martedì 3 luglio 2012

l’Unità 3.7.12
I sindacati preparano lo sciopero generale
Manifestazione ieri a Napoli per il lavoro
Muro sui tagli alla spesa: quinta manovra contro i pubblici
di Massimo Franchi


Dal sole e dalla folla di Napoli al freddo e al rigore di Palazzo Chigi. I sindacati ieri hanno fatto il pieno nella manifestazione per denunciare la crisi in Campania con 30mila persone in corteo da piazza Mancini a piazza Matteotti, con striscioni e bandiere di tutte le sigle sindacali. Un manifesto listato a lutto con la scritta «Qui si è spenta la cara esistenza del Lavoratore», insieme alla bara con un lavoratore dentro l'emblema della manifestazione, dallo slogan “Lavoro, equità, legalità”. Dal palco, a parte qualche isolata contestazione, con una voce sola è arrivato un ultimatum compatto al governo. Come ha esplicitato in mattinata il leader Cisl Raffaele Bonanni, il messaggio è: «Se si faranno tagli tanto per farli, si faranno solo più guai. A quel punto, faremo iniziative in tutta Italia: faremo quello che serve, se occorrerà uno sciopero generale lo faremo, ma ci sono mille modi per protestare». Per la Cgil a sostituire Susanna Camusso, ancora convalescente ma oggi presente a palazzo Chigi, c’era il segretario confederale Vincenzo Scudiere: «Basta con una politica fatta di soli tagli e di cieco rigorismo, il governo deve invertire la rotta e puntare sullo sviluppo e sulla crescita altrimenti si troverà sempre i sindacati contro», puntando il dito contro «tutti coloro che pensano di isolare il Mezzogiorno per far ripartire il Paese». Con la disoccupazione al 28 per cento, la Regione si trova in una situazione molto peggiore rispetto al resto d’Italia, per il leader Luigi Angeletti «o questa politica cambia nella direzione che diciamo noi o continueremo a manifestare fino a cambiare questo governo», mentre per il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella «il governo non può fare finta di niente e dare risposte ai lavoratori di Irisbus, Fincantieri, Firema».
OGGI UNITI SU SPENDING REVIEW
Questa mattina alle 9 invece Cgil, Cisl, Uil e Ugl varcheranno il portone di Palazzo Chigi per incontrare il governo. Visti i precedenti, le aspettative dei sindacati sono molto basse. Come per la manovra SalvaItalia, come per la riforma delle pensioni, come per gli “esodati” e in gran parte per la riforma del lavoro, il governo si limiterà ad anticipare a Bonanni, Camusso, Angeletti e Centrella le decisioni già prese, senza alcuna trattativa. Proprio per questo ai sindacati Monti e gli altri ministri dedicheranno due sole ore, avendo già previsto per le 11 il seguente incontro con i rappresentanti di Comuni e Regioni. Ma la risposta dei convocati sarà la stessa. Gli scorsi 3 e 10 maggio infatti i sindacati degli statali e gli enti locali sottoscrissero con il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi un accordo proprio sugli statali. E su quello faranno leva sindacati ed enti locali, chiedendo al governo di rispettarlo e aspettandosi dallo stesso ministro una sponda importante. Quell’accordo infatti non arrivò mai in Consiglio dei ministri proprio perché andava a cozzare con la scure che Monti, Bondi e Giavazzi stavano preparando alla categoria. Il fatto che Patroni Griffi (come i suoi colleghi Balduzzi e Cancellieri) stia subendo la “spending review” porta i sindacati a chiamarlo in causa con qualche concreta speranza di trovare in lui una sponda importante.
L’altro punto fermo per tutti i sindacati è la contestazione totale dello stesso termine “spending review”. Per Cgil-Cisl-Uil e Ugl infatti quella che il governo propone per il settore statate e per la sanità non è una revisione di spesa, nemmeno una qualificazione della spesa. Si tratta, spiegano all’unisono, di «tagli lineari, di riduzioni di spesa belle e buone, tanto che sono espresse con percentuali, allo stesso modo dei tagli di Tremonti».
Tra i più criticati nella compagine ministeriale c’è certamente il viceministro Vittorio Grilli. Il suo affondo sul fatto che ogni amministrazione debba prendere a modello quanto fatto al ministrero dell’Economia viene rispedita al mittente, facendo notare come i tagli attuati in via XX settembre sulle dotazioni organiche dei dirigenti di ruolo, paradossalmente però rendono possibili le assunzioni (in via di definizione) di altri dirigenti per chiamata nominale. In questo modo, secondo i sindacati,  si mettono in mobilità lavoratori e si assume altro personale.
Il taglio lineare del 5 per cento sui lavoratori, dato da tutti abbastanza per scontato, poi avrebbe effetti nefasti soprattutto negli enti pubblici non economici: Inail e (super) Inps soprattutto. Se la norma Brunetta che prevede la messa in mobilità di dipendenti statali per «motivi finanziari» non era ancora stata utilizzata, la stessa norma prevede il taglio sulle dotazioni di organico, senza tener conto del blocco del turn over già effettuato da anni nel settore. Ma la stessa norma non vale per gli enti pubblici non economici, cosa che mette a rischio un numero altissimo di lavoratori, a partire dai 700 già considerati esuberi all’Inps.
Sugli statali, specie la Cgil, fa poi notare come la spending review sarà la «quinta manovra contro il pubblico impiego», considerando le tante fatte dal governo Berlusconi. Un modo per sottolineare come a pagare saranno, ancora una volta, i soliti noti.

La Stampa 3.7.12
Intervista
“Il rigore non basta, sì alla patrimoniale”
Susanna Camusso (Cgil): “I lavoratori hanno già dato, adesso paghino altri Serve un piano nazionale di rilancio, altrimenti non si va da nessuna parte”
di Roberto Giovannini


ROMA I lavoratori hanno già pagato abbastanza. Al governo, nell’incontro sulla spending review, diremo che bisogna cercare risorse altrove. I lavoratori pubblici hanno dato, e molto, molto di più dei dirigenti. Il conto va fatto pagare a qualcun altro. Adesso la vera priorità è creare lavoro». Parla Susanna Camusso, leader della Cgil. Segretario, partiamo dal dato Istat sulla disoccupazione giovanile: il 36,2%, mentre quella complessiva sembra aver frenato.
«Il tasso di disoccupazione questo mese si è stabilizzato, ma poco cambia: è un dato drammatico. E soprattutto emerge che per i giovani non ci sono opportunità di impiego, con situazioni ancora più difficili nel Mezzogiorno. Per questo diciamo che si deve ripartire da un piano del lavoro mirato sui giovani, senza il quale il paese non uscirà da questa crisi».
Un piano del lavoro va finanziato, però.
«Noi stiamo lavorando a una proposta organica di sviluppo e di crescita. Certo servono risorse, ma non si può insistere sulla impossibile logica del rigore e del solo controllo del debito. Così si amplifica la recessione ed evidentemente bisogna cambiare politica. Come? Con una vera redistribuzione fiscale attraverso una patrimoniale, che non è una bestemmia; non riducendo il perimetro dello Stato, ma valorizzando beni (non le aziende pubbliche e le municipalizzate) alienabili; mettendo in moto investimenti in grandi imprese; guardando verso il futuro con le reti digitali, l’innovazione, la chimica verde».
Le recenti decisioni del vertice Ue di Bruxelles aiutano ?
«Sono il segno di un cambiamento, la presa d’atto che ci vuole un’Europa politica in grado di contrastare la speculazione. Ovviamente bisogna vedere cosa succederà all’Ecofin del 9 luglio. Queste decisioni sono merito della riacquisita credibilità dell’Italia, ma soprattutto della vittoria di Hollande in Francia. Sono strumenti utili, anche se incompleti, visto che ancora non si è aperto agli eurobond. E c’è un problema tutto italiano: le politiche di rigore non bastano. Bisogna far emergere risorse sommerse, c’è una distribuzione del reddito iniqua che deprime i consumi e riduce la produzione. Se una parte fondamentale del paese, quella che vive di lavoro e pensioni, non ce la fa, il paese non ha speranza di crescita».
E ora arriva la spending review. Avete già lanciato l’altolà.
«La spending review in sé è utile; l’altolà è per le ricette che abbiamo sentito annunciare, che ci sembrano solo una somma di tagli lineari. Bisogna riformare la pubblica amministrazione, eliminare i doppioni? Siamo d’accordo. Bisogna intervenire sugli organici? Cominciamo a tagliare le consulenze, che valgono 1,5 miliardi, e non i ticket restaurant, che ne valgono 10 milioni. Ci sono grandi divari nelle retribuzioni? Paghiamo gli stipendi oltre una certa soglia in titoli pubblici. Eliminiamo le 3000 società che servono solo alla politica. Invece, si vuol ripetere l’errore della riforma delle pensioni: si taglia sui lavoratori pubblici per fare immediatamente cassa, generando altra iniquità e recessione».
Siete contrari alla mobilità in pensione dei pubblici dipendenti?
«Se serve solo per ottenere un certo risparmio - magari per poi sostituire i lavoratori con consulenti - se si vuole eliminare il personale degli appalti creando altra disoccupazione e incertezza, sarebbe incomprensibile. Avevamo fatto un accordo con il ministro Patroni Griffi, che apriva la strada a un confronto vero anche sulle piante organiche: che fine ha fatto? »
Si parla di deroghe alla riforma previdenziale, dunque.
«Vogliono creare altre divisioni tra pubblico e privato, e all’interno dei dipendenti pubblici, favorendo i dirigenti? La riforma previdenziale così com’è non regge, pian piano se ne accorge anche il governo. Non facciamo nuovi errori e nuove ingiustizie, non creiamo privilegiati e penalizzati con deroghe grandi e piccole. Qualcuno ha detto: “torniamo alle quote previdenziali”. Potrebbe essere un’idea interessante».
Ma i risparmi della spending review servono per evitare gli aumenti dell’Iva…
«Si dà per scontato che l’unico modo per fare cassa in Italia è prendersela con la massa del lavoro dipendente. E ogni volta, guardando alla distribuzione del reddito, si vede che c’è qualcun’altro che si arricchisce. Venti anni fa l’Irpef aveva aliquote dal 10 al 72%, adesso dal 23 al 43%».
E dal confronto con il governo cosa vi aspettate?
«Che si apra una discussione. Che si possano fare proposte di riforma della pubblica amministrazione. Che si lasci fuori istruzione e sanità. Che si mettano da parte i tagli lineari, sia pure con altro nome. Non nascondo il timore che il governo voglia ancora comunicarci decisioni già prese, e decisioni sbagliate. Se così fosse non potremmo che decidere come reagire».

Corriere 3.7.12
Disoccupazione giovanile, mai così alta
I senza lavoro nella fascia 15-24 anni salgono al 36,2%In leggero calo il dato generale: 10,1%
di Melania Di Giacomo


ROMA — Il numero degli occupati rimane stabile, il tasso di disoccupazione segna una lievissima flessione statistica pure restando sopra il 10%, ma tra i dati che l'Istat ha diffuso ieri il fenomeno che più allarma è il lavoro dei giovani sempre più in caduta libera. La soglia di uno su tre in cerca di occupazione è da tempo superata e a maggio — rileva l'Istituto — il tasso di disoccupazione tra quelli che hanno tra i 15 e i 24 anni e sono usciti dal circuito scolastico galoppa al 36,2% (dato provvisorio), in aumento di quasi un punto percentuale rispetto ad aprile: il tasso più alto mai rilevato.
Nel resto della popolazione l'occupazione, si diceva, è sostanzialmente stabile: rispetto a maggio dello scorso anno gli occupati sono cresciuti dello 0,4%, e anche il tasso di disoccupazione che in un anno è aumentato di quasi due punti, sfondando ad aprile la soglia record dal 2004 (da quando cioè l'Istat lo misura su base mensile), si tiene stabile al 10,1% (con una flessione di 0,1 punti). Il che vuol dire quasi 2,6 milioni di disoccupati. Con queste cifre è una magra consolazione che secondo i dati stiamo un po' meglio che altrove. Nell'area euro la disoccupazione continua ad aumentare. Sono 17 milioni 561 mila i senza lavoro, e il tasso di disoccupazione a maggio ha raggiunto l'11,1%, un nuovo massimo storico. Le differenze dell'area valutaria, dove la Germania pesa con un 5,6%, la Spagna con il 24,6%, e la Grecia con 21,9%, manco a dirlo sono enormi e in espansione. Mentre in media per i giovani va un po' meglio nel resto d'Europa: il tasso di disoccupazione under 25 è del 22,7%. Con una classifica negativa ancora capeggiata da Spagna e Grecia (oltre il 50%).
Oltre il 36% di disoccupazione giovanile «non è accettabile», per il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, secondo la quale questo tema è fra quelli affrontati con la riforma appena diventata legge, che «si propone di rendere il mercato del lavoro inclusivo e dinamico». «Bisogna mettere in campo — ha aggiunto il ministro — tutte le energie disponibili». Di diverso parere il Pd, con Massimo D'Alema che dice: «Il dato giovanile è veramente allarmante. Un'intera generazione rischia di essere spinta ai margini del lavoro», e sollecita quindi il governo Monti «a fare anche più di quello che sta facendo». Stesso allarme dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che chiede crescita e sviluppo perché solo così «ritroveremo occupazione». La Cgil insiste su «un cambio urgente della rotta per quanto riguarda le scelte di politica economica». L'occupazione è un problema di «stringente attualità» anche per la Chiesa, per questo Benedetto XVI invita a pregare affinché «tutti possano avere un lavoro e svolgerlo in condizioni di stabilità e di sicurezza».

l’Unità 3.7.12
Bersani: non voglio rifare il vecchio centrosinistra
Il leader Pd: «Non ripetiamo gli errori del passato, l’alleanza deve essere di governo»
Sul premier: «È una risorsa, non va arruolato nella coalizione»
di Simone Collini

Bersani dice che vuole un centrosinistra diverso da «quello di una volta» e che non vuole «arruolare» Monti. Due precisazioni, una per rispondere a chi (Di Pietro in primis) grida all’«inciucio» con Casini e una per porre un freno a chi (dentro e fuori il suo partito) parla di un presidente del Consiglio connotato politicamente.
La discussione sulle alleanze non è argomento che il leader Pd vuole tenere in primo piano, almeno quanto non voglia parlare adesso di primarie: «Abbiamo detto che le faremo, non che si aprono adesso, perché altrimenti saremmo da ricovero, chiamerebbero il 118». Adesso per Bersani si deve discutere dei «problemi dell’Italia» ed è partendo da qui che deve aprirsi anche il confronto sull’alleanza che si candida a governare nella prossima legislatura. Per questo liquida con poche battute chi lo avvicina al teatro Goldoni di Livorno, dove si svolge una conferenza programmatica del partito, mostrandogli le ultime dichiarazioni di Di Pietro sulle «alleanze innaturali» a cui starebbe lavorando il Pd: «Io non sto facendo inciuci con nessuno, io voglio partire da un centrosinistra, ma non da un centrosinistra di una volta, voglio partire da un centrosinistra di governo, dove non esistono teorie a scavalco, o di proprietà transitive per cui se ci sta uno deve starci anche l’altro finché si arriva a Grillo. No, perché c’è da governarlo questo Paese».
NO A OGNI TENDENZA POPULISTA
Bersani sta lavorando a una prima bozza della «carta di intenti» che dovrà servire da base programmatica e valoriale del nuovo centrosinistra. Si tratta di un testo breve, nella forma di decalogo, che poi verrà integrato dopo una serie di incontri con personalità del mondo della cultura, del lavoro, dell’associazionismo, e che dopo l’estate verrà ulteriormente elaborato insieme alle altre forze che intendono far parte dell’alleanza progressista. Ci sarà il no a ogni «tendenza populista», oltre al rispetto di un vincolo di maggioranza in Parlamento, e se un dialogo con Vendola è ritenuto possibile, con Di Pietro il rapporto è sempre più complicato.
Non ci sono solo gli attacchi al Quirinale e allo stesso Pd a non andar giù ai Democratici («noi mai abbiamo avuto una parola men che rispettosa e abbiamo preso insulti tutti i giorni si è sfogato Bersani pensiamo di metterci insieme a gente che ci insulta? Non esiste»), o il continuo flirtare con Grillo. C’è anche il veto messo dal leader Idv nei confronti di Casini «carnefice del centrosinistra» (come ha detto nell’intervista a Left), in questo differenziandosi anche da Vendola, che pur chiedendo un confronto programmatico proprio come Di Pietro dice di non avere «pregiudiziali verso un allargamento».
Per Bersani la prossima legislatura dovrà ancora fare i conti con i tanti problemi dell’Italia ed avviare una fase costituente, e questo potrà essere possibile soltanto se a guidare i processi sarà un’alleanza «di tutte quelle forze democratiche, moderate, costituzionali ed europeiste che possono dare una mano a sconfiggere il populismo e le derive di destra che si stanno muovendo in Europa». L’appello è a Vendola, a Di Pietro («dicano se anche per loro questo è il punto o no perché da qui non si prescinde», manda a dire il segretario Pd) e a Casini.
Con il leader dell’Udc il dialogo continua. E il fatto che dopo il successo del vertice di Bruxelles Casini si sia detto pronto a lavorare insieme a un governo guidato tanto da Monti quanto da Bersani («è il segretario del più grande partito italiano», ha sottolineato facendo anche capire che il «patto» progressisti-moderati è legato a una vittoria del leader Pd alle primarie di centrosinistra), è una importante novità di cui tener conto.
Il Pdl, ormai rassegnato all’impossibilità di un’alleanza con i centristi, ha reagito soprattutto all’ipotesi di una candidatura di Monti, nel 2013, alla guida dell’asse progressisti-moderati. Anche l’intervista a l’Unità di Enrico Letta, che ha parlato della necessità di una «forte continuità di programma e di uomini» tra questo e il prossimo governo, ha fatto scattare l’altolà nel Pdl, con Crosetto che accusa Pd e Udc di provocare elezioni anticipate e Gasparri che evoca i rischi insisti nel dare «connotazioni politiche» a questo esecutivo.
Bersani, oltre a far capire che la continuità con questo governo non sarà totale dal punto di vista programmatico («Vogliamo un’Imu più bassa e affiancata da un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari, se non si farà ora si farà quando saremo al governo», e poi checché ne dica il governo «gli esodati per noi sono 270-280 mila e su questo non molliamo») mette anche un freno al tentativo di tirare per la giacca Monti. Un po’ per non rischiare di indebolirlo, un po’ perché il successo del premier a Bruxelles dipende da più fattori, non ultimo perché adesso a guidare la Francia c’è Hollande. «Che sia una risorsa lo vedrebbe anche un bambino, ma Monti non voglio arruolarlo», risponde a chi lo avvicina a Livorno. E poi: «Come mai si è riusciti a fare un patto al vertice Ue? Perché Monti ha giocato bene le sue carte, ma anche perché non c’era Sarkozy».

La Stampa 3.7.12
Pensando al voto, le strategie dei partiti
Bersani: “È superato il vecchio centrosinistra”
Il segretario Pd: non possono entrarci tutti, serve una coalizione di governo
di amedeo La Mattina


ROMA Bersani non vuole impiccarsi sulla questione della alleanze e nemmeno stabilire quanto del governo Monti, in termini di uomini e programma, ci sarà in un futuro esecutivo di centrosinistra. Per il segretario del Pd sono problemi posti in maniera sbagliata. La discriminante sarà la «lettera di intenti» che i Democratici scriveranno nei prossimi mesi per stabilire i punti programmatici e il metodo per stare insieme nella futura coalizione che si presenterà alle elezioni del 2013. Sarà chiaro chi sta e chi si mette fuori da solo. «Dirò cosa faremmo e cosa faremo. Non sto facendo inciuci con nessuno. Io - spiega Bersani voglio partire da un centrosinistra ma non quello di una volta: voglio partire da un centrosinistra di governo, dove non esistono teorie a scavalco o di proprietà transitiva per cui se ci sta uno deve starci anche l’altro, finché si arriva a Grillo. No, perché c’è da governarlo questo Paese». Detto questo, ha aggiunto, «c’è una grandissima disponibilità nostra a discutere, sapendo che partendo da lì noi dobbiamo rivolgerci a tutte quelle forze democratiche, costituzionali, europeiste, che possono dare una mano a sconfiggere il populismo e la deriva di destra che si sta muovendo in Europa».
Per certi versi è uno stop alle affermazioni del suo stesso vicesegretario, Enrico Letta, che in un’intervista all’Unità ha detto che il prossimo governo dovrà essere «in forte continuità programmatica e anche di uomini» con quello attuale. Affermazioni che hanno fatto dire al Pdl che il Pd sta creando di tirare Monti dalla sua parte. Non è così, ha precisato Bersani. «Monti non voglio arruolarlo, ma che è una risorsa lo vedrebbe anche un bambino. Semmai chiediamoci come mai sia riuscito a fare un passo al vertice di Bruxelles. Monti ha giocato bene le sue carte anche perché non c’era Sarkozy ma il socialista Holland».
Vendola non vuole spezzare il rapporto con Di Pietro, chiede una forte discontinuità con le misure del governo e non intende fare la ruota di scorta in un’alleanza con Casini. Ma presto dovrà misurarsi con la «lettera di intenti» che Bersani metterà sul tavolo: non sarà di pura continuità con l’azione dell’attuale esecutivo visto che già in diverse occasioni è stato detto cosa Bersani avrebbe fatto di diverso. «E se c’è un partito che tiene in piedi questo esecutivo - dicono gli uomini del segretario - è proprio il nostro mentre il Pdl un giorno lo sostiene un altro vorrebbe buttarlo a terra». Il Popolo della libertà invece accusa i Democratici di voler dare una connotazione politica al governo, commettendo un grave errore perché così lo indebolisce. Gasparri: «A Monti serve l’appoggio di tutti. Affrontiamo il calendario dell’emergenza senza connotazioni politiche». Crosetto non ha capito quale sia la strategia di Casini e Letta. «Tutti e due dicono: bene Monti, continuiamo così. Poi, il prossimo anno, con te, i tuoi ministri ed il tuo programma ci candideremo a governare il futuro contro quei beceri personaggi del centrodestra. Mi pare un serio programma. Meno serio è richiamare ogni giorno il Pdl alle sue responsabilità di sostegno acritico. Avrebbero dovuto avere almeno il buon gusto di attendere gennaio o febbraio». Osvaldo Napoli nota una contraddizione tra Bersani che una volta al governo metterebbe un’imposta sui patrimoni, e Monti che si è rifiutato di metterla perché avrebbe provocato una fuga di capitali all’estero: «Eppure Bersani non vede nessuna incompatibilità di Monti ».
I Democratici si rifiutano di entrare in questo vortice di critiche. «È meglio pensare alle cose da fare adesso, alla spending riview, alla soluzione da dare agli esodati e anche alla legge elettorale e alla Rai. Berlusconi e Alfano si decidano cosa vogliono fare, altrimenti si assumeranno la responsabilità di andare ad elezioni con l’attuale sistema di voto, cioè il Porcellum». E poi, se oggi in commissione Vigilanza Rai non si presenteranno, ancora una volta, non consentendo di rinnovare il Cda, Bersani ne chiederà il commissariamento.

Repubblica 3.7.12
Alle primarie la sorpresa

Boeri “Voglio essere la terza via tra conservatori e liberisti”

Stefano Boeri, assessore alla Cultura e candidato sindaco sconfitto da Pisapia alle primarie di Milano, giovedì lancia una serata per «capire come si possa fare di più con di meno». E annuncia la sua disponibilità a candidarsi alle primarie del Pd: «Il mio partito non può restare schiacciato tra il conservatorismo di Bersani e il liberismo di Renzi»
Lei ha già chiesto un congresso straordinario del Pd a Milano, e per giovedì ha promosso un’iniziativa pubblica all’Umanitaria. Perché?
«Ci sarà la parte più dinamica di Milano, professionisti, ricercatori, cittadini consapevoli che questa crisi non è un tunnel da cui prima o poi, come sostiene Monti, si uscirà per tornare a com’eravamo prima. Non è vero: con questa crisi abbiamo cambiato sostanzialmente il paesaggio e le condizioni della nostra vita. Il compito della settima potenza economica mondiale è utilizzare risorse più scarse, ma in modo migliore».
«Non è certo questo il senso della serata, ma credo sia importante
rappresentare una terza via nel nome dell’innovazione e dei vecchi schemi. E mi auguro che
«Com’è dimostrato, io le primarie le so perdere, altrimenti non avrei accettato di fare l’assessore. Un vantaggio competitivo a cui tengo moltissimo. E poi basta con le culture del Novecento».
«Nessuno dei due rappresenta il mondo dinamico e produttivo che si muove non solo nelle grandi città, ma nei distretti industriali, insomma quelli che sostengono l’export e producono pil. Sarebbe un peccato che le primarie si riducessero a un duello tra Bersani e Renzi. Bisogna trovare un’altra strada. Anche per valorizzare la partecipazione con strumenti nuovi».
«A Milano i circoli del Pd discutono di cose che sono già state decise dalla giunta, pre-masticate da altri. Bisogna rompere questo meccanismo. E poi dobbiamo intenderci sul significato delle primarie ».
«Vanno benissimo, ma non se si esauriscono nella scelta delle alleanze. Il retropensiero è: le or-
ganizziamo per fare un favore a Vendola, ma in questo modo escludiamo l’intesa con Casini. Così non funziona, ci sono frotte di elettori sconcertati».
Il retropensiero vale anche per la Lombardia? Sabato scorso a Milano Bersani ha detto che per le regionali bisogna vedere se ci sono le condizioni di fare le primarie...
«Il segretario lombardo Martina le ha confermate. Il rischio è che in nome dell’urgenza, se Formigoni cadesse in tempi rapidi, si sostenga che è meglio affidarsi a meccanismi di selezione tutti interni al vecchio sistema. Magari per compiacere un alleato».
Lei si candiderà a quelle nazionali, lascerà la poltrona di assessore?
«Alla Cultura sto lavorando benissimo, e mi piace. Ma non voglio restare indifferente all’enorme disagio che si sente in giro. Ci vuole un cambio di marcia, bisogna utilizzare tutte le energie vere del Pd. Energie che al momento si trovano al di fuori dei meccanismi decisionali del partito».
Nel centrosinistra c’è un vuoto da colmare, bisogna rappresentare il mondo dinamico e produttivo

l’Unità 3.7.12
Le alleanze si fanno sulle scelte che ci attendono oggi
di Francesco Cundari


Dopo avere dichiarato a mezzo stampa che nessuna alleanza era possibile con Casini, «carnefice del centrosinistra», Di Pietro ha invitato ieri Bersani a discutere di programmi, per evitare esclusioni pregiudiziali a mezzo stampa.
In attesa che tra i principi fondamentali della nuova coalizione di centrosinistra sia dato il posto che merita al principio di non-contraddizione, è inutile illudersi che la polemica contro eventuali esclusioni pregiudiziali nei propri confronti, da parte dell’Italia dei valori, comporti l’abbandono delle sue pregiudiziali nei confronti degli altri.
D’altra parte, lo stesso Antonio Di Pietro che esorta il Pd a confrontarsi con lui sul programma, fino a ieri diceva di volersi alleare con Beppe Grillo, uno che nel suo programma propone di risolvere il problema del debito pubblico semplicemente non ripagandolo e di affrontare la crisi dell’eurozona tornando alla lira. Per non parlare della sua posizione sull’evasione fiscale, assai comprensiva verso gli evasori, o sulla cittadinanza ai figli degli immigrati, fermamente contraria. Posizioni che potrebbero giustificare semmai un’alleanza con la Lega, non certo con il centrosinistra. Eppure, all’indomani delle elezioni amministrative, a chi gli domandava se volesse allearsi con Grillo, Di Pietro rispondeva: «È come se mi chiedessero se voglio sposare Claudia Schiffer. Chi non vorrebbe? Ma bisogna sentire la controparte».
C’è da augurarsi che si sentano presto, e decidano una buona volta se sono fatti l’uno per l’altro. Nel frattempo, il Partito democratico e tutte le forze responsabili di centrosinistra hanno altro a cui pensare: dalla tutela di quelle centinaia di migliaia di lavoratori che la riforma Fornero ha lasciato inopinatamente senza lavoro e senza pensione al merito della cosiddetta «spending review». Ma soprattutto hanno da pensare all’esito ultimo della partita cominciata al vertice di Bruxelles sulle misure da adottare per evitare non solo la crisi dell’euro, ma anche, tra le altre cosucce, la bancarotta del nostro Paese.
Immaginare che il Pd possa disinteressarsi di tutto questo per chiudersi in una stanza a discettare di programmi e riforme future con chi dichiara di non condividere nessuna
delle sue scelte di oggi è semplicemente fuori dalla realtà. Il problema non è con chi il Pd vuole o non vuole allearsi alle prossime elezioni, per la semplice ragione che il Pd, in questi giorni drammatici e decisivi per l’Italia e per l’Europa, non si trova relegato all’opposizione, impossibilitato a esercitare alcuna influenza sull’azione del governo. E pertanto non può limitarsi a raccontare agli elettori che cosa vorrebbe fare domani, se ne ottenesse il voto. Il Pd, come parte di questa difficile maggioranza, deve assumersi oggi, su ciascuna delle questioni sul tappeto, la responsabilità di un compromesso o di una rottura.
La stessa discussione sul dopo-Monti e sull’eredità del suo governo, da questo punto di vista, è astratta, incomprensibile e preconcetta. Tanto i suoi sostenitori più entusiasti quanto i suoi critici più accaniti dovrebbero riconoscere che il giudizio sull’operato dell’esecutivo non può prescindere dall’esito delle difficili partite in corso, a cominciare dalla delicatissima vicenda degli esodati.
Questo è il motivo, etico prima ancora che politico, per cui chi oggi ha la responsabilità di tenere in piedi questo governo non può limitarsi a dire cosa vorrebbe fare domani. Non può dire ai lavoratori in ansia per la pensione, o ai risparmiatori angosciati dalla tempesta sui mercati, che di questi problemi si occuperà dopo. Deve dire ogni giorno cosa intende fare, e comportarsi di conseguenza in Parlamento, approvando o bocciando i provvedimenti del governo, e in ultima istanza confermando o ritirando la fiducia all’esecutivo. Una responsabilità cui non può più sottrarsi nessuna delle forze che vogliano far parte della futura alleanza di governo, siano oggi o meno presenti in Parlamento.

l’Unità 3.7.12
Il mondo e una domanda di sinistra
di Alfredo Reichlin


SUI RISULTATI DEL VERTICE DI BRUXELLES È STATO DETTO TUTTO. LE MISURE PRESE SONO IMPORTANTI MA NON VANNO SOPRAVVALUTATE. Eppure è forte la sensazione che siamo arrivati a un punto di svolta. Emerge una consapevolezza nuova che l’insieme della costruzione europea è in gioco e che bisogna affrontare la sfida che sta dietro l’inaudita potenza delle forze che manovrano i cosiddetti mercati finanziari. Non c’è nessun complotto di un “grande vecchio”. Ed è vero che la speculazione c’è sempre stata.
Ma non si era mai visto che un fondo di investimento americano potesse mettere in gioco risorse paragonabili al Pil di una media potenza come l’Italia. Si ammetterà che questo apre una qualche riflessione non solo sull’economia ma sulla politica e direi anche sulla storia delle nazioni. Ecco perché la zona euro non regge se l’Europa non si dà un nuovo potere politico unitario. Qui sta il merito di Monti. Ha puntato i piedi sul fatto che non siamo di fronte a normali fenomeni speculativi per controllare i quali basta mettere in ordine la finanza pubblica. Non ha elemosinato aiuti. Ha detto la verità. L’aggressione all’Italia fa saltare l’euro. Quindi è l’Europa che è in gioco.
Ma cos’è l’Europa? L’Europa non è solo una regione del mondo come altre. È potenzialmente la più grande concentrazione, non solo di ricchezza, ma di sapere e di creatività umana. Se la sorte dell’Europa cambia (nel bene come nel male) cambia la direzione in cui va il mondo. Forse è tempo che la sinistra si renda conto un po’ meglio di quale sia la novità della vicenda politica e sociale in cui siamo immersi. E cominci a capire perché si è aperto un problema nuovo di alleanze: l’esigenza di organizzare un centro sinistra anche a livello europeo.
La crisi non è congiunturale. Si è rotto l’ordine mondiale ed è per questa ragione che siamo nel pieno di una guerra di dimensione mondiale, sia pure monetaria. Il che significa che si sta decidendo come redistribuire la ricchezza e quindi chi deve impoverirsi e a vantaggio di chi. La questione sociale ha ormai questa dimensione, e c’è poco da scherzare. Se continua a governare questa meschina destra europea è chiaro che le classi dirigenti italiane sono disposte a tutto: non potendo svalutare la moneta svalutano il lavoro: bassi salari, precarietà, disoccupazione, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Dunque, è questo il terreno sul quale il Pd cerca di ridefinire il proprio profilo politico e ideale, come partito della nazione italiana ma parte integrante di una nuova costellazione di centro-sinistra europea. Si tratta vorrei farlo notare a Vendola del terreno decisivo anche dello scontro sociale. È qui che si gioca il posto del lavoro nel mondo. E voglio aggiungere che ciò che ci spinge lungo questa strada è l’acuta consapevolezza che il cammino che sta di fronte a noi è lungo, ed è molto arduo.
La domanda quindi da porsi è come sia possibile avviare un processo di costruzione politica dell’Europa senza mettere in campo un movimento di forze reali. Le quali siano l’espressione di quel mondo del lavoro, del pensiero intellettuale e dell’impegno civile, della sete di nuove scoperte, insomma della libertà e dei diritti uguali che ha una storia di secoli e che sta sotto la pelle dell’Europa. La politica è questo, non è solo manovra dall’alto e conquista di cariche pubbliche. Certo, il compito che sta di fronte al Pd è molto difficile. Stare in mezzo alla gente che soffre, che è offesa da un mondo di ingiustizie vergognose, che ha paura del futuro, che sente che la miseria si può affacciare alle loro porte. E spiegare a questa gente che bisogna lottare in forme tali che i loro sacrifici servano agli interessi dell’Italia. Il tutto mentre da destra e da sinistra, e da quasi tutti i video televisivi si gioca allo sfascio e al populismo.
Mi rendo conto che questo articolo non ha la concretezza degli economisti. Ma io continuo a pensare che quando si chiedono così pesanti sacrifici bisogna spiegare anche altre cose: che non stiamo pestando l’acqua nel mortaio ma stiamo cercando di occupare un terreno più avanzato di lotta, che stiamo dicendo qual è la posta in gioco e quindi il perché del contro chi, del con chi, e del come. Stiamo attenti a non sbagliare. Il cuore del conflitto non è più solo l’antagonismo tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che sta subendo una forma nuova di sfruttamento. Pesa sui produttori delle merci e sui beni pubblici l’onere di stringere la cinta per garantire i guadagni astronomici, gli sprechi e i lussi della rendita finanziaria, per di più esentata dal pagare le tasse.
Sta, quindi, avvenendo qualcosa che colpisce le ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile. Il fatto enorme è questo. Stiamo assistendo non solo ai fallimenti dell’economia finanziaria ma a un problema di “legittimità” di certi grandi poteri. Dove va il mondo se l’individuo lasciato solo non può fare appello a quelle straordinarie capacità creative che non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall’intelligenza accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umane?
Ecco perché si rinnova anche in un vecchio come me una domanda di “sinistra”. Nel senso che fermare il predominio globale del capitale finanziario è possibile solo alla condizione che l’individuo rompa il suo isolamento e si muova in modo creativo insieme agli altri individui. Questa è l’arma. L’enorme domanda di senso e dello stare insieme che esiste nella nuova umanità che si sta formando. In Italia come in Egitto e in Brasile. Non a caso è riemerso il tema dei “beni comuni”. Del resto, come diceva un vecchio intellettuale europeo tedesco ed ebreo, Carlo Marx: «Che cos’è la ricchezza se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato?».

l’Unità 3.7.12
Il Papa ridisegna la sua squadra
Sulla dottrina veglierà Mueller
di Roberto Monteforte


Torna un teologo tedesco alla guida del dicastero più importante della curia romana, la Congregazione per la Dottrina della Fede. Ieri, dopo circa un anno dalla loro presentazione, papa Benedetto XVI ha accettato le dimissioni del suo diretto successore alla guida dell’ex Sant’Ufficio, il cardinale statunitense William Levada. Al suo posto il Papa ha nominato monsignor Gerhard Ludwig Mueller, il vescovo di Ratisbona, la città dove lo stesso Ratzinger ha insegnato sino al 1977 teologia dogmatica.
Mueller è nato a Mainz-Finthen nel 1947 ed ha studiato filosofia e teologia a Mainz, Monaco e Friburgo. Ha ottenuto il dottorato nel 1977 con Karl Lehman, poi presidente della conferenza episcopale tedesca e capofila dei progressisti cattolici tedeschi. La tesi dottorale era dedicata al teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Mueller è stato ordinato sacerdote nel 1978 ed ha poi conquistato la libera docenza a Friburgo nel 1985 sempre sotto la supervisione di Lehmanm, iniziando a insegnare a soli 38 anni l'anno successivo all'università di Monaco e in altri atenei di tutti i continenti. Ha anche cofirmato con uno dei «padri» della teologia della liberazione, Gustavo Gutierrez, il saggio Dal lato dei poveri. La teologia della liberazione. Ma non lo si può considerare un progressista, anche se ha fatto esperienza diretta sul campo della vita della Chiesa con i poveri dell’America Latina, abitando per qualche tempo con i contadini di una parrocchia nelle vicinanze del lago Titicaca, al confine con la Bolivia. È stato membro della commissione per la Dottrina della fede dei vescovi tedeschi e della Commissione teologia internazionale. Si è occupato in particolare di nuova evangelizzazione ed ecumenismo, promuovendo l'apostolato dei laici e progetti umanitari per i Paesi in via di sviluppo. Il motto episcopale scelto quando nominato da Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo di ratisbona nel 2002, è stato«Dominus Jesus», lo stesso titolo della discussa «istruzione» sul primato del cristianesimo a firma dell’allora prefetto dell’ex sant’Uffizio, cardinale Ratzinger.
Monsignor Mueller può essere considerato un ratzingeriano di ferro. Ha curato l’«opera omnia» di Ratzinger. Ma può vantare anche una robusta formazione teologica e una significativa esperienza pastorale. Pare avere le carte in regola per affrontare i difficili dossier che sono sul tavolo di questo pontificato e del suo dicastero: nuova evangelizzazione, ecumenismo, la difficile ricucitura con i tradizionalisti lefebvriani, la pedofilia nella Chiesa. È al prefetto della Congregazione della Fede, infatti, che fa riferimento la commissione «Ecclesia Dei» che ha proprio il compito di trattare con i seguaci della Fraternità san Pio X. Un nodo delicato che il Papa vorrebbe scogliere alla vigilia della celebrazione del 50 ̊ del Concilio Vaticano II e dell’Anno della fede.
Quella di Mueller è indubiamente una nomina importante, che delinea la nuova squadra di Ratzinger. La scorsa settimane il Papa ha chiamato in curia monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e guida spirituale della Comunità di sant’Egidio affidandogli il pontificio Consiglio per la Famiglia. Ieri è stato confermato per altri cinque anni l'arcivescovo Claudio Maria Celli alla guida del Pontifico Consiglio per le comunicazioni sociali. Che Benedetto XVI sia saldamente alla guida della Chiesa lo conferma anche l’altra decisione assunta ieri dal pontefice. Ha rimosso dal suo incarico l'arcivescovo di Trnava, in Slovacchia, il redentorista monsignor Ròbert Bezàk, pare per illeciti finanziari. La pulizia nella Chiesa resta la parola d’ordine di papa Ratzinger. Come pure l’esigenza di assicurare una efficace governance alla Curia romana. La sala stampa vaticana ha dato notizia degli incontri avuti nei giorni scorsi dal Papa con porporati autorevoli. Se sotto accusa è l’azione del segretario di Stato, cardinale Bertone recentemente riconfermato da Benedetto XVI, pare improbabile una sua sostituzione a breve, sulla scia delle polemiche.

l’Unità 3.7.12
La rivoluzione democratica delle donne tunisine
di Emilia De Biasi


LA NOTIZIA L’HA DATA IL MINISTRO DEGLI ESTERI: c’è l’impegno dell’Italia a seguire con attenzione la vicenda di Narges Mohammadi, assegnataria del premio internazionale Alexander Langer 2009, portavoce del Centro dei difensori dei diritti umani in Iran, collaboratrice del premio Nobel Shirin Ebadi. La signora Mohammadi sta scontando una condanna a sei anni di carcere. Fino a poco fa era custodita in una cella della sua città, ora è stata trasferita lontana da casa e dai figli piccoli. La sua unica colpa è aver militato a favore dei diritti umani nel suo Paese.
La scena di questa buona comunicazione è stata la consegna del Premio Langer 2012 all’Associazione delle donne democratiche tunisine, avvenuta l’altro giorno alla Camera dei deputati. Dunque qualcosa si muove. Ed è straordinario che tutto ciò passi anche dal lavoro incessante della società civile, in una collaborazione rara e virtuosa con la politica.
Un metodo che sarebbe piaciuto ad Alexander Langer, secondo il quale «In politica raramente si parla di qualcosa di vero, cioè di vissuto e realmente fatto proprio. Il reale incrocio tra esperienze, più che tra posizioni è un momento creativo». E ancora «... le scorciatoie sloganiste aiutano a contarsi, non a cambiare persone e circostanze. I patti reciproci aiutano a fare i conti gli uni con gli altri, visto che alla fine nessun altruismo regge alla prova del tempo e dell’usura. Non gridare non vuol dire rinunciare a spiegare e diffondere scelte solidali, serve per convincere, invece che mettere solo a verbale».
Non so se le donne tunisine abbiano urlato, ma certamente il loro lavoro non è servito solo per un verbale. La loro incessante lotta negli anni, dalla rivendicazione dei diritti delle donne come diritti umani fino alla consapevolezza, agita e non solo enunciata, per cui l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne è il fondamento di una società democratica, ci parla della rivoluzione dei gelsomini, in un misto di storia e modernità, ci dice dell’importanza della diffusione del messaggio di democratizzazione attraverso gli strumenti più moderni, la rete.
Ciò che è accaduto è nelle coscienze degli uomini e delle donne tunisine, di quella primavera araba, carica di contraddizioni e di incertezze sul futuro dell’area, ma che trova in Tunisia un ancoraggio sicuro, grazie all’azione delle donne e tra loro, in prima fila, dell’Associazione delle donne democratiche. A queste sorelle va la nostra gratitudine perché ci hanno scosso dal torpore dell’inevitabile, hanno superato ostacoli indicibili, non si sono mai rassegnate all’indifferenza della dimensione privata.
Protagoniste di una rivoluzione voluta, non importata, hanno scelto negli anni il processo di democratizzazione come filo conduttore. Una rivoluzione nella rivoluzione, partita dalla lotta contro la violenza alle donne e contro gli abusi sessuali, concretizzata da un centro di ascolto e di sostegno, dalla battaglia contro le discriminazioni nel diritto di successione, che penalizzava il mondo femminile, dalla specifica dimensione della povertà, penso alla rivolta del pane. È una grande vittoria, quella della penalizzazione delle molestie sessuali nelle scuole e nei luoghi di lavoro, che oggi è reato nel codice penale tunisino. Insomma poche chiacchiere e molti fatti, fino all’affermazione della questione della cittadinanza femminile e della separazione tra vita civile e religiosa, l’ultimo approdo teorico oltre che pratico, la sfida tutta aperta della convivenza tra islam e modernità, per dirla con il cardinale Scola.
Democrazia, pluralismo, libertà di associazione e di espressione, autonomia delle donne, cultura e dimensione civile: sono tratti dell’universalità dei diritti umani in ogni area del mondo. E sono esempi che valgono per tutti. Langer, in uno dei suoi ultimi scritti, afferma: «In passato ho forse imparato più dai libri. Nei tempi più recenti mi sembra di imparare più dagli incontri che mi capita di fare». Il futuro passa dalla libertà e dalla dignità femminile, dal destino comune visto in diretta e dalla speranza di realizzazione di un Mediterraneo che si riconosce nei valori della democrazia e dell’autodeterminazione, delle culture che affratellano e non dividono

Repubblica 3.7.12
Messico
Le illusioni perdute della sinistra
di Paco Ignacio Taibo  II


«IO VOTO per il PRI» mi ha detto il tassista. Mi sono chiesto se buttarmi dalla macchina in corsa senza pagarlo, con il rischio di rompermi il collo, per cominciare a educarlo su cosa sarebbe una città governata da quelli del Pri o sfoderare le mie migliori prove contro il ritorno dei compagni di Ali Babà. I suoi argomenti avevano una deprimente solidità. Ma dopo un tragitto di 38 minuti, grazie al traffico infernale di Città del Messico, sono riuscito a ottenere un pareggio. Non è ancora nato il tassista che mi batta in testardaggine o nel gusto di discutere. Ho usato tutte le storie che conosco sullo stato priista, sul suo modo di fare, sul suo stile, sulle sue mani lunghe che arrivano in tutti i cassetti e in tutti gli affari torbidi contro la Nazione.
Anni fa cercai di raccontare come la nostra generazione, la generazione del ’68 e i suoi eredi (la ribellione operaia, la resistenza dei cittadini, il movimento popolare, la riorganizzazione sociale di fronte al terremoto), fece un patto con il diavolo. Non fu un cattivo patto. Per tirar fuori il Pri da Los Pinos [la residenza ufficiale del presidente del Messico] mettemmo nell’armadio Ho Chi Minh, la rivoluzione socialista, Flores Magón, Durruti e i Consigli Operai, il programma di transizione e il plusvalore. Non era un cattivo patto per una nazione stremata da 40 anni di aggressioni contro i cittadini da parte del potere: saccheggi, doppia morale, repressioni e abusi, uccisioni di contadini ed errori economici che distruggevano in una settimana un terzo della classe media, e fabbricavano milionari e poveri alla stessa velocità.
Tuttavia, non leggemmo mai le clausole scritte in piccolo di quel contratto. Non avevamo molta esperienza nel fare patti con il diavolo e non ci venne in mente di leggere quello che in fondo al documento era scritto nascostamente con un carattere minuscolo: si manderà via il Pri, ma verrà il Pan, e poi: nel cacciare i ladri dal Palazzo, molti di voi diventeranno come loro.
Adesso ci si propone di rifare quel patto e il diavolo dice: Purché il Pri non torni al potere nel Distretto Federale di Città del Messico, qualsiasi candidato è buono. Pensare alla competizione elettorale senza tener conto delle grida nazionali di non ne possiamo più, mai più sangue, no alla gestione neoliberista dell’economia, no alla repressione delle attività nella rete, no alla repressione contro maestri ed elettricisti, no ai torbidi maneggi che denazionalizzano Pemex, no alla criminalizzazione della protesta sociale, no ai mille modi della corruzione che sono il cancro nazionale che colpisce il Messico, è un tradimento del passato e del senso della sinistra.
Rigirare la frittata significa dare un contenuto allo scontro elettorale, riempire la campagna elettorale di informazioni, di educazione, non mettere semplicemente dei volti sui manifesti affissi nelle strade. Com’è possibile che nelle migliaia di spettacolari manifesti, nei cartelli elettorali del Prd, non ci sia una sola allusione alla necessità che finisca la guerra calderonista? Solo faccine sorridenti con la cravatta gialla.
La giustificatissima delusione rispetto ai partiti elettorali della sinistra moderata ha fatto presa su molti, molti più di quanto non si pensi, non solo tra giovani radicali, ma anche nell’alto e ampio strato della classe media colta che alla fine degli anni ’80 fu una parte fondamentale della periferia del Prd e gli diede la vittoria nelle due elezioni dei brogli. Ma il voto nullo, la scheda bianca, l’astensione, è una rivolta? No, è piuttosto un gesto morale, e con tutto il rispetto che ho per i gesti morali, si diluirà in termini significativi nell’abituale e crescente astensione.
La scheda bianca non castiga il PRI e quel fantoccio di Peña Nieto, bensì lo favorisce. La scheda bianca è stata espressa nell’ambiente della sinistra, in settori critici del sistema, pensanti. Non avrebbe avuto più senso il voto critico? Qualcosa come: Non voto per nessun candidato di sinistra che non faccia sua la proposta di una legge di amnistia per le centinaia di contadini ecologisti in prigione. Non voto per nessun candidato di sinistra che non firmi un progetto per fermare la guerra. Non voto per nessun candidato di sinistra che non riconosca l’urgenza di democratizzare l’istruzione e non promuova un’educazione gratuita, laica e popolare.
Che contributo dare? Un’idea chiara che la città deve virare verso sinistra aggiungendo nuove proposte ai progressi ottenuti nel Distretto Federale, soprattutto nella politica sociale e nei diritti delle minoranze che devono essere mantenuti (trasporto economico, sostegno alle madri nubili, matrimoni gay e adozione, borse di studio per studenti delle scuole medie superiori, sostegni economici alla terza età, mense popolari, nuove scuole per l’accesso all’università).
Ci sono solo un paio di modi in cui questa città, che nella base maggioritaria è chiaramente di sinistra, pronta a protestare, liberale, progressista e fantastica si perda, ed è che la sinistra non faccia la sinistra.
(traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 3.7.12
Israele
Hebron, due soldati prendono a calci un bimbo palestinese


TEL AVIV — Polemiche in Israele per un video che mostra due agenti della Guardia di frontiera a Hebron (Cisgiordania) strattonare un bimbo palestinese di 9 anni. Un soldato lo trascina, il secondo gli dà un calcio sulla schiena.

Corriere 3.7.12
Un fantasma si aggira per l'Europa: la nuova primavera di Karl Marx
Oltre la tragedia del comunismo reale, la riscoperta del grande filosofo
di Umberto Curi


Qualche tempo fa, la rete radiofonica della Bbc, Radio 4, nella rubrica «In our time» aveva promosso un'iniziativa davvero singolare. Si chiedeva agli ascoltatori di indicare «il più grande filosofo della storia», fra una lista di 20 autori. L'esito finale del sondaggio, proseguito per alcune settimane con una risonanza crescente e con alcuni significativi riflessi nei grandi media, appare per molti aspetti sorprendente. In questa insolita classifica, infatti, è risultato largamente vincitore Karl Marx (con quasi il 30% dei voti), seguito a notevole distanza da Hume (12,67%), Wittgenstein (6,80%), Nietzsche (6,49%), Platone (5,65%) e Kant (5,61%). Nelle ultime posizioni, Epicuro, Hobbes e Heidegger, votati con percentuali pressoché irrilevanti. A ridosso dei primi, anche se irrimediabilmente tagliati fuori dalla «zona podio», san Tommaso e Socrate, seguiti da Aristotele e da Popper, i quali raggranellano rispettivamente il 4,52% e il 4,20%. Ma prima di esprimere qualche valutazione in margine a una iniziativa per molti versi stravagante, può essere istruttivo, oltre che talora anche divertente, andare a spulciare nel repertorio delle risposte fornite, oltre che delle motivazioni che accompagnano le diverse nomination.
Trascurando le indicazioni più scontate, riguardanti pensatori comunque noti e più volte votati, colpisce anzitutto l'insistenza con la quale emergono i nomi di filosofi orientali — gli indiani Ghandi, Patanjali e Nagarjuna, i cinesi Lao-Tzu e Confucio, il persiano El Ghazali, proposti in esplicita polemica con l'impostazione «eurocentrica» dominante nella lista dei 20 nomi proposti. Merita di essere sottolineata, in questo contesto, la motivazione addotta per la scelta di Averroè, grande esponente dell'aristotelismo arabo, fautore del dialogo interculturale e della tolleranza contro ogni forma di fanatismo, a proposito del quale si dice che «abbiamo bisogno di ricordare quest'uomo oggi più che mai». Una seconda annotazione riguarda la filosofia italiana, che risulterebbe del tutto assente, se non fossero avanzate le candidature di due grandi autori, i quali non rientrano tuttavia fra i filosofi in senso stretto, quali sono Dante e Machiavelli.
Tipicamente britannico il senso dell'umorismo che ha ispirato, fra le altre, le nomination di Guglielmo di Occam («Per il suo celebre rasoio. Ah, se solo la gente si ricordasse di usarlo di più!») e di Montaigne («Perché mi fa ridere e perché non è nella lista dei 20 che lo farebbe ridere!»). Più corrosive, al limite della provocazione, altre proposte: quella relativa a Kermit the Frog («almeno i suoi epigrammi ci fanno ridere»), o quella che vorrebbe incoronare come maggiore filosofo della storia il calciatore Éric Cantona, noto per le sue intemperanze violente dentro e fuori i campi da football, e più recentemente per la sua performance come attore cinematografico. Infine, non prive di arguzia, e perfino di una sottile verità, alcune proposte «estremistiche», per certi versi coincidenti, quali quella che indica «nessuno» quale maggior filosofo della storia («Perché ha ragione il poeta giapponese Basho quando ammonisce a non cercare i saggi del passato, ma a cercare piuttosto ciò che essi hanno cercato»), o quella che nomina se stesso, perché «non si deve credere ai filosofi più di quanto si debba credere ai politici o a qualunque altro, in quanto ciascuno dovrebbe essere per se stesso il proprio filosofo favorito».
Nel complesso, il sondaggio promosso dalla Bbc può essere giudicato semplicemente come un giochino bizzarro ma innocuo, derivato principalmente dalla tendenza a inventare nuove forme di intrattenimento. D'altra parte, da questa competizione emergono anche alcuni elementi un po' più seri, che meritano qualche riflessione. Anzitutto stupisce, e per certi versi perfino allarma, il fatto che un quotidiano austero e prestigioso, quale l'«Economist», nelle ultime settimane del sondaggio abbia svolto una campagna fra i suoi lettori, affinché fosse votato Hume, al solo scopo — esplicitamente dichiarato — di evitare l'incoronazione di Marx quale maggior filosofo. Segno evidente della persistenza di paure e pregiudizi tutt'altro che superati, in un Paese, e in un giornale, che pure dovrebbero essere perfettamente in grado di distinguere fra l'opera di un filosofo (certamente fra i più grandi, comunque la si pensi) e la tragedia del comunismo realizzato. Senza altresì avvedersi che, in una società dello spettacolo e della comunicazione quale è la nostra, un intervento a gamba tesa di questo genere non poteva che generare un effetto controproducente. In secondo luogo, i risultati del sondaggio dimostrano che, almeno in un pubblico eterogeneo e indifferenziato quale è quello presumibilmente coinvolto nella consultazione, la figura del filosofo è ancora largamente associata a quella di alcuni grandi autori del passato, mentre stentano a emergere i protagonisti del pensiero del Novecento. A ciò si aggiunga che, a eccezione di Wittgenstein, non vi è traccia fra i più votati di una particolare inclinazione per i filosofi di orientamento analitico. A dispetto di ciò che, viceversa, si è soliti ripetere, quando si indicano nei Paesi di lingua inglese le roccaforti della tendenza abitualmente contrapposta alla filosofia continentale.
Insomma, per quanto possa apparire sorprendente: uno spettro ancora si aggira per l'Europa, nelle sembianze di un uomo con una folta capigliatura e una barba scurissima.

Corriere 3.7.12
Studi, festival e perfino un romanzo giallo
Così Hobsbawm ha lanciato la tendenza


Le idee di Karl Marx per interpretare la crisi contemporanea: Gian Paolo Patta, sindacalista e politico, ha appena pubblicato il saggio Plusvalore d'Italia. Il buon uso di Marx per capire la crisi mondiale e del nostro Paese (edizioni Punto Rosso, pp. 236, 15). La riscoperta di Marx ha già un suo «classico» nel saggio di Eric Hobsbawm, uno dei maggiori storici contemporanei, intitolato Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo (Rizzoli, 2011). Tra i libri dedicati alla modernità del pensiero del filosofo tedesco usciti quest'anno: A lezione da Marx (Manifestolibri) di Stefano Petrucciani, Marx oltre il marxismo (Franco Angeli) di Stefano Ricciuti e perfino un giallo, Marx & Engels, investigatori. Il filo rosso del delitto (Nuovi Equilibri). Dagli scaffali alla piazza: dal 5 al 9 luglio a Londra si tiene il festival «Marxism 2012». Sottotitolo: «Idee per cambiare il mondo» (www.marxismfestival.org.uk).

Corriere 3.7.12
L'amore di Kierkegaard svanito in un giorno
Il difficile rapporto con Regina Olsen E il pentimento dopo averla conquistata
di Armando Torno


Le storie d'amore più interessanti (per i posteri) sono quelle che finiscono male. Non si riescono a chiudere o si consumano con attese e rinvii; tra le prime scintille e le iniziali dichiarazioni si vivono momenti luminosi, ma poi gli slanci si trasformano in distacco, noia, tormento. Bene: ne evochiamo qualcuna, cominciando da quella che vide protagonisti Regina Olsen (1822-1904) e uno dei più grandi filosofi moderni, il danese Søren Kierkegaard (1813-1855).
Il pensatore che oggi ammiriamo come uno dei padri dell'esistenzialismo non era un animo semplice. Pubblicò quasi tutte le sue opere con pseudonimo, nascondendosi. Per esempio, utilizzò Johannes de Silentio per Timore e tremore, Hilarius il Legatore per gli Stadi sul cammino della vita, Costantin Costantius per La ripresa e via di questo tono. Il suo nome appare sui Discorsi edificanti e su altri scritti religiosi, dove si sentiva un pastore privato. Non si curava dell'aspetto. La rivista pettegola Corsaren a partire dal 1846 lo prese di mira. Una caricatura ne mostra i tratti ridicoli e goffi: schiena curva (c'è quasi la gobba), arti inferiori gracili, andatura sgraziata, pantaloni troppo corti, cappello a cilindro ampio. Eccetera.
Regina è una bella ragazza, figlia minore del consigliere di Stato Terkel Olsen. Il filosofo la conosce nel 1837, in casa di amici. Ha quattordici anni. I due, come si suol dire, si fiutano, sino a quando giungono a stabilire un rapporto. La proposta è fatta cadere nel settembre del 1840, probabilmente il giorno 8, mentre si stava eseguendo un brano al pianoforte. Il tutto avviene in casa Olsen. Ha raccontato Kierkegaard anni dopo nei Diari (opera fondamentale, che la Morcelliana sta ritraducendo): «Che me ne importa della musica? Sei tu che voglio, ti ho voluto per due anni». Lei incassa in silenzio. Il padre della fanciulla benedice la proposta. I due sono ufficialmente fidanzati.
Il giorno seguente Søren è già pentito. Non ha mai pensato di sposarsi e ora ha fatto un passo in quella pericolosa direzione. Comincia a porsi domande quali: «È possibile innamorarsi umanamente?». Basterebbe dare un'occhiata alle lettere che i due si sono scambiati tra il settembre 1840 e l'11 ottobre 1841 per accorgersi che c'è un sentimento vero ma il filosofo non si dà pace. Scrive: «L'amore — usiamo la traduzione contenuta nel volume: Søren Kierkegaard, Lettere sul fidanzamento, Morcelliana — è più veloce di tutto, più veloce di se stesso». Talmente veloce che, mese dopo mese, diventa anche malinconico. Egli riflette sulla sproporzione tra anima e corpo, si interroga sulle impossibilità. E poi Regina — siamo nel gennaio 1841 — le sembra appartenente a una specie non spirituale, anzi forse non è nemmeno una fidanzata cristiana, giacché ha un'idea puramente umana dell'amore. L'11 agosto le restituisce l'anello. Inizia, come ognuno immagina, un periodo denso di scenate, cadenzato da crisi, con epistole piene di parole pesate. E poco dopo, nel ricordato 11 ottobre, Kierkegaard rompe il rapporto. Si considera legato a Dio, anzi ritiene di essere stato amato come donna quando era preesistente presso il Padre. Poteva invocare il versetto della Prima lettera di Giovanni: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (4,10); ma tali parole non riuscivano certo a chetare Regina. Lei è disperata, minaccia il suicidio; interviene il padre, a Copenhagen i commenti si sprecano.
Nel 1847 la ragazza, venticinquenne, sposerà il suo vecchio precettore, Frederik Schlegel. Sarà un matrimonio tranquillo, felice. Regina il 17 marzo 1855 partirà per le Indie occidentali danesi, delle quali il marito era stato nominato governatore. L'11 novembre di quell'anno Kierkegaard moriva. Ma prima trovò il tempo di farsi vivo. Nel settembre 1849 scrisse a Schlegel supplicandolo di poter parlare con la moglie. Il marito non rispose. A richieste ulteriori seguirà nuovamente il silenzio. Chissà cosa voleva. Non immaginiamoci nulla di particolare. Del resto, allorché il 15 maggio 1849 la giornalista svedese Frederika Bremer chiese di incontrarlo per un'intervista, le rispose: «No, grazie; non so ballare!».

l’Unità 3.7.12
Parla il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran
In un libro spiega come può accadere che una persona perda il senso della realtà
In viaggio nel cervello
La storia di Alì, l’uomo che credeva di essere morto
di Cristiana Pulcinelli


IL PREMIO
Il saggio e il romanzo
I due vincitori della decima edizione del premio Merck Serono sono Vilayanur S. Ramachandran, con il saggio «L'uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana» (Mondadori), e Jean Echenoz con il romanzo «Lampi» (Adelphi). A Telmo Pievani menzione speciale per «La vita inaspettata. Il fascino di un'evoluzione che non ci aveva previsto» (Raffaello Cortina). La cerimonia di premiazione si terrà oggi a Roma, alle ore 19 a Villa Miani.

CHI È
Sa cosa abbiamo in testa
Vilayanur S. Ramachandran (1951) è un neuroscienziato, professore di neuroscienze e psicologia all'Università della California di San Diego, direttore del Center for Brain and Cognition ed è professore aggiunto di Biologia al Salk Institute. «L'uomo che credeva di essere morto...» parla del nostro cervello, di cosa, lì dentro e non altrove ci renda umani e diversi da ogni altro essere mai comparso sulla Terra. Un libro stimato e apprezzato da Oliver Sacks, che ha definito questo lavoro di Ramachandran «la sua opera migliore».

ROMA L’UOMO CHE CREDEVA DI ESSERE MORTO SI CHIAMAVA YUSUF ALÌ. ERA UN TRENTENNE SCARMIGLIATO E SOFFRIVA DI EPILESSIA DALL’ETÀ DI 17 O 18 ANNI. Vilayanur Ramachandran lo conobbe anni fa a Chennai (la città dell’India un tempo nota come Madras). Gli attacchi di Alì colpivano soprattutto i lobi temporali del suo cervello e producevano cambiamenti emotivi, tuttavia, tra un episodio e l’altro, Alì sembrava perfettamente lucido e intelligente. Di fronte alla semplice domanda «che cosa la porta nel nostro ospedale?» che gli rivolse Ramachandran, Alì rispose in modo decisamente strano: «Non si può fare molto per aiutarmi: sono un cadavere». E aggiunse: «Non esisto. Mi si potrebbe definire un guscio vuoto. A volte mi sento un fantasma che esiste in un altro mondo». Come può una persona perdere il senso della realtà di se stesso fino a sentirsi morto? E perché questo avviene? Ramachandran, neuroscienziato, direttore del Center for Brain and Cognition dell’università della California, è partito da queste domande per studiare questo difficile caso. La storia di Alì viene raccontata assieme a quella di molti altri pazienti nel nuovo libro di Ramachandran (L’uomo che credeva di essere morto, Mondadori) che ha vinto il premio Merck Serono 2012.
Ramachandran si addentra in temi complessi come l’origine del linguaggio, la differenza tra vedere e sapere, l’emergere di un senso estetico, la natura della coscienza. Ma lo fa sempre partendo dalle persone, ovvero da pazienti che, a causa di difetti genetici o di lesioni cerebrali, presentano sintomi stravaganti e per certi versi inspiegabili. Studiare casi complessi come quello dell’uomo a cui era stato tagliato un braccio ma che continuava a sentirne la presenza, o quello della signora che vedeva i numeri dotati di colore, o ancora quello del ragazzo che riconosceva la madre solo per telefono, ma non quando la vedeva di persona, vuol dire scoprire qualcosa di nuovo sul cervello umano.
Cosa sia il sé è una questione che per secoli è stata lasciata alla filosofia, oggi può essere affrontata scientificamente?
«Quando si studia la neurologia, non si può evitare il problema del sé, ovvero il fatto che il nostro cervello non genera solo un resoconto obiettivo del mondo esterno, ma sperimenta un mondo interno, una ricca vita fatta di sensazioni, significati, sentimenti. I neuroscienziati cercano di risolvere questo problema filosofico in modo empirico. La prima cosa da notare è che quando parliamo di “concetto di sé” e di “introspezione” stiamo parlando di molte componenti diverse. Quello che possiamo fare, quindi, è separare queste componenti, seguendo il noto slogan: divide et impera».
Quali sono, allora, questi diversi aspetti del sé?
«Il primo è il senso di unità. Noi esseri umani siamo fatti di tanti ricordi, di passioni, idee, pensieri diversi, eppure ci sentiamo una persona singola. Da dove viene questo senso di unità? E quali strutture cerebrali ne sono alla base? Poi c’è la continuità temporale: noi siamo in grado di fare un viaggio mentale nel tempo, speculare sul passato e immaginare il futuro. È vero che questa capacità esiste anche nelle grandi scimmie, ma senza la complessità che caratterizza l’essere umano. E ancora: l’identità corporea. Noi ci sentiamo ancorati al nostro corpo, non ci viene mai in mente che la mano con cui abbiamo preso le chiavi della macchina non ci appartenga o che la mano che sente dolore non sia la nostra. Anche se grazie a particolari neuroni chiamati “neuroni specchio”, siamo in grado di sentire empatia per il dolore di qualcun altro. Questi neuroni, infatti, che vengono attivati durante l’azione dall’esecutore dell’azione stessa, si attivano anche in chi osserva solamente la medesima azione. Tutte queste capacità si possono perdere. Se ne manca qualcuna, il sé continuerà a stare in pedi, seppure con strani sintomi come accade ad alcuni dei miei pazienti. Ma se ne vengono a mancare troppe, cadrà».
E la capacità di scegliere come agire?
«È un’altra caratteristica del sé. Normalmente si chiama “libero arbitrio” e consiste nella sensazione di poter scegliere coscientemente tra azioni alternative. Si è visto però che quando c’è un danno al cingolo anteriore, una struttura che si trova nel lobo frontale, la persona perde questa capacità: non è in coma, è vigile, percepisce ad esempio gli stimoli dolorosi, ma non agisce e si trova in una forma estrema di apatia. Quando questi pazienti guariscono, raccontano che erano consapevoli del loro stato, ma non avevano voglia di agire».
Quindi per compiere una determinata azione, ad esempio prendere il bicchiere che sta qui davanti a me, avrò bisogno del contributo di più strutture cerebrali?
«Certamente. Mettiamo che io voglia prendere tra tutti i bicchieri presenti su questo tavolo quello che contiene la coca cola senza zucchero perché sono a dieta. Avrò bisogno del giro sopramarginale dell’emisfero sinistro che elabora diverse linee d’azione e, in collaborazione con input che vengono dalla mano, immagina diverse possibilità di prendere il bicchiere. Del sistema limbico che mi dà l’impulso emotivo, in questo caso la sete. Del lobo frontale che stabilisce i valori, in questo caso non ingrassare. Tutti queste strutture interagiscono poi con il cingolo anteriore che determina la volontà di agire e, finalmente, acchiappare il bicchiere e bere. Se l’ipotalamo è danneggiato, non percepirò la sete, se ad essere danneggiata è la parte del lobo frontale responsabile dei valori, non potrò mettermi a dieta, e così via».
I nuovi studi cambiano il modello di cervello che avevamo?
«Radicalmente. Ci troviamo di fronte a una rivoluzione copernicana e lo dimostro con una storia. Esiste un disturbo chiamato Crps, sindrome di dolore regionale complesso, che provoca un dolore cronico. Normalmente il dolore ha inizio in seguito a un trauma, poniamo la frattura di un dito. Di solito, la risposta a questo trauma è di tipo infiammatorio: il dito diventa gonfio, rosso, fa male a tal punto che diventa quasi paralizzato. Quando guarisce, il dito può riprendere il suo movimento. Ma in alcune persone, l’1-2% dei casi, il dito continua a provocare dolore e si paralizza per sempre. A volte il problema si estende addirittura a tutto l’arto. Cosa succede in questi casi? Si è capito che quando il paziente tenta di muovere il dito, arriva un segnale al cervello che indica “dolore”, quindi il cervello blocca il movimento per evitare il dolore. Da questa sindrome si può guarire grazie a un semplice specchio: la mano dolente si nasconde dietro lo specchio mentre il paziente guarda l’altra mano riflessa nello specchio. Quando quest’ultima si muove sembra che a muoversi sia la mano malata senza però scatenare alcun dolore. In questo modo spezziamo il legame dolore-movimento nel cervello. Oggi questa terapia viene utilizzata negli ospedali italiani e americani. Questa scoperta dimostra che una lesione in una zona periferica del corpo può causare un problema permanente al cervello, contrariamente a quanto si pensava solo qualche anno fa. Nel nuovo modello, il cervello risulta composto da moduli che interagiscono, sono in equilibrio dinamico tra di loro e si modificano attraverso gli input sensoriali che arrivano dalla periferia del corpo, ma anche dagli altri organismi attraverso i neuroni specchio».

La Stampa 3.7.12
“Sempre più vicini alla scoperta della particella di Dio”
Eccitazione tra i fisici, domani annuncio al Cern Ma la verità potrebbe essere diversa dalle attese
di Barbara Gallavotti


GINEVRA Difficile contenere l’entusiasmo qui al Cern, perché nella rete ci deve essere qualcosa di grosso, qualcosa che sarà annunciato domani in una conferenza per la quale ci si sta preparando in tutto il pianeta a dispetto dei fusi orari più ostili.
Tutti gli indizi farebbero pensare che finalmente verrà annunciata la scoperta del bosone di Higgs. A quanto trapela però le cose potrebbero essere più complicate del previsto, e forse persino più interessanti.
Andiamo con ordine. Il bosone di Higgs, l’imprendibile particella di Dio è il Santo Graal per la cui ricerca è stato costruito il grande acceleratore LHC in funzione al Cern di Ginevra. La particella dovrebbe essere prodotta come conseguenza di scontri tra protoni che viaggiano quasi alla velocità della luce in direzioni opposte. Per i fisici è molto importante riuscire a individuare il bosone, perché è la chiave di volta senza la quale tutto ciò che è stato teorizzato riguardo al funzionamento dell’Universo non regge più.
Già a dicembre, i ricercatori avevano annunciato di aver visto qualcosa di interessante, senza però avere la certezza che fosse l’agognata particella. Ora però ci sono molti nuovi dati a disposizione, e sarebbe logico aspettarsi una conferma. Lo farebbero pensare anche episodi mondani, ad esempio per la conferenza di mercoledì sono attesi quattro signori che non passano inosservati e che di certo non pianificano un viaggio a Ginevra senza un buon motivo. Uno è Peter Higgs, il fisico inglese da cui ha preso il nome la particella. In realtà però la teoria che ha portato a ipotizzare il bosone ha molti padri, cioè oltre ad Higgs, guarda caso, gli altri tre ospiti: François Englert, Gerald Stanford Guralnik e Carl Richard Hagen (l’ultimo genitore, Robert Brout, è deceduto nel maggio 2011).
Eppure, dicevamo, l’annuncio della scoperta del bosone potrebbe non arrivare, per due motivi. In primo luogo, i fisici basano le loro scoperte sulla probabilità e giudicano affidabile un risultato quando la probabilità che sia dovuto al caso è inferiore a una su un milione. Il bosone di Higgs lascia una firma caratteristica negli apparati costruiti per captarne le tracce, ma occorre essere assolutamente certi di avere visto proprio lei, e non lo scarabocchio dovuto a un rumore di fondo. E questa certezza si può avere solo analizzando un enorme numero di dati. Non basta. La firma non deve solo essere chiara al di là di ogni minimo dubbio: deve essere anche esattamente come ci si aspetta. In caso contrario, bisognerà capire perché è diversa.
Insomma, è possibile che domani i ricercatori annuncino che è stata fatta una scoperta, ma che è ancora presto per affermare che si tratta proprio del bosone. Ciò vorrebbe dire che c’è sicuramente bisogno di nuovi dati, ma forse anche che l’Universo ha qualche grossa sorpresa da riservarci. Probabilmente al Cern avrebbero preferito avere ancora tempo a disposizione, ma ci sono degli appuntamenti che gli scienziati non possono mancare e a mettere fretta in questo caso è una grande conferenza che inizia in Australia domani stesso e da dove buona parte della comunità seguirà l’incontro di Ginevra in collegamento via web.

La Stampa 3.7.12
Intervista
“È l’anello che unifica le forze della natura”
di Valentina Arcovio


ROMA Il bosone di Higgs è una particella speciale, l’unica in grado di dare sostanza alla masse delle altre particelle». A parlare è Antonio Masiero, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che ci spiega quanto sarebbe importante la scoperta dell’esistenza, o della non esistenza, della cosiddetta particella di Dio.
Professore, perché tutti danno la caccia a questa particella?
«Perché non è come le altre che abbiamo già scoperto, tant’è che è stata soprannominata particella di Dio. Riteniamo infatti che il bosone di Higgs sia stato cruciale nella storia dell’Universo. Crediamo sia apparsa un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang e che ci sia dietro questo bosone alla massa delle particelle fondamentali».
Cosa significherebbe riuscire finalmente a provare la sua esistenza?
«Sarebbe un passo decisivo. E’ la scoperta dell’anello mancante della teoria del Modello Standard che unifica le forze fondamentali presenti in natura».
Sarebbe la scoperta del secolo?
«Possiamo paragonarla alle equazioni di Maxwell che hanno unificato le forze elettriche con quelle magnetiche».
E la scoperta della non esistenza del bosone di Higgs?
«La scoperta della sua non esistenza sarebbe ancora più sconvolgente. Sappiamo infatti che in natura opera il cosiddetto meccanismo di Higgs, responsabile della realizzazione delle simmetrie che regolano le interazioni fondamentali. Riteniamo che lo strumento attraverso cui opera questo meccanismo è il bosone di Higgs, ma se così non fosse dobbiamo allora cercare un’altra particella speciale».
Significherebbe ricominciare tutto da capo?
«No. Sarebbe l’inizio di una nuova fisica. Una vera e propria rivoluzione. I fisici sarebbero chiamati a fare nuove e interessanti ricerche e a creare nuovi modelli e nuove teorie».
Con la scoperta del bosone di Higgs, si chiuderebbe un capitolo della fisica?
«No. Piuttosto se ne aprirebbero di nuovi. La ricerca continuerebbe. Ci sono tantissimi altri interrogativi su cui indagare e studiare».
Peter Higgs è l’unica mente dietro alla teoria dell’esistenza del bosone di Higgs?
No. I suoi lavori sono stati sicuramente fondamentali, tant’è che questa particella ha preso il suo nome. Ma ci sono tanti fisici che hanno dato un contributo importante alla teoria. E molti di questi sono italiani».
Non ci resta che aspettare il seminario di domani?
«Sì. In quell’occasione verranno dette molte cose importanti».

Corriere 3.7.12
«Trovata la particella di Dio» Una caccia lunga mezzo secolo
Al Cern sono sicuri, domani l'annuncio
Nel team ci sono 600 fisici italiani che dirigono tre esperimenti su quattro
di Giovanni Caprara


Anche gli ultimi dubbi sembrano caduti e il bosone di Higgs si ritiene ormai catturato, anche grazie a una nutrita squadra di scienziati italiani. Al Cern di Ginevra domani i responsabili degli esperimenti Fabiola Gianotti di Atlas e Joe Incandela di CMS lo annunceranno ufficialmente, ma nei corridoi del centro di ricerche più importante al mondo per la fisica subnucleare è difficile trovare chi smentisce. Semmai ci sono dei distinguo, ma «la particella c'è».
Diventata più popolare come «particella di Dio» (dizione che gli scienziati non amano), per la sua caccia venne costruito il Large Hadron Collider, cioè il superacceleratore capace di far scontrare fra loro nuvole di miliardi di protoni con un'energia di 14 TeV. Mai si era arrivati a tanto, ma questo era l'obiettivo necessario per riuscire a riprodurre, nella lunga caverna sotterranea del laboratorio ginevrino sotto i monti Jura, le condizioni dell'universo una frazione di secondo dopo la sua nascita.
Una sfida notevole che impaurì, e qualcuno gridò al pericolo di creare un buco nero capace di distruggere la Terra quando la macchina veniva accesa nel settembre 2008. L'unico guaio lo subì lo stesso acceleratore nove giorni dopo per il difetto a una saldatura che fece letteralmente scoppiare un elemento superconduttore della macchina rimanendo bloccata un anno per essere riparata.
La riaccensione a passi graduali permetteva finalmente l'avvio delle ricerche a lungo sognate; da quando Peter Higgs immaginò l'esistenza del fatidico bosone per far quadrare i conti della teoria, il cosiddetto «Modello Standard», che spiegava l'architettura di base della natura.
Era il 1964 e la leggenda vuole che l'idea sia zampillata dalla mente dello scienziato mentre passeggiava tra le montagne scozzesi del Cairngorms. Era sempre stato un tipo riservato, ma già da studente al Kings College di Londra rivelava le sue capacità in fisica teorica.
«Mi impressionò un suo compito sulla meccanica quantistica svolto con una velocità incredibile» ricordava il suo compagno di banco Michael Fisher ora professore all'Università del Maryland (Usa). Tuttavia quando propose la sua teoria del bosone non era facilmente creduto. Dopo un primo lavoro introduttivo, il secondo gli veniva rifiutato dal giornale Physics Letters e solo qualche tempo accettato dalla Physical Review Letters.
Restava comunque lo spicchio conclusivo di una teoria e bisognava in qualche modo provarlo. Negli anni Ottanta si impegnavano sia gli scienziati americani che quelli europei immaginando ognuno una supermacchina. Gli Stati Uniti il «Super Superconducting Collider» (SSC) per il quale costruivano una grande galleria in Texas. Ma il costo salì troppo e quando arrivò Bill Clinton alla Casa Bianca cancellò il progetto. A Ginevra, invece, si proseguì mobilitando l'Europa e investendo 6 miliardi di euro. E adesso si è giunti alla meta provocando, in questo campo, un'inversione nella fuga dei cervelli perché dei seimila che lavorano con il superacceleratore mille sono americani.
L'Italia condivise subito l'impresa e ora seicento fisici dell'Istituto nazionale di fisica nucleare sono tra i protagonisti delle ricerche. Non solo. Tre dei quattro responsabili degli esperimenti sono fisici italiani; anzi, sino a qualche mese fa erano tutti e quattro. L'esperto che aveva guidato la costruzione dei magneti superconduttori di cui è formato l'anello di 27 chilometri era Lucio Rossi dell'Università di Milano. E sopra tutti c'è il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci; a dimostrazione del ruolo che la nostra scienza fisica mantiene a livello internazionale.
Prima di utilizzare l'Lhc al Cern si fecero delle indagini sul bosone anche con l'acceleratore LEP attraverso il quale Carlo Rubbia compì le sue scoperte che lo portarono al Nobel. Ma per arrivare all'obiettivo era lo stesso Rubbia a ipotizzare l'Lhc. Negli Stati Uniti si impegnavano con l'acceleratore Tevatron al Fermilab di Batavia (Chicago) entrato in funzione negli anni Ottanta, però la sua potenza era notevolmente inferiore alle necessità. Lo miglioravano per renderlo più competitivo e proprio ieri mattina diffondevano un comunicato per sottolineare che le loro indagini avevano portato «vicino alla scoperta». La gara rimase accesa negli ultimi anni finché nell'autunno scorso Tevatron veniva spento per limiti d'età e nella consapevolezza dell'impossibilità ad andare oltre.
Nel dicembre scorso Fabiola Gianotti di Atlas e Guido Tonelli, allora responsabile del CMS, annunciavano i primi risultati. Erano indizi, la prima impronta dell'esistenza del bosone. Ma i margini di errore erano ancora notevoli, occorrevano altri scontri fra le nuvole di protoni per costruire una maggiore certezza. Ora il momento fatidico sembra arrivato.
«I dati confermano la soglia dei 5 sigma, vale a dire una probabilità di scoperta pari al 99,99994 per cento» spiega Gian Francesco Giudice, teorico del Cern e autore di «Odissea nello zeptospazio, un viaggio nella fisica dell'Lhc» (Springer). «Anzi — continua Giudice — si sono intravisti effetti che farebbero pensare all'esistenza di altre particelle, dunque un ampliamento del disegno teorico fin qui immaginato. Per questo bisognerà indagare ulteriormente». Ciò si è ottenuto con il superacceleratore che funziona con un'energia di 7,2 TeV, quindi la metà delle sue possibilità. Quando sarà a pieno regime altri panorami della scienza si apriranno e non a torto molti sostengono di essere soltanto sulla soglia di una nuova Fisica. Come la storia della scienza insegna, per arrivare ai risultati occorrono idee, ma anche strumenti adeguati.
Domani ascolteremo l'identikit della scoperta dalle parole dei protagonisti, Fabiola Gianotti e Joe Incandela, che confronteranno i rispettivi dati ottenuti con i loro esperimenti. E questi forse non rallegreranno il grande cosmologo Stephen Hawking che aveva scommesso cento dollari sostenendo che la «particella di Dio» non esisteva. «C'è qualcosa di sbagliato» aveva detto dei calcoli di Higgs. Ma il tranquillo ottuagenario, schivo e sorpreso delle attenzioni dei colleghi, non replicò mai aspettando con pazienza le prove di Ginevra. Ora sono arrivate.

il Fatto 3.7.12
Punizione esemplare: chiuso l’ente che ha contribuito al film su Eluana
di Anna Maria Pasetti


L’accanimento continua post mortem. E la memoria di Eluana Englaro non trova pace nel circo decadente della politica dei partiti che perpetua a strumentalizzarne la vicenda altalenando attacchi a mea culpa sul film di Marco Bellocchio, che dai quei fatti ha solo tratto ispirazione. Stavolta il capro espiatorio è la Film Commission del Friuli Venezia Giulia, brutalmente smantellata dal Consiglio Regionale di presidenza Pdl per litanici “motivi di crisi e risparmio”. Certo, perché 270mila euro annui spesi per mantenere l’Ente operativa dal 2003 – che solo nel 2011 ha generato oltre 13milioni di euro d’indotto sul territorio dando lavoro a 241 figure professionali, senza parlare dell’eccellenza aggiunta all’immagine della Regione – sono parsi davvero insostenibili agli occhi di una Giunta in preda al delirio da rappresaglia. Il dichiarato risparmio traveste nella realtà un diktat “morale” contro il probabile “emendamento paracadute” oggi in delibera, che dovrebbe ripristinare i 330mi-la euro tagliati a inizio anno (e retroattivamente) dalla cattolicissima Lega con il sostegno di altre forze devote e “trasversali” ad alcune produzioni fra le quali tre film: The Best Offer di Giuseppe Tornatore (Paco Cinematografica), la fiction Rai Un caso di coscienza e Bella addormentata di Bellocchio (Cattleya), il vero bersaglio dell’azione. Vale la pena ricordare che quei fondi – afferenti al Film Fund di gestione della Film Commission oggi coi lucchetti – sono finora stati elargiti con un virtuoso meccanismo di attribuzione che esclude manipolazioni politiche. La vendetta è arrivata: rivolete i soldi per placare i produttori e (soprattutto) evitare di esasperare le già avvenute figuracce con l’opinione pubblica? Perfetto. Ma in cambio chiudiamo la FVG Film Commission trasferendo la gestione del Film Fund all’Ente Turismo FVG, cioè direttamente alla Regione.
IL GIOCO della casta è stato condotto da destra-centro-sinistra a mo’ di staffetta priva di innocenti ed anzi, satura di miopie rispetto al suo naturale effetto boomerang. “Il mantenimento della nostra Film Commission è il secondo meno caro tra quelle a base regionale”, spiega Federico Poilucci, presidente della FVG Film Commission. “Siamo stati i primi in Italia a dotarci di un vero e proprio fondo per il cinema sul territorio, facendo scuola alle altre Film Commission, che oggi in Italia sono 23, e mettendo in campo una pratica che si basava esclusivamente sulla contabilità estranea agli inciuci della politica”. Grazie a quel Film Fund sono stati chiusi i budget di film di ogni genere, d’autore o da botteghino: Come dio comanda di Salvatores , La ragazza del lago di Molaioli, La sconosciuta di Tornatore ma anche Amore, bugie e calcetto di Lucini. La punizione di chi ha voluto contribuire alla produzione di Bella addormentata di Marco Bellocchio si estenderà nel tempo all’intero sistema-cinema già zoppicante, a sintomo dell’ennesimo degrado di un Paese intrappolato e censorio.

il Fatto 3.7.12
Intervista a Marco Bellocchio
“Prigionieri dell’ideologia”
di AM Pasetti


Come ha preso questo nuovo capitolo d’accanimento che coinvolge Bella addormentata?
Non mi ha sconvolto, ma riguardando un film che ovviamente nessuno ha ancora visto, mi appare il gesto d’insipienza da parte di una classe politica giunta alla disperazione finale. Perché non dimentichiamoci che buona parte di essa tra non molto scomparirà o verrà fortemente ridimensionata. Punire una Film Commission solo per compiacere il consenso di un certo fronte cattolico mi sembra totalmente assurdo, perché alla fine questi politici dimostrano di disprezzare la gente e l’opinione pubblica. Spero soltanto che una nuova maggioranza si costituisca presto e si metta al lavoro.
Perché l’Italia sembra provare gusto a farsi del male con decisioni a evidente effetto boomerang?
Con il passare degli anni ho imparato a dare più peso al valore del “buon senso”. E il “buon senso” direbbe che questa cosa non ha senso.
Era consapevole delle polemiche che il tema del suo film conteneva in sé, ma immaginava si sarebbe arrivati a tanto?
I professionisti locali con cui ho lavorato sono stati molto tolleranti, non si sono mai verificati “incidenti” di percorso, neppure col sindaco che si è mostrato disponibile seppur prudente. Certo, i politici ci hanno negato i fondi e già quello non era un buon segno. Ma il vero problema è un altro, ovvero il tipo di approccio ideologico e non laico al film, qualcosa che ho già sperimentato con Buongiorno, notte, ad esempio.
In arrivo altri guai, dunque?
Ora non so cosa potrà ancora succedere, l’auspicio è che la gente andrà a vedere il film per quello che è, anche se conosco bene il meccanismo messo in campo davanti al cinema dal tema cosiddetto “delicato”. Come dicevo, con Buongiorno, notte certi “ideologhi” se ne sono infischiati dei pregi o limiti del film a vantaggio di una propria verità. Temo, anzi, sono certo, che questo accadrà anche con Bella addormentata. Fortunatamente, negli anni, alcuni hanno fatto retromarcia chiedendomi scusa “di aver preso un abbaglio”.
Il punto è che gli “abbagli” rischiano di perpetrare le ferite alla famiglia Englaro.
Peppino Englaro gode della mia massima stima, e so per certo che ormai non ha più bisogno di quel tipo di “sostegno”. Gli Englaro sanno perfettamente che il mio film sfiora solamente il dramma di Eluana, andando a generare storie inventate. Il rapporto con loro è sempre stato nutrito di estremo rispetto e profonda delicatezza.



lunedì 2 luglio 2012

l’Unità 2.7.12
Basta tagli alla Tremonti
I sindacati: basta accanirsi sul pubblico impiego
Pronti alla mobilitazione contro l’ennesima sforbiciata a organici e servizi. Oggi corteo a Napoli
di Giuseppe Vespo


In vista dell’incontro di domani sulla spending review e sui tagli agli statali, i confederali si ritrovano a Napoli per denunciare lo stato precario di salute dell’economia campana.
Siamo il «Sud nel Sud»,dice il segretario partenopeo della Cgil, Federico Libertino: «Viviamo una crisi senza precedenti, con numeri da brivido in termini di disoccupazione e cassa integrazione. La Campania ha bisogno di investimenti pubblici e privati».
Sul palco di piazza Matteotti, dove si fermerà la manifestazione partita da piazza Mancini, saliranno Camusso, Bonanni, Angeletti e Centrella, mentre lungo il corteo sono attesi il sindaco De Magistris e altri rappresentanti delle istituzioni. Il titolo della giornata è «La Campania e la crisi produttiva. Lavoro, equità, legalità», e per seguirla arriveranno a Napoli oltre trecento pullman dalle cinque province della regione.
Contemporaneamente, a Roma si terrà quello che Susanna Camusso ha definito «il gabinetto di guerra», riferendosi alla riunione dei ministri economici del governo Monti che dovranno discutere di spending review, tagli alla sanità e agli statali. Un pacchetto che dovrebbe permettere al governo di raggranellare fino a nove miliardi di euro e di evitare in questo modo l’aumento di due punti dell’Iva previsto per ottobre (a gennaio comunque l’imposta sui consumi salirà di un punto)
L’eventualità che il governo intervenga con nuovi tagli sul pubblico impiego mette in allarme i sindacati.
Raffaele Bonanni annuncia una mobilitazione immediata e «a tappeto» in caso di una sforbiciata all’organico e alle dotazioni degli statali. «Vogliamo collaborare alla condizione che sia tutto trasparente e che ci sia davvero l'occasione per dimagrire le troppe istituzioni e le troppe amministrazioni che fanno il bel pasto della politica», ha detto ieri. La Cisl, ha aggiunto, teme che alla riunione ci sarà «la solita storia dei tagli lineari senza senso»e per questo chiede un «piano industriale». «Dobbiamo vedere ha sostenuto ancora che missione si intende raggiungere».
I TAGLI DEL PASSATO
Il nodo sui tagli verrà sciolto all’incontro di domani, al quale prenderanno parte governo, sindacati e Regioni. Ma quella anticipata in questi giorni dai giornali, «sarebbe la quinta iniqua manovra contro i lavoratori del pubblico impiego», aggiungono dalla Cgil.
Il riferimento del sindacalista è alle finanziarie che dal 2008 si sono abbattute sugli statali. «Ha iniziato Tremonti ricorda Gentile - con il blocco del turnover (nuove assunzioni dopo i pensionamenti, ndr), le malattie e il salario accessorio. L’anno dopo è stata tolta ogni speranza di stabilizzazione ai precari, mentre nel 2010 è arrivato il blocco dei contratti da parte di Brunetta e l’anno scorso si è deciso di dilazionare nel tempo il Tfr e di cambiare le norme sulla mobilità obbligatoria per motivi finanziari».
La Cgil teme che il governo si presenti al confronto con un nuovo piano di tagli già definito.
Che anche stavolta, come è avvenuto per le pensioni non ci sia spazio per la trattativa con le parti sociali, alle quali verrebbe offerto un pacchetto «prendere o lasciare».
E a sondare gli umori di chi siederà domani a tavolo di palazzo Chigi, la preoccupazione ulteriore è che il pacchetto possa essere molto più corposo di quello anticipato dai quotidiani.
Cgil, Cisl, Uil e Ugl, vorrebbero avere invece la possibilità di contribuire con le loro proposte alla riorganizzazione del pubblico impiego e alla revisione della spesa (spending review).
Se ne avessero l’opportunità suggerirebbero di cominciare tagliando le consulenze affidate dalle diverse amministrazioni, per poi passare alla effettiva ripartizione delle competenze tra gli enti locali e lo Stato così come previsto dalla riforma del titolo Quinto della Costituzione.

Repubblica 2.7.12
Ora scatta l’allarme dei partiti sui tagli "Saremo noi a pagare in campagna elettorale"
l leader pd: Monti tratti con le parti sociali. Ma il premier tira dritto
di Francesco Bei e Alberto D’Argenio


Forse già giovedì il consiglio dei ministri per approvare i risparmi
Il presidente del consiglio parlerà con i segretari della maggioranza per spiegare le misure

ROMA - Pier Luigi Bersani, la scorsa settimana, lo ha detto chiaro e tondo a Monti. In colloquio riservato a palazzo Chigi Bersani ha piantato un paletto sulla spending review: «Presidente, ti sconsiglio di fare il Consiglio dei ministri lunedì. Non daresti il tempo ai sindacati di approfondire la materia. E se hai in mente tagli lineari, non concordati con le parti sociali, noi stavolta non ti possiamo coprire». Un analogo altolà è arrivato dal Pdl. Tanto che Fabrizio Cicchitto, premesso che «non sappiano nulla oltre quello che leggiamo sui giornali», mette in guardia il governo dal procedere con un colpo di mano: «Se pensano di arrivare in Parlamento con un pacchetto blindato e poi cavarsela con la fiducia, stavolta ballano davvero».
Il problema è che i partiti ormai sono in campagna elettorale. E la scure del governo sul Welfare, la Sanità e il pubblico impiego rischia di essere un costo troppo grande da pagare in vista del voto. Specie se sono vere le anticipazioni della vigilia. Oggi "Mr. Forbici", il consulente Enrico Bondi, consegnerà a Monti un pacchetto di tagli compreso tra i 9 e gli 11 miliardi. E l´obiettivo del premier, per coprire le spese del terremoto, gli esodati e, soprattutto, evitare l´aumento dell´Iva a ottobre, è di arrivare almeno a 9. Anche per costituire un margine di sicurezza nel caso i partiti e i sindacati si facessero troppo aggressivi nel percorso parlamentare dopo l´approvazione da parte del Consiglio dei ministri.
Nel governo c´è consapevolezza che «sarà dura», i partiti sono in tensione. E c´è anche fibrillazione nell´esecutivo con i ministri più colpiti - Salute, Esteri, Difesa, Giustizia - pronti ad alzare le barricate. Tanto che ieri, scherzando, a palazzo Chigi speravano nello stellone di Prandelli: «Se vince l´Italia per una settimana possiamo fare passare qualsiasi cosa». Quello che a molti nel governo non va giù è il fatto che la stretta finale venga decisa, come al solito, nelle chiuse stanze di via XX Settembre. Dal viceministro Vittorio Grilli e dal capo gabinetto dell´Economia, Vincenzo Fortunato. Lo ha confessato lo stesso Piero Giarda, autore di un corposo rapporto sulla spending review, a un capogruppo di maggioranza che nei giorni scorsi gli chiedeva qualche dettaglio sui tagli: «E lo chiedi a me? Noi ministri siamo ancora all´oscuro come voi».
Per superare le resistenze interne alla squadra di governo, oggi Monti ha convocato a palazzo Chigi una sorta di Consiglio dei ministri informale. Mentre domani ci sarà l´incontro decisivo, quello con i sindacati e gli imprenditori. Il premier ha deciso di tirare dritto, come sulla riforma delle pensioni: «Le parti sociali le informiamo, con loro non si tratta».
Quanto ai partiti, se sarà necessario Monti procederà a colloqui separati con i tre segretari di maggioranza. Un vertice "ABC" non è stato ancora fissato in agenda, ma giocoforza dall´entourage del premier ammettono che sarà necessario quantomeno informare i leader delle misure in arrivo. L´unico a sconsigliare Monti di procedere con queste consultazioni è stato Pier Ferdinando Casini. «Se ci convochi - è stato il "suggerimento" del leader centrista al premier - ciascuno di noi sarà obbligato a chiederti qualcosa. E non potremo uscirne a mani vuote. Meglio se il governo si prende la responsabilità di decidere». E comunque l´eventuale vertice di maggioranza verrebbe formalmente convocato per parlare del Consiglio europeo e della situazione economica alla luce dei risultati di Bruxelles. Poi ovviamente ci sarebbe il confronto sulla spending review.
Il Consiglio dei ministri per l´approvazione del decreto probabilmente sarà convocato giovedì, dopo che Monti avrà riferito in Parlamento sul summit Ue. Sempre che non slitti tutto alla prossima settimana. Il premier infatti ha fatto sapere di voler monitorare l´andamento dello spread che venerdì, sulla scia delle buone notizie arrivate da Bruxelles, si è abbassato di 50 punti. È chiaro che se dovesse confermarsi il trend positivo ci sarebbe un forte riverbero sugli interessi che l´Italia paga sul debito pubblico. Consentendo al governo di rivedere al ribasso l’importo dei tagli.
Ad ogni modo i ministri che lavorano sul dossier hanno già pronta la tattica per far approvare la manovra in tempi rapidi: «Minacceremo i parlamentari di lavorare tutto agosto, come si faceva ai tempi della Finanziaria. Alla fine il 22 dicembre veniva sempre chiusa per lo spauracchio degli onorevoli di perdersi le vacanze di Natale»

l’Unità 2.7.12
Intervista a Enrico Letta
«A Bruxelles c’è stato un chiaro avvicinamento tra il nostro premier e le tesi dei progressisti. Questo avrà conseguenze anche nel prossimo esecutivo»
«Il governo Bersani sarà in continuità con l’attuale»
«Un centrosinistra che abbia nel Pd il baricentro e che riconosca il ruolo di Casini e Vendola»
di Simone Collini


Del governo del dopo Monti Enrico Letta dice non solo che «avrà il Pd come perno» e Bersani come guida, ma anche che dovrà essere «in forte continuità» rispetto all’attuale esecutivo: «Continuità programmatica e anche di uomini», sottolinea il vicesegretario del Pd, facendo notare l’«avvicinamento tra Monti e le tesi dei progressisti europei» emerso in modo chiaro nel Consiglio europeo. Quanto alle forze che dovranno coalizzarsi, Letta insiste sul rapporto tra progressisti e moderati, apre a Vendola e chiude a Di Pietro: «Proprio in queste ore emerge in tutta chiarezza la contraddizione tra gli attacchi al Quirinale e il ruolo di Napolitano come massimo protagonista dell’Italia che vince a Bruxelles». Partiamo dalle conseguenze politiche del Consiglio europeo: nonostante le continue fibrillazioni del Pdl, il successo spazza via l’ipotesi di voto anticipato? «Il governo deve durare fino alla scadenza naturale della legislatura. Il dopo vertice è stato interpretato da tutti una sconfitta per il Pdl, che come testimoniano le parole sconnesse di Brunetta è ormai un’armata in rotta, e un successo per il Pd, che come dimostrano la serietà delle parole di Bersani e il fatto che nessuno nel partito le abbia messe in dubbio sarà il perno del prossimo governo».
Com’è da valutare il silenzio di Berlusconi?
«Berlusconi ha giocato un preciso ruolo in queste settimane, tentando di rientrare in gioco. E lo spauracchio di un suo possibile rientro ha terrorizzato i partner europei. Col vertice di Bruxelles Berlusconi, che si era messo in modo inquietante sulla scia di Grillo, è finito per sempre. Ora bisognerà vedere se ci sarà un’evoluzione verso un moderno centrodestra europeo, se Alfano saprà dare al suo partito un’impronta non antisistema».
Parlava di successo per il Pd, ma i risultati a Bruxelles li ha ottenuti Monti. «Intanto, le conseguenze politiche europee e italiane del vertice sono non solo molto significative e tutte a noi favorevoli sul lungo periodo, che è quel che ci interessa. È inoltre palese che c’è stato un avvicinamento tra le idee di Monti sul futuro dell’Ue e alcune idee forti dei progressisti europei. Decisivo è stato il rapporto Monti-Hollande. In più a Bruxelles è emersa in modo clamoroso la nostra bandiera, quella di Ciampi, di Prodi, quella che è stata la bandiera fondativa dell’Ulivo prima e del Pd poi. Una delle caratteristiche principali che differenzia noi dal resto del centrosinistra italiano è infatti che per noi l’interesse europeo vuol dire interesse italiano, e non c’è interesse italiano contrapposto o diverso dall’interesse europeista, che richiede un avanzamento dell’integrazione dell’Ue».
Anche se il rapporto con i partner europei, Germania in primis, non sempre ci ha fatto bene?
«L’Italia è un Paese dalla statualità debole, può vincere soltanto se c’è un’Europa forte e integrata. Con l’entrata in scena di Brasile, Cina, India è cambiato il peso specifico dei diversi Stati. E noi non abbiamo una dimensione tale da poter pensare che possiamo farcela da soli. Se oggi l’Italia è più forte è perché due italiani, Monti e Draghi, guidano i processi europei, attenti agli interessi comunitari e non a quelli di parte dell’Italia. Il successo di Monti è nato dal fatto che è stato visto al Consiglio europeo come una specie di surrogato di Barroso e Van Rompuy, non come il capo dell’Italia». Bastano le misure decise a Bruxelles ad uscire dalla crisi?
«Dalla crisi si esce con più Europa, mettendo insieme i debiti e facendo crescita. L’Ue ora può difendersi dalla speculazione facendo unione bancaria e dando alla Bce la vigilanza sulle banche, mentre con il meccanismo anti-spread comincia a mettere insieme il debito dell’Eurozona. Tutto questo è molto importante in vista del futuro ma non vuol dire, per quel che ci riguarda, che possiamo smettere di fare i compiti a casa. La forza di Monti è stata essere arrivato a Bruxelles avendo fatto i compiti a casa, a cominciare dalla riforma delle pensioni e quella del lavoro, avendo dimostrato ai tedeschi che abbiamo riforme rigorose quanto le loro, che non vogliamo chiedere a nessuno di pagare i nostri debiti». Parlava del ruolo decisivo che ha avuto il rapporto tra Monti e Hollande, leader socialista alla guida dell’Eliseo: a suo giudizio può significare qualcosa, guardando al futuro della politica italiana? «L’avvicinamento tra Monti e le tesi dei progressisti europei è segno che il governo che succederà a Monti sarà di centrosinistra, guidato dal segretario del Pd, e in forte continuità col governo Monti. Continuità programmatica e anche di uomini».
Come valuta il fatto che Casini abbia aperto all’ipotesi di una coalizione tra progressisti e moderati?
«Casini riconosce, pur venendo dalla famiglia europea in cui stanno anche Barroso e Berlusconi, che sono stati Monti e Hollande a guidare il processo e capisce che in Italia serve una cosa simile».
Con Vendola e senza Di Pietro, si sente dire nel Pd: perché?
«Il punto è che solo un processo riformatore può salvare l’Italia. Vendola in questi anni ha dimostrato di stare con i piedi dentro il disagio sociale del Paese e nello stesso tempo di essere capace di dare soluzioni di governo, guidando una regione importante come la Puglia. È quel che facciamo anche noi, anche Bersani in questi mesi è stato il paladino della fatica della società italiana mostrando un Pd capace di misurarsi con il governo dei processi in atto. Di Pietro a mio avviso non è invece in sintonia con questo tipo di obiettivo. Lo dimostra il suo approccio anti-istituzionale, aggressivo con il Capo dello Stato che è invece il vero architetto di questa operazione e in fondo è il vero vincitore del Consiglio europeo. È chiaro infatti che senza Napolitano non ci sarebbe stata l’Italia protagonista del Consiglio europeo».
A questo punto cosa deve fare il Pd?
«Costruire una proposta e mostrarla con chiarezza, lavorare a un centrosinistra che abbia nel Pd il baricentro, che riconosca in Casini e Vendola due protagonisti e che apra una fase costituente nella prossima legislatura. Ovviamente, questo deve passare attraverso una riforma della legge elettorale. Già entro questa settimana dobbiamo completare il successo di Bruxelles con un primo sì a un nuovo sistema di voto».
Pensa sia possibile? Dal Pdl arrivano segnali discordanti...
«È interesse di tutti andare alle prossime elezioni in una condizione di praticabilità di campo. Col Porcellum il campo sarebbe impraticabile e la prossima legislatura sarebbe disastrosa. Dobbiamo approvare in tempi rapidi una legge elettorale che garantisca stabilità al governo e ridia ai cittadini il diritto di scegliere i parlamentari».
Come pensate di trovare un accordo con l’Udc sui diritti civili: la discussione all’interno dello stesso Pd, ad esempio sulle unioni di fatto, non è facile...
«Il lavoro del comitato guidato da Rosy Bindi dimostra che su questi temi siamo molto più avanti di quanto si pensi. Oggi non siamo più nel 2007, una soluzione come i Dico passerebbe in modo molto più semplice nella società italiana. Ovviamente, a patto che nessuno usi questi argomenti per regolare conti di altro genere. E questo vale sia per i contrari che per i favorevoli».

Corriere 2.7.12
«Il Pd e Casini? Non capisco e non mi adeguo»
Vendola: «Distanza incolmabile se Bersani confermerà una strategia fatta di alleanze con Udc e Fini, e di continuità con Monti»
intervista di Alessandro Trocino


ROMA — A un'ora dalla finale, Nichi Vendola si può concedere «per la prima volta» il lusso di sentirsi «disinvoltamente patriottico, tifando una realtà che si fa beffe di un Paese miserabile, che fa fatica a smaltire le leggi razziste». I suoi due eroi sono Balotelli e Cassano. Inevitabile pensare alla nuova coppia Vendola-Di Pietro: «Se io sono Balotelli e Di Pietro è Cassano, non capisco D'Alema e Casini in che ruolo stiano. Per me stanno giocando una partita incomprensibile, che rischia di cantare il de profundis al centrosinistra».
Cominciamo da D'Alema. Nell'intervista al Corriere della Sera pone una domanda precisa: «Quali valori di sinistra vede Vendola in Di Pietro?».
«Domanda curiosa, se rivolta da chi in questi giorni vota assieme al Pdl lo sfregio dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, da chi si prepara a un'alleanza con Casini e Fini e prospetta un futuro non solo di continuità con Monti, ma che lo ingloba nell'orizzonte di governo. Sono allibito anche dall'entusiasmo quasi propagandistico di D'Alema per i presunti risultati di Bruxelles. Se Bersani dovesse confermare questo scenario strategico, la distanza tra il mio partito e il Pd diventerebbe incolmabile. Per ora, per fortuna, sono solo interviste».
Anche qualche elettore di sinistra, D'Alema a parte, si chiede che c'azzecca Di Pietro con la sinistra radicale. Lui si è sempre dichiarato liberale e l'Idv aderisce all'internazionale liberaldemocratica.
«Ma Casini è iscritto nel gruppo della Merkel, no? E allora? Io non ho guardato l'Europa per scegliere i miei alleati. Vorrei ricordare che con Idv e Pd abbiamo vinto le amministrative insieme».
Stupisce però la scelta di Di Pietro come alleato preferenziale. L'Idv che vota, assieme alla Lega, contro il decreto svuota carceri non è esattamente di sinistra.
«Se la domanda è se ci sono differenze politiche con Di Pietro, la risposta è: ovviamente sì. Mi fate queste domande proprio mentre il Pd vota vere e proprie controriforme, le riforme presidenziali, previdenziali e sul mercato del lavoro».
E i continui attacchi al Quirinale?
«Ho visto che gli auguri che ha fatto a Napolitano non hanno avuto grande successo sulla stampa. La verità è che c'è l'interesse a enfatizzare il discolo Di Pietro e offrirlo in un rito sacrificale per celebrare l'arrivo di Casini. E lo si fa proprio nel giorno in cui Sergio Marchionne, con un classismo irresponsabile, mostra totale insofferenza rispetto alle leggi e alla convivenza democratica».
Udc e Idv appaiono al momento antitetiche. Di Pietro spiega che «Casini è il carnefice del centrosinistra» e che dovrebbe essere accusato penalmente di concorso nel reato per essere stato alleato a lungo con Berlusconi.
«Ma è un'intervista vecchia. Questa contrapposizione è utile per costruire una coalizione neomoderata, sponsorizzata dai grandi gruppi editoriali. Alla quale noi ci dovremmo aggregare in maniera residuale e gregaria».
Il che non avverrà, pare di capire.
«Parafrasando il comico, non capisco e non mi adeguo. Vorrei solo essere ascoltato: mi sembra che chi ha un pensiero minimamente divergente non rischia l'olio di ricino, ma la quarantena mediatica e politica. Chiedo: c'è un centrosinistra? Quali sono i valori e i programmi? Io non ho pregiudiziali verso un allargamento: il centrosinistra discuta con i moderati. Ma neanche Di Pietro ne ha».
Le posizioni verso il governo Monti rendono inconciliabili voi e il Pd. Eppure è noto il sostegno all'esecutivo.
«Sì, ma stupisce il passaggio dal temporaneo all'eternità, l'eccezione che si fa norma, l'emergenza che diventa regime».
Se saltasse l'alleanza con il Pd, che farebbe Sel?
«Lavoreremmo per una coalizione di governo alternativa, che capovolga le politiche liberiste. C'è chi pensa che in Italia ci sia stata una lunga storia di buonismo sociale. Io dico, scherzando, che sono per un governo di buonismo sociale. Ma bisogna rendersi conto che il welfare è il veicolo fondamentale per portare il Paese fuori dalla crisi».

Repubblica 2.7.12
I dipietristi rispondono al leader centrista
Fioroni: l’ex pm è fuori dai nostri orizzonti, Vendola decida cosa fare
Il Pdl attacca Casini e il Pd: siete arroganti
I Democratici confermano il patto con l´Udc
di Silvio Buzzanca


Storace: "Abc sosterranno Monti dopo le elezioni. Abbiano il coraggio di annunciarlo"

ROMA - «Noi, talora anche autocriticamente, abbiamo sempre pensato che l´arroganza è una cattiva consigliera, ancor di più la sottovalutazione dell´avversario o della controparte che dir si voglia». Fabrizio Cicchitto non ha gradito l´intervista di Pier Ferdinando Casini a Repubblica, e quella di Massimo D´Alema al Corriere, sull´appoggio al governo Monti e le future alleanze. E così gli ricorda che i loro «sono prodotti assai sofisticati ed elaborati, anche se macchiati da qualche battuta sprezzante». Ma chiede il capogruppo del Pdl alla Camera: «Cosa succederebbe, se, magari senza preavviso, tutti i voti del Pdl diventassero di un bel rosso scarlatto». Cioè contrari al governo.
Secondo Cicchitto, Casini e D´Alema non hanno fatto un bel servizio a Monti. «Perché i problemi da affrontare sono ancora assai difficili e spinosi. Ciò diciamo al netto dei parziali risultati positivi di Bruxelles che richiedono riflessioni assai attente sulle loro luci, le loro ombre e i molti problemi lasciati aperti». All´attacco della coppia Udc-Pd va anche Daniele Capezzone. «Altri protagonisti della vita politica italiana puntano sui tatticismi e sul posizionamento verso il 2013, addirittura dedicandosi con anticipo a organigrammi e attribuzione di incarichi. Il Pdl farà bene ad avere un approccio più rivolto ai contenuti, ai temi veri, all´agenda dei cittadini», dice il portavoce del Pdl.
Le interviste suscitano consenso all´ipotetica futura alleanza. «Con Pd e Udc torniamo allo schema classico: il centro-sinistra all´italiana», commenta il centrista Enzo Carra. E Beppe Fioroni, ex ministro democratico aggiunge: «Di Pietro che cita l´articolo 110 del codice penale per Casini e i moderati merita una risposta netta: mai più con noi, non c´è possibilità e Vendola scelga».
Il dibattito nel Pd però è aperto. Vincenzo Vita, senatore democratico dice: «È evidente che Pd, Sel e Idv fanno parte di uno stesso universo. È per questo irragionevole supporre di rompere l´unità del nostro mondo per inventare una fusione a freddo con l´Udc». Replica immediata del senatore, compagno di partito, Lucio D´Ubaldo: «Il senatore Vita si aggrappa a un´illusione. Il rapporto con l´Udc va oltre le sigle».
Ma dall´Idv, arriva una chiusura su queste prospettive politiche. «Noi chiediamo una alleanza di centrosinistra programmatica. Se poi altri vorranno stare in laboratorio e costruire qualcosa di virtuale lo facciano pure, poi ci sono sempre gli elettori che decidono», dice Felice Belisario, capogruppo al Senato. E Francesco Storace, leader della Destra, stuzzica "ABC": «Dite che Monti è un presidente eccezionale, che ha successo, che governa bene. Lo sosterrete - lo si capisce - dopo le elezioni. Abbiate coraggio, annunciatelo agli elettori prima del voto, non nascondete le vostre intenzioni agli italiani».

l’Unità 2.7.12
Il vertice di Bruxelles porta consensi a Monti
Ora si attende meno rigore e più welfare
di Carlo Buttaroni


Il compromesso europeo ridà fiducia agli italiani

Questa volta la buona notizia che arriva dai mercati è che la politica può vincere la crisi. È solo l’inizio, un piccolo passo, ma i segnali sono evidenti. L’intesa del Consiglio europeo sul fondo per calmierare lo spread, infatti, ha avuto immediate ripercussioni positive: è sceso il differenziale tra i titoli italiani e quelli tedeschi e i mercati hanno ripreso fiducia, facendo registrare risultati positivi in quasi tutte le borse del mondo.
Il risultato del vertice rende politicamente più forte Barack Obama il quale, dopo aver incassato la sentenza della Corte suprema che rende esecutiva la riforma del sistema sanitario varato nel 2010, segna un altro punto a suo favore in vista delle prossime elezioni presidenziali. L’accordo raggiunto dai leader del vecchio continente, infatti, dà ragione alle pressioni del Presidente Usa rendendo, nelle previsioni, più forte e veloce la ripresa americana. Anche in questo caso, i segnali non si sono fatti attendere, visto che il tasso di cambio euro-dollaro è subito cresciuto di 2 punti base.
Ma a Bruxelles succede di più: la politica sembra disegnare nuovi equilibri. Terminata la “liason politica” Sarkozy-Merkel, a causa della mancata rielezione del primo, nuove e più ampie convergenze si stanno concretizzando e tra i promotori troviamo proprio l’Italia, la Spagna e la nuova Francia di Hollande.
Mario Monti è stato giustamente indicato come il protagonista del vertice. Aveva le idee chiare e ha posto fin da subito le condizioni che hanno evitato l’ennesima risposta palliativa alla crisi. Il premier italiano ha indubbiamente portato a casa i risultati che si era ripromesso e non è certo un caso che i mercati italiani siano stati quelli che hanno fatto registrare le performance migliori. Un indirizzo quello dato da Monti rispetto al quale Spagna e Francia non potevano che dare il loro avvallo. Ed è proprio il nuovo corso di Hollande a spingere gli eventi in questa direzione, gettando il seme di un’Europa meno tecnica e più politica.
È questa la vera grande svolta che arriva da Bruxelles: dopo averci spiegato che la politica deve guardare i mercati, abbiamo scoperto che i mercati guardano la politica. E che il corso degli eventi può essere governato, per portare a una soluzione per il bene dell’Europa nel suo complesso.
Il risultato del vertice di Bruxelles nasce però qualche mese fa, con l’elezione di Hollande. Le elezioni presidenziali avevano assunto un significato che andava oltre i confini della Francia nel momento in cui Francois Hollande aveva denunciato con forza i limiti, i ritardi e i problemi dell’Europa diretta dall’asse Merkel-Sarkozy. Da allora, lo scenario del confronto tra Sarkozy e il suo sfidante è stata l’Europa. O meglio, l’Europa politica. Per Francois Hollande, si può sconfiggere la crisi solo se la politica europea è in grado di agire sulla stabilità dell’Euro, ma non da sola, bensì intervenendo anche sulla qualità dello sviluppo, rimettendo in equilibrio crescita, solidarietà e coesione sociale. Per il Presidente francese, la linea del rigore fiscale e i tagli alla spesa pubblica in nome dell’equilibrio di bilancio sono inefficaci e rischiano di spingere l’Europa ancora più in recessione. Facendosi portatore di queste idee, Hollande ha vinto le elezioni e, fin dal primo giorno, ha fatto capire che la Francia avrebbe voltato pagina. Il vertice europeo è stata la prima occasione utile per imprimere questa svolta, cercando alleati nei Paesi più vicini dal punto di vista economico, Italia e Spagna appunto, e forzando la partita fino alla rottura dell’asse franco-tedesco.
Da Hollande è giunta anche la spinta ad andare oltre i risultati del vertice, con l’obiettivo di arrivare all’unione fiscale e a un ministero del Tesoro comune che emetta debito e lo mutualizzi, realizzando così una vera politica economica europea. Obiettivi che riecheggiano nelle parole del presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, quando dice che in due giorni sono state prese decisioni impensabili solo fino a pochi mesi fa. Italia, Spagna e Francia. Paesi, questi, che così raddoppiano il successo facendo oltretutto retrocedere la Germania dalla sua posizione iniziale rispetto alla possibilità di accesso al fondo di salvataggio, subordinato ai pareri della troika Ue-Bce-Fmi.
Finora erano i tecnici a decidere sugli aiuti da concedere a uno Stato in base alla sua “virtuosità” economica e alla capacità di rimborso. D’ora in poi non sarà più così e, dopo l’esperienza greca, la parola tornerà alla politica.
E questa è la vera buona notizia. Perché a rendere più acuta la crisi è stata proprio l’assenza di una politica europea che favorisse la crescita, l’occupazione e la lotta alle disparità.
In questa delicata partita di equilibri e visioni che si è aperta a Bruxelles, l’Italia era di mano. E Monti ha giocato bene le sue carte. Colpisce, semmai, che la partita più politica ha visto come protagonista italiano un “tecnico”, seppur di alto livello come Mario Monti. Il premier, tra l’altro, ha esibito un colpo di gran classe e di raffinata sapienza comunicativa e politica, dichiarando che l’Italia non intende comunque avvalersi dello scudo anti-spread, smorzando sul nascere qualsiasi accenno riguardante presunti interessi specifici e conseguenti conflitti d’interesse del Paese. Nello stile, la distanza con il suo predecessore non potrebbe essere più ampia. E forse è anche per questo che la maggioranza relativa degli italiani continua a esprimere un giudizio positivo sul governo Monti, anche se la fiducia è in calo rispetto ai primi mesi del suo insediamento a Palazzo Chigi.
Il vertice di Bruxelles segna comunque il primo passaggio di un percorso, dove la politica sembra essere tornata protagonista delle scelte e intenzionata a determinare gli indirizzi di politica economica. Una buona partenza che adesso, però, occorre riempire di contenuti e coerenza con quanto annunciato.
Secondo uno studio della Cgia, le sofferenze bancarie delle imprese italiane hanno superato quest’anno gli 82 miliardi di euro, le insolvenze sono aumentate dell’11,9%, mentre l’erogazione dei prestiti ha continuato a scendere (-1,7%). Sono invece aumentate le segnalazioni di sospetto riciclaggio, legate a operazioni d’intermediazione finanziaria (+243,6%). Sul fronte lavoro, l’Istat registra un tasso di disoccupazione pari al 10,2%, con un incremento del 2,2% su base annua e con punte del 37% tra i giovani. Tra i lavoratori dipendenti, intanto, il potere reale d’acquisto diminuisce e sempre più famiglie vengono trascinate sotto la soglia di povertà.
Ora, si possono avviare le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare o diminuire l’iva, immettere nuove tasse, ma fino a quando non si deciderà d’investire su uno sviluppo di qualità sarà difficile uscire dalla crisi. Serve un cambio di visione. E il coraggio di perseguire strade nuove perché l’asprezza della crisi merita risposte forti in termini di rilancio di politiche attive per il lavoro, di difesa e valorizzazione del patrimonio industriale, di rafforzamento del sistema di welfare. Se questa ricetta vale in Francia e sembra affermarsi anche in Europa, perché in Italia non dovrebbe avere effetto?
C’è bisogno di ridare fiducia alle imprese attraverso investimenti che consentano di produrre meglio. C’è bisogno di “piani casa” che puntino a recuperare, costruendo sul costruito, anziché realizzare edifici ex novo. C’è bisogno di più infrastrutture sociali, più scuole, più trasporti pubblici e di ridisegnare un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. Questa sembra la strada tracciata in Europa dopo le elezioni francesi. Al successo del nuovo corso europeo ha contribuito, in maniera decisiva, anche l’Italia. Ora c’è da attendersi che anche nel nostro Paese siano introdotte quelle novità che sembrano annunciarsi nella nuova Europa nata da Bruxelles. Grosso modo, l’auspicio dello stesso Monti dopo il vertice europeo. Speriamo sia così perché, oltre l’Europa, ne uscirebbe rafforzata anche l’Italia.

Repubblica 2.7.12
L’ad Fiat elogia Monti: l’accordo di Bruxelles è stato fatto per il bene di tutti i Paesi
Marchionne: capolavoro del premier ha evitato il disastro in Europa
Iveco chiude 5 stabilimenti, a rischio 1100 posti di lavoro
di Paolo Griseri


TORINO - Mario Monti «ha fatto un capolavoro che può davvero cambiare lo scenario in Europa». Sergio Marchionne, ultimamente molto pessimista sulle prospettive del vecchio continente, sembra dare molto credito alle possibilità aperte dall´accordo di Bruxelles: «Con quella intesa abbiamo trovato la struttura necessaria a uscire dalla crisi», dice l´ad della Fiat a margine della presentazione del nuovo Stralis della Iveco.Non è al prima volta che il manager di Torino mostra di apprezzare la linea del governo tecnico. In questa occasione però è andato oltre: «Monti non è stato bravo, di più. Eravamo andati vicini a una situazione molto complicata. Non ce ne rendevamo conto o non volevamo rendercene conto, ma certo questo accordo è un fatto molto, molto positivo che fuga molte nubi. Credo che non abbiamo mai avuto in Italia qualcuno in grado di fare una cosa del genere». Troppo difficile resistere alla tentazione di spingere l´ad di Torino ad attaccare il governo di Berlino. Dai tempi della fallita scalata alla Opel, Marchionne è piuttosto avaro di giudizi positivi nei confronti dei tedeschi. Dunque Monti ha sconfitto la Merkel? Il manager dribbla l´insidia: «Sarebbe profondamente sbagliato metterla sul piano del tifo come se si trattasse di una partita di calcio. Abbiamo trovato un accordo che va bene per tutta l´Europa e che rispetta tutti. Metterla in termini di vincitori e vinti significherebbe entrare in una mentalità dannosa che potrebbe provocare reazioni pericolose».
In ogni caso l´accordo «dovrebbe consentire di investire con maggiore tranquillità in Europa». Parole importanti dette da un manager che fino a pochi giorni fa annunciava il taglio di 500 milioni di investimenti in Italia nel 2012 proprio a causa delle incertezze della zona euro. Gli effetti dell´intesa si faranno sentire comunque a medio termine. Nell´immediato l´ad della Fiat prevede ancora un anno difficile. «Per quanto riguarda il mercato dell´auto in Italia, il mese di giugno chiuderà con una diminuzione inferiore al venti per cento e superiore al dieci mentre per il 2012 la previsione è confermata a 1,4 milioni di pezzi». Un livello decisamente basso. Non migliori sono le prospettive del mercato dei camion. In occasione dell´ultimo modello dell´Iveco l´ad di Fiat industrial, Alfredo Altavilla ha confermato «il taglio di 5 stabilimenti entro l´anno in Germania, Austria e in Francia». Complessivamente verranno tagliati oltre mille posti di lavoro.
Al termine della conferenza stampa Marchionne ha assistito alla partita della nazionale durante la cena con i giornalisti. Trattenuta a stento la gioia della folta delegazione spagnola: il nuovo camion presentato ieri si produce infatti in uno stabilimento vicino a Madrid. Nella serata Marchionne ha parlato a lungo con Alberto Bombassei, titolare della Brembo e candidato della Fiat alla guida di Confindustria anche dopo l´uscita del Lingotto dall´organizzazione degli imprenditori italiani.

Repubblica 2.7.12
L’intesa Ue alla prova dei mercati
"Siete sempre il malato d’Europa" Usa scettici sulla rinascita italiana
Washington Post:"Produttività, evasione e corruzione i mali storici"
di Federico Rampini


"È un problema culturale: le parti peggiori dominano sulle aziende innovative"
Dalla nascita della moneta unica i tedeschi ci hanno sottratto quote nell´export globale

È l´Italia la grande malata dell´euro. Non basta un vertice europeo per curare il suo problema numero uno: un prolungato crollo di competitività verso la Germania. L´allarme viene dal Washington Post, e accentua lo scetticismo americano sugli esiti del summit di Bruxelles. Scudo anti-spread, aiuti alle banche spagnole non possono sanare gli squilibri strutturali. Il più grave è il "male italiano". A questo tema il quotidiano della capitale Usa dedica l´intera sezione economica con un titolo-shock: "It´s the culture, stupido". Rievoca il celebre slogan della campagna elettorale di Bill Clinton contro George Bush padre, la frase "It´s the economy, stupid" che invitava a concentrarsi sull´unico tema davvero decisivo.
In questo caso, il «modello culturale» italiano per il Washington Post è segnato dall´evasione fiscale record, la mancanza di spirito civico, il nepotismo che esclude la meritocrazia. Un insieme di "disvalori" che a loro volto sono alimentati dall´inefficienza dello Stato, la corruzione, il collasso della giustizia. Con quali conseguenze sulla produttività complessiva del paese? «L´Italia soffre per una crisi di produttività endemica - scrive il Washington Post - , il problema dura da così tanto tempo e ha effetti così profondi sull´economia, che mette in pericolo l´intero tessuto della vita nazionale». Le inefficienze di sistema sono esemplificate da un paradosso: gli italiani che hanno un posto, in media lavorano più di tutti i loro concorrenti: 1.744 ore all´anno contro le 1.705 degli americani, 1.480 in Francia, 1.411 in Germania. Ma la produttività reale di questo lavoro è rovesciata. Campioni mondiali di produttività sono gli Stati Uniti con 60,9 dollari all´ora, seguono Germania e Francia sopra quota 55, poi la Svezia a 52 e l´Inghilterra a 47,8. L´Italia è in fondo alla classifica, con 45 dollari di Pil per ogni ora lavorata. «E da anni l´Italia continua a perdere terreno. Le zone improduttive della sua economia si espandono, prevalgono sulle parti migliori». Questo spiega il dato più allarmante: dall´introduzione della moneta unica ad oggi, abbiamo perso il 30% di produttività nei confronti della Germania.
Visto dagli Stati Uniti, questo è il vero punto debole di tutta la costruzione europea. L´attenzione di recente si è concentrata su altri aspetti: sfiducia dei mercati, aumento degli spread. Le soluzioni adottate venerdì a Bruxelles hanno dato una risposta ad alcuni di quei problemi, con la promessa di interventi del fondo salva-Stati per acquistare bond spagnoli o italiani e mettere un tetto allo spread; nonché con l´impegno a ricapitalizzare direttamente le banche spagnole senza gravare sul debito pubblico di Madrid. Gli stessi osservatori americani sono rimasti positivamente sorpresi dal "decisionismo" del summit e ne hanno attribuito il merito in gran parte a Mario Monti. Ora però dagli Stati Uniti l´attenzione torna a concentrarsi sui "fondamentali". I saldi finanziari sono solo la spia e la risultante finale di problemi strutturali più profondi come l´inefficienza dello Stato. Se non si risolvono le cause, curare gli effetti e cioè i soli saldi finanziari non basta. Per gli americani «la madre di tutti gli squilibri» è proprio il divario di competitività illustrato dal Washington Post. Come possono convivere usando la stessa moneta, due nazioni tra le quali si scava un fosso così profondo di produttività? Se l´Italia ha perso la possibilità di svalutare, la Germania continuerà a sottrarci quote di mercati esteri, quindi la nostra industria e la nostra occupazione sono destinate a rattrappirsi ulteriormente. Con un ulteriore effetto perverso: crescerà ancora il peso dei settori improduttivi, la palla al piede dell´economia italiana. Gli Stati Uniti, avendo mercato unico e moneta unica da oltre due secoli, nonché un solo mercato del lavoro e un sistema politico anch´esso unificato, conoscono le dure regole dell´integrazione. Se la Louisiana non regge la crescita della produttività della California, non può svalutare un "dollaro della Louisiana". Perciò l´aggiustamento avviene in due forme: o la manodopera emigra in massa verso la California, oppure i salari crollano in Louisiana e la produttività sale, fino ad attirare investimenti che fanno risalire la competitività e il Pil locale. Più spesso accade un mix di queste due cose. Naturalmente c´è l´unione bancaria (una banca locale non teme un assalto agli sportelli: è assicurata da Washington) e c´è la solidarietà fiscale che trasferisce un minimo di aiuti dal centro alle periferie povere. Nulla funzionerebbe però senza una flessibilità interna che consente alla Louisiana di non essere eternamente una palla al piede della California. Sono questi meccanismi che appaiono inesistenti in Europa, e rendono meno assurda la resistenza di Angela Merkel, quando gli americani si calano nei suoi panni. L´assenza di questi ingredienti di base, resta agli occhi degli americani una debolezza che inficia la costruzione della moneta unica. Di qui lo scetticismo che si mescola al giudizio positivo sul summit di venerdì. Lo scudo anti-spread può dare un sollievo al Tesoro italiano, riducendo il costo del suo rifinanziamento. Ma se l´economia italiana non innesca un boom di produttività, come può essere sostenibile la sua permanenza nell´euro? Il Washington Post avverte che «l´Italia resta il numero due nella produzione industriale europea, grazie a migliaia di imprese efficienti e innovative; alcune delle sue regioni non temono confronti con Germania e Francia», e tuttavia le aree di eccellenza «sono troppo poche, su di esse gravano una cultura imprenditoriale arretrata e i costi delle inefficienze di sistema». Per cui sta diventando insopportabile «il fardello di quelle regioni e settori che sono al livello di Grecia e Portogallo».

Repubblica 2.7.12
E Bertone sbottò: mi dimetto. Il Papa: ora no
Vaticano, la mossa del segretario di Stato. Che però potrebbe restare fino al 2013, in attesa delle elezioni
di Marco Ansaldo


Per settimane, tra corvi e veleni, è rimasto sulla graticola. Poi l´incontro col pontefice. E la riconferma a tempo

«Santità, se le cose stanno così, allora mi tiro indietro». «No, non è il caso, né il momento. Tu resti lì». L´ufficio del Papa, dentro il Palazzo apostolico. Una decina di giorni fa. Uno davanti all´altro, con un tavolo fra loro, siedono Benedetto XVI e il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. È la settimana che prelude alla fine di giugno.
Sono i giorni più difficili per il cardinale piemontese. Bertone è appena tornato da una visita di cinque giorni in Polonia. Ma la bufera per il caso Vatileaks, i documenti diffusi sui media che rivelano una situazione di sofferenza all´interno del Vaticano, lo travolge. Il braccio destro del Pontefice lotta e decide di rilasciare al settimanale Famiglia Cristiana un´intervista in cui si difende e ribalta le accuse: «Io sono al centro della mischia. C´è chi vuole dividere il Papa dai cardinali». Ma i giornali, tutti i più importanti quotidiani italiani, lo danno per uscente e scrivono: «L´addio di Bertone è vicino». Il toto-successore impazza.
È qui che il segretario di Stato vaticano, furente in volto, sale a parlare da Joseph Ratzinger, per capire se i suoi giorni come numero due della Santa Sede siano a una svolta. Bertone compie la sua mossa quasi in modo provocatorio, sapendo che il pontefice non può accettare. E Benedetto, che gli vuole bene e lo ha come collaboratore da tanti anni, fin dai tempi in cui dirigeva l´ex Sant´Uffizio, decide di non sacrificarlo. Almeno, non per ora.
L´offerta delle dimissioni di Bertone al Papa è un copione già visto. Era accaduto anche a fine maggio, quando il ciclone dei Vatileaks aveva portato, in un corto circuito improvviso, prima al siluramento del presidente dello Ior, il professor Ettore Gotti Tedeschi, e il giorno dopo all´arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, accusato di essere il Corvo, cioè uno dei diffusori delle lettere. E il segretario di Stato, criticato in molte delle missive per la sua gestione di governo, aveva accarezzato l´idea di lasciare. Con Benedetto che però gli aveva fatto capire che non se ne parlava nemmeno. Lo stesso passo, in via formale, il cardinale lo aveva compiuto nel 2010, al compimento dei 75 anni, rimettendo il suo mandato nelle mani di Ratzinger, il quale lo aveva invece riconfermato, scrivendogli una lettera affettuosa che l´Osservatore Romano aveva poi riprodotto.
Eppure, l´ultima mossa del segretario di Stato appare in qualche modo strumentale. Il Papa non ha accettato, perché non vuole certo cambiare ora, sotto l´urto dei media. Significherebbe non solo piegarsi ai desideri dei Corvi che pressano il Vaticano, ma compiere un passo dirompente di fronte all´opinione pubblica internazionale. E tuttavia Ratzinger nelle sue certezze è scosso soprattutto da due fatti. La forte reazione degli arcivescovi stranieri (nei giorni scorsi confluiti a Roma per ricevere il pallio, la stola vescovile) contro il Segretario di Stato italiano. E la consultazione avvenuta nell´Appartamento papale sabato 23 giugno fra il Pontefice e cinque cardinali da lui considerati saggi: Ruini, Ouellet, Tauran, Tomko e Pell. Quest´ultimo soprattutto, eminenza australiana di riconosciuta esperienza, è stato inesorabile sulla necessità di un cambio di mano.
Benedetto ha però deciso di blindare Bertone. C´è, per il segretario di Stato, ancora lo spazio per una proroga. Terminato il colloquio con il Papa, infatti, il cardinale sostiene di poter rimanere anche nel 2013. E un motivo in effetti ci sarebbe: le elezioni italiane. Difficilmente la Santa Sede va a sostituire il segretario di Stato prima di conoscere il risultato del voto. E, a quel punto, la scelta potrebbe tener conto di chi ha vinto, e diventare così definitiva.

Repubblica 2.7.12
Parlano tutti la stessa lingua
Pronto l’avvicendamento Levada-Müller alla guida della Congregazione per la dottrina della fede
Torna un tedesco al Sant´Uffizio. Ratzinger promuove un fedelissimo


Un dicastero cruciale: Benedetto lo ha retto per 24 anni prima di succedere a Wojtyla
Settimana decisiva per la Santa Sede: mercoledì l´esame Ue sulle norme antiriciclaggio

CITTÀ DEL VATICANO - Tutto è pronto in Vaticano per la nomina da parte del Papa del tedesco Gerhard Ludwig Müller, arcivescovo di Ratisbona, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Cioè l´ex Sant´Uffizio, per ben 24 anni il dicastero retto dal cardinale Joseph Ratzinger, lasciato al momento della sua elezione al Soglio pontificio all´americano William Joseph Levada.
Una mossa che all´interno della Curia rivela molti significati: quello di riportare un tedesco al centro dello snodo fondamentale per il rispetto della dottrina, e quello di rinserrare le fila dei connazionali attorno al Papa, in un momento di difficoltà per il caso Vatileaks (L´Osservatore Romano titolava ieri a tutta pagina "Il dramma e la forza del Papato", mentre il suo direttore Giovanni Maria Vian ricordava in un editoriale siglato le accorate parole di Ratzinger cardinale sulla «sporcizia nella Chiesa»).
Müller è un fedelissimo di Benedetto XVI. Non solo ha preparato la sua visita a Ratisbona nel 2006 e in Germania lo scorso anno, ma è il curatore dell´Opera omnia del Pontefice teologo. E con lui diventano adesso molti i porporati di lingua tedesca che costituiscono la quinta colonna del Papa bavarese, in Curia e all´esterno. Perché oltre ai germanici Reinhard Marx (arcivescovo di Monaco, dunque anch´egli successore di Ratzinger in quella diocesi, e attuale presidente della Conferenza episcopale tedesca), all´anziano cardinale e storico Walter Brandmüller, al quasi imberbe porporato di Berlino (la più giovane eminenza attuale, con "soli" 55 anni) Rainer Maria Wölki, si aggiungono due grossi calibri: l´austriaco Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e lo svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l´Unità dei cristiani, in Vaticano confidenzialmente soprannominato «il cardinale con la doppia kappa». Senza contare l´influenza forte di uno dei migliori cervelli, ora in pensione ma sempre attivissimo, il porporato Walter Kasper.
Oggi si apre una settimana decisiva per la Santa Sede. Mercoledì si terrà l´esame dei valutatori europei sulle nuove norme anti-riciclaggio e per la trasparenza finanziaria. A Strasburgo l´organismo Moneyval, il comitato del Consiglio d´Europa incaricato di valutare i sistemi contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, esaminerà il dossier vaticano per giudicare l´adeguamento delle strutture finanziarie della Santa Sede agli standard internazionali. Un test delicato e molto atteso, e sul quale si prevede un giudizio tra luci e ombre ma non complessivamente negativo. Secondo indiscrezioni, gli esperti europei nella loro relazione avrebbero espresso una valutazione di «non conformità» o «parziale conformità» solo su 8 delle 49 «raccomandazioni» in tema di anti-riciclaggio. Dunque: non arrivando a 10 esiti negativi, il Vaticano, salvo modifiche dell´ultima ora, potrebbe essere promosso, o comunque non bocciato. Sarebbe il primo passo per l´ingresso nella "white list" dei Paesi virtuosi dell´Ocse.
(m. ans.)

La Stampa 2.7.12
Il paese delle donne che fanno paura alle cosche
Monasterace, dopo il sindaco nel mirino una consigliera
di Giulia Veltri


La lotta alla criminalità organizzata in Calabria cammina sempre più spesso sulle gambe delle donne. Amministratrici in prima linea, le prime a pagare sulla propria pelle la violenza e le prove di forza messe in atto da mani criminali.
E’ accaduto, ad esempio, a Clelia Raspa, una signora che nella vita fa il medico all’Asp di Locri ed è anche capogruppo di maggioranza al Comune di Monasterace, piccolo paesino sulla statale ionica in provincia di Reggio Calabria. Schierata, Clelia Raspa, a fianco di un’altra amministratrice donna, il sindaco Maria Carmela Lanzetta, che si era dimessa a marzo, proprio a seguito di una serie di intimidazioni, per poi decidere di rimanere in carica.
All’alba di sabato, la parte posteriore dell’Alfa Romeo Mito del capogruppo non c’era più, risucchiata dalle fiamme appiccate da qualcuno che è arrivato a pochi metri dall’abitazione della donna, ha appiccato il fuoco e se ne è andato indisturbato.
E così torna la paura nel paese in cui si sono precipitati qualche mese fa, subito dopo le dimissioni del sindaco Lanzetta, il ministro dell’Interno Cancellieri e il segretario nazionale del Pd Bersani. Anche sull’onda di questa catena di solidarietà e di vicinanza istituzionale, a marzo, la Lanzetta ha deciso di ritornare in sella al Comune. E da allora, suo malgrado, è diventata un simbolo dell’impegno civile in terre di illegalità. Le hanno distrutto la farmacia di famiglia e la sua auto è stata tempestata di proiettili e ieri ha trascorso tutta la giornata accanto all’amica e sostenitrice politica.
Nessun dubbio sul fatto che il destinatario finale dell’intimidazione fatta al capogruppo sia il sindaco: «E’ un regalo che hanno fatto a me – dice la Lanzetta – domani (oggi per chi legge, ndr) è una giornata speciale per il paese, perché ospitiamo Salvatore Settis (storico calabrese e direttore della Scuola Normale di Pisa) per la prestazione nazionale dei quaderni della Normale, dedicati per la prima volta agli scavi archeologici di Monasterace. Mi hanno voluto fare male un’altra volta – confessa lei che oggi vive sotto scorta – ma io provo ad andare avanti, finché posso, finché ce la faccio».
E’ difficile? «Sì certo che è difficile – risponde il sindaco – abbiamo avviato una serie di progetti con il ministero dell’Interno ma è il giorno dopo giorno che tempra e richiede tanto impegno. Le stanno provando tutte per convincermi a mollare».
In prima linea, le più esposte ma non sole in una quotidiana azione di resistenza alla criminalità organizzata. Non solo il caso Monasterace racconta di una Calabria di donne e amministratici che per muoversi nel solco della legalità e del buon esempio, convivono con auto bruciate, lettere intimidatorie, messaggi di morte. Da Monasterace a Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro – sempre in provincia di Reggio Calabria - dove comandano i Pesce e i Bellocco, e qui nel 2010 è scoppiata la rivolta degli immigrati costretti a vivere in capannoni distrutti.
Proprio nel 2010, qualche mese dopo gli scontri, è stata eletta Elisabetta Tripodi a capo di un’amministrazione di centrosinistra, che con il Comune si è costituita in tutti i processi di mafia e riceve continuamente lettere di minaccia.
A Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, un’altra storia di donne coraggio, con Carolina Girasole, biologa e sindaco dal 2008. Qui dove comandano gli Arena, le hanno provate un po’ tutte per convincerla a lasciare il municipio. Auto incendiate, portoni degli uffici sfondati, luoghi privati ripetutamente violati. Carolina resta al suo posto e insieme ad Elisabetta, Maria Carmela e altre ostinate e orgogliose amministratrici gira la Calabria e non solo, parlando di resistenza alle inciviltà, di buon esempio nell’agire pubblico, di determinazione e passione.

La Stampa 2.7.12
Marco De Paolis, procuratore militare
“La mia guerra solitaria per mandare in galera i criminali nazisti”
Il capo della procura militare si racconta in un libro: “Al ministero della Giustizia fascicoli fermi dal 2008”
di Niccolò Zancan


3555 vittime italiane. Le stragi nazifasciste in Italia hanno fatto oltre 3500 vittime, ma per lunghi anni quasi 700 fascicoli giudiziari sono rimasti chiusi negli armadi. Il procuratore De Paolis racconta la vicenda nel suo libro «La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia»
500 le inchieste. In dodici anni di attività la procura militare di Roma ha aperto oltre 500 fascicoli d’inchiesta; sono stati celebrati 15 processi (altri 3 sono in corso); 75 persone sono state rinviate a giudizio e 55 sono stati condannati all’ergastolo (molti indagati nel frattempo sono morti)"

Da piccolo sognava il mare. Da ragazzo voleva fare il magistrato. È diventato l’ultimo cacciatore di nazisti. Marco De Paolis, capo della procura militare di Roma, è l’investigatore che ha messo in piedi la Norimberga italiana, anche se forse in pochi se ne sono accorti. Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fucecchio, San Terenzo, le stragi della Romagna, La Certosa di Farneta e Falzano di Cortona: una geografia di sangue. Ha incontrato scampati e parenti, ha interrogato soldati delle SS di allora. Ha cercato di dare giustizia a 3555 vittime innocenti. In questi giorni sta girando il Paese per presentare il libro «La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia». Dopo dodici anni immerso nelle nostre memorie più tragiche, è tempo di bilanci.
Procuratore, può riassumere il suo lavoro con qualche numero?
«Abbiamo aperto oltre 500 fascicoli d’inchiesta. Sono stati celebrati quindici processi, altri tre sono in corso. Abbiamo rinviato a giudizio 75 persone e ottenuto 55 condanne all’ergastolo, anche perché molti indagati nel frattempo sono morti».
Come spiegherebbe a un ragazzo di 18 anni il famigerato armadio della vergogna: 695 fascicoli grondanti crimini nazisti nascosti e mai perseguiti fino al 1994?
«Con la “ragion di Stato”, purtroppo. Cioè con valutazioni di carattere politico che si sovrappongono alle esigenze di giustizia, in alcuni casi fino a cancellarle».
Lei dov’era quando qualcuno, finalmente, aprì quell’armadio?
«Facevo il gip al tribunale militare di La Spezia. Sono incominciati ad arrivare i fascicoli. Ne ho fatti archiviare un centinaio. Ma nel 2000, quando sono diventato procuratore, li ho riletti da un altro punto di vista. Molti processi andavano istruiti».
Cosa prova a rievocare in aula rastrellamenti, fucilazioni, bambini ammazzati a sangue freddo?
«È molto duro, complicato. Ma c’è anche un fortissimo riscatto morale. Anche se ci siamo arrivati tardi, ci sono centinaia di famiglie che sperano e ci sostengono, non chiedono vendetta ma giustizia».
Lei ha interrogato molti ex appartenenti alle SS. Cosa ha trovato in fondo ai loro occhi?
«Spesso un’estrema freddezza. Nessun desiderio di alleggerire la coscienza. Sono persone che continuano ad essere legate a quella ideologia, nazisti nell’animo. A molti di loro i processi sono serviti per dimostrarsi ancora “fedeli”».
Chi, per esempio?
«Gerhard Sommer, uno dei condannati di Sant’Anna di Stazzema. Oppure il sergente Helmut Wulf, condannato per l’eccidio di Marzabotto».
Nessuno dei condannati è in carcere. Come giudica il comportamento della Germania che respinge sempre al mittente i vostri mandati d’arresto?
«Non so spiegarmi questo atteggiamento. Se non con la paura di essere coinvolta direttamente e magari vedere pregiudicata la propria immagine. L’esecuzione delle pene renderebbe più evidente il coinvolgimento dello Stato tedesco nei crimini di guerra».
Formalmente come avviene questa risposta?
«Ci sono stati due momenti distinti. Il primo, quando abbiamo emesso venticinque mandati d’arresto. Le procure tedesche ci hanno richiesto delle precisazioni con un atteggiamento estremamente formale. Poi ci hanno risposto che gli arresti erano incompatibili con il loro ordinamento»..
Era la guerra, dicono. E la guerra è passata. Una storia chiusa.
«Sì, dicono così, con molte perifrasi».
Qual è il secondo momento?
«È stata prospettata la possibilità di chiedere l’esecuzione della pena in Germania, quindi abbiamo avviato la procedura. Prevede una valutazione di carattere politico da parte del ministro della Giustizia italiano. Che a sua volta, in caso di parere positivo, dovrebbe chiedere all’omologo tedesco di eseguire la pena in Germania».
A che punto siamo?
«Abbiamo inviato le prime richieste nel 2008 e poi a seguire... Saputo più nulla».
A parti invertite, come crede che si comporterebbe l’Italia?
«I mandati d’arresto europei noi li eseguiamo».
Ha mai la sensazione di essere un cacciatore di fantasmi?
«Al contrario. Andando a fondo in queste storie, per quanto siano lontane nel tempo, si capisce che sono molto reali. Storie di carne e ossa».
Il caporale Alfred Störk, unico responsabile ancora in vita della strage di Cefalonia, daleiaccusatodellafucilazione di almeno 117 ufficiali italiani, ha dichiarato: «Non avrei dovuto sparare. Ma adesso il procuratore De Paolis mi lasci in pace». Cosa gli risponde?
«Che non dovrebbe dirlo a me, ma agli orfani dei caduti. E forse non avrebbe il coraggio di dirglielo in faccia».
Crede che si chiuderanno mai i conti con la Storia?
«Non credo si possano saldare. Noi non siamo capaci di fare giustizia neanche nelle piccole cose, figuriamoci... Mi sento sempre molto inadeguato a esercitare il mio ruolo... ».
Tralasciando il mero piano giuridico?
«Forse. Se un popolo avesse la possibilità di riflettere e maturare, fino a compiere certi percorsi sulla pace e sui valori fondanti, allora il discorso potrebbe cambiare».
E invece?
«Credo che in questi ultimi dieci anni in Italia non ci sia stata un’attenzione adeguata all’importanza dei valori in gioco. Eppure sono convinto che ci sia un forte legame fra le stragi del nazifascismo e l’attualità. Conoscere quello che è stato - ma anche quello che è mancato - sarebbe estremamente importante».

La Stampa 2.7.12
La miniera di Marcinelle diventa patrimonio Unesco
In Vallonia nel 1956 morirono 136 minatori italiani Oggi il luogo della strage è un museo e un memoriale
di Marco Zatterin


Forse non c’era bisogno del certificato. Il Bois du Cazier è scolpito nel patrimonio di tutti, da quell’8 agosto di 56 anni fa in cui nelle viscere della terra persero la vita 262 minatori tra cui 136 italiani. La tragedia della miniera di Marcinelle ha impiegato poco a diventare il simbolo di un’epopea drammatica e gloriosa, un luogo della memoria fra i più simbolici per l’emigrazione del dopoguerra, la seconda più grave sciagura nel suo genere dei tempi moderni. Era un lembo di ricordo collettivo eppure è stato a lungo sul punto di diventare un supermercato. Ora è chiaro che non succederà più. L’Unesco l’ha riconosciuto, insieme con altri tre siti minerari della Vallonia, patrimonio dell’umanità, come il centro storico di Firenze o Mont Saint-Michel. E l’ha salvato per sempre dalla speculazione.
Il carbone al Cazier non lo estraggono dal 1967. Dalla fine del conflitto sono stati 140 mila gli italiani venuti in Belgio per scavare sino a mille e passa metri nel sottosuolo. I loro posti di lavoro venivano scambiati per carbone da importare, 200 chili al giorno per emigrato, e col tempo s’è scoperto che il prezzo imposto dalle autorità di Bruxelles (nazionali) non era poi così conveniente. Era la ricchezza del Paese eppure, una volta chiusi gli impianti, c’era chi era pronto a dimenticare.
«All' inizio degli Anni 90 le strutture della miniera erano in stato di totale abbandono», racconta Maria Laura Franciosi, autrice di un libro («Per un sacco di carbone») che ha contributo molto a sensibilizzare l’opinione pubblica. I minatori in pensione e i loro eredi si sono battuti perché la storia non finisse. Oggi il sito nei pressi di Charleroi è un museo sull’industria d’antan, oltre che un toccante memoriale. Jean-Louis Delaet, direttore del centro e promotore della campagna Unesco, lo definisce «luogo di confluenza culturale che ha assimilato scambi di tecnologie e apporti di conoscenze umane di origine assai diversa». Un luogo vivo, senza dubbio. Adesso ancora di più.

Corriere 2.7.12
Il museo israeliano dell'Olocausto e Pio XII
Ridimensionate le accuse contro il pontefice. Spazio anche ai «difensori» del Vaticano
di Davide Frattini


GERUSALEMME — I versi di Nathan Alterman stanno ancora lì, sopra al ritratto in bianco e nero. «Mentre i forni si riempivano di giorno e di notte / il venerato Santo Padre che abita a Roma / non ha lasciato il suo palazzo col crocifisso alzato / per essere testimone di un giorno di sterminio / Solo per stare lì, un giorno, / dove un agnello, ogni giorno di nuovo, è pronto per essere immolato, / l'anonimo figlio di un ebreo».
A essere cambiate sono le parole scelte dagli storici. La didascalia che accompagna la foto di Pio XII a Yad Vashem è più lunga, le ventitré righe della vecchia versione sono state aggiornate e in qualche modo ammorbidite. Le frasi che irritano il Vaticano dal 2005, quando è stata aperta la nuova area del museo, sono adesso accompagnate da quelle di chi difende l'operato di Papa Pacelli.
Il titolo non è più «Papa Pio XII» ma «Il Vaticano». Restano la formula «la reazione di Pio XII all'uccisione degli ebrei durante l'Olocausto è una materia controversa tra gli studiosi» e l'accusa di non aver firmato il 17 dicembre 1942 la dichiarazione degli Alleati che condannava il massacro degli ebrei. «Tuttavia — aggiunge il nuovo testo — nel suo discorso radiofonico del 24 dicembre 1942 fece riferimento "alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di origini etniche (stirpe), sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento"». I ricercatori di Yad Vashem fanno notare che «gli ebrei non sono menzionati esplicitamente» e proseguono come nella didascalia precedente: «Quando gli ebrei vennero deportati da Roma ad Auschwitz, il Pontefice non protestò pubblicamente». Vengono ricordati gli appelli ai governanti di Slovacchia e Ungheria.
Il penultimo paragrafo presenta le posizioni di chi lo incolpa: «I critici sostengono che la sua decisione di astenersi dal condannare l'uccisione degli ebrei da parte della Germania nazista costituisca un fallimento morale: la mancanza di linee guida chiare ha concesso a molti di collaborare con la Germania nazista, rassicurati dal pensiero che questo non contraddiceva gli insegnamenti morali della Chiesa. Ha anche lasciato l'iniziativa di soccorrere gli ebrei ai singoli preti e laici».
Il finale, tutto nuovo, offre la parola ai suoi sostenitori: «I difensori ribadiscono che questa neutralità abbia evitato misure più dure contro il Vaticano e le istituzioni della Chiesa in tutta Europa, permettendo così un numero considerevole di attività segrete di aiuto a livelli diversi della Chiesa. Evidenziano i casi in cui il Pontefice offrì incoraggiamento ad azioni che permisero di salvare ebrei».
Estee Yaari, portavoce di Yad Vashem, nega che la didascalia sia stata riformulata dopo le pressioni del Vaticano e che il testo sia stato negoziato con la Santa Sede. «La vecchia formula notava che la reazione di Pio XII era una questione controversa. Tra i visitatori del museo, qualcuno non capiva quale fosse questa controversia. Così abbiamo voluto aggiungere dei dettagli». Tra i visitatori che hanno criticato quelle parole c'è stato il nunzio apostolico Antonio Franco, che nell'aprile del 2007 aveva minacciato di disertare la cerimonia per la commemorazione della Shoah. «Mi fa male andare al museo dell'Olocausto — aveva spiegato — e vedere Pio XII così presentato. Forse si potrebbe togliere il ritratto o cambiare quel testo». Alla lettera del diplomatico — che alla fine aveva partecipato — aveva risposto Avner Shalev, presidente di Yad Vashem. «La valutazione del ruolo di Pio XII pone una sfida a chiunque voglia studiarlo seriamente. È una questione complessa e noi continueremo a fare in modo di essere ancorati alla verità storica più aggiornata».
È quello che chiedono ancora adesso gli studiosi del museo: «Le nuove ricerche sono state permesse dall'apertura degli archivi vaticani datati fino al 1939 — spiega Yaari — è importante che tutto il materiale diventi disponibile». Lo ribadisce al quotidiano israeliano Haaretz il professor Dan Michman, che ha supervisionato la formulazione del nuovo testo: «Il legame tra il Vaticano e le azioni di soccorso agli ebrei resta da provare».

l’Unità 2.7.12
Abdel Basset Sieda: «Assad gioca le sue ultime carte»
Il nuovo presidente del Consiglio nazionale siriano: «Gli accordi di Ginevra? Non esiste transizione con il raìs al potere. È disperato: vuole allargare il conflitto»
di Umberto De Giovannangeli


«Siamo disposti a discutere di un governo di unità nazionale ma Bashar al-Assad deve farsi da parte. Con lui al potere, la parola dialogo perde di senso». A sostenerlo, in questa intervista a l’Unità, la prima concessa a un giornale italiano, è il nuovo presidente del Consiglio nazionale siriano (Cns), l’organismo che raggruppa i principali movimenti di opposizione ad Assad: Abdel Basset Sieda, attivista curdo, 56 anni molti dei quali trascorsi in esilio in Svezia. Una volta eletto, Sieda si è affrettato a rassicurare le minoranze presenti in Siria sostenendo che cercherà di includerle il più possibile nelle decisioni che si troverà a prendere ed inoltre ha affermato che porterà avanti una ristrutturazione interna del Consiglio per renderlo più efficiente e responsabile. «Vorremmo rassicurare tutte le sette e gruppi, in particolare alawiti e cristiani, che il futuro della Siria sarà per tutti i gruppi», ribadisce a l’Unità. «Non ci sarà alcuna discriminazione basata sul sesso o sull’appartenenza etnica o religiosa. La nuova Siria sarà uno Stato democratico».
Al termine del vertice internazionale di Ginevra sulla Siria, sabato scorso, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha affermato che «il presidente siriano Bashar al-Assad deve capire che i suoi giorni sono contati».
«Il piano delineato a Ginevra contiene spunti positivi, da sviluppare, tuttavia permangono troppe ambiguità su questioni cruciali e, soprattutto, il piano è ancora troppo vago per prevedere un’azione immediata e incisiva. Definisce un processo di transizione ma non chiarisce il ruolo di Assad e con quali mezzi s’intende agire perché quel piano venga attuato; così come non stabilisce esplicitamente che lo stop delle violenze sia una pre-condizione per il processo politico. Per quanto ci riguarda, siamo disposti a esercitare la massima responsabilità ma nessuno può chiederci di sedersi allo stesso tavolo e partecipare allo stesso governo con chi si è macchiato dei crimini più efferati». Dopo un anno di guerra e oltre 15mila morti, qual è il presente della Siria?
«Il presente è un popolo che è insorto contro il dittatore e di un dittatore che ha dichiarato guerra al suo popolo; una guerra che non risparmia donne e bambini, divenuti un obiettivo sistematico delle squadre della morte organizzate dal regime. Mentre a Ginevra si discuteva, a Damasco Assad ordinava di aprire il fuoco contro una folla che partecipava a un funerale: i morti si contano a decine. Il messaggio è chiaro: nessuno può sentirsi al sicuro. Un popolo intero è tenuto in ostaggio. Quello di Assad è terrorismo di Stato. Il presente è una insurrezione popolare che sta conquistando consensi anche ai livelli più alti dell’esercito. Il dittatore ha perso il controllo in diverse città, ma non per questo accetterà di farsi da parte. Piuttosto che uscire di scena, Bashar proverà a distruggere il Paese».
Dopo l’abbattimento di un caccia turco, la tensione è salita alle stelle tra Ankara e Damasco.
«Non si è trattato di un episodio isolato né di un eccesso nell’esercizio del diritto di difesa da parte siriana. Assad sta giocando la sua ultima carta: regionalizzare il conflitto, coinvolgendo nemici e alleati. La sua è una scelta disperata quanto destabilizzante: far esplodere la polveriera mediorientale. Quello che sta orchestrando è un ricatto internazionale. C’è questo intento dietro la sua affermazione: “siamo in uno stato di guerra su tutti i fronti”. Bashar al-Assad non è più solo un problema interno siriano, Bashar al-Assad è un pericolo per la pace e la stabilità del Medio Oriente».
L’uscita di scena di Assad è un problema politico o militare?
«Quello tra politico e militare è un confine labile, praticamente inesistente, se chi hai di fronte conosce solo il linguaggio della forza. Non chiediamo un intervento militare internazionale ma un sostegno che riduca il gap di mezzi tra gli insorti e le forze fedeli al dittatore. Un sostegno attivo, sul terreno come sul piano politico: è ciò che chiediamo oggi alla comunità internazionale. Vogliamo tornare a vivere, a decidere del nostro futuro, liberamente. È questa l’essenza della “Primavera siriana”. Aiutateci a farlo».
Mosca ripete che la sorte di Assad deve essere decisa dal popolo.
«Di quale popolo parlano? Quello a cui Assad ha dichiarato guerra? In libere elezioni il regime sarebbe spazzato via. E Assad lo sa bene, per questo pratica un terrorismo di Stato che produce ormai centinaia di morti al giorno. Come si può parlare di pace e continuare, come fa la Russia, a difendere un uomo pronto a tutto pur di mantenersi al potere?»
In molti descrivono la situazione nel suo Paese in termini di guerra civile. È la definizione più appropriata?
«La definizione più rispondente alla realtà è, a mio avviso, quella di insurrezione popolare contro un regime sanguinario e un dittatore che si è macchiato di crimini contro l’umanità. Guerra civile presupporrebbe che una parte del popolo sostenesse il regime. Non è così, o comunque non lo è più da tempo. Mi lasci ribadire che non siamo pregiudizialmente ostili a soluzioni transitorie ma ciò che deve essere chiaro è che qualsiasi negoziato su un governo di transizione non può prescindere dall’uscita di scena di Assad. Il raìs ha perso ogni legittimità agli occhi del popolo siriano e non saremo certo noi a riabilitarlo. A quanti sono ancora dalla parte sbagliata ma non si sono macchiati di crimini contro il popolo, diciamo: vogliamo giustizia, non cerchiamo vendetta».
C’è chi sostiene che l’incertezza internazionale su Assad è anche dovuta alle divisioni interne all’opposizione siriana. Lei è stato da pochi giorni eletto nuovo presidente del Consiglio nazionale siriano, al termine di un confronto anche aspro. Cosa significa che ad essere scelto sia stato un esponente curdo qual è lei?
«Sta a significare che l’opposizione al regime di Assad è un’opposizione plurale, che non discrimina e non è animata da uno spirito di vendetta: sappiamo distinguere tra il “clan Assad” e quanti hanno servito lo Stato. Un discorso proiettato nel futuro. Vorremmo rassicurare tutte le sette e gruppi, in particolare alawiti e cristiani, che il futuro della Siria sarà per tutti i gruppi. Non ci sarà alcuna discriminazione basata sul sesso o sull’appartenenza etnica o religiosa. La nuova Siria sarà uno Stato democratico».

Repubblica 2.7.12
Pakistan, la nuova sfida dei Taliban "No all'antipolio, i medici sono spie"
di Daniele Mastrogiacomo


Secondo gli studenti coranici, le campagne di prevenzione servono a fornire le coordinate ai droni americani A provocare la diffidenza è stato l´arresto del dottore Shakil Afridi che aiutò gli Usa a individuare Bin Laden
Il Mullah Nazir: "Con una mano uccidono bambini innocenti, con l´altra li salvano"
La malattia è tra le più diffuse nelle Aree tribali al confine con l´Afghanistan

I Taliban mettono al bando il vaccino contro la polio. Brutta storia per migliaia di bambini pachistani. Rischiano di restare monchi, costretti a camminare su grucce di fortuna: pezzi di legno fissati a plantari di gomma usurata. Ossessionati dalle spie che vedono aggirarsi come fantasmi tra i vicoli polverosi del Waziristan, nelle valli dello Swat, lungo i villaggi del passo Khyber, i comandanti del Movimento coranico hanno deciso che la scienza medica non è neutrale. Per loro, sanitari, infermieri, volontari muniti di pillole e di siringhe per combattere una delle malattie più diffuse nelle Aree tribali di amministrazione federale (Fata), ai confini tra Pakistan e Afghanistan, sono in realtà al servizio della Cia. Entrano nelle case, visitano i pazienti, osservano cosa accade in giro e forniscono le coordinate ai droni americani con i loro carichi di bombe.
«Con la scusa della campagna di vaccinazione», ha sostenuto il mullah Nazir, leader dei Taliban nel Sud Waziristan, «gli Usa e i loro alleati hanno spedito nei nostri territori una rete spionistica. Con una mano ammazzano bambini innocenti; con l´altra giurano di volerli salvare». Hafiz Gul Bahadur, capo dei Taliban nel Nord Waziristan, ha ordinato l´uccisione di ogni medico che si aggira nell´area che controlla. Non sono i soli. Già nel 2007, il mullah Fazlullah, capo Taleban della valle dello Swat, ammonì la popolazione a non accettare alcun vaccino. Sfruttò paure e ignoranza: «Vogliono sterilizzare tutti i musulmani».
Tanto fervore contro la medicina preventiva non è casuale. Si sa che i combattenti radicali salafiti diffidano della modernità. Ma in questo caso c´è un precedente che li ha feriti nell´orgoglio: Osama bin Laden sarebbe stato individuato grazie a una traccia ematica carpita da un medico impegnato nella campagna contro la polio. Un retroscena mai provato. Ma che la messa al bando dei vaccini adesso conferma.
Per far scattare l´operazione Neptune spear, "Lancia di Nettuno", mancava un ultimo tassello. Il più importante: stabilire l´esatta identità di quel vecchietto, spacciato per un contadino della zona, che viveva blindato dentro una casa ad Abbottabad, 70 chilometri a nord est di Islamabad. La certezza poteva arrivare solo dal Dna. A dispetto della leggenda che lo descriveva malato ma sempre in giro, lo sceicco del terrore in realtà viveva braccato dai tempi di Bora Bora. Non si fidava di nessuno. Per comunicare ricorreva a messaggi cifrati. Nessuna visita, anche la spesa veniva ordinata e lasciata fuori il portone; i bambini che affollavano il suo compound dovevano chiedere il permesso per uscire a giocare.
Siamo nel marzo del 2011. La Cia ha già agganciato i messaggeri fidati del capo della jihad internazionale. I satelliti puntati sull´area e le centrali di ascolto confermano che la pista è quella giusta. Ma ci vuole la prova regina: la certezza assoluta che il contadino di Abbottabad sia proprio Osama Bin Laden. Qualcuno deve avvicinare l´uomo più ricercato al mondo e sottrargli una traccia del codice genetico. Uno degli agenti di Langley che bazzica la zona tribale si ricorda di un medico. Si chiama Shakil Afridi, 40 anni, il viso largo, gli occhi neri e profondi, i baffoni che gli circondano la bocca. Da due anni gira in quelle regioni distribuendo vaccini contro la polio. Lo conoscono tutti. È un medico ma anche un personaggio controverso.
Di lui non si sa nulla, ufficialmente. Il suo nome spunta un anno dopo la morte di Bin Laden. Viene arrestato nel mercato di Karkhano, nel Peshawar, dagli uomini dell´Isi, i servizi segreti pachistani. È accusato di alto tradimento: avrebbe complottato contro lo Stato partecipando ad attentati, estorsioni, sequestri. Ma soprattutto di aver ucciso e non guarito, con i suoi vaccini, almeno duecento abitanti delle aree tribali.
L´arresto fa clamore. L´Isi accredita le voci che si rincorrono tra le valli e le montagne dietro il passo Khyber. È un ciarlatano, non un benefattore. Ma i servizi conoscono bene la verità: sanno che è stato lui a fornire alla Cia la prova regina su Osama Bin Laden. È riuscito a vaccinarlo e a prendere un campione del Dna. Il tassello mancante all´operazione Neptune spear.
Shakil Afridi subisce una condanna a 33 anni di carcere dopo un processo frettoloso. La Cia protesta, propone l´asilo negli Usa. Si espone perfino Leon Panetta, il Segretario alla Difesa americano. Il Pakistan fa finta di niente, continua a sostenere le responsabilità del medico come complice dei terroristi. Dice e non dice. Un classico dei servizi pachistani: insinuazioni per provocare reazioni. E la reazione Usa arriva subito: il Dipartimento di Stato taglia 33 miliardi dal flusso di finanziamenti. Tanti quanti gli anni di condanna. Poi il silenzio. Iniziano le trattative dietro le quinte. Per chiudere la partita di Osama Bin Laden e del medico che lo ha tradito. Assieme ai vaccini delle spie.

Repubblica 2.7.12
Richard Rogers
“Panchine nei parchi e giustizia sociale per costruire un nuovo Rinascimento”
Il celebre architetto spiega come oggi la difesa degli spazi pubblici sia una questione di civiltà
intervista di Franco Marcoaldi


Richard Rogers, anzi Lord Richard Rogers di Riverside, membro della Camera dei Lord, è uno degli architetti più famosi del mondo. Artefice all´inizio degli anni Settanta assieme all´amico Renzo Piano del Centre Pompidou di Parigi, nel corso dei successivi decenni ha ideato, tra l´altro, la Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, il Millenium Dome di Greenwich e il Terminal 4 dell´aeroporto di Madrid. Studioso, docente universitario, a capo dell´Urban Task Force che indica le linee di sviluppo urbanistico di Londra, ha sempre coniugato l´aspetto teorico della sua ricerca con l´attività sul campo, prefigurando l´immagine di una città "compatta e sostenibile". Con Rogers il discorso sulla bellezza assume una nuova e diversa angolazione, perché si materializza nei suoi manufatti, grandi e piccoli, come l´elegante studio sul Tamigi in cui mi accoglie, situato nella zona sud occidentale di Londra e affiancato dal delizioso ristorante italiano della moglie, e grande chef, Ruth: il River Café.
«La mia idea di bellezza si ricollega a quella classica, formulata da Platone e Aristotele: le caratteristiche di un prodotto bello e finito sono ordine, simmetria, armonia e giuste proporzioni. Il mio lavoro di architetto, sempre in bilico tra arte e tecnica, conoscenza e intuizione, si fonda sull´idea di scala, ritmo, leggerezza e luce. L´architettura, fin dalle costruzioni primitive, è legata alle tecnologie, all´uso dei materiali, al rapporto con i committenti, alle decisioni del potere politico, allo specifico genius loci in cui quel certo edificio deve essere costruito. C´è però un´aggiunta sostanziale e riguarda la qualità statica dell´architettura classica. Oggi l´architetto deve pensare a costruzioni flessibili, modificabili nel corso del tempo, che rispondano alle esigenze in evoluzione della società. Un edificio che oggi è un centro finanziario, tra cinque anni potrà ospitare degli uffici e tra dieci un´università. Ecco perché la progettazione si deve allontanare da forme statiche, e attraverso la flessibilità, esprimere nuove forme che sappiano realizzare la bellezza nell´adattabilità. Si potrebbe dire che gli edifici sono sempre più dei robot, piuttosto che dei templi. Se dovessi fare un paragone musicale, direi che l´architettura, più che a una sinfonia, assomiglia a una jam session di jazz, che prevede un´improvvisazione all´interno di una struttura data».
Lei è nato a Firenze e ha lavorato in Italia. Come si spiega il terribile paradosso italiano: refrattarietà verso la nuova architettura e continua rapina del territorio, urbano e agricolo?
«Non solo sono nato a Firenze, ma ogni estate torno a Pienza, dove è presente in nuce l´idea stessa di città moderna. E con questo credo di aver già risposto alla prima parte della sua domanda: nessun passato architettonico è così pesante come quello che grava sulle spalle degli italiani. Accompagnato spesso, però, da una certa ignoranza, perché proprio quella straordinaria tradizione ci dimostra come siano possibili inserzioni architettoniche meravigliose che esaltano l´accostamento tra edifici vecchi e "moderni": pensi a piazza della Signoria di Firenze, dove la Galleria degli Uffizi del Vasari è in perfetto equilibrio con gli splendori medievali di Palazzo Vecchio. O a Venezia, dove la cattedrale bizantina è inquadrata dal loggiato di piazza San Marco. La buona architettura deve essere moderna nel suo tempo e sfidare il passato. Fatto sta che per un architetto di oggi lavorare in Italia è difficilissimo, se non impossibile. Come ben sa il mio amico Renzo Piano, che infatti vive a Parigi».
E per quanto riguarda invece la rapina del territorio?
«Qui purtroppo c´è di mezzo la politica, una cattiva politica, totalmente disinteressata a una vera pianificazione urbanistica. Quanto all´Inghilterra, si sta recuperando una lunga fase di disattenzione. E proprio qui a Londra si è presa una decisione molto semplice in tal senso: si può costruire esclusivamente sui brownfields, terreni già edificati in precedenza. E poiché l´Inghilterra è stata la patria della rivoluzione industriale, è piena di brownfields. Penso in particolare a tutta la parte est della città di Londra, la stessa dove si terranno le prossime Olimpiadi».
Rinnovare spazi già urbanizzati è uno dei fondamenti della sua idea di città "compatta" e "sostenibile".
«Le ripeto qui quanto già scrissi tanti anni fa in Città per un piccolo pianeta. Il teorico della politica Michael Walzer ha classificato lo spazio urbano in due categorie: "spazio bloccato" e "spazio aperto". Il primo si affida alla logica degli immobiliaristi e soddisfa l´esclusiva esigenza del consumo privato. Il secondo, la partecipazione a una vita comune. Sin qui sono stati privilegiati egoismo e segregazione, invece che contatto e comunanza. Così il mercato di strada diventa via via meno attraente del più sicuro centro commerciale, il quartiere universitario si trasforma in campus chiuso e la vita della città diventa una struttura a due livelli, con i ricchi chiusi in territori protetti e i poveri imprigionati nei ghetti o nelle squallide baraccopoli periferiche. La prima parola da recuperare è "cittadinanza", dunque l´idea dello spazio pubblico come teatro della cultura urbana. Quando penso a una città compatta, penso a questo: a una città ad alta densità e fortemente diversificata, dove le attività sociali si mescolino ad attività commerciali e i quartieri diventino finalmente il punto focale della comunità. Ma perché accada, ed eccoci così all´idea della città sostenibile, bisogna innanzitutto invertire il rapporto tra trasporto privato e pubblico. Perché è l´automobile che per prima ha minato la coesione sociale della città, incoraggiando il dilagare delle periferie. Dobbiamo seguire la strada di Hong Kong, dove il trasporto pubblico è arrivato a toccare il 94 per cento del traffico totale. Con tutti gli effetti benefici che ne conseguono: è più gradevole camminare, andare in bicicletta, mentre la congestione e l´inquinamento risultano drasticamente ridotti e aumenta il senso conviviale degli spazi pubblici».
Nulla come il teatro urbano ci fa capire cosa si intende quando si dice che il bello rimanda al bene. Un ragazzo che cresce in un ghetto di Los Angeles farà senz´altro più fatica a concepire il bene rispetto a un suo coetaneo che ha la fortuna di abitare, che so, a Cambridge, in prossimità di un parco. Eppure, almeno agli occhi dei politici italiani, discorsi come questi appaiono dandistici, estetizzanti, superflui.
«Dico sempre che tra i diritti della persona c´è anche quello di vedere un albero dalla propria finestra e di avere una panchina su cui sedersi nel parco del quartiere. La libertà di accesso allo spazio pubblico deve essere difesa alla pari della libertà di parola. Aggiungo, per tornare alla sua domanda, che proprio gli italiani dovrebbero ricordare la lezione del Rinascimento, quando la bellezza e la ricchezza viaggiavano assieme. Però oggi c´è una grande novità: visto che proprio le città sono la causa principale della crisi ambientale del pianeta, il termine ricchezza deve includere il capitale naturale. Dunque innanzitutto aria e acqua pulita. C´è un bel libro di Richard Wilkinson, The Spirit Level, in cui si dimostra come la qualità di vita delle società sia legata, da ogni punto di vista e per ciascun individuo, compresi i più ricchi, alla giustizia sociale. Ecco perché questo discorso sulla priorità della bellezza, in ambito urbanistico e architettonico, è compreso meglio nelle nazioni scandinave, dove la disparità tra ricchi e poveri è minore. Parlo di paesi in cui, non a caso, c´è un gusto medio più alto e diffuso anche in ordine agli standard abitativi. Altrove è più facile che le persone sappiano riconoscere una bella macchina o un bel vestito, perché quelli sono i veri status symbol, i valori sociali dominanti. Più difficile invece è condividere l´idea di una casa bella. Eppure la qualità architettonica non è un fatto meramente soggettivo. Esistono criteri precisi e precisi sistemi di giudizio. La comprensione e l´apprezzamento vengono dall´educazione, dall´esperienza, dall´affinamento dei sensi e forse, cosa più importante di tutte, da una buona leadership professionale».
Se la sentirebbe di sottoscrivere l´affermazione di Frank Lloyd Wright, secondo il quale il primo compito di ogni uomo è lasciare il mondo più bello di come lo si era trovato?
«Assolutamente sì, perché fa il paio con un´altra affermazione che la precede di duemila anni e viene dagli ateniesi della Grecia antica. Per loro l´agorà, i templi, lo stadio e gli spazi pubblici non erano solo una magnifica espressione dell´arte e della cultura, ma anche il maggior deposito di ricchezza morale e intellettuale, il volano dell´ideale civico. Tale consapevolezza era contenuta nel giuramento dei nuovi cittadini: "Lasceremo questa città più grande, migliore e più bella di come l´abbiamo ereditata"».

Repubblica 2.7.12
Scuola, l’illusione della severità
di Mariapia Veladiano


Alunni di 6 anni bocciati, esami difficili. L´istruzione in Italia è davvero più inflessibile? Pare proprio di no. Anzi, l´insegnante è diventato un badante
Le bocciature alle elementari e la difficoltà degli esami hanno riaperto il dibattito sulla severità dell´istruzione italiana. Eppure secondo i dati del ministero gli studenti promossi sono in aumento e la scuola tra patentini, sorveglianza psicologica e corsi extra si fa sempre più carico della custodia dei ragazzi
Si scrivono nelle pagelle dei "sei" che non dicono la verità sull´alunno e la sua preparazione

Una piccola inquietudine da notizia può venire: i giornali raccontano che la scuola ricomincia a bocciare i bambini di prima elementare, che l´Invalsi propone prove difficili di matematica in terza media, che all´esame di maturità arriva un Aristotele spiazzante.
Ci si chiede se sia l´effetto di una qualche maggiore severità, promessa o minacciata a seconda del proprio vedere.
Certo che no. Il ministero dell´Istruzione attraverso il suo rapporto annuale "La scuola in cifre" ci dice che negli ultimi due anni scolastici monitorati (2009/2010 e 2010/2011) sono aumentati sia gli studenti ammessi all´esame di terza media (dal 95,4 al 95,9 per cento) sia gli studenti poi diplomati (dal 99,5 al 99,6 per cento). Un aumento si è verificato anche per la maturità (dal 94,1 al 94,4 per cento di ammessi e dal 98,1 al 98,3 di diplomati). In entrambi i casi poi sono aumentate considerevolmente le votazioni alte (+1,4 per cento sia i nove che i dieci) e l´esito finale con la lode (+0,8 per cento). Negli anni intermedi di entrambi i cicli sono diminuite le bocciature e diminuiti anche, per le superiori, i ragazzi con "giudizio sospeso", ovvero quelli che devono a fine estate superare una prova di recupero in alcune discipline. Poiché i dati delle medie riportano un´inversione di tendenza netta rispetto ai cinque anni precedenti, quando le ammissioni all´esame erano in costante calo (-2,2 per cento dal 2005), vien chiedersi cosa sia rimasto del più imponente tentativo di "ritornare alla scuola del merito" che ha occupato per mesi i giornali e le televisioni durante il precedente governo. I cambiamenti sono stati presentati come l´azione salvifica di fronte al baratro in cui la scuola era scivolata con un impatto demagogico contundente: il voto di condotta entrava a far parte della media complessiva dei voti dello studente, e l´accesso agli esami di Stato (medie e superiori) veniva consentito solo a chi avesse la sufficienza in tutte le discipline. La prima norma ha ottenuto il risultato, scontato, di alzare la media di gran parte degli studenti perché, grazie al cielo, in generale gli studenti corretti sono ben più di quelli indisciplinati e se un ragazzo non disturba, segue moderatamente le lezioni e un po´ interviene, un otto o un nove in condotta lo prende.
La seconda, e anche questo era ben prevedibile, è diventata nei fatti una licenza a dichiarare per necessità il falso perché non si può far ripetere un ragazzo per due (forse anche tre) discipline, lo vietano il buonsenso e un´altra norma che chiede "insufficienze gravi e diffuse" per poter bocciare, e un qualsiasi TAR lo riconoscerebbe, e quindi con "voto di consiglio" si scrivono nelle pagelle dei "sei" che non dicono la verità sulla preparazione dello studente. E in più, alle superiori questi sei non veritieri contribuiscono a costruire il credito scolastico e il punteggio dell´esame finale. Doppiamente sbagliato e anche ingiusto.
Solo in una scuola superiore che funzionasse, come accade per l´università, con un sistema perfetto di crediti, un meccanismo di questo tipo avrebbe senso. Ma non è così, perché nell´ordinamento italiano si ripete l´anno scolastico intero, con tutto il suo corredo di discipline, non solo la disciplina insufficiente. E infatti, dove si è potuto grazie all´autonomia non recepire queste norme, lo si è ha fatto: in Trentino il voto sulle "capacità relazionali", così viene chiamata la condotta, non fa media e agli esami di stato di medie e superiori si accede con la media complessivamente sufficiente, e così le commissioni d´esame possono vedere nella trasparenza dei voti realmente dati quali sono le lacune vere di uno studente. Non è cosa da poco, perché si tratta di far vivere ai ragazzi proprio dentro la scuola quella giustizia che hanno assoluto bisogno di credere possibile nella vita.
La scuola non è oggi più severa. Quel che capita ci racconta qualcosa che va ascoltato. Ad esempio che non ce la può fare se non si decide bene quel che si vuole da lei. Nel tempo, un po´ alla volta, alla scuola è stato chiesto di tutto. Dal patentino per il motociclo all´accesso alla Normale. In mezzo c´è la custodia lunga dei figli, prima e dopo l´orario scolastico (le scuole private fanno la loro fortuna in parte anche su questo), la sorveglianza psicologica, il pronto intervento pedagogico, le certificazioni linguistiche, il patentino per il computer, l´organizzazione degli stage nelle aziende, la certificazione delle competenze. Qualcosa di tutto questo ci sta, è assolutamente pertinente. Ma pensare che risorse di tempo e di personale siano impiegate nell´organizzare la preparazione per il patentino del motociclo è davvero bizzarro. E la legge fa obbligo alle scuole di offrire anche questo, al pomeriggio (20 ore fino allo scorso anno, 13 da quest´anno) e le famiglie lo chiedono, perché a scuola i corsi sono gratuiti, nelle autoscuole no. Allora capita che nell´inseguire il tutto di quel che è indistintamente dovuto, non sia possibile tener gli occhi ben fissi su quel che davvero conta.
Le prove Invalsi hanno un´ambizione giusta (al di là poi delle scelte precise di testi e problemi). Sul modello delle indagini internazionali OCSE-PISA, vogliono verificare le competenze degli studenti in uscita dalla scuola media. Il lavorare sulle competenze ci è richiesto dall´Europa, dal mondo del lavoro e della ricerca, che vorticosamente frulla i saperi tradizionali, dalla vita di oggi. Le prove Invalsi sono un tentativo di riforma del modo di insegnare e programmare a partire alla fine, dalla verifica. Se le prove son così, qualcosa dell´insegnamento deve cambiare. Lo stesso meccanismo che nel 1999 è stato messo in atto per le nuove tipologie di scrittura richieste dall´esame di maturità. Una riforma che ha indotto gli insegnanti a lavorare diversamente.
Non suona bene, si può dire. Perché non lavorare diversamente grazie alla formazione degli insegnanti, all´aggiornamento? Ad esempio perché quest´anno per la formazione in servizio il Ministero ha stanziato 18,75 euro per insegnante. Per tutto l´anno. Poi perché in Italia la formazione in servizio non è un obbligo e di solito "la fa chi non ne ha bisogno", ha detto poco fa a un incontro pubblico Giovanni Biondi, capo dipartimento del Ministero dell´istruzione nel mentre che forniva queste cifre.
Ma in Trentino è un obbligo, ad esempio, sta nel contratto collettivo provinciale, e quindi cambiare si può, vien da dire. È difficile immaginare un lavoro che richieda continuamente di ricrearsi come quello dell´insegnante. In classe arriva il mondo, sempre nuovo perché è il mondo dei ragazzi. Se non si cambia non funziona nulla.
Certo, ci sono riforme che costano, e si dovrebbe avere abbastanza fiducia da credere che valga la pena di investire ancora nella scuola, perché vuol dire che un futuro c´è, riusciamo a rappresentarcelo. E allora, almeno, far davvero sparire le classi sovraffollate. Semplicemente perché, soprattutto nel primo ciclo, è impossibile seguire tutti i bambini se ne abbiamo trenta in classe, e chi resta indietro è di certo il povero: di cultura, di relazioni, di risorse economiche e sociali. Perché bocciare cinque bambini su cinquantanove in prima elementare non si può davvero. È una dichiarazione di impotenza della scuola pubblica che non ha saputo o potuto intervenire prima che tutto questo accadesse.
E ne devono essere capitate di cose durante l´anno. Vien da dire: rovesciamo il banco, prima di arrivare a questo. Condividiamo il problema: con i servizi, il comune, il ministero, i gruppi di volontariato. Inventiamo una rete. Alziamo la voce.
Ma ci sono anche riforme che non costano nulla. Tornare alla trasparenza del voto di ammissione agli esami eliminando il "sei necessario" non costa nulla, ad esempio. Alleggerire la scuola di richieste improprie può costare poco poco.
La domanda vera è: "che cosa vogliamo dalla scuola?" E la risposta non può essere la lista della spesa, deve essere un numero definito di priorità. Che offra un´opportunità a chi la frequenta di essere riconosciuto nel proprio valore. Che riconosca le diverse intelligenze. Che dia gli strumenti per guardare al futuro confidando nelle proprie forze. Che coltivi la convivenza civile. La convivenza non è un capriccio di pochi idealisti. È esattamente il futuro di tutti. Che, almeno, non funzioni da moltiplicatore di disuguaglianza sociale, come accade oggi, così ci dicono le ricerche. Che non confonda serietà e selettività. Le indagini Ocse-Pisa, e anche i dati del Ministero, ci dicono che hanno risultati migliori le scuole che bocciano meno.
È alzando il livello generale che si ottengono le eccellenze. La scuola del merito è la scuola del rigore morale irriducibile, che non si rassegna a perdere ragazzi lungo la strada. Che continua a lavorare per una nostra vita a lieto fine. Abbastanza lieto.
E niente più demagogia, davvero.

Repubblica 2.7.12
Crescono gli ammessi, mentre in Germania si propone di estendere la promozione a tutti
Ripetere l’anno è una rarità e secondo l’Ocse non serve
di Salvo Intravaia


La bocciatura di cinque bambini di prima elementare a Pontremoli (Massa Carrara) ha fatto ricadere la scuola italiana nell´incubo severità. Gli insegnanti, come aveva sperato invano – al punto di taroccare i numeri – la Gelmini, stanno diventando davvero più severi, bocciando "senza pietà" piccoli di sei anni? E, numeri alla mano, quanto è rigorosa la scuola italiana? Ma bocciare serve davvero? Per comprenderlo basta affidarsi ai dati. Nella scuola primaria la bocciatura è cosa davvero rara: nel 2007/2008, quando a viale Trastevere salì Mariastella Gelmini, in prima elementare si contavano 8 bocciati su mille: lo 0,8 per cento. L´anno dopo, nel 2008/2009, il dato calò allo 0,6 per cento per restare stabile fino all´anno scorso. Anche il computo dei bocciati su tutti e 5 gli anni ha seguito lo stesso trend: 0,4 per cento nel 2007/2008 e 0,3 l´anno scorso. Insomma, nell´ultimo quinquennio si boccia di meno.
Per avere un´idea di cosa fosse la scuola elementare alcuni decenni fa, basta guardare le statistiche dell´anno 1952/53. Sessant´anni fa, i ripetenti in prima elementare erano un numero 33 volte maggiore di oggi: il 19,78 per cento. In pratica, un bambino su 5. Altalenante il termometro della severità nella scuola media. Nel 2007/2008, i bocciati in prima media furono 3,8 su cento, due anni dopo, nel 2009/2010, schizzarono al 5,5 per cento. Ma l´anno scorso si sono ridimensionati al 5,2 per cento. Agli esami le cose cambiano: tra non ammessi e bocciati agli esami, nel 2010/2011, sono stati fermati 4,5 ragazzi su cento. Un anno prima, superavano il 5 per cento. Ma è in calo il numero dei promossi con punteggio minimo, che molti esperti considerano "analfabeti funzionali". Nel 2006/2007, più di un terzo dei diplomati (il 37,1 per cento) conseguì la licenza media con "sufficiente". L´anno scorso, la schiera dei licenziati per il rotto della cuffia si è assottigliata al 28,8 per cento. Alla maturità, da quando Giuseppe Fioroni reintrodusse l´ammissione agli esami, il numero dei non ammessi incrementò dal 4 per cento, dell´estate 2007, al 5,9 del 2010. Con una lieve flessione al 5,6 per cento l´anno successivo. Tra non ammessi e bocciati agli esami passiamo dal 6,6 del 2007 al 7,7 per cento del 2010, per scendere di mezzo punto nel 2011.
Per i primi quattro anni del superiore occorre partire dal 2007/2008, quando Fioroni – sotto forma di "sospensione del giudizio" – ripristinò le rimandature a settembre. Quell´anno, i "rimandati" ammontarono al 26,8 per cento, tre anni dopo salirono al 27,4 per cento. Ma a settembre 2011, complessivamente, i bocciati ammontavano al 15,1 per cento, facendo registrare un calo superiore ad un punto rispetto al settembre di tre anni prima. Quella sulle bocciature sembra una discussione che appassiona soltanto noi italiani. In Germania si parla di abolirle addirittura e non per eccesso di buonismo. L´Ocse, approfondendo l´indagine sulle competenze in lettura dei quindicenni, ha recentemente dimostrato che bocciare serve a poco. «Nei paesi in cui la percentuale di studenti che ripetono gli anni è elevata – spiegano da Parigi – le prestazioni complessive tendono ad essere inferiori».

Repubblica 28.6.12
Chiedo Asilo
Aspettando la scuola che non c’è
Quarantamila bambini non trovano un posto nella scuola materna
di Maria Novella De Luca


Quarantamila bambini non trovano un posto nella scuola materna. Così i tagli al corpo docente stanno privando l’infanzia di un diritto: quello di imparare, giocare e crescere insieme agli altri

Aumentano i bambini, diminuiscono le scuole. Cresce la voglia di istruzione, scompaiono gli insegnanti. Sembra un paradosso invece è così. Ovunque. In tutta Italia, al Nord come al Sud. Migliaia di piccoli allievi tra i 3 e i 5 anni rischiano dal prossimo autunno di non poter frequentare la scuola dell’infanzia. Chiedo asilo. Ma anche aule, giochi, colori, amici, favole. Le liste d’attesa scoppiano. Sono già oltre trentamila i bambini senza posto. Che resteranno a casa. Davanti alla Tv. O peggio, per strada. A Bologna come a Napoli si scopre che la materna non è più un diritto. Per un insieme di ragioni che rischiano di stritolare, dopo le primarie e le secondarie, anche la scuola dei più piccoli. Quegli asili spesso orgoglio e vanto dell’istruzione d’infanzia, frequentati negli ultimi anni da oltre il 90% dei bambini italiani, un record assoluto che ci mette ai primi posti in Europa. E invece anno dopo anno l’offerta si assottiglia, proprio adesso che la demografia è tornata a crescere, e i figli ricominciano a nascere, soprattutto nelle regioni del centro Nord, grazie agli immigrati e non solo. E così la richiesta di nidi, asili, luoghi per i bambini è diventata esplosiva. Ma l’Italia è avara, e la scuola dell’infanzia, al 60% statale, al 40% comunale, è oggi assediata dai tagli d’organico (10mila insegnanti in meno dal 2009 ad oggi) e dalla povertà dei Comuni che stretti dal “patto di stabilità” non riescono più a mantenere i loro asili. Alcuni così straordinari, come quelli di Reggio Emilia, da diventare un vero e proprio «logo» del made in Italy. Gli allarmi arrivano da tutte le regioni, nessuna esclusa. Anche da quelle zone d’eccellenza, Toscana, Emilia, Marche, Veneto, fino a ieri in cima alle classifiche per gli asili più belli del mondo. «Eppure è noto che frequentare fin da piccolissimi un nido o una scuola d’infanzia è fondamentale per lo sviluppo futuro — spiega Susanna Mantovani, docente di Pedagogia generale all’università Bicocca di Milano — e in Italia avevamo raggiunto davvero grandi risultati, con la copertura quasi totale dei bambini in molte regioni. Oggi quello che vedo è una grave caduta della qualità, le classi sono sempre più affollate, i Comuni non riescono più a garantire i servizi, tantomeno il tempo pieno, le insegnanti sono esauste, e sugli asili comunali e statali si è riversata la domanda di quelle famiglie che non possono più pagare le rette di una scuola privata…». Così il rischio è che da luoghi di crescita e di apprendimento, le classi per i più piccoli «si trasformino — aggiunge Mantovani — in null’altro che parcheggi». Le liste d’attesa sono ovunque. E l’intero “sistema infanzia”, cioè la fascia degli 0-6 anni, già profondamente in crisi per quanto riguarda i nidi, (soltanto l’11% dei bambini sotto i 3 anni riescono ad accedere alle strutture, quasi tutte nel Centro Nord), rischia di scomparire. In Campania i bambini senza posto sono 3.500, in Toscana più 4mila, a Bologna oltre 400, a Milano 650, nelle Marche gli allievi sono 400 in più ma le sezioni sono state tagliate. Soltanto un pugno d’esempi, che raccontano però un salto all’indietro di 40 o 50 anni, quando era normale in Italia dormire davanti ai cancelli delle scuole pubbliche per ottenere l’iscrizione dei figli, ed era consueto che i bambini approdassero alla prima elementare senza aver frequentato nemmeno un anno di asilo. Ma è nel Sud che i tagli alla scuola d’infanzia, oltre ad aver provocato un’emergenza sociale, hanno anche il sapore di una beffa. «Migliaia di bambini di tutta la Campania, e in particolare della provincia di Napoli, nell’anno che verrà non potranno avere accesso alla scuola» dice con amarezza Angela Cortese, consigliere regionale del Pd. «E questo vuol dire che resteranno in casa, in famiglie spesso disagiate, soli davanti alla televisione o più spesso per strada, senza stimoli e senza controlli. Vanificando così un lavoro duro e tenace per combattere la dispersione scolastica tra i ragazzi del Sud: perché più è precoce l’approccio con la scuola, minori sono gli abbandoni nell’adolescenza. E adesso si torna indietro…». E non importa poi ricordare Don Milani e l’esperienza di Barbiana per rendersi conto di quanto la scuola, ancor più oggi in un’Italia impoverita e depressa, possa essere non solo un volano per un buon futuro scolastico, ma una “diga sociale”. Antidoto alla solitudine, alle troppe merendine, ad una infanzia senza stimoli, senza libri e senza amici. Basta ascoltare Gilda, giovane mamma di Antonio e Benedetto, di 6 e 4 anni, che vive vicino a Napoli, a Varcaturo, e guida un comitato di genitori in lotta contro la chiusura della loro scuola dell’infanzia. Ex impiegata in un call center, il marito capo magazziniere, Gilda racconta perché vorrebbe la scuola aperta anche d’estate. «Questi tagli mi terrorizzano. Con Antonio, il mio primo figlio, sono stata fortunata, sono riuscita ad inserirlo al nido, e poi, subito, all’asilo. Ha avuto delle maestre bravissime, era sempre contento, ed è arrivato in prima elementare che già leggeva e scriveva. Con Benedetto è tutto diverso: adesso che non lavoro più ho perso anche la priorità per il nido. Ho dovuto tenerlo sempre a casa, qui non c’è nemmeno un parco, un giardino, le strade sono piene di immondizia, di siringhe, di tossici, di cani randagi. Ora che scuola è chiusa non sappiamo davvero dove andare. E per la materna siamo ancora in lista d’attesa». Se al Nord i posti mancano perché ci sono più bambini (centomila nascite in più tra il 2006 e il 2011), e i Comuni non hanno più fondi, al Sud, al contrario, gli organici della scuola sono stati tagliati perché il numero dei figli decresce di anno in anno. Ma evidentemente il principio non ha funzionato e non ha tenuto conto, dice ancora Angela Cortese «della voglia di scuola delle famiglie e dei bambini, una cultura nuova che oggi viene depressa ». Il timore di Lorenzo Campioni, pedagogista emiliano che a lungo ha lavorato con Loris Malaguzzi, il fondatore degli asili di Reggio Children, è che i bambini di questi anni difficili «perdano il diritto alla straordinaria esperienza della scuola dell’infanzia che tutto il mondo ci invidia, l’unico campo in cui l’Italia ha raggiunto gli obiettivi europei». E infatti, ciò che la Ue chiedeva nelle famose “raccomandazioni di Lisbona” al nostro paese era di arrivare al 60% di occupazione femminile, al 33% di presenza nei nidi per i piccoli al di sotto dei 3 anni, e al 90% di frequenza dei bambini trai 3 e i 6 anni negli asili. E quest’ultimo era l’unico traguardo raggiunto. Fino a ieri. Lo scenario che Campioni, presidente del “Gruppo nazionale nidi e scuole d’Infanzia” ipotizza, è quello di una scuola per i più piccoli, sottoposta agli stessi vincoli che oggi già esistono per i nidi statali e comunali. «Non potendo più ammettere tutti, se non si invertirà la rotta, potranno accedere agli asili pubblici soltanto i meno abbienti, in un’idea puramente assistenziale del servizio, tutti gli altri si dovranno rivolgere alle strutture private, e molti magari rinunceranno ». Tornando agli anni in cui il primo accesso all’istruzione avveniva a sei anni. «L’espediente di molti Comuni — denuncia Francesco Scrima, sindacalista Cisl — sarà quello di formare classi anche di 30 bambini. Perdendo così ogni possibilità di un vero lavoro pedagogico». È come deprimere un patrimonio, enorme, di esperienze. Dai bambini di «aiutami a fare da solo» di Maria Montessori, ai piccoli dei «cento linguaggi» di Loris Malaguzzi. Così accade che in Toscana è stata la Regione a decidere di colmare il “buco” dello Stato, con uno stanziamento di 6,5 milioni di euro per riuscire a salvare l’asilo di quattromila bambini. «Nel nostro paese — conclude Francesca Puglisi, responsabile scuola del Partito Democratico — dalla Gelmini in poi il Miur ha dimenticato, anzi rimosso, l’infanzia. Facendo regredire la scuola dai 3 ai 5 anni ad una sorta di servizio a “domanda individuale” invece che a istruzione per tutti, nei fatti una vera e propria scuola dell’obbligo. E togliendo alle bambine e ai bambini il loro fondamentale diritto di crescere imparando».

Corriere 2.7.12
Eufileto e il delitto d'onore ad Atene
di Eva Cantarella


Il processo a Eufileto (si era attorno al 403 a.C.) fu seguito dagli ateniesi con appassionato interesse. Eufileto aveva sorpreso la moglie in flagrante adulterio, e per difendere il suo onore aveva uccisi l'amante di lei, Eratostene. Nel corso dell'orazione difensiva Eufileto raccontò nei dettagli la storia: la schiava di una ex amante di Eratostene lo aveva avvertito che sua moglie lo tradiva. Una schiava di casa, sottoposta a tortura, aveva confessato. Che altro poteva fare Eufileto per riscattare il suo onore, se non uccidere il rivale? Si trattava di attendere l'occasione, che finalmente arrivò: pensando che Eufileto fosse assente, Eratostene raggiunse l'amante. Eufileto, che non attendeva altro, corse a chiamare i vicini, perché vedessero e testimoniassero. La legge infatti, concedeva l'impunità a chi uccideva l'amante della moglie solo se lo sorprendeva in flagrante. E così fu sorpreso Eratostene: i primi testimoni lo videro sdraiato nel letto accanto alla moglie di Eufileto, quelli giunti subito dopo lo videro in piedi sul letto, nudo. Quanto bastava. Terrorizzato Eratostene supplicava Eufileto di non ucciderlo, ma Eufileto non lo ascoltò. Eratostene lo aveva disonorato, e lo uccise dicendo: «Non sono io che ti uccido, Eratostene; sono le leggi della città».

Repubblica 2.7.12
La chiusura della Fvg commission decisa in Friuli
La crociata anti-Bellocchio danneggia tutto il cinema


ROMA - Era partita come crociata anti-Bellocchio, "colpevole" di girare un film indirettamente connesso alla vicenda di Eluana Englaro. È sfociata nella decisione del Consiglio regionale del Friuli di chiudere la Fvg Film Commission, una decisione che, secondo molti, danneggia economicamente prima di tutto il Friuli visto che, finanziata con un milione di euro, la struttura muove affari per otto e dà lavoro a centinaia di persone. Le film commission (19, ognuna con una struttura giuridica diversa attraverso cui riceve ed elargisce finanziamenti) danno un sostegno concreto al cinema italiano in anni in cui il Fus, il Fondo unico dello spettacolo, si sta assottigliando. Quella del Friuli, insieme alla Torino-Piemonte film commission e alla pugliese Apulia film Commission, è stata finora una delle realtà più efficaci. Tra i film finanziati ci sono Come dio comanda di Salvatores, La ragazza del lago di Molaioli, la fiction C´era una volta la città dei matti. La decisione del consiglio regionale di sopprimerla non danneggia solo, ed è già grave, i film di Marco Bellocchio e di Giuseppe Tornatore (The Best offer) in fase di produzione, ma tutta l´industria dell´audiovisivo perché le commission sono un grande baluardo contro la delocalizzazione. Chiudere la Fvg Commission significa anche dare una mano alla concorrenza straniera, ai set a basso costo in Bulgaria all´Argentina. (a.fi.)