domenica 7 ottobre 2012

“La voce di questo Papa, per chi sa intendere, detta, a volte contro la sua Chiesa, un messaggio teologico di rigore etico, di cui oggi si sente gran bisogno, accanto e ben oltre il rigore economico” (Mario Tronti... sic!)
“l’Incarnazione si compie nella storia dell’umanità, attraverso tutte le epoche e tutte le culture” (Padre Bartolomeo Sorge)
“il Concilio rappresenta per le donne una reale svolta: vengono a essere garantiti, sul fondamento battesimale, i presupposti per il riconoscimento dela soggettualità delle donne, gli strumenti biblici e teologici per un percorso interpretativo dell’identità femminile” (Serena Noceti)
“l’antropologia del Concilio non si appella più alla dottrina del peccato originale per spiegare la condizione umana. Pur nella sua debolezza, l’uomo non è storpiato da quel primo peccato, non è stato punito da Dio con la morte (che altrimenti non ci sarebbe) e scacciato lontano finché il Cristo non venisse a salvarlo. Secondo il Concilio, Dio non ha scacciato nessuno” (Raniero La Valle)
l'Unità 7.10.12
4 pagine con articoli di Mons. Ignazio Sanna, Agostino Giovagnoli, Mario Tronti, Domenico Rosati, Padre Bartolomeo Sorge, Serena Noceti, Raniero La Valle, Sergio Zavoli
disponibili qui

il Fatto 7.10.12
Santi in paradiso
Benedetta Imu: la Chiesa si salva ancora
M. Pal.


Non hanno fatto neanche in tempo a dirlo. Martedì scorso il governo aveva fatto sapere a tutti i malpensanti che il regolamento grazie al quale gli enti ecclesiastici avrebbe finalmente pagato l’imposta sugli immobili era pronto: “Manca solo il parere del Consiglio di Stato”. Quei cattivacci dei giudici amministrativi, però, due giorni dopo, hanno resto noto il parere sul testo elaborato nell’adunanza del 27 settembre: regolamento bocciato, almeno nelle sue parti più importanti. PER CAPIRE SERVE un piccolo riassunto. Con un emendamento al decreto liberalizzazioni, i tecnici decisero che dal 2013 anche case e palazzi di proprietà di enti religiosi e del non profit avrebbero dovuto pagare l’Imu: con la nuova legge sono esenti solo le attività “non commerciali”. Come si fa, però, se nello stesso immobile hanno sede, per dire, sia un convento che un albergo? Se sono divise in modo chiaro non c’è problema, ma se non è così bisogna seguire un apposito regolamento del Tesoro. Solo che ora il Consiglio di Stato quel testo l’ha bocciato. Motivo: il ministero di Grilli s’è allargato troppo. “Non è demandato al ministero di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu per gli immobili degli enti non commerciali” (cioè definire cosa è commerciale e cosa no), scrivono i giudici, ma solo chiarire come stabilire “il rapporto proporzionale” in strutture con “utilizzazione mista”: il regolamento, insomma, va al di là di quanto prescrive la legge. Non solo: i criteri individuati sono pure caratterizzati da “diversità e eterogeneità”. Come dire: si sono allargati e l’hanno fatto male. Come si fa allora a stabilire come definire “commerciale” una scuola o un ospedale? Risposta: o si scrive una legge ad hoc o si lascia fare all’Agenzia delle Entrate “sulla base dei principi generali dell’ordinamento interno e di quello dell’Unione europea in tema di attività non commerciali”. C’è un altro rischio, adesso, all’orizzonte, sembrano sostenere i giudici amministrativi: “Va, peraltro, ricordato che proprio sulla analoga questione dell’esenzione dall’Ici la Commissione europea ha avviato in data 12 ottobre 2010 una indagine al fine della valutazione della sussistenza di un aiuto di Stato” che potrebbe sempre riprendere l’abbrivio in caso si continuasse a non far niente.  ANCHE non considerando le multe di Bruxelles, però, c’è la concreta possibilità che enti ecclesiastici e non profit continuino anche l’anno prossimo a godere di un’esenzione ingiusta (secondo la legge) con relativa perdita di gettito per i comuni: secondo le norme volute da Monti, infatti, il pagamento scatta dalla rata del 16 giugno 2013, ma il modulo delle esenzioni va consegnato entro quest’anno e senza il regolamento del ministero dell’Economia questo è impossibile. I radicali Maurizio Turco e Carlo Pontesilli – che hanno dato il via coi loro esposti alla procedura dell’Ue – ci vanno giù duri: “L’ennesimo tentativo di far credere alla Commissione europea che non violiamo le direttive sulla concorrenza è fallito. L’ha fatto il Consiglio di Stato, ed è tutto dire”. Il duo ha già annunciato che segnalerà ufficialmente a Bruxelles “l’ennesimo tentativo di rinviare alle calende greche” questa faccenda, “sollecitandola a procedere contro l'Italia e a richiedere agli enti ecclesiastici proprietari di immobili destinati ad attività commerciali di pagare l’Imu”. Anche loro, peraltro, non sono ottimisti: “La commissione europea ci appare troppo propensa ad attendere l’ennesimo depistaggio, l’ennesima bufala”. Resta da capire in sostanza – ed entrambe le opzioni non sono esaltanti – se questo governo non sa fare le leggi o se sta tentando davvero di “rinviare alle calende greche”.

Corriere 7.10.12
Imu sugli immobili della Chiesa, lo Stato non deve fare eccezioni
di Massimo Teodori


Il pagamento dell'Imu sugli immobili della Chiesa non adibiti a funzioni religiose e di culto è un tormentone senza fine per la resistenza degli ecclesiastici a versare l'imposta dovuta. Non si tratta di una questione di poco conto perché è in gioco non solo il rapporto tra Stato e Chiesa, ma anche un'evasione fiscale che colpisce gravemente molti Comuni d'Italia, in primo luogo Roma.
Un gruppo vicino al Vaticano stima che il patrimonio immobiliare della Santa Sede sia il 20-22 % del totale italiano per un valore complessivo di circa 120 miliardi di euro. Una sua parte si riferisce a enti religiosi e di culto che per Concordato sono esenti dall'imposta, mentre un'altra parte riguarda edifici a uso commerciale che talvolta, per sfuggire alla tassazione, inglobano una cappellina che li dovrebbe rendere «religiosi». Il mancato gettito fiscale dei beni commerciali della Chiesa è notevole: l'Associazione nazionale dei Comuni d'Italia (Anci) lo ha stimato per l'Ici di 800 milioni di euro, e l'Associazione ricerca e sviluppo sociale (Ares) lo ha cifrato in 2,2 miliardi di euro. Da anni l'Unione europea ha avviato un procedimento per sanzionare l'Italia per sussidi alle attività commerciali della Chiesa: se entro fine anno la situazione non sarà sanata, lo Stato dovrà pagare 9.920.000 euro di multa. Il premier Monti ha comunicato l'11 febbraio 2012 al presidente Almunia di volere «chiarire in modo definitivo la questione delle attività non esclusivamente religiose», ma ora si apprende che il Consiglio di Stato ha bocciato — molto opportunamente — un furbesco decreto attuativo dell'Imu alla Chiesa, pattuito tra governo e Santa Sede, perché il ministero dell'Economia è andato di là dai suoi compiti accordando tali e tante eccezioni al pagamento della tassa sugli edifici commerciali da sfiorare il paradosso. È proprio vero che quando si tratta della «roba», la Curia difende con gli artigli privilegi che superano perfino i benefici previsti dal Concordato. Che cosa farà il più rigoroso dei governi che l'Italia abbia mai avuto? Pagherà la multa milionaria e continuerà ad esentare l'Imu alla Chiesa?

dal Corsera di oggi:
Il sospetto, avanzato dai Radicali, è che il governo abbia cercato di fare rientrare dalla finestra quello che aveva fatto uscire dalla porta. «Non vorrei che si stia ripetendo — spiega Mario Staderini, segretario dei Radicali italiani — quanto documentato nel libro di Gianluigi Nuzzi (Vaticano Spa) ovvero che qualcuno nel governo le pensi tutte per evitare che gli enti ecclesiastici restituiscano all'erario le ingiuste esenzioni di cui hanno goduto per anni».

Repubblica 7.10.12
Il perdono preventivo
di Vito Mancuso


“IN NOME di Sua Santità Benedetto XVI gloriosamente Regnante, il Tribunale, invocata la Santissima Trinità, ha pronunciato la seguente sentenza”.
Con questo incipit dal sapore antico, che proietta la mente nei secoli passati e a cui la retorica delle maiuscole si aggrada come l’incenso al canto gregoriano, è calato il sipario su un processo destinato a essere annoverato tra i più famosi e più brevi della nostra storia. A differenza del passato, però, quando gli imputati si chiamavano per esempio Giordano Bruno (messo al rogo il 17 febbraio 1600) o Angelo Targhini e Leonida Montanari (decapitati il 23 novembre 1825), per il maggiordomo papale Paolo Gabriele, reo di aver sottratto al Papa documenti riservati e soprattutto di averli consegnati al giornalista Gianluigi Nuzzi che li ha fatti conoscere al mondo intero, si è assistito da subito a un’ampia profusione di clemenza. In considerazione di alcune attenuanti (assenza di precedenti penali, meriti acquisiti per il lavoro antecedente ai fatti, movente soggettivo ideale e ammissione di aver “tradito” il Papa) la pena originaria di tre anni è stata dimezzata a un anno e sei mesi di reclusione, che sarebbero da trascorrere verosimilmente in un carcere italiano visto che il Vaticano ne è privo. Il direttore della sala stampa vaticana però ha subito fatto sapere che «la possibilità della grazia è molto concreta e molto verosimile », parole che indicano esplicitamente che Benedetto XVI concederà la grazia di sicuro e in tempi molto ravvicinati. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché? Perché, dopo le grida scandalizzate che seguirono alla nascita del caso nel maggio scorso, oggi si assiste a questa vera e propria grazia preventiva?
A nessuno credo sia dato conoscere il motivo soggettivo dell’atto di clemenza papale verso un collaboratore che per anni ha condiviso la sua quotidianità, né credo che a nessuno dispiaccia che tale grazia venga esercitata. Ma credo che sia abbastanza visibile il motivo oggettivo che sta dietro la grazia in arrivo, motivo che si chiama desiderio di ritorno alla normalità. Si sta aprendo l’anno della fede, sta per iniziare il sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, già fervono le celebrazioni di cinquant’anni dell’inizio del Vaticano II e dei vent’anni del Catechismo della Chiesa cattolica, e a nessuno nella Chiesa, né in Vaticano né nella più piccola parrocchia del mondo, fa piacere respirare l’aria dei veleni, delle congiure, dei tradimenti del “corvo” e dei suoi eventuali altolocati complici. Da qui la profusione di clemenza, da qui la grazia preventivamente in arrivo ancor prima che il diretto interessato l’abbia richiesta.
Il problema aperto dalle carte sottratte però, che per quanto sottratte sono tutte tremendamente autentiche, non si risolve di certo così. Le divisione e i livori che attraversano la Curia e i principali collaboratori papali, in particolare il cardinale Bertone, Segretario di Stato bersaglio numero uno dell’operazione architettata dal maggiordomo papale e da suoi eventuali complici, avrebbero bisogno di ben altra medicina. Nella sua ultima intervista il cardinal Martini affermava che «la Chiesa deve riconoscere i propri errori e percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi». La grazia verso Paolo Gabriele è grazia a buon mercato, e ci può anche stare, ma sarebbe necessaria una grazia “a caro prezzo”, cioè coraggio evangelico e scelte radicali, per sanare veramente i mali profondi di cui soffre oggi la Chiesa.

il Fatto 7.10.12
A tribunale chiuso
Vatileaks, sentenza tra macerie e misteri
di Marco Politi


Un processo-teatro. In cui ognuno ha giocato la sua parte. La Difesa non ha disturbato la Corte, evocando maltrattamenti e irregolarità solamente in zona Cesarini, giusto per ottenere le attenuanti. L’Accusa ha proclamato che dall’“indagine istruttoria manca la prova di qualsiasi correità o complicità con Paolo Gabriele”. La Corte queste prove non si è mai affannata a cercarle, lasciando accuratamente fuori campo connessioni, complicità, retroscena che avrebbero potuto spiegare i motivi di un’azione di sabotaggio prolungata e pianificata. Anche l’Imputato ha dato il suo contributo alla rappresentazione. Ha recitato la parte del colpevole, addossandosi ogni responsabilità e informando il mondo intero del suo amore sviscerato per la Chiesa ed il Papa. Come da copione.
IL PROCESSO si chiude così, con la Difesa che osanna la sentenza come “buona ed equilibrata”. Un’operazione lampo, realizzata in due udienze soltanto. Tolta la prima, dedicata a questioni procedurali, e l’ultima riservata a veloci arringhe, una telegrafica comunicazione di Paolo Gabriele e la sentenza. Il Vaticano voleva chiudere rapidamente il procedimento anche per cancellare l’immagine di una Curia nido di vespe, il giudice Giuseppa Dalla Torre ha centrato l’obiettivo. Ha agito in piena indipendenza, assicura il portavoce papale Lombardi. Excusatio non petita. Ma non c’è da dubitarne. Quando si agisce ispirati dalla “Santissima Trinità” e in nome del pontefice “gloriosamente regnante”, si sa bene come muoversi.
C’è un solo neo. Nella platea dei giornalisti di tutto il mondo, che attendevano l’esito del procedimento, non c’è n’è uno – tranne i coreuti della “Chiesa ha sempre ragione” – che creda alla favola del maggiordomo regista solitario della più grande operazione di scardinamento dell’immagine della Curia degli ultimi secoli.
Messo il coperchio sulla pentola, il Vaticano non può cancellare ciò che Vatileaks ha portato alla luce. Un Segretario di Stato come Tarcisio Bertone, che invece di guidare con mano ferma e diplomatica la Curia, entra in conflitto con cardinali di primo rango come Nicora e Tettamanzi. Un pontefice, che assiste impotente e non ha la prontezza (o il temperamento di governante) di ordinare un’inchiesta indipendente sulla corruzione negli appalti vaticani. Quel presepe natalizio che con Viganò costa improvvisamente centocinquantamila euro di meno, non è l’invenzione di un visionario. É una prova ingombrante. Egualmente resta ingombrante il “ripassi l’anno prossimo” che Moneyval ha rivolto a luglio alla Santa Sede a proposito della banca vaticana, giudicata non sufficientemente trasparente e per la quale le autorità finanziarie europee richiedono urgentemente un “supervisore indipendente”. Richieste come un macigno. Benedetto XVI, che nel dicembre 2010, aveva decretato che qualsiasi operazione finanziaria degli uffici della Santa Sede potesse essere sottoposta all’ispezione di un’autorità di controllo nuova di zecca (l’Autorità di informazione finanziaria), ha accettato impotente che otto mesi dopo il cardinale Bertone tagliasse le unghie ai controllori. Sono fatti che rimangono.
RESTANO APERTI molti misteri di questa congiura. Anzitutto la sproporzione tra la massa di documenti raccolti dal maggiordomo e i testi pubblicati dal Fatto Quotidiano o contenuti nel libro di Nuzzi o usciti da uffici diversi dalla segreteria papale. Nessuno può garantire che delle copie non siano ancora riposte in qualche nascondiglio. Inoltre il maggiordomo ha iniziato a raccogliere materiale scottante già nel 2006, appena entrato in carica. Dunque vacilla la tesi dell’indignazione scatenata dalla vicenda Viganò (come da lui dichiarato). “Manipolabile e suggestionabile” è stato definito Gabriele in una delle perizie psichiatriche. Se agenti manipolatori ci sono, rimangono tuttora nell’ombra.
Come nei gialli l’ultima parola la pronuncia il maggiordomo: “Alla tavola del Santo Padre mi sono convinto quanto sia facile manipolare una persona, che ha in mano il potere decisionale”.

il Fatto 7.10.12
Il Pd ha mille difetti, ma almeno vota
di Antonello Caporale


Il Partito democratico paga l’assenza di una radice comune, di una identità condivisa e quindi della piena credibilità per ambire alla guida del Paese. Se ora traballa la sua forza, se è messa in discussione – e ieri così è parso nella mesta adunata dell’Ergife – la sua stessa unità politica, lo si deve, più che alla disinvoltura di Matteo Renzi, al peso a cui il partito è sottoposto dai mille potentati che ne detengono le quote societarie. Il Pd ha per troppo tempo esibito i caratteri di una larga e fumosa federazione di gruppi e di singoli, ciascuno con ampio diritto di veto, in grado di trasformare ogni scelta in opzione e di ridurre ogni decisione a una possibilità molto eventuale.
Se gli effetti di questa condizione sono così visibili, è però altrettanto innegabile che il Partito democratico resta ancora l’unica formazione politica in cui è praticato l’esercizio del voto interno. La verità non ha bisogno di opinioni. E mai come in questo momento la convocazione di militanti e simpatizzanti non pare un rito ipocrita: chi si aggiudica la candidatura a premier ha grandi possibilità di rivestire la carica di presidente del Consiglio dopo le elezioni di primavera.
È la prima volta che la leadership del Pd è davvero contendibile. La scalata alla guida dell’Italia (e del partito) è stata aperta dallo stesso segretario del Pd a ogni altra possibile indicazione. Né vale, ad attutirne il significato, la resistenza con la quale la classe dirigente tenta di frenare l’ampiezza della consultazione. C’è un fatto, ed è un fatto positivo. Utile alla democrazia, necessario al Paese.

La Stampa 7.10.12
Onore al segretario, rischia la trappola
di Federico Geremicca


Onore e complimenti a Pier Luigi Bersani, per il coraggio, la coerenza e la già nota generosità. Ma anche tanti auguri e in bocca al lupo a Pier Luigi Bersani, per aver deciso di rendere possibile una sfida, quella delle primarie, che ora rischia di trasformarsi in una trappola micidiale per lui ed il suo gruppo dirigente. E’ lui, infatti, l’uomo che nella competizione con Renzi e Vendola ha tutto da perdere e poco o niente da guadagnare; ed è lui, soprattutto, che sceso in gara per conquistare lo scettro di candidato-premier potrebbe uscirne senza più nemmeno i gradi di segretario.
Ma questi sono, diciamo così, i possibili effetti collaterali - non irrilevanti, certo - di un approdo che getta invece le premesse per una possibile iniezione di vitalità alla fiaccata democrazia italiana: milioni di italiani andranno ai gazebo per scegliere il candidato premier del centrosinistra nel pieno di un crepuscolo etico e politico che - contemporaneamente - spinge milioni di altri ad annunciare che non andranno alle urne neppure per le elezioni vere.
Ogni iniziativa che tenti di riavvicinare alla politica cittadini nauseati da quel che leggono o vedono tutti i giorni in tv è - naturalmente - salutare e benvenuta. E questo vale, a maggior ragione, nel caso di primarie come quelle messe in cantiere dal Pd, che non saranno un giro di valzer ma un passaggio duro e aspro: capace, a seconda dell’esito, perfino di precipitare in una vera e propria scomposizione e rifondazione del campo riformista (ed è una svolta che molti elettori di centrosinistra auspicano da tempo). Dunque, proprio il carattere che potrebbero assumere queste primarie - con i rischi che nascondono - rende ancor più apprezzabile la rotta tenuta fin qui da Pier Luigi Bersani.
Ha accettato una sfida che, secondo lo Statuto del Pd, avrebbe incontestabilmente potuto rifiutare; da un certo punto in poi, è parso volere le primarie addirittura contro il parere degli stessi big che lo sostengono (da Bindi a D’Alema, passando per Veltroni e Marini) ; le regole che ha fissato - in parte ancora da definire - sono state accettate da Renzi, il che vuol dire che del suo potere di segretario ha approfittato poco o niente. Non è dunque sbagliato affermare che se le primarie si terranno, ciò accadrà - in larga parte - per merito del leader del Pd. Detto tutto questo, però, è da qui che cominciano i guai.
Pier Luigi Bersani, infatti, queste primarie può perderle per davvero: è una sensazione ormai largamente diffusa anche tra i suoi sostenitori. Se fossimo di fronte all’avvio di una regata, potremmo dire che Matteo Renzi è entrato nel campo di gara con le vele tese dal vento della voglia di ricambio (che non è liquidabile come antipolitica tout court) mentre il segretario è costretto ad un’andatura di bolina: avendo quel vento, insomma, che gli soffia contro. Renzi va illustrando, in giro per l’Italia, un programma assai semplice: in fondo, per ora si limita a dire «cari amici, eccolo il programma, sono io, mandiamo a casa chi ci ha portato fin qua». Bersani non può farlo, ed è un handicap non da poco: preannuncia una gara tutta in salita.
Sarà insomma una sfida dura per il leader del Pd, e questo rende ancor più significativo il fatto che l’abbia voluta lo stesso. Certo, ora i rapporti con i big della sua maggioranza (leader che giocano una partita per la sopravvivenza) non sono dei migliori. E infatti, col tono di chi vuol mostrarsi preoccupato, da qualche giorno vanno proponendo interrogativi micidiali: che succede se al primo turno delle primarie Renzi batte Bersani? Può restare segretario del partito un leader sconfitto dal voto dei suoi stessi iscritti ed elettori? «Sarebbe un problema», si rispondono da soli. In verità sarebbe un gigantesco problema: e Pier Luigi Bersani naturalmente lo sa.
Dicono che abbia voluto la sfida con Renzi per non trasformarsi nel simbolo del vecchio da «rottamare», per evitare che - di fronte a primarie negate - il sindaco di Firenze scendesse in campo con liste proprie, e per non restare prigioniero dei capicorrente della sua stessa maggioranza. Chissà se, in fondo, Bersani stesso non condivida il giudizio espresso ieri su di lui da Carlo De Benedetti: «E’ una persona equilibrata e saggia, ma deve scrollarsi di dosso una nomenklatura che lo ha condizionato e che è stata assolutamente negativa per il Paese». Riuscirà a farlo, lanciando segnali già nel corso della campagna per le primarie? Lo si vedrà. Da ieri, però, Bersani sa che se non ci proverà lui, potrebbe farlo qualcun altro: Matteo Renzi adesso è lì, pronto a sfruttare qualunque errore e qualunque timidezza. Uno stimolo non da poco a trasformare una semplice «resa dei conti» in una salutare (e indispensabile) rivoluzione...

Corriere 7.10.12
Quell'esile armistizio con l'assente ingrato
In platea i tanti nemici del rottamatore E Iervolino sbotta: è soltanto un cialtrone
di Aldo Cazzullo


ROMA — Comincia la Bindi: «Non siamo una nomenklatura chiusa in un bunker». Prosegue Bersani: «La politica non celebri riti dentro un fortino». Altri oratori preferiscono l'immagine del recinto. La sostanza non cambia: un gruppo dirigente assediato, e uno spauracchio, non a caso assente, che minaccia di travolgere tutto e tutti: Matteo Renzi. Ugo Sposetti, dalemiano, storico tesoriere Ds: «Lei lo sa che Renzi per la campagna ha già speso due milioni e 35 mila euro?». Perché proprio 35 mila euro? «Lasci fare, che di queste cose me ne intendo. Ho calcolato tutto: camper, sale, alberghi, ristoranti...». E da dove vengono i soldi? «Secondo me anche dall'estero...».
La relazione di Bersani è seria e competente, da uomo di governo consapevole della gravità del momento. Ma scalda la platea una sola volta, nell'unico passaggio in cui rimprovera Renzi pur senza nominarlo: «Mi ha ferito leggere che voglio cambiare le regole in corso d'opera per chiudere e per bloccare. Qui l'unica regola che si cambia in corso d'opera è quella per cui il candidato premier del partito è il segretario». Boato. Chiusa della Bindi: «Esistono perle di straordinario valore, ed esiste la chincaglieria. Noi dobbiamo dare retta al cardinal Martini e comprare le vere perle, non la chincaglieria». La chincaglieria, nella percezione comune, è Renzi. Cofferati rievoca lo scontro avuto con Renzi in tv: «Gli ho detto che non ha mai lavorato in vita sua. Mi ha risposto dandomi del lei: "Io la querelo". Ma la querela non è mai arrivata perché ho ragione io: Renzi non ha mai lavorato in vita sua!».
È un contrappasso amaro, per il partito che cercò di aprirsi alla società con le primarie. All'inizio gli elettori erano chiamati ad avallare una decisione già presa, a incoronare un leader già designato. Stavolta gli elettori scelgono. E nel clima generale di rivolta contro le élite, l'unico leader riconosciuto qui nel fortilizio dell'Ergife, Bersani, rischia grosso, anche se non ha responsabilità specifiche, anche se — come ha ricordato — oggi compie un secondo passo indietro, dopo la rinuncia alle elezioni anticipate nel novembre scorso. D'Alema e Veltroni ci sono ma non parlano. Applausi per Prodi spedito da Ban-Ki-Moon in Sahel. In sua vece c'è Arturo Parisi: «Se dovessi giudicare in base alla simpatia, voterei Bersani. Ma devo dare atto a Renzi, con la sua antipatia, la sua postura, il suo fiorentinismo, che senza di lui non saremmo qui a parlare di primarie». Irrompe l'unica donna candidata, Laura Puppato: «Ma lo sapete che Renzi vuole rilanciare tutte le grandi opere? Non è con il cemento che si fa ripartire l'Italia!».
C'è anche una pattuglia di renziani. Pochi. A un certo punto si riuniscono con Reggi in una saletta e si contano: non sono più di 70, uno su dieci. Più qualcun altro che non si espone ma è in contatto con «Matteo» via sms. Di solito non sono cattolici, ma eterodossi con una giovinezza all'estrema sinistra come Paolo Gentiloni, nell'ambientalismo come Ermete Realacci, nel partito radicale come Roberto Giachetti. Molti tra gli ex popolari, come la Bindi e Franceschini, lo detestano. Franco Marini: «Di solito l'amante dà più soddisfazione della moglie; ma se l'amante ti prende a schiaffi...». L'amante sarebbe Renzi. Marini ammette di aver messo in passato gli occhi su di lui, ma ora ha cambiato idea: «Gli avevo consigliato di aspettare qualche anno. Non mi ha dato retta. Forse non è così furbo come dicono; altrimenti sarebbe venuto qui, a parlare. Non può mica sempre cavarsela recitando i format di Gori».
Si discute su cavilli, che però sottintendono una questione politica. Per Franceschini, alle primarie del centrosinistra devono votare solo gli elettori del centrosinistra. Per Bersani, possono venire anche gli elettori del centrodestra che hanno cambiato idea, «però ce lo devono dire», registrandosi nell'albo da rendere pubblico via Internet. Per Fassino, «più ampia sarà la partecipazione, meglio sarà per noi». Renzi qui dentro è un estraneo, così lo percepiscono anche molti elettori di sinistra, ma molti altri lo considerano il più competitivo per vincere le politiche, e non vorrebbero lasciarsi scappare un'occasione più unica che rara. Renato Soru: «Renzi è aggressivo, e questo non mi piace. In Sardegna noi abbiamo introdotto il limite dei due mandati, ma senza insultare nessuno. Renzi parla come Berlusconi: quelli che non sono d'accordo con lui sono comunisti». Ancora la Puppato: «Ma lo sapete che Renzi vuole la privatizzazione dell'Inail?».
L'esito della giornata è un compromesso aperto alle diverse interpretazioni: non a caso sia gli antirenziani sia i renziani si dicono vincitori. Enrico Letta precisa: il testo finale prevede che al secondo turno possa votare solo chi ha partecipato al primo; «però se al secondo turno si presenta qualcuno che l'altra volta non era venuto mica possiamo respingerlo con il filo spinato». Insomma anche il secondo turno sarà in qualche modo aperto, come chiede pure Vendola, che su questo punto ha le stesse idee o i medesimi interessi di Renzi. Esterna anche Simona Marchini: «Renzi è andato ad Arcore. Uno che non vuole farsi una pubblicità in stile Mediaset non va ad Arcore. Del resto, la parola "rottamare" è sgradevole, volgare, berlusconiana».
Il tesoriere del Pd, Antonio Misiani, ex assessore al Bilancio del Comune di Bergamo, pranza ostentatamente con panino e acqua non gasata («è la mia spending review»). Dice che lui è per Bersani, ma la soluzione migliore sarebbe che i due si mettessero d'accordo: in fondo sono complementari, parlano a generazioni e ambienti diversi; il sindaco porta voti di centrodestra, il segretario garantisce la sopravvivenza dei rottamandi e l'unità del partito. Oggi s'è visto un compromesso, ma ormai è tardi per un accordo vero. L'onorevole Ginefra da Bari: «Renzi è inqualificabile!». Ignazio Marino: «Non venendo qui, Renzi ha mostrato un atteggiamento non esattamente democratico». È venuta invece Rosa Russo Iervolino. Cosa pensa di Renzi? «Renzi è un cialtrone!».
Aldo Cazzullo

Corriere 7.10.12
Ora anche il leader sfida la vecchia guardia del Pd
La competizione servirà a emanciparsi «Poi se vinco si farà come dico io»
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Chapeau a Bersani per come ha gestito l'assemblea»: anche un sostenitore di Matteo Renzi, come Paolo Gentiloni, sottolinea la bravura del segretario che non si è fatto trascinare dai pasdaran. Cioè da chi, come Franco Marini e Rosy Bindi, avrebbe voluto inventare delle regole delle primarie per imbrigliare il sindaco di Firenze. «Comunque — osserva ancora Gentiloni — conveniva pure a Pier Luigi comportarsi così, sennò avrebbe fatto la figura di quello che si arroccava nell'apparato del partito».
Già, ma il leader del Pd ha avuto anche un'altra buona ragione per non far mettere ai voti gli emendamenti presentati da bindiani e mariniani e compiere quello che alcuni definiscono il «suo capolavoro». Il segretario da mesi punta alle primarie, contro il parere di Massimo D'Alema e di tanti altri big del partito, perché vuole scrollarsi definitivamente di dosso i lacci e i lacciuoli che i maggiorenti del Pd vorrebbero mettergli. «Se vinco si farà come dico io», dice il segretario ai fedelissimi. E per ottenere questo obiettivo ha bisogno di primarie aperte, trasparenti, il cui risultato non potrà essere contestato da nessuno. Perciò le primarie chiuse propostegli da Marini e Bindi non gli sono piaciute. E ieri è stato anche Piero Fassino a sollecitarlo lungo questa strada: noi dobbiamo prendere consensi non limitarci a una mini platea per paura di Renzi.
Bersani vuole giocarsi la sua partita per la leadership senza i condizionamenti di Marini, Bindi e D'Alema. Se otterrà la vittoria sarà un successo in proprio. Indiscutibile. Una legittimazione che complicherà i piani di quanti ufficialmente sostengono il segretario, ma in realtà tifano per il Monti bis. Il segretario lo sa e non ha intenzione alcuna di farsi mettere all'angolo, magari accettando una legge elettorale che non dia governabilità e che quindi apra la strada al Monti numero due.
E quando Bersani, ovviamente scherzando, dice che lui e il sindaco di Firenze potrebbero fare un «duetto» dice qualcosa che fa paura a molti nel partito. Non a caso Marini mette subito le mani avanti: «Anche se Renzi dovesse ottenere un buon risultato, certo noi non gli faremo fare le liste elettorali. È ancora troppo giovane e gliel'ho detto in faccia: aspetta cinque anni». Dove quel «noi» comprende i maggiorenti del partito che rischiano di venire emarginati nello scontro tra il segretario e il sindaco.
Perché dopo le primarie, qualsiasi sia il risultato, ci saranno Bersani e Renzi a dare le carte e agli altri toccherà giocare di risulta. Questo spiega il nervosismo di Rosy Bindi. Ieri i bindiani si sono espressi contro la deroga allo statuto che permette a Renzi di candidarsi, mentre la presidente del Pd ha evitato di votare. Glielo imponeva il ruolo super partes? No perché nella votazione precedente aveva alzato la mano con la delega proprio per essere conteggiata. È che Bindi non ci sta a essere lasciata fuori dai giochi. E infatti in serata strepita con l'ufficio stampa del partito e ottiene una nota in cui si precisa che il doppio turno sarà precluso, salvo eccezioni, a chi non voterà il primo. Bersani lascia fare: è inutile immergersi in beghe interne ora che le primarie, ma, soprattutto, le elezioni si avvicinano.
È una norma anti-Renzi, quella del doppio turno blindato o, come dice qualcuno «bindato». La presidente del partito, Marini e gli altri maggiorenti (non D'Alema e Veltroni che si tengono saggiamente in disparte) sono convinti che così riusciranno a porre un argine al Renzi montante. Peccato che le cose non siano così. Il sindaco di Firenze si dice «tranquillo». E ha sparato contro il doppio turno per propaganda e tattica. In realtà lui punta tutte le sue carte sul primo turno: è convinto che chi vince il 25 novembre vincerà, inevitabilmente, anche al ballottaggio, il 2 dicembre. E lui pensa di potercela fare. Anche perché i sondaggisti gli hanno spiegato che, contrariamente alla vulgata corrente, una parte dei consensi di Vendola andrà a lui, in nome del cambiamento, e non al segretario.

Repubblica 7.10.12
E il segretario scarica i notabili
di Goffredo De Marchis


«NON userò nemmeno il simbolo del Pd. Nessun dirigente salirà sul palco con me. Non è una campagna del partito, sono primarie di coalizione per la scelta del candidato premier». La nomenklatura democratica interpreta con preoccupazione i ripetuti segnali di Pier Luigi Bersani.
I TONI, i bersagli sono diversi da quelli del rottamatore Matteo Renzi ma al fondo l’obiettivo è lo stesso: rivoluzionare il centrosinistra, cambiare i volti, i vissuti, la foto di famiglia. E liberarsi del peso di alcune lunghe e onorate carriere politiche. Lui da solo contro il sindaco di Firenze significa un duello senza la zavorra degli “oligarchi”.
Il primo appuntamento della campagna da candidato premier conferma questo indirizzo. Bersani partirà, con un discorso sull’Italia, domenica prossima, il 14 ottobre, dal piazzale della stazione di servizio che fu di suo padre Pino, benzinaio e meccanico a Bettola, il paese a 33 chilomentri da Piacenza dove il segretario è nato 62 anni fa. «Questo sono io, questa è la mia storia», è il messaggio subliminale di una scelta sorprendente. Privata, quasi intima. «Si sarà capito che l’eccesso di personalizzazione nella politica mi infastidisce», diceva nell’intervista-biografia raccolta un anno fa da Miguel Gotor e Claudio Sardo. Ma cosa c’è di più personale di questo ritorno a casa, alle umili origini della sua famiglia? Cosa è cambiato da allora, nella strategia bersaniana? È cambiato tutto. C’è uno sfidante giovane e per niente sprovveduto. C’è una crisi
della politica che giocoforza investe chi quella politica l’ha interpretata, anche dalla parte della ragione. L’abbraccio a Bettola e ai primi passi è un altro segno che questa partita Bersani la vuole giocare in proprio. Che sono saltati i “patti di sindacato”, le alleanze interne.
I big del Pd lo sanno. Renzi fa comodo a Bersani perché diventa il parafulmine di un odio manifesto dei maggiorenti. «Il nemico è Renzi, non Vendola», sibila Massimo D’Alema a chi gli chiede un giudizio sulle primarie. Ne fa una questione personale e non ha tutti i torti: è dura essere dipinto come il male assoluto nei teatri pieni delle province toccate dal camper. Ma ora preoccupa anche l’atteggiamento di Bersani. «Spero che
vinca Pier Luigi, ma il giorno dopo Renzi non sarà cancellato. Rimarranno sul tavolo le sue battaglie, qualcuno sarà rottamato», spiega rassegnato un notabile. Sarà per primo il segretario a non accettare la cancellazione di un profondo ricambio. Una prova? Il capogruppo alla Camera Dario Franceschini, qualche giorno fa, è corso da lui per chiedergli conto di una proposta di legge firmata dal bersaniano Dario Ginefra che fissa, per i parlamentari, il limite inderogabile di tre mandati. «È una roba delicata, che faccio, procedo?». «Ma certo, andiamo avanti», ha risposto Bersani.
Con un rischio voluto e calcolato, Bersani può trovarsi davvero solo (e libero) nella sua corsa, i maggiorenti freddi e distanti. Il presidente della Toscana Enrico Rossi si ribella alle aperture del segretario: «Non cediamo alla prepotenza di Renzi». Dopo nemmeno due ore di assemblea, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca lascia furente l’hotel Ergife: «Non commento questo orrore altrimenti sconfino nel codice penale e mi arrestano». Franco Marini non accetta l’ineluttabile esito: «Voto il cambio dello Statuto solo per disciplina ». Rosy Bindi si aggrappa, confortata dalle parole di Enrico Letta e di Maurizio Migliavacca, al filtro delle regole. Ma Bersani non si guarda indietro.
L’intesa di fondo con Renzi non impedirà al segretario di condurre una campagna “aggressiva”. Il capo della sua comunicazione Stefano Di Traglia l’ha preparata nei dettagli. Sfidando il guru Giorgio Gori, con le armi più adatte a Bersani. Al format renziano che gira i teatri italiani recitando sempre lo stesso copione, verranno contrapposte 25 tappe con diversi canovacci. La scenografia sarà sempre reale: una fabbrica, una scuola, un centro di ricerca. Ogni volta si affronterà un tema nuovo. E i big, anche locali, sono pregati di accomodarsi non solo giù dal palco ma anche in fondo alla sala. In prima fila Bersani vuole i giovani dei circoli e delle associazioni. È la sua partita. La nomenklatura deve fare un passo indietro.

“il gruppo del Pd che più detesta il sindaco di Firenze; (...) paradossalmente non è la sinistra del Pd, ma la parte che viene dallo stesso partito da cui viene Renzi: la Dc. (Paradossalmente ma non troppo: Bindi, Marini, Fioroni e c. hanno capito che se Renzi prenderà molti voti alle primarie - e li prenderà - i referenti del Pd verso il centro non saranno più loro)”
La Stampa 7.10.12
Bersani cambia le regole per Renzi. Ma il doppio turno rischia di essere blindato
Matteo avvisa: il ballottaggio a numero chiuso non esiste
Aveva detto “mi fido del segretario”, ma l’hanno messo in allarme le mosse della Bindi
di Michele Brambilla


Alle otto e mezza di sera la faccia di Matteo Renzi è uno spettacolo quando gli chiediamo se, dopo l’assemblea del Pd sulle regole per le primarie, è tutto risolto. Sorride che sembra Crozza quando lo imita. «Discutiamo della sostanza, non delle forme», risponde. Allora gli facciamo una domanda più diretta: ma le va bene il ballottaggio chiuso, cioè che al secondo turno possa votare solo chi ha votato al primo? Stavolta non sorride più: «Io credo che l’ipotesi del ballottaggio chiuso non esista».
Non esiste proprio, e non solo nel senso che a lui non va bene: pure nel senso che Renzi è convinto che neanche Bersani vuol tagliar fuori chi non ha votato al primo turno. Allora una collega gli fa presente che questa storia del «ballottaggio chiuso» l’ha detta Rosi Bindi. Ma sì, è la Bindi che ad assemblea chiusa va in giro a spiegare che Renzi è rimasto fregato, e che la sua - la sua di Rosi Bindi - è «l’interpretazione autentica». Renzi torna a sorridere e dice: «Sono dichiarazioni che si commentano da sole». Altro che tutto risolto.
Questo è il Matteo Renzi alle otto e mezza di sera a Bari. Quello del pomeriggio, a Brindisi, era più tranquillo. Da Roma gli erano arrivate notizie confortanti. Bersani aveva respinto gli emendamenti presentati dal gruppo del Pd che più detesta il sindaco di Firenze; gruppo che paradossalmente non è la sinistra del Pd, ma la parte che viene dallo stesso partito da cui viene Renzi: la Dc. (Paradossalmente ma non troppo: Bindi, Marini, Fioroni e c. hanno capito che se Renzi prenderà molti voti alle primarie - e li prenderà - i referenti del Pd verso il centro non saranno più loro).
Beghe delle quali Renzi non vuol sapere: «Alla gente interessano le cose concrete. Facciamole su quello, le primarie, non sulle norme». Ma sa benissimo che è con quelle armi lì, è con le regolette ad hoc che qualcuno del suo partito lo vuol far fuori: perché lui è l’Imprevisto arrivato a scuotere i vecchi equilibri e le nuove certezze (o illusioni?) di aver già vinto le politiche dell’anno prossimo. Lui conta però sulla lealtà di Bersani, che al di là delle «interpretazioni autentiche» di questo pomeriggio dovrà ora sciogliere i nodi rimasti. «Saprà trovare una sintesi», dice Renzi.
Che a Bari arriva alle sette e un quarto di sera. Camicia bianca con le maniche arrotolate, pantaloni beige e scarpe sportive. La sala congressi dell’hotel Excelsior è strapiena. Lui parte a palla. Ha un’energia che sembra un Berlusconi con quarant’anni di meno. Infatti i suoi nemici nel Pd gli contestano pure questo, perché per un certo mondo non c’è insulto più pesante di quello: berlusconiano. Forse è per questo che una delle prime cose che Renzi dice è: «Non mi sento l’Unto del Signore».
Fa vedere alcune slide. I conti e i costi della sua campagna elettorale. Il pessimo uso che fa l’Italia dei fondi europei (99,286 miliardi di euro dissipati in 473.048 progetti). Un grafico sul potere d’acquisto delle famiglie, crollato dal 2007 a oggi. Gli scappa un «ora vi fo vedere una foto», e chissà cosa gli diranno gli spin doctor che ritengono «non vincente» la parlata in toscano.
Comunque parla di queste cose, «cose concrete». Fino a quando però, a un certo punto, delle regole per le primarie non può non far cenno. «Oggi abbiamo accettato», dice passando così al noi, «che l’assemblea del Pd scorresse via tranquilla anche se abbiamo molti dubbi sul fatto che si debbano fare regole diverse da quelle del passato».
«Ma a me va bene tutto», prosegue tornando alla prima persona. «Per due motivi». Il primo è che non vuole alimentare polemiche: «Noi le primarie le vinceremo se parleremo di cose concrete». Il secondo motivo infiamma la platea: «Noi le primarie le facciamo in modo diverso da come le si faceva in passato. In passato, le primarie servivano per sistemare qualcuno». E vai con un’altra slide: si vedono i faccioni degli sfidanti del centrosinistra per le politiche del 2006. C’è Prodi che vinse, ok. Ma gli altri? Gli sconfitti? «Bertinotti che aveva preso l’11 per cento ha avuto come premio di consolazione la presidenza della Camera. E questo? Lo riconoscete? È Mastella: 5 per cento e ministero della Giustizia. E questi? Di Pietro e Pecoraro: 5 per cento alle primarie, due ministeri anche per loro». Applausi a scena aperte. «Io, se perdo, non voglio premi di consolazione: rimango a fare il sindaco di Firenze». Ancora applausi.
Tanti, ma niente in confronto a quelli che seguono la mossa successiva. Viene proiettato il filmato di D’Alema che a «Otto e mezzo» dice che «se vince Renzi finisce il centrosinistra». È questo l’argomento principe dei suoi nemici interni. E allora Renzi a D’Alema risponde così: «Al massimo, finisce la tua carriera parlamentare», e questa volta è un’ovazione. Arrivata, forse, fino a Roma.

il Fatto 7.10.12
Per i ragazzi solo botte e nessun futuro
La risposta violenta della polizia nasconde l’impotenza del governo nel gestire la crisi
di Lidia Ravera


Teste spaccate, manganelli, lacrimogeni, fermi, arresti. Gli studenti scendono in piazza ed è subito guerra. È successo in decine di città, a inaugurare il nuovo anno di una scuola immiserita dai tagli e dalla povertà culturale, a gridare la propria paura per come le cose stanno andando. Un futuro da precari. Nessuna garanzia. Nessun peso sociale. Il bell'esempio dell'adulta e maschia classe dirigente del Paese che implode, si avvita sulla sua avidità, sprofonda nel fango. La preoccupazione per le famiglie, a carico delle quali vivranno nei prossimi dieci anni (se bastano), minacciate dalla crisi economica.
E POI la consapevolezza di essere stati depredati del loro sacrosanto diritto di sperare. C'è di che scendere in piazza, pacificamente e doverosamente. Perché ciascuno di noi ha il diritto/dovere di testimoniare, per la sua parte, quanto patisce il disastro complessivo e di chiedere la sua parte di cambiamento. A dieci anni dalla vergogna dei "fatti di Genova", a pochi mesi dalla condanna di (alcuni) responsabili del massacro della Diaz, mi sarei aspettata un comportamento esemplare da parte delle forze dell'ordine. Mi sarei aspettata protezione da eventuali provocazioni e rispetto per l'esercizio di un diritto/dovere. E riconoscenza, sì, anche riconoscenza, per chi, ancora una volta, nonostante lo spettacolo dell'agonia di un ceto di amministratori della cosa pubblica, continua a credere nella politica, tanto da uscire dalle aule di scuola, occupare le strade, proporre slogan, prendersi per mano, presentare il conto del proprio disagio a chi è responsabile della morta gora in cui dibattiamo tutti.
Mi sarei aspettata ordine e silenzio. Invece no. Invece di ringraziare, per essere stato considerato ancora una volta, un interlocutore, qualcuno incarica il suo braccio armato di adottare quella difesa preventiva che si chiama repressione.
È UN BRUTTO segno, per questo battesimo d'autunno. È un brutto segno perché, se decine di cortei in decine di città italiane vengono aggrediti, le migliaia di lavoratori minacciati nel loro diritto al lavoro, i cittadini taglieggiati dalla raffica di aumenti, e tutti gli altri aventi diritto alla protesta, come manifesteranno il proprio dissenso? Tutti chiusi in casa a piangere? Non c'erano i comodi black blok, né i "raffinatissimi nemici della democrazia" evocati dal professor Vasaturo, c'erano i figli di vent'anni di cattivo governo, le vittime innocenti degli sprechi di danaro pubblico, corteggiati a parole da tutti i partiti, ignorati od ostacolati quando cercano di prendere in mano il loro destino. I responsabili delle forze di polizia non hanno avuto una parola di autocritica, non hanno richiamato all'ordine gli agenti che hanno trascinato via per i capelli ragazzine di 16 anni. Poche voci si sono levate in difesa dei manifestanti. Il rischio, allora, è che si moltiplichi l'esempio di Palermo, dove un gruppo di diciottenni ha appiccato fuoco alla propria tessera elettorale. La prima.

il Fatto 7.10.12
“I grandi patrimoni restano intoccabili e i Fiorito ingrassano”
Visco: “L’evasione ancora non si è ridotta”
di Paola Zanca


Proibitive”. Non c’era bisogno che lo dicesse Vincenzo Visco. Ma che a giudicare così le tasse, sia l’ex ministro soprannominato “il vampiro”, diciamo che dà una certa idea della situazione in cui ci ritroviamo. “Siamo messi male – insiste Visco - Credo che l’Imu abbia migliorato la distribuzione del carico fiscale, ma è chiaro che i cittadini si trovano di fronte situazioni inaccettabili: il suv di Fiorito, sia chiaro, lo paghiamo noi”. L’ex ministro, però, è ben cosciente che sarebbe da ingenui credere che basti tagliare i viveri a chi si è ingrassato con i soldi pubblici per ripianare i debiti in cui sprofondiamo. Per lui il primo indiziato resta l’evasione fiscale: “Finalmente abbiamo un governo che ripete tutti i giorni che darà la caccia a chi non paga le tasse, ricordiamoci che quello precedente diceva addirittura il contrario, ma non basta la propaganda: l’evasione ancora non si è ridotta”. È da lì che bisogna ripartire. Giorgio Airaudo è secco: “Bisogna tagliere le tasse alle persone che lavorano e farle pagare a quelli che evadono. Punto. L'equità – dice il sindacalista Fiom – si fa con la lotta all'evasione. Ma attenzione, i soldi che si recuperano devono restano ai lavoratori, non devono finire alle imprese”. Il punto è anche questo: che fine fanno le risorse che si liberano? Per il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, bisogna stare attenti, per esempio, a non legare il tema dell’equità sociale alla riduzione della spesa: “Il taglio delle tasse – spiega – si può fare anche con una spesa pubblica efficiente e di qualità. Perché se riduciamo di 100 euro l'anno le imposte e poi chiudiamo gli asili nido, siamo al punto di partenza. Un conto è tagliare i soldi per il Suv di Fiorito, un conto è pensare che tutta la spesa pubblica sia uno spreco”. Fassina dice che “è preoccupante” che per intervenire sui finanziamenti alla politica si siano dovuti aspettare “scandali così pesanti”. Ma è preoccupato anche per quello che il governo deciderà con il decreto stabilità in programma per martedì: “Spero non ci siano sorprese, finora purtroppo si è continuato ad intervenire con tagli orizzontali”. Lui una soluzione ce l’avrebbe: “Cominciare a far contribuire chi finora non si è visto. I grandi patrimoni possono e devono dare il loro contributo. Non si tratta di cifre stratosferiche: per evitare l’aumento dell’I-va bastano 6 miliardi. E poi, vista la situazione, consiglierei al governo di guardare con molta attenzione alcuni capitoli di spesa, come quello della Difesa: anche da lì si possono recuperare risorse”. Servono, eccome . “Purtroppo non ci sono segnali che siamo fuori dalla recessione – ammette l'economista Ti-to Boeri – La situazione rimane critica”. La luce in fondo al tunnel ancora non si vede e chi si illude che i cordoni della borsa possano ricominciare ad allargarsi si sbaglia di grosso: “Prendiamo il taglio ai costi della politica – ragiona Boeri – È un fatto molto importante ma non è uno di quei provvedimenti che nell’immediato porterà risparmi significativi. Monti lo ha fatto perchè era fondamentale per risanare la profonda frattura che si è creata tra cittadini e classe dirigente, ma parliamo di cifre modestissime. I provvedimenti che andrebbero fatti per realizzare una maggiore equità – conclude Boeri – richiedono risorse decisamente più ingenche cambi con il ti. Cosa volete taglio di 100 consiglieri? D’altronde Monti lo capisco: doveva farlo, altrimenti non poteva chiedere ulteriore sacrifici per il risanamento”.

il Fatto 7.10.12
Strage di Stazzema
Il debito immenso che la Germania nega
di Furio Colombo


Un gentile ministro tedesco di passaggio da Palazzo Chigi ha voluto porre un rimedio alla sentenza del Tribunale di Stoccarda che ha deciso di non poter processare i superstiti responsabili del massacro di Sant'Anna di Stazzema con le parole: “Mancano le prove”. L'intero processo di Norimberga avrebbe potuto concludersi così. Ha detto il ministro come per rassicurarci: “La legge non cancella Storia”. Ma la Storia trascina pesi, rinfaccia debiti. In un'epoca come questa “debito” è la parola chiave.
È possibile che Spagna e Italia meritino diffidenza per lo stato della loro economia e (come nel caso italiano) per l'ammontare troppo grande del debito. È possibile che questi sguardi sospetti e – a momenti – decisamente ostili e non privi di compatimento e di un disprezzo appena velato dalle buone maniere, vengano dalla Germania, Paese definito spesso “virtuoso” a causa dei conti in ordine e della produzione ben organizzata che continua a fare profitto. È bene ricordare che prima viene la Grecia ad aprire la lista nera di coloro che hanno troppi debiti non pagati e forse non pagabili. La Grecia, considerata ormai, senza tanti riguardi, un Paese non rispettabile da una Unione europea del tutto sottomessa al rigore tedesco dei conti in ordine.
Sicuri che Berlino abbia i conti in pari?
Qui cominciano due discorsi. Il primo porta domande senza risposta sul carattere che l'Europa dovrebbe avere e mostrare. Come mai la voglia di punizione e di espulsione prevale oggi con tanta forza sulla ricerca, per quanto difficile, di soluzioni? Perché è più facile e normale e frequente sentire parlare della “fine della Grecia” piuttosto che di un patto comune per salvarla e trattenerla in Europa? L'altro discorso porta a un'altra domanda, che stranamente non viene mai posta (anche perché tutto lo spazio e il tempo è occupato da lodi e glorificazioni): davvero la Germania non ha debiti? E se li ha avuti, li ha pagati? Questo non è un modesto e maldestro tentativo di sviare il discorso in difesa di economie sgangherate. Purtroppo riguarda fatti ed eventi realmente accaduti, persone realmente esistite e realmente eliminate con crudeltà, con violenza e in massa. Un fatto è appena accaduto. Una Corte tedesca (Stoccarda) ha rifiutato di considerare come avvenuto e come tedesco il massacro di Sant'Anna di Stazzema (uomini, donne, molti bambini, il prete, tutti uccisi davanti alla chiesa) perché “mancavano le prove”, ovvero non era stata rilasciata ricevuta per quel debito senza senza limiti, e non c'era dunque ragione di considerare qualcuno come responsabile. Negli stessi giorni, i giorni in cui in Italia è morto Shlomo Vene-zia, per anni operaio gratuito (il compenso: restare provvisoriamente in vita) nella fabbrica della morte detta Auschwitz Birkenau, un sopravvissuto che solo adesso, morendo, ha finito di raccontare la sua storia pazzesca, il deputato Emanuele Fiano ha informato il Parlamento italiano di questo evento: “Mi ferisce in maniera indicibile, a me che sono figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, che si possa permettere, in questo Paese, che un sito neonazista, nella giornata di ieri, in concomitanza con la morte di Shlomo Venezia, abbia potuto aprire una pagina dedicata alla festa per la sua morte”. Questo squallido episodio dimostra ancora una volta che il danno prodotto nella vita e nella cultura europea dai vuoti e dalle negazioni della storia è altrettanto grave quanto i delitti compiuti negli anni spaventosi della persecuzione e della guerra.
Per esempio, a pochi chilometri da quella festa, appena un po’ prima dell’evento nazista, si può trovare la rappresentazione fisica di un estremismo più psichico che politico: il monumento-mausoleo di un grande criminale di guerra e di strage, il generale Rodolfo Graziani. L’episodio è moralmente indecente, storicamente assurdo, ma anche frutto di corruzione. Il monumento a Graziani, infatti, è stato pagato con fondi illecitamente ottenuti dalla Regione. È ciò che ci ha fatto giudicare corrotti e non affidabili, fino a poco fa, in Europa. È qui che torniamo al debito, e al senso del debito della Germania. Quando il Tribunale di Stoccarda, il tribunale di un Paese rispettato che fa da motore a questa Europa, nega, con il peso della sua credibilità e del suo prestigio, che sia accaduta la strage di Sant'Anna di Stazzema, non nega solo un episodio fra tanti di una guerra crudele e terribile. Nega il suo immenso debito e stabilisce una distanza pericolosa. La bella e moderna Germania di oggi non deve, non può sfiorare quel passato senza rendersi conto di quanto sia grave evocare un debito mai saldato, e rifiutare di saldarlo, sia pure, ormai, solo come gesto simbolico. Meglio essere amico degli amici ritrovati e tentare insieme la salvezza di tutti.

La Stampa 7.10.12
La confessione dell’ex SS “È vero, uccisi 25 donne”
Ma per la strage di Sant’Anna di Stazzema la Germania lo ha assolto
«Non può finire così: da noi le condanne sono state confermate in Appello e in Cassazione»
"Svuotai un’intera cartuccera. Erano solo donne, donne di ogni età"
di Niccolò Zancan


Eppure c’è chi ha ammesso. Parola per parola. Orrore su orrore. «Verso la parte terminale del pianoro, dove ricominciava la salita, vi erano due case. Si trattava di case piuttosto piccole, erano rivestite in muratura, ma avevano un aspetto misero. Di fronte a queste case, sedevano in cerchio circa 25 donne».
Questa è la voce di Ludwig Göring nato a Itterbash, Germania, il 18 dicembre 1923, tornitore di casse d’orologio in pensione. Ma, soprattutto, «impiegato alla mitragliatrice» nelle Waffen SS come da dizione giudiziaria tedesca durante la seconda guerra mondiale. E quello che ha messo a verbale davanti alla procura della Repubblica di Stoccarda - e poi anche davanti alla procura militare italiana - è il suo ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema. L’avevano chiamata «operazione antipartigiani». Dopo la notte trascorsa vicino a La Spezia, si ritrovarono di fronte a quelle donne disarmate. «L’ufficiale di grado più elevato era molto impaziente - racconta Göring - ci sollecitò a fare presto. Urlò: “Posizionare la mitragliatrice! ”. Dopo l’ordine di fare fuoco, sparai sulle donne. Durò pochissimo. Tre uomini cosparsero di benzina i cadaveri e vi appiccarono il fuoco. Improvvisamente vidi che dalla catasta in fiamme si levava correndo un bambino, un ragazzo di circa 10-11 anni, che si allontanò subito di corsa, scomparendo dietro la scarpata che distava circa tre metri. Non avevo visto prima il bimbo. Neanche mentre sparavo avevo notato che vi fosse un bambino con le donne».
Ha ammesso in piena consapevolezza, di fronte al preciso avvertimento avanzato dal procuratore generale Bernard Häubler: «Al testimone si fa rilevare che, qualora sostenga di aver sparato, diviene indiziato di concorso di omicidio e potrebbe rendersi perseguibile per concorso in omicidio doloso semplice o omicidio doloso grave». Ludwig Göring risponde così: «Devo parlare, non importa cosa accadrà. Ora voglio dire la verità. In quello spiazzo si trovava una sola mitragliatrice, azionata da me e dall’artigliere addetto alle munizioni... Ero consapevole che una simile fucilazione era proibita. Ma non avevo scelta: un ordine è un ordine». C’è, dunque, un reo confesso. Eppure il 1° ottobre anche la posizione di Ludwig Göring è stata archiviata dalla Procura di Stoccarda, insieme a quella degli altri soldati nazisti indagati per la strage del 12 agosto 1944, in cui furono trucidati 560 innocenti. Una sentenza che il presidente Giorgio Napolitano ha definito «sconcertante». E che si è basata, per quanto si è potuto capire, proprio sull’impossibilità di ricondurre le singole azioni criminali a precise responsabilità individuali. E invece ci sono i ricordi lucidi del caporalmaggiore Göring, c’è la sua mano che spara: «Quella mattina la mia compagnia si mise in marcia compatta. Si recò sui monti, formando una linea di fucilieri. La distanza fra i soldati era di circa 10 metri. Io trasportavo la mitragliatrice». A un certo punto fa addirittura un disegno, indica le posizioni: il pianoro, il bosco, le donne costrette a sedersi in cerchio. Aggiunge: «Stavamo a cinque metri da loro. Tutti spararono. Io svuotai un’intera cartucciera, che non fu ricaricata. Altri soldati spararono con il mitra... Erano solo donne, donne di ogni età, ma non le osservai in modo dettagliato... Mentre ci allontanavamo, i cadaveri stavano ancora bruciando». Gli chiedono: «Ha mai parlato con qualcuno di questi fatti dopo l’accaduto? ». Göring risponde: «Sì, circa quattro settimane fa con mia moglie. Quando ricevetti la convocazione della Procura, me ne chiese il motivo». Gli domandano: «Perché adesso è disposto a raccontare questi accadimenti? ». E lui: «Perché li ho sempre davanti agli occhi, in continuazione, da quando sono accaduti. E specie da quando si parla in televisione di attacchi terroristici, questi fatti mi tornano alla mente. Non riesco a liberarmene».
Il verbale è datato 25 marzo 2004. Una ricostruzione confermata successivamente anche davanti al capo della procura militare italiana, Marco De Paolis. Per la stessa strage ha ottenuto dieci condanne. «Senza mancare di rispetto a nessuno - spiega adesso - non può finire così. C’è qualcosa che stride. Da noi la sentenze di condanna sono state confermate in appello e in Cassazione. E tutte si sono basate su prove documentali e testimoniali». Anche sulla confessione tardiva del caporalmaggiore Göring.

La Stampa 7.10.12
Nuovi colpi di mortaio Ankara muove le truppe
Erdogan: risponderemo. Damasco: sono stati i ribelli
di Francesca Paci


«Siamo stati fortunati a radunare al volo le nostre cose e scappare subito, adesso è molto più difficile» sospira il muratore 40enne Abu Assan guardando la frontiera ormai presidiatissima dai blindati di Ankara. Venerdì, dopo la rappresaglia decisa dal premier Erdogan per vendicare le 5 vittime di mercoledì, decine di siriani avevano attraversato il reticolato sguarnito che separa Tal Abyad dalla sua gemella turca Akcakala. In poche ore però, la tensione è tornata a salire: ieri per ben due volte l’artiglieria indirizzata dai radar ha risposto al fuoco siriano nella provincia di Hatay, innalzando e di molto l’allarme per la frequenza degli incidenti al confine. Secondo l’opposizione siriana ci sarebbero diversi morti tra i soldati governativi.
Dopo la notizia di una salva di mortaio caduta a 700 metri dalle abitazioni di Asagipulluyazi, un villaggio a pochi metri dal confine tra i due Paesi, e d’una successiva sparata contro la vicina cittadina di Guveci (ma senza vittime), l’esercito turco ha dispiegato carri armati e batterie anti-missile lungo la terra di nessuno che la separa dalla sempre più sanguinosa guerra civile siriana (solo ieri sarebbero state uccise almeno 60 persone), in particolare nella provincia sudorientale di Sanliurfa e a Kilis.
«Vogliamo la pace ma metterci alla prova sarebbe un gravissimo errore», insiste Erdogan mentre i media governativi accusano delle nuove provocazioni le truppe di Assad, impegnate in combattimenti con i ribelli nei pressi di Harapjoz, nella provincia nord-occidentale di Idlib. Nonostante le scuse formali di Damasco però, diversi analisti sospettano stavolta del Free Syrian Army, il braccio armato dell’opposizione, che avrebbe tutto da guadagnare da un coinvolgimento turco nel conflitto e che, soprattutto, controlla quasi interamente il territorio siriano al di là di Hatay.
«D’ora in poi ogni volta che saremo attaccati risponderemo» avverte il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu sottolineando che la fermezza significa deterrenza. Ankara parla ad Assad, con cui un tempo Erdogan trascorreva le vacanze, ma anche un po’ perché intendano i titubanti paesi occidentali, America in testa. L’Alleanza Atlantica è a dir poco riluttante a intervenire in Siria sul modello libico. E pazienza se Erdogan deve vedersela con almeno 100mila rifugiati (ma dati ufficiosi parlano di 150mila) e con il fantasma del separatismo curdo, che da un lato prende le fattezze del Pkk sostenuto da Damasco e dall’altro dei filo-ribelli ma fieramente autonomisti in controllo delle province siriane settentrionali. La comunità internazionale teme il caos regionale e, per ora, si limita a incoraggiare la diplomazia teorica di Lega Araba e Nazioni Unite.
«Ci sentiamo tirati per la maglietta e non ci piace» commenta il 34enne informatico Yaman, leggendo il giornale Hurriyet al chiosco Kilic Bufa, vicino al bazar di Sanliurfa. Il ministro per l’economia turco Zafer Caglayan scommette che il regime siriano stia vivendo «i suoi ultimi istanti e non abbia più ossigeno». Ma le notizie del botta e risposta al confine si rincorrono e pompano i timori di una guerra che la Turchia, a differenza di Stati Uniti e Arabia Saudita, non può permettersi di combattere a distanza. "Il ministro turco dell’Economia «Il regime di Assad non ha più ossigeno»"

Corriere La Lettura 7.10.12
«Zola» sfida la muraglia cinese
Blogger e cittadini molto attivi sui social media raccontano la realtà che la censura del governo vuole nascondere
di Marta Serafini


I turisti che arrivano in Cina vogliono tutti una cosa. Andare a vedere il Great Wall, la Grande Muraglia. Poi si connettono per scaricare la posta e guardare Facebook e scoprono un altro muro, ancora più alto. È il Great Firewall, il sofisticato sistema di censura usato dal governo di Pechino per controllare (e cancellare) migliaia di contenuti sul web. «Scalarlo» non è per nulla facile. Ogni giorno ci provano cittadini comuni, giovani, impiegati, vecchi. Il loro obiettivo è raccontare la vera Cina, quella alle prese con inquinamento, violenza e disparità sociali sempre più evidenti. Chi scrive rischia tutto. La stampa internazionale riporta le storie dei dissidenti più noti, come il professore Liu Xiaobo o l'artista Ai Weiwei. Ma non sono i soli.
Per Reporters Without Borders attualmente sono 97 i cinesi in carcere per aver scritto in Rete notizie e considerazioni sgradite al governo: citizen journalist, blogger ribelli, attivisti, netizen. Le etichette sono tante ma le storie, in fondo, abbastanza simili. Quella di Huang Qi, per esempio, che nel 1999 fonda insieme alla moglie il sito www.64tian- wang.com per segnalare le persone scomparse nel traffico di esseri umani. Nel 2000 Qi viene arrestato con l'accusa di «incitare alla sovversione». Appena uscito dalla cella, cinque anni dopo, comincia a raccontare le storie dei bambini morti nel terremoto nella provincia di Sichuan e sollecita un'inchiesta sulla qualità delle infrastrutture scolastiche. Risultato, altro giro di chiave e Qi torna in prigione.
Cheng Jianping (Wang Yi), 46 anni, nel 2010 è stata condannata a un anno di rieducazione attraverso i lavori forzati con l'accusa di incitamento al disordine pubblico. La sua colpa? Aver pubblicato un commento sarcastico su Twitter, in cui criticava manifestanti cinesi che protestavano contro il Giappone per una disputa territoriale tra i due Paesi. Ora è detenuta — senza processo — nel campo di lavoro femminile di Shibali, nella provincia di Henan.
Dire la verità costa carissimo. Dal 2008, anno dell'Olimpiade, la lista dei siti bloccati in Cina si è allungata: Facebook, Twitter, Google, Gmail, YouTube, Wordpress. Il governo ha creato sue piattaforme e Sina Weibo, conosciuto come il «Twitter cinese», è diventato il social media più usato dai cinesi. Tuttavia i «dissidenti» lontani dai riflettori occidentali aumentano: blogger critici, giovani nazionalisti inferociti, opinion maker dai toni populisti; netizen responsabili che, grazie alla tecnologia e alle possibilità offerte dalla lingua cinese, aggirano la censura. Come ha raccontato Marco Del Corona su «La lettura» la lingua cinese, tonale, permette di divertirsi con gli omofoni: ideogrammi diversi possono avere suoni uguali o simili, espressioni pronunciate in modo identico significano tutt'altro. Dal lessico al web, online è disponibile uno strumento per convertire il testo e cambiare il verso della lettura da destra verso sinistra e dall'alto verso il basso. Ma il Great Firewall non si lascia scoraggiare. Preoccupati dall'effetto domino delle rivolte in Medio Oriente e Nord Africa e dai movimenti «Occupy» sparsi per il mondo, i burocrati di Pechino hanno aumentato il dizionario delle parole proibite: guai a digitare le parole «gelsomino», «Egitto» o il nome di una città cinese seguito da «Occupy».
I funzionari del partito oggi sono dotati di RedPad, un tablet Android da 9,7 pollici e custodia in pelle con applicazioni specifiche per tenere d'occhio blogger, giornalisti e lettori. Che provano a resistere. Cambiano modo di agire: meno attivisti, meno intellettuali e più citizen journalist. Due su tutti, Zola (Zhou Shuguang) e Tiger Temple (Zhang Shihe). Uno trent'anni, l'altro cinquanta, uno fruttivendolo, l'altro ex libraio. Semplici cittadini che raccontano la vita quotidiana e le sue ingiustizie, quella dei «senza tetto» di Piazza Tienanmen e dei contadini che lottano contro l'inquinamento delle fabbriche. La polizia controlla anche loro. Ma Zola e Tiger Temple riescono a dribblare il sistema senza finire nella categoria «dissidenti». E vanno avanti. A raccontare le loro vite è Stephen Maing, autore del documentario High Tech Low Life, presentato in anteprima al festival di Internazionale a Ferrara, all'interno della rassegna Mondovisioni. «Ho scelto Tiger e Zola perché rappresentano due diverse generazioni di blogger e incarnano alla perfezione il tentativo di cambiare le cose in Cina», spiega Maing. I due, alla fine del documentario, si incontrano alla Chinese Blogger Conference a Lianzhou. E lì sfidano il Great Firewall, con Zola che spiega ad altri suoi coetanei come usare un blog e con Tiger che firma i post con il nome della sua gatta Mongolia. «Nonostante la censura, c'è un fermento culturale notevole, i confini di ciò che è proibito e ciò che è lecito non sono così definiti, c'è uno spazio in cui infilarsi», spiega Steve. E sia Zola sia Tiger raccontano: «Se posti video sei più al sicuro, le parole sono più pericolose: possono attribuirtele».
Secondo le cifre ufficiali, nel 2011 in Cina c'erano 513 milioni di utenti web, e il tasso di diffusione della Rete era del 38,3%. Di questi, 356 hanno accesso a Internet attraverso il telefonino e più di 250 usano piattaforme di microblog per comunicare. Difficile spiarli tutti, anche perché crescono come funghi. Ed etichettarli come dissidenti non sempre è possibile. Succede anche con Han Han, 30 anni, scrittore, saggista e pilota di rally. Han Han ha pubblicato nel 2000 il suo primo romanzo, Le tre porte, vendendo più di due milioni di copie (in Italia il libro è edito da Metropoli d'Asia). Nel 2006 ha aperto un blog, la cui media di visitatori è di più di 400 milioni l'anno e oggi scrive per il «New York Times». Nei suoi saggi Han ha raccontato «la generazione post 1989», l'anno di piazza Tienanmen: apolitica, ossessionata dai soldi e dallo status sociale, figlia dello sviluppo economico del Paese. Sul sito si occupa spesso della censura, dello sfruttamento dei giovani lavoratori, dell'inquinamento e del divario tra ricchi e poveri. Sul tema del dissenso ha scritto: «Posso accettare il fatto che in Cina non ci sia una vera democrazia, né un sistema multipartitico e che non ci sarà nel prossimo futuro, ma ci sono questioni più urgenti e realistiche come la libertà di stampa e quella culturale».
Pechino accusa Washington di strumentalizzare i blogger «dissidenti» e di usarli per contrastare l'ascesa economica e politica della Cina. Difficile dire se sia vero. Di sicuro c'è che l'Occidente non ha sempre aiutato i dissidenti. Uno dei casi più terribili è quello del giornalista Wang arrestato e condannato grazie alle informazioni fornite dal motore di ricerca Yahoo! alle autorità cinesi. In alcuni casi infatti la Silicon Valley ha dato una mano ai regimi consegnando le vite dei blogger nelle mani dei carnefici. E lo ha fatto nascondendosi dietro al controverso principio del «dobbiamo rispettare le leggi dei Paesi in cui operiamo». Così se la tecnologia ha reso facile esprimere la propria opinione in Rete, allo stesso tempo dire la verità è diventato molto più pericoloso. Soprattutto in Cina.

Corriere La Lettura 7.10.12
Cuba, la finta fermezza di Kennedy
di Tommaso Piffer


«Nella crisi dei missili il ritiro dei sovietici costò alla Casa Bianca pesanti concessioni Se fossero state rese note allora, la carriera del presidente sarebbe uscita distrutta»
«Mai il mondo si è trovato così vicino allo scoppio di un conflitto nucleare generalizzato, e certamente vi fu anche un elemento di fortuna se il combinarsi di tutti gli elementi non ci portò direttamente nel baratro». Mark Kramer, direttore del Centro di ricerca sulla Guerra Fredda del Davis Center di Harvard, non va per il sottile nel tracciare un bilancio, per il cinquantesimo anniversario, della più grave crisi della Guerra Fredda.
Tutto iniziò il 14 ottobre 1962, quando un aereo spia americano rilevò la presenza di missili nucleari sovietici a Cuba. Due giorni dopo, il direttore della Cia comunicava al presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy che le testate erano in grado di raggiungere le maggiori città americane. «Una volta operativi, i missili — spiega Kramer — avevano in parte la funzione di difendere Cuba da un'invasione americana, ma soprattutto avrebbero dato all'Urss la possibilità di colpire gli Stati Uniti in un momento in cui Mosca aveva a disposizione solo un numero limitato di vettori intercontinentali. Il punto cruciale che fece scoppiare la crisi però non furono i missili in sé, ma la segretezza con la quale i sovietici decisero di condurre l'operazione. Se avessero agito alla luce del sole, sostenendo che non avevano altra intenzione che rispondere a quello che gli americani avevano fatto posizionando i loro vettori in Turchia, l'amministrazione Usa avrebbe avuto ben pochi argomenti per opporvisi. Dalla documentazione disponibile non è chiaro perché Nikita Krusciov scelse di muoversi in quel modo. È chiaro però che, una volta scoperta l'operazione, gli Stati Uniti non potevano che reagire».
L'amministrazione americana si trovò divisa su come rispondere, ma a nessuno sfuggiva che un attacco su Cuba, proposto da una larga maggioranza dei consiglieri del presidente, avrebbe probabilmente determinato una ritorsione su Berlino, che a sua volta avrebbe richiesto una risposta americana direttamente contro l'Unione Sovietica e l'inevitabile escalation nucleare.
Il 22 ottobre la Casa Bianca annunciò al mondo la presenza dei missili, chiedendone il ritiro immediato e imponendo un blocco navale intorno a Cuba per impedire l'arrivo di altro materiale offensivo. «La reazione di Kennedy prese di sorpresa i sovietici, che non si aspettavano che gli americani scoprissero i missili e avevano previsto di annunciarne la presenza una volta completata l'installazione: a quel punto un'invasione dell'isola sarebbe stata praticamente impossibile, o comunque troppo pericolosa per gli Stati Uniti, che avrebbero rischiato una immediata ritorsione contro il loro territorio». Per diversi giorni l'esito della crisi rimase incerto: Kennedy era sotto la pressione di chi voleva il bombardamento e l'invasione dell'isola, e doveva fronteggiare l'eventualità che i sovietici tentassero di forzare il blocco, costringendo gli americani a usare la forza per fermare le navi. Krusciov a sua volta doveva fare i conti con le pressioni di chi gli chiedeva di non cedere.
«La crisi fu assai più pericolosa di quanto si immaginò allora. Entrambi i leader volevano evitare la guerra, ma vi erano troppe cose che potevano andare storte e determinare un'escalation non voluta da nessuno. Basti pensare all'abbattimento dell'aereo spia americano sui cieli di Cuba il 27 ottobre, allo sconfinamento di un altro velivolo nello spazio aereo sovietico o alle pretese di Castro, che chiese a Krusciov di lanciare immediatamente una rappresaglia nucleare contro gli Stati Uniti nel caso di attacco a Cuba. Episodi di questo genere si sono verificati altre volte nel corso della Guerra Fredda, ma in un contesto di tensione, quando tutti dormono tre ore a notte e le informazioni sono incomplete, si tende a pensare il peggio delle intenzioni del nemico: situazioni come queste possono facilmente spingere i leader a prendere decisioni radicali».
Solo il 27 ottobre si giunse a una soluzione, con il consenso di Krusciov a ritirare i missili in cambio della promessa degli Stati Uniti di non invadere Cuba. In segreto, Kennedy acconsentì anche al ritiro dei vettori americani dalla Turchia. Il mondo era salvo e la crisi determinò l'avvio di un fase di maggiore controllo degli armamenti nucleari.
La narrazione di quello che fu un vero e proprio «punto di svolta» nella Guerra Fredda produsse da subito una serie di miti. Uno è quello del ruolo di Robert Kennedy, che negli anni successivi dipinse se stesso come uno dei fautori più decisi della soluzione diplomatica. «In realtà — spiega Kramer —, come hanno mostrato le registrazioni degli incontri del presidente con i suoi consiglieri, Robert fu tra i sostenitori più decisi del bombardamento e dell'invasione, e solo in una fase molto avanzata cambiò idea e appoggiò il fratello, che invece fin dall'inizio si era mostrato riluttante a seguire la strada di un intervento militare». Ma soprattutto la soluzione della crisi è stata attribuita in gran parte alla fermezza di Kennedy, che avrebbe rifiutato di farsi intimidire da Krusciov costringendolo a ritirarsi. «La crisi in verità si risolse solo al prezzo di pesanti concessioni, che se rese note avrebbero distrutto la carriera politica di Kennedy, in particolare la promessa del ritiro dei missili dalla Turchia. Da un certo punto di vista i sovietici ottennero quello che avevano voluto. Il fatto che lo abbiamo saputo solo molto dopo ha contributo all'edificazione del mito della fermezza».
Se di quanto accadde nello Studio Ovale ormai sappiamo molto, la versione sovietica invece è ancora incerta. «Non si sa ad esempio — conclude Kramer — quello che il Cremlino avesse previsto di fare in caso di attacco americano a Cuba. Possiamo fare solo delle congetture: Mosca poteva adottare una ritorsione contro Berlino, ma aveva anche gli strumenti per lanciare un attacco nucleare direttamente sugli Stati Uniti o sui loro alleati europei. In quel caso il numero di morti sarebbe stato ingentissimo. È difficile dirlo in assenza di una documentazione che rimane ancora segreta. Quanto siamo andati vicini alla distruzione finale, forse, non lo sapremo mai».

Corriere La Lettura 7.10.12
Ma non siamo tutti matti
Nuovi linguaggi, scienze, religioni, filosofie Il nuovo manuale ridefinisce la malattia mentale Protestano i medici: raccolte oltre 14 mila firme
di Francesca Ronchin


Mettiamo un vago senso di ansia che qualcosa di negativo stia per accadere. Oppure quel bisogno irresistibile di fare shopping o un'ora di corsa dopo il lavoro perché senza si sta peggio. Prendiamo continui sbalzi d'umore in uno stato di diffusa irritabilità. Tra pochi mesi potrebbero diventare delle vere malattie mentali. Non più semplici debolezze o inclinazioni caratteriali ma «disturbo generalizzato di ansia», «dipendenze comportamentali» e «disturbo dirompente di disregolazione dell'umore».
Un'ondata di etichette in arrivo dagli Stati Uniti a mano a mano che si avvicina maggio 2013, data prevista dell'uscita del Dsm-V, la quinta edizione del manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali, la bibbia della psichiatria redatta dall'Apa, American Psychiatric Association, e utilizzata in tutto il mondo. È il manuale che viene consultato per fare le diagnosi, prescrivere farmaci e, specie in America, fornire quel codice tassonomico che tanto serve alle assicurazioni. Non è l'unico sistema di classificazione delle malattie, in virtù di accordi con l'Organizzazione mondiale della sanità, il sistema sanitario italiano segue l'Icd (International classification of diseases), ma il Dsm è più influente a causa del ruolo di prestigio degli Stati Uniti nella ricerca scientifica. Non solo, è anche il testo sul quale i tribunali basano le loro sentenze e che orienta le ricerche delle case farmaceutiche. Pubblicato per la prima volta nel 1952, 150 pagine e 128 disturbi, negli anni si è arrivati alle 900 pagine e alle 365 malattie del Dsm-IV-Tr («text revised»), tuttora in uso.
Ad ogni nuova edizione il Dsm fa parlare di sé ma è la prima volta che suscita tanto clamore, al punto che l'uscita è stata rimandata dopo che il sito con la bozza (www.dsm5.org) è stato raggiunto da 50 milioni di contatti e 25 mila critiche. La paura di scienziati e filosofi è che il nuovo Dsm-V provochi un'esplosione di malati e terapie farmacologiche in un momento in cui, secondo dati del National Institute of Mental Health, solo negli Usa, un adulto su 4 si vede diagnosticare un qualche disordine mentale e uno su 5 assume psicofarmaci. In prima linea l'American Psychological Association che ha indetto una petizione appoggiata da altre 50 associazioni e 14 mila firmatari. A preoccupare non sarebbero solo i «nuovi disordini» ma il generale abbassamento della soglia diagnostica per patologie già esistenti. Sintomi più lievi e di minor durata perché basta cambiare un numero, portare da 7 a 12 l'età di insorgenza di un episodio di iperattività per far scattare la diagnosi di Adhd (Attention deficit and hiperactivity disorder) e quindi trasformare milioni di bambini vivaci in pazienti da curare con stimolanti.
«Si rischia un'epidemia di falsi positivi — spiega Allen Frances, professore emerito della Duke University — soggetti che soddisfano i criteri diagnostici senza in realtà essere malati». Un fenomeno già verificatosi con il Dsm-IV, redatto proprio dallo stesso Frances che da allora ha fatto della difesa della normalità la sua battaglia. Complice il tam tam sui media di mezzo mondo, i risultati ci sono stati. Il lutto ad esempio. Il nuovo Dsm-V voleva introdurlo come forma di depressione maggiore, la cui diagnosi può scattare dopo un periodo di sole due settimane. Di fronte all'orrore generale, l'Apa ha pensato bene di fare marcia indietro in nome di «una più attenta revisione delle evidenze scientifiche». Dietrofront anche sulla «sindrome da psicosi attenuata» che avrebbe potuto stigmatizzare milioni di persone eccentriche ma non scollegate dalla realtà. Così come per la «dipendenza comportamentale» circoscritta, per ora, al solo gioco d'azzardo. Resta fuori la dipendenza da Internet anche se il prematuro battesimo ha già dato il via a un'infinità di pubblicazioni e proposte terapeutiche, complice il cambio di terminologia. Non più «dependence» ma «addiction» così da equiparare Internet e simili a vere e proprie droghe.
«Stiamo procedendo con la massima attenzione — spiega David Kupfer, responsabile della Task Force Dsm-V dell'Apa — non solo per evitare che le diagnosi siano troppe, ma anche troppo poche». E anche se «alcuni segnali positivi ci sono — ammette Allen Frances — i rischi restano. In particolare la patologizzazione degli scatti d'ira dei bambini, l'introduzione del lieve disturbo neuro-cognitivo negli anziani e del "binge eating", come se dimenticare le cose o qualche incursione notturna in cucina siano condizione sufficiente per ritenersi malati. Se devo dirla tutta, con il Dsm-III saremmo più che a posto». Una provocazione forse, ma neanche tanto. «Il Dsm-V era nato dall'idea di identificare un marker biologico che permettesse di costruire anche in psichiatria diagnosi specifiche così come accade nelle altre branche della medicina — spiega Giovanni Muscettola, ordinario di Psichiatria presso l'Università Federico II di Napoli —, purtroppo non siamo ancora a questo punto».
In sostanza, i passi in avanti di psichiatria e neuroscienze non sarebbero tali da determinare una rivoluzione nella diagnosi delle malattie mentali, anzi, proprio in assenza di indicatori oggettivi che segnino il confine tra normale e patologico sarebbe possibile estendere i confini diagnostici in un modo che in altre branche della medicina sarebbe improponibile. «Criticare il Dsm è diventato una moda — spiega Muscettola — ma di certo l'eccessiva psichiatrizzazione di ogni disagio ha alimentato l'antipsichiatria e ci ha reso meno credibili. Una cosa è la malattia mentale, un'altra il disagio». Proprio l'inquadramento biologico della sofferenza psichica, sarebbe uno dei punti criticati dalla Petizione degli Psicologi dove si rivendica l'importanza della componente socioculturale.
Lou Marinoff, filosofo e autore del bestseller mondiale Platone è meglio del Prozac, ne sa qualcosa. «Molte malattie mentali sono disagi di derivazione culturale che una volta non c'erano: dalle disfunzioni sessuali ai disturbi alimentari. I bambini di oggi fanno fatica a concentrarsi non perché sono tutti malati di Adhd bensì perché le modalità di apprendimento sono per lo più visive e uditive, il che riduce drasticamente la durata dell'attenzione. Altra grande "epidemia" è quella di obesità, ma ci si dimentica che non è una malattia bensì un sintomo e se la medicina confonde le cause con la loro manifestazione, come si può pensare che le cure proposte siano efficaci?». Specialmente se è vero che gli psicofarmaci sarebbero poco più di un placebo, come sostenuto dallo scienziato Irving Kirsch, e se si guarda all'attuale ricerca farmacologica in ambito psichiatrico che, dopo l'entusiasmo degli anni 80, starebbe vivendo una battuta di arresto. Se le malattie mentali aumentano, i farmaci per curarle sarebbero sempre gli stessi, antipsicotici in testa, mentre il mercato si riempie di me too drugs, farmaci fotocopia di quelli esistenti. La colpa della frenata di investimenti da parte di Big Pharma, ha spiegato l'ex direttore del Nimh Steven Hyman, sarebbe del cervello che, neanche a dirlo, continua a essere troppo complesso.
E proprio per meglio rappresentare «l'evasività» della malattia mentale, il nuovo Dsm-V rivoluziona l'attuale approccio categoriale aggiungendone uno dimensionale. Normalità e patologia come parti di uno stesso spettro favorendo, in questo modo, l'identificazione delle forme attenuate, sottosoglia e quindi la prevenzione. Un passo in avanti anche se il rischio, secondo i critici, è quello di esasperare la medicalizzazione intercettando condizioni che in realtà potrebbero essere transitorie. «Per fare una diagnosi come si deve — spiega Alessandro Rossi, ordinario di Psichiatra presso l'Università dell'Aquila — bisognerebbe effettuare un'intervista strutturata di un'ora. Cosa che nella pratica avverrà nel 20-30% dei casi. In 20 minuti un medico deve fare troppe cose e il Dsm non ha neanche il tempo di aprirlo. Se venisse usato come si deve, probabilmente vi sarebbero meno malati e meno farmaci». Insomma, il punto sarebbe che il Dsm non lo si usa troppo, ma troppo poco. Specialmente in America dove visite di 15 minuti con tanto di ricetta sono pagate tre volte tanto rispetto a quelle da 45 a orientamento psicoterapeutico, servizio che ormai offrirebbe poco meno del 10% degli psichiatri. Non solo, perché i farmaci possano essere scaricabili, le assicurazioni richiedono il codice diagnostico del Dsm delineando un sistema costruito su misura loro e delle case farmaceutiche.
Non stupisce allora — come rilevato da Lisa Cosgrove, dell'Edmond J. Safra Center for Ethics della Harvard University — che il 69% degli psichiatri alle prese con il Dsm-V avrebbe legami con l'industria. Non è d'accordo però Allen Frances secondo cui il vero conflitto sarebbe di ordine intellettuale, quello di una disciplina troppo compiaciuta nelle sue categorie. «Da tempo sollecito, invano, l'ingresso di un'agenzia esterna e indipendente che supervisioni la redazione del Dsm — conclude —, spero che la pubblicazione del manuale venga rimandata». Una prospettiva che l'Apa al momento esclude. «Le varie proposte sono state viste e riviste molte volte — spiega David Kupfer — sulla base della letteratura, dei risultati delle sperimentazioni sul campo e dei commenti ricevuti dal pubblico. L'obiettivo è quello di trasformare il Dsm in un "documento vivente" dove ogni aggiornamento periodico sarà identificato come Dsm-V.1, V.2 ecc.». Insomma, si pensa già al sequel, perché il Dsm vende milioni di copie e per l'Apa, che ne detiene il copyright, è una grossa fonte di guadagno.
Ma oltre ad essere un'operazione che non prescinde da aspetti commerciali, c'è chi la definisce addirittura «pseudoscientifica». «Il Dsm è l'unico caso in cui una pubblicazione scientifica è decisa per votazione democratica — sostiene Lou Marinoff —. È un testo politico. Basti pensare al fatto che l'omosessualità è stata considerata una malattia mentale fino al 1973, anno in cui è stata rimossa in seguito all'aumentata influenza della lobby gay, non certo in seguito a "evidenze scientifiche". Del resto, l'impatto che l'opinione pubblica ha avuto in questi ultimi mesi non è che una ulteriore conferma. Se il malumore continua, arriveranno altre modifiche».

Corriere La Lettura 7.10.12
Lo scienziato
Perché il 38% degli europei soffre di disturbi psichici
di Claudio Mencacci

qui

Corriere La Lettura 7.10.12
Alla larga dai politici e dai filosofi terapeuti
di Corrado Ocone


«Credo che una delle agende politiche più importanti per il nostro Paese sia quella che riguarda la salute mentale. Siamo una nazione stressata». Il problema di cui il leader laburista Ed Miliband ha parlato di recente al «New Statesman» non riguarda solo la Gran Bretagna, né i nostri tempi. Desta però perplessità il rinnovato interesse della politica per la salute degli individui. Certo, esso è forse legato alla particolare contingenza storica che viviamo, cioè al fatto che ai governi nazionali sono stati sottratti spazi e possibilità di azione. Tuttavia, ci si può chiedere perché mai la politica dovrebbe occuparsi di come è giusto o desiderabile vivere. Non è forse il caso che si limiti a dettare le regole generali della coesistenza, fermandosi davanti alla soglia del «foro privato» dei singoli? Ogni individuo, se non reca danni ad altri, deve essere libero di scegliere la vita che vuole (fosse pure la «vita spericolata» che cantava Vasco Rossi). Una posizione alla Miliband vorrebbe preservare dal conflitto e dall'imperfezione, dimenticando che l'uno e l'altra sono il sale della democrazia. Lo stesso meccanismo, a ben vedere, è in atto nel gustoso pamphlet Stress e libertà di Peter Sloterdijk, in uscita da Raffaello Cortina (pp. 92, 9). Abile come sempre a sfidare il senso comune, il filosofo tesse un elogio della libertà come ascesi, come abbandono della soggettività, spensieratezza. Solo chi riesce, in rari ma intensi momenti, a conquistare questo stato dell'animo, può dirsi veramente libero. Essendo poi le nostre società «stress integrate», la libertà si presenta come un allontanamento da esse, quindi come un processo di individualizzazione, di riconquista del proprio sé. «La libertà la sperimenta — scrive Sloterdijk — colui che scopre una sublime inattività dentro di sé, senza rivolgersi a un'agenzia di mediazione». Agenzie di questo tipo sarebbero le religioni, le filosofie, le ideologie. Ma anche «terapeuti e consulenti». Eppure, la «consulenza filosofica», che ha avuto di recente una certa fortuna, può avere un senso diverso. Come ci dice Moreno Montanari nel libro La filosofia come cura (Mursia, pp. 172, 14), la si può intendere non come una terapia allopatica, cioè contrastiva al pari della medicina tradizionale, ma come una cura omeopatica. Il problema non è sollevarsi dalla «fatica di vivere», cioè dalla consapevolezza della precarietà dell'esistenza, ma assumerla fino in fondo. La filosofia, diceva Croce, non risolve problemi, ma è solo un «soffrire più in alto». A ben vedere, perfino lo stress è un'espressione di libertà. Perciò non va eliminato, ma semplicemente controllato.

Corriere La Lettura 7.10.12
Il vero Hobbit abitava in Indonesia
di Telmo Pievani


I resti di un piccolo essere umano trovati sull'isola di Flores sconvolgono le teorie sull'evoluzione. È un esemplare di una specie estinta dal cranio minuscolo ma capace di cacciare e usare il fuoco. Le sue origini restano misteriose, eppure fino a 12 mila anni fa convisse con i nostri antenati

L'omino è dispettoso, di quelli che escono nottetempo dalla foresta a seminare scompiglio. Ne conosciamo tanti dalle favole di tutto il mondo, ma quella volta sbucò fuori, non in carne ma in ossa sì, da un sito preistorico dell'Estremo Oriente. E ad essere scompaginate furono le nostre conoscenze scientifiche sull'evoluzione umana. Nel 2003 scienziati australiani e indonesiani coordinati da Mike Morwood rinvennero, nella grotta di Liang Bua, sull'isola di Flores in Indonesia, i resti di un individuo bipede, probabilmente di sesso femminile, con caratteristiche eccezionali. Superava di poco il metro di altezza e il suo cervello era estremamente piccolo. Eppure, primo caso del genere, nonostante la capacità cranica così ridotta sembrava possedere una tecnologia avanzata, padroneggiare il fuoco ed essere un ottimo cacciatore. Che ci faceva un essere tanto particolare, e ben adattato, su un'isola sperduta?
A quel tempo alcuni scienziati sostenevano ancora la tesi secondo cui l'evoluzione di Homo sapiens sarebbe avvenuta progressivamente e in parallelo in diverse regioni del globo, e non a partire da un'origine unica, recente e africana. Con il filtro di questa visione «multiregionale», gli strani esemplari di Flores furono interpretati come una popolazione locale di Homo sapiens malati di microcefalia, di cretinismo congenito, o affetti da qualche altra malformazione. Ma le perplessità verso questa ipotesi ad hoc si fecero subito sentire: c'era ben poco della nostra specie, con o senza patologie, nell'aspetto degli antichi abitanti di Liang Bua.
Così il mistero si infittì e da Flores arrivarono altre sorprese. Le dimensioni ridotte e le proporzioni del corpo analoghe a quelle di forme molto arcaiche del genere Homo, seppur rimpicciolite, fecero pensare che si trattasse di una popolazione asiatica, forse di Homo erectus, spintasi fino agli estremi del suo areale e rimasta bloccata sull'isola a causa delle oscillazioni del livello dei mari. Essendo un puzzle inedito di caratteri, gli scopritori ritennero che vi fossero tutti i crismi di particolarità per assegnare a questo unicum evolutivo un nuovo nome di specie. Era il 27 ottobre 2004 e su «Nature» il paleoantropologo Peter Brown, con Morwood e gli altri del gruppo, presentò al mondo una nuova specie umana: Homo floresiensis.
Fu un putiferio. Gli strascichi della dura contesa tra scienziati rivali, con accuse di manipolazione dei reperti e rivendicazioni nazionali, si trascinano ancora oggi. Per un certo periodo un influente paleoantropologo indonesiano, fervente sostenitore dell'ipotesi multiregionale, riuscì persino a sottrarre i fossili e a non farli studiare agli avversari. Ma le caratteristiche morfologiche di questo omino lo resero ben presto assai più interessante delle reciproche ostilità.
Tra il 2007 e il 2009 l'ipotesi della microcefalia venne esclusa da ripetuti studi comparati. Nel frattempo, il modello multiregionale tramontava sotto i colpi delle evidenze molecolari e paleontologiche. L'evoluzione umana appariva sempre più come un fitto mosaico di specie, spesso conviventi nello stesso periodo, con Homo sapiens arrivato buon ultimo dall'Africa. Nel 2009 si scoprì che i nove individui portati alla luce a Liang Bua sono simili solo in parte a «Homo erectus nani»: posseggono infatti alcuni caratteri così primitivi (soprattutto nella forma del cranio e nei grandi piedi) da far supporre che possa trattarsi di discendenti di una forma africana più remota e già di piccole dimensioni. È possibile che siano discendenti della prima uscita dall'Africa di forme arcaiche del genere Homo, cominciata poco dopo i due milioni di anni fa.
Alcuni utensili, ridatati con precisione nel 2010, fecero risalire il primo popolamento di Flores, nel vicino sito di Mata Menge, a circa 900 mila anni fa. Ci sarebbe stato quindi il tempo sufficiente perché una forma umana antica — forse lo stesso antenato degli Homo erectus che sopravvissero sull'isola di Giava fino a tempi relativamente recenti nella valle del fiume Solo — sviluppasse un adattamento tipico di specie che si trovano a vivere sulle isole: il «nanismo insulare». Con scarsità di risorse e in assenza di predatori, il processo selettivo favorisce la riduzione della corporatura perché in tal modo si diminuisce il fabbisogno energetico e si accelerano le generazioni. Viceversa, come nel caso dell'enorme roditore che veniva cacciato proprio dall'Homo floresiensis, se si è prede talvolta conviene ingigantirsi. Nella grotta di Liang Bua è stata scoperta nel 2011 anche una cicogna alta un metro e 82 cm.
Un'isola del lontano Oriente, piccoli hobbit dai lunghi piedi, topi mostruosi, cicogne giganti: sembra una storia alla Jonathan Swift e invece è tutto scritto nei fossili. Che sia arrivato già piccolo o si sia rimpicciolito in loco, Homo floresiensis si è oggi conquistato un posto d'onore come il più curioso rappresentante della diversità del genere Homo. Ma i dispetti non sono finiti qui. Nonostante la provenienza antica, le datazioni dicono che su Flores questa straordinaria specie pigmea abitò fino a tempi recentissimi: addirittura fino a circa 12 mila anni fa. È una scoperta sorprendente. In pratica questi hobbit insulari, in miniatura come gli stegodonti nani di cui si cibavano o come gli elefanti nani della Sicilia, sono sopravvissuti fino a una manciata di millenni prima dell'invenzione dell'agricoltura e della scrittura da parte di Homo sapiens.
Purtroppo, a causa dell'umidità e dell'acidità del suolo, non è stato finora possibile estrarre il Dna antico dalle loro ossa. Non si riesce a studiare la sequenza del loro genoma, come invece è possibile per il nostro cugino più stretto, l'uomo di Neanderthal. Non sappiamo perché gli hobbit di Flores si siano estinti (forse un'eruzione vulcanica?) e non vi sono testimonianze dirette di incontri con Homo sapiens. Tuttavia, considerando che i primi rappresentanti della nostra specie sono giunti in Australia ben prima di 12 mila anni fa e che la catena di isole della Sonda era un passaggio pressoché obbligato insieme a quello di Celebes e delle Molucche, è probabile che sull'isola di Flores vi siano stati incontri ravvicinati tra queste due specie, come anche tra Homo sapiens e Neanderthal in Medio Oriente e in Europa.
Questo caso mostra come i motori fondamentali dell'evoluzione abbiano agito sulle specie degli ominini come su tutte le altre forme viventi. Spostamento sul territorio e isolamento geografico hanno prodotto convivenze e diversificazioni di specie, fino a tempi molto recenti. La storia del piccolo hobbit indonesiano è ancora in gran parte da scrivere. Dobbiamo abituarci all'idea che non più tardi di 50-40 mila anni fa, tra Africa ed Eurasia, fossero in circolazione almeno quattro forme umane (noi, i Neanderthal, Homo floresiensis nella sua piccola enclave protetta dal mare, e un'altra specie asiatica trovata sui Monti Altai e non ancora battezzata), ciascuna intelligente a modo suo. Poi siamo rimasti gli unici, per ragioni forse legate alla nostra loquace invasività. È importante però sapere che nel passato recente ci sono stati molti altri modi di essere umani, altri ramoscelli nell'intricato albero della discendenza umana. Il messaggio di Liang Bua, al quale non volevamo quasi credere, è che non eravamo soli.

La Stampa 7.10.12
Il Museo Lombroso non vuole perdere la testa
Condannato a restituire il cranio di un ladruncolo calabrese, farà ricorso: per legge il suo patrimonio è inalienabile
di Piero Bianucci


C’ è un cranio conteso: l’Università di Torino, che lo conserva al Museo di antropologia criminale «Cesare Lombroso», si opporrà alla sentenza del Tribunale di Lamezia Terme che ne ha disposto la restituzione al Comune di Motta Santa Lucia, 800 abitanti sull’Appennino calabrese, provincia di Catanzaro. Il cranio è quello di Giuseppe Villella, piccolo malfattore del quale non rimarrebbe memoria se il caso non lo avesse fatto entrare nella Storia della scienza.
Capitò che nel 1864 a eseguire l’autopsia sul cadavere di Villella fu chiamato per l’appunto Lombroso, veronese di famiglia ebraica, torinese per carriera accademica, fondatore in Italia dell’antropologia criminale. Lombroso ravvisò nel cranio del brigante una anomalia che interpretò come un marchio della naturale predisposizione alla criminalità. Di questa anomalia, una fossetta riempita da un lobo del cervelletto, lo psichiatra veronese fece poi il cardine della sua teoria sull’origine «atavica» della delinquenza (non dimentichiamo che pochi anni prima, nel 1856, era stato scoperto l’uomo di Neandertal). Oggi sappiamo che la teoria dell’atavismo è del tutto sbagliata, ma per oltre mezzo secolo ebbe una grande fortuna. Dal punto di vista storico, il cranio di Villella è tuttora la pietra angolare dell’antropologia criminale positivista.
A rivendicare quelle ossa è il Movimento Neoborbonico, che ha tra i suoi leader Domenico Scilipoti, deputato Idv passato a Berlusconi e fondatore del Movimento di responsabilità nazionale. Dopo aver organizzato a Torino alcune manifestazioni di protesta, il Movimento Neoborbonico ha spinto il Comune di Motta Santa Lucia a intentare causa al Museo per riavere i teschi di Villella e di altri detenuti collezionati dallo psichiatra veronese ed ereditati dall’Università di Torino insieme con una grande quantità di altri reperti lombrosiani. Gustavo Denise, giudice del Tribunale di Lamezia Terme, ha sentenziato a favore del Comune calabrese: il museo dovrebbe restituire i teschi che conserva come documento della «scienza positiva», e quindi anche del metodo scientifico, che ha talvolta nell’errore un passaggio obbligato verso la conoscenza.
Ma il giudice ha respinto questi argomenti sostenuti dall’Università di Torino. Poiché l’errore scientifico è oggi ben noto (e il Museo ovviamente ne ha fatto uno dei suoi messaggi), non restituire il cranio di Villella sarebbe un po’ come trattenere in carcere un condannato del quale si è provata l’innocenza. In mancanza di eredi in vita, il museo torinese dovrebbe quindi consegnare il cranio al Comune di residenza, e qui gli si darebbe sepoltura.
Il dilemma giuridico è interessante. La sentenza, infatti, contrasta con una legge che considera inalienabile il patrimonio dei musei universitari. Insomma, ci sarà lavoro per gli avvocati.
Lombroso eseguì l’autopsia di Giuseppe Villella a Pavia. Dalla documentazione risulta che si trattava di un uomo di 69 anni alto un metro e 70, condannato tre volte per furto, la terza volta a sette anni di reclusione per furto e per aver incendiato un mulino. Al momento dell’autopsia Lombroso non sembrò attribuire importanza alle sue osservazioni, tanto che l’infermiere, Crispino Avetti, conservò solo il cranio e di Villella non furono eseguiti né il ritratto né un calco del volto, come invece avvenne per altri cadaveri studiati da Lombroso in quel periodo.
Lombroso ebbe la «rivelazione» cruciale per la sua teoria del «delinquente nato» soltanto sei anni dopo. Fu allora che attrasse la sua attenzione la fossetta occipitale mediana di quel cranio, un poco più grande della norma. Poiché questa caratteristica compare nei lemuri e in altri mammiferi, concluse che in Villella erano riemersi caratteri dell’uomo primitivo, causa prima del suo comportamento criminale. Ma la ricostruzione della scoperta è ancora più tardiva. Risale al 1906, tre anni prima della morte dello scienziato. «In una grigia e fredda mattina del dicembre 1870 - scrisse allora Lombroso - analizzando il cranio del brigante Villella mi apparve tutto ad un tratto, come una larga pianura sotto un infiammato orizzonte, risolto il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre così ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori».
Paradossalmente l’attribuzione a una caratteristica scheletrica di un comportamento morale, nel quadro deterministico del positivismo, scagionava il brigante. E mentre un museo universitario è chiamato a restituire un suo reperto storico, a Torino una mostra commerciale espone cadaveri di cinesi trattati in modo iper-realistico. Ma questa è un’altra storia.

Corriere La Lettura 7.10.12
A Francoforte gli italiani che crescono
di Alessandro Beretta


Circa 250 editori, per raccontare l'Italia all'estero. Una bandiera composita che testimonia la nostra presenza alla 64ª Fiera internazionale del libro di Francoforte che da mercoledì 10 a domenica 14 ottobre coinvolgerà l'editoria mondiale (120 Paesi, 7.300 espositori). L'Aie (Associazione italiana editori) mercoledì presenterà alla Buchmesse l'atteso Rapporto sullo stato dell'editoria in Italia cui va affiancato un dato interessante: la vendita di diritti italiani all'estero cresce del 16 per cento all'anno. Per andare a scoprire chi crea quella percentuale, bisogna indagare nei listini dei grandi gruppi editoriali e degli agenti che ogni anno portano in Fiera nuove proposte, con autori già affermati e esordi su cui scommettere. Rizzoli, che punta sui nomi noti al mercato internazionale (da Corrado Augias a Dacia Maraini), ha grandi aspettative sul nuovo libro di Benedetto XVI, di cui detiene i diritti per le vendite mondiali, dedicato alla figura di Gesù nei racconti evangelici dell'infanzia. Per gli esordi, invece, punta sul thriller storico «milanese» Il tempio della luce di Daniela Piazza e sulla saga di ambientazione siciliana Capo Scirocco di Emanuela E. Abbadessa. Feltrinelli ha tra i suoi autori due stranieri di cui detiene i diritti internazionali: il direttore d'orchestra Daniel Barenboim con i saggi La musica è un tutto (in arrivo a novembre) e il primo romanzo per ragazzi di Jonathan Coe Lo specchio dei desideri. Spesso, la Buchmesse è l'occasione per lanciare all'estero libri che ancora devono apparire nei nostri scaffali: è il caso, sempre per Feltrinelli, del nuovo romanzo di Simonetta Agnello Hornby Il veleno dell'oleandro (previsto per inizio 2013). Un'autrice già nota all'estero che con il ritorno alle ambientazioni siciliane sta suscitando nuovo interesse. Mondadori arriva forte dei premi raccolti in Italia con Alessandro Piperno, Premio Strega per Inseparabili, e con Carmine Abate, Premio Campiello per la saga familiare de La collina del vento. Non mancano aspettative, inoltre, per Il corpo umano, nuovo romanzo di Paolo Giordano (in arrivo martedì 12 ottobre) e per L'acustica perfetta di Irene Bignardi (fine ottobre). Il Gruppo Gems punta a incrementare le traduzioni di Fai bei sogni di Massimo Gramellini, uscito per Longanesi e già venduto in 13 Paesi, ma non rinuncia a un esordio originale come Il tempo tagliato (Longanesi) di Silvia Longo, emerso dal concorso letterario «IoScrittore», mentre per Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) di Emanuele Trevi, oltre alla traduzione per la francese Actes Sud, si segnala la presentazione del libro in una sede prestigiosa come il Goethe-Institut di Francoforte. Bompiani punta sulle novità dei suoi autori forti: due titoli di Umberto Eco, l'illustrato Storia delle terre e dei luoghi leggendari e gli Scritti sul pensiero medievale, il nuovo romanzo di Andrea De Carlo Villa Metaphora (in arrivo a novembre) e Le nostre vite senza ieri del Premio Strega 2011 Edoardo Nesi. Einaudi, oltre ad alcuni autori che già hanno un loro seguito di traduzioni, da Michela Murgia a Giancarlo De Cataldo e Marcello Fois, al nuovo Nicolai Lilin di Storie sulla pelle (per novembre), punta su esordi inconsueti come Atletico Minaccia Football Club di Marco Marsullo (in arrivo nei prossimi mesi), ambientato tra il mondo del calcio e la provincia napoletana, e sull'amnesia del protagonista di La conservazione metodica del dolore di Ivano Porpora. Marsilio, forte del successo internazionale dell'esordio di Roberto Costantini Tu sei il male, arriva in Fiera con il secondo titolo della trilogia, Alle radici del male (fine ottobre). In parallelo all'attività degli editori non va dimenticata la presenza degli agenti: da Marco Vigevani — con l'esordio di Daniele Bresciani Ti volevo dire (Rizzoli nel 2013) e con un curioso libro di Andrea Bajani dedicato al suo rapporto con Antonio Tabucchi, Mi riconosci (Feltrinelli, primavera 2013) — a Vicki Satlow che ha con sé il nuovo memoir di Susanna Tamaro (Bompiani, inizio 2013) e un romanzo erotico di Evie Blake Valentina nella camera oscura che in parallelo al rilancio del fumetto di Guido Crepax ha suscitato interesse in otto Paesi. Assente Roberto Santachiara (ma presenti i suoi collaboratori), Piergiorgio Nicolazzini non trascura neppure i giorni che precedono la Fiera con il nuovo progetto di Giorgio Faletti e con la saga storica Colosseum di Simone Sarasso, già venduta in Spagna.

Repubblica 7.10.12
L’altro apartheid che mette a rischio il Sudafrica
Neri contro più neri
di Daniele Mastrogiacomo


JOHANNESBURG Marikana come Soweto. La violenza della polizia contro chi sciopera, scende in piazza, rivendica diritti essenziali, inalienabili. Salari più alti, migliori condizioni di vita. Una casa degna di questo nome: quattro mura con un tetto, elettricità, acqua, un sistema fognario. Non è così. In Sudafrica la realtà non cambia, resta immutata negli anni. Con una differenza che stride e fa pensare. Il progetto del paese dei mille colori è fallito? La fine dell’apartheid è stata un’illusione? Nel 1976 furono gli studenti neri della storica township a cadere sotto i colpi degli agenti bianchi. Nel 2012 sono i minatori neri a essere falciati dai poliziotti di colore. Nadine Gordimer, la grande scrittrice simbolo della lotta antirazzista, premio Nobel per la letteratura nel 1991, riesce ancora a inorridirsi nonostante i suoi ottantanove anni: «Non avrei mai immaginato di assistere a un simile massacro. Di vedere neri che uccidono neri. Poliziotti contro operai».
Ci volevano trentaquattro morti, saliti a quarantacinque in cinque settimane di sciopero lungo la “cintura del platino”, nella regione di Rusternburg, nord ovest del paese, per scuotere le coscienze e riesumare il fantasma dell’apartheid. Lo gridano i ventisettemila minatori mentre invadono il grande stadio di Marikana. Le mani in alto in segno di tregua. I bastoni, le lance, i machete, le zappe agitate in aria come simboli di battaglia. Ne parlano i delegati della Cosatu, la Federazione sindacale sudafricana legata all’African national congress (Anc), riuniti nel più drammatico congresso della storia a Johannesburg. «Quei morti», dice il presidente Jacob Zuma con enfasi studiata, «ricordano a molti di noi scene che credevamo definitivamente seppellite ma che la storia ci ha restituito come uno schiaffo». Perfino i dirigenti della Lonmin, la multinazionale anglo-americana terza produttrice di platino al mondo, simbolo di una battaglia che ha scosso il Sudafrica, parlano di «shock», di «sveglia che ci ha posto davanti a situazioni drammatiche».
Il dramma sono migliaia di baracche fatte con assi di legno, cartoni e lamiere. Sorgono alla rinfusa, in mezzo agli sterpi, ciuffi di alberi, colline artificiali create dalla terra di rimessa delle miniere. Punteggiano, con la loro dignitosa povertà, questa immensa pianura che si perde all’infinito. Dovevano costituire gli avamposti dei futuri quartieri che lo Stato e le multinazionali delle miniere si erano impegnati a costruire. Piccole città che avrebbero ospitato le migliaia di lavoratori giunti da ogni angolo del Sudafrica per strappare al sottosuolo i minerali di cui l’industria del benessere, del lusso, della tecnologia ha bisogno.
Impegni disattesi, promesse rinviate e poi tradite. Dalla classe nera al potere. Non dai dirigenti politici di un regime razzista che quasi un secolo fa sull’apartheid fondò la sua ascesa e la sua tirannia, fino a trasformarla in una dottrina giuridica che regolò la più odiosa discriminazione tra la popolazione a seconda del colore della pelle. Neri e
coloured (indiani, meticci) costretti per legge a usare bus diversi dai bianchi, a frequentare scuole separate, a vivere in quartieri isolati, a sostare su marciapiedi e incroci a loro riservati. Per non parlare del lavoro, dei negozi, degli ospedali, dei matrimoni, delle aspirazioni, degli stessi sogni. Bianchi e neri divisi su tutto. Per evitare contaminazioni, miscugli, diritti, pretese. La purezza della razza che non andava persa, inquinata, svilita. Le coscienze di alcuni leader illuminati, l’indignazione internazionale, l’isolamento e il boicottaggio commerciale fecero leva su un risveglio collettivo che riuscì a sconfiggere quello che in afrikaans, la lingua parlata dai bianchi sudafricani, significa letteralmente “separazione”. Non fu una passeggiata: la scelta della lotta armata da parte dell’Anc, il partito fondato da Nelson Mandela, con la nascita di un’ala militare, la Umkhonto we Sizwe, naugurò la stagione degli attentati e delle rivolte armate. Il lungo cammino verso la libertà, descritto da Madiba nella sua autobiografia, fu segnato dal sangue e dai morti. La maggioranza nera si fece coraggio e si ribellò. Pagò un altissimo prezzo. Ma solo la saggezza e l’acume politico di due uomini diversi e al tempo stesso simili riuscirono a trasformare il Sudafrica in una moderna democrazia. Evitarono un massacro. Il trapasso, una vera rivoluzione, fu incruento. Impensabile in quegli anni e in pieno spirito razzista. Frederick de Klerk, l’ultimo presidente dell’apartheid, capì che con la pace (e la rinuncia al potere dei bianchi) avrebbe conquistato un posto nei libri di storia. Glielo suggerì sua moglie: la grande donna che c’è sempre dietro un grande uomo. Una scelta vincente. Incontrò Nelson Mandela, trattò l’accordo, lo liberò dal carcere. Insieme suggellarono una svolta che ha resistito anni e ha trasformato il paese in un gigante economico del pianeta e nel simbolo del riscatto. A loro fu assegnato il Premio Nobel per la pace nel 1994.
Il potere, chiosò a suo tempo Giulio Andreotti, logora chi non c’è l’ha. Ha logorato, invece, la classe dirigente sudafricana: la leadership dell’Anc, padrona del campo dal 1994 quando stravinse le prime elezioni libere. Lo sviluppo tecnologico, il mondo degli affari, la presenza di mille minerali che rendono questa terra ricca e appetibile, hanno corroso la classe media nera emersa dalle ceneri dell’apartheid. Oggi sono i nuovi ricchi. Il business ha fatto dimenticare le grandi sacche di povertà che resistono e si amplificano. Le fortune non sono state distribuite, il neo liberismo è stata un’illusione che è fallita anche qui. Le undici tribù del Sudafrica hanno fatto valere il loro peso politico. Che si è tradotto in favori, nepotismi; fino alla corruzione, alle truffe, al peculato.
Oggi l’apartheid torna sotto spoglie diverse: non più neri contro bianchi, ma ricchi contro poveri e poveri contro poverissimi. Ci sono almeno due milioni di immigrati dai paesi vicini, come lo Zimbabwe, la Somalia, il Mozambico, che affollano le nuove township. Sono gli ultimi nella scala sociale del moderno Sudafrica. Ricattati, disposti a salari di fame, diventano il bersaglio della rabbia di chi è rimasto ai margini del benessere e dello sviluppo. Popolano i nuovi insediamenti abusivi attorno alle miniere. Hanno subito gli attacchi dei minatori in sciopero perché crumiri: volevano andare a lavorare per non essere rimandati negli Stati da cui erano fuggiti. Erano reduci dalle violenze nella furibonda caccia all’uomo che vide uccisi a bastonate, impiccati agli alberi, bruciati vivi oltre trecento clandestini. Neri contro neri. Poveri contro poverissimi. I ricchi, bianchi e neri, osservano distratti. Chiusi nelle loro isole protette da guardie armate, fili spinati e cavi elettrici. Fuori ci si scanna per sopravvivere. La violenza è stata una costante nella storia sudafricana. Ci si abitua, ci convivi. Riesce perfino a diminuire (6,5 per cento), come declamano le statistiche contro la criminalità. L’apartheid è tornato. Forse non è mai scomparso. Si è trasformato nell’apartheid dei dannati.