domenica 6 gennaio 2013

l’Unità 6.1.13
«L’Italia attraversa una crisi profonda. Per uscirne, ognuno di noi ha il dovere di impegnarsi»
Trattative ancora aperte sul listino, il segretario fa sapere: «L’ultima parola sarà mia»
Pd, c’è Marzano. Pronti i capilista
La filosofa dice sì alla candidatura offerta da Bersani. Martedì la Direzione varerà le liste
Il leader inizierà subito la campagna elettorale: niente convegno di Orvieto coi Liberal e Monti
di Simone Collini


Sabato sarà già impegnato nella campagna elettorale e non andrà al convegno organizzato a Orvieto dai liberal del Pd, che verrà aperto da Mario Monti. Pier Luigi Bersani osserva con attenzione le mosse del presidente del Consiglio ma ai suoi più stretti collaboratori spiega che non intende cambiare strategia, ora che il senatore a vita ha deciso di «salire in politica».
Il leader del Pd sa che parte da una situazione di vantaggio e che in queste sette settimane che mancano al voto sarebbe un errore farsi dettare l’agenda da altri. Per questo Bersani continuerà a insistere nelle iniziative che ha programmato in giro per l’Italia sui temi dell’«economia reale» e inserirà nel programma anche alcuni appuntamenti di taglio europeo, compreso quello a Torino del 9 febbraio con leader e capi di Stato e di governo della famiglia progressista.
L’unica novità, a questo punto, riguarda i tempi. Bersani vuole accelerare e immediatamente dopo l’approvazione delle liste elettorali del Pd, alla direzione convocata per dopodomani, farà partire la campagna elettorale vera e propria. L’obiettivo è subito far leva sul vantaggio acquisito sugli altri (leggi Berlusconi e Monti) che presumibilmente per martedì saranno ancora alle prese con la scelta dei nomi da schierare alla Camera e al Senato.
MONTI DAI LIBERAL PD
E ufficialmente sono proprio gli impegni precedentemente presi che non faranno andare Bersani a Orvieto, sabato, all’assemblea annuale di Libertà eguale, che questa volta sarà aperta da un intervento di Monti. L’invito al premier, giurano Enrico Morando, Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini e gli altri della componente liberal del Pd che hanno organizzato l’iniziativa, era stato inviato un anno fa, quando però Monti aveva dovuto dare forfait per il nuovo impegno da premier. Questa volta invece ci sarà, e sarà proprio lui ad aprire i lavori del convegno “Riformismo vs Populismo”, al quale Bersani è stato invitato dopo che Monti si è schierato.
LA FILOSOFA MARZANO CANDIDATA
Il leader del Pd già a partire da questa settimana sarà invece in piena campagna elettorale, insieme ai capilista e agli altri candidati democratici. Le telefonate con esponenti del mondo delle professioni e dell’associazionismo che Bersani vorrebbe inserire nel listino continuano, e dopo Pietro Grasso, Massimo Mucchetti, Rosaria Capacchione, Maria Chiara Carrozza, Luigi Taranto, ci saranno altre novità.
Ieri ha accettato di correre alle prossime politiche nelle liste Pd la docente all’Università René Descartes di Parigi Michela Marzano. Che spiega: «L’Italia attraversa un momento di crisi profonda. Per uscirne, ognuno di noi ha il dovere di impegnarsi. Se ho accettato di candidarmi, è perché credo nell’Italia, nelle sue risorse e nelle sue potenzialità intellettuali ed etiche. Non ho mai fatto politica in senso stretto. Sono una filosofa e un’intellettuale ed è in quanto filosofa e intellettuale che intendo contribuire al cambiamento proposto da Pier Luigi Bersani». Il leader del Pd incassa la disponibilità della docente di filosofia morale con molta soddisfazione: «Sono contento che il Pd possa candidare un talento italiano, orgoglio del Paese».
LA MAPPA DEI CAPILISTA
Benché sarà la riunione del comitato elettorale, domani, e poi la direzione del partito, martedì, a dare il via libera definitivo alle liste elettorali, il quadro delle candidature a questo punto è piuttosto chiaro. A guidare il Pd in Lombardia, Lazio e Sicilia sarà lo stesso Bersani. Schierati anche tutti gli altri big, da Enrico Letta capolista nel Veneto a Dario Franceschini in Emilia Romagna, da Rosy Bindi in Campania ad Anna Finocchiaro in Calabria. A Beppe Fioroni è stato proposto di guidare la lista in Sicilia ma preferirebbe correre come secondo nel Lazio, dove potrebbe essere capolista l’ex magistrato e parlamentare l’uscente Donatella Ferranti.
Tra le personalità del listino scelte da Bersani, Grasso guiderà le liste Pd per il Senato nel Lazio, Franco Cassano quelle per la Camera della Puglia, Massimo Mucchetti sarà in Lombardia, Carrozza in Toscana. E poi ci saranno Josefa Idem in Emilia Romagna, Franco Marini in Abruzzo insieme a Stefania Pezzopane, Guglielmo Epifani in Umbria insieme a Ermete Realacci, unico capolista degli esponenti del Pd che alle primarie per la premiership hanno sostenuto Matteo Renzi. Tra i trenta-quarantenni, ci sarà Andrea Orlando a guidare la lista in Liguria, Roberto Speranza in Basilicata, Maurizio Martina in Lombardia, Silvio Lai in Sardegna.
Non mancano comunque ancora diversi nodi da sciogliere. Il principale problema che andrà risolto prima della direzione di martedì sarà far accettare ai dirigenti regionali le quote di nomi del listino decise a Roma. I vertici della Sicilia sono i più recalcitranti ad accettare di inserire nelle liste in posizioni di eleggibilità certa, a scapito di chi ha corso alle primarie, i nomi decisi dal nazionale (chiedono di dimezzarli, passando da 11 a 6). Ma si sono fatti sentire anche i dirigenti della Sardegna, penalizzata dalla perdita di un deputato e un senatore in base alla nuova ripartizione nazionale, e anche del Lazio (che dovrebbe inserire nelle liste 13 nomi scelti dal nazionale). Bersani ha fatto sapere che sulle liste l’ultima parola sarà la sua.

La Stampa 6.1.13
E i democratici arruolano la filosofa Marzano
di R. Mas.


Si intitola «Volevo essere una farfalla» il libro forse più famoso di Michela Marzano, neocandidata nelle liste del Pd, e racconta una sua lontana tenzone con l’anoressia. Il libro, che ha commosso molti proprio per le fragilità e le insicurezze che racconta, fa risaltare ancora di più il carattere ora fortissimo di questa giovane donna romana di 42 anni, che ha scritto 18 libri e che da molti anni insegna filosofia morale nell’Università di Parigi V. Si è occupata soprattutto dell’etica legata al corpo, alla sessualità, alla differenza di genere e a quell’insieme di temi che vanno sotto l’etichetta di bioetica.

Corriere 6.1.13
Mucchetti: perché ho scelto di saltare il fosso


Caro direttore,
l'altro ieri, nell'inserire una mia dichiarazione nel servizio sulla giornata politica, il Tg1 mi ha presentato come vicedirettore del Corriere. Per evitare l'equivoco che la mia fosse ancora una voce del giornale, pochi istanti dopo ti ho mandato una mail nella quale chiarivo di aver già cessato di scrivere, una volta annunciata la mia candidatura come indipendente nelle liste del Pd. E tu hai titolato: «Mucchetti lascia il Corriere». Oggi, dunque, sono un ex vicedirettore ad personam. Ma quel testo, forse, era troppo conciso. Molti lettori, infatti, mi hanno scritto per chiedere maggiori lumi su questa scelta, del tutto personale, dopo 9 anni in via Solferino. Dalla grande maggioranza ho ricevuto parole di incoraggiamento, e li ringrazio: ne ho bisogno. Altri hanno manifestato riserve, ed è a loro che ti chiedo la cortesia di potermi rivolgere in libertà, com'è costume dalle nostre parti (mi perdonerai se uso ancora l'aggettivo nostre: è l'affetto).
Ma come, si chiedono alcuni lettori, lei, Mucchetti, si rende conto che, adesso, rinuncia alla sua indipendenza? Risposta: non rinuncio alla mia indipendenza di uomo che, cercando di ragionare con la propria testa, collaborerà, se eletto, con i nuovi colleghi e non avrà timore della solitudine, ove il suo contributo non venisse apprezzato. Credo di averne già dato prova in qualche frangente anche al Corriere, dove venni assunto da Stefano Folli, e gliene sono ancora grato, e dove ho infine trovato un ampio spazio con te, Ferruccio de Bortoli, e ti ringrazio di cuore. Certo, il Parlamento non è una redazione, ma l'area del centrosinistra è oggi quella a maggior tasso di democrazia reale.
Il centralismo dell'antico Pci non caratterizza più da anni il regime interno del Pd, crogiuolo di diverse culture politiche. Mi pare invece di ritrovarlo, spesso in forma caricaturale, in altri partiti dove il leader pensa per tutti.
Lei però, incalzano altri lettori, cessa di fare informazione e farà politica. Sarà fatalmente di parte. Non è un tradimento del Corriere? Risposta: è vero, cesso di dare notizie, analisi e opinioni sul più grande quotidiano d'informazione italiano. Ho saltato il fosso perché, maturando sul piano professionale, ho via via cercato di associare e discutere le possibili soluzioni alla pura denuncia di quel che non va. Passare dallo scrivere al fare potrebbe essere uno sviluppo positivo — almeno me lo auguro — e non un tradimento. Un esempio illustre. Luigi Einaudi, prima firma di economia del Corriere fino al Fascismo e poi corrispondente dell'Economist, assimilava il giornalismo al sacerdozio. E tuttavia fu senatore del Regno e poi governatore della Banca d'Italia, ministro liberale e presidente della Repubblica. Non per questo si sentì uno spretato. Negli anni 90, collaboratori illustri come Lucio Colletti, Piero Melograni e Saverio Vertone si candidarono per Forza Italia. Non ricordo scandali. E lo stesso Mario Monti ha costruito la sua reputazione, che l'ha portato prima a Bruxelles e poi a palazzo Chigi, in buona parte scrivendo articoli di fondo sul Corriere. I grandi giornali — al pari delle università, delle imprese, dei sindacati e dei partiti politici in senso più stretto — possono fornire persone alle istituzioni. Dovrebbe essere sentito come un onore e un dovere. La politica democratica è un insieme di parti che, nelle convergenze e nelle divergenze, servono l'interesse generale. Se fatta bene e onestamente, è la più alta delle attività umane.
Terza e ultima osservazione avanzata da (pochissimi) lettori: alla luce del suo ingresso in politica che cosa dobbiamo pensare dei suoi articoli? Si preparava forse un seggio parlamentare? Risposta: contro l'insinuazione di principio, alzo le mani; e se vuole, il sospettoso potrà sempre estendere i sospetti alle grandi firme che ho appena citato e a tante altre che, provenendo da questo e da altri giornali, hanno svolto un temporaneo servizio alla Camera, al Senato o al governo. Ma insinuazioni del genere provano troppo e dunque non provano nulla. Un caso per tutti: una simile logica dovrebbe indurci a dire che Silvio Berlusconi costruì Mediaset per fare il premier, mentre è vero l'inverso. L'ex premier scese in campo non solo per un suo progetto politico ma anche perché temeva che gli fossero tolte le tv. Quanto poi fosse fondato quel timore è un altro discorso, naturalmente...
Sono sicuro che il Corriere non mi farà sconti. E di questo lo ringrazio fin d'ora.
Un abbraccio
Massimo Mucchetti

Caro Massimo, grazie. Il tuo lavoro è stato straordinario e il tuo contributo ci mancherà. Con sincerità e franchezza devo però dirti che stai commettendo un grosso errore. Auguri (f. de b.)

il Fatto 6.1.13
L’intervista: Massimo Mucchetti
“La sinistra e l’alta finanza? Errori politici, nessun reato”
di Silvia Truzzi


Una decisione sotto l’albero, il commiato sul giornale in edicola oggi: Massimo Mucchetti, vicedirettore ad personam del Corriere, lascia via Solferino per entrare in politica.
Mucchetti, lei è uno dei più autorevoli commentatori economici. Cosa l’ha spinta a mollare tutto?
Pier Luigi Bersani mi ha proposto di candidarmi come indipendente. Dopo una riflessione abbastanza tormentata ho detto di sì. Ci sono doveri civici che, quando capitano, vanno onorati.
Indipendente, ma eletto nelle liste di un partito che partecipa a una coalizione: non la spaventa?
Nei limiti della serietà e della dignità, bisogna collaborare con i colleghi della coalizione e, se possibile, anche con gli altri. Accade anche nei giornali, dove esistono redazioni e direttori. L’indipendenza non è un’etichetta, ma una pratica di vita. Di per sé non è un vanto: si può essere indipendenti e sbagliare. Al Corriere della Sera il massimo dell’indipendenza è stato garantito dal senatore del regno Luigi Albertini: un grande direttore ed editore che ebbe il merito di costruire un quotidiano di successo, liberale in politica e liberista in economia e tuttavia così nazionalista da sostenere le offensive di Cadorna sull’Isonzo: centinaia di migliaia di morti inutili.
Nelle trasmissioni televisive di questi giorni non è stato tenero con Monti.
Con Monti studiai una grande inchiesta sui monopoli per il Corriere. Un maestro. Continuo a stimarlo. E però un centro-destra europeo non s’improvvisa invitando gli altri a silenziare, mentre si sorvola sui diritti civili o sugli effetti del “nuovo welfare” che piace alla finanza. Il Pd ha impiegato vent’anni a diventare quello che è. E non è finita. Dubito che a Monti bastino 20 giorni per costruire una cultura politica condivisa. La confusione delle liste alla Camera lo conferma e rende posticcia la lista unica al Senato. La fuga di Montezemolo e la ritirata di Passera la dicono lunga. L’appello alla società civile è ottimo, ma non è certo un’esclusiva di Monti. Da dove vengono Piero Grasso e Carlo Dell’Aringa? Monti promette una prevenzione rigorosa dei conflitti d’interesse nelle sue liste. Buon lavoro!
Anche Bersani, finalmente, ha detto che si occuperà del conflitto d’interessi.
Il centro-sinistra ne è stato abbastanza al riparo. Aver rimosso negli anni ’90 quello di Berlusconi fu un errore, anche se va ricordato che le maggioranze parlamentari in materia sono sempre state assai incerte. D’altra parte, certi conflitti attraversano la società. A cominciare dalla finanza .
In “Confiteor”, lei chiede conto a Geronzi della ristrutturazione del debito dei Ds.
Lui risponde e io completo. Sarebbe opportuno che le banche fossero obbligate e rendere pubblici i loro rapporti con partiti e fondazioni politiche.
Qualche imbarazzo per i rapporti degli allora diessini con i Capitani coraggiosi, i furbetti del quartierino?
Allora indagai per capire se fosse girato denaro tra gli scalatori di Tele-com - Colannino, Gnutti - e i Ds: non ho trovato nulla. Se altri, più bravi, hanno evidenze, leggerò con interesse. Il fumus, invece, mi piace poco. Altra cosa è il giudizio politico sulla privatizzazione di Telecom, sull’Opa e su quanto è seguito.
Torniamo a Monti: che pensa dei suo rapporti con le grandi lobby finanziarie internazionali?
Credo poco alle leggende sulle Trilateral e i Bilderberg. Cuccia non vi ha mai partecipato, eppure comandava sulla Fiat di Giovanni Agnelli, che vi partecipava.
A proposito di Fiat, lei è stato sempre con Marchionne.
Ho solo paragonato Fiat-Chrysler alla concorrenza, conti alla mano. Di qui i dubbi su Fabbrica Italia, purtroppo confermati dalla realtà.
Monti ha avuto parole di stima per Marchionne, a Melfi.
Spero siano parole di circostanza. Il premier visita gli operai al lavoro, e fa bene. Ma non può dimenticare i cassintegrati e abbandonare la Fiat al mero interesse degli Agnelli. Così come non può considerare pregiudizialmente nemica la Cgil, cioè milioni di cittadini. L’arte del governo è coinvolgere con iniziative che mettano ciascuno – gli Agnelli, la Cgil e tutti gli altri - di fronte alle proprie responsabilità creando nuove convenienze.
E del nuovo presenzialismo del Professore che dice?
Rischia il personalismo, e l’Italia non ha bisogno di un altro Uomo della Provvidenza.
Di lei si dice che ha ottimi rapporti con alcuni banchieri, tipo Bazoli. È vero?
Il mondo bazoliano mi rimprovera di ascoltare troppo Mediobanca, e Mediobanca di ascoltare Intesa Sanpaolo. Quelli della Fiom di stare a sentire la Cisl e viceversa. In realtà, da trent’anni ascolto tutti per potermi fare, lette le carte, un’idea mia.

Corriere 6.1.13
Pd, battaglia sui posti in lista Le mosse di Bersani mettono fuori gioco i «liberal»
Follini: fa come Fanfani contro i degasperiani
di M. Gu.


ROMA — La disfida di Piacenza è un po' il simbolo della lotta fratricida che si combatte nel Pd per un posto in lista. Il braccio destro di Renzi, Roberto Reggi, rischia di restare fuori dal Parlamento, mentre ci sarà il braccio destro di Bersani, Maurizio Migliavacca. Il quale non solo è piacentino anche lui (è nato a Fiorenzuola d'Arda), ma è l'uomo a cui il leader ha affidato la scrematura finale delle candidature.
Ieri notte il caso Reggi, inviso ai dirigenti toscani, era ancora irrisolto. Bersani ha trovato posto alla filosofa Michela Marzano e al sociologo Franco Cassano, ma a Reggi ancora no. E il giallo sul nome dell'ex sindaco di Piacenza conferma come la sinistra, che ha trionfato alle primarie, abbia messo in minoranza i riformisti.
Il malumore è forte in tutte le correnti: protestano gli ambientalisti per l'esclusione di Ferrante e Della Seta, il renziano Andrea Sarubbi attacca tutti (Renzi incluso), i consumatori alzano la voce contro l'idea di mettere in lista l'ad delle Ferrovie Mauro Moretti... Ma chi forse paga il prezzo più alto sono quei liberal che si sono battuti nel tentativo di spostare il baricentro del Pd verso le posizioni di Monti. C'è chi ha scelto di non candidarsi alle primarie, chi per orgoglio non ha chiesto la deroga a Bersani e chi sperava in un posto nel listino dei garantiti, che invece non ci sarà. E così quell'area filomontiana che si è divisa tra veltroniani e renziani rischia di assottigliarsi molto, privando il partito di «tecnici» di valore.
Pietro Ichino è passato con Monti, senza che i vertici del Pd si siano agitati più di tanto per convincerlo a restare. E altri montiani del Pd stanno dialogando con il centro, anche se al Nazareno si prevede «al massimo qualche fuga isolata». Enrico Morando ha deciso di restare e però spera che da qui a martedì, quando la Direzione ufficializzerà le liste, Bersani trovi il modo di ristabilire il pluralismo. «La nostra area è stata penalizzata, perché noi siamo nell'epicentro del conflitto — conferma Giorgio Tonini —. Ma finirà con un happy end, perché Bersani e Monti non potranno non collaborare per il governo del Paese». La tesi di Tonini è che, nello schema del segretario, i riformisti in lista «non servano più di tanto» perché poi il Pd dovrà allearsi con il centro. «E questo schema ha il suo prezzo — conclude — quello della non autosufficienza che Monti vuole far pagare al Pd».
Bersani ha vissuto con insofferenza il movimentismo dei fautori dell'agenda Monti e il 12 gennaio, pur stimando Morando per le sue competenze economiche, potrebbe disertare il convegno di Libertà Eguale a Orvieto, che sarà aperto da una relazione di Monti. Se i riformisti pensano che il segretario abbia esagerato nel «bersanizzare» le liste, Matteo Orfini non è d'accordo: «Se parliamo di politica e non di posti, le idee di chi ha firmato le lettere pro agenda Monti hanno piena cittadinanza nel Pd. Molti di quei temi sono stati raccolti da Renzi, una delle personalità più valorizzate...».
Eppure Marco Follini pensa che Bersani abbia fatto come Fanfani nella Dc del '54: «Scatenò i suoi armigeri e sbaragliò la vecchia guardia degasperiana. Bersani ha guadagnato molto in forza, ma ha perso qualcosa in termini di ampiezza di consenso». Per Walter Verini invece «la cartina di tornasole» non è tanto la presenza negli organismi, quanto il programma di governo: «Il Pd va misurato per la sua agenda riformista». Lei ci crede, alla scissione dei liberal? «Non esiste, le battaglie si fanno dentro i partiti». Stefano Ceccanti ha fatto la sua battaglia conquistando la vetta delle statistiche sul rendimento dei senatori, eppure al momento il costituzionalista è fuori: «Nel comporre le liste andavano rispecchiati gli equilibri emersi con le primarie per la premiership». Davvero vuole lasciare il Pd? «Sono in silenzio stampa...».

Repubblica 6.1.13
Pd, ancora scontri per le liste nelle regioni.
I 'montiani': "Tenuti fuori deliberatamente"
Si moltiplicano gli appelli per non essere estromessi dalla quota nazionale. Trattative agli sgoccioli: martedì le candidature saranno votate dalla direzione

di Giovanna Casadio
qui

Repubblica 6.1.13
Stop dei consumatori all’ad Fs Moretti
"Non lo candidate o diremo di non votarvi"


Milano - Le associazioni dei consumatori italiani all´attacco contro la possibile candidatura dell´amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, nelle file del Pd. «La sola idea di candidare un soggetto che per anni ha dimostrato totale spregio dei diritti degli utenti ci disgusta e ci indigna», affermano le associazioni Codici, Codacons e Movimento difesa del cittadino. «Abbiamo inviato un appello al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, chiedendo di fare marcia indietro su tale candidatura, informandolo che, in caso contrario, daremo indicazione ai consumatori italiani di non votare il Pd alle prossime elezioni».

Corriere 6.1.13
Bersani avanti, il Pdl cresce
Monti e i centristi intorno al 15%. Grillo perde consensi
Il Pd supera il 30%, il Pdl è al 19 Monti e i tre leader per ora al 15
Il calo di Grillo. Diminuiscono gli indecisi. E Sel corre il «rischio Ingroia»
di Renato Mannheimer


Il Pd supera il 30 per cento, secondo i sondaggi. Il centrosinistra sfiora il 40%. Cresce il Pdl che, con la Lega e ad altri alleati, si attesterebbe tra il 26 e il 28%. Monti e i centristi intorno al 15%. Il Movimento 5 Stelle di Grillo cede qualche posizione.

L' elemento forse più rilevante che sta caratterizzando questa fase è l'accresciuto interesse degli italiani verso la competizione elettorale e la conseguente formazione di orientamenti più precisi anche tra chi, fino a qualche tempo fa, si dichiarava indeciso o tentato dall'astensione. È l'effetto inevitabile del dipanarsi della campagna, che porta a un maggiore rilievo delle tematiche politiche su tutti i media (e anche nelle conversazioni e confronti tra i singoli) e, di conseguenza, a una maggiore concentrazione (e, talvolta, mobilitazione) su queste ultime da parte dei cittadini. Non a caso, proprio nelle ultime settimane, è diminuita la quota di chi non sa o non vuole indicare la propria intenzione di voto nei sondaggi: era attorno al 40-50% all'inizio di dicembre ed è oggi inferiore al 40%. Qual è, dunque, all'avvio della campagna elettorale, la distribuzione dei consensi? È opportuno esaminarla separatamente in relazione alle singole aree politiche.
Il centrodestra
Il Pdl ha visto di recente un accrescimento di consensi, dovuto anche alla sempre più frequente presenza di Berlusconi sugli schermi televisivi, passando dal 13-16% rilevato all'inizio di dicembre al 17-19% di oggi. La differenza proviene prevalentemente da ex elettori del centrodestra delusi, che si erano rifugiati nell'indecisione e nella tentazione di astenersi. Naturalmente, è difficile prevedere se e in che misura questo trend si confermerà nelle prossime settimane, come invece sostiene il Cavaliere, che ha indicato un obiettivo addirittura del 40%. C'è da tenere conto anche che il Pdl ha subito una serie di defezioni di alcuni dei suoi esponenti, la più rilevante delle quali (Fratelli d'Italia con La Russa, Meloni e Crosetto) ha raccolto sin qui tra l'1 e il 2% circa, ma che è comunque coalizzata col Pdl in occasione delle elezioni. Sempre nell'area del centrodestra c'è poi da considerare La Destra di Storace — anch'essa probabile componente della coalizione — che si situa attorno al 2%. Nel complesso, dunque, si tratta comunque di più del 20% dei consensi. Ai quali, nelle intenzioni e nelle speranze del Cavaliere, vanno aggiunti quelli raccolti dalla Lega, situata attualmente attorno al 6%. L'alleanza del Pdl con il partito di Maroni, di cui si discute ancora in queste ore, permetterebbe all'insieme delle forze di centrodestra (anche se l'accordo non porterebbe necessariamente alla sommatoria dei voti, data l'inevitabile defezione di una quota di scontenti dell'uno o dell'altro partito) di conquistare un risultato importante alla Camera, ma decisivo, specie in alcune regioni, per la conquista dei seggi senatoriali. Come si sa, infatti, i premi di maggioranza per il Senato vengono attribuiti su base regionale: di qui l'importanza di prevalere in alcune regioni, quali il Lazio, la Sicilia, la Lombardia. Il numero dei seggi in palio rende quest'ultima particolarmente rilevante: proprio qui l'alleanza del Pdl con la Lega potrebbe voler dire ottenere o meno il premio di maggioranza (ma la concomitanza con le elezioni regionali sembra rendere meno probabile questa prospettiva, dato il seguito del candidato di centrosinistra e il possibile «effetto traino») e mutare così, forse radicalmente, l'assetto in Senato e, di conseguenza, la stabilità del governo che si formerà. Col paradosso che, come ha sottolineato Ceccanti (che lo ha definito «una curiosa eterogenesi dei fini»), se Berlusconi conquistasse la Lombardia, favorirebbe di fatto un ruolo determinante per l'avversario Monti nella formazione di una maggioranza governativa in Senato.
Il centro
La grande novità è qui l'ingresso della lista Monti, che si allea con l'Udc, con Italia Futura di Montezemolo e con Fli. Nell'insieme, queste componenti ottengono circa il 14-15%. In particolare, l'Udc raccoglie circa il 4%, Fli è di poco superiore all'1%, mentre la lista direttamente intestata al presidente del Consiglio (che oggi comprende anche Italia Futura di Montezemolo) conquista circa il 9%. Quest'ultima sta raccogliendo voti specialmente nell'ambito del centrosinistra (tra gli elettori in qualche modo «delusi» dal Pd, accusato di essere troppo proiettato a sinistra e rappresentato dall'apparato tradizionale) e, in misura minore, dagli indecisi, mentre sembrano meno i consensi provenienti dal centrodestra. Si tratta però di dati assolutamente provvisori e soggetti a mutamenti, forse anche sensibili, nel prossimo futuro. Molto dipende dalla capacità persuasiva (o, viceversa, di dissuasione) che sarà esercitata da Monti in occasione delle sue presenze televisive e sul web. In altre parole, il Professore può crescere, anche significativamente, come può recedere dal consenso conquistato sin qui. Secondo la gran parte degli analisti pare improbabile, allo stato attuale, che l'insieme delle liste collegate a Monti possa superare alla fine il 20%. Ma, nelle elezioni, come nella vita, non si sa mai.
Il centrosinistra
Il Pd resta il maggiore partito italiano, stimato oggi attorno al 32-33%. Il dato è sostanzialmente stabile, anche se in lieve erosione rispetto alla crescita rilevata subito dopo le primarie. Vi sono, in questo momento, forti polemiche interne conseguenti all'esclusione dalle liste della gran parte degli esponenti «montiani» del Pd (e della conseguente accentuazione del peso della componente di «sinistra»), senza che queste abbiano avuto tuttavia sin qui effetti sul seguito elettorale del partito. Sel, che è alleata con il Pd, ottiene circa il 4% (potrebbe essere la destinataria di una erosione ad opera della nuova lista di Ingroia), mentre il Psi è stimabile attorno all'1%. Considerando anche l'apporto della nuova lista di Tabacci e Donadi (Centro democratico), dunque, la coalizione di centrosinistra si avvicina — secondo alcuni raggiunge — a circa il 40% dell'elettorato, ciò che le consente di guardare con fiducia alla vittoria delle prossime elezioni. Ma, come si è detto, ciò riguarda prevalentemente la Camera dei deputati. L'esito del Senato — e la possibilità o meno di governare da soli — dipenderà dalla distribuzione dei voti nelle singole regioni.
Il Movimento 5 Stelle
La forza politica capeggiata da Grillo resta assai popolare, con circa il 13-14% di consensi. Il dato è inferiore a quanto rilevato qualche mese fa (17-19%) sia perché una parte di cittadini, con l'avvicinarsi delle elezioni, sembra non accontentarsi più della mera protesta e si dirige verso partiti ritenuti più propositivi, sia, forse, per la presenza di «Rivoluzione civile» di Ingroia, che raccoglie il 2-3% (ma, secondo alcuni, addirittura il 5%, comprendendo però anche i consensi di Di Pietro). Resta il fatto che il M5S costituirà, con questo seguito, una componente di grande rilievo nel prossimo Parlamento.
Lo sprint decisivo
Sin qui il quadro attuale. È probabile, però, che, con il progredire della campagna elettorale, sempre più cittadini giungano a consolidare la propria opzione e altri possano mutare il proprio orientamento. In occasione delle ultime politiche più di un votante su cinque ha dichiarato di avere deciso definitivamente la propria opzione negli ultimi dieci giorni precedenti la data della consultazione. Soprattutto sulla base delle impressioni ricavate assistendo ai dibattiti televisivi. Il risultato definitivo delle consultazioni di febbraio è dunque lungi dall'essere determinato.

Repubblica 6.1.13
"Berlusconi fa il kamikaze Bersani è troppo attendista ma Monti non decolla"
Gli esperti giudicano le prime mosse elettorali
Suscita curiosità la strategia del Professore: "Sta usando soprattutto il suo brand"
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - C´è l´invasione radio-televisiva di Silvio Berlusconi, vecchio ma spesso vincente refrain delle sue campagne elettorali. La scoperta dei social network e del piccolo schermo da parte di Monti, trasformatosi da premier tecnico in politico d´attacco. La campagna dei cartelloni pubblicitari 6 per 3 di Bersani, fermo e ben attento a non rincorrere gli avversari.
Mai come in questo 2013, alle elezioni si arriverà di corsa e col fiato corto. Le strategie comunicative si stanno definendo solo adesso, ci sarà poco tempo per correggere gli errori. «Siamo di fronte a una campagna elettorale di grande svolta», dice Edoardo Novelli, professore di comunicazione politica a Roma tre. «Si è scomposto un quadro durato 20 anni, e - a 40 giorni dal voto - la campagna elettorale è ancora soggetta a grandi e rapide evoluzioni». Questo complica l´analisi, ma non impedisce di tracciare un quadro. Cominciando da chi, in questo momento, «amministra un vantaggio numerico, oltre che di offerta e proposta politica». Pier Luigi Bersani, spiega Novelli, «sta facendo operazioni non tanto di immagine, ma politiche, vincenti: il recupero di Renzi, le primarie per i candidati, l´aver detto "Il tempo che mi spetta in televisione datelo alla Siria"». Per Alessandro Amadori, di Coesis, «è una linea attendista. Il segretario pd amministra una vittoria quasi certa, e non deve commettere errori. Ma è forse troppo arroccato. Rischia di sembrare l´imperatore cinese chiuso nella città perduta. Con il pericolo di una marginalizzazione comunicativa. Anche il pranzo con Renzi è sembrato uno snack all´autogrill, non c´era nulla di narrativo». Annamaria Testa, pubblicitaria ed esperta di comunicazione, è molto severa sui 6x3: «Sono ovunque, ma la pubblicità non è un dato irrilevante: se fatta male, danneggia. Quel fondo grigio, i colori desaturati, il volto spento, la bocca tirata che non sorride, l´aria ingobbita: non è mica così vecchio, Bersani!». E sì che le mosse politiche sono state vincenti: «Ottime le primarie, i confronti televisivi, il giro per l´Europa, perfino la pompa di benzina del padre». Secondo il sondaggista Fabrizio Masia, di Emg, «Un calo rispetto alle primarie in questo momento può essere fisiologico, ma tra un po´ servirà più presenza. La gente dimentica in fretta». D´accordo Antonio Noto, Ipr Marketing: «La pre-campagna elettorale è importante perché dopo entrerà in vigore la par condicio, gli spazi diminuiranno».
Molto interessante per gli osservatori la campagna di Mario Monti: «Passa da una fase di emergenza in cui non aveva il problema del consenso a una in cui gli serve, eccome». Da qui le asprezze nei confronti tanto del centrosinistra (pesanti contro Fassina e Vendola) quanto del Pdl. «Per ora fa un po´ il finto tonto, si sottrae a domande cruciali, usa espressioni come "Chi se ne intende mi ha spiegato", "non sono esperto", ma non può durare. Parole come "silenziare" assomigliano agli scivoloni comunicativi del suo governo (al choosy della Fornero, al posto fisso definito "monotono"). Non si sa quanto casuali». Comunque, sta colpendo dove deve colpire: nel centrodestra chi non vuole Berlusconi andrà da Monti naturalmente, nel centrosinistra c´è invece un´area che può essere indecisa tra lui e Bersani». Più netto Amadori: «Il professore si è completamente berlusconizzato, fa Monti contro tutti, in una sorta di nemesi». Serve? «Sta aumentando la sua visibilità, ma non regge più la sua percezione come uomo al di sopra delle parti. Da lui ci si aspettava una lista di premi nobel, per ora in prima fila si vedono solo Fini e Casini». «Prevale lo straniamento. Non sta sfondando», conferma Masia. Annamaria Testa boccia il simbolo: «È flebile, riflette la vaghezza della sua proposta politica. Anche il nome scelta civica non si capisce cosa voglia dire». Per Noto invece «l´ex premier rappresenta la vera novità di comunicazione di questa campagna. Punta su ciò che è inatteso e cerca di proiettare tutto sul futuro parlando poco dell´attività di governo. È abile nell´usare i mezzi di comunicazione. Questo può pagare». Poi c´è Berlusconi, partito - ancora una volta - a razzo. È ovunque, in tutte le radio e le tv, anche la più sperduta. «Non ha niente da perdere - dice Amadori - ha già bruciato tutto in termini di consenso. La sua è la strategia della tigre, del dragone. Un guerriero solitario che in Giappone chiamano Ronin, e che a costo di apparire comico si gioca il tutto per tutto. Quasi un kamikaze. Così facendo però ha già tolto a Bersani il ruolo di "opposant" di Monti, lo ha ridotto a comprimario». Per Testa «in un Paese che non legge la televisione resta un grande medium popolare, ed è certo quello più congeniale a Berlusconi e al suo elettorato». Che, secondo Masia, «è fatto di casalinghe, pensionati e piccoli imprenditori: con i primi funziona il richiamo al quotidiano, al caro vita, con i secondi quello anti-tasse. Questo si legge nei sondaggi». Ma, dice Noto, «la comunicazione colpisce quando rappresenta una novità e in questo momento la sua appare molto prevedibile. Se non cambia, difficilmente riuscirà a sfondare».

l’Unità 6.1.13
Il premier e il martello della «società civile»
di Michele Ciliberto


È interessante assistere alle esibizioni televisive del presidente del Consiglio, vedere le parole che usa, i concetti su cui insiste. Quale è il centro di questo messaggio? È il primato della cosiddetta «società civile» nei confronti della «politica».
Quella stessa politica rispetto alla quale il presidente del Consiglio non si stanca di ribadire la sua lontananza, anzi la sua estraneità. Da qui discende una serie di corollari che egli scolpisce con notevole vigore retorico: 1) come la maggior parte degli italiani ai quali si rivolge con spirito professorale, anche lui sa quanto la politica italiana sia diventata una palude da cui bisognerebbe tenersi lontani; 2) ha deciso di prendere posizione, perché ci sono momenti nei quali anche i più riluttanti devono sporcarsi le mani, mettendo in gioco la propria persona e il proprio ruolo; 3) intende farlo senza identificarsi con una parte, guardando con occhio di ghiaccio all’«interesse generale» del Paese e buttando a mare antiche categorie come quella di «destra» o di «sinistra» che non rispecchiano più lo stato delle cose; 4) vuole essere riformatore, cioè moderno, ma in forme nuove, avviando una nuova epoca della nostra storia; 5) per farlo si propone di «ritornare ai principi» (direbbe Machiavelli), cioè ridare la parola alla «società civile» di cui tesse l’elogio con lo stesso trasporto di un economista del Settecento.
Con questo torniamo all’architrave del suo discorso: la «società civile», intesa come il luogo delle energie primigenie del Paese, calpestate dalla politica e dallo Stato («Paese»: lemma che, se non mi inganno, Monti preferisce a quello di «Nazione»). E tutto è presentato con stile, parole e gesti adeguati e convergenti nel mostrare che nell’arena politica Monti è stato costretto a scendere per senso di responsabilità, non per ambizione personale o altri motivi poco nobili. Se però lo stile è nuovo e rispettabile, non sono nuovi né il richiamo alla «società civile», né l’ideologia conservatrice in cui esso è situato. Anzi. Quando gli storici futuri studieranno il lessico politico della Repubblica, potranno constatare che l’espressione «società civile» è stata, nei nostri anni, una delle più frequentate, in contesti diversi ma con due caratteri comuni: è usata in genere da quelli che si sono presentati come iniziatori di un nuovo ciclo della storia nazionale; questo nuovo inizio si è espresso costantemente in una critica, talvolta in un rifiuto delle forme ordinarie della politica che a sua volta si è risolto generalmente in una discesa (o in una «salita»: bel colpo retorico anche questo) alla politica di tipo strettamente conservatore imperniato sui valori sopra citati (interesse generale, fine della destra e della sinistra, rifiuto del moderatismo ed elogio del radicalismo «centrista»: un ircocervo degno dei fratelli Grimm....).
Da questo punto di vista non c’è rottura fra Monti e il berlusconismo. Sul piano ideologico sono utilizzati gli stessi strumenti, con lo stesso obiettivo: mantenere al potere, con gli ammodernamenti indispensabili, le classi dirigenti tradizionali, senza toccare, non dico i rapporti proprietari, ma la condizione del lavoro e la «questione sociale», di cui non c’è mai alcuna traccia nelle allocuzioni di Monti. E impedire, soprattutto, che le forze del cambio arrivino al governo del Paese.
Quelli che mutano sono però i contenuti specifici di questa ideologia: per Berlusconi il richiamo alla società civile era un mezzo per risvegliare gli spiriti animali e gli istinti individualistici, spezzando ogni vincolo di carattere comunitario; nel caso di Monti sono presenti motivi del societarismo cattolico, resi evidenti dalla presenza nella sua lista di personalità come Riccardi e dall’aperto consenso dell’Osservatore romano. Ma l’obiettivo è chiaro, ed è stato ben esplicitato da Casini, dallo stesso Riccardi e anche dal lessico traditore, ma rivelatore del presidente del Consiglio quando ha invitato Bersani a «silenziare» Fassina e la Cgil. Del resto, per questo Monti è sceso in politica: per dare a questa operazione un respiro europeo e mettere in campo una leadership come la sua in grado di raccogliere un ampio arco di forze politiche e sociali, in grado di contrapporsi alle scelte strategiche che un forte e autonomo governo di centrosinistra sarebbe in grado di fare.
Dal suo punto di vista Monti ha ragione: in Italia è in corso una battaglia decisiva su chi guiderà il nostro Paese nei prossimi decenni. E in queste elezioni sono di fronte due schieramenti sociali, certo variamente articolati ma che tali restano, nonostante le tante chiacchiere sulla fine della destra e della sinistra.
Ma l’insistenza sulla società civile ha altri significati, di carattere propriamente ideologico. La battaglia che si sta svolgendo coinvolge, con quello politico, anche il piano dei valori, né è difficile immaginare le trombe che Monti e i suoi seguaci faranno suonare in campagna elettorale: Europa, modernità, sviluppo, credibilità del Paese e delle sue «nuove» classi dirigenti. E appunto primato della «società civile», con due obiettivi precisi: ribadire anzitutto che Pd è espressione di un vecchio mondo, di un’epoca finita insieme a Berlusconi e perciò incapace di «modernizzare» il Paese, come è invece possibile fare se si sceglie un leader capace di rivolgersi alle energie sane e vitali del Paese cioè alla società civile -, cancellando la «vecchia» politica. E poi legittimare e valorizzare, sia sul piano ideologico che elettorale, il confluire nella sua lista di importanti rappresentanti del mondo cattolico, reso a sua volta possibile da importanti elementi comuni: il netto rifiuto del concetto di classe, l'interesse per modelli «produttivistici» incentrati sulla collaborazione tra capitale e lavoro e, appunto, il «societarismo».
È giusto, ed è saggio, non alzare il livello della polemica, pensando alle scelte che potranno diventare necessarie dopo le elezioni. Ma al di là della scorza retorica, questa è la sostanza del discorso di Monti sulla «società civile», ed esso carica di responsabilità il centrosinistra e anche i cattolici che hanno scelto di stare da questa parte dello schieramento. Siamo a un passaggio decisivo, destinato a cambiare in un senso o nell’altro il volto dell’Italia, anche sul piano degli ideali e degli obiettivi comuni, condivisi. Perciò è necessario che il centrosinistra faccia sentire con energia la sua voce, e data l’entità e il carattere della posta in gioco, è indispensabile che esso proclami con forza la sua visione dell’Italia e del futuro in una parola: i suoi valori ultimi e penultimi, raccogliendo tutte le forze interessate al cambiamento -. Un cambiamento effettivo, non retorico, come troppe volte è accaduto nella nostra storia.

il Fatto 6.1.13
Crisi di identità
Caro professor Monti, conservatore sarà lei
di Furio Colombo


In un grande albergo a colloquio con il futuro capo, che mi riceve nella hall. Conversazione gentile fra le due poltrone, sento la buona disposizione nei miei confronti. Lui è un nobile, o quasi, e lo sono anch’io. Ci intenderemo per forza. Queste società con forte partecipazione americana cercano volentieri impiegati di rappresentanza nei dintorni dell’aristocrazia, come si fa per i diplomatici, impiegati fidati, utili nelle relazioni, che sanno l’inglese. Lo vedo attratto e respinto dalla mia laurea in lettere e dall’odore di giornalismo, domanda dove ho scritto. Dico varie riviste letterarie, qualche racconto, un saggio. Alcuni articoli sull’Avanti!. Si è rabbuiato, si stacca. Le poltrone si fanno lontanissime, il tavolino in mezzo diventa un macigno. “Noi - esclama - ci ritroveremo fra non molto dalle parti opposte della barricata. È possibile, le domando, che nel frattempo lei venga a lavorare con me? Così sovietico non mi ero mai sentito, così vicino allo scontro. ” Da Ottiero Ottieri a Nichi Vendola
Ho citato da La linea gotica, l’indimenticabile libro di Ottiero Ottieri, appena ripubblicato da Guanda. Per me è importante, perché in quel tempo lavoravamo insieme e osservavamo insieme il mondo di una misteriosa dirigenza imprenditoriale che cominciava a prendere le distanze (Adriano Olivetti era appena morto). Ma pensate alla data di questa pagina: 1963. Sulla scena ci sono tutti i personaggi: le ali da tagliare, i Vendola di cui ci si deve liberare, le voci da silenziare, le cose che sono già intollerabili e che è meglio mettere subito in chiaro, i sindacati come la Cigl che tentano la frenata della macchina mentre accelera verso il futuro, perché non è il loro futuro. Non importa che cosa vede o che cosa pensa uno che scrive sull’Avanti!. In un tempo come questo bisogna avere le mani libere, e questi te le trattengono, magari solo per ipocrite strette di mano. Però “controlliamo gli orologi”, come si diceva una volta nei film americani di guerra prima dell’attacco. Ho già chiarito, siamo nel 1963. E, nella scena di Ottieri che anticipa tante cose (tutte regolarmente e tragicamente avvenute, tra cui la scomparsa del lavoro), si vede che l’interlocutore, che scosta di scatto la poltrona, è il conservatore. E lui, da conservatore che non tollera il ragazzo impudente che si spinge in esplorazione per conto suo, o con i sindacati, e fa finta di non sapere, nonostante nome, laurea e nobiltà, che ci sono valori da difendere, principi da conservare.
Passano i decenni ma non i preconcetti
Passano gli anni e i decenni, avanza spavalda la cultura che brandisce produttività, competitività, innovazione. E anche: privatizzazione, concorrenza, merito (uso le sei parole più care, nell’ultimo mezzo secolo, ai grandi meeting dello Studio Ambrosettiealleassemblee di Confindustria, sei parole magiche che adesso sono di governo e che non hanno mai sfiorato il come trasformare l’impresa, cambiare il lavoro manageriale, immaginare una gestione rivoluzionata per un secolo nuovo, spingere i capi e i figli dei capi nel vortice della prova del merito per risalire con i più creativi e non affondare con i più stupidi). Passano gli anni e i decenni e la massa dei lavoratori, che erano soci di impresa, ormai è lontana e, quando è possibile, abbandonata sull’autostrada, in una specie di ferragosto imprenditoriale che sempre più spesso torna a ripetersi. So benissimo che c’è un altro modo di descrivere questo disastroso passaggio della Storia (che comincia con Reagan quando dice che se tagli le tasse ai ricchi, loro sono buoni e aiutano tutti, the trickle down economy, mai verificata, mai realizzata, una fede, come il marxismo). Ma devo notare con stupore una straordinaria trovata in più. Tu difendi il lavoro, se non altro perché chiedi non gratitudine ma decenza (ma anche una prudente attenzione alla pace sociale), e improvvisamente l’interlocutore scosta la poltrona. Dice con voce severa: “Lei è un Conservatore! ” insieme con il gesto che mima “tagliare le ali”, come se gli esseri umani fossero lì ad aspettare il necessario intervento chirurgico, senza il quale, pare di capire, non si potranno avere i benefici che hanno in serbo per noi. Ecco, vorrei far notare il cambiamento.
IL silenzio dei media e quello dei sindacati
Allora, nel 1963, era il conservatore a scostare, allarmato, la sua poltrona, per non essere contiguo all’infiltrato di sinistra che avrebbe portato zizzania al campo. Adesso sei tu che vieni chiamato conservatore, e chiamato per nome (Camusso, Fassina, Cigl) in una strana sentenza che dovrebbe dichiarare inaffidabilità e sospetto. Devo dire che non so che cosa Mario Monti abbia in mente, visto che si rivela un poco alla volta, e non sempre con rigorosa coerenza tra il prima e il dopo. Non so con chi consenta, quando decide di usare la sua forza e la sua reputazione, che non è poca cosa, in modo così sproporzionato verso chi non lo approva con ovazioni. Ma il mio stupore, che un tempo riguardava i miei colleghi giornalisti che non avevano nulla da dire quando Berlusconi umiliava un collega, adesso si rivolge ai sindacati. Sono sicuri che sia conveniente accettare che uno di loro sia presentato al Paese come il nemico che fa correre rischi a tutti? Se questo è il gioco del lavoro, che viene declassato per avere una “patrimoniale” riscossa dal basso, non dovrebbero arruolarsi anch’essi fra i conservatori dei diritti?

il Fatto 6.1.13
L’intervista: Luigi Berlinguer
“Gli impresentabili? Non parlo ai giornalisti mica sono Ingroia”
di Alessandro Ferrucci


Tre giorni di silenzio. Di promesse. “Ci sentiamo tra un’ora, sono impegnato”. Poi niente. “Meglio domani, mi scusi”. Ancora niente. “Cosa vuole sapere da me? ” Gli impresentabili, onorevole Luigi Berlinguer, un suo giudizio visto che è presidente della Commissione di Garanzia voluta da Walter Veltroni. Silenzio prolungato. “Non ho capito di cosa parla”. Del buon successo, a volte ottimo, di esponenti con qualche problema con la giustizia o di conflitto di interessi, nel voto del 29 e 30 agosto. “Ah, va bene, facciamo domani”. Giorno successivo, alla fine risponde. O quasi.
Onorevole un suo giudizio.
(Sospira, poi abbassa la voce) Senta, non voglio esprimere mediaticamente una mia idea. Non è il caso.
E perché?
Sono certo che me ne pentire. i
In che senso?
Non sono come Antonio Ingroia.
Cosa c’entra Ingroia?
Non sono la persona che le deve rispondere. Io sono altro.
Bè, non è così, lei ha un ruolo di garanzia all’interno del Pd. Lei dovrebbe essere investito proprio da tali questioni.
Nel partito ho un compito simile a quello di un magistrato.
Senza esserlo. Ma cosa vuole dire?
Un magistrato non deve parlare con la stampa, ma emettere le sentenze.
E così ha spiegato il suo riferimento a Ingroia.
Sì, perché se parlassi perderei la terzietà. Non posso emettere un giudizio su una questione che potrebbe investirmi. Non posso fare nomi.
Bene, quindi lei è la persona giusta con la quale parlare: è stato coinvolto nella questione?
Non voglio! Ho un ruolo delicato, non posso essere considerato partigiano.
Non sale sui monti?
Ribadisco: non faccio come Ingroia. Eppoi sono stato molto impegnato in commissione.
Per lei il pm è una fissazione...
Ho lavorato tre giorni consecutivi, ho saltato il pranzo.
Quindi avete discusso anche della questione impresentabili.
Io non so nulla.
Impossibile. Prende tempo per chiudere le liste e affossare il problema?
(Tutto verrà deciso entro martedì, l’obiettivo del Pd è presentare i nomi prima di qualunque altro raggruppamento e partito per dare un segnale di solidità all’elettore)
Senta, io vi rispetto come stampa.
Mica tanto
Lo so, sono fatto male. Ma è così.
Ci dia almeno un giudizio generale, senza fare nomi specifici.
Non mi volete capire.
Al contrario, proprio perché la comprendiamo non le facciamo il nome di Crisafulli o Luongo, ma le poniamo la questione in caratteri astratti.
Ribadisco, se parlassi con voi, poi me ne pentirei. Quindi la saluto, devo lavorare. Buon appetito, onorevole Berlinguer.

l’Unità 6.1.13
Trapani come l’Alabama: «Un bus per i neri»
Proposta shock del presidente di commissione Andrea Vassallo: «Un servizio apposito per evitare le proteste degli indigeni»
Poi le scuse: «Non volevo offendere nessuno, ma il problema esiste»
di Manuela Modica


TRAPANI È la patria dell’integrazione razziale ma d’improvviso pare l’Alabama degli anni 50. Così su Trapani, capitale del Cous Cous, piomba l’accusa di razzismo: una richiesta di separazione razziale, da un lato i bianchi, dall’altro i neri. E non è la prima volta che questo succede. L’ultima è il frutto di una delibera pubblicata sul sito del Comune lo scorso 2 gennaio, nella quale il presidente della Sesta Commissione consiliare, Andrea Vassallo del Psi, riporta la richiesta di «istituire un servizio di trasporto esclusivamente dedicato ad essi». Quando con essi si intende i migranti ospitati nel Cara di Salinagrande. Perciò si, i nordafricani in un autobus a parte, separato dai siciliani. Roba da fare rivoltare Rosa Parks nella tomba, l’attivista americana che nel ’55 si rifiutò di alzarsi dal posto sull’autobus permesso ai soli bianchi e per questo arrestata.
Una proposta shock che infanga l’immaginario di una città che di integrazione vive da sempre. Lì dove i sapori del nordafrica, i profumi, dominano la tavola dei siciliani e si fanno sintesi, proprio nel cous cous, di contaminazione culturale. E la delibera non è solo razzista ma pure preveggiente: secondo Vassallo, infati, dalle lamentele ricevute dagli abitanti si intuisce cosa succederà prima o poi sulla linea 31, quella che da Salingrande muove verso il centro città: «Le numerose lamentele degli abituali viaggiatori indigeni della tratta i quali riferiscono di comportamenti poco civili adottati dagli immigrati che spesso creano ed alimentano all’interno del bus un clima di tensione tale da lasciar presagire, prima o poi, il verificarsi di episodi spiacevoli».
Era già accaduto nel 2008: «Tale e quale», riferisce Giusto Catania allora Europarlamentare per Rifondazione Comunista che si vide costretto a presentare un’interrogazione al parlamento europeo: «Ottenni una risposta lapidaria – racconta Catania – fu accolta come una follia giuridica, assolutamente inimmaginabile e fuori dal diritto. Come pure è questa. Ma ora come allora io la interpreto esclusivamente come propaganda elettorale. Si avverte questo come tema privilegiato per costruire consenso, sfuttando un presunto pseudo razzismo di bassa lega».
LA VERGOGNA DEL CARA
Un razzismo rifiutato in massa da tutti i componenti della commissione che hanno sconfessato Vassallo e chiesto le dimissioni del consigliere. «Il problema reale è che è del tutto assente una politica di reale integrazione degli immigrati sul territorio: questa è la vera urgenza. – sostiene Francesco Bellina, consigliere comunale Al Cara di Salinagrande manca solo il filo spinato per sancire la più totale emarginazione di queste persone. Solo un mese fa, un ragazzo ha provato ad andare via da lì e nel tentativo si è rotto gli arti inferiori, solo grazie al nostro intervento è stato possibile affidarlo temporaneamente ad una comunità e toglierlo dal Cara».
LA MARCIA INDIETRO
Una proposta shock che risolleva le criticità del centro di accoglienza di Trapani. Ma Vassallo sconfessa la natura razzista della sua proposta e chiede scusa: «Ho peccato di ingenuità e chiedo scusa a tutti quelli di cui ho urtato la sensibilità, immigrati in primis. Io non sono razzista. Ho solo fatto uno sbaglio ragionando per un momento solo sulle problematiche degli abitanti di Salinagrande e scordando quelle dei nord-africani». Ma il problema su quella linea di trasporto, secondo Vassallo, esiste e va risolto: «Può capitare che qualcuno beva un po’ troppo e allora mette in atto comportamenti inadeguati, è una situazione da tenere sotto controllo, che va monitorata dalle forze dell’ordine».
Intanto Trapani si ribella all’accusa e di fronte il palazzo Comunale, in pieno centro storico campeggia uno striscione provocatorio: «Un autobus per i razzisti: vassallo conducente».

l’Unità 6.1.13
Quel bus di Trapani che ricorda Rosa Parks
di Santo Della Volpe


Autobus per soli immigrati e per soli «neri»: la proposta è di Andrea Vassallo, presidente di commissione al Comune di Trapani che ha pensato di risolvere con questa «brillante» idea di inciviltà, il problema della linea pubblica che collega Salinagrande alla città. Perché in quella zona tra le Saline e la zona industriale, c’è il Centro di accoglienza che ospita gli immigrati che spesso escono per andare in città, prendendo l’autobus essendo cittadini del mondo.
Non hanno nessuna colpa se non quella di essere, agli occhi magari del consigliere comunale Andrea Vassallo, un po’ «diversi» e, a suo dire, rumorosi. Così dice d’aver sentito da alcuni trapanesi che lo stesso consigliere Vassallo ha definito «abituali viaggiatori indigeni della tratta» con una linguaggio che lascia piuttosto perplessi, ma che indica la volontà di separare nettamente gli «indigeni» trapanesi, dagli «ospiti» visti come intrusi, rei, secondo questa segnalazione consegnata agli annali, di «comportamenti poco civili» che spesso «creano ed alimentano all’interno del bus un clima di tensione tale da lasciar presagire, prima o poi, il verificarsi di episodi spiacevoli». Un bel modo per dire che per prevenire il gesto di qualche «indigeno» nervoso, è meglio separare le persone, invece che lavorare per cercare una convivenza civile tra le persone, che poi tanto diverse non sono. Si chiama soluzione dei conflitti e nasce da una idea vecchia come il mondo, o almeno come il cristianesimo: creare livelli comuni di incontro, di lavoro e solidarietà, evitando la segregazione e quelle barriere economico-razziali che inducono solo allo scontro tra persone. Un’idea che è stata ben rappresentata e sintetizzata anche nella nostra Costituzione.
Se avrà tempo, il consigliere Andrea Vassallo potrà un giorno andare al Museo per i diritti Civili di Memphis, in quel Lorraine Motel dove fu ucciso Martin Luther King (oppure vedere comodamente da casa il film «La lunga strada verso casa» del 1990 con Whoopi Goldberg): a Memphis troverà a metà del percorso di quello straordinario Museo, un autobus delle linee urbane di Montgomery, capitale dell’Alabama, vecchio di almeno 60 anni. Provi a salirci e sedersi, magari vicino ad una statua di una donna seduta e sentirà una voce che gli intimerà di andare in fondo all’autobus perché sono saliti dei viaggiatori bianchi, ai quali, allora, erano riservati quei posti, vicino all’ingresso. Perché in Alabama, come in molti stati del Sud degli Stati Uniti, negli autobus c’erano posti seduti riservati ai bianchi e posti in piedi per i neri, in fondo ai bus. Potrebbe fornire una idea al consigliere Vassallo, per la soluzione del suo problema, a Trapani: solo che lì eravamo nel 1955 ed il 1° gennaio di quell’anno, la signora Rosa Parks, rappresentata da quella statua nel bus del Museo, non si volle alzare. Disse un no che la portò in carcere, arrestata per condotta impropria e aver violato le norme cittadine. Succederà la stessa cosa se un immigrato a Trapani vorrà salire su un bus per soli «indigeni» trapanesi?
Da quel 1955, Rosa Parks è conosciuta in tutti gli Usa come «The woman who didn’t stand up/la donna che non si alzò» e per solidarietà con lei, il 2 gennaio 1955, cominciò a Montgomery il boicottaggio dei mezzi pubblici, guidato da Martin Luther King, che durò per 381 giorni, fino a quando la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la legge che aveva legalizzato la segregazione sugli autobus. Il consigliere Vassallo di Trapani vuole forse seguire le orme del Ku Klux Klan e aggiungere alla tensione degli immigrati, che spesso sono solo umiliati e sfruttati nei lavori in nero nei campi, anche la tensione derivata da una ulteriore «punizione», facendo sua la parte dei segregazionisti dell’Alabama di 58 anni fa?
Forse farebbe bene a ricordarsi che ora siamo nel 2013, non più nel 1955, che il presidente degli Stati Uniti di chiama Barack Obama e che, guarda caso, è una persona di colore, segno di quanti passi in avanti hanno fatto le battaglie per i diritti civili. Negli Usa, mentre a Trapani si corre il rischio con quegli autobus per immigrati neri, di tornare indietro di 60 anni.
Ma nella storia il gioco dell’oca non si ripete mai uguale ed i punti di partenza sono sempre diversi: Martin Luther King descrisse l’episodio di Rosa Parks, come «l’espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana e libertà», aggiungendo che Rosa era rimasta seduta in quel posto in nome «dei soprusi accumulati giorno dopo giorno» e della «sconfinata aspirazione delle generazioni future». I giovani appunto: ci pensi il consigliere Vassallo, la strada dell’integrazione porta al superamento delle divisioni, quella della segregazioni insegna solo violenza e scontro. Contro le persone. Ed anche contro la storia.

Corriere 6.1.13
L'ex commissario e il caso Dozier «Così torturammo i brigatisti»
Il verbale di Salvatore Genova, che liberò il generale
di Giovanni Bianconi


ROMA — Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro di galera. È il rischio accettato dall'ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse.
Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell'ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi «duri» avallati dal governo di allora, aggiunge l'ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari.
«È stato tutto disposto dall'alto — ha detto Genova all'avvocato Francesco Romeo, difensore dell'ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati —. C'è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d'accordo con l'allora ministro Rognoni... E infatti noi facemmo». L'avvocato lo interrompe: «Mi sta dicendo che l'autorizzazione a fare quel tipo di tortura...». E Genova: «Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato "De Tormentis" che secondo il suo ex collega dirigeva i "trattamenti", ndr)... Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell'Ucigos e ci disse "facciamo tutto ciò che è possibile"».
L'Ucigos era l'organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull'intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il «via libera» a sistemi d'interrogatorio poco ortodossi: «Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato...». L'alleato americano premeva per ottenere risultati, «tant'è che durante tutte queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia».
Il sistema d'interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell'annegamento. «Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili», denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il «professor De Tormentis», al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata. «Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l'esistenza», precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottosposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro «pentito» Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, «semidenudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all'interno delle cosce, delle gambe». Dopo aver ingurgitato acqua e sale, racconta Genova», Volinia «alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: "E se vi dicessi dov'è Dozier?"».
Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell'immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure Il Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l'ex br arrestato nel '78, all'indomani dell'omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l'avvocato Romeo ha presentato un'istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l'esperto di waterboarding che si muoveva — a suo dire — con tanto di garanzie ministeriali.
«Non ci fu alcuna copertura — ribatte l'allora ministro dell'Interno Virginio Rognoni —. Anzi, i comportamenti "duri" accertati furono prontamente perseguiti. C'era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro "teste di cuoio" per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura». E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: «Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che lui dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio». Dopo trent'anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell'antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi.

il Fatto 6.1.13
Il bilancio è in rosso e i sindacalisti vengono licenziati
Ora Renzi rottama il Maggio Fiorentino
A casa 10 lavoratori, tutti Cgil. Il nuovo auditorium da 250 milioni non è ancora pronto. Il vecchio teatro chiuso per amianto: “Valchiria” a rischio


MAGGIO MUSICALE SINFONIA DI SOLDI E LICENZIAMENTI FIRENZE, PER IL NUOVO TEATRO ALTRI 100 MILIONI IL VECCHIO CHIUSO PER AMIANTO. FUORI 10 TECNICI CGIL di Giampiero Calapà Un vecchio ma storico teatro chiuso per bonifica da amianto. Una nuova mega avveniristica struttura incompleta a cui servono ancora 100 milioni di euro. E dieci professionalità licenziate, sette delle quali tesserate Cgil, con lettera firmata dal sindaco Matteo Renzi. Questa è la triste fine del glorioso Maggio Musicale Fiorentino, il più antico festival italiano, fondato nel 1933, e vera eccellenza a livello internazionale.
L’ACCORDO DA 100 MILIONI
È il 19 dicembre. A Firenze viene siglato un nuovo accordo di programma tra ministero delle Infrastrutture, ministero dei Beni culturali, Regione e Comune, per portare a termine quella che è considerata “la struttura teatrale più importante della Toscana”: l’auditorium di Firenze, il Nuovo Teatro dell’Opera, progettato dallo studio romano Abdr. Via libera ad un investimento, appunto, di 100 milioni, di cui 42 solo per la realizzazione della parte scenica per l’opera lirica, cuore pulsante del Maggio. Bisogna tenere in considerazione che fino a questo momento per l’auditorium – che sorge tra il parco delle Cascine e la stazione Leopolda – sono già stati spesi 157 milioni di euro. Quindi oltre 250 milioni complessivi, peccato che il capitolato per il concorso, datato 2007, prevedeva una spesa di 83 milioni di euro.
MACCHINA MANGIA-SOLDI
È il 31 dicembre. Da Palazzo Vecchio, sede del trono del sindaco Matteo Renzi, vengono spedite le raccomandate di licenziamento a dieci tecnici di scena. Perché, è la motivazione, il Maggio Musicale, gestito da una fondazione il cui presidente è il sindaco, ha i conti in rosso: - 3 milioni di euro nell’ultimo bilancio; totale di debiti già maturati pari a 33 milioni; interessi passivi su prestiti bancari vicini al milione e mezzo. La fondazione dal 1999 a oggi non ha mai avuto un bilancio in attivo, ma neppure in pareggio, eccezion fatta per l’anno di grazia 2005, quando fu commissariata. Nello stesso periodo la stessa fondazione, però, dallo Stato ha ricevuto una cifra pari a 300 milioni, mentre 33 sono arrivati dal Comune, 23 dalla Regione Toscana e 5,6 dalla Provincia di Firenze. Una macchina mangia soldi in perdita costante.
GLI ESUBERI
E i licenziamenti? Quanto fanno risparmiare? Solo 400mila euro. Silvano Ghisolfi ha 60 anni. Gliene servirebbero ancora 5 o 6 per arrivare alla pensione. Era, fino al 31 dicembre, addetto alla direzione della produzione di scena. Cioè un ruolo di primo piano nel coordinamento, tra ufficio e palcoscenico, di tutto quello che si muove attorno allo spettacolo. È sposato e ha una figlia, Gea, di 19 anni, appena iscritta all’università. Il suo stipendio si aggirava sulle 1300 euro. Fermarsi adesso, per Ghisolfi, vuol dire distruggere le possibilità di una vecchiaia serena, buttare nel cesso le possibilità di una pensione dignitosa: è uno dei licenziati.
LA VERTENZA
“Ma non vorrei parlare della mia storia personale, perché non riesco ancora a ragionare – racconta Ghisolfi – come uno che ha perso il lavoro. C’è in ballo di più. Preferisco lottare per la difesa del teatro. Perché cacciare me e gli altri nove vuol dire rompere un sistema, immaginare invece una struttura di teatro per pochi eletti dove la professionalità conta niente”. Lui è nel direttivo cittadino della Cgil, dello stesso sindacato fanno parte sette dei dieci licenziati, cinque di loro addirittura dirigenti sindacali, “quindi – accusa Ghisolfi – è chiaro che si ravvisa da parte del presidente della fondazione, quindi del sindaco Renzi, un comportamento anti-sindacale”.
LA REPLICA
“Non mi sento di denunciare una discriminazione, però verrà evidenziato ai giudici nella vertenza se questo costituisce un atteggiamento antisindacale”, precisa Paolo Aglietti, coordinatore regionale Slc-Cgil, e anche lui dipendente del Maggio. Altri trentacinque sono stati mandati in “esodo volontario”, cioè liquidati purché accettassero loro di mollare. A sentire Renzi non c’era proprio altra strada: “Noi stiamo rispettando solo un accordo firmato anche dai sindacati necessario per salvare il teatro”. Poi c’è l’arte che non si vede, perché non va in scena. Il vecchio teatro comunale, sede storica del Maggio, è sbarrato da questa estate per la bonifica dell’amianto.
L’AMIANTO
È atteso a giorni il parere dell’Asl. E si suda freddo. Perché il 15 gennaio è in programma là, nella vecchia sede, la prima della Valchiria, quindi bisogna fare in fretta per permettere a Zubin Metha di dirigere l’orchestra. L’unica cosa certa sono costi che lievitano ancora. Mentre proprio ieri nella centrale piazza della Repubblica un gruppo di associazioni cittadine riunite sotto lo slogan “Spazi liberi” protestava contro le politiche dell’amministrazione Renzi sulla cultura. “Al sindaco preme svantaggiare e chiudere i luoghi di produzione culturale – attacca la consigliera comunale di opposizione Ornella De Zordo – a beneficio di eventi faraonici: avremo solo grandi concerti e prestigiose sfilate, ma neppure una libreria in centro continuando così”.

l’Unità 6.1.13
Abu Mazen cambia il nome dell’Anp, ora Stato di Palestina

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha firmato in Cisgiordania un decreto presidenziale con il quale modifica il nome dell’Anp ( Autorità nazionale palestinse) in «Stato di Palestina» a seguito dell’innalzamento dello status presso le Nazioni unite.
Lo ha riferito nella notte l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa, spiegando che tutti i francobolli, le firme e le intestazioni di carta da lettera verranno modificate a seguito del cambiamento.
Si tratta del primo passo, seppur simbolico fatto dai palestinesi dopo la decisione dell’Onu di novembre di elevare la Palestina a Stato osservatore non membro. Abbas ha esitato a intraprendere passi più decisi, come per esempio la presentazione di accuse di crimini di guerra contro Israele presso la Corte penale internazionale.

Corriere 6.1.12
Sostenere Fatah per ammansire Hamas
Linea morbida di Obama sulla Palestina
di Massimo Gaggi


Dopo anni di scontri feroci tra Al Fatah, il partito storico dei palestinesi che esprime il presidente dell'Autorità, Abu Mazen, e gli estremisti di Hamas che hanno il controllo della striscia di Gaza, da qualche tempo i due fronti hanno ripreso a dialogare. La manifestazione congiunta di venerdì a Gaza per festeggiare il 48° anniversario della fondazione di Fatah non è il primo segnale di disgelo. Dopo cinque anni di sangue e di reciproche messe al bando, già qualche settimana fa nel West Bank controllato da Fatah, l'Authority di Abbas aveva per due volte autorizzato manifestazioni di Hamas che ora ricambia con un gesto analogo.
Ma a colpire gli osservatori sono state le dimensioni dell'evento: centinaia di miglia di palestinesi riuniti nella terra controllata da un'organizzazione bollata come terrorista da Israele, dagli Usa e da molti altri governi, per festeggiare il partito di Abu Mazen che fin qui ha avuto l'appoggio compatto (anche economico) dell'Occidente.
L'Autorità si era impegnata a non dialogare coi terroristi, ma dopo la rappresaglia di novembre con la quale Israele ha reagito al lancio di razzi in profondità nel suo territorio, il clima è cambiato. Per Barack Obama, che aveva invano tentato di dissuadere Abu Mazen dall'andare fino in fondo nella battaglia all'Onu per il riconoscimento della Palestina, questo avvicinamento tra Fatah e Hamas è un ulteriore imbarazzo dopo la sconfitta al Palazzo di Vetro dove gli Usa sono rimasti pressoché isolati nel «no» al riconoscimento.
La speranza della diplomazia americana è che il rafforzamento di Abu Mazen consenta all'Autorità di riconquistare il controllo del territorio spingendo Hamas ad abbandonare il terrore come metodo di lotta. Qualche segnale c'è (Hamas ha aperto a Fatah anche perché non è riuscita a estirparla dal suo territorio in cinque anni di lotte sanguinose), ma il processo — ora affidato a una mediazione dell'Egitto di Morsi — è sempre meno controllabile dall'Occidente e dagli Usa. Obama sembra prenderne atto anche scegliendo come ministro della Difesa (l'annuncio forse domani) un ex senatore repubblicano, Chuck Hagel, che in passato ha giudicato un errore gli sforzi di isolare Hamas e gli estremisti «hezbollah» e ha criticato le pressioni della lobby ebraica a Washington. Israele diffida sempre più di Obama, ma è l'influenza Usa nell'area che sta calando.

il Fatto 6.1.13
ll capitano Bennet fa virare Israele a destra
di Roberta Zunini


Con il linguaggio guerrafondaio che tanto ama sfoggiare, il premier israeliano Bibi Netanyahu un paio di settimane fa disse: “Vogliamo entrare in Parlamento come una portaerei”. Si riferiva all’operazione Likud - Beitenu, il patto elettorale con il partito ultranazionalista Yisrael Beitenu per le elezioni del prossimo 22 gennaio. In quei giorni il ticket era considerato stravincente ma oggi, a due settimane dal voto, i sondaggi mostrano una frenata. Netanyahu e Avigdor Lieberman - il leader di Yisrael Beitenu nonché ministro degli esteri appena costretto alle dimissioni per le accuse di frode - stanno perdendo voti pur rimanendo in testa: dai 40 seggi parlamentari previsti sarebbero scesi a 34, su un totale di 120. La tronfia avanzata della loro nave è infatti sempre di più ostacolata dai barchini della destra estrema. Il capitano più abile è senza dubbio il giovane Naftali Bennett, neo segretario di Focolare ebraico, partito religioso e ultranazionalista di destra, che conosce bene Netanyahu perché è stato a lungo un esponente di punta del Likud. Ma Bennet, al contrario di Bibi, è molto amato anche dai giovani perché si esprime in modo accattivante e diretto, sottolineando senza le ipocrisie degli ex colleghi di partito, che “non intende permettere la creazione dello Stato palestinese e l'evacuazione delle colonie”. Anzi le colonie, come tutta l’area C, ossia quella parte di Cisgiordania sotto il totale controllo israeliano, dovrebbero essere annesse allo Stato ebraico, offrendo però la cittadinanza israeliana ai palestinesi che la abitano. Affermazione che ha spiazzato tutti. Forte del suo grado di capitano nel corpo speciale d’assalto dell’esercito, Bennet si è spinto nelle acque più agitate di Israele. Affermando che “i soldati hanno il diritto di non rispettare gli ordini dei superiori quando sono contrari alla loro coscienza sionista”, è stato tacciato da tutta la compagine politica di istigazione all’insubordinazione. Si riferiva all’argomento tabù della distruzione degli avamposti colonici in terra palestinese. Ricchissimo grazie ai 145 milioni di dollari ottenuti dalla vendita della sua società di informatica, non ha problemi a spendere per farsi pubblicità. Dalle ultime indicazioni di voto dovrebbe ottenere 14 seggi, raggiungendo il partito religioso Shas, finora unico ago della bilancia. Il blocco della destra vincerebbe dunque le elezioni con il 65% dei voti, spostandosi ancora più a destra. Tra i partiti di centro-sinistra solo il Labour arriverà a due cifre, ottenendo 17 seggi, insufficienti per la formazione di una coalizione vincente. Un risultato che non piace alla comunità internazionale che ha votato all’Onu per la nascita di uno Stato palestinese.

La Stampa 6.1.13
Una Ong dei diritti civili ottiene la pubblicazione di documenti segreti:
Anche le banche hanno collaborato alle attività anti manifestaziuoni
L’Fbi ha sabotato Occupy Wall Street
Agenti infiltrati e disinformazione: “Fermiamo la protesta o sarà come nei Paesi arabi”
di Maurizio Molinari


«Potential Criminal Activity Alert» è il titolo del rapporto Fbi che alza il velo su come il movimento di protesta Occupy Wall Street è stato, sin dall’inizio, spiato, infiltrato e bersagliato da minacce, pressioni e disinformazione degli agenti federali applicando una tattica simile a quella che negli anni Settanta consentì di sconfiggere le Pantere nere.
Ad ottenere la declassificazione di 110 pagine che descrivono la guerra segreta dell’Fbi ai militanti di Zuccotti Park è stata l’associazione «Partnership for Civil Justice Fund» ricorrendo al «Freedom of Information Act» (Foia) che obbliga ogni agenzia federale a rendere pubblici i propri atti. Sebbene si tratti di pagine in gran parte annerite dal top secret quanto consentono di leggere permette di ricostruire la tattica dei federali. Anzitutto il «Situational Information Report», redatto dall’Fbi di Indianapolis, è datato 15 settembre 2011, ovvero due giorni prima del debutto delle proteste, e anticipa proprio il «Giorno di Rabbia pianificato per il 17 settembre» prevedendone con accuratezza i contenuti: «Desiderano mimare l’ondata rivoluzionaria di proteste avvenute nel mondo arabo portandola nelle maggiori aree metropolitane» degli Stati Uniti «con speciale attenzione per le istituzioni bancarie e finanziarie».
Nei giorni seguenti l’Fbi diffonde informazioni per delegittimare i manifestanti: il magazine canadese «Adbusters», a cui si attribuisce l’idea delle proteste, viene definito «gruppo americano anarchico rivoluzionario» mentre Occupy è accostato ai suprematisti bianchi della «Nazione ariana» e agli hacker «terroristi interni» di Anonymus. Ciò significa che l’Fbi considerò da subito Occupy una minaccia alla sicurezza interna, come conferma un memo dell’agosto 2011 nel quale si parla già della data del 17 settembre attribuendo ai «gruppi anarchici» la volontà di «interrompere o sospendere le attività del distretto finanziario» di Manhattan.
Tale impostazione spiega perchè l’Fbi attivò da subito un network anti-Occupy che includeva la Homeland Security, la task force anti-terrorismo, l’intelligence dell’Us Navy e il Domestic Security Alliance Council, un organismo finora poco noto servito per coordinare le attività anti-protesta assieme alle maggiori istituzioni finanziarie.
I documenti parlano di incontri, comunicazioni e coordinamento con Bank of America, Wells Fargo, Goldman Sachs e JP Morgan ma potrebbero essere coinvolte più banche visto che l’Fbi ammette l’esistenza di ulteriori 287 pagine su Occupy che non vengono declassificate. Tale imponente impianto di sorveglianza e spionaggio spiega perché i memo dell’Fbi sono datati dalle località più diverse, da Jacksonville in Florida a Anchorage in Alaska, contenendo riferimenti a raccolte di informazioni sul «terrorismo domestico» dei manifestanti grazie agli espedienti più diversi: da falsi ciclisti che sostano a Zuccotti Park per «parlare con chiunque si avvicina», infiltrando Occupy, agli arresti mirati dei «più facinorosi».
E poi c’è l’opera di deterrenza. Colpisce a riguardo la storia di Tim Franzen che nel 2011 aveva 35 anni ed era un «community organizer» di Atlanta in Georgia per Occupy ma venne fermato dall’Fbi sulla base di precedenti penali risalenti a quando aveva 19 anni, riuscendo a metterlo sulla difensiva fino a neutralizzarne la «carica rivoluzionaria». Davanti a tali rivelazioni il portavoce dell’Fbi Christopher Allen invita alla «cautela» nel «trarre conclusioni da documenti rilasciati solo in parte» ma è verosimile immaginare che presto altre richiesta arriveranno agli uffici del «Foia».

La Stampa 6.1.13
La Corte d’Appello rispolvera una norma del 1872
Usa, lo stupro non sempre è reato
California, assolto uno stupratore perché la vittima «non era sposata»
di Francesco Semprini


Uno stupratore assolto a causa di una legge del 1872 che penalizza le donne non sposate. Succede in America: la Corte d’appello della California non ha convalidato una sentenza di condanna per stupro nei confronti di Julio Morales, un uomo che era accusato di aver violentato una ragazza di 18 anni, dopo che il suo fidanzato era uscito dalla camera da letto e lei si era addormentata.
Motivo dell’annullamento della condanna a tre anni di reclusione, e della conseguente richiesta di un nuovo processo, sta in una legge californiana del 1872 che disciplina i casi di violenze sessuali. Il punto, secondo la norma, è che la donna non era sposata. E se lo fosse stata? Morales, in quel caso, sarebbe finito in galera. Nella sentenza il giudice spiega che «Un uomo è entrato nella camera da letto di una giovane non sposata dopo aver visto il ragazzo lasciare la stessa stanza in tarda notte, ed ha avuto rapporti sessuali con lei forse spacciandosi per il fidanzato». La domanda è: «È stato commesso uno stupro? ». A rispondere è lo stesso giudice: «A causa delle storiche anomalie della norma e dell’accezione che la legge conferisce al concetto di stupro, la risposta è no». Ma attenzione, perché «se la donna fosse stata sposata e l’uomo si fosse spacciato per suo marito, allora ci saremmo trovati dinanzi al reato di violenza carnale». È una legge «obsoleta, arcana, e lavorerò assieme ai legislatori per cambiarla», avverte il procuratore generale Kamala Harris, secondo cui è incontestabile che in questo episodio del 2009 si sia davanti a un caso di «rapporto non consensuale che rientra perfettamente nel concetto di stupro».
Secondo la Corte d’Appello, però, «potrebbe essere vero che la donna stava dormendo, ma non è possibile determinare se l’uomo le abbia mentito sulla sua identità». Morales, infatti, ha detto alla Corte di aver rivelato, durante il rapporto con la 18enne, di non essere il suo fidanzato. Ma comunque, per la Corte, «l’impianto accusatorio è valido a metà, la condanna è avvenuta sulla base di quell’impianto, e nei fatti non ci sono elementi che possano dire quale influenza abbia avuto sulla giuria la parte non valida».
L’avvocato di Morales avverte che il nuovo processo non deve tenere conto di quanto affermato dall’accusa sulle mentite spoglie del suo assistito, e che deve far fede sull’esatto contenuto della legge. Ma è proprio la norma del 1872 il vero nodo di tutta la vicenda sul quale Katch Achadjian, membro del Congresso statale della California, si era già detto pronto a intervenire lo scorso anno dopo il caso di stupro di una donna di Santa Barbara che inizialmente credeva di aver a che fare col proprio fidanzato. Anche in quel caso non ci fu condanna.

La Stampa 6.1.13
Oltre 23 mila titoli non sono più fuori legge per librerie e biblioteche
Turchia, tolta la censura a Marx
di Marta Ottaviani


Ma a Smirne viene bandito dalle scuole Steinbeck «immorale e diseducativo»

Una buona notizia per i lettori turchi, che da oggi potranno tornare a trovare in libreria molti testi ufficialmente vittima della censura da decenni, ma, in alcuni casi, in pratica già disponibili sugli scaffali da qualche tempo. Con ieri è scaduto il termine per il divieto di pubblicazione a circa 23mila titoli. Lo scorso luglio il Parlamento turco aveva votato una legge per la quale tutte le decisioni giudiziarie e amministrative adottate prima del 2012 e relative al «sequestro, divieto o ostacolo alla vendita e alla distribuzione di pubblicazioni» sarebbero decadute se un giudice non le avesse confermate nei sei mesi successivi. Il termine è scaduto ieri e non essendoci stati provvedimenti, sono da ritenersi tutti liberi di essere pubblicati.
Fra gli autori finiti alla berlina risultano pensatori comunisti e di chi quel pensiero fu seguace o anche solo ne rimase affascinato. I titoli censurati includono il «Manifesto del partito comunista» e «Il capitale» di Karl Marx, «Stato e rivoluzione» di Lenin e «Storia del Partito comunista bolscevico dell’Urss» di Stalin. Il divieto permetterà di tornare a trovare in libreria anche le opere di Nazim Hikmet, il poeta ribelle, punta di diamante della letteratura turca di età repubblicana, morto in esilio a Mosca perché troppo simpatizzante con le idee marxiste per le autorità locali. A onor del vero, bisogna ammettere che alcuni testi citati erano già reperibili sulle bancarelle dell’usato, altri, come Marx e Hikmet, anche nelle principali librerie del Paese. Nel caso del poeta ha contato molto l’operazione di riabilitazione operata dall’esecutivo islamico-moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan, che nel 2009 ha anche deciso di restituirgli post mortem la cittadinanza, tolta negli Anni 50. Fra i testi che i turchi potranno tornare a consultare ci sono anche alcuni volumi sulla questione curda, tema particolarmente sensibile, e anche un rapporto sulla situazione dei diritti umani nel Paese.
La buona notizia sembra valere per tutto il Paese ma non per la città di Smirne, solitamente nota per essere il cuore della Turchia laica e progressista. Il provveditorato agli studi, che ha chiesto di ritirare dalla lista dei 100 libri consigliati niente meno che «Uomini e topi», capolavoro di John Steinbeck e una delle opere più importanti della letteratura americana. La motivazione sarebbero alcuni passi «contrari alla morale» e «diseducativi» per gli studenti. La parola è passata al ministero dell’Istruzione, che dovrà decidere se accogliere o no la proposta. Il ministro della Cultura, Ertugul Gunay, ha già bollato come una follia l’esclusione del libro e il ministro dell’Istruzione, Omer Dincer, ha assicurato che non verranno apportate modifiche al testo. Ma una decisione ufficiale deve ancora essere presa e i sindacati hanno puntato il dito contro l’Akp, accusato di voler operare un vero e proprio giro di vite sulla divulgazione culturale. Come se il problema una volta fosse il comunismo, oggi la denuncia sociale.

Corriere 6.1.13
Monito di Hollande alle scuole cattoliche «Niente omofobia»
Dopo la controversia sui matrimoni
di Elisabetta Rosaspina


PARIGI — Zapatero, che ci è passato ormai sette anni fa, avrebbe probabilmente sconsigliato a François Hollande di prendere così di petto il mondo cattolico. Soprattutto, a una settimana dall'ennesima manifestazione di piazza contro il progetto di legge per la legittimazione dei matrimoni omosessuali, o del «mariage pour tous», il matrimonio per tutti, nel raffinato idioma transalpino. Ma il ministro dell'Istruzione, Vincent Peillon, non ha esitato a impugnare carta e penna quando ha saputo che nelle scuole private cattoliche, convenzionate con lo Stato, ci si preparava a organizzare dei dibattiti sul tema, proprio partendo dal dissenso ecclesiastico: «Attenzione. C'è il rischio di cadere nell'omofobia», il ministro ha richiamato i provveditori alla vigilanza, firmando così l'avvio delle ostilità con buona parte degli 8.300 capi di istituto, privati, che si sono sentiti sospettati di parzialità e di indottrinamento dei loro allievi, due milioni in tutta la Francia.
«L'omofobia è un delitto — tuonava ieri sulla prima pagina del Figaro, l'editorialista Paul-Henri du Limbert, accusando il governo di "terrorismo intellettuale" e Peillon di essere il nuovo "Grande Inquisitore" —. Chi vuole discutere sul matrimonio omosessuale sarebbe dunque un delinquente potenziale?».
Certamente non era questa la conclusione cui voleva giungere il ministro Peillon, ma la polemica gli è esplosa tra le mani quando ha disapprovato l'iniziativa del segretario generale per l'insegnamento cattolico, Éric de Labarre, che il 12 dicembre scorso aveva scritto ai rettori delle scuole private, invitandoli ad aprire la discussione con gli studenti sull'opportunità di legalizzare le unioni omosessuali, senza dimenticare la posizione della Chiesa al riguardo. «Il dibattito non è mai stato aperto — si difende ora — ognuno ha il diritto di ricevere spiegazioni nel rispetto della libertà delle persone e delle coscienze. Il peggio è il silenzio».
Il ministro Peillon dissente calorosamente in un'intervista, ieri, a Le Monde: «Non mi sembra opportuno introdurre nelle scuole il dibattito sul matrimonio per tutti — osserva —. L' insegnamento cattolico, che è sotto contratto con lo Stato, deve rispettare il principio di neutralità e di libertà di coscienza di ciascuno».
Il presidente François Hollande si è schierato con il suo ministro: «La laicità è uno dei principi della Repubblica. E ognuno deve difenderlo. La laicità è il rispetto delle coscienze. Dobbiamo fare in modo che tutte le sensibilità siano rispettate, che tutte le religioni possano essere praticate. Ma allo stesso tempo c'è una regola che si chiama "la vita comune" e c'è un principio che si chiama "la neutralità dello Stato", nelle scuole dell'insegnamento convenzionato, come nelle scuole del servizio pubblico».

Repubblica 6.1.13
Il compagno Dio
Il sacro patto tra Patriarca e nuovo Zar
Il Cremlino e la Chiesa Il Presidente e il Patriarca La Fede e il Potere
Ecco come è rinata la Santa Madre Russia
di Nicola Lombardozzi


Vent´anni dopo la fine dell´Urss, le parrocchie sono triplicate, i battezzati sono l´ottanta per cento e i seminari sono pieni. La Chiesa ortodossa celebra domani il suo miglior Natale ringraziando la deriva mistica di Putin e la nuova alleanza di potere

MOSCA Le Pussy Riot lo hanno scoperto da poco pagandolo sulla loro pelle. Ma i primi a saperlo furono i pastorelli di Fatima già nel 1917, proprio alla vigilia della Rivoluzione d´Ottobre: «La Russia si convertirà e si consacrerà al cuore immacolato di Maria». Quelle parole attribuite alla Madonna, sarebbero diventate il sogno proibito di milioni di cristiani negli anni dell´ateismo di Stato in Unione Sovietica, della persecuzione dei fedeli, quando le chiese venivano trasformate in caserme e le cattedrali venivano fatte saltare in aria con la dinamite. Adesso la profezia sembra essersi avverata. Mosca pare tornare all´antico sogno zarista della "Terza Roma" che si erge a baluardo della tradizione cristiana nel mondo. Tanto che perfino tra molti credenti, serpeggia il sospetto che si sia passati da un eccesso all´altro. Il nuovo Zar, Vladimir Putin, ostenta il crocifisso al collo. Racconta di aver dovuto nascondere di essere stato battezzato pur di far carriera nel Kgb.
Si fa sorprendere dalle troupe televisive di Stato mentre prega in solitudine nelle chiese di campagna. Fa sapere di essere stato salvato da un miracolo durante un incendio di tanti anni fa. Si confessa appena può da un giovane sacerdote che ha eletto a consigliere spirituale e che vive in un monastero sopravvissuto proprio accanto alla Casa delle Fucilazioni, quella in cui negli anni del Terrore staliniano si emettevano e si eseguivano in poche ore sentenze di morte in serie per dissidenti, religiosi e "nemici del popolo" di ogni specie. Per la sua terza incoronazione a Presidente di Russia, nel maggio scorso, il Patriarca Kirill in persona è andato al Cremlino per celebrargli a domicilio un Moleben, il rito beneagurante di "impetrazione delle grazie", concluso con parole entusiastiche per «la sua capacità di sentire la voce della gente». E visti insieme, Patriarca e Presidente, sembravano il simbolo della nuova Russia che unisce la dottrina della "democrazia autoritaria", tanto cara a Putin, al potere sempre più solido e ramificato della Chiesa ortodossa nei meccanismi dello Stato.
Il fenomeno è evidente e di dimensioni sorprendenti. A vent´anni dalla fine dell´Urss, l´80 per cento della popolazione è ufficialmente battezzata. Le parrocchie ortodosse sono passate da poco più di diecimila a trentunmila. I monasteri, che erano ridotti a poche derelitte decine, sono 805 e in ottime condizioni economiche. In più sorgono dappertutto accademie teologiche, seminari e scuole religiose per assecondare un "boom" delle vocazioni che non ha altri riscontri da nessuna parte del Pianeta. All´inizio del 2012 una esposizione di reliquie nella Cattedrale di Cristo Salvatore, ricostruita ex novo dopo la demolizione voluta da Stalin, ha registrato code interminabili di fedeli nella neve, intasamento di stazioni e metropolitane per l´afflusso di pellegrini da tutta la Russia, e scene di entusiasmo che hanno lasciato di stucco cronisti e forze di sicurezza. A sorprendere più di tutto è la partecipazione massiccia di giovanissimi che sono gli stessi che in maggioranza frequentano le chiese dalle cupole d´oro che rinascono a ritmo serrato in ogni parte del Paese.
Segnali che avrebbero dovuto mettere in guardia le Pussy Riot sul nuovo clima che si respira nella Russia di Putin. E che ha tante spiegazioni. La prima è il grande bisogno di spiritualità dopo anni di impero ateo che aveva proibito ogni culto. Le altre stanno nella coincidenza di interessi tra Stato e Chiesa. Putin sa bene che la spiritualità e la fede sono un collante indispensabile per tenere unito un Paese sterminato e pieno di problemi. Il Patriarca cavalca il legittimo desiderio di rivalsa del clero dopo decenni di vessazioni, espropri, deportazioni e cerca di consolidare sempre più l´autorità della Chiesa ortodossa anche sconfinando nelle competenze dello Stato. I risultati si vedono: la Russia ha riscoperto dopo oltre un secolo l´ora di religione nelle scuole affidata a insegnanti sacerdoti; ha ottenuto il ritorno della figura del cappellano militare nell’esercito; grande spazio nella tv di Stato dove lo stesso Patriarca appare settimanalmente per interventi su argomenti di ogni genere; e pure un canale tutto suo pagato dal governo. La vicenda delle Pussy Riot è perfetta per spiegare la straordinaria sinergia naturale che si è prodotta tra i due poteri. Le ragazze in passamontagna e minigonna che nel marzo scorso avevano cantato una canzoncina anti Putin sull´altare della cattedrale di Mosca non rappresentavano niente di particolare per la polizia preoccupata in quei giorni dalle mastodontiche proteste di piazza al grido di «Governo di ladri e truffatori». Snobbate perfino dai più popolari e seriosi leader della protesta, erano state classificate a rango di "teppiste di strada" da allontanare con qualche vaga minaccia e senza troppe perdite di tempo. A creare il caso diventato internazionale è stato proprio il Patriarca in persona che ha deciso di entrare pesantemente in scena evocando «punizioni esemplari per educare i giovani agli antichi valori perduti». E chiedendo, dietro le quinte, che le ragazze fossero ricercate, catturate e sottoposte a un processo che servisse da lezione a loro e a tutti i giovani ribelli di Russia.
Costretto ad assecondare Kirill, Putin ha subito di malavoglia il disastro di immagine prodotto nel mondo dall´accanimento ottuso contro tre ragazze sostanzialmente innocue. Ma gradualmente ha capito che la cosa, tutto sommato, tornava a suo favore. Incredibilmente, nonostante un generale crollo della sua popolarità, ha visto che, sull´onda dell´indignazione del Patriarca, la stragrande maggioranza dei russi gli dava ragione nella persecuzione delle Pussy Riot. Perfino gli oppositori di piazza si sono divisi sul gesto delle tre ragazze ribelli considerandolo in gran parte un´offesa ai fedeli. E così la posizione ufficiale del Presidente è mutata definitivamente quando ha realizzato come la Chiesa sia importantissima per continuare la sua politica di repressione del dissenso dividendo le responsabilità pubbliche. Seguite l´escalation delle sue dichiarazioni. Dapprima distratto («Non so chi siano»), poi bonario («C´è un po´ di esagerazione in giro!») e alla fine deciso e severo: «Due anni di carcere? Hanno avuto quel che si meritano». E, nel corso di questa trasformazione altri passi, meno visibili ma assai più concreti, sono stato compiuti a favore della Chiesa.
Un gruppo di fedelissimi ortodossi è riuscito a far passare nella città di San Pietroburgo una legge che vieta ogni "propaganda omosessuale"? La prima reazione dello staff di Putin era stata laica e politicamente sensata: fare pressioni per revocare una legge ambigua e medievale per cui è reato anche dire in pubblico una cosa tipo «anche i gay sono esseri umani». Ma dopo una lenta opera di convincimento da parte del Patriarca e una serie di segreti colloqui nella stanze del Cremlino, la legge "medievale" di San Pietroburgo è diventata "sperimentale" nel senso che si dovrà addirittura valutare se estenderla a tutto il territorio nazionale. Per non parlare del diritto all´aborto, caposaldo della cultura sovietica, ma adesso improvvisamente a rischio. Nella sua disperata campagna contro il declino demografico che svuota un paese immenso dove la popolazione si concentra però solo in poche città, Putin comincia a studiare, se non proprio il divieto d´aborto, una serie di restrizioni che la Chiesa pregusta con soddisfazione. Perfino il divorzio, ritenuto intoccabile anche da un´altissima percentuale di credenti, comincia a entrare nel mirino di una Chiesa che sogna di «porre fine allo sgretolamento degli ideali della famiglia».
Il risultato è che il clero ringrazia entusiasta un governo mai così attento alle sue richieste. Parroci, alti prelati, preti di campagna si schierano sempre di più a favore del governo in carica e di Vladimir Putin come protettore della fede. E ne sono ricambiati con concessioni materiali a cui il Patriarca Kirill sembra dare la stessa importanza degli obiettivi spirituali: sconti ed esenzioni sulle tasse, autorizzazione a commerci sempre più vasti e incontrollati, gestione di immensi patrimoni immobiliari. E può capitare che un vescovo venga immortalato dalle telecamere del telegiornale mentre si inginocchia a baciare la mano del Nuovo Zar. O che un parroco di una delle chiese più frequentate di Mosca faccia affiggere davanti all´altare un cartello che invita i fedeli a difendere i luoghi sacri «dal teppismo dei contestatori seguaci delle Pussy Riot». Seguono le istruzioni sui metodi da usare: «Con la persuasione, con la denuncia alle forze dell´ordine. E, nel caso, anche spaccando loro le ossa». Potrebbe sembrare non molto cristiano, ma funziona nella Russia del 2013 dove lo zar governa in nome di Dio, con il crocifisso sotto alla cravatta.

Repubblica 6.1.13
Da Pietro il Grande a Stalin il grande silenzio di Dio
di Mikhail Ardov


La parola "sinfonia" non indica solo un genere musicale, ma anche la convivenza reciprocamente vantaggiosa dello Stato e della religione cristiana, più esattamente l´alleanza di Impero e Chiesa. Il concetto di "sinfonia" in questa accezione del termine venne formulato nel Sesto secolo dall´imperatore Giustiniano. Ovviamente una perfetta armonia non è mai esistita nella realtà, ma le monarchie che si dichiaravano cristiane erano alleate della Chiesa. Il cristianesimo è una religione molto elevata, e Gesù Cristo diceva che solo pochi potevano essere suoi veri discepoli. In particolare definiva i Suoi seguaci «piccolo gregge» (Lu 12: 32) e affermava: «Stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7: 14). E tuttavia il periodo cristiano nella vita dei paesi europei è stato piuttosto lungo. Ciò si spiega col fatto che nei secoli antichi esistevano monarchi devoti, che sapevano circondarsi di persone adatte.
E la plebe aspira sempre a imitare i suoi governanti. Anche quando quelli che ora si chiamano "élite" hanno voltato le spalle alla Chiesa, il popolo ha seguito il loro esempio. Ma torniamo alla "sinfonia", che in Russia ha avuto un´esistenza particolarmente lunga, ma comunque destinata a finire. Il primo chiodo nella bara dell´Impero russo e della Chiesa ortodossa fu piantato dall´imperatore Pietro il Grande. A suo tempo egli era stato in Inghilterra, dove il re è considerato anche capo della Chiesa. Questa pratica era piaciuta all´autocrate russo, che, tornato in patria, abolì il Patriarcato: da quel momento la Chiesa fu governata da un funzionario nominato dallo zar. L´ortodossia si trasformò in una sorta di "dicastero degli affari religiosi" all´interno del sistema statale.
Nel Diciannovesimo secolo i cristiani più intelligenti e perspicaci previdero la catastrofe confessionale e nazionale che si sarebbe abbattuta sulla Russia. Voglio qui riportare una di quelle profezie. Si tratta delle parole pronunciate nel 1885 dall´Arcivescovo Amvrosij (Kljuchkarev) di Khar´kov: «Si può non solo intravedere, ma anche determinare esattamente quando verrà l´ora della definitiva degradazione morale, e poi anche della decadenza del nostro grande popolo. Sarà quando nel popolo il numero dei buoni cristiani che restano fedeli alle usanze cristiane sarà superato e schiacciato dal numero delle persone che una cultura menzognera avrà distolto da quelle usanze a favore di nuovi costumi pagani».
Fu proprio ciò che accadde nel 1917, dopo la morte di un enorme numero di credenti e sudditi fedeli sui fronti della Prima guerra mondiale. La monarchia cadde, e il governo provvisorio che l´aveva sostituita fu rovesciato dai bolscevichi. I nuovi signori della Russia si posero come obiettivo non solo l´eliminazione della Chiesa in quanto tale, ma anche «il totale sradicamento dei pregiudizi religiosi» (Programma del Partito comunista russo dei bolscevichi, 1919). Alla fine degli anni Venti i bolscevichi proclamarono «il piano quinquennale antireligioso», una campagna che si prefiggeva il totale annientamento della Chiesa.
Ma la guerra scoppiata fra la Germania e l´Unione Sovietica introdusse dei cambiamenti nella politica di Mosca. Stalin decise di istituire una sua chiesa "addomesticata", sotto il controllo del Kgb. A questo scopo nel settembre del 1943 convocò al Cremlino i tre metropoliti e li incaricò di eleggere immediatamente un patriarca.
Da tempo è stato osservato che il partito bolscevico rappresentava una parodia satanica della Chiesa. Ma pochi si rendono conto che le affinità non finiscono qui. Il Patriarcato di Mosca veniva creato dai bolscevichi "a immagine e somiglianza" del loro stesso partito. La coesistenza della tirannia sovietica con il Patriarcato istituito da Stalin durò fino al 1991, quando all´improvviso i comunisti abbandonarono la scena politica. In quei giorni la gerarchia moscovita si sentì come un cane che ha perso il suo padrone. Tuttavia, guardandosi intorno, gli ecclesiastici si accorsero che i comunisti non erano affatto spariti, ma avevano solo cambiato nome: ora si chiamavano "democratici" e non volevano più sradicare la religione, ma incoraggiarla.
Ed ecco si riaprono chiese e monasteri, si incentiva la beneficenza… Ingenuamente si potrebbe immaginare che in Russia sia rinata la "sinfonia", ma, ahimè, non è così. Gli zar russi, con tutti i loro difetti, erano credenti, mentre i nostri attuali governanti credono solo nel potere del denaro, e la loro presunta religiosità è solo un mezzo per darsi un´immagine patriottica. Insomma, la "sinfonia" non è rinata affatto, ma è diventata stonata, trasformandosi in una partnership d´affari fra quello che si può definire il governo dei malversatori e un Patriarcato di Mosca ancora una volta servile.
Traduzione Emanuela Guercetti
L´autore è sacerdote e scrittore entrato in contrasto con la Chiesa ortodossa denunciandone la posizione sempre più politica

La Stampa 6.1.13
Cresce il peso di Ganswein in Vaticano, in maniera diametralmente opposta alla sua visibilità
Don Georg sempre più eminenza grigia
Il Papa consacra vescovo il suo segretario: sarà Prefetto della Casa Pontificia
Anche Monti oggi sarà alla cerimonia
Don Georg sempre al fianco del Pontefice
Buoni i suoi rapporti con il governo Monti e il vice segretario di Palazzo Chigi, Toniato
di Andrea Tornielli


Questa mattina in San Pietro, Benedetto XVI consacra vescovo il suo segretario particolare, don Georg Gänswein, 56 anni, nuovo Prefetto della Casa Pontificia. Una nomina senza precedenti, quella di don Georg, che ora regolerà anche le udienze ufficiali continuando ad essere l’uomo-ombra del Papa. La promozione arcivescovile arriva dodici mesi dopo l’inizio di Vatileaks: un evidente riconoscimento e un attestato di stima per il lavoro svolto ma anche una conseguenza dello scandalo che ha sconvolto il Vaticano.
Il nuovo Prefetto ha un sito web dedicato a lui, http: // www.georgganswein.com/, e dal 2005, quando è finito sotto i riflettori come segretario del nuovo Pontefice, i rotocalchi non gli hanno dato tregua, paragonandolo a George Clooney. Rimase famoso l’apprezzamento espresso nei suoi confronti dalla signora Franca Ciampi, durante la prima visita di Ratzinger al Quirinale. Intervistato da Radio Vaticana per i suoi cinquant’anni, don Georg, a proposito dei commenti sulla sua bellezza, disse: «Ho fatto finta di non sentire e con il tempo mi ci sono abituato». E rivelò anche di «aver avuto un rapporto sereno e anche molto naturale con le donne». Con il passare degli anni e il venir meno del pettegolezzo su «Georg il bello», si è ritagliato un ruolo sempre più decisivo a fianco del Papa, con un’influenza inversamente proporzionale al suo apparire.
Nato il 30 luglio 1956 in Germania a Reidern am Wald, nella regione della Foresta Nera, Gänswein è il maggiore di cinque figli. Prima di entrare in seminario aveva ottenuto la licenza di pilota e per un breve periodo aveva fatto anche il postino. Da sempre appassionato di sport, ottimo tennista, è stato anche maestro di sci. Ancora oggi, capita che il martedì si prenda la giornata libera e con gli amici si conceda qualche sciata al Terminillo. Ordinato prete nell’arcidiocesi di Friburgo nel 1984 è stato chiamato a Roma e nel 1996 ha preso servizio all’ex Sant’Uffizio conquistandosi la fama di sacerdote severo nelle questioni di fede. Nel 2003, poco prima di diventare Papa, Ratzinger lo ha scelto come suo segretario. Negli ultimi anni, Gänswein ha curato testi dedicati al pontificato, ha scritto prefazioni per diversi volumi e anche per libri di fiabe ispirate alla figura di Benedetto XVI.
All’interno dei sacri palazzi tra i suoi amici ci sono il sottosegretario ai rapporti con gli Stati, Ettore Balestrero, ed è sempre molto saldo anche il rapporto con il capo della Gendarmeria vaticana Domenico Giani. Attento al mondo tradizionalista, a suo agio anche negli ambienti della nobiltà papalina - è nota la sua amicizia con la principessa Alessandra Borghese - don Georg ha coltivato, com’è naturale, anche relazioni nell’ambito politico. Nell’ultimo anno, con l’avvento del governo Monti, l’influenza di Gänswein si è rafforzata, grazie al rapporto che lega il segretario del Papa a Federico Toniato, il vice segretario di Palazzo Chigi ora impegnato nella creazione della nuova lista civica del professore. La conoscenza tra i due risale a prima dell’elezione di Ratzinger, quando il cardinale pubblicò un libro con l’allora presidente del Senato Marcello Pera, e Toniato era incaricato di far rivedere le bozze al futuro Papa. Un legame che può aver influito nel cosiddetto «endorsement» vaticano in favore del premier.
La diffusione delle carte sottratte dalla segreteria papale è stata un duro colpo per don Georg, che per anni ha lavorato a fianco del maggiordomo Paolo Gabriele. Nonostante le difficoltà e qualche nemico interno ai sacri palazzi, Gänswein ha avuto la meglio ed è uscito rafforzato da Vatileaks. E il gesto del Papa di nominarlo Prefetto della Casa Pontificia attesta la stima e la considerazione di Ratzinger nel suo segretario, che qualche tempo fa ha paragonato il suo ruolo a quello di un vetro: «Debbo lasciare entrare il sole, e il vetro meno appare meglio è, se non si vede proprio vuol dire che svolge bene il suo lavoro».

l’Unità 6.1.13
La lezione di Rita, la scienziata che rifiutò la torre d’avorio
di Pietro Greco


Guardare sempre al futuro. E non chiudersi mai nella torre d’avorio, ma impegnarsi nella società, con un progetto politico preciso. Nel corso della sua lunga vita Rita Levi Montalcini ha regalato a noi tutti, ma soprattutto ai giovani ricercatori, molti insegnamenti.
Ma sono questi i due lo sguardo rivolto al domani e l’impegno civile, sociale e politico per costruire un futuro desiderabile che, a una settimana dalla sua scomparsa, conviene ricordare. Dove il verbo convenire non indica un imperativo del politically correct, dettato dalla commozione per la sua morte, che pure c’è. Ma indica proprio un guadagno, per noi tutti e, in particolare, per i giovani ricercatori.
Rita Levi Montalcini è stata una scienziata che ha vissuto costantemente fuori dalla torre d’avorio, sia pure con quella elegante leggerezza che era frutto di un carattere umile e di un’educazione rigorosa. Si è impegnata non solo per la ricerca, per i giovani, per le donne, per i giovani e le donne dei Paesi in via di sviluppo, per la diffusione della cultura scientifica. Ma anche in battaglie politiche durissime, senza tentennamenti, anche quando è stata fatta oggetto di vergognose campagne di dileggio.
Questo suo vivere costantemente fuori dalla torre d’avorio, entro cui pure avrebbe potuto comodamente rifugiarsi, non l’ha distolta dalla sua attività di ricerca. La scienziata non è stata distratta dalla politica. Al contrario, la sua attività di ricerca è stata rafforzata dal suo impegno civile e sociale.
In ciò, Rita Levi Montalcini non rappresenta affatto un’eccezione. Anzi, è quasi una regola: tutti i grandi scienziati hanno avuto (e hanno) uno straordinario impegno nella società. Per questo il suo esempio rappresenta un autentico insegnamento per i giovani ricercatori. Non rinchiudetevi nei laboratori. Portate fuori le vostre capacità. Ne guadagnerà la società. E ne guadagnerà la scienza.
Gli esempi che corroborano queste affermazioni, in apparenza ardite, davvero non mancano. Tra i più significativi ci sono quelli di tre fra i più grandi uomini di scienza di ogni tempo: Albert Einstein, Galileo Galilei e Charles Darwin.
Il grande fisico tedesco ha sempre rifiutato di vivere nella torre d’avorio, anche quando – a partire dal 1919, anno della conferma empirica della sua teoria della relatività generale – divenne uno degli uomini più famosi del pianeta. Addirittura l’icona della scienza e il personaggio più rappresentativo del XX secolo. Ebbene in quei medesimi mesi Einstein era impegnato non solo nella ricerca di una teoria fisica ancora più generale, ma anche in un progetto politico piuttosto ambizioso: affermare la pace nel mondo. Proponendosi come un vero e proprio pacifista militante. Un attivo propagandista del disarmo. Guardato con sospetto dai servizi segreti di ogni parte del mondo: nella Germania che diverrà nazista, nell’America democratica che lo accoglierà, nell’Unione Sovietica comunista. E assurto a bandiera dei movimenti per la pace di tutto il mondo. Tuttora il testo scritto nel 1955 con Bertrand Russell – intriso di un umanesimo senza confini – è considerato «il» manifesto per il disarmo nucleare, capace di influenzare il pensiero e le azioni anche di uomini di governo al più alto livello, come ha riconosciuto Michail Gorbaciov.
Quanto ad ambizione non era da meno quello che si propose Galileo Galilei tra la fine del 1610 e l’inizio del 1611, all’indomani della pubblicazione del Sidereus Nuncius che, in pochi mesi, lo aveva reso l’uomo probabilmente più famoso d’Europa e appena dopo essere riuscito a costruirsi una comoda «torre d’avorio», facendosi nominare «primario filosofo e matematico» del granduca di Toscana, Cosimo II. Non esitò, Galileo, a uscire fuori da quella comoda e ben remunerata torre per portare a termine un progetto che, giustamente, Ludovico Geymonat ha definito «ardito»: convertire la Chiesa alla visione copernicana del mondo e, più in generale, sgombrare il campo dagli ostacoli che ponevano in rotta di collisione la fede con la «nuova scienza». Il mondo cattolico con la modernità. Galileo si è battuto per oltre trent’anni nel tentativo di portare a termine il suo «ardito progetto». Senza successo. Ma creando le premesse per un riconoscimento sempre più universale dell’autonomia della scienza.
Forse ancora più eclatante è la vicenda di Charles Darwin, come hanno di recente dimostrato due dei suoi più informati biografi, Adrian Desmond e James Moore, in un libro, La sacra causa di Darwin, da poco pubblicato in italiano presso l’editore Raffaello Cortina. Il naturalista inglese, nato il 12 febbraio 1809, lo stesso giorno in cui è venuto al mondo Abraham Lincoln, era un antischiavista convinto. Appartenente a una famiglia che aveva fatto della lotta alla schiavitù il proprio faro. Sia il nonno paterno, Erasmus Darwin, medico e poeta, sia il nonno materno, Josiah Wedgwood, esponente della nuova ed emergente classe degli industriali manifatturieri, erano infatti antischiavisti militanti. Ebbene, la sua «sacra causa», la lotta alla schiavitù, non solo non ha ostacolato la ricerca scientifica di Darwin, ma anzi è stata la leva che ha spinto l’inglese a cercare la cause dell’origine (comune) delle specie e a formulare la teoria dell’evoluzione biologica che taglia alla base ogni concetto di razza e di gerarchia tra le razze. Eccolo, dunque, il messaggio di Rita. Giovani ricercatori, non illudetevi di poter costruire le vostre carriere nel chiuso dei laboratori. Ma uscite fuori e costruite il vostro futuro. E il futuro di noi tutti.

Corriere Salute 6.1.13
L'intreccio nella Vienna di fine '800 fra inconscio, anatomia e arte
di Danilo Di Diodoro


Scrittrice e critica d'arte, figlia dell'editore del più autorevole giornale liberale di Vienna, Berta Szeps, meglio conosciuta come Berta Zuckerkandl dopo aver sposato l'anatomista Emil Zuckerkandl, si è trovata al centro di uno straordinario incrocio di scienza, arte e letteratura. Dal 1886, anno del suo matrimonio, fino al 1938, quando fuggì in Francia, il suo salotto viennese fu un crocevia di personalità straordinarie e di discipline che si incontravano e si fecondavano a vicenda. Freud e la sua psicoanalisi nascente, Johann Strauss e i suoi valzer, Arthur Schnitzler e i suoi romanzi, Klimt e i suoi quadri luminosi e straordinariamente innovativi, e poi anatomisti, chirurghi, psichiatri, biologi, giornalisti, tutti a discutere e a scambiarsi idee nel salotto di Berta, spesso invitati a una Jause, tipico appuntamento pomeridiano viennese a base di caffè e pasticcini. «Sul mio divano l'Austria si anima» scriveva Berta.
Suo marito entrò a pieno titolo in quel fecondo connubio tra arte e scienza. Era uno scienziato di origini ungheresi e avrebbe dato importanti contributi alla conoscenza dell'anatomia del naso e della faccia, degli organi dell'udito e del cervello, associando anche il suo nome alla scoperta dei corpi di Zuckerkandl del sistema nervoso e del giro di Zuckerkandl, un sottile strato di materia grigia nella parte frontale del cervello. Direttore della Scuola di medicina di Vienna, coinvolse Klimt nelle dissezioni di cadaveri che faceva nel suo istituto, e fu lì che il pittore apprese gran parte di quelle conoscenze anatomiche che avrebbe sfruttato nei suoi quadri. A sua volta Klimt lo convinse a tenere una serie di lezioni di biologia e anatomia destinate ad artisti suoi amici. Kandel racconta che nella sua autobiografia Berta descrive una di queste lezioni, nella quale Emil sorprese gli artisti con qualcosa che addirittura superava le loro stesse fantasie creative: «Oscurata la stanza, proiettò con la lanterna magica campioni istologici colorati che rivelavano il mondo interno delle cellule, spiegando ai presenti che grazie a una goccia di sangue, a un minuscolo pezzo di materia cerebrale sarebbero stati trasportati in un mondo favoloso».
La storia dello straordinario salotto intellettuale di Berta è descritta nel libro L'età dell'inconscio del premio Nobel Eric Kandel (Raffaello Cortina 2012, traduzione italiana del libro The Age of Insight), che spazia dalla neurobiologia all'arte, all'esplorazione dei meccanismi psicologici della creatività. Al contrario di quanto avveniva a inizio Novecento in altre grandi città come Londra, Berlino, Parigi e New York, dove le élite intellettuali vivevano ciascuna all'interno della propria comunità, letterati con letterati, scienziati con scienziati, a Vienna c'era una feconda mescolanza, che iniziava già da tempi della scuola, tra arte, letteratura e scienza. A favorire l'incontro era anche un elemento urbanistico, dal momento che Vienna aveva una sola università principale, che oltretutto era molto vicina all'ospedale generale. E lì attorno c'erano caffè nei quali si svolgeva un'intensa vita intellettuale, come il Cafe Griensteidl o il Cafe Central. Situazione ideale tanto che, come scrive Kandel, «i filosofi del Circolo di Vienna parlavano della possibilità di unificare dapprima le scienze e poi le arti e le scienze attraverso una grammatica comune». Il ruolo di Berta e del suo straordinario salotto non si esaurivano però nel fornire l'occasione di incontro agli intellettuali viennesi. Lei stessa era fortemente incuriosita dalla biologia, e al contempo aveva importanti competenze artistiche e letterarie, che la spingevano a giocare un ruolo attivo, sostenendo gli artisti e gli scrittori nei quali credeva. Klimt cominciò a vendere quadri proprio con il suo aiuto e un cognato di Berta acquistò la Pallade Atena e altri importanti lavori di quello che allora non era ancora il grande pittore dei quadri dorati e decoratissimi, famoso e riconosciuto a livello internazionale.
Anche la sorella di Berta, Sofie, era amica di importanti artisti, come lo scultore Rodin. Fu Emil Zuckerkandl a introdurre Klimt ai concetti dell'evoluzione darwiniana, e proprio grazie a questa nuova concezione il pittore iniziò la serie di ritratti di nudi femminili che appartengono a una sorta di visione naturalistica post darwiniana. Klimt dipinge corpi nudi come se fossero corpi di una qualsiasi specie biologica, non diversa da quella di un qualunque altro organismo, e quindi rappresentabile nella sua pura e semplice nudità. A quel tempo i biologi erano convinti che lo sviluppo dell'embrione umano seguisse lo stesso percorso dell'evoluzione che aveva portato l'uomo a progredire dagli stati primordiali della vita fino alla complessità attuale del suo organismo: il biologo tedesco Ernst Haeckel era convinto che gli embrioni umani possedessero branchie e coda, reminiscenza delle forme di vita acquatiche. L'influsso di queste idee innovative che si sviluppavano in biologia è evidente, ad esempio, nel dipinto intitolato Speranza I, una donna incinta che Klimt presenta sotto una particolare luce naturalistica, che all'epoca era del tutto rivoluzionaria. L'influenza delle discipline biologiche sull'opera di Klimt raggiunse forse la sua massima trasparenza nell'opera Danae, realizzata tra il 1907 e il 1908: nella parte sinistra della tela si vede arrivare dall'alto una specie di pioggia dorata che simboleggia lo sperma di Zeus, mentre nella parte destra si vedono forme che rappresentano embrioni iniziali, e simboleggiano quindi il concepimento.

L’epopea culturale della Vienna a cavallo degli ultimi due secoli è descritto dal libro L'età dell'inconscio del premio Nobel Eric Kandel (Raffaello Cortina 2012)

Corriere Salute 6.1.13
«Doppio sogno» venne scritto da un medico


Monologhi interiori, interesse per il sogno e per la sessualità: erano i temi che univano due grandi viennesi contemporanei: Sigmund Freud e Arthur Schnitzler, inventore della psicoanalisi il primo, scrittore di teatro, racconti e romanzi il secondo. Ma Schnitzler era in realtà medico e aveva studiato con Emil Zuckerkandl, oltre a essere stato influenzato, come Freud, dagli psichiatri Meynert e Von Krafft-Ebling. Era interessato, come Freud, a isteria e nevrastenia. Kandel nel suo libro cita una lettera in cui Freud scrive a Schnitzler: «È sorta in me l'impressione che Lei conosca intuitivamente (in realtà in seguito a una fine auto osservazione) tutto quello che io ho scoperto negli altri grazie a un faticoso lavoro. Credo che lei sia soprattutto un esploratore in profondità». Schnitzler era affascinato da ipnosi e sogni e fu molto influenzato dal libro «L'Interpretazione dei sogni» di Freud, come è evidente da uno dei suoi romanzi più famosi, «Doppio sogno», dal quale è stato tratto il film Eyes Wide Shut. Nel romanzo realtà e dimensione onirica si fondono, mescolandosi con vivi temi sessuali. «Tra i due esploratori dell'inconscio» scrive ancora Kandel, «Schnitzler si sarebbe dimostrato il migliore "psicologo del profondo"
delle donne».

Corriere Salute 6.1.13
La nascita della «medicina scientifica» influenzò letteratura e pittura


Era il centro di quella che si stava definendo come una nuova medicina scientifica, la «Mecca della medicina», come la definì Rudolf Virchow, padre della patologia cellulare. L'ospedale di Vienna nella seconda metà dell'Ottocento era al tempo stesso un moderno istituto di cura e un fulcro di ricerca e innovazione. Passaggio fondamentale fu la nomina a direttore della Scuola di medicina, nel 1844, di Carl von Rokitansky, che nei trent'anni successivi avrebbe sviluppato la relazione tra le osservazioni cliniche e i riscontri patologici, dando un contributo fondamentale alla medicina scientifica. Durante quel periodo, ogni paziente che moriva in ospedale veniva sottoposto ad autopsia, per cercare di correlare i sintomi con le lesioni nei suoi organi. Furono effettuate circa 60 mila autopsie che diedero risposte importanti sull'anatomia patologica, a riscontro delle diagnosi fatte da Josef Skoda, allievo di Rokitansky, dotato di spiccate doti naturali per la diagnosi clinica e di un grande interesse per la semeiologia. Esperto di cardiologia, effettuò studi dettagliati sui soffi e sui suoni cardiaci. Racconta Kandel nel suo libro: «Per comprendere meglio le basi fisiche dei suoni cardiaci, Skoda compì esperimenti sui cadaveri. Fu quindi in grado di distinguere per la prima volta i suoni normali provocati dall'apertura e dalla chiusura delle valvole cardiache dai soffi causati dal cattivo funzionamento delle valvole. In questo modo Skoda divenne non solo esperto dei suoni cardiaci, ma anche abile interprete del loro significato, stabilendo i criteri per la pratica medica corrente». La fama della scuola medica viennese attirò studenti da molte città europee e americane.
Dice ancora Kandel: «Rokitansky riteneva che, per scoprire la verità, si dovesse guardare al di sotto della superficie delle cose. Questa idea si estese alla neurologia, alla psichiatria, alla psicoanalisi e alla letteratura attraverso Theodor Meynert e Richard von Krafft-Ebing, i quali a loro volta influenzarono Josef Breuer, Sigmund Freud e Arthur Schnitzler».
E questa idea di andare oltre la superficie delle cose sarebbe poi stata travasata anche nell'arte, arrivando, attraverso Emil Zuckerkandl, a Klimt e agli espressionisti viennesi.

l’Unità 6.1.13
La storia come faro delle nostre origini
di Bruno Bongiovanni


CHE ORIGINI HA UNA BUONA PARTE DEL PARTITO CUI FACCIAMO RIFERIMENTO e che con grande speranza ci auguriamo che si affermi nelle prossime elezioni? Quante origini ha avuto? Non c’è alcun dubbio che il Bersani 2013 sia lontanissimo dal Bordiga 1921, ancor più di quanto lo Spadolini 1994 fosse lontano dal Mazzini 1872. Le carte erano state rimescolate a partire dal 1953, anno in cui Tasca, su Il Mondo, aveva tracciato in più articoli la vicenda della nascita e delle prime virate.
Stalin era peraltro morto il 5 marzo. Nei mesi successivi, la ricostruzione, allora agiografica, e assai spesso manipolata, della storia del Pci, diffusa secondo una ben confezionata liturgia soprattutto dal Quaderno di Rinascita del 1952 (n. 2, aprile), che si fregiava del titolo celebrativo Trenta anni di vita e di lotte del Pci, cominciò a subire l’urto indilazionabile ed esogeno proveniente cioè da fuori del partito della memoria riconquistata, del tempo ritrovato e della ricerca storiografica attivata. Il gruppo dirigente del Pci aveva d’altronde potuto giovarsi, sino ad allora, del distacco provocato dall’interludio fascista che aveva oscurato il passato. Si tendeva a rimuovere addirittura la pur vicina e oltremodo imbarazzante alleanza nazi-sovietica del 1939-’41. A maggior ragione si disperdeva nel passato remoto quel che era avvenuto a Livorno nel più lontano 1921. Una nuova vicenda era comparsa a Stalingrado nel 1942-’43, cesura decisiva che aveva spalancato il futuro e ridisegnato il passato. I giovani partigiani che nel fuoco della Resistenza erano entrati nel Pci nulla del resto sapevano dei ventuno punti dell’Internazionale comunista che avevano diviso nel 1920 un’intera generazione di socialisti. Ora soprattutto Stalingrado, e con essa la netta sconfitta di Hitler, contava. Ma prima c’erano state varie rifondazioni e dopo ce ne sarebbero state ancora altre. L’equilibrata presidenza di Napolitano ha rappresentato l’ultima virata, mai e poi mai faziosa.

Corriere La Lettura 6.1.13
Il gene politico
Così ormoni e proteine possono determinare le nostre convinzioni
di Giuseppe Remuzzi


E se il nostro credo politico dipendesse dai geni? Sì, avete letto bene. Le nostre idee su welfare, immigrazione, matrimoni gay e persino se si debba spendere molto o poco in armamenti: questo e molto altro potrebbe dipendere dai geni (e anche da certi ormoni e dalle proteine che regolano la trasmissione dei segnali fra cellule nervose). «La gente di solito va orgogliosa delle proprie convinzioni politiche», ha dichiarato in questi giorni a «Nature» John Hibbing, docente di Scienze politiche nel Nebraska. «Ciascuno di noi pensa che il suo modo di vedere le cose sia quello giusto; chi la pensa in un altro modo di solito sbaglia, non capisce, non si aggiorna». Secondo Hibbing invece dovremmo tutti essere meno chutzpah (la traduzione giusta non c'è, potrebbe essere «spudorati»): «Ciascuno dovrebbe capire che le cose della politica un altro le può vedere in modo diverso da te, non perché sia meno intelligente o meno colto, ma perché è fatto in modo diverso». Sarà vero? Forse.
Che potesse essere così l'aveva suggerito per primo Nicholas Martin, un genetista di Brisbane in Australia quasi vent'anni fa. C'era arrivato mettendo a confronto le idee politiche di gemelli identici e poi quelle di fratelli non gemelli (che condividono più o meno il 50 per cento dei geni). I risultati hanno sorpreso tutti: su aborto, pena di morte e pacifismo per esempio i gemelli identici avevano le stesse idee; i fratelli non gemelli, no. Martin aveva precorso i tempi e dei suoi studi allora non si curò nessuno. Qualche tempo fa però John Alford, che insegna Scienze politiche a Houston, ripete gli studi di Martin sui gemelli e arriva alla stessa conclusione. Per gran parte del mondo scientifico però sono solo stupidaggini. Passano un po' di anni e James Fowler dell'Università della California e Peter Hatemi, che lavora in Pennsylvania, ottengono ancora una volta gli stessi risultati su un numero molto più grande di gemelli (americani, australiani, danesi e svedesi). Queste evidenze però non scalfiscono lo scetticismo della maggior parte degli scienziati anche perché i gemelli di solito frequentano le stesse scuole, hanno gli stessi amici e tendono a passare molto tempo insieme anche da adulti. «Così — ribattono gli scettici — è davvero difficile escludere l'influenza dell'ambiente nelle idee politiche dei gemelli». Peter Hatemi non si scoraggia e va a cercare quei gemelli che frequentano scuole diverse, non hanno gli stessi amici e si frequentano poco. Di nuovo: stessi risultati. Anche quei gemelli di solito hanno le stesse idee politiche. Gli scienziati che contano non si lasciano ancora convincere: «Nessuno di questi studi ci dice quali sarebbero i geni coinvolti». E ancora: «Per sapere se davvero c'è un'associazione di causa-effetto fra un certo assetto genetico e le convinzioni politiche si dovrebbe studiare l'intero genoma». Certo, ma sono studi difficilissimi; non è come studiare una famiglia o un gruppo di individui, si tratta di studiare genomi di popolazioni e poi non è affatto detto che sia un gene solo a rendere un tale «liberal» e un altro «conservatore», è verosimile che le scelte politiche dipendano da una interazione fra geni diversi, e dal loro rapporto con ormoni e altri mediatori chimici. Invece che imbarcarsi in studi così complessi — e costosi — meglio ragionare sui processi che collegano geni e comportamenti, che poi si traducono in quello che chiamiamo personalità. E c'è una logica in questo, scrive Lizzie Buchen su «Nature»: i «liberal» sono più aperti alle novità e di solito tollerano compromessi e ambiguità più dei «conservatori». Che sono invece più legati alle tradizioni, più determinati, più coscienziosi e apprezzano più dei «liberal» il valore di ordine e organizzazione. È logico che i primi saranno a favore dei matrimoni gay o dell'immigrazione più di quanto non lo siano i «conservatori». Che invece, in nome dell'ordine, vorrebbero regolamentare l'immigrazione in modo ferreo e proteggere la propria nazione con un esercito forte. Sto semplificando, si capisce, ma per sbrogliare la matassa bisognava pur partire da qualche parte. Così Alford, Hibbing e Hatemi non mollano e dopo gli studi di personalità passano a esperimenti di fisiologia e vedono per esempio che il potenziale di eccitazione delle ghiandole sudoripare (indice, per quanto imperfetto, di certi stati emotivi) è correlato all'essere favorevole o meno alla pena capitale o alla guerra in Iraq, e che certi test visivi riescono entro certi limiti a discriminare «liberal» e «conservatori». Un esempio? Fanno vedere a un gran numero di persone immagini piacevoli (un bambino felice per esempio, un coniglietto molto carino) o disgustose (un ragno sulla faccia di un uomo, una ferita infestata dai vermi). Quelli che dicevano di essere «liberal» si soffermano di più sulle immagini positive, i «conservatori» sono colpiti soprattutto delle immagini che suscitano paura o disgusto. Si possono avere idee diverse — questi esperimenti messi tutti insieme sono suggestivi, ma non definitivi — certo, però se davvero fossero i geni a farci avere paura del diverso nessuno potrà convincerci a essere più tolleranti nei confronti degli immigrati. E vale per tanto altro. Ecco perché è piuttosto difficile che in politica la gente cambi idea, salvo che di fronte a eventi davvero traumatici. Chi era a New York l'11 settembre 2001, è andato incontro a un «conservative shift». Molti che non s'erano mai curati di patria, armamenti e religione hanno cambiato idea e sono passati dalla parte dei «conservatori». Dove porterà la coscienza dei rapporti fra biologia e convinzioni politiche? È molto difficile saperlo, si può pensare che forse un giorno qualcuno voglia sfruttare la neurobiologia per fini elettorali, chissà. Intanto per John Alford sarebbe già un bellissimo risultato se la gente cominciasse a prendere atto che geni, ormoni e certe proteine coinvolte nella comunicazione fra cellule possono davvero contribuire a orientare il nostro credo politico: «Quel giorno — dice — le conversazioni degli americani, a tavola, diventerebbero molto più interessanti e molto meno conflittuali». ( E anche quelle degli italiani, degli inglesi, dei francesi e di tutti gli altri).

Corriere La Lettura 6.1.13
Hawking e i suoi collaboratori
Anatomia dello scienziato collettivo
di Anna Meldolesi


Le gambe non possono portarlo da nessuna parte, ma la sua mente vola ai confini dello spazio-tempo. Ci piace immaginarlo così Stephen Hawking, il grande fisico paralizzato dalla sclerosi laterale amiotrofica. Come l'emblema dell'intelligenza allo stato puro. Inesorabilmente seduto e concentrato su misteri cosmici che i normodotati, persi nelle banalità della vita, non riescono a concepire. Ma Hawking è davvero questo? Lo scienziato nato l'8 gennaio del 1942, 300 anni dopo la morte di Galileo, è un angelo disincarnato piovuto sulla Terra da un buco nero?
No e poi no, risponde la sociologa Hélène Mialet, attualmente in forze all'università di Berkeley, autrice di Hawking incorporated (University of Chicago Press). Hawking muove a malapena un sopracciglio e ha perso la voce, ma un corpo ce l'ha. È una rete simbiotica, efficientissima, costituita da protesi tecnologiche e umane che gli consentono di elaborare teorie, scrivere bestseller, tenere conferenze in giro per il pianeta. Mialet ha adottato un approccio etnografico intervistando, oltre a lui, assistenti, infermiere, studenti, colleghi, giornalisti e registi che ne hanno costruito l'immagine pubblica, scultori che l'hanno ritratto, progettisti di software e hardware che hanno lavorato per lui. È questo il corpo collettivo di Hawking, e anche la sua corporation, come suggerisce il doppio senso del titolo. La sua casa di Cambridge è la più connessa del mondo: il suo computer, ad esempio, apre automaticamente la porta dell'infermiera per avvisarla che Hawking la aspetta. Gli assistenti, scelti tra i laureati più brillanti dell'ateneo, non resistono più di un anno. Sono gli occhi e i cervelli di scorta dello scienziato. Selezionano per lui la letteratura, ricevono i suoi input, sviluppano le idee, eseguono i calcoli, scrivono gli articoli scientifici. Lui chiede modifiche e approva. Firma da solo, come unico autore. Smisurata l'intelligenza, smisurato l'ego.
La speciale sedia a rotelle ha le batterie sotto e il monitor sul bracciolo. Le parole e le frasi più usate scorrono senza sosta, per essere ricombinate all'occorrenza con il movimento impercettibile di un dito. Hawking usa questo sistema meglio di chiunque altro, ma esprimersi resta una fatica: 20 parole per minuto al massimo, noi ne diciamo 150-200. Quel che scrive è predeterminato da quel che ha già scritto, e quel che fa lo fanno gli altri per lui, ma la sua caparbietà testimonia che è burattinaio più che burattino. Si è ripetutamente rifiutato di sostituire le sue parti hi tech, restando fedele ai modelli ormai superati con cui si identificava. Si è affezionato all'accento americano del suo primo sintetizzatore vocale perché consente a lui, che è inglese, di aprire le conferenze con una battuta ad effetto. Quando gli hanno installato un sintetizzatore meno metallico lo ha usato per dire: «Non è la mia voce». Disabile, molto più che abile, insuperabile.

Corriere La Lettura 6.1.13
L'investigatore Machiavelli L'edizione nazionale e un'enciclopedia
Detective story, manuali per manager, videogiochi Il segretario fiorentino brilla di nuovo in libreria
di Ranieri Polese


Teoria e pratica di un battagliero
Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469 — 1527) visse da protagonista tutte le battaglie del suo tempo. Da segretario del governo fu al servizio della Repubblica fiorentina dal 1498, dopo la condanna al rogo di Savonarola. Guidò molte missioni diplomatiche in Italia e in Europa e fu a capo delle milizie cittadine nella guerra vittoriosa contro Pisa (1509). Con il ritorno dei Medici in città, fu mandato al confino, subì carcere e torture. Amnistiato, si ritirò nel podere dell'Albergaccio in val di Pesa, dove scrisse «Il Principe» (1513) e molte opere, dai «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» alle «Istorie». Dopo un parziale recupero dei suoi incarichi politici, morì nel 1527

Cinquecento anni fa, nel 1513, dal suo ritiro in campagna nel podere dell'Albergaccio vicino a San Casciano, Niccolò Machiavelli dava notizia all'amico Francesco Vettori di «uno opuscolo De Principatibus» composto in quei mesi di ozio forzato. Perduto, l'anno prima, con il ritorno dei Medici a Firenze, il posto di segretario che aveva tenuto per 15 anni, costretto a pagare una pesantissima multa e addirittura imprigionato e torturato per il sospetto di aver preso parte a una congiura contro il cardinale Giovanni, Machiavelli è tornato libero grazie all'amnistia concessa per l'elezione di Leone X, il primo Papa Medici.
Ma l'inattività lo logora, così scrive il breve trattato che vorrebbe inviare a Giuliano de' Medici, consapevole del fatto che le sue riflessioni sull'arte di governo possono essere utili, «massime a un principe nuovo». (Morto Giuliano nel 1516, l'opera sarà dedicata a Lorenzo). Vorrebbe, scrive all'amico, poter avere di nuovo un incarico e il suo opuscolo dovrebbe provare «a questi signori Medici» la sua conoscenza delle cose della politica. Ma Il Principe, come normalmente sarà chiamato, non gli servì. Machiavelli non avrà più nessun posto nel governo della città. Quel libro, stampato postumo nel 1536, gli darà in cambio una fama che ancora oggi dura.
Una celebrità ambigua, perché, se da un lato lo consacrava come il fondatore della scienza politica moderna, dall'altro avrebbe accreditato l'immagine del cinico consigliere di ogni sorta di nefandezze necessarie per mantenere il potere. Da qui l'aggettivo machiavellico. E da qui anche le moltissime citazioni del suo nome — e del suo Principe — come simboli di diabolica malvagità. Secondo alcuni, addirittura, il modo popolare inglese di chiamare il diavolo, «Old Nick», deriverebbe proprio da Niccolò.
Insomma, il Segretario fiorentino avrebbe continuato a vivere nell'immaginazione dei posteri come un personaggio nero e criminale (Bertrand Russell definiva Il Principe un «manuale per gangster»). E così compare nel 1864 nel pamphlet scritto dal democratico Maurice Joly contro il tiranno Napoleone III, Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu, dove un diabolico Machiavelli illustra i mezzi — il controllo della stampa, l'alleanza con il potere finanziario ecc. — necessari per consolidare il proprio potere. (Per un capriccio della storia, il Dialogue servirà come base per I protocolli dei savi di Sion, il falso documento compilato in Russia agli inizi del Novecento, manifesto del moderno antisemitismo). Il vero Machiavelli non aveva niente di così sinistro e malvagio, anzi fu «burlone, irriverente, dotato di una intelligenza finissima; poco preoccupato dell'anima, della vita eterna e del peccato; affascinato dalle cose e dagli uomini grandi» (Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, Laterza). Ma la leggenda, come si sa, ha sempre la meglio, insomma print the legend. Soprattutto quando si associa all'altra grande leggenda nera di quel periodo, i Borgia, da sempre oggetto di romanzi, film, serie tv (solo nel 2011 ne sono state prodotte due). Una associazione inevitabile vista l'ammirazione di Machiavelli per Cesare, il duca Valentino: «Io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua» (Il Principe, VII).
Segretario & detective
Chi invece ne privilegia le eccezionali doti di ingegno e l'acume nel comprendere gli uomini e il perché delle loro azioni, sono gli scrittori di thriller, come il fiorentino Leonardo Gori — Le ossa di Dio e La città del sole nero (entrambi Rizzoli) — che ci presenta un Machiavelli che indaga su strani delitti, spesso di matrice esoterica. Gli anni sono il 1504 e il 1505; vicino a lui c'è sempre Leonardo da Vinci, in veste più di scienziato che di artista. La strana coppia — in realtà si conobbero e furono in qualche modo amici — ricompare adesso in La congiura Machiavelli, che esce in questi giorni da Newton Compton. L'autore, l'americano Michael Ennis, ha già al suo attivo due romanzi storici, La duchessa di Milano (Tea) su Beatrice d'Este e Bizantium. Nel nuovo libro racconta gli ultimi mesi del 1502, a Imola, dove Cesare Borgia tiene il suo esercito. Machiavelli è lì inviato da Firenze per saggiare le vere intenzioni del Valentino, che i suoi ex alleati, i condottieri Vitelli e Orsini, vorrebbero spingere alla conquista dei territori della Repubblica fiorentina; Leonardo invece è stato assoldato come ingegnere esperto di fortificazioni e macchine da guerra. C'è anche una donna a Imola, Damiata, amante di Juan de Gandia, il figlio prediletto del Papa Borgia, ucciso misteriosamente qualche anno prima: il Papa l'ha mandata a Imola per capire chi fu il mandante e l'assassino.
Fino a qui si tratta di personaggi veri, ma poi entra in gioco la fiction: in città si aggira un mostro (un serial killer diremmo oggi) che ammazza donne e le squarta, lasciandone i pezzi in luoghi diversi. Le indagini sul delitto di Juan si saldano con quelle sul massacro delle donne, perché per Machiavelli all'origine dei diversi misfatti c'è una sola mente criminale... Frutto di anni di ricerche e documentazioni — in una postfazione sono indicate scrupolosamente le fonti consultate — questa Congiura si presenta come «una specie di Csi (Crime Scene Investigation) del Rinascimento» in cui Leonardo, esperto anatomista, fa la parte del medico legale e Machiavelli quella del profiler, il criminologo che traccia l'identikit dell'assassino. Suspense, scene di sangue, l'amore romantico e appassionato fra Niccolò e Damiata, sabba di streghe; ma quel che conta di più per Ennis è l'accuratezza della ricostruzione. Uno scrupolo che già traspare dal titolo originale, The Malice of Fortune, che traduce alla lettera Machiavelli quando, parlando di Cesare Borgia, scrive: «Se gli ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria et estrema malignità di fortuna». Uno degli scopi del suo romanzo, dice Ennis, è quello di invitare a leggere gli scritti di Machiavelli per cambiare finalmente il giudizio corrente su di lui: «Scoprirete un uomo che non aveva niente di machiavellico, fu un onestissimo servitore dello Stato, un amico fedele. E un inguaribile romantico».
Il principe dei videogame
Mentre c'è chi continua ad associare il nome di Machiavelli a crimini e cospirazioni (Allan Folsom, La regola di Machiavelli, Longanesi poi Tea, immagina l'esistenza di una setta diabolica che ai nostri giorni segue ancora i precetti contenuti in un'appendice segreta del Principe) messer Niccolò ha naturalmente un posto assicurato nei romanzi sui Borgia, come The Family (La famiglia, Sonzogno), l'ultima opera dell'autore del Padrino Mario Puzo, che descrive il Papa e i suoi figli come un perfetto clan mafioso. E certo ritroveremo Machiavelli anche nel romanzo di Sarah Dunant, Blood and Beauty, in uscita a maggio. Ci sono ancora manuali per manager ispirati al Principe (Management and Machiavelli di Antony Jay, Machiavelli on Management di G.R. Griffin) ma la novità che certifica la popolarità del Segretario fiorentino presso le giovani generazioni sono i videogame. A cui, comunque, non bisogna chiedere scrupoli filologici né esattezza storica. Così nel gioco Assassin's Creed, che mette in scena la lotta fra il Bene (la Setta degli Assassini) e il Male (i Templari). Nel terzo episodio, Brotherhood (2010), il fiorentino Ezio Auditore, discendente dagli Assassini, ha come alleato, contro il Papa Borgia, Niccolò Machiavelli.
È un videogame anche The Secret of the Immortal Nicholas Flamel, che nasce però dai sei volumi sfrenatamente fantasy dell'irlandese Michael Scott. A Machiavelli è dedicato il quinto capitolo della serie, The Warlock («Lo stregone»), dove Niccolò è addirittura in compagnia del pistolero Billy the Kid. E così torna a essere un personaggio diabolico, seguace del perfido alchimista elisabettiano John Dee contro cui combattono i buoni Immortali. Insomma, nonostante tutto, print the legend.

Corriere La Lettura 6.1.13
Nel «Principe» diverse modernità si sono specchiate
Da Richelieu a Gramsci. Interpretazioni opposte
di Giuseppe Galasso


La prima idea che si ebbe di Machiavelli fu quella del don Ferrante manzoniano nei Promessi sposi: «Mariuolo, ma profondo». Ossia un pensatore malandrino, ma che penetra nel profondo delle cose. La condanna della Chiesa non poteva mancare per uno scrittore che indicava la volpe (astuta, subdola) e il leone (violento, prepotente) come i poli fra cui si muove la politica. Un pensatore per il quale la religione, sentita o non sentita che sia, è sempre uno strumento dell'azione politica. Un pensatore per il quale i nemici debbono essere o spenti o vezzeggiati per sopraffarli in qualche modo. Insomma, un vero manuale del contrario di una filosofia cristiana della politica e dello Stato. La condanna arrivò quindi puntuale e totale e le opere di Machiavelli furono poste già nel 1559 all'Indice dei libri proibiti. I gesuiti combatterono una vera crociata antimachiavelliana. A Ingolstadt, in Baviera, Machiavelli nel 1615 fu bruciato in effige come «uomo subdolo e astuto, ottimo artefice di pensieri diabolici, collaboratore del demonio». Né diversa fu l'accoglienza prevenuta e ostile delle Chiese protestanti. In Inghilterra vi furono commedie su Machiavel and the Devil (Robert Daborne) e sulla contesa fra Machiavelli e sant'Ignazio per contendersi all'inferno il favore di Satana (John Donne).
Senonché, la riflessione di Machiavelli era profonda, e segnava una data nella storia del pensiero europeo. Non vi si poteva facilmente rinunciare. Così, per ovviare alle proibizioni ecclesiastiche, si usò contrabbandarne le idee sotto i nomi di altri autori, come Tacito (e il «tacitismo» divenne quindi vicario del machiavellismo) e perfino Aristotele. Né era solo il problema morale a essere in questione. Machiavelli aveva anche pensato, da buon fiorentino, alla libertà repubblicana, così radicata nelle città dell'Italia comunale, e in specie a Firenze. Il suo «principe» l'aveva vagheggiato soprattutto per un'azione volta a sottrarre l'Italia al destino di soggezione agli stranieri a cui la condannavano le sue divisioni. E né l'idea repubblicana, né quella italiana potevano avere fortuna nell'Italia dell'assolutismo e del predominio spagnolo.
Machiavelli continuò, tuttavia, a essere meditato in quella Italia anche nel modo più paradossale: se ne esponevano e discutevano le tesi, che così circolavano, anche se poi, salvo qualche parziale eccezione (il Sarpi, il Boccalini), le si condannava aspramente (perfino Tommaso Campanella, così poco ortodosso, parlò di Machiavelli, nel suo Atheismus triumphatus, come ateo e immorale).
Fuori d'Italia fu frequente, invece, l'apprezzamento per il realismo machiavelliano. Così in Francia, dove il cardinale Richelieu commissionò una Apologie pour Machiavel, rimasta inedita. Così in Inghilterra, dove pensatori di rilievo, come Bacone e Harrington, videro in Machiavelli un autore fondamentale per una visione realistica e moderna dei problemi politici.
Un così lungo e pregiudiziale ostracismo non poteva, però, durare. Nel Settecento si fece strada una soluzione molto lambiccata per superarlo. Machiavelli — si disse — aveva svelato il volto torbido e oscuro della politica non per esaltarlo, bensì per illustrare al mondo la natura demoniaca del potere e prevenirla (come poi nei Sepolcri avrebbe detto il Foscolo: «quel grande/ che, temprando lo scettro ai regnatori,/ gli allor ne sfronda ed alle genti svela/ di che lacrime grondi e di che sangue»). Non che così ne svanisse la cattiva fama. Federico II di Prussia, ossia uno dei maggiori esperti della politica come opera di volpi e di leoni, scrisse un Antimachiavel, che ebbe una certa eco. Non era, secondo Thomas Mann, ipocrisia, quella di Federico, ma solo letteratura (non per nulla era scritto in francese). Anche la letteratura dice, però, qualcosa, se spinge un sovrano così geniale a scrivere una filippica contro un autore alle cui massime la sua azione era così conforme.
Ipocrisia, invece, certo non vi era in Rousseau che definiva Il Principe come «il libro dei repubblicani», secondo un'idea che allora si diffuse e fece del Machiavelli il fautore dello Stato moderno contro il feudalesimo e altri avversari.
Era, comunque, ormai, il tempo del riscatto. In Italia il Risorgimento, in un percorso culminato con Francesco De Sanctis, esaltò il politico realista, che aveva combattuto le idee trascendenti e spiritualistiche della tradizione cristiana medievale (un Lutero italiano!), e riscoprì il fautore della democrazia comunale e repubblicana e, soprattutto, il patriota che aveva auspicato l'unione degli italiani contro lo straniero.
In Germania Hegel lesse nel pensiero di Machiavelli un fondamento storico e un'idea della politica quale scienza. L'immoralità del pensiero machiavelliano, esaltata anche da Nietzsche, nella logica del suo uomo superiore e postmoderno, era, però, ancora deprecata da Pasquale Villari, che vi contrapponeva il severo moralismo di Savonarola.
Si giunse così nel Novecento a riconoscere senz'altro, da Croce a Isaiah Berlin, che Machiavelli aveva in sostanza definito l'autonomia della politica come dimensione dell'uomo nel mondo e nella società: una dimensione che è in rapporto con tutte le altre, ma, sempre salda sui suoi fondamenti e nelle sue esigenze, non si risolve mai del tutto in nessun'altra. Gramsci lesse nel Principe i fondamenti di una teoria moderna del partito rivoluzionario. Meinecke vi lesse la scoperta della «ragion di Stato». Con Chabod e con altri si è posto in piena luce il profondo rapporto genetico tra la storia italiana del suo tempo e la riflessione machiavelliana.
Insomma, Machiavelli è finito con l'essere generalmente visto come uno snodo decisivo del pensiero e della coscienza moderna, come una spinta forte e fondamentale alla laicizzazione e alla modernizzazione dell'idea di politica. Lo si studia perciò in tutte le discipline attinenti alla molteplice e ribollente materia dei suoi scritti, anche se, forse, con un eccesso analitico che rischia di perderne più di qualcosa. Sul monumento in Santa Croce, eretto con pubblica sottoscrizione nel 1787, è detto bene quel che in ultimo, e non solo in Italia, si è pensato di lui e delle sue dottrine: tanto nomini nullum par elogium (a un nome così grande nessuna lode è pari).

Repubblica 6.1.13
"Una melodia di punti, linee, colori Klee e il senso segreto delle cose"
di Melania Mazzucco


Il primo quadro di cui ho memoria non l´ho visto in un museo né in una chiesa. Non era appeso su una parete - distante, intangibile e vagamente sacrale - ma lo tenevo fra le mani, come un qualunque oggetto della mia vita quotidiana. Insomma, era riprodotto in un libro. Ad Parnassum di Paul Klee campeggiava infatti sulla copertina di un libro d´arte per bambini, che mi fu regalato da mia madre per il mio quinto compleanno. Era convinta che l´arte moderna, in apparenza primitiva e infantile, possa essere compresa istintivamente, senza bisogno di nozioni o esperienza del mondo. Forse è così: perché quel quadro è stato per me davvero una porta, e da allora un´opera d´arte non ha mai smesso di sembrarmi non qualcosa di morto, venerabile, il prezioso relitto di una civiltà scomparsa, ma qualcosa che - come un libro - parla proprio a me, e mi riguarda. Da qualunque lontananza venga il suo richiamo. Spero che Ad Parnassum sia anche la vostra porta: perché il mio viaggio nelle immagini del mondo inizia da qui.
Paul Klee, accusato dai suoi critici di dipingere scarabocchi per bambini, era invece un intellettuale, uno scienziato e un filosofo. Aveva elaborato una complessa teoria dell´arte e non dipingeva neanche un punto senza sapere perché. Non avrebbe mai voluto che ci chiedessimo che cosa rappresenta Ad Parnassum. L´arte non è imitazione, non deve riprodurre il visibile - diceva - ma rendere visibile l´interno occulto delle cose. La chioma di un albero non somiglia alle sue radici. Lui voleva sbarazzarsi di chi in un quadro va a caccia degli oggetti reali del mondo. Così, di questi, è rimasto solo il riflesso, come un´eco sul punto di spegnersi. Un cerchio arancio che potrebbe essere un sole, due linee scure che potrebbero rappresentare il tetto di un edificio (o una montagna, o una piramide), tre cunei che indicano direzioni opposte, un arco che ricorda una porta. Insomma, le forme essenziali: i punti, le linee, i colori. I primi si aggregano in disegni geometrici, i secondi combinano i tre colori fondamentali (giallo-rosso-blu) in infinite variazioni. La tela è intessuta di punti di colore, come minuscole tessere di mosaico - o squame di serpente o scaglie di pesce. Klee riteneva che l´opera fosse un organismo, natura essa stessa, soggetta alle stesse leggi della cellula e del cosmo: i punti di Ad Parnassum brulicano come stelle nel firmamento.
Però questo quadro ha un titolo, scelto da Klee. Dunque è un segno anch´esso. Ad Parnassum significa verso il Parnaso. Ricorda cose reali. Era infatti il titolo di un saggio di teoria musicale del 1725, che Paul Klee, figlio di un insegnante di musica e di una cantante professionista, e lui stesso violinista e cultore di musica, conosceva: la sua aspirazione di pittore era creare una sintesi di pittura, musica, poesia. Dunque il titolo allude alla polifonia, che il quadro si propone di rappresentare simbolicamente. Ma Ad Parnassum si intitolano anche gli esercizi di pianoforte di Muzio Clementi, che conducono l´allievo all´eccellenza. Esso implica un´ascesa - suggerisce un movimento verso l´alto. Ma nel quadro la salita è ostacolata dalle tre punte, che introducono una tensione e indirizzano lo sguardo altrove - a destra, a sinistra, in basso. L´occhio scivola allora verso un altro elemento: la porta, al cui centro spicca un rettangolo violaceo. E qui agisce il terzo significato del titolo. Il Parnaso è infatti prima di tutto il monte sacro ad Apollo e alle muse. E´ il regno incontaminato dell´ispirazione e dell´armonia. I più grandi pittori dei secoli trascorsi, da Mantegna e Raffaello a Poussin, hanno dipinto la salita al Parnaso dei poeti e degli artisti. La porta che si apre nell´angolo sinistro di quella che non è una casa né un tempio, ma la montagna stessa dell´arte e della poesia, è allora la porta che immette in quel mondo altro - là dove il caos diverrà musica. E´ lì che si ferma lo sguardo: è quello il punto di equilibrio del quadro.
Val la pena ricordare che questa sinfonia polifonica non è stata dipinta in un momento qualunque della vita di Klee - trascorsa fra studio, ricerca, viaggi, famiglia, insegnamento, sperimentazione di tecniche innumerevoli e creazione inesausta (alla sua morte aveva realizzato ben 9000 opere). Fu dipinta in quello stato di grazia sospesa che precede la caduta. E´ il 1932. Paul Klee insegna pittura alla Scuola di Belle Arti di Düsseldorf, viaggia in Italia, lavora - e intanto, incalzato dai nazisti che hanno vinto le elezioni municipali, lo Stato tedesco interrompe i finanziamenti alla Bauhaus, dove anche Klee ha insegnato per anni. L´anno dopo, è lui stesso a essere licenziato. Un fogliaccio nazista lo denigra come il tipico ebreo della Galizia (in realtà suo padre è un ariano bavarese, e sua madre è svizzera), le SA perquisiscono la sua casa. Paul Klee lascia la Germania per esiliarsi in Svizzera, dove del resto è nato. Fatto che invalida la battuta di Orson Welles nel Terzo Uomo (quella che dice che in cinquecento anni di pace e democrazia gli svizzeri hanno creato solo orologi a cucù). Nel 1932, in Germania, il Parnaso è minacciato. Nel 1933, un quadro di Klee figurerà nella prima delle famigerate esposizioni di Arte Degenerata. Ma proprio quando il Parnaso è in pericolo, Klee dipinge un´armonia melodica di punti, linee e colori, e invita chi guarda a varcare la porta e a salire. L´arte non è mai un traguardo, ma un cammino: ciò che conta non è la meta, ma la strada percorsa.

Paul Klee (1879-1940), pittore svizzero. Nel 1911 entra in rapporto con gli artisti del Blaue Reiter. Risale invece al 1920 il suo ingresso al Bauhaus di Weimar; forma con Kandinskij, Feininger e Jawlensky il movimento dei Quattro Azzurri. Lascia oltre alle sue tele piene di colori e di simboli una robusta elaborazione teorica, dal "Quaderno di schizzi pedagogici" alla "Teoria della forma e della figurazione"