lunedì 19 novembre 2012

l’Unità 19.11.12
Strage di bambini tra le macerie di Gaza
Negli attacchi di Israele a Gaza dieci bimbi rimasti sotto le macerie
Finora sono 60 i morti palestinesi
Colpita la sede dei media: feriti 8 giornalisti
Razzi contro Tel Aviv intercettati. Netanyahu: siamo pronti a tutto
di Umberto  De Giovannangeli


Eyad Abu Khousa, 18 mesi. Tasneem Nahhal, 9 anni. I loro corpicini vengono estratti dalle macerie della casa centrata da una bomba sganciata da un caccia con la stella di David. I raid israeliani entrano nel quinto giorno e per la gente di Gaza è «il giorno della strage degli innocenti»: dieci bambini vittime dei raid in poche ore, malgrado il coprifuoco auto-imposto di una popolazione che nella Striscia fazzoletto di terra fra i più giovani e densamente popolati al mondo non trova ormai altra scelta se non barricarsi in casa. L’aviazione d’Israele sostiene di agire per quanto possibile in maniera «chirurgica». Ma le vittime civili sono già decine.
E ieri è stata la giornata più sanguinosa dall’inizio dell’offensiva: nel solo rione Nasser, di Gaza City, una famiglia di 11 persone (6 bambini, quattro donne e un anziano), gli Aldalu, ha trovato la morte sotto le rovine della palazzina in cui abitava, centrata da un missile. Altri quattro piccoli erano diventati vittime «collaterali» dei bombardamenti nelle ore precedenti: due nel nord della Striscia, una nel campo profughi di al-Shati (Tasneem, 9 anni, uccisa con il papà), e un bebè, Eyad, di appena 18 mesi, in un altro campo profughi, quello di al-Bureji. Il totale dei morti palestinesi da mercoledì è salito a oltre 70, con almeno 650 feriti.
Le scuole sono rigorosamente chiuse e genitori in angoscia tengono i figli sigillati in casa. Anche chiusi a chiave se necessario. Devono schivare le finestre, giocare possibilmente per terra e come massima distrazione ci sono i programmi tv. Così andrà avanti per giorni, si teme, malgrado l’insofferenza dei più piccoli. «Ho avuto la sensazione di perdere i miei figli, che i traumi accumulati erano troppo forti, che rischiavo di renderli invalidi per tutta la vita», dice al telefono un uomo di Gaza che ieri è riuscito ad andare via, raggiungendo la località marittima egiziana di al-Arish, nel Sinai del nord. Cronaca di guerra: un raid israeliano nella notte tra sabato e domenica ha colpito il complesso Al-Shawa, dove hanno sede alcuni media locali e stranieri. Lo riferisce l’agenzia di stampa Màan, secondo cui ci sarebbero sei feriti, cinque giornalisti di al-Quds Tv e un cameraman, che ha perso una gamba. Distrutti anche gli uffici dell’emittente Russia Today.
Sembra che l’impatto sia avvenuto all’undicesimo piano del palazzo, proprio dove sono situati gli uffici di al-Quds. Un secondo attacco ha colpito poi un altro media center: due missili sono stati lanciati sul 15esimo piano dell’edificio dove hanno sede gli studi di Al-Aqsa tv. I soccorritori hanno fatto evacuare diverse persone rimaste ferite. L’aviazione israeliana ha ucciso il responsabile di Hamas addetto ai lanci di razzi da Gaza. A riferirlo è la televisione commerciale israeliana Canale 10. L’uomo Yihia Abbia è stato colpito a morte assieme alla moglie, mentre si trovava nella propria abitazione.
SIRENE D’ALLARME
Intanto le sirene tornano a risuonare a Tel Aviv, per la quarta volta negli ultimi giorni. Nel pomeriggio, due potenti esplosioni si sono udite in città. Quattro razzi palestinesi hanno colpito Ashkelon, città costiera del sud di Israele vicino al confine con Gaza. Un altro attacco è stato poi sferrato contro Shaar Haneguev, nei pressi della frontiera con Gaza. Da parte israeliana restano le tre vittime dei giorni scorsi, a fronte di 492 razzi lanciati da Gaza che hanno colpito Israele e altri 245 intercettati dal sistema di difesa «Iron Dome», per un totale dall’inizio del conflitto di 737. Gli obiettivi centrati, nell’intero periodo, dall’aviazione israeliana ha rivelato ieri l’esercito sono 1000: e uno di questi ieri mattina ha distrutto, senza fare vittime, la sede del governo di Hamas a Gaza.
Nello scontro in atto, l’opzione dell’operazione di terra da parte delle forze armate di Israele con 30mila uomini già pronti al confine resta possibile: «Se nelle prossime 24-36 ore avverte il vice-ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon continueranno a cadere i razzi, questo potrebbe innescarla». «Prima abbiamo bisogno che il fuoco cessi e poi possiamo discutere qualsiasi altra cosa. Metà Israele è sotto il fuoco, questo non può andare». Ad affermarlo è il premier Beniamyn Netanyahu a margine di un colloquio con il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius. Alti dirigenti citati in forma anonima da Ynet hanno sottolineato che «se c’è una via per completare gli obiettivi della missione senza azioni di terra», sarebbe «meglio» anche per Israele. Ma hanno comunque ribadito che il Paese è pronto se necessario all’offensiva. «Stiamo infliggendo a Hamas un duro prezzo. Tsahal (forze armate, ndr) ha colpito 1.000 obiettivi terroristici, e continua in questi momenti nelle proprie attività. È pronto per estendere le operazioni in maniera significativa»: così Netanyahu aveva aperto la riunione domenicale del Consiglio dei ministri. Gaza si prepara ad un’altra notte di paura. E di morte.

l’Unità 19.11.12
Zehava Galon:
«L’alternativa al terrore c’è: negoziare con l’Anp»
Avvocato, parlamentare alla Knesset, è la nuova leader del Meretz, la sinistra laica e pacifista israeliana. Sostiene la linea «due Stati per due popoli»
di U.D.G.


Prima di ogni altra cosa occorre raggiungere una tregua duratura e se ciò significa in impegno d’Israele a fermare le “eliminazioni mirate” contro i dirigenti di Hamas, ritengo che si debba accedere a questa richiesta, anche perché la realtà dimostra che questa politica (delle eliminazioni mirate) non è servita: abbiamo ucciso e in cambio abbiamo ottenuto più attacchi dei palestinesi». A sostenerlo è Zehava Galon, parlamentare israeliana e leader del Meretz, la sinistra laica e pacifista d’Israele. «La tregua come primo passo dice a l’Unità Galon ma ad essa deve legarsi una strategia politica che abbia al proprio centro la ripresa dei negoziati di pace con l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Ai palestinesi dobbiamo offrire una chance negoziale, per dimostrare che esiste una terza via tra terrore e rassegnazione: la via del dialogo che porti all’unica pace possibile: quella fondata sul principio “due Stati per due popoli”».
A Gaza si muore, mentre le sirene d’allarme sono tornate a suonare a Tel Aviv. Il premier Netanyahu ha detto che Israele è pronto per una estensione dell’offensiva contro Hamas».
«Un’offensiva di terra sarebbe una decisione sciagurata che aggraverebbe ulteriormente la situazione. Dobbiamo negoziare una tregua e farlo non equivale a darla vinta ad Hamas».
Ma la maggioranza degli israeliani non sembra di questo avviso. Di certo, non lo sono Netanyahu ed Ehud Barak (il ministro della Difesa).
«La sicurezza d’Israele non può fondarsi sulla forza delle armi. Possiamo eliminare anche cento dirigenti di Hamas ma questo non ci garantirà di vivere in pace e in tranquillità, soprattutto per gli israeliani che vivono nelle città a ridosso della Striscia di Gaza. L’uso della forza maschera un’assenza di strategia politica da parte della destra israeliana e oggi anche qualcosa d’altro...». Cosa?
«Un cinico calcolo elettorale. Quello che guida Israele è un governo di piromani che punta alla guerra alla vigilia delle elezioni».
Un’accusa gravissima...
«Ma fondata su dati di fatto. Le scelte del governo dei falchi hanno determinato una devastazione sociale che non ha precedenti nella storia d’Israele: decine di migliaia di famiglie vivono oggi sotto la soglia di povertà, c’è un attacco pesantissimo a diritti sociali acquisiti e a pagarne il prezzo più alto sono le fasce più deboli della popolazione: gli anziani, i giovani, le madri single, le minoranze etniche. Sul piano politico, la sinistra e un centro democratico stavano risalendo nei sondaggi prefigurando una possibile alternativa al governo Netanyahu-Lieberman. La destra ha deciso di spostare l’attenzione sulla sicurezza, e fare campagna elettorale in un clima di guerra. Sia chiaro: nessuna giustificazione ai lanciatori di razzi, ma in questi anni la destra al governo non ha fatto un passo in direzione del dialogo, al contrario ha lavorato per indebolire e delegittimare la leadership moderata dell’Anp. Di nuovo, la destra cavalca la paura e vende un’illusione: quella di poter garantire la sicurezza facendo ancora di Gaza una prigione a cielo aperto; ma in una prigione crescono solo rabbia e disperazione, sentimenti su cui i gruppi estremisti palestinesi fanno leva per ingrossare le proprie fila. Di nuovo, gli interessi dei falchi dei due campi convergono nel chiudere ogni spazio di dialogo».
Gli analisti israeliani danno vincente alle elezioni di gennaio l’alleanza Netanyahu-Lieberman.
«Sarebbe una sciagura. Per Israele, non per una sua parte politica. Ritengo un governo “Biberman” (gioco di parole tra il soprannome di Netanyahu, Bibi e Lieberman, ndr) una minaccia per il carattere democratico d’Israele. Questa alleanza si fonda su una ideologia ultra-nazionalista, quella di Eretz Israel (il Grande Israele) e su una pratica politica che punta alla spaccatura della società israeliana e nei rapporti con i palestinesi, ad una resa dei conti militare. L’offensiva militare a Gaza è parte di questo disegno».

l’Unità 19.11.12
Tregua immediata
di Pasquale Ferrara


Per quanti lo avessero dimenticato ma non se ne facciano una colpa la questione israelo-palestinese è inquadrata ancora ufficialmente in un cosiddetto «processo di pace».
Benché si tratti ormai di una formula del tutto svuotata di contenuti e persino tristemente ironica mentre cadono bombe (su Gaza) e missili (da Gaza). Si potrebbe sostenere, a voler essere davvero naïf, che il processo di pace sarebbe ancora in piedi tra Israele e la Cisgiordania, mentre sarebbe ormai in stato comatoso (e non da oggi) nei riguardi di Gaza. Questo è stato l’errore fondamentale degli ultimi anni, almeno dalle elezioni palestinesi del 2006, e cioè pensare di poter raggiungere, in questa turbolenta regione del mondo, una «pace separata». La verità è che la ricerca di una pace separata ci ha sinora, nei fatti, separato dalla pace. In Occidente ci facciamo facilmente distrarre da questioni che - comprensibilmente coinvolgono lo stato di salute delle nostre economie e dei nostri sistemi politici. Ecco perché ci hanno colto di sorpresa gli eventi bellici a Gaza. La realtà è che da molti mesi nella regione si confrontano due opinioni pubbliche esasperate, anche se per ragioni e in misura molto diversa.
Da una parte la popolazione di Gaza, «intrappolata» nella Striscia, in condizioni economiche e sociali spaventose; dall’altra, la popolazione israeliana, sempre più impaurita e scossa dai lanci di missili da Gaza. È difficile parlare il linguaggio della politica e della diplomazia dinanzi all’esasperazione; eppure, questo dovrebbe essere il compito di leader di Paesi che vogliano davvero svolgere un ruolo e non limitarsi a gestire l’esistente, con l’obiettivo minimalista di limitare i danni. Questo è sembrato l’atteggiamento della comunità internazionale in particolare degli Usa, impegnati in una difficile campagna presidenziale e della Ue, attanagliata dalla crisi del debito e dai rischi di disintegrazione. Il punto è che la situazione, oggi più che mai, può sfuggire di mano. I contenuti del «diritto all’autodifesa» di Israele si presentano con varianti notevolmente diverse. Dal punto di vista strategico, Israele ha dinanzi a sé tre possibili alternative. La prima consiste nel proseguire le operazioni di «contenimento» di Hamas con iniziative tuttavia più «robuste» sotto il profilo militare. La seconda è una versione rafforzata della cosiddetta «Operazione Piombo Fuso» messa in pratica tra il 2008 ed il 2009: colpire le installazioni «ufficiali» e le infrastrutture controllate da Hamas, con la possibilità di una limitata operazione terrestre, rischiosissima anche nel caso in cui fosse concepita solo in termini provvisori. La terza è un’offensiva su larga scala mirante alla pura e semplice eliminazione di Hamas come forza di governo a Gaza, e ciò richiederebbe l’uso combinato di diversi strumenti di intervento, compresa una occupazione più o meno prolungata della Striscia. Tuttavia, rispetto al 2008-2009, la situazione nella regione è strutturalmente cambiata. Molti si sono illusi di poter metter nel congelatore il conflitto israelo-palestinese mentre tutto intorno mutava ad una velocità imprevista ed incontrollabile. Taluni analisti menzionano il ruolo destabilizzante che potrebbero avere i Fratelli Musulmani in relazione a Gaza. Non è detto; potrebbe essere una conclusione affrettata, poiché la stabilità a Gaza è per l’Egitto anzitutto un problema di sicurezza nazionale, vista la contiguità territoriale, e solo in seconda battuta diviene una questione di affinità ideologica o religiosa. L’iniziativa militare di Israele costringe l’Egitto a riapparire sulla scena medio-orientale dopo le convulsioni interne, ma in un
contesto in cui potrebbero essere riformulati (ma non certo demoliti) i due pilastri della sua politica estera, vale a dire il rapporto preferenziale con gli Usa e il Trattato di pace con Israele.
Più in generale, quasi tutti i Paesi della regione hanno a che fare, ora, con opinioni pubbliche radicalizzate. Inoltre, sono saltati alcuni equilibri fondamentali, come l’alleanza tra Turchia ed Israele e l’oggettiva diffidenza del governo Netanyahu nei riguardi del rieletto Obama. Non siamo tornati ad una situazione regionale pre-1967, ma le somiglianze sono preoccupanti. Ci sarebbero le condizioni per una forte iniziativa europea o meglio, dei suoi 27 governi... quanto meno a favore di una tregua immediata, per impedire una nuova deriva bellicista che sarebbe difficilmente controllabile. Siamo ancora in tempo.
*Segretario generale dell’Istituto Universitario Europeo

La Stampa 19.11.12
“La crisi bloccherà per due anni qualsiasi negoziato di pace”
L’analista Kupchan: “Usare i tank? Isolerebbe lo Stato ebraico”
di P. Mas.


La crisi di Gaza rinvia di almeno due anni qualunque trattativa seria sul futuro del Medio Oriente. L’obiettivo più pressante ora diventa evitare un’escalation che finirebbe per destabilizzare anche l’Egitto e la Giordania, condannando l’intera regione al caos. Uno scenario che farebbe comodo solo all’Iran, e al regime siriano di Assad, per distrarre l’attenzione da loro e impedire la soluzione dei problemi che li riguardano».
L’analista del Council on Foreign Relations Charles Kupchan vede le violenze in corso come un elemento capace di cambiare le dinamiche del Medio Oriente per un lungo periodo, se il nuovo governo egiziano guidato dai Fratelli Musulmani non riuscirà a contenere la situazione.
Che cosa sta succedendo a Gaza?
«Hamas si sente rafforzato dal cambio di regime al Cairo, e quindi è diventato più sfrontato, spingendosi a lanciare razzi verso Tel Aviv e Gerusalemme. Sta correndo un rischio, però, perché non deve esagerare il valore dell’appoggio dei Fratelli Musulmani. La sua campagna, infatti, minaccia di destabilizzare anche la Giordania e lo stesso Egitto, sullo sfondo di una situazione già molto complicata a causa della guerra in Siria. Questi sviluppi finirebbero solo per favorire l’Iran, e ciò non rientra negli interessi del nuovo presidente Morsi».
Come giudica il comportamento del leader egiziano?
«Finora ha scelto una linea abbastanza responsabile, cercando di mediare e collaborare con gli Stati Uniti per evitare l’escalation del conflitto. Morsi deve marcare la sua differenza rispetto a Mubarak, per ovvie ragioni di tenuta interna, però non ha sfruttato questa occasione per mettere sul tavolo la revisione del trattato di pace con Israele».
Che cosa pensa della linea scelta dallo Stato ebraico?
«Anche Israele ora deve mostrare equilibrio. La responsabilità di chi lancia i missili contro le sue città è chiara, ma una operazione di terra finirebbe comunque per isolare lo Stato ebraico, diminuire la sua credibilità, e disperdere il vantaggio politico di solidarietà internazionale che ha accumulato negli ultimi tempi come vittima di questi attacchi. Un’invasione porterebbe inevitabilmente con sé violenze che annullerebbero il credito acquisito finora presso l’opinione pubblica mondiale».
Qual è la strategia del presidente Obama?
«Evitare una guerra totale che farebbe saltare anche Egitto e Giordania, mentre restano aperta la crisi in Siria e la questione nucleare con l’Iran. Sarebbe la tempesta perfetta, l’esplosione di tutto il Medio Oriente, voluta forse proprio da chi è sotto pressione a Damasco e Teheran, e cerca di distogliere l’attenzione mondiale».
Se riuscirà a contenere la crisi, Obama potrà approfittarne per rilanciare le trattative di pace tra lo Stato ebraico e i palestinesi, oppure ogni velleità di dialogo è sospesa?
«Tra la questione di Gaza, la guerra in Siria, l’Iran, il rischio di anarchia nel mondo arabo e le elezioni israeliane in programma nel 2013, il negoziato resterà fermo per almeno altri due anni».

l’Unità 19.11.12
L’Italia faccia di tutto per fermare le armi
La voce di chi vuole la pace
di Flavio Lotti

Pochi giorni fa sono andato a Sderot in segno di solidarietà e vicinanza con gli israeliani che dal 2001 vivono sotto il tiro dei razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Ci sono andato con altri duecento italiani.
E insieme abbiamo sfidato le sirene che quel giorno hanno suonato cinque volte e il silenzio mediatico calato da lungo tempo su quella tragedia. Nomika Zion, figlia di uno dei padri fondatori dello Stato di Israele, aveva provato a farci desistere ma davanti alla nostra insistenza ci accompagna per le strade della sua città fino al confine con Gaza. E parla come un fiume in piena. «Sono molto pessimista. La nostra vita passa da una guerra all’altra. C’è ancora un piccolo gruppo di israeliani che crede nella pace. Tutti gli altri pensano solo alla prossima guerra. Qui la guerra è uno stato mentale. Ma la guerra ti distrugge la mente e ti avvelena il cuore. Così noi abbiamo perso la capacità di riconoscere i palestinesi come esseri umani. Per noi i palestinesi non hanno più una faccia, una voce personale, un nome. Hanno solo un’entità collettiva, un solo nome: terroristi. Ma quando smetti di considerare le persone come esseri umani, tu stesso smetti di essere umano. Per questo non riesco a vedere la fine del tunnel. Dobbiamo parlare con Hamas, mettere fine all’assedio di Gaza... ma il nostro governo non vuole sentir ragione. Ecco, voi, la pressione internazionale, voi siete la mia unica luce, la mia ultima speranza. Aiutateci». Nomika non ne può più della guerra, più o meno come i palestinesi che da sei giorni sono ripiombati nell’incubo del terrore. Nomika come i bambini di Gaza ci chiede aiuto. Ma noi cosa stiamo facendo?
Missili da Israele. Missili da Gaza. E la pace da dove? Dopo decenni passati inutilmente ad auspicare la pace in Medio Oriente non possiamo che ripartire da noi. È l’unica cosa seria e realistica che possiamo fare. E allora dobbiamo dire forte e chiaro: basta con le esortazioni, basta con gli inviti alla calma, basta con gli appelli alle parti! L’Italia ha il dovere di fermare la guerra a Gaza. Lo può e lo deve fare agendo con intelligenza e determinazione nell’interesse superiore dei diritti umani, della sicurezza internazionale, della giustizia e della pace.
L’Italia, che vanta ottime relazioni sia con Israele che con i palestinesi, può fare molto.
Ma deve cambiare: smettere di essere di parte, assumere un ruolo attivo, propositivo e progettuale. Nel Mediterraneo, in Europa e all’Onu. Per quanto tempo ancora potremo resistere senza avere una politica estera all’altezza della situazione?
Fermare la guerra a Gaza è indispensabile ma questa volta non basterà. È arrivato il momento di andare alla radice del problema e risolvere il conflitto tra questi due popoli. Sono passati 45 anni dall’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Più di 20 da quando è iniziato il cosiddetto «processo di pace». Da allora si calcola che il mondo abbia speso 12mila miliardi di dollari e ancora oggi spendiamo per questo conflitto oltre due miliardi di dollari l’anno. Uno sforzo economico enorme accompagnato da vertici, viaggi, incontri, negoziati, piani, mediazioni e attività umanitarie che, a giudicare dai risultati, non è servito a nulla. Non ci possiamo più permettere di continuare in questo modo. Non è solo troppo costoso. È destabilizzante. Il conflitto è sulla terra. E su quella terra deve essere riconosciuto a entrambi il diritto di vivere in pace con gli stessi diritti, la stessa dignità e la stessa sicurezza. La formula è «due Stati per due popoli». E deve essere realizzata ora. Anche a costo di una inedita e creativa «imposizione» internazionale. Probabilmente è l’ultima possibilità e non ci conviene più aspettare.
L’Italia deve fare la sua parte, consapevole dei suoi limiti ma anche delle sue risorse, della sua prossimità e delle sue responsabilità. Chiudere oggi il conflitto israelo-palestinese conviene a tutti. Anche a noi. Per questo l’inazione degli altri non può più giustificare la nostra. Ps: ma i candidati alle primarie che ne pensano?
*Coordinatore nazionale della Tavola della pace

Repubblica 19.11.12
Obiettivo Teheran
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON SI SCRIVE Gaza, ma si pronuncia Teheran. Si scrive con il sangue dei bambini, come sempre, anche la nuova pagina dell’odio senza fine. È l’Iran, non i missili di Hamas o la rappresaglia di Tsahal, l’esercito israeliano, l’obbiettivo al quale guardano gli attori di una nuova edizione della interminabile strage. Si testano a vicenda, si sfidano e si misurano con il sangue, con la crudeltà insopportabile di quei corpi di bambini.
Bambini mussulmani ed ebrei, palestinesi e israeliani, ma sempre e soltanto innocenti con cui cercano di risucchiare Obama nel pozzo senza fondo del loro odio.
Ricostruiamo i tempi, che in ogni storia sono sempre essenziali per trovare un filo di comprensione e dare un senso, se è possibile farlo, a questo abominio. Era trascorsa appena una settimana dalla riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca quando i missili di Tsahal, l’esrcito israeliano, sono piovuti mercoledì scorso su Gaza e hanno ucciso Ahmed al Jabary lo stratega di Hamas, insieme con altri cinque palestinesi e una bambina di 7 anni. Può essere stata soltanto una coincidenza cronologica, se scatta ora, improvvisamente, un’operazione che il New York Times
ha definito «il più feroce e violento assalto degli ultimi quattro anni» su Gaza?
Quattro anni sono appunto quanti ne sono trascorsi dalla prima vittoria di Barack Hussein Obama nel novembre 2008. Se mai la frusta e abusata espressione può essere usata a ragione, questa “feroce” recrudescenza della rappresaglia israeliana contro Hamas e Gaza, ha tutto il sapore di un azione a orologeria.
Lanciata certamente per colpire al Jabary, ma soprattutto per mettere alla prova il vero, storico e fondamentale obbiettivo della politica estera e militare israeliana: il presidente degli Stati Uniti. Per vedere fino a che punto Israele possa contare su di lui, se decidesse di affrontare il vero nemico che teme, l’Iran nucleare. Che Bibi Netanyahu e Barack Obama non siano né amici né siano in perfetta sintonia come Israele era con George W. Bush fino al 2008 è un fatto che la campagna elettorale americana finita da due settimane aveva ampiamente illustrato. Le accuse di indifferenza, tradimento, presa di distanza lanciate contro il presidente erano state esplicite e la simpatia della destra israeliana al potere era chiaramente riservata a Romney e ai suoi consiglieri strategici, i vecchi compari “neo con” che sarebbero tornati alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato dietro di lui.
Nella logica brutale del Medio Oriente il solo strumento sicuro ed efficace per “testare” alleanze e solidarietà è la violenza. E alla violenza ha fatto ricorso Hamas, oggi puntellata e rifornita anche dall’Iran che l’ha dotata dei missili capaci di raggiungere Tel Aviv, che doveva mettere alla prova i nuovi governi emersi dai ruderi dei vecchi regimi dispotici, soprattutto in Egitto. Gli israeliani, che dopo la eroica e solitaria resistenza nella guerra del 1947, sanno di dovere, e di potere, contare sugli Stati Uniti per sopravvivere, dovevano, volevano vedere come Obama avrebbe reagito di fronte alla escalation di violenze militari più furiosa dal tempo dell’Operazione Piombo Fuso del dicembre 2008. Il mese della transizione fra l’amico certo, Bush, e l’incerto amico ancora da provare.
La risposta della Casa Bianca, secondo il classico stile di Obama, è stata più ambigua che soddisfacente, più ambivalente che rassicurante, per Netanyahu. In partenza per il viaggio in Birmania, dove è andato per celebrare il lento ritorno alla democrazia di quella dittatura militare, il primo Obama ha riconosciuto «il diritto di Israele alla legittima difesa », di fronte all’aggressione quotidiana di «migliaia di missili». Ma dopo avere dato l’imprimatur Usa al diritto di difendersi l’altro Obama ha condizionato le parole del primo. «Il diritto all’autodifesa e la protezione dei civili possono essere esercitati senza un’escalation della azione militare ». Evitare la rioccupazione, o l’intervento diretto a Gaza «sarebbe preferibile, non soltanto per il popolo che vive in quella striscia, ma per le stesse truppe israeliane che sarebbero
esposte al rischi di molti caduti».
Né semaforo verde, né semaforo rosso, è dunque il risultato del sanguinoso test che Hamas e Netanyahu hanno sottoposto ai rispettivi sponsor e sostenitori. Come l’Egitto, che dalla pace di Camp David nel 1976 fra Sadat e Begin resta il pilastro sul quale si regge la “non guerra non pace” in Medio Oriente, non vuole incoraggiare Hamas a scatenare quel bagno di sangue “infernale” che ha promesso, così l’America di Obama non vuole trovarsi di fronte a un’altra catastrofe politica, umanitaria e propagandistica come quella creata da “Piombo Fuso” nel 2008.
Semaforo giallo, dunque, da Washington a Tel Aviv, procedere con prudenza, con saggezza, con il coraggio del più forte davanti alle provocazioni del più debole e non fare prove generali per ben altri e ben più rischiosi attacchi militari non ai prigionieri di Gaza, ma a una grande nazione come l’Iran. Quei civili e quei bambini morti sulla linea di demarcazione fra palestinesi e israeliani sono, orribile a dirsi, pedoni mossi e divorati su una scacchiera per muovere verso pezzi importanti. Bibi Netanyahu parla di Gaza, ma pensa a Teheran.

Repubblica 19.11.12
“Stavo giocando poi è esploso tutto”
di Fabio Scuto


GAZA. HASSAN, l’addetto della morgue all’ospedale Al Shifa di Gaza City, ha il volto di pietra mentre depone nella cella frigorifera il corpicino di Eyad Abu Khosa, 18 mesi, morto senza nemmeno accorgersene ieri mattina sotto un bombardamento nel campo profughi di Al Bureij. Eyad è già avvolto nel sudario bianco che lo accompagnerà sottoterra, ma il telo è macchiato di sangue perché la ferita che l’ha ucciso versa ancora.

I MORTI non vengono più ricomposti - come la pietà umana vorrebbe - perché in ospedale il filo da sutura sta finendo e viene usato solo per i feriti. Con Eyad ieri, sotto il diluvio di “bombe intelligenti” che arrivavano da cielo e mare, sono morti altri 9 bambini, tutti sotto i 10 anni. Un missile ha centrato una palazzina di tre piani nel rione Nasser, e si portato via un’intera famiglia, gli Ad-Dalo: 5 donne, la nonna e 6 ragazzini; il più piccolo aveva una settimana, il più grande 5 anni. Nel suo quinto giorno la “seconda guerra di Gaza” ha conosciuto il suo bilancio più sanguinoso: 24 i morti ieri, 22 i civili palestinesi - 10 bambini - e due noti dirigenti di Hamas. In un atmosfera da incubo - la città deserta, i raid aerei che si susseguono, l’attesa carica di ansia e paura per l’attacco terrestre - la gente di Gaza piange questa “strage degli innocenti”.
«Se gli israeliani fermeranno i bombardamenti forse domani riusciremo a fare il funerale », dice Fadhi, lo zio di Eyad, unico parente che assiste al tragico rito nella camera mortuaria e firma le carte nello sgangherato ufficio a fianco, affollato dai parenti delle altre vittime che in silenzio aspettano il loro turno. Sono tutti uomini, almeno alle donne è risparmiata questa tragica incombenza, quest’ultimo dolore. La madre di Eyad, Safiah, è dall’altra parte dell’ospedale. Nel reparto rianimazione al piano terra i medici della terapia d’urgenza si stanno affannando a tenere in vita gli altri due fratellini di Eyad, di 4 e 5 anni, gravemente feriti nella stessa maledetta esplosione che ha ridotto la loro casa nel campo profughi a un pugno di sabbia.
Ambulanze e macchine civili arrivano di continuo nel cortile dell’Ospedale Al-Shifa il nosocomio più importante della città, più importante della Striscia - ma le sirene sono spente e i clacson muti perché non ce n’è bisogno: le strade di Gaza City sono deserte. La benzina scarseggia, al mercato nero ha toccato i 100 dollari per venti litri, ma soprattutto l’auto potrebbe diventare un bersaglio per i droni e per i missili degli F-16 a caccia delle rampe dei missili che comunque - dopo cinque giorni di bombardamenti senza interruzioni - continuano a piovere sul sud d’Israele.
Per evitare di essere colpiti i miliziani palestinesi hanno creato a Gaza postazioni di razzi ben mimetizzate, gli ordigni sono interrati, protetti da piastre mobili che aderiscono perfettamente al terreno e che vengono alzate con un radiocomando. Oppure quelle mobili vengono nascoste e spostate nelle aree più densamente abitate, impianti sportivi o vicino alle scuole per farsi scudo dei civili e cercare di sfuggire alla rappresaglia che invece puntualmente arriva dopo ogni lancio. Con il conseguente alto numero di vittime non combattenti. Gaza, con i suoi quasi due milioni di abitanti, è una delle aree più densamente abitate del mondo e quasi metà della palestinesi che ci vive ha meno di 15 anni, bambini e adolescenti hanno sempre pagato un prezzo alto ad ogni operazione militare.
L’atrio del pronto soccorso dell’Al-Shifa è una bolgia di gente che arriva, che piange, che si dispera, che maledice il mondo, che fuma in silenzio con lo sguardo basso guardandosi le scarpe. Il “triage” è invaso di feriti e i medici del pronto soccorso lavorano senza sosta, dibattendosi in mille difficoltà, che sono soprattutto legate alla penuria della farmacia dell’ospedale e alla mancanza di energia. I tavoli operatori di primo intervento nella sala a lato sono separati da una semplice tenda, Il dottor Medhat Abbas, che dirige l’ospedale, durante una pausa tra un’operazione e l’altra ci dice: «In 5 giorni abbiamo consumato quel che consumiamo in 3 mesi, abbiamo curato finora oltre 500 feriti, i 700 posti letto dell’ospedale sono tutti occupati e anche i 20 che abbiamo nella terapia intensiva; lavoriamo senza elettricità per 12 ore al giorno, non si può operare al buio, non funzionano le macchine per l’intervento. E poi stiamo finendo gli anticoagulanti, gli analgesici, gli anestetici, i materiali per le lastre, le sacche per le trasfusioni… ma anche le cose più semplici come i guanti o il filo per le suture». Salendo le scale sbrecciate fino al terzo piano si arriva al reparto Pediatria, nel disimpegno che porta alle stanze un gran poster di “Winnie the Pooh” e i disegni lasciati dai piccoli pazienti sono fissati al muro con le puntine. Anche Pediatria non ha un solo posto libero, perché il più alto numero di feriti si registra tra i bambini. Le case sono piccole a Gaza e il pezzo di strada davanti all’uscio diventa una propaggine dell’abitazione, tutti i ragazzini giocano per la strada. Difficile tenerli fermi, dentro casa, sotto controllo, lontano anche dalle finestre. Non avvertono il pericolo, non hanno la malizia dell’adulto nel riconoscere il rumore fisso che fanno i droni che incessantemente sorvolano la Striscia, il sibilo del missile che annuncia la morte in arrivo quando ormai è troppo tardi. Le scuole nella Striscia sono chiuse da quasi una settimana, i negozi pure, le strade - vuote del caos di traffico abituale - diventano immaginari campi di calcio per partite senza fine. Mahmoud Karton, 6 anni appena fatti, stava proprio giocando una di quelle partite sulla strada di casa nel popolare quartiere di Rimal, quando un missile ha colpito un palazzo di fronte e una scheggia nella schiena gli ha strappato via un rene. La madre Nila, in hijab nero e foulard, è seduta ai piedi del letto. Mahmoud ha il cannello nel naso e l’ago della flebo nella mano destra, ma lo sguardo è rimasto vivace. Che ti ricordi? «Giocavamo e vincevamo pure… poi un fischio, una luce, un gran male lì», dice indicando i grandi occhi neri il lato destro delle coperte consunte ma pulite che lo coprono. «Noi di Gaza siamo ormai abituati a tutto», dice Nila ringraziando per la visita com’è costume fra gli arabi, «l’importante è che sia vivo, abbiamo già perso Majid durante la guerra del 2008… aveva la stessa età. Non voglio dire contro nessuno, ma gli uomini facciano la loro guerra e lascino stare i nostri bambini».

Repubblica 19.11.12
Lo scrittore Keret: “Il conflitto rende entrambe le parti più forti. Per questo non cedono”
“Nessuno vuole davvero la pace ci sono in gioco troppi interessi”
di Rosalba Castelletti

«QUESTO conflitto rende più forte sia Hamas sia il premier Netanyahu. Per questo non ne vedo una fine prossima». Lo scrittore israeliano Etgar Keret, 45 anni, i cui lavori tradotto in 35 Paesi e 31 lingue, è pessimista. Quando Israele ha dato il via all’operazione “Colonna di nuvo-le”, si trovava negli Stati Uniti per presentare il suo ultimo libro All’improvviso bussano alla porta, ma venerdì è rientrato a Tel Aviv per stare vicino alla sua famiglia. «Ogni volta che suona una sirena, cerchiamo riparo in spiaggia come nel 1991. Non è una situazione piacevole, soprattutto per il mio figlio più piccolo, ma poi mi dico che quello che stiamo vivendo in questi giorni non è minimamente comparabile all’incubo quotidiano delle famiglie che abitano nella Striscia di Gaza o nel Sud di Israele».
L’operazione israeliana è iniziata con l’omicidio di Ahmed Al Jabari. Come si giustifica la sua uccisione?
«Se si guarda al Medio Oriente, il quadro generale che si ha è che Israele ha occupato la Palestina e che quindi i palestinesi hanno reagito. Ma, nel caso specifico, la logica del governo israeliano è semplice: se tu mi spari, io ti sparo. Perciò l’omicidio di Jabari è legittimo nell’ottica israeliana. La giustificazione sta nell’escalation di lanci di razzi da parte di Hamas delle scorse settimane ».
Non c’è nessuna relazione con le prossime elezioni israeliane?
«Le ragioni dell’attacco sono molte. Netanyahu ha interessi politici sia esterni che interni. Il bombardamento su Gaza rientra in un piano più grande che comprende l’invio di un monito all’Iran. Non c’è però dubbio che il conflitto lo renderà politicamente più forte in casa. Fu eletto per la prima volta nel 1966 dopo che Shimon Peres non era riuscito a fermare l’ondata di attacchi terroristici contro i civili. Fu Hamas a fargli vincere le elezioni allora e gliele farà vincere anche stavolta. Hamas è un bene per Netanyahu come Netanyahu è un bene per Hamas. Questo conflitto li rende reciprocamente più forti».
Come si può fermare questa spirale?
«Israele dovrebbe concedere una capitale ai palestinesi e i palestinesi dovrebbero riconoscere Israele come Stato ebraico. Ma nessuno vuole cedere. Nessuno vuole i negoziati. Entrambi dovrebbero instaurare nuove relazioni e raggiungere un compromesso pragmatico. La retorica non porterà da nessuna parte».

l’Unità 19.11.12
Primarie
Già 600mila iscritti «No a inutili tensioni»
A sei giorni dalle primarie le preregistrazioni procedono spedite
Trentamila volontari ieri all’opera, per domenica pronte 8 milioni di schede
L’invito a registrarsi prima di domenica, recandosi presso uno degli uffici elettorali
Appello degli organizzatori: sia una grande festa
di Giuseppe Vittori


ROMA Superata quota seicentomila. Tanti erano gli iscritti censiti ieri pomeriggio dal quartier generale di Italia Bene Comune quando ancora i 6500 uffici elettorali erano aperti. Una mobilitazione in vista dell’ultima settimana prima dell’apertura dei gazebo, domenica prossima dalle 8 del mattino alle 20 di sera, che ieri ha visto in campo quasi trentamila volontari in tutta Italia. Una settimana, quella che sta iniziando, che sarà al calor bianco: cinque i candidati (Bersani, Vendola, Renzi, Puppato, Tabacci), ma l’attenzione si concentra sulla battaglia tra il segretario Pd e il sindaco di Firenze.
Duecentomila le iscrizioni on line, 400mila quelle cartacee, oltre 8mila gli uffici elettorali già costituiti, mille quelli che apriranno i battenti da qui a domenica. Sei milioni le schede che verranno consegnate nei kit (seicento schede elettorali in ognuno), due milioni quelle di scorta, mentre le previsioni ufficiose del quartier generale si attestano tra i due e i tre milioni di partecipanti alle primarie. Ma fare stime certe è impossibile, come hanno dimostrato i gazebo nel 2009 quando andarono a votare oltre tre milioni di elettori.
La preoccupazione maggiore, adesso, è il clima che potrebbe crearsi nei seggi tra i rappresentanti dei candidati. Stavolta sono primarie «caldissime», i sondaggi raccontano di un vantaggio di Bersani che stacca Renzi di vari lunghezze ma l’esito nessuno lo da per scontato. La battaglia è soprattutto tra il segretario e il sindaco e quest’ultimo è agguerrito. «Regole fatte per restringere e non per allargare la partecipazione», è stato il suo leit motiv durante la campagna elettorali. Dal suo Comitato non si contano gli appelli ai rappresentati ai seggi a tenere gli occhi aperti. «Inutili tensioni», commentano dal Comitato organizzatore, meglio sarebbe «mantenere la calma e vivere questo appuntamento come una grande festa di partecipazione del popolo di centrosinistra». Il timore sono la valanga di ricorsi e reclami che potrebbero arrivare al Comitato dei Garanti e in via Tomacelli 146, sede del comitato Italia bene Comune. Soprattutto nel caso in cui si dovesse andare al ballottaggio: il rush finale caratterizzato da polemiche legate ai ricorsi o ai sospetti di brogli, raccontano al Pd, sarebbe un danno prima di tutto per il centrosinistra. E questa è la preoccupazione del segretario Pier Luigi Bersani che l’altro giorno ha invitato ad avere rispetto per la correttezza delle migliaia di volontari che garantiranno lo svolgimento delle primarie e dunque a con calare ombre di sospetto sulla regolarità del voto.
Al punto che l’altro giorno alla Leopolda è stato consegnato un vademecum: massima attenzione ai verbali (da fotografare), all’integrità delle urne, a non abbandonare il luogo dove si svolgono le operazioni di voto.
LA BUONA POLITICA
Rassicurante Laura Puppato: «Le primarie del centrosinistra, chiunque sarà il vincitore, saranno servite a far riavvicinare i cittadini alla politica», dice durante il suo tour elettorale tra Abruzzo e Puglia. «L’altissima partecipazione agli incontri, con punte di oltre 300 persone in piccole realtà come Roseto degli Abruzzo racconta dimostra che se la politica si propone obiettivi chiari, definiti e condivisibili, e esce dalle stanze chiuse del potere può veramente riavvicinare la gente». Anche Bruno Tabacci sulla stessa linea: «Le primarie cadono in un momento particolare e complesso e c’è bisogno di avere lucidità dopo un ventennio in cui il nostro Paese ha perso il senso della visione. Il mondo nel frattempo è cambiato e noi siamo ancora con la testa ripiegata all’indietro».
L’appello che lanciano dalla coalizione è quello di registrarsi comunque prima di domenica, per coloro che possono, recandosi presso uno degli uffici elettorali più vicini (l’elenco è pubblicato sul sito www.primarieitaliabenecomune.it) muniti del numero del seggio dove si vota alle politiche (scritto sulla tessera elettorale), dare la propria adesione al Manifesto della coalizione, un contributo minimo di due euro, e ritirare così il certificato con il quale sarà possibile votare domenica prossima e in caso di ballottaggio il 2 dicembre.
Chi si registra entro il 23 novembre potrà comunicare di voler votare in un luogo diverso, saranno facilitati i fuori sede e in ogni caso domenica ci sarà un aumento degli addetti alla registrazione soprattutto nei seggi che nella passata tornata hanno registrato una maggiore affluenza. Se ci sarà il candidato premier o dovrà essere ballottaggio si saprà soltando domenica in tarda serata.

l’Unità 19.11.12
Il leader di Sel: conflitto d’interessi a Firenze
«Renzi deve spiegare se c’è conflitto di interesse tra lui, il Comune di Firenze, l’Istituto di credito fiorentino e un finanziere noto come suo sponsor»


Così Nichi Vendola chiede al sindaco di fare chiarezza sull’investimento che l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze ha deciso di fare nel fondo Algebris di Davide Serra, il finanziere su cui nelle scorse settimane s’era scatenata la polemica perché la sua società ha sede alle Cayman. Appena l’altro giorno Renzi lo ha voluto alla convention della Leopolda proprio per dimostrare che su quel legame non aveva nulla da nascondere.
Come raccontato dal “Il Fatto” di ieri, l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze ha investito 10 milioni con
Serra. La fondazione bancaria è presieduta da Jacopo Mazzei definito dal quotidiano «amico del sindaco», mentre nel cda siede Marco Carrai da sempre legato a Renzi (è ad della Firenze Parcheggi). Infine nel comitato di indirizzo dell’ente c’è Bruno Cavini che fa parte dello staff del sindaco. Da Palazzo Vecchio però ribattono che il Comune nell’ente non conta quasi nulla. Che ha il potere di nominare solo un membro dei 22 che formano il comitato di indirizzo e che questo organo non ha alcun potere di decidere gli investimenti dell’ente. «Non mi piacciono le campagne elettorali fatte di colpi bassi conclude Vendola -. Ma la questione morale è legata al fatto che la politica non è più autonoma dai poteri forti».

Repubblica 19.11.12
Il presidente Mazzei: “Acquistati 10 milioni sul fondo Algebris ma Matteo non c’entra niente”
Cassa di Firenze, è polemica sui bond di Serra
di Ernesto Ferrara


FIRENZE — Prima la cena a porte chiuse a Milano, ora i 10 milioni di CoCo bond del fondo Algebris acquistati dall’Ente Cassa di risparmio di Firenze, la principale fondazione bancaria della città, nel cui cda siede Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi. Per la seconda volta in poche settimane il finanziere Davide Serra, patron di Algebris — il fondo con sede nel paradiso fiscale delle Cayman che proprio per Renzi aveva organizzato la cena col mondo della finanza a Milano il 17 ottobre scorso scatenando una tempesta con Bersani — irrompe sulla scena delle primarie.
E ancora una volta scoppia la polemica intorno al rottamatore, ieri nella sua Bettola, a Rignano sull’Arno, accolto da una festa di paese. «Renzi spieghi se c’è conflitto di interesse tra lui, il Comune di Firenze, l’istituto di credito fiorentino e un finanziere noto come suo sponsor», lo attacca lo sfidante Nichi Vendola.
È il Fatto quotidiano a rivelare ieri l’investimento dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze: un’operazione che risale a fine settembre. C’entrano qualcosa Renzi e il suo rapporto con Serra? Il sindaco nomina nell’Ente solo un membro del comitato d’indirizzo: in questo caso il portavoce di Renzi, Bruno Cavini. «Queste cose non passano dal comitato di indirizzo e comunque io non ne sapevo nulla», precisa Cavini. E anche il presidente dell’Ente Cassa, Jacopo Mazzei, chiarisce: «Ho conosciuto Serra quest’estate al mare, mi ha parlato di questi prodotti, fondi obbligazionari subordinati, con rischi accettabili. È tutto nato da lì. Non sapevo certo che Serra sarebbe stato coinvolto in iniziative di sostegno a Renzi e non sono stato io a presentarlo a Matteo. Insieme li ho visti solo una volta: alla famosa cena di Milano dove ero invitato anch’io».
Carrai, membro del cda, ha avuto un ruolo nell’operazione? «Lui non c’entra nulla, gli investimenti di questo tipo sono decisi dalla commissione patrimonio, che poi relaziona al cda», tiene a dire Mazzei. Le opposizioni fiorentine, Sel e Perunaltracittà di Ornella De Zordo, annunciano battaglia nel Consiglio comunale di oggi: «L’Ente taglia i fondi al volontariato e investe 10 milioni in fondi ad alto rischio, Renzi spieghi se c’è conflitto d’interesse ». Renzi non parla, Mazzei precisa: «Non è vero che tagliamo i fondi al territorio, investimenti e erogazioni sono settori diversi».

Repubblica 19.11.12
Il Porcellum peggiorato
di Piero Ignazi


IL PRESIDENTE Napolitano ha ripetutamente, insistentemente richiamato i partiti alla necessità di cambiare la legge elettorale, ma siamo arrivati al punto che l’unica riforma alle viste si riduce a qualche pezza appiccicata sull’orrido Porcellum.
Con il risultato di peggiorarlo ancora, se mai fosse possibile. L’irritazione del presidente è comprensibile: nonostante i suoi moniti, i partiti si sono dimostrati svogliati e neghittosi. Interessati ad altro, insomma. E quando si sono degnati di affrontare il problema si sono attorcigliati intorno a formule astruse elaborando ibridi degni di Frankenstein, in cui si combinavano, maldestramente, l’attaccamento pervicace del Pdl a forme proporzionali con la pulsione maggioritaria del Pd. (E non si è mai capito come mai per anni si sia detto il contrario, e cioè che al centro-sinistra piaceva il proporzionale e al centro-destra il maggioritario, identificando addirittura in Berlusconi il suo alfiere, quando è vero il contrario, tant’è che in tempi di Mattarellum il centro-destra prendeva sempre meno voti del centro-sinistra nella scheda maggioritaria).
Se siamo arrivati a questo punto le responsabilità vanno equamente distribuite. Alla Lega quella di aver ideato la legge, al Pdl di averla sempre difesa, all’Udc di essersi acquattata al misfatto, salvo piangere per non poter giocare uno dei suoi asset migliori, la caccia alle preferenze, al Pd di non aver mai proposto una alternativa forte in
cui riconoscersi. Ciò detto, al Partito democratico va rimproverato qualcosa in più, perché una seria opposizione deve prendersi delle responsabilità per guadagnare credibilità come forza di governo. Era quindi dovere del Pd condurre una battaglia, magari di bandiera ma “onorevole”, in difesa di pochi e chiari principi: l’elezione di un rappresentante per ogni collegio elettorale garantendo quindi un rapporto più diretto tra cittadini rappresentanti; la riduzione della frammentazione senza mortificare la rappresentatività; la scelta per una maggioranza di governo; il rigetto di distorsioni premiali. Tutti principi insiti nel doppio turno alla francese, dalla possibilità del voto “espressivo” grazie all’ampia offerta elettorale del primo turno, allo stimolo a formare coalizioni pre-elettorali per superare la soglia di sbarramento del secondo turno. Tra l’altro, con il doppio turno votiamo già per i sindaci, e non c’è mai stato sistema elettorale più apprezzato dai cittadini. Perché il Pd ha avuto paura di riproporlo sic et simpliciter? Forse perché si è fatto sedurre dalle delizie dei tatticismi parlamentari, o imbrigliare dal fair play con gli altri partner della coalizione, o trascinare dalla
hybris di elaborare qualcosa di così originale ed efficace da convincere anche gli altri?.
Sia come sia, il tempo è scaduto per proporre una vera riforma elettorale. Lo ha ricordato il Consiglio d’Europa: approvare nuove norme elettorali un anno prima del voto è una forzatura. Ora c’è tempo solo per interventi di contorno che salverebbero l’anima ai partiti, lenirebbero l’irritazione del Quirinale, e getterebbero in pasto all’opinione pubblica una immagine/pretesa di volontà riformatrice. Ma è una operazione di corto, cortissimo respiro per gli effetti incerti, distorsivi e di breve periodo che avrebbe una legge rimaneggiata nel premio di maggioranza — perché solo di questo si tratta e non di altro. E poi, un intervento in extremis senza dignità di vera riforma andrà incontro allo sbertucciamento grillino: dal suo blog partiranno le bordate contro una legge fatta per salvare il posto alla Casta, il potere dei soliti partiti, ecc, ecc.. Al netto delle esasperazioni grilliane, c’è però una opinione pubblica esasperata nei confronti della politica fuori dal Palazzo, e una riformetta che non offra un diverso e migliore rapporto tra eletti e rappresentanti non farebbe che esasperarla. Insomma, un infangamento ulteriore del Porcellum, con questo balletto sui premi da fiera zootecnica, irrita e delude. Per una volta, piuttosto che un rabberciamento dell’ultimo minuto da dover poi modificare ancora per la sua insostenibilità, meglio niente.

Repubblica 19.11.12
Dai renziani a Vendola timori sulla macchinosità delle procedure. I bersaniani: “Voteranno tutti”
L’incubo della doppia fila ai gazebo “Gli uffici elettorali non bastano”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Ci vogliono dai 4 ai 5 minuti per registrarsi alle primarie. Facendo un rapido calcolo: se i pre-registrati non saranno più di un milione, e se però riuscissimo come contiamo di fare - a portare ai seggi delle primarie 4 milioni di elettori, ecco che ci vorrebbero 27 ore circa per votare. mentre di ore domenica prossima ne abbiamo 12». Il countdown delle primarie (-6 giorni) comincia con un'altra polemica. Roberto Reggi, il coordinatore del “comitato per Renzi”, chiede un potenziamento degli uffici elettorali: vista la strada scelta, ovvero la registrazione obbligatoria, ce ne vogliono tanti quanti sono i seggi. E poi, aggiunge, bisognerà organizzare ogni metodo per accelerare le procedure di voto. Perché - avverte Reggi - «sarebbe un disastro se non riuscissimo a fare votare tutti quelli che si mettono in fila: allora, lo staff organizzativo del Pd dovrebbe dimettersi ». Ci saranno doppie file e il rischio di lentezza è concreto. Sempre che la sfida tra Bersani, Renzi, Vendola, Laura Puppato e Tabacci per la premiership del centrosinistra riporti in quota la politica e vinca la disaffezione.
Matteo Renzi, il “rottamatore”, ripete che più gente va a votare, più lui ha buone chance e perciò il suo slogan ora è: «Meglio perdere un quarto d'ora in più domenica in fila, che i prossimi cinque anni». Laura Puppato incalza: «Non rifacciamo gli errori di burocratizzare perché dissuadiamo dalla democrazia».
Niente rigidità: insiste Vendola. Dallo staff organizzativo, i bersaniani replicano ai renziani: «Sono lamentele un po’ folli».
Nico Stumpo ricorda che alle ultime primarie - quelle del 2009 per la segreteria del Pd, in cui si fronteggiarono Bersani e Franceschini, e andarono a votare in 3 milioni e 100 mila - le procedure richiedevano un tempo quasi uguale, e tutto si faceva in un solo giorno. Comunque, l'incognita è appunto la partecipazione. L'ultimo dato disponibile ieri sera, lo fornisce Roberto Cuillo: 600 mila i preregistrati, di cui 200 mila online (sul sito www.primarieitaliabenecomune. it ) e 400 mila persone sono andate negli uffici elettorali di tutt'Italia a iscriversi. Non molti?
Cuillo: «Ma ora inizia il rush finale ».
Regione per regione arrivano numeri e problemi. A Napoli - la città dello scandalo delle ultime primarie per il sindaco - e in provincia, i registrati sono 20 mila; 12 mila a Salerno e 8 mila a Caserta. Già sono stati individuati 550 uffici elettorali in tutta la Campania. «Insomma, tutto il territorio sarà coperto», spiega Francesco Dinacci, il responsabile dell'organizzazione campano. I veleni che accompagnarono le primarie del gennaio del 2011, poi annullate per brogli, sono stati presi come esempio di ciò che non si deve più ripetere e perciò Bersani ha voluto l'albo degli elettori.
In Piemonte 50 mila registrati, poco più di un quarto dei votanti del 2009. I responsabili dell'organizzazione sono fiduciosi, pensavano che la pre-iscrizione, soprattutto quella online, andasse anche peggio. Fioccano cifre e anche scontri su dove tenere i banchetti di pre-registrazione. «Non va bene se sono solo nelle sedi del Pd, meglio davanti ai supermercati, in piazza», ribadisce Reggi. Cuillo replica. «Ci sono dappertutto, io mi sono registrato a Roma in un camper ». A Genova, città concreta, stanno preparando i seggi per domenica prossima: in tutto, inclusa la provincia, saranno 124, e hanno dato la loro disponibilità un ristoratore di Albaro (quartiere “bene”) e una dottoressa di Staglieno (quartiere popolare). Finora in Liguria di sono registrati in 13 mila. In Emilia Romagna, ci sono già state code: 65 mila gli iscritti (di cui 25 mila online), il contributo versato è in media di 3 euro e 50 (quello previsto è di 2 euro).
Bersani si è già registrato a Piacenza, la sua città. In Lombardia (a Milano e nel milanese 25 mila iscritti), la preoccupazione è: «Come ci si comporta nei piccoli comuni dove magari viene a votare chi è stato in una lista civica alternativa alcentrosinistra? Mica possiamo fare il tribunale del popolo ». Infine, bisognerà vedere come risponde la Sicilia di Crocetta e dei grillini: finora nel palermitano 3.700 iscrizioni. In Puglia, anche per via di Vendola, si prevede un boom: intanto 19 mila registrati, il numero più alto a Foggia. A Roma, sono 35 mila iscritti.

l’Unità 19.11.12
I cattolici stanno bene nel socialismo europeo
di Paolo Borioni


ALCUNI GIORNI FA SU «L’UNITÀ» UN ARTICOLO DI STEFANO FASSINA SU CRISTIANESIMO PROGRESSISTA E SINISTRA EUROPEA mi ha suggerito diverse riflessioni critiche, nonostante io condivida quasi totalmente le sue idee e intenzioni. Penso anch’io che occorra un’opera di riforma netta della democrazia e della società europea, senza la quale l’ideologia dell’austerità perpetuerà la crisi, lo squilibrio e l’esclusione, causando meno mobilità sociale e quindi meno competitività. Condivido anche, nell’impianto generativo del Pd, che in quest’opera occorra il cristianesimo progressista e popolare di Marini, di Gabaglio e di Carniti, per citare alcune delle persone con cui (ha ragione Fassina) è più utile e fruttuosa la condivisione. Con Emilio Gabaglio (un grande conoscitore del movimento operaio europeo) interloquisco anch’io nel lavoro alla Fondazione Brodolini.
Va chiarito però che in questa sua opera il Pd non ha nulla da guadagnare nel dipingere, sbagliando, un socialismo europeo agonizzante, che pare affiorare nel pensiero (o forse nel desiderio) di alcuni. A tratti anche nell’articolo di Fassina. Né, soprattutto, ha da guadagnare il Pd se cede alla tentazione di ritenersi un fenomeno dalla originalità assoluta. Esagerare i tratti dell’anomalia italiana finisce per esaltare il senso di distanza dell’Italia dall’Europa, legittimando i bizzarri e in realtà regressivi nuovismi degli ultimi lustri (ostili alla leadership di Bersani), e favorendo anche chi vorrebbe desistessimo dal far partecipare la sinistra italiana al cambiamento, verso sinistra, dell’Europa.
La novità, diversa dal nuovismo regressivo, ha radici nella sinistra europea. Anche l’innesto fra socialismo democratico e cristianesimo sociale che avviene nel Pd è, sebbene in condizioni meno confuse, già avvenuto nel socialismo europeo. Olof Palme, nel 1965, tenne uno dei discorsi che più ne sancirono il grande carisma proprio di fronte al «Movimento per la fratellanza», cioè all’organizzazione cristiana presente nel socialismo svedese. Egli ritenne di toccare le corde profonde di una evidente comunanza dicendo che per il socialismo «i valori umani sono molto più che diritti e libertà. Essi sono legati alle condizioni economiche e sociali e alla questione della struttura e dell’organizzazione della società». La riforma del capitalismo per la libertà e l’integrità delle persone (questo indicava Palme) è stata poi condivisa da Delors, che dal sindacato cristiano confluiva nel nuovo partito socialista di Mitterrand (collaborando molto con Franco Archibugi, socialista italiano); da Gino Giugni che, morto Brodolini, completava con Donat Cattin la riforma dello Statuto dei lavoratori; e da Pierre Carniti, che prima si mobilitava per eleggere Riccardo Lombardi a Milano, e poi veniva egli stesso eletto al Parlamento europeo, nelle file socialiste. Insomma, entrando nella sinistra europea, il Pd e specie la sua parte cristiana devono essere consapevoli, e lieti, di non venirvi accolti come inediti estranei, anche se la sinistra europea (lo si accetti) rimane a irreversibile maggioranza socialdemocratica.
Il socialismo europeo, d'altronde, è una vera salvezza per chi altrimenti, pur progressista, dovrebbe militare nel Partito popolare europeo dei liberal-conservatori Cameron e Merkel. Insomma: i nostri cristiano-sociali dovrebbero augurarsi di trovare una socialdemocrazia forte, in uscita dagli anni del moderatismo neoliberale, e che li accolga con i pensieri e i desideri di Olof Palme, e non un socialismo europeo in via d’estinzione.
A questo proposito sbaglia, credo, Stefano Fassina quando suppone che la socialdemocrazia è in declino in quanto esperienza legata al fordismo del passato. Non avrà difficoltà a comprendermi, poiché egli sa che le difficoltà della sinistra provengono dal passaggio da un tipo di crescita trainato dai salari ad uno trainato dal debito (specie privato) e dalla finanza su questo distruttivamente cresciuta. Le forme dell’investimento si sono dissociate dalla regolazione e dalla negoziazione con sindacati, lavoratori, partiti. Così, non la socialdemocrazia in quanto tale, ma qualunque negoziazione democratica con il capitalismo ha perduto efficacia. Oggi, però, la crisi mostra per l’ennesima volta nella storia che senza dare forza alle organizzazioni del lavoro dipendente e al ciclo investimenti-occupazione-welfare, il capitalismo va infallibilmente (e rovinosamente) a sbattere.
Dunque, visto che la socialdemocrazia rappresenta in Europa la parte preponderante di interessi sociali che, in Italia, il Pd di Bersani mira a valorizzare, uscire dalla crisi significa rinforzare la sua missione storica. Se, insomma, la Spd lotterà per far guadagnare di più i propri lavoratori, ripartiranno insieme l’Europa e la socialdemocrazia. Altrimenti, certo, la socialdemocrazia rimarrà in difficoltà, e assediata dal populismo, ma il Pd sarà probabilmente spazzato via, o in preda di chi, oggi come ieri, intende asservirlo ad una modernità tutta elitista, neoliberale e mediatica. Questo, peraltro, lo hanno assai più chiaro Marini e Gabaglio di certi dirigenti ex-Pci. Molti ex-comunisti si sono smodatamente entusiasmati, negli anni 90, per Blair e «l’Ulivo mondiale». Come dice spesso Laura Pennacchi, erano in realtà da sempre più vicini a Einaudi che a Palme. Usciti dal guscio del comunismo hanno visto Blair e lo hanno scambiato per la loro guida nella sinistra moderna. Fassina, Gabaglio, Marini, Orfini e altri, combattono oggi il fallimento di quegli anni di svolte remissive e infelici. Basta pensarci e comprenderanno che possono vincere solo in una socialdemocrazia europea forte e determinata a trasformare l’Europa della crisi neoliberale.

Repubblica 19.11.12
“Con l’accordo sulla produttività passa il modello Marchionne”
Landini: su orari e mansioni si va contro la Costituzione
di Roberto Mania


ROMA — «Marchionne se ne sta andando dall’Italia, ma il suo modello rischia di estendersi a tutto il paese. Tutto questo può sembrare paradossale, ma è così. E tutto questo è anche contro le nostre leggi e i principi costituzionali». Maurizio Landini, 51 anni, da due segretario generale della Fiom, i metalmeccanici della Cgil, parte dalla Fiat per spiegare il suo no all’accordo sulla produttività proposto dalle imprese, ma anche per parlare di una nuova alleanza tra lavoratori e studenti che ruota intorno ai diritti (al lavoro e all’istruzione pubblica) «mentre — sostiene — assistiamo a un pericoloso processo di involuzione democratica».
La produttività intanto. Perché la Fiom, come la Cgil, è contro l’intesa? Perché, anche in questo caso, ritorna una sorta di “ossessione Fiat” da parte vostra?
«Perché quel testo mette in discussione l’esistenza stessa del contratto nazionale».
Non c’è scritto da nessuna parte.
«No? Quando non è affatto scontato che il contratto nazionale fissi i minimi retributivi per tutti non si mette in discussione forse il ruolo del contratto nazionale? E quando si punta a dare piena attuazione al famigerato “articolo 8” voluto dalla Fiat e scritto da Sacconi non si finisce per legittimare contratti che sono contro le nostre leggi e pure contro la Costituzione?».
A cosa si riferisce?
«Alla possibilità che con un accordo tra privati, quale è un contratto di lavoro, si possa derogare alle norme di legge sugli orari di lavoro, superando il tetto delle 40 settimanali, delle otto giornaliere, e il concetto stesso di straordinario. Con un contratto si potrà pure demansionare un lavoratore e controllarlo attraverso gli audiovisivi, cosa che lo Statuto dei lavoratori vieta. Tutto questo è antidemocratico, come lo è il fatto che da anni ormai i lavoratori non votano più sui contratti e sulle pensioni. È per questa via che sta vincendo il modello Marchionne. Il governo non ha certo cancellato la norma di Sacconi e la Confindustria sta pensando di recuperare la Fiat attraverso il peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Non è così che si aumenterà la produttività».
Ma se si votasse e i lavoratori dicessero sì all’accordo, lei lo rispetterebbe?
«Guardi, io credo che ci siano diritti indisponibili tutelati dalle leggi e dalla Costituzione. Detto ciò bisognerebbe far votare sempre i lavoratori altrimenti c’è il rischio che il sindacato venga legittimato dalle sue controparti: il governo e la Confindustria. Per esempio trovo singolare che il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che in questi anni non avendo argomenti di merito non ha fatto altro che calunniare la Fiom perché sarebbe diventato un soggetto politico, proprio nel giorno in cui dava il suo assenso alle proposte delle imprese partecipava alla costruzione di un nuovo partito che propone l’attuale capo del governo come leader. Le sembra questo un modo di fare il sindacalista?».
La crisi economica sta peggiorando. Vede il pericolo che le tensioni sociali possano aggravarsi nei prossimi mesi?
«Assolutamente sì. Non solo perché stanno saltando migliaia di posti di lavoro, ma anche perché sono in discussione diritti. Quelli del lavoro, come ho già detto, e pure quelli degli studenti: il loro diritto a una istruzione pubblica fino a quello di assemblea messo in discussione dalla legge Gelmini».
La Fiom a fianco del nuovo movimento studentesco. Prenderete iniziative comuni?
«Abbiamo già in programma uno sciopero generale dei metalmeccanici il 5 e 6 dicembre prossimi. Il nostro Comitato centrale ha votato un documento a sostegno delle manifestazioni studentesche e contro le aggressioni che hanno subìto».
Operai e studenti uniti nella lotta: si torna agli anni 70?
«Non solo uniti nella lotta: uniti per cambiare questo modello sociale ».

La Stampa 19.11.12
Briatore choc: sto con Landini E lui sospira: io parlo con tutti
Così il capo della Fiom è diventato l’erede tv di Bertinotti
di Jacopo Iacoboni


Ci mancava. Briatore che ammicca a Landini. Dopo una surreale puntata di Santoro, già congegnata sul tema «Ricchi e poveri (non c’era però la brunetta), in cui il fondatore del Billionaire era seduto accanto al suo totale opposto, il segretario della Fiom Maurizo Landini, l’altra notte l’uomo di Malindi ha scritto il seguente tweet: «Ho conosciuto Maurizio Landini, una persona per bene, corretta, e (udite udite) su molti punti sono d’accordo con Maurizio!! Bravo!! ». E per tutta la puntata, mentre insolentiva Nunzia Penelope, «ma non mi rompa i maroni», e la Costamagna, «ma non faccia la maestrina», si rivolgeva invece a Landini con rispetto e ungendo amicizia, «Maurizio...».
E «Maurizio» che dice, è in imbarazzo per l’apprezzamento che arriva dalla star del reality The Apprentice, esempio inimitabile del capitalismo alle vogole? Landini sospira: «Guardi, se qualcuno riporta un’impressione positiva da quello che dico a me fa piacere, chiunque sia. Ho sempre pensato dove m’invitano vado, perché per me è importante, nella chiarezza dei ruoli, confrontarmi coi punti di vista diversi, in questo caso opposti, al mio. Anche se è Briatore». E’ la ragione per cui la Fiom dialoga anche con soggetti della sinistra non tradizionalmente sindacali, o radical in modi diversi dal loro, per esempio sarà il 24 ad Assago alla convention di Libertà a Giustizia con Umberto Eco, Saviano e Zagrebelsky. O la stessa per cui, dice Landini, «a giugno abbiamo incontrato una serie di soggetti politici del centrosinistra o dei movimenti, Bersani, Vendola, Di Pietro, Ginsborg, Mario Tronti, Revelli... per chiedere di rimettere al centro il lavoro, in questo Paese». Briatore in tutto questo c'entra poco, ma insomma, varrà la pena notare che Landini sta assumendo un po’ il ruolo del Bertinotti d’antan: la sinistra più amata dai media. Landini è simpatico, anche a Torino. Gli avversari immancabilmente dicono di lui: «Non condivido le sue idee, ma lo rispetto, e ci andrei a cena volentieri». Ha il maglioncino, ma con la maglia della salute a vista. Farà politica, magari in una lista arancione De Magistris? «In questo momento il problema, sindacale ma anche politico, è la frammentazione, bisogna riunificare, non dividere ulteriormente». I nemici applaudiranno? «Il nemico non esiste, io vado dove m’invitano, perché so bene qual è la mia strada». Condita da un emiliano «perbacco»."twitter @jacopo_iacoboni"

l’Unità Lettere 19.11.12
Attualità di Gramsci

di Benedetta Lorenzi

Oggi come non mai l’assenza di senso civico sta minando le fondamenta della democrazia e della libertà del nostro Paese. La difficile congiuntura economica-politica e sociale che ci attanaglia deve trovare risposta e soluzione nel ritorno alla militanza politica. Gramsci, eternamente contemporaneo nei suoi scritti ci ricorda che «odio gli indifferenti, vivere vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita». «Perciò continua il filosofo odio chi non parteggia». Odio che significa disprezzo per una sottovalutazione dell’etica dell’essere cittadino: partecipare alla vita della comunità significa, per il pensatore, e ancor con maggior forza per noi, dare pieno valore e concretezza all’idea di democrazia. Il popolo sovrano che partecipa, sceglie, si schiera, realizza pienamente se stesso, comprende il proprio valore storico e ha la forza di rivendicare i propri diritti. Ecco perché, oggi più che mai, si deve tornare a incontrarsi nelle piazze, nei luoghi pubblici a parlare, a testa alta, di politica. «Istruiamoci, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitiamoci, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizziamoci, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Adesso sta solo a noi partecipare ed esserci per l’Italia, bene comune di tutti e non di pochi.

Corriere 19.11.12
Meno divieti per le coppie. La legge 40 riscritta dai giudici
Otto anni di sentenze. Resiste solo il no all'eterologa
di Luigi Ripamonti


Giovedì scorso il tribunale di Cagliari ha disposto che una struttura pubblica assicurasse diagnosi preimpianto e analisi genetica a una coppia fertile che ne aveva fatto richiesta, perché portatrice di una malattia genetica trasmissibile.
Si tratta dell'ennesimo intervento di un tribunale sulla legge 40, che regola la procreazione medicalmente assistita in Italia. Proviamo a ripercorrere la storia delle sentenze (in tutto 19) e delle disposizioni più importanti successive alla promulgazione della legge.
La legge 40 entra in vigore il 10 marzo 2004 e nel luglio 2004 vengono emanate le sue prime linee-guida.
Pochi mesi dopo Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni avviano una raccolta di firme per un referendum abrogativo totale, poi trasformato in quattro quesiti referendari, confluiti nella consultazione del giugno 2005, con esito negativo per mancato raggiungimento del quorum.
La prima sentenza che chiama in causa la legge 40 è del giugno 2004, e arriva proprio dal tribunale di Cagliari. Il giudice consente una «riduzione embrionaria» per possibili rischi, in caso di gravidanza plurima, per la donna che ne aveva fatto richiesta, nonostante la legge 40 prevedesse fossero sempre impiantati in utero tutti gli embrioni prodotti con la fecondazione assistita (comunque non più di 3).
Il tribunale di Cagliari, nel settembre 2007, interviene di nuovo, stavolta sulle linee-guida della legge 40, che prevedevano che l'unica indagine possibile sull'embrione fosse di tipo osservazionale, cioè senza biopsia sull'embrione. Il giudice «disapplica» le linee guida in quanto atto di rango inferiore rispetto alla legge, e permette la diagnosi preimpianto come richiesta, rifacendosi al fatto che la legge 40 prevede che la coppia possa chiedere di conoscere lo stato di salute dell'embrione (articolo 14, comma 5) e che possano essere effettuate indagini diagnostiche senza finalità eugenetica.
La decisione del tribunale di Cagliari viene seguita da una analoga del tribunale di Firenze e nel gennaio 2008 il Tar del Lazio annulla la parte delle linee guida che prevedeva come unica indagine quella osservazionale (cioè senza biopsia). In recepimento a questa decisione del Tar del Lazio vengono emanate, sempre nel 2008, nuove linee-guida, a firma del ministro Livia Turco.
In via incidentale, il Tar del Lazio, con la medesima sentenza, solleva anche una questione di legittimità costituzionale della legge 40 nella parte in cui prevede il limite di fecondazione con tre ovociti e l'obbligo di contemporaneo impianto degli embrioni prodotti per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Questo incidente di costituzionalità, seguito da altri due, sollevati dal tribunale di Firenze, porta la legge 40 davanti alla Corte Costituzionale, la quale, il 1° aprile 2009, la dichiara incostituzionale nelle parti in questione, cancellando il limite dei tre ovociti e l'obbligo di unico e contemporaneo impianto in utero di tutti gli embrioni prodotti.
La sentenza è anche «additiva» e «interpretativa» della legge 40, perché i giudici, consapevoli che si potranno creare più embrioni rispetto a quelli che verranno impiantati, di fatto, sanciscono la possibilità che gli embrioni in sovrannumero possano essere crioconservati.
Mentre i tribunali avevano solo stabilito la liceità della diagnosi preimpianto per le coppie che avevano fatto ricorso, con l'intervento della Corte Costituzionale la diagnosi preimpianto è diventata possibile in tutte le strutture abilitate alla procreazione medicalmente assistita.
Sulla diagnosi preimpianto insistono poi nuove sentenze (Bologna nel 2009 e Salerno nel 2010), aprendone la possibilità anche alla coppie fertili. Infatti la legge 40 esclude dalla fecondazione assistita le coppie fertili, anche se portatrici di difetti genetici trasmissibili. I giudici, in sostanza, decidono di equiparare la diagnosi preimpianto alla diagnosi prenatale, anticipando di fatto, la diagnosi che sarebbe stata eventualmente eseguita durante la gravidanza (con amniocentesi o esame dei villi coriali).
Anche in questo caso, però, le decisioni dei tribunali valgono solo per le coppie che avevano presentato ricorso. Il panorama cambia il 28 agosto 2012, quando la Corte europea dei diritti dell'uomo condanna l'Italia per violazione dell'articolo 8 della Carta europea dei diritti dell'uomo sullo stesso tema, in quanto l'esclusione delle coppie fertili dalla diagnosi preimpianto si configurerebbe come discriminazione. Provenendo da questa Corte, la sentenza obbliga lo Stato al rispetto degli Organi comunitari e quindi ha valore per tutti. La decisione, tuttavia, non è ancora definitiva, perché il governo può proporre ricorso entro fine novembre.
La diagnosi preimpianto, dopo questi interventi, può essere eseguita in tutti i centri italiani autorizzati alla fecondazione assistita. I centri pubblici di fatto però, spesso, non la eseguono. L'ultima sentenza del tribunale di Cagliari cui si faceva cenno all'inizio, ribadisce invece che tutti gli ospedali pubblici debbono attrezzarsi per eseguirla.
In sintesi, rispetto all'emanazione della legge 40 ora è lecita la diagnosi preimpianto, che, su richiesta, deve essere eseguita anche nelle strutture pubbliche, anche a coppie fertili che abbiano malattie genetiche trasmissibili, inoltre è possibile produrre più di tre embrioni e non impiantarli tutti contemporaneamente in utero, crioconservando quelli non impiantati.
Rimane invece il divieto di fecondazione eterologa.

La Stampa 19.11.12
Policlinico Umberto I
“Meno letti e personale Aumenta la mortalità tra i neonati prematuri”
di Pa. Ru.


Reparto di terapia intensiva neonatale del Policlinico Umberto I di Roma. Qui, come in altri reparti riservati ai bambini che nascono molto prematuramente o con gravi malattie la spending review sanitaria presenta il conto più doloroso. Perché tra posti letto che scarseggiano, personale sempre più ridotto e costretto a turni massacranti tanti, troppi prematuri non ce la fanno. «Nel Lazio mancano 20 letti di terapia intensiva neonatale, se li avessimo sopravviverebbero 40-50 prematuri che invece non ce la fanno». Non usa mezze parole il Professor Mario De Curtis, che da anni dirige questo reparto di un ospedale spesso al centro di scandali e casi di malasanità ma che qui riesce, nonostante tutto, a fare miracoli. «Solitamente a rischio di morte o malattia sono soprattutto i piccoli con una gestazione sotto le 32 settimane e con peso alla nascita inferiore ai 1500 grammi ma qui da noi sopravvivono anche neonati piccolissimi, di soli 500 grammi e affetti da gravi patologie».
Purtroppo all’Umberto I, come in altri ospedali laziali il fabbisogno di un posto letto ogni 750 nati resta un miraggio. E qui non si parla di letti qualunque perché questi piccolissimi pazienti così prematuri pur essendo appena l’1% di tutti i nati contribuiscono a più della metà di tutta la mortalità neonatale. Per questo richiedono un assistenza super-specialistica, personale qualificato e apparecchiature tecnologicamente avanzate. All’Umberto I mancano invece sia i letti che il personale. «Di conseguenza – spiega il primario - spesso neonati prematuri, anche piccolissimi, non possono essere curati dove nascono ma devono essere trasferiti in un altro ospedale. E in questi casi purtroppo la mortalità è circa il doppio di quella di quella osservata nei nati con caratteristiche simili ma che non sono costretti a drammatici trasferimenti». Eppure nel 2010 la Regione ha approvato un Piano per riorganizzare la rete dell’assistenza neo-natale. Ma in due anni è rimasto solo sulla carta. Ed ora butta anche al peggio perché la carenza di personale rischia di aggravarsi col taglio dei contratti dei precari. «Mister forbici» Enrico Bondi in una serie di incontri top secret lo ha già annunciato ai direttori generali delle asl laziali: la sua prima mossa sarà quella di tagliare tutti i duemila contratti dei precari. «Se così fosse noi dovremmo chiudere perché nel reparto metà dei dipendenti va avanti con contratti a termine», denuncia De Curtis.

La Stampa 19.11.12
Casa del Sole
L’ospedale pediatrico “dimezzato”: otto medici e nessun infermiere
di Laura anello


Palermo Come un avamposto abbandonato nel deserto, otto medici sono il solo presidio sanitario rimasto negli stanzoni della Casa del Sole, l’ospedale pediatrico sacrificato ai tagli. Una sorta di guardia medica per soli codici bianchi – senza infermieri né strumenti di diagnosi – mantenuta soprattutto per non lasciare i padiglioni definitivamente in mano ai vandali. Ad accogliere chi arriva ci sono i cani randagi. È stata proprio la Casa del Sole – riferimento per mezzo secolo dei bambini della periferia sud di Palermo – a pagare uno dei prezzi più alti della riforma sanitaria «lacrime e sangue» varata dalla Regione siciliana per ridurre il deficit da 932 a 271 milioni all’anno ed evitare il commissariamento.
Però, dietro la manovra dell’assessore uscente Massimo Russo - e ora nelle mani di Lucia Borsellino, la figlia del magistrato ucciso, ex braccio destro del predecessore - ci sono lo smarrimento e le proteste di migliaia di genitori. I reparti della struttura tagliata sono stati trasferiti: la maggior parte al Cervello, presidio che non aveva mai visto bambini e che è stato scelto, a tavolino, per diventare la sede del Centro di eccellenza materno-infantile; Chirurgia e cardiologia pediatriche al Di Cristina, all’altro capo della città. Risultato: un frugolo coinvolto in un incidente grave, dal Cervello deve essere trasportato per chilometri prima di entrare in sala operatoria. E che, a essere chiamati per le consulenze ai piccoli ricoverati ci sono gli specialisti degli adulti, che invano protestano sostenendo che gli organi dei bambini sono tutt’altra cosa.
Inascoltati pure i genitori dei babypazienti della cardiochirurgia dell’ospedale Civico che assurse a gloria mediatica con Carlo Marcelletti, il mago del bisturi finito in uno scandalo di sesso e tangenti, suicida 3 anni fa. Quel reparto – leader in Sicilia – è stato tagliato. E il polo cardiochirurgico trasferito a Taormina, 300 chilometri da Palermo, nel Centro mediterraneo gestito dal colosso privato del Bambin Gesù in convenzione con la Regione. Tagli, tagli, tagli. Ad Aziende sanitarie e ospedaliere (da 29 a 17), ai posti letto (meno tremila), alle guardie mediche (solo a Palermo meno 8), ai punti nascita (meno 23). In compenso è rimasto il carrozzone clientelare di 3000 autisti-soccorritori dell’ex Sise, oggi Seus, messo in piedi dall’allora presidente della Regione Totò Cuffaro. L’ambulanza arriva piena di addetti. Il problema è capire dove va.

il Fatto del Lunedì 19.11.12
La guerra della pediatria
“Fondi dello Stato soltanto al Vaticano”
di Ferruccio Sansa


Genova Cinquanta milioni l’anno dello Stato all’ospedale del Vaticano (Bambino Gesù). Zero a quello pubblico (Gaslini, ma il discorso vale anche per gli altri).
Elena, 9 anni, ricoverata nel reparto di oncologia del Gaslini di Genova non si cura di questi “paradossi”. Guarda negli occhi il medico e gli chiede: “Quando uscirò?”. Lui, il professor Pierluigi Bruschettini, fa uno sforzo fisico per non abbassare lo sguardo. Da 40 anni lavora qui, da mattino a notte lo trovi tra i piccoli malati di cancro. Ha messo su un giornale che pubblica le loro poesie. Con una fondazione ha comprato appartamenti per ospitare le famiglie che vengono da lontano. Ma non basta una vita per trovare la risposta a Elena. Quando esci dal Gaslini il mondo fuori ti appare diverso, assurdo perfino. Hai il cuore gonfio di stati d’animo contrastanti: dolore e speranza, sconforto e ammirazione. Per quei bambini che lottano e non è vero che non capiscono. Per i genitori che si tormentano le mani nelle sale d’aspetto. Per i medici che a volte ti sembrano eroi e vengono pagati dieci volte meno di un manager.
SIAMO in un ospedale simbolo della migliore sanità italiana. “Qui – spiega il direttore sanitario Silvio Del Buono – approdano bambini da tutta Italia e da 90 Paesi (tra cui Iraq, Afghanistan e Striscia di Gaza). Nonostante i tagli siamo al primo posto in Italia per la ricerca pediatrica”. Ma nello stesso tempo un istituto in crisi, al centro di una lotta per il controllo di due ospedali pediatrici di eccellenza: Gaslini e Bambino Gesù. L’un contro l’altro armati uomini vicini ai cardinali Angelo Bagnasco e Tarcisio Bertone. Per non parlare di incursioni della politica. “L’intervento delle gerarchie ecclesiastiche è sempre più pesante. E pensare che il Gaslini, nonostante sia controllato anche da una fondazione presieduta dal cardinale di Genova, è pubblico”, racconta Sandro Alloisio della Cgil, uno dei pochi a parlare apertamente. Perché nelle corsie ormai tanti denunciano “invasioni di campo”, ricordano i soldi spesi per la nuova cappella, ma poi pubblicamente tutti tacciono. Del resto basta leggere i nomi ai vertici del Gaslini: il direttore generale è Paolo Petralia. Il suo nome (Petralia , va detto, non era indagato) compariva nelle intercettazioni dell’inchiesta Mensopoli che ha scosso Genova nel 2008: “Ha detto se mi faccio seguire le cose da Petralia che è un uomo molto vicino a Bagnasco”, dicevano gli indagati. Ancora: “Il lavoro sporco lo facciamo fare a ‘sto Petralia”. Niente di illegale è emerso, e comunque quelle frasi non hanno fermato la carriera di Petralia. Intanto mille fili uniscono l’ospedale e la banca Carige, il salotto dei potenti genovesi dove siedono scajoliani e uomini vicini alla Curia. Flavio Repetto e Amedeo Amato sono in entrambe le fondazioni. Nella banca sedeva anche Vincenzo Lorenzelli, oggi presidente del Gaslini che non ha mai smentito la sua vicinanza all’Opus Dei. Poltrone e polemiche: Marta Vincenzi, allora sindaco di Genova, designò nel cda del Gaslini Donato Bruccoleri, farmacista senza esperienza specifica e cugino di Totò Cuffaro, all’epoca ancora in auge nell’Udc (che doveva allearsi con il Pd per le regionali). La Regione invece scelse Raffaele Bozzano, anch’egli senza esperienza specifica e già socio di Franco Lazzarini (grande amico del Governatore Claudio Burlando).
DALL’ALTRA PARTE del Tevere, al Bambino Gesù, regnano invece i bertoniani: il presidente è Giuseppe Profiti condannato in appello a sei mesi per Mensopoli, ma sempre sostenuto da Bertone, fino a farlo ricevere dal Papa nel mezzo dell’inchiesta.
Finora i bertoniani l’hanno spuntata. Il Bambino Gesù ha “scippato” a Genova medici eccellenti come Giacomo Pongiglione che per primo al mondo ha trapiantato un cuore artificiale su un quindicenne. Certo il Bambino Gesù è un ospedale prestigioso. Ma forse c’entra anche il fatto che i suoi dipendenti seguono il regime fiscale vaticano. Ora ufficialmente si parla di tregua, di alleanze. Ma Del Buono sottolinea: “Nessuna polemica, ma quei 50 milioni dovrebbero essere riservati almeno anche agli ospedali pubblici”.
A Elena e ai bambini del Gaslini, però, di queste lotte non arriva nemmeno l’eco. Hanno battaglie più grandi da combattere.

il Fatto del Lunedì 19.11.12
Strategie di business
Giornali e sanità privata: due facce dello stesso padrone
Da Angelucci (Libero) a Rotelli (Corriere), fino a De Benedetti (Repubblica): tutti i grandi gruppi legati alla comunicazione “fanno cassa” grazie alle cliniche
di Gianni Barbacetto


Ai padroni della sanità privata piacciono i giornali. Sarà un caso, ma gli imprenditori che operano nel settore delle cliniche, dell’assistenza e della riabilitazione sono spesso anche imprenditori dell’informazione. O hanno interessi nei media. Rotelli, Angelucci, Ciarrapico, De Benedetti, Caltagirone: ovvero come tenere insieme salute e giornali.
IL BUSINESS della sanità muove in Italia circa 140 miliardi di euro. Di questi, 110 circa vengono dallo Stato, che ne impiega almeno 20 per finanziare le strutture private. Molte sono di operatori piccoli o piccolissimi. Una bella fetta è riconducibile a istituti religiosi. Alcuni operatori hanno invece dimensioni considerevoli, organizzazione imprenditoriale e strutture dislocate in diverse zone del Paese. Il gruppo guidato da Giuseppe Rotelli è un piccolo impero formato da 18 ospedali e case di cura, tra cui il Policlinico San Donato e l'Istituto ortopedicoGaleazzi, a cui si è nei mesi scorsi aggiunto il San Raffaele di Milano, conquistato versando 400 milioni per rilevare la creatura di don Luigi Verzè. Rotelli è anche il primo azionista del Corriere della sera, con il 16,5 per cento. Comprate a caro prezzo: l'ultimo pacchetto su cui ha messo le mani, il 5,2 per cento ceduto dai costruttori romani Toti, gli è costato il doppio del prezzo di Borsa. Ma gli ha permesso di consolidare la sua posizione, pur restando fuori dal patto di sindacato che riunisce gli azionisti forti del Corriere (da Banca Intesa a Mediobanca, da Fiat alle Generali, da Della Valle a Pesenti, fino alla Pirelli di Tronchetti Provera). Per poter stare comodamente seduto nel salotto buono di via Solferino, Rotelli ha sborsato oltre 270 milioni di euro. Nel dicembre 2010 era entrato a far parte del consiglio d’amministrazione di Rcs, dopo una lunga anticamera. Poi, grazie ai 53 milioni versati ai Toti, ha mantenuto il posto in consiglio e la possibilità di dire la sua sulla gestione del gruppo. Tanti soldi versati non hanno spiegazioni di mercato. Le azioni Rcs sono state comprate da Rotelli a prezzi superiori anche di quattro volte il loro valore. Insomma: con la sanità, Rotelli guadagna (800 milioni di ricavi nel 2010, margine operativo lordo di 130) ; con il Corriere perde. Ma evidentemente per lui il gioco di via Solferino vale la candela.
UN PIEDE dentro Rcs l'ha avuto, in passato, anche Gianfelice Rocca, che è stato membro del consiglio d'amministrazione della società editrice del Corriere. Rocca, presidente di Techint, multinazionale della siderurgia e dell’engineering, controlla anche il gruppo Humanitas, con strutture sanitarie in Piemonte e in Sicilia e cuore in Lombardia, dove sorge (a Rozzano, al confine sud di Milano) l’Istituto clinico Humanitas. Anche Giampaolo Angelucci non fa certo i soldi con i giornali. Controlla ancora Libero, ha dovuto chiudere IlRiformista di Antonio Polito e ha dovuto rinunciare (per la rivolta dei redattori, nel 2008) a entrare nella proprietà dell'Unità. No, i soldi anche Angelucci li fa con le cliniche: la sua Tosinvest porta a casa circa 500 milioni di euro all’anno, grazie soprattutto a 26 strutture ospedaliere in Lazio, Abruzzo e Puglia. In un'inchiesta della procura di Velletri sulla sanità laziale, il giudice per le indagini preliminari nel 2009 aveva messo nero su bianco che i giornali possono essere strumento di pressione nei confronti della politica, citando intercettazioni telefoniche “dalle quali si evince la preparazione di una strategia a livello politico e mediatico nei confronti dell'assessore regionale alla sanità Augusto Battaglia, reo di non aver tempestivamente provveduto in ordine ad alcuni provvedimenti sollecitati dagli Angelucci”.
Ecco dunque a che cosa servono, in certe mani, i giornali: a tenere una pistola puntata su funzionari, assessori, presidenti, che possono determinare la fortuna di un imprenditore. Soprattutto nel campo della sanità, in cui i privati offrono prestazioni sempre pagate dallo Stato, attraverso le Regioni, che proprio nella sanità hanno la loro maggiore voce di spesa.
GIUSEPPE CIARRAPICO, benché risulti ufficialmente nullatenente, controlla la holding Eurosanità, che gestisce a Roma la casa di cura Quisisana, Villa Stuart e Policlinico Casilino, oltre a un paio di strutture di ricovero per anziani a Fiuggi. Ma “il Ciarra” è anche un innamorato della carta stampata. Ha fatto, e in parte fa ancora, l’editore. Finché è stato al comando della sua piccola galassia di carta stampata (da CiociariaOggi a LatinaOggi) ha sempre rivendicato il suo diritto a intervenire, anche pesantemente, nelle vicende politiche e amministrative raccontate dalle sue testate.
È entrato nel settore sanità anche Carlo De Benedetti, l'editore del gruppo Repubblica-L’Espresso. La sua holding, la Cir, che fattura 4,5 miliardi di euro, spreme dal settore media solo un quinto dei suoi ricavi. Circa 350 milioni di euro li ottiene nel campo della sanità, con la controllata Kos, fondata nel 2002. Oggi ha 60 strutture nel centro-nord Italia, per un totale di oltre 5.700 posti letto. C'è anche un Caltagirone, in questa compagnia d'imprenditori a cui piace incrociare cliniche e giornali: è Antonino Ubaldo Caltagirone, ex manager Fininvest e Mediolanum, che si è poi lanciato nel settore immobiliare con la sua Caltagirone Costruzioni spa holding. Ha provato a entrare nel settore facendo un'offerta per la clinica San Michele di Albenga: tentativo abortito, a causa del fallimento della clinica. Gli è andata meglio nell'editoria: Caltagirone nel 2008 ha foraggiato il giornale L’Opinione, diretto da Arturo Diaconale. Un’esperienza non proprio memorabile.

Repubblica 19.11.12
La beffa del farmaco low cost bocciato dal Tar
Cura le malattie degli occhi e costa 15 euro rispetto ai mille del concorrente. Ma sul verdetto è polemica
di Michele Bocci


Con Lucentis. 192 milioni La cifra spesa in tre anni dal Servizio sanitario nazionale
Con Avastin. 3 milioni.  È la somma che si spenderebbe con il medicinale low cost

ROMA — Lucentis e Avastin sono due farmaci che costano rispettivamente 1.000 e 15 euro a dose e secondo molti studi scientifici hanno lo stesso effetto contro la degenerazione maculare degli anziani, una malattia che porta alla cecità. Le Asl italiane però sono costrette ad usare il primo. Dopo una serie di battaglie legali da parte dell’azienda che lo produce, la Novartis, e dopo una presa di posizione dell’Aifa, il sistema sanitario deve rinunciare a un risparmio stimato in 190 milioni in tre anni. L’ultimo a pronunciarsi è stato il Tar del Veneto, che ha obbligato la Regione ad somministrare il medicinale più caro sui nuovi casi. Alcuni mesi fa, però, l’Emilia era riuscita a porre la questione alla Corte Costituzionale, che si esprimerà nei prossimi mesi.
Tutto parte nel 2005 quando Roche inizia a produrre un farmaco per il tumore del colon, l’Avastin, che si scopre funzionare anche, in dosaggio molto ridotto, per la degenerazione maculare. Il produttore, però, non ha mai chiesto l’estensione delle indicazioni anche per questa patologia. Così viene utilizzato “off label”, al di fuori delle sue indicazioni. Dal 2007 arriva sul mercato il Lucentis della Novartis, che fino a poco fa costava 1.044 euro a fiala (ora il prezzo è sceso del 30%). In media ogni anno si fanno 6 fiale a paziente. Con l’altro prodotto, preparato dalle farmacie ospedaliere,
una applicazione costa 15-20 euro. Secondo Nicola Magrini, dell’Agenzia sanitaria emiliana «la decisione di Roche di non immettere il suo farmaco sul mercato e il vantaggio per Novartis rivelano l’esistenza di accordi che limitano la concorrenza e pesano economicamente sulla collettività». Le persone con degenerazione maculare in Italia sono 90 mila. Un terzo si curano nel sistema pubblico, ormai quasi esclusivamente con il Lucentis. Le altre sono seguite nel privato, nemmeno Novartis sa con quale prodotto.
Secondo un’ampia letteratura scientifica, ranibizumab e bevacizumab (i due principi attivi) sono equivalenti e negli Usa Avastin ha circa il 70% del mercato. Nel nostro paese la situazione è molto diversa. Il farmaco è stato inizialmente inserito dall’Aifa nella lista di quelli utilizzabili “off label”. Due anni fa l’Emilia ha deliberato che nei suoi ospedali fosse usato solo quello. Novartis è ricorsa al Tar perché l’autorizzazione per la degenerazione maculare ce l’ha solo il Lucentis. La questione è passata alla Corte Costituzionale. Più di recente è toccato al Veneto, a cui il Tar ha imposto di usare il farmaco caro sui nuovi pazienti. «Chiameremo in causa il Consiglio di Stato — dice
l’assessore alla salute Luca Coletto — Da noi l’Avastin non ha mai dato problemi, perché dobbiamo smettere? ». Da Novartis spiegano che l’obiettivo «è fare sì che i pazienti che ne hanno bisogno accedano al farmaco a carico del servizio sanitario. Del resto è più sicuro dell’altro, si rischiano meno eventi avversi».
La svolta è arrivata di recente, il 27 ottobre. L’Aifa ha tolto l’Avastin dalla lista dei farmaci “erogabili a carico del Servizio sanitario” se usati “per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata” perché l’Ema, agenzia europea del farmaco, ha segnalato alcune reazioni avverse, comuni a tutti gli “inibitori di vegf”. Anche il Lucentis appartiene a questa categoria ma avendo l’autorizzazione al commercio per la degenerazione maculare, è bastato inserire nel foglietto illustrativo i possibili problemi. Il nuovo passaggio ha reso ancora più difficile per le Regioni prescrivere l’Avastin, perché Aifa (unica in Europa) lo ha giudicato meno sicuro del Lucentis e non più utilizzabile.

Repubblica 19.11.12
Dalle corsie proteste quasi mai a torto
di Mario Pirani


“Caro Pirani, ma perché ce l'ha con gli infermieri?”. Questo l’incipit della lettera, analoga ad altre simili, che il presidente dell’organizzazione sindacale degli infermieri de La Spezia, Francesco Falli, mi ha inviato per criticare una mia rubrica (5/11/12 “Tenetevi il dolore, pochi i soldi per curarlo”) in cui denunciavo come le strutture ospedaliere installate per la cura del dolore fossero al lumicino in molti nosocomi perché ridotti senza infermieri o quasi, tranne qualche volontario mentre, per evitare scontri sindacali, si accettava il passaggio di un numero eccessivo di dipendenti dai reparti di degenza agli uffici, in base al cosiddetto “maggiore aggravio”, di cui nel solo Lazio hanno profittato circa 8000 lavoratori (secondo i dati del Tribunale Diritti del malato, che comunque andrebbero sottoposti a nuova verifica). Una osservazione che non negava affatto l’impegno, i sacrifici, le remunerazioni insufficienti degli infermieri dediti all’assistenza. E pur tuttavia la presidente della Federazione nazionale della categoria, Annalisa Silvestro, sul suo sito dichiarava di essere rimasta “perplessa e indignata” per le mie critiche… “dieci righe senza criterio che sembrano buttate là a rimarcare l’annosa avversione dell’articolista verso la professione infermieristica...”. Mi risparmio la citazione di altre ingiurie, soprattutto perché rivolte a un giornalista che ha dedicato decine di articoli alla difesa del servizio pubblico e del personale medico, infermieristico e parasanitario, la cui dedizione è esemplare, senza però sottacere sulle conseguenze negative che in ogni comparto il corporativismo sindacale porta con sé con danno per lavoratori e pazienti. Proprio per porre fine a una disfida priva di senso ho telefonato alla dottoressa Silvestro invitandola a prendere atto delle reali posizioni del nostro giornale in materia di sanità pubblica e offrendole uno spazio di risposta nella nostra rubrica. Con un approccio di stimabile pacatezza la presidente degli infermieri ha riconosciuto l’inutilità degli eccessi polemici quando “si tratta di far fronte alle difficoltà che sta vivendo il sistema sanitario e… molti infermieri operativi in Regioni con Piano di Rientro continuano ad andare a lavorare anche quando, da mesi non viene percepito lo stipendio e i turni di lavoro sono davvero insostenibili a causa delle mancate sostituzioni. Non può esserci percorso diagnostico e terapeutico se mancano gli infermieri, non si dà realizzazione a iniziative di civiltà sanitaria (ospedale senza dolore), né si attivano l’assistenza domiciliare e gli hospices se mancano gli infermieri”. Ed ecco un’altra voce: “Caro dottor Pirani, sono Antonio Rizza, infermiere professionale… Vorrei ricordarle il lavoro che svolgono molti infermieri come il sottoscritto, non in un comodo ufficio, ma in situazioni pericolose come è capitato a me, calato in un burrone con una imbragatura dai vigili del fuoco per salvare una signora che era caduta in un dirupo di centinaia di metri, tutto questo ed altro alla modica cifra di circa 1400 euro al mese”. E, infine, la parola ad un medico. “Sono il dott. Alessandro Vergallo, Presidente della Sezione Regionale Aaroi-Emac che rappresenta solo in Lombardia oltre 1.300 medici anestesisti. I toni degli articoli contro Pirani risuonano come un diapason. Che vibra non già di contenuti, ma di lesa maestà. La lesa maestà è quella degli infermieriamministratori, non certo quella degli infermieri che tutti i giorni sono in corsia ad occuparsi dell’assistenza ai malati. E non certo quella dei medici che diventano sempre più operai di una sanità-fabbrica con tanti ‘dirigenti’ negli uffici. I contenuti mancanti sono quelli relativi ai dati (non alle chiacchiere) su quali siano le risorse sanitarie assunte per occuparsi di assistenza e poi via via incontrollatamente divenute ‘risorse’ amministrative. Ma i dati su queste figure mancano persino nelle relazioni annuali della Corte dei Conti, che non dettagliano quanti professionisti assunti per curare malati siano poi transitati dietro le scrivanie.
“Per contro è su questo terreno che si misura una vera review della spesa per non tagliare ancora il servizio pubblico senza criteri di efficienza”.



Corriere 19.11.12
Nella Grecia orgogliosa e delusa dove monta la rabbia della piazza
Adottate le ricette europee: ma quanto sopporterà la società?
di Sergio Romano

Durante il dibattito sul pacchetto di tagli e tasse per 13,5 miliardi di euro, approvato dal Parlamento greco il 7 novembre, Alba Dorata, partito dell'estrema destra nazionalista,
ha votato contro, come era prevedibile, e ha lasciato al suo portavoce, Christos Pappas, il compito di spiegarne le ragioni.
Christos Pappas ha rievocato il drammatico incontro, nella notte fra il 27 e il 28 ottobre 1940, fra l'ambasciatore d'Italia Emanuele Grazzi e il Primo ministro Ioannis Metaxas. Grazzi aveva svegliato Metaxas alle tre del mattino e gli aveva consegnato l'ultimatum con cui l'Italia di Mussolini chiedeva al governo greco di autorizzare l'ingresso di truppe italiane nel suo territorio. La risposta non fu il «no» che i greci ricordano ogni anno nel giorno — il 28 ottobre — che è oggi la loro festa nazionale. Ma fu altrettanto esplicito: «Alors c'est la guerre», allora è la guerra. «Così — ha detto Pappas — avreste dovuto rispondere alla troika (i rappresentanti della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale) quando vi ha imposto le sue condizioni».
Metaxas era un dittatore, capo di un regime che aveva preso a prestito formule e liturgie dell'Italia fascista e della Germania nazista. Non è sorprendente che Alba Dorata si appropri di quell'episodio per conferire maggiore dignità a se stessa e una sorta di coerenza storica alla sua politica contro un governo «servo dell'Europa». Ma nelle reazioni greche ai piani di risanamento varati dalla coalizione di Antonis Samaras, il nazionalismo serve spesso a coprire motivazioni meno nobili. Durante il dibattito parlamentare sul pacchetto, gli impiegati della Camera hanno inscenato una manifestazione contro il governo sostenendo che le loro funzioni non potevano essere assimilate a quelle di altri «statali». Il governo ha fatto un passo indietro ed è stato possibile continuare il dibattito sino al voto. Ma nelle stesse ore un gruppo di poliziotti dimostrava nelle vie di Atene con un cartello su cui era scritto: «Noi proteggiamo quelli che ci proteggono».
Dietro l'orgoglio nazionale, quindi, vi sono uno Stato ricattato dai suoi servitori e una straordinaria varietà di interessi corporativi. A dispetto delle sue grandi tradizioni e della vivacità intellettuale dei suoi cittadini, la Grecia è il Paese in cui gli armatori (la maggiore industria del Paese) sono esentati dalle tasse, l'evasione fiscale è uno sport nazionale, la percentuale del lavoro nero supera quella italiana, la classe politica ha gonfiato gli organici della pubblica amministrazione per ingrossare il proprio elettorato e i ricchi mandano i loro soldi all'estero. Negli scorsi giorni è stato processato per «violazione della privacy» (e fortunatamente assolto) un giornalista che aveva avuto l'ardire di pubblicare sul suo giornale online i nomi di duemila greci, titolari di conti presso la filiale svizzera di una vecchia banca britannica (HSBC). I duemila appartenevano a una lista di 24 mila clienti caduta nelle mani di Christine Lagarde, allora ministro francese delle Finanze. Alla signora Lagarde era parso utile farne dono al collega greco che aveva trasmesso alcuni nomi alla sua polizia tributaria. Ma non appena il ministero greco delle Finanze ha cambiato titolare, nel giugno del 2011, la lista è rimasta in un cassetto. Il nuovo ministro era Evangelos Venizelos, oggi successore di George Papandreou alla testa del Pasok, il partito socialista che è passato dal 43,92% del 2009 al 12,28% delle ultime elezioni. Venizelos si è battuto per l'approvazione del pacchetto «tagli e imposte» e ha cacciato dal partito i deputati socialisti che avevano votato contro il governo. Ma la vicenda dei duemila evasori getta un'ombra sulla sua reputazione. Wolfgang Schaüble, ministro tedesco delle Finanze, non ha torto quando dichiara, come all'ultima riunione del Fondo monetario nello scorso ottobre, che i problemi della Grecia «sono stati causati dalla Grecia e che tocca alla Grecia risolverli».
Antonis Samaras, leader di Nuova Democrazia e presidente del Consiglio dopo il breve intervallo «tecnico» del governo presieduto da Lucas Papademos, sembra esserne consapevole. Ha evitato di cavalcare gli umori anti-tedeschi del Paese, ha coltivato i rapporti con Angela Merkel, ha presieduto alla preparazione di un pacchetto e di una legge di bilancio, approvata dal Parlamento domenica scorsa, che corrispondono ai criteri dettati dalla troika e dovrebbero consentire l'arrivo dei fondi necessari per il rifinanziamento del debito. Ma la drastica riduzione dei salari e i licenziamenti nella funzione pubblica (30 mila nel 2013) hanno colpito tutte le fasce sociali e tutti i gradi della pubblica amministrazione creando forti risentimenti. Per certi aspetti si potrebbe sostenere che il governo Samaras è stato equo perché tutti i greci sono responsabili dell'artificiosa euforia in cui il Paese ha vissuto dopo l'adesione alla Comunità europea e, più tardi, dopo l'adozione dell'euro. Ma il quadro generale è quello di una società arrabbiata e delusa che non sa più come e su chi scaricare la propria rabbia. Il rischio maggiore, paradossalmente, non è l'instabilità politica. Alexis Tsipras, leader di Syriza (il partito che è giunto secondo nelle elezioni dello scorso giugno) chiede il ritorno alle urne per dare un senso alla propria politica di opposizione e presentare se stesso come una credibile alternativa. Ma è alla guida di una confederazione composta da tredici frazioni, di cui alcune sono staliniste, trotzkiste, maoiste, anarco-sindacaliste. Sa che potrebbe governare soltanto rovesciando interamente la sua linea e preferisce lasciare che il problema, per il momento, resti sulle spalle di Samaras. Il vero rischio è la piazza. Le misure adottate dal governo si conformano alla ricetta prescritta dell'Europa e rispondono effettivamente agli interessi del Paese nel medio termine. Ma contribuiscono al crollo di una economia che ha già perduto, negli ultimi anni, un quarto delle sue dimensioni. Quale è il grado di sopportazione della società greca? Le dichiarazioni della Germania e degli altri partner europei sono sempre, quali che siano le intenzioni con cui vengono pronunciate, sbagliate. Quando la Germania dice che il problema greco è un problema dei greci, le sue parole vengono usate per evocare il ricordo della durezza tedesca ai tempi dell'occupazione. Quando la stessa Germania dice che la Grecia deve assolutamente restare nell'euro, le sue parole permettono a Tsipras di affermare che il governo, se ne avesse il coraggio, potrebbe giocare le sue carte con maggiore fermezza. In queste condizioni, se non verranno adottate misure più coraggiosamente generose, il problema della Grecia potrebbe diventare non soltanto politico ma anche e anzitutto umanitario. Ho chiesto a un vecchio diplomatico se qualcuno, a Bruxelles, stia già studiando un programma di assistenza alimentare e sanitaria per una fase di turbolenta emergenza sociale. Non lo sa, ma è convinto che in questo caso i soldi diventerebbero immediatamente disponibili: gli stessi soldi che, se dati al momento opportuno, avrebbero potuto evitare il peggioramento della crisi.
Sergio Romano
1 - continua

Repubblica 19.11.12
Parigi, la battaglia delle nozze gay scontri al corteo dell’ultradestra
Gli integralisti picchiano le attiviste a seno nudo di Femen
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Botte alle attiviste di Femen, giornalisti e fotografi aggrediti: la manifestazione degli integralisti cattolici contro il matrimonio gay ha conosciuto ieri a Parigi momenti di forte tensione. Sabato almeno centomila persone sono scese in piazza in tutta la Francia con grande calma contro il progetto di legge del governo di Hollande, che apre la strada al matrimonio e all'adozione da parte di coppie omosessuali. Ieri è stata la volta degli integralisti, che hanno invece dimostrato di non tollerare l’ironia delle ragazze di Femen. Chiamati a raccolta da Civitas, un movimento vicino all’estrema destra che vuole «ricristianizzare la Francia dei campanili e delle cattedrali », i dimostranti hanno innalzato bandiere con il giglio (simbolo della monarchia), croci, tricolori, manifestini con la scritta «sì alla famiglia, no all’omofollia ». Alcuni erano in abito talare, tra loro c’erano molti pensionati, ma anche molti giovani. La tensione è salita poco dopo l’avvio del corteo, nella zona dei ministeri. Una decina di ragazze del gruppo ukraino Femen sono arrivate vestite da suore. Voleva essere una provocazione bonaria, ma i militanti integralisti non l’hanno presa bene: «Quando sono arrivate vicino ai manifestanti sono state inseguite da una trentina di persone — ha raccontato la scrittrice Caroline Fourest — . Hanno preso botte in tutte le parti del corpo. Anch’io sono stata picchiata perché filmavo ».
Giornalisti e fotografi che assistevano alla scena sono stati spintonati. La portavoce del governo, Najat Vallaud-Belkacem, ha subito reagito, si è detta «profondamente scioccata» ed ha assicurato che il governo non è disposto a tollerare le violenze dell’estrema destra.
Un’atmosfera ben diversa si era invece registrata sabato. I cattolici contrari al matrimonio gay e soprattutto all’adozione da parte delle coppie omosessuali avevano manifestato nella calma. E spesso alcune coppie di donne si erano baciate davanti ai dimostranti, senza suscitare scandalo, né proteste. Gli integralisti non la intendono così. La loro battaglia di retroguardia si accompagna alla diffusione di tesi di estrema destra. Secondo Alain Escada, responsabile del movimento Civitas (1.200 aderenti), «il matrimonio omosessuale è il vaso di Pandora che permetterà ad altri di rivendicare il matrimonio poligamico o il matrimonio incestuoso».
Posizioni ben lontane da quelle della Chiesa. Certo, Benedetto XVI ha invitato i vescovi francesi a parlare «senza paura», a intervenire con vigore e determinazione nel dibattito. I prelati transalpini lo hanno già fatto e continueranno a farlo, ma i loro toni non sono mai stati eccessivi, a parte l’eccezione dell’arcivescovo di Lione. Il governo, dal canto suo, ha detto di voler rispettare «l’inquietudine» degli oppositori al matrimonio gay, ma di non voler rinunciare al provvedimento. Secondo gli ultimi sondaggi, il 61 per cento dei francesi è favorevole alle nozze tra persone dello stesso sesso, mentre solo il 48 per cento dice sì anche all’adozione per le coppie omosessuali.

La Stampa 19.11.12
Se finisce l’uguaglianza
La dura crisi attuale rende evidenti i guasti prodotti dal mancato bilanciamento tra democrazia e mercato: il nuovo saggio di Parsi
di Vittorio Emanuele Parsi


La tesi di questo libro trova fondamento in un principio assai semplice, ben sintetizzato dalle prime parole della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: «Tutti gli uomini sono creati uguali». Da queste sette parole discende la modernità politica, fondata innanzitutto sull’uguaglianza intesa come rifiuto del privilegio. Uguali e quindi tutti ugualmente liberi, liberi perché uguali gli uni agli altri. Non c’è nessuna necessaria opposizione tra il principio di uguaglianza e quello della libertà, perché senza uguaglianza la libertà si chiama privilegio. L’ uguaglianza di tutti è l’essenza della democrazia dei moderni, tanto quanto l’ uguaglianza tra i pochi era il principio su cui si reggeva la democrazia degli antichi. Se quella di Pericle implicava l’esclusione, quella di Jefferson postula l’inclusione. Il progressivo allargamento della base politica ed economica delle nostre società è passato attraverso l’uguaglianza. Quest’ultima ha consentito di costruire le due istituzioni che più di ogni altra hanno caratterizzato la modernità occidentale, fino a rappresentarne il canone e il paradigma: la democrazia politica di massa e l’economia di mercato fondata sui consumi di massa.
Contrariamente a quanto affermano i tanti nemici della «società aperta», il mercato e l’economia capitalista non sono di per sé ostili alla democrazia politica. Anzi, se c’è qualcosa che la storia occidentale ci ha insegnato, è che essi procedono e si rafforzano insieme. Non perché - beninteso - siano fondati sullo stesso principio: il mercato produce diseguaglianza perché premia la più efficiente organizzazione dei fattori produttivi, la migliore dotazione originaria, il merito e le capacità individuali. Di conseguenza, se premia «i migliori» punisce «i peggiori» e così facendo discrimina, accentua le conseguenze delle diseguaglianze originarie. La democrazia si fonda sulla premessa dell’uguaglianza, ovvero sul fatto che nonostante le ovvie, irriducibili differenze che fanno di ogni individuo un esperimento non replicabile, assolutamente unico, ciò che conta davvero o maggiormente è l’elemento comune, l’appartenenza di ogni singolo individuo alla medesima classe: quella umana. Democrazia e mercato si sostengono e si rafforzano a vicenda non perché postulino lo stesso principio o predichino la medesima virtù, ma perché il mercato allevia e corregge i difetti e gli eccessi della democrazia esattamente come la democrazia allevia e corregge i difetti e gli eccessi del mercato.
L’alleanza tra queste due formidabili istituzioni si stabilì proprio all’epoca delle Grandi Rivoluzioni, quella americana e quella francese, quando la forza del mercato venne impiegata per svellere i privilegi delle società di antico regime. Proprio perché associata al mercato, la democrazia doveva porsi però il problema del preservare condizioni capaci di rendere l’uguaglianza qualcosa di diverso da un lontano e perduto momento originario. La premessa dell’uguaglianza doveva cioè essere completata dalla promessa dell’uguaglianza, ovvero fare sì che i vecchi privilegi, abbattuti grazie all’azione congiunta di democrazia e mercato, non venissero sostituiti da nuovi privilegi questa volta costruiti proprio dall’azione economica mercatistica.
I guasti prodotti dall’alterazione del meccanismo di bilanciamento tra democrazia e mercato sono particolarmente evidenti nell’attuale durissima fase politica ed economica che le società occidentali stanno vivendo. I dati che ci parlano della continua flessione dei consumi, dell’erosione del ceto medio, della polarizzazione dei redditi e della crescita della diseguaglianza dovrebbero quindi inquietarci innanzitutto dal punto di vista politico. Se non ci sarà più ceto medio, allora non sarà possibile nessuna middle class democracy e una nuova società dei privilegi prenderà il posto della società degli uguali la cui bandiera è stata innalzata dalle Rivoluzioni settecentesche. [... ]
Nel caso italiano, specificamente, la riduzione della disuguaglianza non può che prendere innanzitutto le forme della lotta all’evasione fiscale che sta letteralmente dilatando in maniera abnorme la divisione tra le due Italie: quella legale e quella illegale. Questa è la nostra particolarissima linea di faglia, che incredibilmente nessuna maggioranza politica (di destra, di sinistra o di unità nazionale) e nessun governo sembra essere riuscito a mettere in sicurezza. Ed è la più pericolosa, proprio perché sostituisce al mercato e al suo rigore un simulacro da malaffare, producendo così due esiti ugualmente nefasti. Da un lato colloca in un unico calderone le diseguaglianze che un mercato corretto legittimamente produce e quelle realizzate disonestamente da un mercato corrotto, rendendo indistinguibili le prime dalle seconde e alimentando l’ invidia sociale e una cultura ostile al mercato, alla concorrenza e alla stessa intrapresa individuale. Dall’altro rafforza il pregiudizio qualunquista secondo il quale le leggi non sono altro che la forma elegante e mendace assunta dai privilegi, in specie quelli più solidi e robusti, nutrendo una cultura politica populista e forcaiola, nemica della democrazia liberale.
Quando supera una certa misura e quando i meccanismi per ridurla sono percepiti come inefficaci o addirittura truffaldini, la disuguaglianza ha effetti devastanti sulla convivenza civile, minando alla base sia la democrazia sia il mercato, rendendo la prima, per la gran massa dei cittadini, una finzione lontana e il secondo, per la gran parte degli attori economici, un meccanismo di legittimazione del privilegio .

La Stampa 19.11.12
Kentridge alla ricerca del tempo rifiutato
Al Maxxi intorno all’installazione presentata a Documenta opere vecchie e nuove del maestro sudafricano
di Marco Vallora


Le «opere» di Kentridge (in senso quasi wagneriano, d’«opera d’arte totale», che congloba disegno a inchiostro, musica, danza e cinema) si richiamano l’un l’altra, s’intrecciano, si riecheggiano, come ricami d’un arazzo perpetuo ed affettabile, riverberando e spezzandosi ad aforisma. Anche su pezzi di carta da giornale iscritti, tra progetti che hanno la forza di disegni antichi, maquettes da teatro, teatrini da camera (come per il fortunato Flauto Magico della Monnaie, che ha incantato il mondo inscatolando prodigi grafici). Questa volta il Maxxi, che ha sagacemente da tempo collezionato alcune sue opere serigrafiche e non grazie a una ragnatela espositiva intessuta da Giulia Ferracci ed espansa sulle bianche pareti, ha avuto buon gioco nel collegare insieme alcune opere in collezione, l’ultimo progetto importato dalla recente Kassel, ed alcuni video «storici», di raccordo. Come quello dedicato a Zeno Cosini, in cui il labile fumo dell’irrinunciabile ultima sigaretta si decompone nell’aria come anilina nell’acqua del cielo, disegnando arabeschi di una vanitas minacciosa: infatti la joyciana Trieste di Svevo si risveglia come la crudele Johannesburg dell’Apartheid (vissuto dall’artista sulla propria pelle, e quella del padre avvocato, che assisteva gratuitamente gli oppressi «schiavi» neri). Ma anche gli scuri, ossessivi paesaggi al carboncino per Il ritorno in patria del monteverdiano Ulisse ci conducono verso un non-eroe, significativamente «senza qualità», né politiche né morali, che non ha più la forza di ritrovare se stesso né la patria e si «ritrova» anche lui, perduto, nel letto disfatto d’un ospedale sudafricano. Volute disfatte di fumo al carboncino, spiazzamenti temporal-geografici, l’arabesco della storia che via via si cancella ed annacqua. Come nel celebre video di Broodthaers, in cui la pioggia disfa l’inchiostro della penna che sta scrivendo in diretta, spesso anche la «penna» dello sguardo filmico di Kendridge si rimangia il suo lapillico calligrafare nell’aria, come un cane famelico, che si ridivora il suo maldigerito. In arrivo da Documenta l’installazione Il rifiuto del tempo , al contrario del titolo è farcita di tempo sonoro e visivo con quei grandi metronomi alla Man Ray, che hanno perduto l’occhio disegnato, ma che ci spiano comunque attraverso la percussione a rumore solfeggiato. E poi, nel mezzo, l’ansimante, gigantesca macchina tayloriana-industriale del nulla pare una grande, lignea cinepresa leonardesca, alla Athanasius Kirkner. Ma, attenzione: si rischia di non capire tutti i nessi complessi che questo neo-maestro «fiammingo», dai significati reconditi e cifrati (non messaggi!) dissemina, soprattutto se non si è assistito al fascinoso spettacolo teatrale Refuse the Hour . Che, diritti permettendo, andrebbe tassativamente proiettato in video alla mostra.
L’artista ha lavorato per oltre due anni con lo scienziato Peter L. Galison (quello degli Orologi di Einstein , Cortina ed.) cercando di capire tutto quello che «preistoricamente» ha preceduto l’idea del tempo-spazio, nella teoria della relatività. Rifiuto del tempo «standardizzato» e convenzionale, che ossessiona la nostra vita di uominiorologio, venduti alla convenzione di un solo tempo apparentemente uniforme in tutto l’universo, mentre il tempo non è che un (agostiniano) flusso inafferrabile, che non necessariamente possiede una realtà misurabile e soprattutto mai una mono-direzione vettoriale, verso il futuro. Così talvolta sul palcoscenico, come in una sequenza a rovescio di Cocteau la danza tribale di Dada (nome profetico) Masilo ritorna su se stessa («Non è il movimento della gamba ad imprimere un movimento alla gonna, ma viceversa» spiega dopo lo spettacolo l’artista) proprio come il tempo junghiano circolare: «che potrebbe farci ritornare a convivere con Lutero». Lo spettacolo ci mostra visivamente ( hommage à Meliès ) come la scienza ragioni esclusivamente per via metaforica. Se deve esplicarsi (le stringhe informatiche, i buchi neri, l’orologio cosmico) vorticosamente passa e danza attraverso questi frammenti d’immagini, lise e sfilacciate, sopra la calvizie pulsante della calotta teatrale, carte geografiche immaginarie e macchine inutili (alla Carelman) più che non celibi, alla Duchamp.
Il tutto si trasforma in una sorta di lezione ironica e terribile in cui questo Wotan contemporaneo, alla Kantor trasognato, passeggia tra le sue lavagne e le ombre cinesi, con il suo macchiato grembiule da litografo planetario, dirigendo i rumori recitando «stringhe» di memoria bambina, azionando la selva di megafoni e telescopi, alla Parade , che muovono a ritroso la gran macchina del tempo. Immaginario.

WILLIAM KENTRIDGE VERTICAL THINKING. ROMA MAXXI. FINO AL 3 MARZO 2013