasi da rimpiangere anche il tema della rottamazione. Ora, è possibile che tutto questo non provochi alla fine chissà quali cataclismi elettorali. Per ora il margine di vantaggio del Pd e del centrosinistra, per quanto progressivamente erosi dal grigiore della campagna, rimane solido. Ma se vuole confermare i pronostici favorevoli, il Pd deve uscire dall’ombra, farsi venire qualche idea nuova e imprimere una svolta alla campagna. Nella nostra politica le anomalie non si contano. Ma non è mai successo, in Italia come altrove, che un soggetto politico incapace di imporsi al centro del dibattito elettorale vincesse poi alla conta dei voti.

Corriere 18.1.13
Alleanza Pd-centristi dopo il voto? Il «giallo» del colloquio segreto
Ma nello staff di Monti c'è irritazione per i toni duri
di Marco Galluzzo


ROMA — Saranno forse alleati dopo il voto, il Pd e Monti: per D'Alema e la Finocchiaro è praticamente cosa fatta, lo stesso Bersani ha detto che non vuole governare da solo, anche se prendesse il 51%. E su questa strada ogni contatto fra i due leader, come quello di due giorni fa, può assumere interpretazioni che svariano dall'intesa al patto strategico, dalla distensione all'accordo pre-elettorale.
In realtà i rapporti di Monti con il Pd, e con il suo segretario, appaiono al momento più complessi. Ieri ad esempio, nel team elettorale del Professore, c'era anche un velo di rabbia per il linguaggio usato dal segretario democratico: quel riferimento ai «tumori» («parola che non dovrebbe mai essere usata in politica, figuriamoci a più di un mese dal voto») per accostarli al giudizio sui partiti personali.
Il movimento del capo del governo ha indubbiamente tratti personali, dunque quel riferimento non è stato gradito: «E' un sintomo di scarsa serenità, evidentemente ci temono, sono preoccupati dai sondaggi», era una delle ricostruzioni ufficiali sul lessico di Bersani. Ma nello staff del candidato Monti commentavano con ironia tutte le ricostruzioni dei contatti avuti dal premier Monti con Alfano, Casini e appunto Bersani.
Li si definiscono colloqui istituzionali, dovuti alla necessità di un presidente del Consiglio che ha comunque bisogno, ancorché a capo di un governo per gli affari correnti, di consultare i leader politici. E' ovviamente solo una parte di verità: con Bersani certamente Monti ha parlato anche della sua campagna elettorale, ha rimarcato che a lui non interessa attaccare il Pd ma la sua ala estrema, rappresentata da Cgil e Vendola e che non si è mai mosso da questo solco, sin dai primi giorni della salita in campo.
Insomma al massimo si è trattato di un'intesa su un fair play che non è mai mancato, piuttosto che di qualche misterioso patto di desistenza dai risvolti politici o a futura memoria, aggiungevano nello staff del Professore. Ieri, con quel riferimento ai partiti personalistici, sarebbe stato Bersani a violare una regola di correttezza che entrambi gradirebbero: «Noi invece continueremo come sempre, senza stare al gioco di Berlusconi e poi Bersani faccia ciò che vuole».
Del resto fra i collaboratori di Monti ieri si coltivava un sospetto: la divulgazione di un colloquio con il manto di un'intesa politica sarebbe stata «una sorta di sgambetto, non ci piace essere dipinti come coloro che fanno accordi sotto banco». Bersani si lamentava delle stesse cose, più o meno, di fronte ai giovani del suo partito: un cortocircuito che appartiene alle scorie di un campagna elettorale appena iniziata.

Corriere 18.1.13
Il bipolarismo obbliga a marcare le distanze e ad accusare il premier
di Massimo Franco


Fra il Pier Luigi Bersani pronto a dichiararsi certo della vittoria, e quello che teme una campagna elettorale «fuori dai binari», si intuiscono tutte le incognite di una breve ma insidiosa corsa verso le urne. Il centrosinistra non vuole perdere consensi a favore dell'area più radicale, e per questo indurisce i toni non solo verso Silvio Berlusconi ma verso lo stesso Mario Monti. Ribadire in termini inutilmente crudi che le liste personali fanno male all'Italia, significa attaccare il Cavaliere e insieme il presidente del Consiglio. Il Pd è convinto che, magari per errore e non per calcolo, i centristi stiano regalando la Lombardia a Pdl e Lega: e non soltanto a livello regionale ma nel voto per il Senato, che frustrerebbe la prospettiva di una maggioranza di centrosinistra in quel ramo del Parlamento.
D'altronde, per legittimarsi presso l'elettorato non può che marcare quasi d'ufficio le distanze da quanto ha fatto il governo dei tecnici: al di là di tutte le ipotesi di un accordo postelettorale. Ieri si è registrato un episodio significativo, a conferma di questa sensazione. Sono bastate alcune battute di Susanna Camusso, segretario della Cgil, per mandare in cortocircuito la campagna elettorale: almeno per una manciata di ore. «Non possiamo dire che se stiamo messi così è per colpa dei tredici mesi del governo Monti», ha detto. «È perché ci sono stati anni di governi di destra che hanno negato la crisi». La leader sindacale ha ricevuto in risposta lo stupore compiaciuto della lista del premier: al punto che il portavoce della Camusso ha voluto correggere il tiro, e precisare che Monti la crisi «non l'ha causata ma di certo l'ha aggravata».
È come se lo schema bipolare impedisse di analizzare con freddezza quanto è successo in questi mesi; e schiacciasse tutte le analisi sull'esigenza di prendere voti e di delegittimare l'operazione che Monti ed i suoi alleati stanno tentando: sebbene con un affanno evidente dimostrato dalle sbavature nella composizione delle liste. Così, da una parte palazzo Chigi cerca di accreditare l'immagine di un premier che continua a parlare con tutti i leader della sua ex maggioranza. Dall'altra deve adattarsi al ruolo di parte, e rassegnarsi ad essere attaccato sia da sinistra che da destra.
Pdl e Lega sono i suoi bersagli più frequenti, e i suoi accusatori più irriducibili. Monti non perde occasione per additare gli errori e le promesse non mantenute del governo Berlusconi, e dunque l'eredità pesante lasciata all'Italia; né per esprimere la sua preoccupazione per l'impatto che una vittoria dell'«asse del Nord» con il Carroccio avrebbe a livello non solo nazionale ma internazionale: tanto più se i leghisti guidassero tutte le regioni principali sopra il Po. La reazione sono le bordate dell'ex ministro all'Economia, Giulio Tremonti, passato dai contrasti aspri con Berlusconi di un anno e mezzo fa, alle accuse contro un Monti «tedesco»; e il tentativo di utilizzare la stampa estera che ha sempre appoggiato Monti e ridicolizzato Berlusconi, per colpire il premier uscente e i provvedimenti presi dalla sua maggioranza anomala.
Così il segretario del Pdl, Angelino Alfano, cita il Financial Times per portare acqua al mulino della tesi secondo la quale Monti è il responsabile della recessione italiana. E questo mentre, a suo modo, Berlusconi cerca di ripristinare una sponda col Vaticano e una Chiesa prive di referenti politici privilegiati. «Ci sarà da sorridere», ironizza il Cavaliere, «quando le componenti cattoliche si troveranno a dovere fare i conti con il programma del Pd e di Sel, con più tasse, la patrimoniale, con l'aumento dell'Iva, con i matrimoni gay». Eppure sa che i vescovi italiani staranno più attenti che mai ad appoggiare uno schieramento. E nei confronti di Berlusconi, più che del suo partito, il giudizio negativo appare ormai radicato.

Corriere 18.1.13
Sul piatto della trattativa la guida della Camera oppure un ministero
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Basta, smettiamola di inseguire le lucciole...»: Pier Luigi Bersani è stanco. E anche un po' infastidito. Ogni sua mossa viene decrittata alla luce di un postulato che lui non condivide: il centrosinistra non è in grado di governare. E così viene enfatizzata la sua apertura al Pdl sulle riforme, a cominciare da quella elettorale. A poco serve che il leader del Pd continui a ripetere: «Per rifare la Costituzione non bisogna avere i due terzi? E' un'ovvietà, e allora dov'è la notizia?». Mentre il suo colloquio con Mario Monti viene rilanciato come una novità. «Questioni di governo e di civiltà di rapporti. Tutto qui. Non posso inventarmi quello che non c'è». Eppure da Berlusconi prima, e dallo staff montiano poi, i ragionamenti, i colloqui e le riflessioni del leader del Partito democratico vengono utilizzati, amplificati e, persino, distorti. Questo nonostante Bersani, forse colpevole di scarsi voli di fantasia, abbia sempre, pervicacemente, sostenuto le stesse cose. Cioè che «anche con il 51 per cento» chiederà ai centristi di «governare insieme», perché, dice e ridice il segretario, «a noi non interessa prendere il potere, ma dare stabilità al Paese». E' per questa ragione che persino Massimo D'Alema, dopo aver definito «immorale» la decisione del presidente del Consiglio di scendere in campo, ha rettificato il tiro: «Anche se avessimo i numeri, noi allargheremmo la coalizione ai moderati». Ed è sempre per questo motivo che Bersani non ha inveito più di tanto quando dal giro montiano è filtrata la notizia del colloquio tra lui e il premier. Lo scopo di quella mossa era ovvio ai vertici del Partito democratico: «Solo dimostrando di avere buoni rapporti con noi e pessimi con Berlusconi, Monti può ottenere dei voti che altrimenti non avrebbe. Voti che vengono dal centrosinistra, visto che nel centrodestra ormai non ha nessuna capacità di espansione». Dunque Bersani evita la polemica: «Inutile, anzi dannoso in questa fase» fare la parte di quelli che litigano. Tanto più «se la collaborazione futura tra noi è scontata». Insomma, per l'ennesima volta il segretario del Partito democratico veste i panni della responsabilità. Perciò si limita a scrollare la testa quando si propaga la vulgata del patto di non belligeranza tra Monti e Pd in chiave anti-Berlusconi. «Perché, non era chiaro che siamo tutti anti-populisti?», ironizza il segretario. Che mantiene i nervi saldi anche quando nella serata di ieri si sparge la voce di un accordo di desistenza tra Partito democratico e montiani. Alla notizia Bersani ride a crepapelle e poi chiede ai collaboratori: «Ma che sostanze ci sono in giro?». Come a dire: notizie drogate...e falsate. Come si diceva, in realtà il segretario del Pd non cambia lo schema che si era prefissato già due anni fa. Con i moderati si ha da trattare. E occorre anche arrivare a un'intesa. Ma non si pagherà con la moneta del Quirinale. Si può mettere in gioco la presidenza della Camera, che sarebbe destinata all'attuale capogruppo del Pd Dario Franceschini. O anche un ministero. Quello degli Esteri, propone il quotidiano del Partito democratico Europa, perché quello dell'Economia appare un dicastero quanto mai improbabile come merce di scambio. Nichi Vendola, infatti, lo ha ripetuto in tutte le salse al numero uno di largo del Nazareno e ai suoi fedelissimi: «Io terrò fede alla carta d'intenti, che prevede un vincolo di coalizione. Ma non si può pensare che ogni volta che sono in minoranza mi adeguo. Su Monti non ci sono storie. E infatti il Pd non mi ha mai detto di volerlo in chissà quali posti». La moneta del Quirinale, intanto, verrà spesa per un futuro diverso. Potrebbe servire ad aprire il confronto con il centrodestra. Non perché Bersani smani per trovare un'intesa con Berlusconi. Ma perché il segretario del Pd è convinto che questa «non possa non essere la legislatura delle riforme», pena la catastrofe del sistema Italia. Perciò è pronto a turarsi il naso e a confrontarsi con il Cavaliere: «So che c'è chi dice che sono ripetitivo, ma per me la politica non è fatta di personalismi e giochetti». Quelli Bersani li lascia a Berlusconi. E persino a Monti. Per sé ritaglia il ruolo dell'innovatore: «Mestiere difficile, che richiede scelte coraggiose. A volte controcorrente o, apparentemente, contro gli interessi di partito».

l’Unità 18.1.13
Pannella: patto con Storace
Lite con Bonino, radicali nel caos
Metà partito è contrario alla sconcertante alleanza
Contatti col Pdl anche alle politiche
Lo storico leader, pur di garantire una rappresentanza al movimento, è pronto a rivolgersi all’estrema destra
di Fed. Fan.


Sono gli ultimi giorni prima della chiusura delle liste, e scoppia il caso dei Radicali tentati dall’accordo con Storace. A via di Torre Argentina parte un mezzo psicodramma, rivelato dall’agenzia Dire. Il fatto è che Marco Pannella, nel tentativo di trovare rappresentanza per il suo partito e dopo aver trovato chiuse le porte del Pd, si è rivolto alla Destra di Storace. E, dati i tempi strettissimi, vuole assolutamente portare a casa il risultato.
Così, ieri mattina di buon’ora, il leader storico dei Radicali ha convocato il gruppo dirigente per avere il via libera. All’alleanza con Storace nel Lazio, nel quadro di un accordo più ampio con il centrodestra. Ma le cose non sono andate lisce. Pannella ma si è trovato davanti un partito spaccato. Troppo forte lo strappo. Non solo metà dei dirigenti si è opposta a questa ipotesi. Ma l’opposizione più forte è venuta da Emma Bonino. L’ex vice-presidente del Senato sotto il governo Prodi, alle scorse Regionali è stata la candidata del Pd e di tutto il centrosinistra contro Renata Polverini. Adesso, svoltare su un candidato ancora più a destra del Pdl, sarebbe una giravolta davvero spericolata.
Secondo una fonte presente alla riunione e riportata dalla Dire, Pannella ha insistito molto, considerando un «non problema» quello di sostenere una forza politica cattolica e anti-abortista in queste ore si parla di un ticket tra Storace e l’attuale vicesindaco di Alemanno Sveva Belviso alla quale ha fatto opposizione in consiglio regio-
nale per gli ultimi cinque anni.
La partita è aperta. La lite tra Pannella e Bonino, pur non essendo la prima di una lunga e battagliera amicizia, non è certo senza peso. Si vedrà se il partito voterà su questa alleanza «esplosiva», se deciderà il leader, se la tentazione rientrerà da sé. «Questa volta non credo che Marco forzerà la mano insiste il partecipante alla riunione perché quasi metà partito è contraria».
L’ex Epurator, invece, li aspetta a braccia aperte. Qualche giorno fa Storace aveva aperto: «Se i Radicali vogliono un taxi, o un apparentamento tecnico che serve a evitare lo sbarramento troppo alto e avere la possibilità di avere la rappresentanza radicale in consiglio, io non ho pregiudiziali». Appena prosciolto per la vicenda del Laziogate, che gli costò la poltrona da ministro della Sanità, Storace è in corsa per riprendersi la Pisana. E non disdegna l’uso pre-elettorale dei taxi.
Gli ultimi sondaggi lo danno intorno al 33%, un punto più della Matone (che comunque avrà un seggio in Parlamento), e una decina avanti a Beatrice Lorenzin, la deputata romana su cui Berlusconi convinto da Alfano aveva deciso di puntare. Però “Francesco” parte in forte svantaggio: la regione, dopo gli scandali di Batman Fiorito e dei suoi sodali in consiglio regionale, è data per persa. E lui non intende rinunciare a nulla.
Anche perché la Destra gioca anche sull’altrettanto insidioso tavolo delle percentuali all’interno della coalizione di centrodestra: se non riuscirà a superare la soglia del 2%, dovrà puntare al ripescaggio come “miglior perdente”. Premietto di consolazione a cui aspirano anche Meloni, Crosetto e La Russa con Fratelli d’Italia, Samorì con il suo Mir. E dunque al Senato in Campania Storace candida Mario Andrea Vattani, l’ex console fascio-rock richiamato dalla Farnesina dal Giappone dopo essere salito sul palco di un concerto di Casa Pound. Mentre nel Lazio corteggia con disinvoltura i voti laici e progressisti dei Radicali.
Si vedrà come finirà. Pannella, reduce dal lungo sciopero della fame e della sete per attirare l’attenzione sulle drammatiche condizioni carcerarie, non è nuovo alle provocazioni. E per il partito di via Torre Argentina questo è un momento storico cruciale. Anche a livello nazionale, le trattative per ottenere ospitalità in qualche lista vanno avanti, e l’abboccamento con Storace rientra in una strategia più generale con Berlusconi e il Pdl. In Regione, con Nicola Zingaretti il discorso sembra chiuso dopo l’altolà del Pd ai due consiglieri radicali uscenti, Rossodivita e Berardo. A livello nazionale, invece, c’è stata l’offerta di Antonio Ingroia di candidare Emma Bonino con Rivoluzione civile al Senato. Ipotesi difficile, vista la componente contraria all’amnistia (Antonio Di Pietro) presente nell’alleanza con l’ex pm di Palermo.
A giorni si saprà. Per il Lazio la decisione andrà presa entro il 26 gennaio. Mentre per le politiche la deadline è il 22 gennaio, con il deposito delle liste dei candidati al Parlamento.

il Fatto 18.1.13
Pannella vuole sostenere Storace. Scontro con Bonino


IL DISSIDIO era già scoppiato domenica scorsa, con l’accusa lanciata al candidato Pd alla Regione Lazio, Zingaretti, di non aver voluto in squadra i due radicali che attualmente siedono nel consiglio regionale uscente. Ieri però, Marco Pannella è andato oltre. Dopo aver convocato in mattinata il gruppo dirigente, il leader radicale ha cercato di incassare l’ok all’alleanza con il Pdl e La Destra di Francesco Storace alle imminenti regionali, trovandosi però mezzo partito contro, capitanato da Emma Bonino. Secondo quanto riferito da fonti interne, Pannella avrebbe insistito molto, senza porsi il problema di sostenere una parte politica (antiabortista), alla quale i radicali hanno fatto opposizione in consiglio per cinque anni. La stessa Bonino è stata candidata per il Pd e tutto il centrosinistra la Polverini.

Corriere 18.1.13
Storace fa litigare i Radicali, Pannella dialoga, Bonino contro


ROMA — Marco Pannella favorevole a correre con Storace nel Lazio, Emma Bonino contraria: al termine di una lunga riunione, con una discussione a tratti accesissima, i Radicali rinviano la decisione, che forse arriverà già oggi. «Non sarebbe un'alleanza, solo un taxi per arrivare alla Regione»: il dirigente che lo dice viene subito rimbrottato da un altro, «ma quel taxi lo guida Storace, lo capisci o no?». Il partito è a un bivio: «Da una parte il Pd di Zingaretti che, grazie ai media lottizzati, vuole farci sparire dalla campagna, dall'altra questa ipotesi, un apparentamento tecnico con Storace», spiega il consigliere regionale Giuseppe Rossodivita. La possibilità di una scelta così clamorosa, nel partito, suscita parecchie perplessità: vero che «per noi significherebbe abbassare la soglia d'ingresso al consiglio regionale e continuare poi a fare opposizione, a controllare chi governa», ma in molti fanno notare le posizioni di Storace su argomenti cari ai Radicali, dall'aborto alle droghe leggere all'eutanasia. E su Facebook e Twitter è partito il tam tam: «Mai con Storace». Il candidato de La Destra, comunque, li aspetta a braccia aperte: «Mi piacerebbe come una sfida, io guiderei il Lazio e loro entrerebbero nella maggioranza per farmi opposizione». Il candidato di centrosinistra, Nicola Zingaretti, si augura che «i Radicali ci ripensino. Io a loro ho chiesto ciò che ho chiesto a tutti, nessuno escluso, di aprire una pagina nuova a cominciare dalla rappresentanza in consiglio regionale».

Repubblica 18.1.13
Pannella vuole l'accordo con Storace
ma Bonino e metà partito non ci stanno

qui

Agenzia Dire 17.1.13
Pannella vuole appoggiare Storace. Bonino contro

qui

il Partito Radicale era stato alleato del centrodestra nel 1994, Emma Bonino era stata eletta deputata nel collegio uninominale di Padova e Selvazzano con la lista "Polo delle Libertà".
Pannella il mese scorso era stato condannato a pagare 250mila euro alla sua ex segretaria per non averle pagato i contributi
Bertinotti poche settimane fa aveva proposto che Napolitano nominasse Pannella Senatore a vita!

l’Unità 18.1.13
Candidature e codice etico
Oggi il verdetto
Riunione dei garanti del Pd per decidere sui casi di Papania, Crisafulli, Caputo e su altri indagati
Marino: necessaria una sollevazione etica nella politica
di M. Ze.


ROMA I garanti del Pd si incontreranno oggi alle 13.30 e a quel punto ognuno di loro dirà al presidente Luigi Berlinguer cosa pensa di ogni singolo caso esaminato in questi giorni. Il verdetto finale, dunque, è questione di ore e poi si saprà chi è candidabile, perché non in contrasto con quanto prevede il Codice etico, e chi dovrà rinunciare alla corsa per il Parlamento. Bocche cucite ieri su nomi e probabili esiti, ma i casi su cui si è concentrata l’attenzione dei garanti sono gli stessi finiti nei giorni scorsi sui giornali: nessuno di loro è indagato o condannato per fatti di corruzione, concussione, per reati di mafia o sfruttamento della prostituzione, fattispecie elencate nella Costituzione del Pd come ostativi a qualunque candidatura. Viene comunque annunciata un’«interpretazione severa».
Nella rosa di nomi su cui oggi si esprimerà il Comitato ci sono: Nicola Caputo, candidato consigliere regionale campano, è stato coinvolto in un’inchiesta sui rimborsi ai gruppi consiliari e l’altro ieri è stato sentito dai Garanti ai quali ha fornito la propria versione dei fatti. Ha parlato anche con i magistrati dei fatti contestati. Tutto si riferirebbe a fatture emesse al suo addetto stampa, «penso di averli convinti sulla mia innocenza», ha spiegato.
Vladimiro Crisafulli, oltre 6mila preferenze alle primarie ad Enna, rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e preso di mira da Il Fatto Quotidiano, dice: «È stato montato un caso su di me per cercare di mettere in imbarazzo il mio partito che conosce bene la mia situazione: non sono neanche nell’elenco degli indagati»; Antonio Papania, eletto ad Alcamo che nel 2002 ha patteggiato per abuso d’ufficio e oggi spiega: «Preoccupato? No, perché secondo lo statuto del Pd posso tranquillamente candidarmi. Il Tribunale di Palermo ha dichiarato che il reato è estinto e quindi sono completamente riabilitato. Mi hanno votato i cittadini alle primarie e poi si parla di un abuso di ufficio non patrimoniale. Non è un reato grave e può capitare a qualsiasi amministratore. Il patteggiamento a due mesi e venti giorni prosegue resta una macchia, ma all’epoca avevo 38 anni e pensavo che dopo il patteggiamento non se ne sarebbe parlato più. Così mi consigliò l’avvocato, ma non lo rifarei e andrei direttamente a giudizio». Dal punto di vista formale, dice, non trova nulla di scandaloso nella candidatura di Nicola Cosentino, Pdl, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, ma non ancora condannato: «Ogni partito si dà le sue regole». Sono le loro tre posizioni quelle più controverse.
Nicodemo Oliverio, candidato alle primarie di Crotone, indagato per bancarotta fraudolenta, ha scritto ai garanti spiegando che aspetta dal 1998 che si chiuda quella vicenda legata a quando era tesoriere del Ppi e si dice certo che ne verrà fuori a testa alta. Poi c’è anche Giovanni Lolli, L’Aquila, che ha alle spalle una prescrizione del 2006 e Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio.
I CASI MINORI
I nomi non finiscono qui, ma in molti casi si tratta di reati minori o archiviati. «Noi stiamo esaminando tutte le candidature, come è nostro compito fare dice uno dei Garanti anche sulla base delle autocertificazioni che ognuno ha dovuto inviare». Un compito non da poco soprattutto alla luce della crescente insofferenza da parte degli elettori verso gli episodi di malapolitica. Con in più il monito del candidato di centrosinistra Pier Luigi Bersani che sul tema della moralità pubblica e della trasparenza in politica torna in ogni occasione pubblica e privata. Tenere insieme il Codice etico e il clima generale non è cosa facile. Sul tema ieri si è espresso, ospite di Omnibus su La7, il senatore uscente Ignazio Marino: «In un Paese normale chi è indagato, rinviato a giudizio o condannato non dovrebbe neanche immaginare di candidarsi e non dovrebbe essere in una lista elettorale. Mi rendo conto che la mia posizione è estrema e capisco anche che il Codice etico del mio partito abbia una minore severità in ragione di un garantismo, tuttavia penso sia necessaria una sollevazione etica nella politica e di riassumere una credibilità rispetto al Paese».

il Fatto 18.1.13
Crisafulli rischia grosso, i garanti e Bersani decidono
di Wanda Marra


Sono passati ormai undici giorni da quando Pier Luigi Bersani ha annunciato che la Commissione di garanzia avrebbe esaminato caso per caso gli impresentabili in lista. Ieri uno di quelli che rischia di più, Antonio Papania, che ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni per una condanna per abuso d’ufficio, oltre 6000 preferenze alle ultime primarie, numero due al Senato in Sicilia, si è sfogato alla Zanzara: “Preoccupato? No, perché secondo lo statuto del Pd posso tranquillamente candidarmi. L’abuso d’ufficio è un reato non grave e può capitare a qualsiasi amministratore. Il tribunale di Palermo ha dichiarato che il reato è estinto e quindi sono completamente riabilitato. Il patteggiamento resta una macchia, ma all’epoca avevo 38 anni e pensavo che dopo il patteggiamento non se ne sarebbe parlato più”.
NEL TENTATIVO di chiarire la sua posizione si schiera addirittura con Nicola Cosentino: “Sono garantista e Cosentino lo capisco, non avendo una condanna. Fa bene a ricandidarsi, poi ogni partito si dà le sue regole”. Non manca di accusare Franca Rame (“paracadutata”) e Travaglio: “Ci sono formazioni politiche che vogliono fare alleanze con il Pd come Ingroia, che è molto amico di Travaglio”. Monta il nervosismo, ma le decisioni finali non sono ancora state prese: nel partito c’è una discussione logorante, sofferta, fatta di valutazioni etiche, di opportunità politica, di volontà di dare un segnale all’opinione pubblica e nello stesso tempo di non cedere a quello che appare come un ricatto mediatico. Si soppesano la questione morale, i voti e le ragioni del garantismo. Senza contare le possibili ritorsioni di chi si dovesse trovare fuori dopo aver vinto le primarie. La parte “procedurale” è affidata a Luigi Berlinguer, come presidente della Commissione di garanzia, l’ultima parola spetterà al segretario. Sono giorni che traccheggia, stretto – appunto – tra una serie di valutazioni e di controvalutazioni. Berlinguer ieri ha presieduto una riunione fiume dei Garanti e li ha convocati oggi alle 13 e 30 per la decisione finale, dopo aver esaminato circa una dozzina dei casi segnalati dal Fatto e non solo (tra cui Antonio Luongo, rinviato a giudizio per corruzione, Nicodemo Oliverio, imputato per bancarotta fraudolenta, Giovanni Lolli, imputato per favoreggiamento e poi prescritto, Andrea Rigoni, condannato a 8 mesi e poi prescritto per abuso d’ufficio). Oggi i risultati della sua istruttoria. Due i principi portanti: la presunzione di non colpevolezza e dall’altra parte la necessità di preservare l’immagine e l’onorabilità del Pd. E siccome a rigor di codice etico, statuto, legge italiana e regolamento non c’è nulla che osti alle candidature in bilico, potrebbe stabilire dei criteri, che dividano i casi secondo le tipologie dei procedimenti in corso.
MA ALLA FINE con ogni probabilità rimanderà a Bersani, dicendo che si tratta di una decisione politica. A rischiare, oltre a Papania, la cui candidatura viene vista con una certa negatività dai garanti è Mirello Crisafulli. Campione di preferenze a Enna, archiviato per l’indagine di concorso esterno in associazione mafiosa, e rinviato a giudizio per abuso d’ufficio. Il suo caso rientra tra quelli che possono danneggiare l’immagine del Pd. A perorare la sua causa al Nazareno l’altroieri è arrivato anche il segretario siciliano Lupo. Lui stesso si è fatto vedere alla presentazione del libro di D’Alema, che ha difeso la sua presenza in lista. Tra i siciliani non piace molto la posizione di Francantonio Genovese, ma nonostante una serie di conflitti d’interesse e l’abitudine a piazzare parenti nel business dei corsi di formazione regionale, non c’è nulla di penale. Con un piede già fuori dalla lista è Nicola Caputo, anche lui oltre 6000 preferenze nel Casertano, numero 4 in lista alla Camera in Campania 2. È indagato per rimborsi falsi come consigliere regionale. Una situazione non sufficiente a escluderlo dalle liste, se non fosse che lui stesso si era impegnato a fare un passo indietro nel caso in cui fosse uscita fuori un’indagine a suo carico.
Tra i casi segnalati anche dall’interno del Pd quello di Ludo-vico Vico, intercettato nell’inchiesta sull’Ilva. Posizione considerata “regolare”.
INFINE è arrivata la questione di Rosaria Capacchione, la cronista anti camorra del Mattino che Bersani ha voluto capolista al Senato in Campania: sotto processo con l'accusa di aver calunniato un sottufficiale della Guardia di finanza, ha presentato istanza di rinvio. Dunque tornerà davanti ai giudici di Santa Maria Capua Vetere solo il primo marzo. Da codice etico non si tratta di un reato che implica l’esclusione dalle liste. Di certo in questa situazione è un elemento di ricatto nei confronti del segretario da parte di chi pensa che alcuni impresentabili non dovrebbero essere esclusi.

La Stampa 18.1.13
La battaglia-Campania Il Pd tra Cosentino e Ingroia
Il Pdl non rinuncia al discusso signore delle tessere. E la desistenza è difficile
di Federico Geremicca


Il famoso «si stava meglio quando si stava peggio», in politica è un classico, diciamoci la verità. E’ raro che qualcuno non vi abbia polemicamente fatto ricorso: e a volte è effettivamente difficile resistere alla tentazione. Si pensi alla parabola del tormentato centrosinistra napoletano (e campano, più in generale) chiamato ora a una delle Grandi Battaglie che - assieme a quelle di Lombardia, Veneto e Sicilia decideranno le sorti del Senato e, con ogni probabilità, la stabilità della legislatura. Da queste parti, prima fu il tempo di Bassolino Re di Napoli e del «rinascimento» della città; poi quello del tandem pigliatutto, con la Jervolino (lei sindaco, lui governatore) ; quindi, il declino, il precipizio che ha portato - forse inevitabilmente - fin qui: fino a questo gruppo dirigente giovane (e a queste liste elettorali: contestatissima quella per Palazzo Madama), un po’ disorientato tra ras locali, primarie e apparati che resistono. «Undici paracadutati da Roma, e poi vorrebbero che vincessimo al Senato», accusano gli esclusi. E non solo loro, naturalmente.
«Hanno fatto delle liste deboli... Perfino il Pci dei tempi andati era più aperto verso la società civile - ha lamentato Antonio Bassolino -. Una volta entrato nella cabina farò molta fatica a mettere la croce sul simbolo del mio partito. Lo farò solo per rispetto alla mia storia». E il filosofo Biagio De Giovanni - amico personale di Napolitano, storico intellettuale comunista che ha lasciato il Pd ed è ora incuriosito da Monti - aggiunge: «La democrazia delle primarie, con l’aggiunta di scelte sbagliate a Roma, ha prodotto delle liste assurde: piccoli ras padroni di tessere e poi gli inviati da Roma, spesso senza nessun rapporto col territorio. Non la vedo affatto bene... ».
Nella hall del Continental, Enzo Amendola, 38enne segretario regionale del Pd, sorseggia un caffè e intanto sorride: «E pensa se invece non le avessimo fatte le primarie... ». Sembra disteso, e si mostra tranquillo: «L’ultimo sondaggio Ipr, istituto serio, dice che siamo avanti: 35 a 32». E sa perfettamente quanto sia decisivo l’esito della Grande Battaglia campana: «Stiamo coordinandoci con Roma. Le quattro regioni in bilico saranno sostenute, ma poi qui ci dobbiamo mettere del nostro».
Lui, Amendola, ha cominciato: ma dichiarando guerra a Luigi De Magistris, sindaco della città e tra i leader della lista-Ingroia, alla quale - pure - qui in Campania il Pd chiede benevolenza. «Lui non accetterà mai alcuna ipotesi di desistenza - assicura Amendola -. Sta perdendo il contatto con la realtà, ha mezza città contro, i commercianti, le mamme, i dipendenti comunali... E soprattutto non mi pare affatto spaventato dall’idea di favorire la vittoria di Berlusconi».
Perchè sì, anche qui - e come ovunque da vent’anni - il competitor è Silvio Berlusconi. Il quale, considerato che la battaglia in questa regione può esser decisiva - ha tirato fuori dal box il temuto Nicola Cosentino. «Il Cavaliere si è stufato e ha sciolto i cani», ha commentato qualcuno in città... Parente acquisito di diversi camorristi, ex sottosegretario ed ex capo Pdl in Campania, inseguito da indagini e richieste d’arresto, Cosentino dovrebbe combattere (naturalmente) la Grande Battaglia del Senato: numero 3, dopo Berlusconi e Nitto Palma, commissario del partito.
Ora, è chiaro che un signore con tanti guai non dovrebbe esser candidato alle elezioni: e infatti Stefano Caldoro, governatore per conto del Pdl, ha provato a dirlo, sentendosi però rispondere - da Berlusconi, certo «Caldoro ha una posizione personale contro Cosentino, vicende locali... ». La posta è troppo alta per lasciarlo fermo ai box: e così, nella sfida per il Senato entra con tutto il suo dimostrato peso anche Nicola Cosentino. E quelli che qualcuno, in casa Pd, potrebbe sobriamente definire «gli scagnozzi di Cosentino».
Un brutto affare. Come conferma anche Paolo Cirino Pomicino, che di campagne elettorali da queste parti ne sa qualcosa: «E come mai potrebbero rinunciare a Cosentino, Cesaro e uomini così? Vorrebbe dire rinunciare al partito: non lo faranno. E il centrosinistra, per me, ora rischia guai». Lui, invece, Pomicino, per la prima volta è davvero senza partito. Cioè, ne sta ricostruendo uno assieme a Mastella e Gargani (la Dc, naturalmente) ma è ancora frenato dalle solite beghe sull’uso dello scudocrociato: «Esordiremo alle amministrative», dice. E i vostri voti, intanto, dove andranno? «Mah... Magari un po’ qua un po’ là. E guardi che ne abbiamo ancora, sa? Una volta a Napoli ne presi 30 mila mentre ero ricoverato in ospedale... ».
I voti, appunto. L’ultima volta, nel 2008, per il Senato non c’è stata battaglia: 51 a 34 (col Pdl al 48,7 e il Pd al 29,1). Due anni dopo, alle regionali, altra vittoria del centrodestra (ma con Pdl e Pd in caduta libera: 31,5 il primo, 21,4 il secondo). E la crisi dei due partitoni non s’è fermata, se è vero che l’anno dopo l’outsider De Magistris è diventato sindaco della città e Pd (16,5) e Pdl (23) sono quasi dimezzati. E adesso? Chi farà il pieno di senatori (16 per chi vince, solo 9 da dividere tra gli altri) in questa regione di frontiera?
Un modo per fermare Berlusconi e mettere le mani sul bottino il Pd l’ha (l’aveva?) individuato nell’offerta di desistenza rivolta ai «rivoluzionari» di Ingroia: niente liste qui e in Sicilia, e qualche senatore ve lo eleggiamo noi. «Mi pare difficile - annota Sandro Ruotolo, candidato a Napoli con l’ex magistrato -. Intanto perchè i sondaggi ci danno in ascesa, e quando il marchio sarà più noto andrà ancor meglio; e poi perché in queste storie dipende anche da quel che si offre. Io so poco, ma si parla di briciole».
E così, la Grande Battaglia si conferma ad alto rischio per il Pd, visto che anche il Centro (forte nelle zone interne) schiera i big, da Casini capolista al Senato ad un De Mita (Giuseppe, vicepresidente alla Regione) che è sempre una garanzia...
La gente, intanto, si guarda intorno cercando di capire. E annota la difficoltà dell’antica capitale. Fondazioni più o meno radicate (da Sudd, di
Bassolino, a MezzogiornoEuropa) chiudono i battenti o annaspano tra le difficoltà. Il tessuto culturale e civile, si sfilaccia. Tanto che il maestro Roberto De Simone si spinge a dire che votare non ha più senso. Urlarlo oggi, alla vigilia della Grande Battaglia, sembra una follia. O la conferma che, Senato o non Senato, quaggiù c’è chi non sa più a che santo votarsi...

Repubblica 18.1.13
La rivolta del Pd siciliano “I garanti non fermino i candidati sotto inchiesta”
Crisafulli e Papania rischiano l’esclusione
di Emanuele Lauria


PALERMO — La commissione di garanzia del Pd stringe l’obiettivo sui presunti «impresentabili». E i faldoni più voluminosi, sul tavolo dell’organismo presieduto da Luigi Berlinguer, sono quelli di quattro big siciliani del consenso: i senatori uscenti Crisafulli e Papania, i deputati Genovese e Capodicasa. Una decisione definitiva sulla loro ricandidatura soltanto oggi. Ma la possibile bocciatura di uno o più di questi parlamentari - coinvolti o solo sfiorati da inchieste giudiziarie scatena la reazione del partito siciliano. In una lettera inviata a Bersani e alla stessa commissione, il segretario regionale Giuseppe Lupo e i nove responsabili provinciali mettono le mani avanti: «Sarebbe inaccettabile la sollevazione di un qualunque problema», scrivono testualmente.
Un caso fragoroso che agita la vigilia del deposito delle liste da parte del Partito democratico. Sui quattro parlamentari siciliani pendono inchieste o precedenti giudiziari di poco conto: abusi d’ufficio per Crisafulli (rinviato a giudizio), Genovese (solo indagato) e Papania, che ha patteggiato nel 2002 una pena di 2 mesi e 20 giorni (poi tramutata in multa). Ma su tutti grava il peso di intercettazioni e rapporti di polizia,
ritenuti senza rilievo giudiziario, che raccontano di presunte contiguità con la mafia o che collocano questi veterani della politica nell’isola al centro di un ambiguo sistema di potere. Ed è questo l’aspetto su cui la sinistra di Ingroia ha già cominciato a sparare e sul quale qualcuno mugugna anche all’interno di un Pd che ha scelto Piero Grasso come portabandiera.
Ma il Pd siciliano, nella lettera a Bersani, insorge: «La commissione regionale di garanzia aveva già verificato, all’atto della presentazione delle candidature per le primarie, l’assenza di qualsiasi contraddizione con le norme dello Statuto e del codice etico. Ben venga un’ulteriore verifica da parte della commissione nazionale - si legge nella lettera a Bersani - ma appare del tutto discutibile la limitazione di tale verifica nei confronti di alcune candidature ». Insomma, spiega il segretario siciliano Lupo, «le regole valgono per tutti da Milano a Palermo e devono essere applicate senza pregiudizi. Qui come altrove - aggiunge - non ci sono situazione giudiziarie che il nostro partito può reputare sanzionabili. E se il problema è l’opportunità politica, beh, quella doveva essere segnalata prima delle
primarie. Ora bisogna solo rispettare quel risultato».
Un risultato che, per intenderci, ha premiato generosamente i quattro candidati sub judice: Genovese, con quasi 20 mila preferenze, è stato il più votato in Italia alle primarie di fine dicembre. E con gli altri tre ha raccolto 40 mila consensi su 102 mila votanti in Sicilia. Il Pd ora è a un bivio: può decidere, sulla base dell’«opportunità politica», di rinunciare a questo patrimonio. Oppure andare avanti noncurante delle critiche che giungono
soprattutto dall’area di Ingroia con la quale si è ipotizzato un patto di desistenza al Senato. I democrat siciliani parlano non a caso di «campagne stampa orchestrate ad arte e lesive dell’immagine di significativi esponenti politici». Oggi il verdetto della commissione di garanzia: ma non è da escludere che i vertici del Pd, prima dell’esito, possano chiedere a Papania o Crisafulli (i cui casi sono ritenuti più imbarazzanti) una autonoma valutazione sul ritiro della candidatura.

l’Unità 18.1.13
Sprechi e truffe: nel Lazio la sanità è un buco nero
di Roberto Rossi


IL SETTORE RISCHIA DI SALTARE PER UNA CRISI FINANZIARIA. DALLA VORAGINE DI STORACE AI RIMBORSI FALSI, STORIA DI UN CRAC ANNUNCIATO
L’8 gennaio scorso, fuori dai cancelli dell’Idi, un volantino recitava: «....Dopo ben 4 mesi senza stipendio molti nostri colleghi si sono ritrovati senza risorse economiche. C’è chi ha avuto sfratti, blocco utenze e anche chi oramai non riesce più a portare a tavola qualcosa da mangiare. Pertanto abbiamo allestito una dispensa per i nostri colleghi dove sono presenti beni di prima necessità: pane, riso, pannolini, olio... e tutto ciò che potrebbe essere utile alle mamme ed ai loro bambini... Aiutiamo i nostri colleghi a vivere». Siamo a Roma e il San Carlo-Idi non è una fabbrica ma uno dei più importanti centri dermatologici in Italia, un’ospedale di proprietà della Congregazione dei figli dell’Immacolata Concezione convenzionato con il servizio sanitario nazionale. Si trova in via Aurelia 275 e per anni è stato considerato una delle eccellenze italiane. Oggi, invece, rappresenta il simbolo di una crisi che investe l’intera sanità della regione Lazio, malata quasi terminale.
Il morbo che l’ha colpita, che oggi si sta manifestando in tutta la sua virulenza, non è recente. È in circolo da anni. Ha cominciato a manifestarsi durante la giunta di Francesco Storace, dal 2000. L’ex governatore, oggi nuovamente candidato, ha abusato della sanità per creare consensi. Proprio per questo, sotto la sua reggenza, il settore ha generato un buco di oltre dieci miliardi di euro. Oggi, naturalmente, Storace nega, ma basterebbe ricordare i 49 ospedali pubblici venduti e poi riaffittati a caro prezzo alla Regione, le gesta di lady Asl, le fatture gonfiate, le tangenti, il fiume di denaro scomparso senza traccia. Basterebbe ricordare come i bilanci che le aziende sanitarie laziali avrebbero dovuto redigere tra il 2003 e il 2005 vennero approvati solo nel 2006, quando la Corte dei Conti segnalava «la non piena attendibilità delle scritture contabili». Un modo gentile per dire che quei documenti erano falsi e sottolineare l’esistenza di un deficit sanitario sommerso.
Storace lasciò nel 2005 sepolto dagli scandali, ma la polvere sotto al tappeto rimase. Per scongiurare un crac annunciato il ministero dell’Economia obbligò l’Ente, con la giunta Marrazzo, a un piano di rientro lacrime e sangue. Venne accordato un prestito trentennale da 5,5 miliardi (al 5,965%) che la Regione ogni anno rimborsa con rate da 350 milioni. Eppure nonostante l’esperienza precedente una vera inversione di tendenza non è mai arrivata. Si continua sempre a ripianare il debito chiedendo uno sforzo ai cittadini (attraverso l’Irap e l’Irpef) senza far guarire il malato. Tanto è vero che anche per il 2013 il disavanzo tendenziale viaggia verso il miliardo di euro.
SERVIZI SCADENTI
Il paradosso è che nonostante i tanti soldi impiegati in quasi quindici anni, l’offerta del sistema sanitario regionale è tra le più basse d’Italia. Per comprendere di che cosa si sta parlando basta leggere il documento redatto lo scorso marzo dal ministero della Salute sui «Livelli erogati di assistenza sanitaria» (Lea): in cinque dei 21 indicatori utilizzati per verificare la qualità complessiva del sistema, il Lazio si posiziona ultimo in Italia. Come ci dice il medico Roberto Polillo ex segretario nazionale Cgil-Medici, per due anni al ministero della Salute con il secondo governo Prodi, redattore di Quotidiano Sanità dal numero dei posti equivalenti per assistenza agli anziani in strutture residenziali, alla percentuale di parti cesari, dal costo pro capite dell’assistenza collettiva in ambiente di vita e lavoro al numero dei posti per l’assistenza ai disabili, il Lazio presenta le maggiori problematiche. Quando la giunta Polverini si affacciò al capezzale, mettendo mano al sistema sanitario regionale con la delibera 80 del 2010, alcune criticità erano così riassunte: a) un eccesso di offerta ospedaliera con una presenza di posti letto privati che superava il 40% e che realizzava oltre il 50% dei ricoveri; b) massima concentrazione delle strutture ospedaliere e delle alte specialità nell’area metropolitana e forte carenza nelle province; c) bassa qualità delle cure ma costo eccessivo; d) scarsa presenza delle cure primarie nonostante la riconversione di 24 ospedali trasformati in ospedali difettivi e poliambulatori.
Dal documento emergeva, in sostanza, un mostro di burocrazia, farraginoso, spesso con comparti inutili, non razionale, costosissimo. Ad esempio. Dal sito della società dei trapianti d’organi d’Italia si scopre che nel Lazio ci sono cinque strutture accreditate (il San Camillo-Forlanini, il Sant’Eugenio, il policlinico Umberto Primo, il Bambin Gesù e il Gemelli) per il trapianto del fegato. Strutture anche di un certo rilievo scientifico ma che producono meno interventi dell’Ospedale Molinette di Torino, unico centro accreditato in Piemonte (regione con un milione di abitanti in meno). Oppure: nel Lazio sono presenti 39 strutture di unità di terapia intensiva cardiologica (come si evince dall’elenco dell’associazione medico chirurghi) ma solo sei, come dice Polillo, lavorano ventiquattro ore al giorno. Ricorda, poi, Ignazio Marino, senatore del Pd e membro della Commissione parlamentare sulla Sanità: «Nel Lazio ci sono 1600 Unità Operative, a capo di ognuna della quali c’è un primario. Quante di queste sono davvero necessarie?». E quante create per offrire un posto di prestigio a qualcuno?
Tra l’altro, non è ancora chiaro quanti siano i posti letto esistenti. Per anni ci sono stati dati contrastanti. «In una tabella del ministero della Salute ci dice ancora Polillo i posti letto presenti al primo gennaio 2012 risultano essere 23.041 (di cui 4307 di post acuzie)». Invece nella tabella allegata a un verbale regionale di due mesi prima «i posti letto sarebbero in numero inferiore e cioè 22.833 (di cui 4215 di post acuzie)». La scarsa attendibilità dei dati regionali è una consuetudine: «Ad esempio, i posti letto risultanti al 2006 (dati del ministero della Salute) erano 21.311 mentre quelli censiti con la delibera 80/2010 erano 25mila». Una differenza di oltre 4mila posti letto.
Naturalmente l’inefficienza ha un costo che ricade sui cittadini: secondo il Tribunale per i diritti del malato in un pronto soccorso del Lazio per un codice verde si può aspettare fino a dodici ore, contro le due ore della Toscana e i sessanta minuti della Lombardia, mentre è ancora sotto gli occhi di tutti lo spettacolo di una capitale che, la settimana scorsa, per molte ore è stata senza ambulanze.
MUCCA DA MUNGERE
Ma non è solo un problema di burocratica inefficienza. Per spiegare quel disavanzo monstre c’è anche altro. La sanità nel Lazio, per anni, è stata, una mucca da mungere, il bancomat per comprare consensi elettorali o creare gruppi di potere. Scriveva Angelo Raffaele De Dominicis, procuratore regionale della sezione giurisdizionale del Lazio della Corte dei Conti, nell’ultima relazione sulla Regione Lazio dello scorso febbraio: «Gravissimi fatti illeciti sono stati, altresì, riscontrati durante il 2011 nel settore della spesa sanitaria (...) . Di recente si segnalava ancora nella relazione la Procura regionale per il Lazio ha chiesto alla competente Sezione Giurisdizionale il sequestro conservativo di beni immobili appartenenti alla San Raffaele Spa (ex Tosinvest spa), per 134 milioni di euro, a garanzia del corrispondente danno subito dal Servizio Sanitario Regionale, per effetto di una complessa e articolata indagine relativa alla fittizia o irregolare erogazione di prestazioni di riabilitazione eseguite presso strutture convenzionate, e in particolare presso la casa di cura San Raffaele di Velletri». I rimborsi illeciti al gruppo San Raffaele, sempre secondo il procuratore, «destano particolare sconcerto e preoccupazione ove si consideri che oltre il 68% dell’intero debito sanitario nazionale è costituito dal disavanzo accumulato da due regioni: Lazio e Campania».
Ma il marciume evidenziato dalla Corte dei Conti rappresenta solo una parte. Qualche settimana fa spiegava Enrico Bondi, ex commissario alla Sanità del Lazio, presentatosi qualche mesa fa al capezzale del malato armato di solo bisturi, che c’erano casi, come quello del San Carlo Idi, guarda caso, dove molte fatture, per almeno 110 milioni, venivano pagate due volte: la Regione le pagava all’Idi, e l’Idi le scontava ugualmente, facendosi dare altri soldi, da banche o società di factoring. Le quali ora battono cassa. E non vogliono soltanto quei 110 milioni di euro. «Ma anche i 51 di fatture non riferibili a prestazioni sanitarie, contestate dall’Asl», come sottolineò ancora Bondi, che l’Idi ha comunque scontato. Oltre agli 83 relativi invece a «prestazioni non riconoscibili», sempre anticipati dalle stesse banche. Totale: 244 milioni. E cioè un quinto del disavanzo totale.
La sanità del Lazio è malata cronica, si diceva. Dal San Carlo-Idi alle strutture del gruppo San Raffaele, dal Policlinico Gemelli agli ospedali religiosi riuniti nell’Aris, fino agli ospedali pubblici come il San Filippo Neri e il Cto, tutti vivono di giorno in giorno e col fiato sospeso. La regione ha pochi fondi da utilizzare. Tecnicamente, se fosse un’azienda privata, si potrebbe definirlo un crac. Ma qui si parla di salute, e di una malattia durata anche troppo tempo. Dalla quale ci si può curare. Ma serve che qualcuno lo faccia.

Repubblica 18.1.13
La spesa record del sindaco di Roma: venti milioni di euro l’anno
I mille consulenti di Alemanno
di Daniele Autieri


ROMA — Non bastavano 19mila dipendenti, 6mila funzionari e 280 dirigenti superpagati per mandare avanti il pachiderma amministrativo del Comune di Roma. Nonostante un esercito tanto nutrito il Campidoglio di Gianni Alemanno ha spalancato le porte alla carica dei consulenti: 1.020 negli ultimi due anni, costati alle tasche dei contribuenti 20,7 milioni di euro.
A dispetto del debito, del bilancio approvato con dieci mesi di ritardo e dei tagli ai servizi sociali, il Comune di Roma non ha avuto problemi a foraggiare la platea dei collaboratori. Una prassi tanto diffusa in Campidoglio da coinvolgere
persino l’ufficio incaricato di verificare la congruità dei compensi assegnati agli esterni. Proprio l’Organismo indipendente di valutazione, istituito nel 2010 da Alemanno e presieduto dal direttore generale del Comune, Liborio Iudicello, è guidato da due consulenti con una pluriennale esperienza nella pubblica amministrazione, Livio Barnabò e Francesco Verbaro, ai quali il Campidoglio ha riconosciuto un compenso di 40mila euro.
La loro storia è solo una goccia nel mare. I casi clamorosi non mancano. Uno di questi è Alexander Marco Andrew Sciarra. Nato a Londra il 21 febbraio 1973, Sciarra ha ottenuto un primo incarico dall’aprile al dicembre 2010 con un compenso di 49.959. Il suo compito — si legge nella determinazione dirigenziale 293 del 31 marzo 2010 — era «lo studio delle nuove attività istituzionali di cui sarà investita l’Assemblea Capitolina (in virtù dell’attuazione della legge per Roma Capitale)». La Giunta Alemanno ha giustificato l’assegnazione diretta adducendo la complessità dell’incarico e le «non comuni competenze» di Sciarra nel settore oggetto della consulenza. In realtà, scorrendo il curriculum allegato alla determinazione, l’uomo «ha conseguito una laurea in scienze della comunicazione all’università Lumsa, un master in geopolitica e sicurezza globale all’università La Sapienza e un diploma di liceo linguistico con buona conoscenza di lingua inglese e spagnola».
Tante competenze gli hanno comunque assicurato il rinnovo della consulenza prima per tutto il 2011 e poi anche per il 2012. La determinazione dirigenziale RQ/14336/2012 dell’Ufficio dell’Assemblea capitolina rivela che l’ammontare pagato a Sciarra per il solo mese di dicembre 2012 è pari a 5.596,25 euro.
A diretto supporto delle funzioni attribuite al sindaco è invece Giancarlo Del Sole che dopo un incarico da 20mila euro nel 2010, ne ha firmato un altro da 40mila per l’anno seguente, ed è stato inserito nel Comitato tecnico del piano strategico per la mobilità sostenibile. L’elenco è lungo, i tariffari oltre le medie di mercato e i giustificativi alle voci di spesa disparati. Si parte dai membri delle commissioni di vigilanza dei parcheggi pubblici che dal dipartimento Mobilità e Trasporti ricevono in media 3mila euro ciascuno, agli incarichi di rilevazione dei numeri civici nell’ambito delle indagini statistiche sulla toponomastica del Comune di Roma. Incarichi che possono valere anche 7mila euro l’anno.
Cifre più rotonde girano nell’ufficio del “Commissario delegato all’emergenza traffico e mobilità”, carica che la presidenza del Consiglio assegna al sindaco di Roma. A supporto della struttura ci sono 7 consulenti che costano 283.680 euro. Tra loro il magistrato amministrativo Giuseppe Rotondo, che ha ricevuto in qualità di «esperto» 40mila euro nel 2010 e altrettanti nel 2011, e Andrea Benedetto, che ha invece ottenuto dall’amministrazione due contratti annuali da 50mila euro ciascuno.
Tanti soldi li ha spesi anche il Dipartimento Patrimonio che per una consulenza trimestrale «sull’evoluzione del sistema di gestione del database patrimoniale» (dicembre 2010 — marzo 2011) ha riconosciuto a Sandro Incurvati 61.800 euro. E poi ancora denari per periti, architetti, avvocati, ricercatori, geometri, insegnanti, linguisti, sedicenti esperti di comunicazione e strategie finanziarie. Tutti con competenze che nessuno dei 25mila dipendenti del Campidoglio possiede. Possibile?

il Fatto 18.1.13
Fascismo. La marcia su Roma nel sito Inps


Il Pd presenta un'interrogazione al ministro del Lavoro Elsa Fornero per chiedere come mai sul sito Inps compaia un articolo revisionista sul fascismo nel quale si definisce il ventennio mussoliniano un “regime blando basato sul consenso popolare in virtù degli enormi successi ottenuti in campo economico, sociale e internazionale”. Nel-l’articolo, pubblicato sull'area intranet dell’Inps, si parla anche delle leggi razziali come di “un episodio che in parte ha vanificato quanto di buono fatto in quegli anni”. Nell'interrogazione, firmata da Oriano Giovanelli, si chiede “perché nel sistema intranet dell’Inps sia stato pubblicato un articolo revisionista dal titolo '28 ottobre 1922 la marcia su Roma’ in cui il regime di Mussolini viene definito un regime comunque blando (...) basato sul consenso popolare in virtù degli enormi successi ottenuti in campo economico, sociale e internazionalè. E che le leggi razziali del 1938 vengono segnalate come un episodio tale da aver 'in parte vanificato e offuscato quanto di buono realizzato in quegli anni?”.

il Fatto 18.1.13
“Non uscite da sole” Il muro della violenza soffoca le donne
Stupri e omicidi sono il segno più evidente di un disagio diffuso in ogni ambiente sociale
di Chiara Daina


C’è la violenza psicologica, sottile e logorante. C’è quella sessuale. E le botte. Tre forme di aggressione da parte degli uomini nei confronti delle donne che si consumano tra le mura domestiche. Poi c’è lo stupro, subìto da uno sconosciuto, lungo una strada, in un parco, di sera o di giorno, non importa.
Quello di Bergamo, nella notte tra il 10 e 11 gennaio, ha interessato una ragazza di 24 anni. Doveva essere una serata tranquilla con le amiche, è finita in una tragedia che lascerà un segno indelebile. Alle due del mattino la ragazza esce dal bar Divina, nel “borgo d’oro”, è diretta verso la sua macchina, quando un uomo alla guida di un’utilitaria inizia a inseguirla. Le offre un passaggio. Lei rifiuta. Allora le blocca il passaggio. La sbatte sul cofano di un’auto vicina, le alza la gonna, la palpeggia e la violenta. L’autore, un kosovaro di 32 anni, il giorno dopo finisce agli arresti domiciliari.
“Non uscite da sole” è il commento del procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, come se a trattenere gli impulsi debbano essere le donne e non, piuttosto, gli uomini. Ma il loro principale nemico è in casa. Secondo gli ultimi dati Istat, 5 milioni di donne hanno subito violenze carnali e quasi 4 milioni violenze fisiche per mano di partner o ex-partner; mentre un milione sono state vittime di uno stupro.
ANCHE I FEMMINICIDI confermano il legame parentale: degli oltre duemila casi in Italia tra il 2000 e il 2011, 7 su 10 sono avvenuti in famiglia. Forse bastano questi dati a smentire le parole del pm. “Gli uomini violenti hanno una doppia personalità: fuori fanno gli amiconi, in casa perdono il controllo e aggrediscono moglie o fidanzata” spiega Oliana Maccarini, presidente dell'Associazione Aiuto donna presente con uno striscione alla fiaccolata di sabato a Bergamo contro la violenza alle donne, cui hanno partecipato 300 cittadini, compreso il sindaco accompagnato dalla moglie.
“Le considerano incapaci di gestire figli e soldi, le svalutano, le minacciano fino a esercitare un controllo feroce su ogni movimento, levandogli tutte le amicizie” continua Maccarini. La violenza non fa distinzioni di ceto sociale, ma più è elevato e più si ha vergogna ad ammetterla. Il 70 per cento dei casi riguarda donne con figli. “Di solito si rivolgono al nostro centro quando i bambini sono già grandi -afferma la presidente di Aiuto donne-, per anni resistono, senza chiedere aiuto”. Arrivano da sole, dopo aver trovato il sito online o grazie al passaparola. Si fidano perché gli viene garantito l’anonimato.
Nel centro operano 25 volontari, di cui tre psicologhe e cinque avvocati, che offrono consulenze gratuite. “Le aiutiamo a cercare un lavoro e una casa, a dargli nuove motivazioni: gli dimostriamo che non sono delle nullità ma che, al contrario, hanno molte risorse dentro di sè”. Precisando: “Se per anni hanno contenuto la violenza del partner, tutelando i figli, significa che sono piene di energie, che ora però vanno indirizzate verso nuovi obiettivi, primo fra tutti quello di imporsi dei limiti col marito, superati i quali lei deve allontanarsi”. Fondata nel 1999, con 50 utenti, l'associazione nell'ultimo anno ha contato oltre 200 ingressi. Aiuto donne fa parte della Rete nazionale contro la violenza D. I.re, che comprende 54 centri dislocati per la penisola, ed è un esempio di quel-l’Italia virtuosa che, nonostante la crisi e i tagli pazzi della politica, continua indefessa a lavorare per il bene della società, anche a gratis. A quelle che si illudono che il partner un giorno cambi, Maccarini non lascia dubbi: “L'uomo, nonostante le promesse, diventerà più manesco”. Per evitare fabbriche inutili di dolore, Aiuto donne fa attività di prevenzione nelle scuole (quando ci sono i fondi) spiegando che se il fidanzatino riempie la ragazzina di sms, squilli e attenzioni morbose, tanto da non darle pace, non è sintomo di amore ma di una smania di possesso nei loro confronti. Infine, Maccarini fa il punto: “Senza il sostegno delle istituzioni pubbliche, con il supporto eslusivo del volontariato, i passi in avanti saranno lenti e sempre troppo pochi”.

il Fatto 18.1.13
Adesso basta
“Non chiedete a noi la soluzione”
di Nadia Somma


Le donne sono l’anello debole di una società in cui è parzialmente ancora inculcata l’assurda mentalità della femmina come oggetto del possesso. Lo dico con tutto il rammarico, ma sarebbe bene che di sera non uscissero da sole”, così Francesco Dettori, procuratore capo del Tribunale di Bergamo, ha commentato i tre stupri avvenuti in pochi giorni tra Milano e Bergamo. Eppure anche le sue parole rivelano quel senso di possesso della donna come oggetto, qualcosa che deve essere tutelato e difeso. La tutela della donna, una soluzione antica per una violenza altrettanto antica. Antica quanto inutile. Dopo i tanti vademecum antistupro, i consigli su come vestirsi, atteggiarsi e camminare, i collari antiaggressione, ecco il consiglio di non uscire di casa o di farlo ma accompagnate (da un fidanzato, fratello, marito, padre?).
Chi ci protegge dai protettori?
Ma lo stupro, come la violenza sulle donne, non è un problema di comportamenti femminili e tantomeno di sicurezza. La brutale aggressione avvenuta a l’Aquila che ridusse in fin di vita una studentessa avvenne ad opera di un militare che era in missione proprio per la sicurezza della città. “Chi ci protegge dai protettori? ” domandava un antico slogan femminista. È sempre fuorviante e sbagliato ricercare le cause in comportamenti delle vittime: gli inutili consigli sull’abbigliamento e gli inviti a non essere “provocanti sessualmente” sono solo giustificati dai pregiudizi sullo stupro che colpevolizzano la donna o la responsabilizzano. La violenza sessuale non scaturisce dall’eros perché è legata alla volontà di denigrare, umiliare la vittima e annichilirla. È una metafora della morte ed è piuttosto affine a thanatos.
Cambiare subito l’obbiettivo degli appelli
Testimonianze di stupratori confermano che la scelta della vittima è fatta a prescindere dall’età, dall’aspetto fisico, o dal comportamento. Quanto a non uscire di casa che cosa si dovrebbe consigliare alle donne che con gli autori delle violenze convivono? Sappiamo che le violenze sulle donne da parte di estranei sono solo la più piccola percentuale delle violenze che colpiscono le donne perché nel 75% dei casi, secondo i dati dei centri antiviolenza, sono attuate dal partner. I messaggi o i consigli rivolti alle donne per evitare lo stupro servono solo ad alimentare e mantenere in vita un retaggio culturale che vorremmo lasciarci alle spalle e che continuano a esporre le donne alla stigmatizzazione sociale quando sono aggredite e non agevolano lo svelamento della violenza per permettere loro di elaborarla e chiedere aiuto. Il piano del problema resta di cultura e di civiltà. Ci piacerebbe una volta tanto che i messaggi sullo stupro fossero rivolti agli aggressori, e che non si possa più chiedere alle donne di scegliere tra autodeterminazione e incolumità fisica o sessuale, tra la loro libertà e la loro vita.

La Stampa 18.1.13
L’Europa, una questione ancora irrisolta
di Joschka Fischer


*Joschka Fischer, ministro degli Esteri tedesco e vicecancelliere dal 1998 al 2005, è stato un leader del Partito dei Verdi tedesco per quasi 20 anni.

La crisi dell’eurozona finirà nel 2013 o si trascinerà per tutto l’anno e forse peggiorerà nuovamente? Questa probabilmente rischia non solo di essere la questione cruciale per l’ulteriore sviluppo dell’Unione europea, ma anche una questione chiave che influenzerà le performance dell’economia mondiale.
L’Ue ha chiaramente bisogno di riforme interne ma fattori politici esterni sono fondamentali per le sue prospettive di quest’anno. Il primo è legato ai vincoli sul taglio del deficit che l’America si è autoimposto e che potrebbe gettare gli Stati Uniti in recessione, con ripercussioni enormi per l’economia mondiale, e quindi per l’Europa. In secondo luogo, una guerra calda nel Golfo Persico, in cui Israele e/o gli Stati Uniti si confrontassero con l’Iran sul suo programma nucleare, si tradurrebbe in un forte aumento dei prezzi energetici globali.
Entrambi gli scenari aggraverebbero notevolmente la crisi dell’Europa: l’impennata dei costi del petrolio o un’altra recessione degli Stati Uniti potrebbero danneggiare anche le forti economie del Nord Europa, per non parlare dei paesi già depressi nel Sud dell’Europa. Ma, anche in questo caso, le conseguenze umanitarie in particolare nel caso di un’altra guerra in Medio Oriente - molto probabilmente farebbero passare in secondo piano l’impatto di questi scenari sulla crisi europea.
In effetti la crisi in Europa che sembra essere solo economica o di natura finanziaria, in realtà è politica fino al midollo, perché ha rivelato che l’Europa manca di due cose: un quadro politico - ovvero più sovranità - per la sua unione monetaria, e la visione e la leadership per crearlo.
Dallo scoppio della crisi europea nel 2009, l’Ue e la zona euro hanno subito cambiamenti enormi, senza precedenti. Oggi, l’eurozona si sta avviando verso l’implementazione di un’unione bancaria, a cui probabilmente seguirà un’unione fiscale, che a sua volta porterà a una vera unione politica che centralizzerà la sovranità sulle decisioni di politica economica essenziali.
Ma questi sviluppi non sono parte di una strategia. Se non ci fosse stata la crisi, il cancelliere tedesco Angela Merkel e altri leader nazionali dell’Unione europea non sarebbero mai stati disposti a fare questi passi. E non è probabile che le cose cambino nel 2013.
Anche oggi, con i protagonisti chiave della zona euro in apparenza convinti che siamo fuori dal tunnel, la visione ristretta del nazionalismo sta vivendo una rinascita in Europa, e il desiderio di cambiamento sembra rallentare. In particolare, la Merkel vuole essere rieletta nel 2013, e sembra intenzionata a posporre ogni discorso sull’Europa. Purtroppo, poiché il voto è in programma per settembre, questo significa che tre quarti dell’anno andranno sprecati. E, poiché l’esito più probabile appare un’altra coalizione guidata dalla Merkel (almeno a oggi) piuttosto che un vero e proprio cambiamento di governo, la Germania postelettorale, in mancanza della pressione esercitata dalla crisi, rimarrà ancorata alla politica dei piccoli o minuscoli passi, lasciando l’Europa a se stessa.
Di conseguenza, gli sviluppi nel Sud Europa resteranno un fattore determinante nel corso degli eventi del 2013. La depressione continuerà, oscurando le prospettive di crescita economica in tutta l’Ue e nella zona euro. Il divario tra il Nord ricco e il Sud in crisi si allargherà, mettendo in evidenza i loro interessi contraddittori e aggravando la tendenza dell’Europa verso la separazione, in primo luogo tra il Nord e il Sud, ma anche tra la zona euro e il resto dell’Ue.
La Banca centrale europea servirà come centro di potere della zona ancora più di quanto non lo sia oggi, perché è l’unica istituzione dell’Unione monetaria che può effettivamente agire. Anche se la Bce non ha assolutamente nulla in comune con la vecchia Deutsche Bundesbank, il pubblico tedesco non lo ha recepito. Ma il fatto che il potere della Bce sia solo un sostituto tecnocratico delle mancanti istituzioni democratiche politiche dell’eurozona diventerà un problema sempre più grave nel 2013.
Questo è vero anche, più in generale, per la posizione dominante tedesca nell’Ue. Se dovesse continuare senza nuove norme istituzionali che mutualizzino il suo ruolo all’interno della zona euro, il 2013 sarà un anno di ulteriore disgregazione.
Sarà anche un anno del destino per la Francia, il cui governo è pienamente consapevole del fatto che, senza riforme dolorose, il paese potrebbe essere condannato, l’unica domanda che rimane è se sarà in grado di svilupparle. La risposta determinerà non solo il futuro politico del presidente François Hollande, ma anche il futuro della Ue, perché, senza un forte tandem franco-tedesco, la crisi dell’Europa non può essere superata.
Nel frattempo, le tendenze politiche negative dell’Europa sono rafforzate dall’incertezza della Gran Bretagna sulla permanenza nell’Ue, dalle prossime elezioni politiche in Italia e dall’aggressivo nazionalismo di molti Stati membri. Detto questo, la condizione dell’Europa è ovviamente ben lungi dall’essere stabilizzata, nonostante le recenti dichiarazioni di alcuni leader europei che suggeriscono il contrario.
L’Europa nel 2013 continuerà ad avere bisogno della pressione della crisi per trovare un modo per superarla una volta per tutte. A prescindere dei risultati elettorali in importanti Stati membri dell’Ue, gli europei continueranno a non potersi aspettare molto dai loro leader politici, perché le forze di opposizione in genere hanno poco di più da offrire rispetto ai punti di riferimento storici. Noi vorremmo augurare all’Europa un anno di successo, ma sarebbe sciocco scommetterci.

Corriere 18.1.13
Il sociologo Beck: «L'euronazionalismo tedesco è il nuovo pericolo»
di Paolo Lepri


BERLINO – Ulrich Beck non ha dubbi. Nell'Unione Europea il nazionalismo è il peggiore nemico degli Stati e un allontanamento della Gran Bretagna dal club al quale ha aderito nel 1973 sarebbe un «suicidio». Londra perderebbe la sua relazione speciale con gli Stati Uniti, «cosa di cui peraltro è stata già avvertita», e finirebbe per dover dare l'addio anche alla Scozia e al Galles. Ma c'è un altro tipo di nazionalismo, altrettanto pericoloso. È quello che si realizza imponendo in Europa la propria forza. Questo è il caso della Germania.
Mentre il governo Cameron «ripensa» la sua politica europea, l'analisi delle mosse britanniche si lega quindi alle riflessioni che il grande sociologo tedesco sta compiendo da tempo sulla crisi che ha destabilizzato il Vecchio Continente. Al centro della sua attenzione c'è soprattutto il rischio di una deriva «euronazionalista» che può essere il risultato della politica di Angela Merkel e che può diventare la prosecuzione di quel «nazionalismo del marco» su cui è stata costruita l'identità del Paese nel dopoguerra. Il predominio tedesco manca tra l'altro di una autorità formale, all'interno di un'Europa della quale vanno invece vanno ripensate le istituzioni. «Oggi — dice Beck — il numero di telefono per chiamare l'Europa è quello di Angela Merkel».
L'autore di «La società del rischio» teme il rinascere di quel concetto di «Europa tedesca» contro il quale aveva messo in guardia, sessanta anni, fa uno scrittore come Thomas Mann. Era stato anche Helmut Kohl, il cancelliere dell'Unità, a citare l'autore della Montagna incantata per rivendicare le ragioni di una «Germania europea». Nell'analisi di Beck lo scenario di una egemonia tedesca in Europa non viene perseguito direttamente, ma può essere la conseguenza del «potere speciale» che Berlino ha ottenuto nell'Ue. «Siamo — ha osservato — i grandi vincitori della crisi».
Qualche mese fa, in occasione della pubblicazione del suo libro «Das deutsche Europa», Beck aveva parlato di modello «Merkiavelli», individuando un'affinità tra la cancelliera tedesca e Niccolò Machiavelli nella concezione dell'esercizio del potere. Ma non si tratta soltanto di una «scaltra combinazione» tra la difesa in Germania di una politica di concertazione e il sostegno nel resto d'Europa a programmi «neoliberisti». C'è qualcosa di più. A giudizio di Beck, che è tornato ieri su questi temi in un'ampia intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, il «metodo» che la cancelliera ha in comune con il grande pensatore e letterato fiorentino è «la tendenza alla non azione, all'agire dopo, all'esitare intenzionalmente» per consolidare nel suo caso il potere della Germania rafforzando la dipendenza dei Paesi deboli dalla scelte tedesche.
In questo scenario, il nodo centrale della posizione tedesca in Europa è legato anche al rapporto con l'opinione pubblica e al grado di novità delle scelte che possono essere condivise. Beck dà atto alla cancelliera di essere riuscita a consolidare l'impegno della Germania nonostante la crescente disaffezione dell'elettorato. Ma è riuscita a farlo, a suo giudizio, grazie anche alla politica «merkiavellistica» e alla capacità di compiere passi avanti e indietro sui grandi temi dell'Unione. È un'analisi che lascia aperti molti interrogativi sul futuro, particolarmente in un anno dominato dalla scadenza delle elezioni di settembre. Il rischio è che la politica del rinvio, oltre che una strategia, possa diventare una necessità. In grado di bloccare completamente il cammino dell'integrazione.

La Stampa 18.1.13
Cina, il boom delle Università Ogni anno 8 milioni di laureati
Sempre più atenei stranieri, ma si scontrano con il controllo politico
di Ilaria Maria Sala


Un esercito di laureati, per preparare il Paese al futuro: questo l’obiettivo della Cina che, secondo un articolo del New York Times, sta investendo 250 miliardi di dollari Usa l’anno per potenziare le sue università e aumentare il numero di laureati pronti a entrare in un mercato del lavoro sempre più specializzato. Finora la Cina si era basata su un doppio approccio: istituti di studi superiori di qualità, valutati ogni anno con graduatorie che mettono sempre ai primi posti gli atenei delle principali città - quelli in cui, storicamente, sono stati versati i fondi pubblici più generosi. Accanto a questa élite, la grande massa dei lavoratori manuali, operai e operaie che, con un livello d’istruzione medio-basso, andavano nelle fabbriche del Sud e delle zone costiere.
Oggi il panorama educativo cinese sta cambiando in fretta e con esso anche le ambizioni tanto dei giovani che della leadership. Non solo le università di Stato vengono potenziate con ingenti finanziamenti, ma anche quelle private si espandono in modo costante - alcune fondate e gestite da aziende, che così formano il loro personale di domani - e aumentano gli atenei internazionali e i programmi di studio in cooperazione con università straniere. Negli ultimi dieci anni gli atenei sono raddoppiati (oggi sono 2.409) ma tanta cinese rapidità ha portato a una situazione caotica, dove istituti privi di vere qualifiche si presentano ora come «università», pur senza un corpo docente adeguato o le infrastrutture necessarie. La Cina sforna ogni anno 8 milioni di laureati, una cifra ancora bassa rispetto alla popolazione, ma che aumenta in modo costante ( il corso di laurea più popolare nel Paese è ingegneria).
C’è chi sceglie il prestigio di studiare all’estero, ma anche le università internazionali che aprono campus in Cina sono ormai numerose. Non è un percorso facile: Yale - che aveva provato a lanciare un programma con l’Università di Pechino - ha dovuto chiudere lo scorso anno il progetto, sfinita dalle difficoltà. La città di Changzhou, non lontana da Shanghai, invece, può vantare un Oxford International College, che non è affiliato all’università di Oxford, ma promette di preparare gli studenti a accedere all’università in Gran Bretagna.
Da lungo tempo la Johns Hopkins ha una sede a Nanchino, mentre l’università di Nottingham si trova a Ningbo, e la Columbia ha aperto a Pechino. Resta, forte e vistoso, il problema dell’indipendenza accademica e del controllo politico - ma questo è giudicato un prezzo modesto da pagare per partecipare al boom educativo della Cina.

Corriere 18.1.13
Non più soltanto fabbrica del mondo, la Cina prepara il boom dei laureati
di Edoardo Segantini


Prima è stata la fabbrica del mondo, e in parte ancora lo è, anche se grandi aziende americane stanno riportando la produzione in patria. Poi la Cina è diventata, oltre che gigantesco opificio dickensiano, anche laboratorio, centro di ricerca, sede di progettazione planetaria. E da «leader di costo» si è trasformata in un temibile «leader di qualità», che alla «forza-lavoro» tradizionale aggiunge una quota imponente di «cervello-lavoro» per diventare sempre più competitiva.
Si può leggere in questa luce l'inchiesta del New York Times secondo cui il prossimo boom made in China sarà quello dei laureati: e in una misura mai vista prima. I numeri sono impressionanti. Pechino investe 250 miliardi di dollari l'anno in capitale umano, con un piano nazionale di istruzione che va dalle campagne alle città. Nell'ultimo decennio il Paese ha visto raddoppiare le università, che oggi sono circa 2.500, mentre il numero dei laureati è quadruplicato, raggiungendo quota 8 milioni l'anno. Nel 1996, solo un diciassettenne su sei si diplomava, più o meno la stessa percentuale degli Stati Uniti nel 1919. Oggi si diplomano tre su cinque, come nell'America degli anni Cinquanta. Di questo passo, entro il decennio, la Cina conterà 195 milioni di laureati contro 120 milioni di laureati americani.
Il boom porrà in primo luogo una sfida al potere di Pechino, perché la diffusione della cultura porterà come un'onda la richiesta di più democrazia. Ma riguarda anche noi. Perché, è vero, quantità non significa qualità. Ma la considerazione non consola. Le università cinesi miglioreranno e la motivazione del potere e della gente è fortissima. Basta andare in una qualsiasi università americana o al Politecnico di Torino per vedere con i propri occhi l'impegno con cui si applicano gli studenti cinesi; e per capire che l'Occidente deve affrontare una sfida che si gioca sui luoghi di lavoro ma anche, e soprattutto, sui banchi di scuola. Certe posizioni ottocentesche, di chi in Europa e in Italia si oppone al rinnovamento della scuola, come se il confronto globale non esistesse, sono ormai quasi patetiche.

Corriere 18.1.13
L'Islam radicale e la nuova Africa sono un test per l'Europa e l'Italia
di Giulio Sapelli


Il 29 marzo del 2012 scrivevo su queste colonne, ne «Il golpe in Mali e la primavera dei Tuareg», che la battaglia per il controllo minerario dell'Africa Nera era appena iniziata. Bastava guardare la carta geografica. Il Mali confina con il Niger e il Niger è la porta d'accesso a ciò che rimane, diviso, martoriato, segnato da nuovi conflitti, del grande ex Congo Belga. La disgregazione della Libia, con lo sprofondamento del Fezzan e del Sinai nel caos per la caduta di Gheddafi e per la sostituzione dei militari di Mubarak con i Fratelli musulmani, ha fatto sì che l'entropia e il disordine si propagassero a macchia d'olio oltre i confini dei grandi deserti sahariani.
A me pare di leggere le sublimi pagine di Hegel sulla costruzione degli Stati europei, costruzione che al grande filosofo appariva, all'inizio dell'Ottocento, incerta e assai difficile. Figuriamoci l'Africa, direte. E direte anche: non vi è nulla di nuovo, dunque? Vi è moltissimo di nuovo, invece.
La gracile formazione dei nuovi Stati africani, come ci ha fatto benissimo capire il Corriere della Sera di ieri, è ora insidiata da un nemico temibilissimo senza Stato, ossia senza confini. Parlo del nuovo progetto imperiale dell'islamismo radicale, che tutto supera con tecnologie avanzatissime e una visione geostrategica sovranazionale ignota per l'Africa degli ultimi due secoli.
Chi combatte gli infedeli che hanno distrutto la Libia gheddafiana e che rischiano di dilagare se mai cadesse la Siria alawita, sono ora i sostenitori di un nuovo regime imperiale africano postcoloniale: sono gli islamisti radicali, salafiti e jihadisti di varie sette che, occupato che fosse il Mali, si espanderebbero più rapidamente sia a ovest, verso l'Algeria e il Niger, sia a sud verso il Burkina Faso e la Nigeria e poi, di lì, il Congo.
La posta in gioco è il controllo da parte di un nuovo — di fatto — califfato islamico dell'Africa centrale delle risorse energetiche del continente intero. Con la Cina che non ha ancora deciso con chi stare. L'attacco degli impianti condivisi dalla Bp (inglese), della Statoil (norvegese) e della Sonatrach (algerina) non sono affatto o non sono soltanto una rappresaglia contro la decisione algerina di permettere agli aerei francesi di sorvolare il territorio della Repubblica, ma una precisa azione simbolica di rivendicazione neoislamista delle risorse energetiche africane.
Con l'insorgere dell'Islam politico armato, infatti, tutto cambia. Gli europei se ne sono accorti, anche se giustamente in sordina. Anche la Germania, sempre così ostile all'impegno militare, in questo caso non ha esitato a schierarsi a fianco della Francia, che ha una lunghissima esperienza di guerra nel cuore africano.
Le risorse energetiche del colosso africano sono legittimamente viste come il cuore della crescita, anzi, io aggiungerei, della sopravvivenza futura.
Anche l'Italia deve capire che è finita un'epoca. Non si può, oggi, condurre la politica postcoloniale africana solo come si faceva un tempo, intrecciando legami con i gruppi dominanti africani. Oggi anche il potere delle organizzazioni, neo clanistiche e post tribali, è posto in discussione da un attore geostrategico e politico che sino a oggi in Africa non avevamo mai conosciuto: l'Islam radicale che non si limita al controllo territoriale (Somalia, Sudan), ma aspira a un dominio sovranazionale che sconvolge i fragilissimi rapporti interstatuali che in Africa in questi ultimi due decenni con grande fatica sono andati costruendosi.
Si tratta, dunque, di una battaglia che va combattuta con diverse strategie, senza poter più escludere la guerra, la lotta armata, come da tempo hanno compreso i francesi e gli anglosassoni sotto mentite spoglie (gli Stati civetta del Ruanda e del Burundi da cui partono gli attacchi al Congo di Kabila).
L'Italia, potenza mediterranea di medio raggio, non può non far sentire la sua voce anche militarmente, pena l'esclusione per sempre dall'Africa Nera e dalla nuova Africa tutta che va costruendosi, dal Mediterraneo al Polo Sud.
Occorre spendere e molto, con la radicale messa in discussione dei vincoli di bilancio europei. In potenza possediamo tutto ciò che serve: un'industria militare e paramilitare di eccellenza; degli studiosi giovani, ansiosi di imparare e di capire.
Ma dobbiamo rinnovare il nostro pensiero politico. Sarà opportuno (dopo la campagna elettorale, per carità, per non disturbare alcun manovratore) iniziare a farlo con coraggio e serenità, se non vogliamo compromettere per sempre il nostro futuro.

Corriere 18.1.13
Israele, finisce l'epopea dei kibbutz. Nessuno dei leader in Parlamento
Sancito il declino politico dello storico movimento cooperativo
di Davide Frattini


GERUSALEMME — «Il 28 ottobre 1910 noi compagni, dieci uomini e due donne, abbiamo fondato un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune». L'iscrizione sulla pietra e il patto che suggellava non sono riusciti a celebrare il centenario. Sei anni fa l'85 per cento dei 320 abitanti del kibbutz Degania, sulle rive del lago di Tiberiade, ha votato per abolire l'organizzazione collettiva: da compagni a soci, stipendi differenziati a seconda dei meriti, case a prezzi (quasi) di mercato.
Degania è stato il primo villaggio agricolo a essere fondato, non è stato l'ultimo a venire privatizzato. La crisi economica dei kibbutz si è trasformata in recessione degli ideali: nel prossimo Parlamento potrebbero non esserci rappresentanti del movimento che ha creato lo Stato d'Israele. «Nella prima Knesset sedevano 26 membri di kibbutz — ricorda con malinconia Yossi Sarid sul quotidiano Haaretz — tre volte la loro quota percentuale nella popolazione del tempo. Cinque erano diventati ministri. Tutto è finito nel 1977, quando Menachem Begin (leader del Likud, ndr) li descrisse come edonisti. Non si sono mai ripresi, malgrado il loro contributo incomparabile alla fondazione e alla difesa del Paese. Nessun deputato tornerà più a casa da Gerusalemme nel fine settimana per mungere le mucche o lavare i piatti nella mensa comunitaria».
Nelle 34 liste presentate per il voto di martedì prossimo i kibbutznik sono in posizioni troppo difficili, tutti fuori dal numero di seggi previsti dai sondaggi. Perfino i laburisti hanno scelto di conferire il posto garantito per il settore agricolo a Danny Atar, che non abita in un kibbutz. La leader Shelly Yachimovich vuole tagliare con il passato socialista, le interessano i voti dei giovani borghesi che vivono a Tel Aviv o scelgono la campagna solo perché è più sana per i figli. L'ex giornalista televisiva è consapevole che dai villaggi collettivi non arriva più il sostegno che una volta garantiva la vittoria del suo partito. Alle elezioni di tre anni fa, il 31,1 per cento dei membri dei kibbutz ha votato per Kadima, il 30,6 per il Labour, il 17,7 per Meretz e il 5,8 addirittura per il Likud.
Scegliere i conservatori non comporta più la scomunica dei «compagni». Evyatar Dotan ha organizzato le visite elettorali nelle cooperative per i candidati di Yisrael Beitenu, alleato con il Likud di Benyamin Netanyahu. C'è andato anche il leader ultranazionalista Avigdor Lieberman, che piace «perché ha sostenuto gli agricoltori nei momenti più difficili». Fino a due anni fa Dotan era un sostenitore di Meretz «ma ha smesso di rappresentare gli interessi dei lavoratori — dice ad Haaretz — e ha scelto di inseguire le mode dei radical chic di Tel Aviv. Ci siamo sentiti orfani, adesso c'è l'opportunità di trovare qualcuno che ci dia una mano». È quel che pensa Yaakov Bachar, capo dell'assocazione allevatori: «Quelli che abbiamo sempre pensato essere dalla nostra parte sono dei veri alleati? E gli avversari di una volta... Sono ancora i nemici da combattere?».
L'unico kibbutznik ad avere qualche possibilità di entrare in Parlamento sta ancora più a destra, con la squadra di Naftali Bennett: Zvulun Kalfa era tra i coloni evacuati dalla Striscia di Gaza nel 2005 ed è diventato il responsabile della comunità di Shomriya nel deserto del Negev. «Gli insediamenti agricoli vivono tutti gli stessi problemi, al di qua o al di là della Linea Verde» commenta.
«Un'era è finita — scrive Yossi Beilin, tra gli artefici degli accordi di Oslo, su Israel Hayom —. D'ora in avanti se il movimento vorrà contare e influenzare le decisioni politiche dovrà affidarsi alle pressioni dei lobbisti».

Corriere 18.1.13
Elie Wiesel
«Testimoniare è un dovere, dal dramma dell'Olocausto all'amore per moglie e figlio»
di Alessandra Farkas


«A cuore aperto» di Elie Wiesel esce per la casa editrice Bompiani il 23 gennaio (traduzione di Fabrizio Ascari, pp. 104, 11)
Il libro è stato scritto dopo un'operazione chirurgica avvenuta nel 2011 ed è uscito nello stesso anno da Flammarion
Il volume racconta l'esperienza di Wiesel di fronte all'attesa della «grande anestesia». Il pensiero corre immediato ai suoi famigliari, al figlio che è lì ed è l'unica àncora a cui si appiglia per farsi coraggio, e alla moglie. Poi pensa a suo padre e alla sorella che ha perso a Buchenwald
Elie Wiesel (1928) è uno scrittore di cultura ebraica, lingua francese, naturalizzato americano. Ha al suo attivo una sessantina di libri. Ha ricevuto la Medaglia d'Oro del Congresso degli Stati Uniti nel 1985 ed il Premio Nobel per la pace nel 1986. L'11 dicembre 1992 ha ricevuto la Medaglia presidenziale della libertà da George W. Bush
Wiesel vive negli Usa e insegna all'Eckerd College di St. Petersburg

NEW YORK — È il più intimo dei quasi 60 libri dell'84enne Elie Wiesel. Dedicato alla moglie Marion e al suo unico figlio Elisha, In A cuore aperto (che Bompiani porta in libreria dal prossimo 23 gennaio nella traduzione dal francese di Fabrizio Ascari), lo scrittore di origine ungherese racconta l'operazione che nel 2011 minacciò di ucciderlo.
Imprigionato nel proprio corpo in una sala operatoria d'ospedale, di fronte alla prospettiva di non risvegliarsi più dopo l'anestesia, il prolifico scrittore, docente universitario e attivista passa in rassegna tutta la sua vita. Dalla sua tragica esperienza ad Auschwitz e Buchenwald, dove perse padre, madre e la sorellina Tzipora alla sua pluridecennale dedizione a favore dei diritti umani e dalla sua passione per l'insegnamento ai dilemmi filosofici della Torah che da sempre lo arrovellano.
Tre giorni dopo l'operazione a cuor aperto, quando era certo che sarebbe sopravvissuto, il suo dottore lo mise in guardia: «Avrai un lungo periodo di stanchezza profonda e depressione acuta». «Proprio per tenere a bada quest'ultima presi in mano la penna», racconta Wiesel dall'albergo della Florida dove trascorre gli inverni insegnando all'Eckerd College di St. Petersburg. «Scrivere per me è come respirare. Ho scelto questo mestiere perché credo di avere il dovere morale di essere un testimone».
Per la seconda volta nella sua vita, è stato vicino alla morte ma l'ha fatta indietreggiare.
«In realtà rischiai di morire anche nel 1956. Ero appena giunto in America da Parigi per lavorare come corrispondente Onu del quotidiano israeliano "Yediot Ahronoth", quando un taxi m'investì a Time Square. Mi risvegliai in ospedale con un gesso che mi ricopriva quasi tutto il corpo, tranne la testa e le braccia».
Si è sentito più vicino alla morte ad Auschwitz o a Buchenwald?
«Ad Auschwitz ero con mio padre che mi proteggeva mentre a Buchenwald, dopo la sua morte, non ero più vivo. Ero stato improvvisamente abbandonato, reso orfano e quell'evento mi ha marchiato fino ai giorni nostri. Ho dovuto accettare il fatto di non aver potuto salvare la mia famiglia e di essere io l'unico sopravvissuto».
Lei scrive che la nascita di Elisha le ha cambiato la vita.
«Lo capii durante la cerimonia della sua circoncisione, cui invitammo alcuni hassidim di Brooklyn, il grande violinista Isaac Stern e il filosofo rabbino Abraham Joshua Heschel. La sua nascita mi fece capire che ero responsabile non solo della vita di mio figlio ma anche del mondo in cui avrebbe vissuto».
Prima d'allora aveva giurato di non aver figli e di non sposarsi mai.
«Ne avevo discusso con il mio amico Georges Levitte, uno degli intellettuali ebrei più eruditi di Francia, padre del futuro consigliere diplomatico di Jacques Chirac e poi di Nicolas Sarkozy. "Quando Dio punisce il mondo peccatore con la sofferenza, è meglio non sposarsi", gli dissi, citando un saggio talmudico».
Quando finalmente si è deciso, nel 1969, aveva già 41 anni.
«Incontrai Marion a Parigi, a casa di amici. Fu un colpo di fulmine. Era divorziata e con una figlia piccola. La trovai bella, colta e dotata di un'intelligenza superiore. Veniva da Vienna ed era reduce dal campo d'internamento di Gurs, nel sudovest della Francia, prima di scappare in Svizzera e poi a New York. Da anni cerco di convincerla a scrivere le sue memorie».
«A cuore aperto» è pieno di ricordi d'infanzia inediti. Come l'operazione all'appendicite avuta a 10 anni...
«Il Rabbi di Borshe ci aveva concesso il permesso di violare lo Shabbat perché io fossi operato nell'ospedale ebraico di Satmar. Dopo tanti decenni, è dell'assistente che mi ricordo: una bruna, giovane e bella, dal sorriso caloroso, di cui m'innamorai perdutamente».
La sua Geenna, l'inferno ebraico in cui regnano angeli crudeli e spietati, assomiglia molto all'inferno dantesco.
«Il Grande Dante si è ispirato al Talmud, dove si parla di Inferno e Paradiso ben prima della Divina Commedia. Alcuni filosofi greci antichi affermavano di avere trascorso la vita preparandosi a morire. Ma la tradizione ebraica è il contrario: santifica la vita, non la morte, esortando a vivere meglio e più moralmente. Il mio dilemma, la mattina quando mi alzo, è trovare qualcosa da fare che giustifichi la mia fede nel futuro».
Perché continua a scrivere in francese?
«Sono figlio di quella cultura e Baudelaire, Verlaine, Racine e Molière sono ancora oggi i miei punti di riferimento, anche se per la prima volta in vita mia non sono più apolide, ma ho un passaporto che porto sempre in tasca. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui diventai cittadino americano. Era il 1963, JFK era presidente e per sbarcare il lunario avevo due lavori full time».
«La Notte» più tardi diventò un bestseller e oggi è tra le letture d'obbligo nelle scuole.
«Un importante critico francese affermò che, dopo la Notte, non avrei mai più scritto. E invece è seguita Alba, sulla lotta clandestina degli ebrei contro l'esercito britannico in Palestina, Giorno, su un giovane giornalista che si fa investire da un taxi a New York, forse per suicidarsi, l'Oblio, sull'Alzheimer e la paura di dimenticare. E tantissime altre opere».
Si sente ancora vicino a quei libri?
«Sono molto orgoglioso de Gli ebrei del silenzio, che dette il via alla campagna di liberazione degli ebrei sovietici. Quando andai in Russia per la prima volta nel 1965 ricevetti una telefonata del ministro della cultura che promise di pubblicare il libro se mi fossi comportato bene.
I russi conoscevano solo il mio lavoro di denuncia sulla Germania nazista e mi dettero il visto, anno dopo anno, senza capire che incontravo clandestinamente dissidenti e refusenik. Non avrei mai creduto, allora, che un giorno milioni di ebrei russi avrebbero vissuto liberi».
Il testamento di un poeta ebreo assassinato è ancora oggi considerato uno dei più coraggiosi tentativi di smascherare il comunismo.
«Amo troppo la cultura ebraica per non denunciare la persecuzione operata ai suoi danni da Stalin. Mi si spezza il cuore davanti all'incredibile revival di antisemitismo in Ungheria, dove in segno di protesta, ho restituito la massima onorificenza della Repubblica».
Il mondo ha imparato la lezione di Auschwitz?
«Posi questa stessa domanda durante un intervento di fronte all'assemblea Onu, nel 2000. La risposta, oggi come allora, è no. Come si spiegherebbero altrimenti Cambogia, Bosnia, Ruanda, Kosovo, Sudan e Siria?»
Oggi Elie Wiesel è dunque rassegnato ad arrendersi di fronte alle forze del male?
«Coltiverò sempre i semi della speranza. Per questo le mie espressioni preferite sono "e tuttavia" e "io credo". Dopo aver rinnegato Dio ne La Notte, ne Il Giorno l'ho pregato. Non rinnegherò mai l'eredità dei padri dei padri. Non posso rompere la catena iniziata col grande Rashi-Rabbi Shlomo Yitzchaki, mio antenato, né tradire la fiducia che gli avi hanno riposto in me. Continuerò a protestare contro Dio, come il profeta Geremia nelle sue Lamentazioni, ma anche a invocarlo e ad amarlo».
Di fonte al male del mondo si chiede mai, dove è Dio?
«Si, ma subito dopo mi chiedo "dov'è l'uomo"? "E dov'è la società"? È facile attribuire la responsabilità del male a Dio. Auschwitz non è stata calata dal cielo, ma è stata concepita, costruita, abitata e usata dagli uomini. L'America, il Vaticano, l'Europa sapevano e non l'hanno fermata».
Dopo essere scampato più volte alla morte, lei oggi è costretto a vivere in incognita per paura di essere aggredito.
«A New York vivo sotto scorta e ovunque vado sono obbligato a usare un falso nome. Sono scampato a un tentato sequestro, nel 2007, e ricevo costanti minacce di morte da gente che vorrebbero ridurmi al silenzio ma non ci riuscirà mai».
A che punto è il suo libro a quattro mani che sta scrivendo con il presidente Obama?
«Prima devo finire My Masters and My Friends, un enorme volume che richiederà ancora un paio di anni di lavoro. Sono molto vicino a Obama che mi invitò ad accompagnarlo a Buchenwald nel 2009. Non essendo io nel programma, non preparai alcun discorso. Ma dopo essere salito sul podio il presidente si inchinò e mi sussurrò all'orecchio: "le ultime parole devono essere tue"».

l’Unità 18.1.13
Nati per imparare
I bambini sono predisposti all’apprendimento
Parla la psicoanalista Martine Menes: «Il desiderio di sapere è una delle facce del desiderio di vivere. Gli adulti devono imparare a non ostacolare questo moto spontaneo»
di Roberto Arduini


RARAMENTE IL PROBLEMA DEL FALLIMENTO SCOLASTICO È COLLOCATO ALLA SUA ORIGINE: CIÒ CHE NEL BAMBINO RENDE POSSIBILE L’APPRENDIMENTO, CIOÈ IL SUO DESIDERIO DI APPRENDERE. MA COME NASCE E SI SVILUPPA QUESTO DESIDERIO? Dai primi studi sulla psicoanalisi infantile si aprono oggi nuove esigenze, soprattutto quella di «aggiornare» la risposta che Freud ha dato a partire da ciò che l’esperienza clinica metteva in luce nel contesto culturale della sua epoca. Conviene, tuttavia, porre nuovamente la questione in un mondo in cui le trasformazioni dei legami e delle regole che li definiscono, sconvolgendo in particolare le condizioni di nascita ed educazione, vanno così veloci e sono così radicali che non ci si può non domandare se e come il sistema descritto da Freud sia sempre attuale per leggere una realtà in cambiamento. Nel momento in cui la pedagogia si ripiega su se stessa cercando di spiegare tutto con la mancanza delle conoscenze, quando non chiama in causa le deficienze organiche o genetiche, Martine Menes apre una strada di particolare interesse nel dibattito sull’assistenza ai bambini con disturbi nell’apprendimento. Psicoanalista francese, membro della Scuola di Psicoanalisi dei Forum del Campo lacaniano, insegna al Collegio Clinico di Roma e di Parigi. È in Italia per presentare, oggi a Roma alle ore 18 a San Luigi dei francesi, il suo ultimo libro, Il bambino e il sapere (Edizioni du Seuil, 2012, euro 17,50), che conclude il discorso iniziato in Un trauma benefico: «La nevrosi infantile» (Edizioni Praxis del Campo lacaniano, 2011, euro 20).
«I bambini apprendono a ritmi differenti», dice in esclusiva a l’Unità. «Ma queste differenze rivelano un aspetto essenziale del rapporto al sapere: non ci sono solo le facoltà cognitive. Il loro sviluppo dipende da ciò che entra in gioco nella costruzione della personalità. Sono predisposizioni all’apprendimento che possono essere facilitate oppure ostacolate dal modo in cui il bambino si costituisce in quanto soggetto di desiderio, accede alla parola e alle relazioni all’altro. Al cuore della personalità interferisce in silenzio questo straniero familiare che si chiama inconscio».
Il desiderio di sapere esiste, quindi, fin dall’inizio in ogni bambino?
«Sì, eccetto che in situazioni estreme e patologiche (in particolare in caso di autismo); ogni bambino sente spontaneamente il desiderio di apprendere, semplicemente perché ciò è vitale per lui. Sin dalla sua uscita da quel luogo chiuso e protetto in cui vive per nove mesi, il neonato è costretto, per sopravvivere, a imparare a cogliere e utilizzare tutte le risorse disponibili nel suo ambiente per la propria crescita. D’altronde, per la psicoanalisi, il desiderio di sapere non è che una faccia del desiderio di vivere, che si può chiamare anche libido o energia vitale. Guidato naturalmente verso gli oggetti del suo sapere, il neonato impiegherà più settimane per capire che c’è dell’altro anche sul suo cammino...».
Questo altro influisce sull’accesso al sapere?
«Ci possono essere problemi quando l’altro (e per questo s’intende l’adulto che ha in carica la sua educazione) è troppo assente o troppo presente. Nel primo caso, questo è stato osservato soprattutto nei bambini in orfanotrofio, poi spostati da una famiglia ospite all’altra; la reiterazione delle separazioni e l'instabilità costringono il bambino a ricostruire ogni volta il suo mondo interno ed esterno. È qui che l’apprendimento può fare sintomo: appaiono delle difficoltà a entrare nei codici stabili della scrittura, la lettura ecc. All’altra estremità, un altro troppo ingombrante costringe il bambino a resistere per esistere. Lo vediamo soprattutto nei bambini iperattivi. Agitati, si sono costruiti una corazza e sono troppo occupati a cercare l’aria per concentrarsi. Quando i loro genitori mi descrivono l'agenda pienissima dei loro figli, chiedo loro: A che ora si annoia? Poiché fantasia, vuoto e noia sono necessari al bambino per entrare in contatto con il proprio desiderio».
In questo lungo cammino di apprendimento, ci sono dei periodi più difficili e «a rischio»?
«Sì, il desiderio di sapere può essere notoriamente ostacolato proprio da ciò che il bambino scopre. Così intorno ai 5-7 anni, nel momento in cui comincia a capire il funzionamento dell’esistenza umana, il bambino si chiede da dove viene e cosa succederà quando non sarà più qua. Prende coscienza della finitezza dei suoi genitori che finora credeva onnipotenti. Questo genera molta angoscia in alcuni bambini, che possono puntualmente prendere la posizione di non voler sapere più niente. Appaiono spesso difficoltà ad addormentarsi, o anche fobie, che mobilitano la vita psichica. Un altro periodo caotico è, ovviamente, la pubertà, in cui riemergono tutte queste questioni, con in più l’enigma dell’incontro con l’altro sesso».
Nel libro scrive che per imparare bisogna «accettare di ricevere dagli altri». Può spiegarsi meglio? «Credo che ci troviamo in una cultura del senza limiti, in cui il bambino ignora che non è onnipotente, che non gli è accessibile tutto. Ora, per aprirsi alla conoscenza bisogna accettarsi imperfetti, mancanti. Certamente, bisogna anche sapere che ci si può riuscire, ma solamente per tappe e all’interno di un processo in cui occorrerà allo stesso tempo mettere del proprio e cooperare con gli altri».

il Fatto 18.1.13
Filosofi di tutto il mondo unitevi in rete e affilate “Il rasoio di Occam” di MicroMega
di Elisabetta Ambrosi


Filosofi di tutta Italia, scaldatevi: è ora di scendere in rete. Se siete curiosi di sapere fino a che punto la teoria del vecchio Marx funziona ancora contro il nostro capitalismo marcio, o magari volete capire se le tesi dell’apocalittico Heidegger possono realmente tornare utili dopo Fukushima, da oggi c’è una palestra filosofica in più. Invece che sulle gambe, però, come nelle scuole peripatetiche, le argomentazioni cammineranno online. Il nuovo gymnasium della mente si chiama “Il rasoio di Occam” ( http: //ilrasoiodioccam. microme  ga.net  ), una “costola” filosofica di MicroMega – sempre diretta da Paolo Flores d’Arcais – che si affiancherà ai contenuti del celebre Almanacco, senza ovviamente replicarli. L’idea è nata l’anno scorso, con l’obiettivo – spiega il coordinatore del sito Giorgio Cesarale – di creare uno spazio dove discutere questioni che hanno una rilevanza pubblica”. Alcuni esempi? Diritti umani, crisi economica, corruzione, fine vita, disuguaglianze e possesso di armi. Ma solo, rigorosamente, con un linguaggio filosofico. Insomma, niente “chiacchiere” (nel senso heideggeriano di banalizzazione dell’essere).
Anche per questo, l’aggiornamento, almeno per ora, sarà settimanale, proprio per dare modo a visitatori di leggere (e ben “digerire”) l’intervento, in modo da intervenire a loro volta. Sul sito graviteranno nomi di eccellenza, come Carlo Augusto Viano, Ernesto Screpanti (autori dei primi due articoli pubblicati: “Aporie della giustizia. Marx a lezione da Rawls” e “La razionalità sostanziale è finita in Cina”). E poi Gianni Vattimo, Franca D’Agostini, Giulio Giorello, Sossio Giametta, Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Alessandro Petrucciani. C’è voglia, però, anche di far crescere giovani talenti filosofici (trai vari nomi: Giacomo Fronzi o Ernesto De Cristofaro), anche attraverso una sezione dedicata agli “emergenti. Ma “senza parricidi né rottamazioni”, precisa il coordinatore.
ALTRO ASPETTO importante del sito: il suo carattere internazionale. Per questo alcuni articoli saranno scritti in inglese, mentre al tempo stesso importanti filosofi stranieri troveranno pronta ospitalità.
Ci sono riviste o siti a cui il rasoio di Occam si ispira? “In Italia non abbiamo un modello esplicito di riferimento: apprezziamo il Phenomenology Lab di Roberta de Monticelli, ma noi siamo aperti a tutte le scuole filosofiche, non solo a quella fenomenologica”, continua Cesarale. “Ci siamo invece ispirati alla rivista statunitense The Stone, legata al New York Times”. Portare la discussione filosofica sul web, fuori dall’Accademia, è un modo per dire che nelle università si discute sempre di meno? “Non c’è una polemica diretta, però di sicuro il nostro intento è quello di educare alla discussione un pubblico filosofico, che spesso invece non è abituato”.
Sul sito, gli studiosi o i semplici appassionati di filosofia troveranno anche una serie di strumenti: una biblioteca virtuale di classici online che raccoglierà i testi dei filosofi della nostra tradizione, sia in lingua italiana che originale.
DA AGOSTINO a Wittgenstein; una raccolta dei link più importanti di siti: blog multiautoriali, riviste, enciclopedie e biblioteche, centri di ricerca; infine – soprattutto per i più profani – i nomi e le biografie intellettuali dei maggiori filosofi italiani, da Giorgio Agamben a Salvatore Veca, passando per Massimo Cacciari, Umberto Eco, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Giulio Giorello, Sergio Givone, Diego Marconi, Antonio Negri, Pier Aldo Rovatti, Emanuele Severino, Salvatore Veca (e si spera presto anche qualche donna).
Una curiosità: il nome del sito – dal celebre argomento del filosofo Guglielmo di Occam, secondo cui, ci spiega Cesarale, “bisogna eliminare problemi non risolvibili attraverso prova empirica o argomentazione logica”, era quello originariamente scelto per MicroMega. La politica troverà qualche spazio? “No. Noi ci occupiamo di questioni che hanno rilevanza politica, ma con un taglio scientifico-filosofico. E soprattutto, senza alcuna ideologia di partenza”.

il Fatto 18.1.13
Il Paese dei soliti cattivi maestri
di Gian Carlo Caselli


Prospero Gallinari, prima di intraprendere la carriera di brigatista, “culminata” con la spietata esecuzione (forse) del “prigioniero” Al-do Moro, si era reso celebre anche per certe singolari sfide che lanciava, tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero, tutta la notte. La sua morte ha ora scatenato sul web una pattuglia di nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo.
Risulta così confermata la patologia che, secondo Barbara Spinelli, affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nel-l’amnesia e porta a una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica. Così prosegue – con effetti devastanti – l’appropriazione indebita dei valori della resistenza partigiana e dell’antifascismo da parte di chi non ha l’intelligenza o l’onestà intellettuale di condannare la violenza organizzata praticata contro una democrazia: un uso arbitrario che ha potentemente contribuito all’indebolimento di quei valori.
DI QUI POSSIAMO partire per una più ampia riflessione su quanto accade oggi nel nostro Paese. Gran parte della società italiana appare oggi impaurita, sconcertata, inquieta. Incerta di fronte al futuro, che teme indirizzato verso derive pericolose. Ed ecco che masse di giovani sempre più frequentemente invadono le strade e le piazze delle città italiane: per esprimere disagio, protestare contro la situazione disastrosa della scuola e del paese in generale, per comunicare forte preoccupazione e timore per il futuro. Tutte ragioni legittime e sacrosante per manifestare, esercitando l’inalienabile diritto costituzionale di riunirsi per far valere pubblicamente e liberamente le proprie idee.
Se proprio non sono la “meglio gioventù”, sono certamente ragazzi che vogliono vivere il presente con radicalità, dove radicalità significa respingere la tentazione di adagiarsi su logiche meramente difensive. Non consolarsi pensando che tanto non ne vale la pena: perché i giochi sono ormai irreversibilmente fatti e le cose – gira e rigira – finiscono sempre allo stesso modo. Sono giovani che pensano al futuro non come a un domani esterno, ma come a un qualcosa che è dentro di noi e ci corre incontro. Un qualcosa che è preparato proprio dalle scelte che facciamo oggi. Giovani quindi che non concedono spazi alla rassegnazione, all’indifferenza, al disimpegno e al riflusso, se non addirittura al trasformismo e all’opportunismo, mali che nel nostro paese sono purtroppo assai diffusi. Giovani che manifestando sono anche capaci di critiche argomentate e intelligenti. Tanto più intelligenti quanto più impermeabili agli idoli della seduzione e capaci di allontanare da sé ciò che appare appunto suggestivo ma di fatto distrae e può portare fuori strada. Rischiano di portare rovinosamente fuori strada invece le suggestioni che erutta il mondo parallelo e cupo in cui si nascondono personaggi ambigui che teorizzano e alimentano la violenza, sempre pronti a mescolarsi alle manifestazioni pacifiche per trasformarle in altro, con progressiva escalation verso forme di guerriglia urbana.
UN MONDO che troppo spesso può contare sull’alleanza della miope e vile sottovalutazione (o compiaciuta indifferenza) di forze politiche e culturali che balbettano qualche frasetta di circostanza, invece di condannare senza speciosi distinguo, ma con determinazione e chiarezza, le esplosioni di violenza che frequentemente si registrano a opera di frange organizzate.
In un paese come il nostro, che ha già vissuto la tragica esperienza di una violenza cominciata per le strade in coda a qualche corteo e poi via via cresciuta fino a pratiche terroristiche, non si può scherzare col fuoco. Se si vuole che il nastro non si riavvolga – col rischio di un nuovo, inesorabile imbarbarimento della vita civile e di una progressiva involuzione del sistema – occorre opporsi ai tentativi di bieca strumentalizzazione della gioventù (sia essa la “meglio” o meno) da parte di chi vorrebbe piegarla a logiche devastanti per la democrazia. Ancora una volta il silenzio e la contiguità su questi temi sono complici.