domenica 11 marzo 2012

Corriere della Sera 11.3.12
«L'articolo 18 non sia uno scalpo. Difesa con lotte mirate e dolorose»
Camusso: fare la Tav è utile per l'occupazione ma serve il dialogo
di Antonella Baccaro


ROMA — Susanna Camusso, la Fiom chiama lo sciopero generale se verrà toccato l'articolo 18. Cosa risponde il segretario della Cgil?
«Ho impressione che qualcuno abbia già messo in conto un nostro sciopero generale: una fiammata e via. Ma non può essere così: si aprirà una fase non breve di lotta».
A cosa si riferisce?
«A tante cose: scioperi articolati, proteste mirate, durature, più dolorose».
Non teme che il suo messaggio venga frainteso e alimenti tensioni incontrollabili?
«So che ci sono preoccupazioni, ce le abbiamo anche noi. Ecco perché vanno date risposte».
Cosa pensa della presenza dei No Tav nella manifestazione della Fiom?
«Nessuna forma d'iniziativa legittima può prevaricare la vita degli altri e sconfinare nella violenza. Penso che la Cgil debba avere un giudizio netto. Del resto la nostra posizione favorevole alla Tav l'abbiamo espressa al congresso: il Paese ha un disperato bisogno di investimenti. Dopodiché sarebbe meglio avere regole su come si decide. E comunque va ricostruito il dialogo: è impensabile fare i lavori per anni con la valle contro».
La trattativa sul mercato del lavoro riprende domani. C'è possibilità che si arrivi a un accordo?
«Cominciamo col dire che una riforma, anche una buona riforma, non creerà occupazione: è sbagliato illudere la gente. Serve altro».
Ad esempio?
«Investimenti, politiche industriali che ancora non vedo. La "fase due" della crescita mi sembra lontana: la delega fiscale si sta traducendo in aumento dell'Iva anziché nella riduzione della pressione fiscale sul lavoro».
Questo governo l'ha delusa?
«L'esecutivo Monti ha scelto di avere il piglio di chi vuole fare riforme strutturali, ha usato termini ambiziosi, come "cambiare la mentalità degli italiani". Ma poi questa intenzione si è tradotta nella continuità di politiche che penalizzano il lavoro».
Nel merito della riforma, ci sono punti di contatto sul tema dei contratti?
«Non c'è ancora una sintesi ma le proposte del ministro di far costare di più la flessibilità, eliminando quella cattiva, vanno nella giusta direzione».
C'è qualche novità sulla stabilizzazione dei precari?
«Al momento non ci sono risposte. Non si è mai nemmeno parlato di pubblico impiego dove la precarietà dilaga. Nè mi è piaciuto lo spettacolo del blocco dell'assunzione di 10 mila insegnanti».
Sugli ammortizzatori sociali lei dice che servono 15 miliardi. Può spiegare meglio?
«Attualmente ci sono 8,5 miliardi, tra contributi di imprese e di lavoratori, con l'estensione della contribuzione si potrebbe arrivare a 11. Mancano ancora 4 miliardi per avviare gradualmente la riforma».
Sui due pilastri voluti da Fornero? Cassa ordinaria e indennità di disoccupazione?
«No, non si può fare a meno della cassa straordinaria per le riconversioni che saranno tante dopo la crisi. E l'indennità va estesa a tutti, compreso chi vive il lavoro con discontinuità».
Veniamo all'articolo 18.
«Espungerlo dal tavolo sarebbe un atto di saggezza, limitiamoci a velocizzare i processi sul lavoro».
Ma se invece si procedesse, che farà la Cgil?
«Quando si porrà il problema ci penseremo. Vedo in giro qualche proposta di chi cerca solo uno scalpo. E poi c'è quella della Cisl, che estende le procedure dei licenziamenti collettivi a quelli individuali. Ma i licenziamenti individuali si possono già fare se non sono discriminatori».
Prenda il caso del lavoratore che, messosi in malattia, è andato a tirare il petardo al segretario della Cisl, Bonanni, ed è stato reintegrato sul posto di lavoro.
«Se il lavoratore ha violato la norma contrattuale ha ragione l'impresa, se non l'ha violata, è giusto il reintegro. Non tutte le malattie prevedono di stare a casa 24 ore su 24. Le norme ci sono: basta farle rispettare. Ad esempio, io mi chiedo perché non si impone mai al dirigente pubblico di controllare chi timbra e chi no».
Marcegaglia ha accusato il sindacato di difendere i fannulloni.
«Marcegaglia è stata presa da tentazione perché era all'assemblea di Federmeccanica... Ma non è che per evitare i problemi vadano cancellate le tutele».
Lei ha chiesto a Fornero di rivedere la riforma delle pensioni. Pensa ce ne siano i margini?
«Devono esserci. Non dispero di convincere il ministro che, con riferimento alle pensioni, non tutti i lavori sono uguali. Sul punto c'è una sensibilità fortissima e suggerirei sommessamente di tenerne conto...».
Intanto la Cgil è stata fischiata alla manifestazione della Fiom.
«Mi dicono che i fischi non erano dei lavoratori metalmeccanici. Dopodiché so che c'è una parte di movimento che ha un'idea antagonista. Ma il sindacato non è antagonista: costruisce accordi. Anche il segretario Fiom, Landini, ha detto che è per l'accordo, purché non si tocchi l'articolo 18. Che è quello che penso anch'io».
Veltroni, attaccando l'articolo 18, vi ha chiamati indirettamente «santuari del no».
«Io sento quello che dice il segretario Bersani: non mi sembra che voglia cambiare l'articolo 18. Gli altri si pongano il problema di pensare cosa proporre loro, piuttosto che dirci quello che dobbiamo fare noi».

l’Unità 10.3.12
San Giovanni piena di metalmeccanici. Landini al governo: l’articolo 18 non si tocca
Ma una parte dei manifestanti fischia il segretario confederale della Cgil Scudiere
La piazza della Fiom «Marchionne attacca la nostra storia»
Lo sciopero Fiom riempie piazza San Giovanni. Ma niente numeri: «Contateci voi». Sul palco tanti applausi ai delegati Fiat, mentre una parte della piazza fischia il segretario conferederale Cgil Vincenzo Scudiere.
di Massimo Franchi


«Siamo una piazza di pericolosi metalmeccanici». La Fiom torna a riempire San Giovanni, svuotando le fabbriche. Cancellate le ordinanze di Alemanno, il centro di Roma viene ri-attraversato da un lunghissimo corteo rosso. Niente cifre («Contate-
ci voi»), niente confronti con quel sabato 16 ottobre del 2010, «perché quella fu una manifestazione e questo è stato uno sciopero». Più operaio e meno politico, il venerdì 9 marzo 2012. Poche bandiere “No tav”, pochi studenti. La scena se la prendono innanzitutto i delegati e gli operai della Fiat, rivendicando «il loro coraggio di resistere in una situazione durissima», di non rinunciare a quella tessera così pesante a costo del posto o della dignità.
OPERAI FIAT SUL PALCO
Parlano tutti insieme dagli stabilimenti de-fiomizzati da Marchionne. C’è Nina Leone, delegata a Mirafiori che urla: «Non siamo ladri, i ladri sono quelli che portano i soldi all’estero». C’è Ciro D’Alessio di Pomigliano che in fabbrica rischia seriamente di non rientrare mai più, c’è Giovanni Barozzino, uno dei «tre di Melfi» che Marchionne paga e lascia fuori dalla fabbrica nonostante la sentenza di reintegro. E c’è Maurizio Landini, il loro segretario generale che «però è uno di noi», che si fa il corteo con lo zaino in spalla e poi sul palco indossa la felpa rossa, ormai d’ordinanza. «Siamo la parte migliore del Paese, la parte che vuole cambiare le cose, che difende la libertà e la democrazia e non accettiamo lezioni da nessuno esordisce il segretario dei mettallurgici Cgil -. Chiediamo che la Costituzione sia applicata in tutti i luoghi di lavoro, a partire dalla Fiat».
Ogni punto del suo discorso viene preceduto dalla stessa premessa: «Vorrei essere chiaro». Il primo riferimento è a Marchionne: «Davanti a lui non ci caviamo il cappello e spero faccia così anche la politica». La promessa di Landini al suo popolo è sibillina: «Non abbiamo nessuna intenzione di rientrare in fabbrica dalla finestra, come qualcuno ci consiglia (magari firmando quello che Landini non chiama contratto, ma regolamento, ndr), noi nelle fabbrica rientreremo dalla porta». Quello di Marchionne «è un attacco alla storia delle relazioni sindacali di questo Paese, contro la storia confederale». E su questo tasto continua a puntare anche quando parla della «necessità di mantenere il contratto confederale perché bisogna che un metalmeccanico abbia gli stessi diritti sia in una grande azienda sia in una piccola» perché «se passa il modello Fiat non c’è più libertà per i lavoratori, per le persone».
Poi arrivano i messaggi al governo: «L’articolo 18 non si tocca. Si vogliono velocizzare i processi? Prontissimi, ma nient’altro, a meno che non si voglia estenderlo a tutti».
Sulla riforma del mercato del lavoro la Fiom non si distingue dalla casa madre Cgil: «Noi vogliamo che si faccia un accordo e che lunedì il governo si presenti al tavolo con i soldi per allargare gli ammortizzatori sociali». In caso contrario, l’offerta «alla Cgil è quella di questa piazza»: «Se da lunedì non parte una trattativa seria e non ci saranno risposte, da questa piazza c’è la disponibilità a proseguire» nella mobilitazione «anche fino allo sciopero generale». Ma nel mirino ci sono anche l’articolo 8 di Sacconi, «quello chiesto da Marchionne a Berlusconi», quello per cui «se il governo e la politica non lo cancelleranno, raccoglieremo le firme per un referendum abrogativo», e l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, quello modificato da un referendum appoggiato all’epoca dalla Fiom, ieri usato da Marchionne per espellere la stessa Fiom perché non ha firmato il contratto di gruppo, e che «la prossima settimana parecchi parlamentari di vari partiti proporranno di modificare».
L’obiettivo finale è «riconquistare il contratto nazionale». E per farlo arriva l’ennesima richiesta «a Fim e Uilm»: «Nel rispetto dell’accordo del 28 giugno scriviamo insieme un accordo sulla democrazia, sulla rappresentatività». Se, com’è quasi scontato, l’invito sarà rigettato, Landini rilancia la mobilitazione: «Lotteremo fabbrica per fabbrica, territorio per territorio e lo riconquisteremo».
Prima di Landini era toccato al segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere prendere la parola e venire fischiato da una parte della piazza.
Ma la dimostrazione che si sia trattato di fischi “a prescindere” sta nei fatti. Il 16 ottobre 2010 Guglielmo Epifani fu fischiato perché non pronunciava le parole «sciopero generale», chiesto a gran voce dalla stessa piazza. Ieri Scudiere è stato fischiato prima e dopo di aver intimato al governo: «Se non ci saranno risposte uno sciopero generale non basterà, servirà molto di più». Scudiere ha usato parole molto simili a quelle di Landini: «Lunedì al governo chiederemo se sono state trovate le risorse per gli ammortizzatori. Bisogna andare a cercarle dove ci sono: grandi ricchezze, evasione, grandi patrimoni. È questo il segnale: i lavoratori non ci stanno a pagare il prezzo della crisi».

l’Unità 10.3.12
Presenti con discrezione Vendola, Diliberto, Ferrero. Torna in corteo Bertinotti
Flores dal palco insulta Bersani. D’Alema: molti nostri elettori certamente erano in piazza
La sinistra con gli operai tra abbracci e contestazioni
Pochi i politici al corteo Fiom. In piazza quattro Pd disobbedienti, una bandiera da Modena, Vendola, Ferrero e Diliberto e una delegazione Idv. Flores d’Arcais insulta Bersani. Misiani: «Sembra il gemello di Bossi».
di Andrea Carugati


Il Pd non c’era, Vendola sì ma un po’ sotto tono, niente accoglienze da star, breve tratto di corteo e poi via per altri impegni. Di Pietro assente giustificato per malattia, al suo posto una piccola delegazione Idv, con Orlando e i capigruppo. Non potevano mancare Ferrero e Diliberto. C’erano anche quattro democratici, i senatori Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi, Furio Colombo e il lombardo Pippo Civati.
Poco affollamento di politici, dietro al palco della Fiom. Nulla al confronto di una analoga manifestazione dell’ottobre 2010, quando i big del Pd avevano ugualmente deciso di restare a casa, e Di Pietro e Vendola facevano a gara (vinta largamente da “Nichi”) per conquistare l’affetto e i voti delle tute blu.
Stavolta no. Il corteo e la piazza sono stati dei metalmeccanici, delle felpe rosse con la scritta Fiom, di Maurizio Landini, leader di questo popolo che va oltre le fabbriche, e riunisce precari, studenti, sinistra diffusa e in cerca di simboli, di leader. In piazza San Giovanni, qualcuno sussurra, ha sfilato il partito di Landini. I No Tav ci sono, ma quasi non si notano. Presenza discreta, niente scene da Val Susa, semmai qualche bandiera che si confonde con quelle della Fiom, di Sel, di Rifondazione e dei tanti micropartiti con falce e martello. Dal palco parla Sandro Plano, presidente della Comunità montana della Valsusa, iscritto al Pd: «Mi spiace che il mio partito non sia qui. E se la mia presenza è una scusa per non esserci mi spiace ancora di più». E non è il solo che dal palco polemizzerà con il Pd.
Bertinotti, che cammina in mezzo al corteo, lontano da tutti, parla di «solitudine degli operai, rotta solo dalla Fiom, che diventa una calamita di tutti quelli che in questo Paese hanno qualcosa da dire, che non si fanno irretire». «Questa piazza conferma la necessità di una grande forza di sinistra in Italia», mastica amaro l’ex leader di Rifondazione. «Una sinistra che non vive le lotte operaie semplicemente non esiste».
Tra Vendola e i dipietristi, i toni verso il Pd restano bassi. «Chiunque non viene perde qualcosa, quando la politica si allontana dalle sofferenze del mondo del lavoro diventa opaca e autoreferenziale», dice il governatore pugliese, convinto che «molto popolo democratico è qui in piazza, questa è la mia coalizione». Tra quelli dell’Idv, solo il kamikaze Barbato sceglie la polemica, «il Pd ha tradito i lavoratori, preferiscono i poteri forti».
Chi esce di più dalle righe è il direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais, che dal palco accomuna Bersani a Berlusconi e Marcegaglia: «Questi che si stracciano le vesti perché la Fiom fa politica hanno la faccia come il culo». Parole che vengono rispedite al mittente dai democratici: «La Fiom prenda le distanze», dice Nico Stumpo. «Flores sembra il gemello di Bossi», affonda Antonio Misiani.
DA MODENA L’UNICA BANDIERA PD
I democratici che sfilano con le tute blu non hanno dubbi: «Il Pd ha fatto un errore». Lo dice il pensionato di Modena con l’unica bandiera democratica, «ho chiesto il permesso al mio segretario di sezione, voleva venire anche lui...».
Lo dice Vincenzo Vita: «Qui il tema sono il lavoro, i diritti, le discriminazioni, l’articolo 18. La Tav non c’entra. Hanno deciso di non venire per problemi di risiko tra correnti, sottovalutando che qui c’è una parte costitutiva del nostro partito». «Quando i lavoratori si difendono da un’aggressione irragionevole come quella di Marchionne devi stare al loro fianco», ragiona Furio Colombo. «Invece il Pd ha lanciato il suo divieto, e proprio nei giorni in cui Obama riceveva un’ovazione all’assemblea del sindacato dei metalmeccanici Usa...».
Pippo Civati, ex rottamatore, racconta: «Ho visto un sacco di nostri iscritti ed elettori, delusi dall’assenza del partito. È un peccato, Fassina e Orfini avevano avuto un’intuizione giusta. È vero che qui ci sono anche sentimenti ostili al governo, ma vanno ascoltati e capiti, anche se non si condividono».
Commenta Massimo D’Alema: «Il Pd è un concetto molto vasto, un partito con centinaia di migliaia di iscritti, milioni di elettori. Immagino che molti di questi siano stati anche in piazza». «Ma i partiti intesi come simbolo, gruppi dirigenti ha concluso non sono sindacati e non fanno manifestazioni». E Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria Pd: «Se si parla di democrazia nei luoghi di lavoro e dei diritti noi ci saremo sempre. Il punto sta attorno alla chiarezza degli obiettivi che non devono essere ambigui. Le decisioni pubbliche, anche sulle infrastrutture, devono arrivare in porto».

il Riformista 10.3.12
Polemica sull’adesione. Per Fiat è solo al 5,7%
Per i metalmeccanici di Corso d’Italia sono scesi in piazza 50mila lavoratori. «Numeri surreali» secondo l’azienda automobilistica. Confermato l’incontro tra Monti e l’ad del gruppo. Non parteciperà Passera
di Gianmaria Pica


E la Fiat come replica alla Fiom? A colpi di dati. Se per i metalmeccanici della Cgil l’adesione degli operai del Lingotto alla manifestazione è stata del 23,2 per cento (in totale oltre 50mila operai), per l’azienda automobilistica invece è stata soltanto del 5,7 per cento. Insomma, una differenza percentuale di 17 punti e mezzo.
Al di là dei numeri, la questione Fiat è molto più complessa. La scorsa settimana con un intervista rilasciata al Corriere della Sera l’amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne, ha affermato che il gruppo dovrà rivedere il piano industriale, con la probabile chiusura in Italia di due stabilimenti: Pomigliano e Mirafiori. Immediata la convocazione a Palazzo Chigi dell’ad e del presidente del Lingotto, John Elkann. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, incontrerà i due manager il prossimo 16 marzo. Il superministro, Corrado Passera, non parteciperà al vertice, ma ha affermato «è come se ci fossi». Alla domanda se ci siano ulteriori incontri in programma con l’ad del Lingotto, Passera ha risposto: «Noi ci sentiamo ogni tanto».
Ma di cosa parleranno Monti e Marchionne? Innanzitutto, l’incontro, spiega la presidenza del Consiglio, «era programmato da tempo». Come a dire che non è da collegare alle indiscrezioni smentite sulla possibile chiusura delle due fabbriche e nemmeno alle recenti dichiarazioni sul quartiere generale del manager italo-canadese (forse Detroit). Giovedì 15 marzo, il giorno prima della riunione, il ministro del Lavoro, El-
sa Fornero, terrà in Senato un’informativa sulle prospettive occupazionali della casa torinese.
Dopo le polemiche sugli stabilimenti, la stessa Fornero dopo aver parlato con i vertici Fiat ha detto: «Le rassicurazioni di Elkann e Marchionne sugli investimenti in Italia mi sono parse del tutto convincenti e su queste io mi baso». Il ministro del Lavoro però non si sbilancia e
l’ipotesi dell’apertura di un tavolo di crisi con Fiat ha spiegato: «Non lo so, non posso anche sapere le intenzioni del presidente del Consiglio, se lo vuole fare, io ovviamente sono a sua disposizione». «A me ha aggiunto Fornero importa il piano occupazionale: so che in questo momento la Fiat non ha, per bocca del suo presidente e del suo amministratore delegato, intenzione di tagliare nel medio periodo posti di lavoro perché non ha intenzione di chiudere stabilimenti, ma anzi ha l’intenzione opposta di investire». Anche il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha chiesto maggiori garanzie sulla continuazione del progetto italiano di Fiat: «Monti ha affermato Bersani ha fatto molto bene a voler incontrare Marchionne. Gli italiani non sono più stupidi degli americani. Il manager ci dica una volta per tutte dove investe per Fabbrica Italia e dia garanzie sugli stabilimenti, senza continuare a scaricare sugli altri la colpa dell’incertezza».
Che la politica industriale di Fiat punti all’estero non è più un segreto. Lo conferma un’indiscrezione pubblicata sul Wall Street Journal di Ieri. Per il quotidiano americano, Fiat e General Motors avrebbero discusso «brevemente» all’inizio dell’anno la possibilità di unire le proprie attività europee, ma il dialogo non sarebbe mai arrivato ai rispettivi consigli di amministrazione. E Gm ha optato per un’alleanza con Peugeot «mettendo fine alla possibilità di un accordo con Fiat». Secondo il Wsj, Fiat avrebbe cercato di convincere Gm che sarebbe stato un partner migliore di Peugeot. Poi, però, Gm avrebbe optato per Peugeot, «mettendo rapidamente fine alla possibilità di un ampio accordo con Fiat». Opel/Vauxall e Peugeot evidenzia il giornale finanziario sono le due case automobilistiche europee più colpite dal calo delle vendite. «Fiat e Peugeot hanno una joint-venture per produrre veicoli commerciali in Italia e hanno separatamente discusso un’alleanza negli ultimi mesi». Insomma, le discussioni fra Gm e Fiat mostrano l’interesse del settore automobilistico nel risolvere i problemi comuni tramite le alleanze, in contro tendenza rispetto agli ultimi anni in cui le case automobilistiche hanno lavorato separatamente al rilancio delle loro attività. Ma dimostrano anche che la politica “estera” di Fiat non si è ancora fermata.

l’Unità 10.3.12
La Fiom resista al partito che non serve
di Francesco Cundari


Si dice che le recenti tensioni tra Pdl e governo siano semplicemente la prova che la campagna elettorale per le amministrative è cominciata. Ma a giudicare dall’agitazione che caratterizza partiti vecchi e nuovi, e attorno a loro movimenti, giornali, leadership già affermate o in formazione, non pare una campagna destinata a chiudersi tra pochi mesi.
Tanta agitazione e tanto fervore di iniziative non si giustificano, evidentemente, con il rinnovo di qualche consiglio comunale, per quanto importante.
Da questo vortice di legittime aspirazioni politiche e non celate ambizioni personali è bene che la Fiom sia tenuta al riparo. Se la battaglia contro la discriminazione degli operai iscritti alla Fiom negli stabilimenti Fiat è oscurata anche solo per un istante dagli insulti al segretario del Pd pronunciati dal palco della manifestazione di ieri, o dai fischi alla stessa Cgil, o dalle piccole rivalità tra gli esponenti del centrosinistra presenti al corteo, non ne viene un grande aiuto alla battaglia del sindacato. Battaglia che è già abbastanza difficile.
Di fronte a un attacco di inedita asprezza e radicalità come quello guidato da Sergio Marchionne negli ultimi due anni, è comprensibile che Maurizio Landini si sia preoccupato anzitutto di evitare l’isolamento della sua organizzazione, anche nel dibattito pubblico, che in Italia è quello che è.
Da tempo tira una gran brutta aria, nel nostro Paese, per operai e sindacati. E non sono stati in molti a contrastare per tempo l’offensiva di Marchionne, nemmeno a sinistra. Un’offensiva cominciata a Pomigliano e culminata nell’uscita di Fiat da Confindustria, con l’esplicito tentativo di imporre la linea della rottura all’intera imprenditoria italiana.
Le note stonate della manifestazione di ieri, ovviamente, non tolgono nulla all’importanza di questa battaglia, in cui il
sindacato non può essere lasciato solo, per nessuna ragione. Ma sono la spia di un contesto politico e sociale in fermento, in cui si mescolano istanze diverse e contraddittorie, in una generale ansia di rinnovamento che rischia di tradire molto presto le sue promesse, proprio come vent’anni fa.
Lo dimostra il ritorno in campo di un vecchissimo armamentario di slogan e parole d’ordine contro la politica e contro i partiti che ha avuto grande fortuna all’inizio degli anni Novanta, con la crisi della Prima Repubblica. E lo dimostra anche l’incontenibile attivismo di tanti amministratori locali, già stanchi di un lavoro spesso appena cominciato, ma faticoso e prezioso come quello del sindaco o del presidente di Regione, e impegnatissimi a costruirsi il trampolino verso un impegno nazionale da protagonisti.
Da questo magma indistinto emerge quindi sui mezzi di comunicazione un paradossale miscuglio di sindaci-sceriffi e no tav, decisionismo e assemblearismo, sostenitori del mercato come unico argine alla corruzione dello Stato e sostenitori dello Stato come unico argine alla corruzione del mercato.
Venti anni fa, il più rapido e il più abile a cavalcare una simile onda, con tutte le sue contraddizioni, fu proprio il Cavaliere. Sarebbe bene, pertanto, evitare di ripetere gli stessi errori di allora. Non perché Silvio Berlusconi, ormai, rappresenti ancora una minaccia reale. Ma perché i berlusconiani sono molto più numerosi di quel che possa apparire a prima vista, e non stanno solamente nel Pdl.

il Fatto 10.3.12
Fiom: il dovere di lottare
di Paolo Flores d’Arcais


Pubblichiamo il testo dell’intervento letto alla manifestazione della Fiom, piazza San Giovanni, Roma, ieri, venerdì 9 marzo 2012

Un certo signor Marchionne ha accusato la Fiom di fare politica. Una certa signora Marcegaglia si lamenta che la Fiom fa politica. Un certo cavalier Berlusconi ha sempre trattato la Fiom come il demonio, perché fa politica, chiedendo esorcismi ai Sacconi, i Brunetta e altri chierichetti del suo regime. Buon ultimo è arrivato l’onorevole Bersani, che ha vietato ai dirigenti del Pd di partecipare a questa manifestazione, perché la Fiom fa politica, anzi una brutta politica, visto che da questo palco parlerà anche un dirigente del Pd della Val di Susa, ex sindaco e più che mai No Tav. Vorrei dirlo sommessamente, con i toni sobri che sono di prammatica da quando abbiamo un nuovo governo: questi signori, ogni volta che si stracciano le vesti perché la Fiom fa politica, hanno la faccia come il culo.
NON FA FORSE politica Marchionne, quando col sostegno di qualsiasi governo e dei media asserviti, impone che nelle fabbriche la Costituzione diventi carta straccia? Non fa politica la Confindustria, un giorno sì e l’altro pure, che dai governi pretende sempre favori per i padroni (con i soldi nostri) e sacrifici per gli operai? Non fanno politica i grandi banchieri, al punto che uno di loro è ormai il ministro più potente del governo “tecnico”? E il partito di Bersani non ha candidato nelle sue liste i Calearo e i Colaninno (bella roba, sia detto en passant, per un partito che si dice riformista e forse di sinistra), ritenendo normale che gli imprenditori facciano politica? E per quale motivo, allora, per quale discriminazione, per quale ontologica indegnità, non dovrebbero fare politica i metalmeccanici e i loro dirigenti? Per un unico motivo, forse. Che la loro politica (cioè la vostra) è una buona politica, che la politica della Fiom è una bella politica, la politica dei lavoratori per i lavoratori, dei cittadini per i cittadini. Lontana mille miglia, anzi opposta e alternativa, alla politica delle cricche e delle ruberie, delle nomenklature e delle corruzioni, che fanno costare agli italiani ogni chilometro di opera pubblica cinque volte di più che ai francesi, o tedeschi o spagnoli. Giuliano Ferrara, un altro che considera la Fiom una iattura, anni fa, discutendo di Mani Pulite con Piercamillo Davigo, ha spiegato che il politico esemplare deve essere ricatta-bile. Proprio così: ricattabile. È stato prontamente accontentato. Nella presidenza della Regione Lombardia quattro politici su cinque hanno guai con la giustizia. Esiste un quartiere malfamato, il più malfamato che si possa immaginare, in cui l’80% della popolazione abbia guai con la giustizia? Nemmeno in quelli della Chicago di Al Capone. Ma nel Pirellone di Formigoni, sant’uomo di Comunione e Liberazione, sì. C’è da stupirsi se poi qualche satirico parla di Comunione e Fatturazione?
La verità è che, politici o tecnici che siano, vogliono impedirvi di fare politica per tenerla in monopolio, per farla fare solo ai banchieri che strangolano il credito, agli imprenditori che licenziano, ai parassiti che evadono e ai padroni delle tessere che inciuciano. Vogliono che la politica rimanga “cosa loro”, e la sovranità del cittadino, cioè di ciascuno di voi, che pure è solennemente ricamata in ogni Costituzione, sia solo una beffa. Vogliono che a fare il premier sia sempre uno di loro, mai uno dei vostri, mai un sindacalista.
VOI, COL VOSTRO sciopero, avete detto NO! a questa pretesa indecente e antidemocratica. Se un banchiere può essere premier, a maggior ragione può esserlo un sindacalista, visto che l’Italia è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. La politica moderna è nata in Europa col suono di tre parole: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza. Voi col vostro sciopero e le vostre lotte state semplicemente riproponendo i valori più autentici della vera politica. Voi volete che queste tre parole – così insopportabili per i gerarchi dell’establishment – tornino a rappresentare il futuro, non la nostalgia del passato. Oggi tutta l’Italia democratica vi deve ringraziare. Voi siete la speranza, perché siete la lotta.

Corriere della Sera 11.3.12
Ingroia: su Dell'Utri demolita la cultura di Falcone
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — «C'è chi ha avuto come maestro Corrado Carnevale, chi invece Falcone e Borsellino. Non posso dirmi sorpreso della decisione della Cassazione, però sono preoccupato. Ho la sensazione che l'ultima sentenza della Corte su Marcello Dell'Utri e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino». È stato il commento del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. «Se il procuratore generale della Cassazione ha espresso forti perplessità sul reato di concorso esterno contestato a Dell'Utri», Ingroia ricorda che nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso Ter Falcone e Borsellino «scrivono che la figura del concorso esterno è la più idonea per colpire l'area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa. Dunque il concorso esterno non è un'invenzione della Procura di Palermo, ma un insegnamento di Falcone e Borsellino».
Il dibattito innescato dalla decisione della Suprema Corte però va ben al di là del significato processuale dell'annullamento della condanna nei confronti di Marcello Dell'Utri. Sostiene Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato. «Dopo la sentenza della Cassazione su Dell'Utri, rilanceremo la nostra offensiva di verità sulle vicende riguardanti la mafia». E ancora: «La trattativa Stato-mafia è attribuibile alla fase '92-'93, quando al vertice delle istituzioni c'erano Ciampi, Scalfaro, Mancino, Conso e altri. È stato sotto il loro comando che sono stati cancellati centinaia di provvedimenti sul carcere duro, il 41bis». Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto rilancia sulla stessa linea, citando quanto ricostruito dall'ex Guardasigilli Alfano. Cicchitto elenca una serie di fatti: «Il 15 maggio 1993, 127 provvedimenti sul 41 bis (cioè il carcere duro per i mafiosi), cosiddetti «delegati» cioè firmati non dal ministro ma dai vertici dell'amministrazione penitenziaria, vennero revocati proprio dal Dap. Vennero inoltre fatti scadere 334 provvedimenti di 41 bis delegati a carico di altrettanti esponenti mafiosi. In sintesi: tra annullamenti della sorveglianza, revoche d'ufficio e scadenze senza ulteriore proroga vennero meno in questo modo tutti i provvedimenti 41bis delegati per un totale di 574 detenuti».
«Le sentenze vanno rispettate sempre, ma non possono essere stiracchiate per fargli dire quello che fa comodo» ha scritto sul suo blog il leader dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. «Ci rifiutiamo di credere che la sentenza della Cassazione sarà la pietra tombale per tutta la storia d'Italia di questi ultimi 19 anni, fondata sulla strage di Via dei Georgofili del 27 Maggio 1993», ha affermato il presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime, Giovanna Maggiani Chelli.

il Fatto 11.3.10
Ingroia: “Con Dell’Utri demoliscono l’Antimafia”
Il procuratore aggiunto di Palermo: “Spero che la sentenza della Cassazione non sia il colpo di spugna sul metodo Falcone Ma noi, sulla trattativa Stato-mafia, andiamo avanti”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Spero che questa sentenza non si trasformi nel colpo di spugna finale al cosiddetto metodo Falcone, perchè da due decenni siamo testimoni di un’instancabile opera di demolizione del lavoro della magistratura siciliana, iniziato dal pool antimafia di Falcone e Borsellino, e proseguito, dopo la loro morte, nel solco giuridico da loro aperto”. È sorpreso, ma non troppo, dall’esito del verdetto, che “non ha assolto Dell’Utri”, esprime amarezza per la demolizione della cultura giuridica di Falcone e Borsellino e assicura: “Nessuna refluenza sulle indagini sulla trattativa”, in cui è indagato lo stesso Dell’Utri. Parla Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo.
Dottor Ingroia, Dell’Utri si è detto “molto soddisfatto” di questo verdetto della Cassazione. E lei?
Fermo restando che i giochi sono ancora aperti, perchè questa non è una sentenza di assoluzione, e tutto si deciderà nel nuovo processo, c’è amarezza per la coincidenza del ventennale della morte di Falcone e Borsellino. Siamo in una fase molto delicata di acquisizione di nuove verità: sulle stragi e sui depistaggi. È triste assistere, proprio in questo anno, al montare di un nuovo revisionismo politico-giudiziario sulla stagione di Falcone e Borsellino, perchè non dimentichiamo che il concorso esterno è una creazione che nasce da una loro idea, messa a punto durante l’istruttoria del maxiprocesso, per scoprire le collusioni dei colletti bianchi. L’amarezza, poi, viene anche dalla mia convinzione che c’erano tutti i presupposti per rigettare il ricorso della difesa di Dell’Utri e accogliere quello del pg di Palermo Nino Gatto, il contrario cioè di quanto è stato fatto.
Se l’aspettava?
Mi sento alquanto sorpreso per questo esito perchè conosco le prove che ci sono nel processo, ma non posso dirmi altrettanto sorpreso conoscendo la cultura della prova del presidente Grassi, che è totalmente lontana dalla mia. La mia è quella che viene dagli insegnamenti di Falcone e Borsellino, quella di Grassi non so.
L’intervento del pg Iacoviello rischia di delegittimare i processi che sono in corso e le condanne già comminate con questo tipo di reato?
Dire che al concorso esterno non crede più nessuno, fa a pugni con tante sentenze ormai definitive nei confronti di politici siciliani come Franz Gorgone ed Enzo Inzerillo, e di alti funzionari dei servizi segreti come Ignazio D’Antone e Bruno Contrada. Da un lato Iacoviello ha voluto sottolineare come l’annullamento con rinvio non equivale a una dichiarazione di innocenza dell’imputato, specificando che il problema sta nella motivazione sbagliata, ma d’altra parte alcuni suoi passaggi ed espressioni un po’ forti appaiono incoerenti con questa conclusione. Incoerenti e contraddittorie persino con le pronunce delle Sezioni unite. È indubbio che la Cassazione creda al concorso esterno, avendone stabilito la validità nelle sentenze Carnevale e Mannino, ed evidentemente ci crede lo stesso Iacoviello visto che non ha chiesto l’annullamento senza rinvio.
Però la sentenza che ha assolto Mannino circoscrive sensibilmente l’area di applicazione del concorso esterno…
La sentenza Mannino dice che per rispondere di questo reato occorre la prova di condotte concrete che si risolvono in un rafforzamento dell’associazione mafiosa, e poi sostiene che nel caso di Mannino questa prova non c’è. Ma non è certo il caso di Dell’Utri. Il processo al senatore Pdl contiene una miriade di fatti concreti e non può essere messo sullo stesso piano di quello di Mannino.
Da oggi, secondo lei, sono messi in discussione i rapporti tra Dell’Utri e la mafia?
Bisogna leggere le motivazioni. Penso però che se fosse stato messo in dubbio radicalmente il rapporto Dell’Utri–mafia e il contributo di Dell’Utri alla mafia, la Cassazione avrebbe deciso un annullamento senza rinvio.
Il verdetto del presidente Aldo Grassi ha dato la stura al consueto coro del centro-destra contro ‘’i processi senza diritto’’. Qualcuno si è spinto addirittura a chiedere il risarcimento dei danni per Dell’Utri…
Si tratta di un coro dettato in parte dall’ignoranza e in parte dalla malafede. C’è chi non ha capito che Dell’Utri non è stato riconosciuto innocente, e c’è chi finge di non averlo capito.
In questo Paese ci sono oggi i presupposti per migliorare gli strumenti giuridici della lotta alla mafia?
A leggere le reazioni a questa sentenza - che è stata accolta sull’onda della tifoseria e della rivalsa nei confronti della magistratura - non mi pare che ci siano i presupposti per un serio e franco dibattito.
Come influisce la sentenza della Cassazione sulle indagini in corso sulla trattativa?
In nessun modo. Nel procedimento sulla trattativa si procede per un’ ipotesi di reato totalmente diversa da quella del concorso esterno, e sulla base di elementi di prova acquisiti successivamente, e mai presi in considerazione nè dalla Corte d’Appello nè dalla Cassazione.

La Stampa 10.3.12
La verità giudiziaria e quella della storia
di Francesco La Licata


E adesso ci sarà chi griderà alla vittoria sui «pubblici ministeri che pretendono di scrivere la storia» e chi si aggrapperà ancora all’eventualità che un nuovo processo, già ordinato dalla Cassazione in un collegio diverso da quello appena sconfitto, possa dimostrare la fondatezza della tesi accusatoria della Procura di Palermo. Questo è il quadro che puntualmente ci viene consegnato, ogni volta che una sentenza definitiva accontenta o scontenta i contrapposti gruppi politici l’un contro gli altri armati.
Così è avvenuto con l’«assoluzione parziale» di Giulio Andreotti, «macchiata» dalla millimetrica prescrizione per alcune delle accuse, così durante gli altalenanti risultati dei diversi gradi di giudizio del processo all’ex ministro Calogero Mannino, alla fine assolto - anche lui - per la difficoltà di tenere il punto in Cassazione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma forse bisognerebbe concludere che così avviene quando la posta in palio riguarda i volti delle istituzioni e, per automatismo, i giudici vanno alla ricerca di accertamenti più profondi risolvibili con salomoniche mediazioni. Nel caso del processo Dell’Utri - a giudicare dalle parole del procuratore generale e della relatrice - ci sarebbe in più una certa debolezza nell’esposizione delle tesi accusatorie, debolezza che si riverbera irrimediabilmente nella logica delle motivazioni offerte alla Suprema Corte. Ma questo sarà argomento discutibile solo dopo la lettura delle conclusioni di ieri sera.
E’ vero che logica vorrebbe che ogni processo facesse storia a sé, ma è pur vero che lo stesso svolgersi degli avvenimenti quotidiani offre il fianco per una lettura, come si dice, di squisita natura politica. Del resto basterebbe mettere in fila gli ultimi sviluppi giudiziari, cominciati con l’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica», per verificare come siano tenuti insieme da un sottile filo politico. Dall’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima, fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano: un’unica storia che ha visto coinvolti uomini politici di prima grandezza e fior di istituzioni. In appena 48 ore abbiamo assistito all’agghiacciante quadro descritto dai magistrati di Caltanissetta sulla strage Borsellino e al clamoroso ribaltamento di due sentenze di condanna nei riguardi del sen. Marcello Dell’Utri. Sono vicende separate, certo. Ma sono storie che nell’immaginario viaggiano sulla stessa trama. Forse, allora, si dovrebbe prendere atto che la soluzione giudiziaria possa non corrispondere al reale conseguimento della giustizia, che la verità processuale possa non coincidere con quella storica. In tal caso, però, dovrebbero essere le istituzioni politiche, il Parlamento, ad assumersi l’onere di colmare i vuoti che la magistratura per forza di cose è costretta a lasciare.
Si potrebbe discutere a lungo sui singoli «addebiti» contestati all’imputato Dell’Utri. Certo, sono provate alcune frequentazioni discutibili (Tanino Cinà, lo stalliere Vittorio Mangano in primis) e si potrebbe persino fare della facile ironia sulle telefonate coi mafiosi o sulla sua presenza al matrimonio londinese di un boss italo-americano, presenza giustificata come «casuale», trovandosi lui a Londra per visitare una mostra sui vichinghi. Sono episodi non edificanti ma, ha sostenuto il Pg, non dimostrano il concretizzarsi del concorso esterno. Le frequentazioni, insomma, non sono reato, come non lo furono per Calogero Mannino e per le strette di mano dispensate da Andreotti. Ma non dovrebbero neppure essere sottovalutate in un giudizio politico e morale che non attiene più alle prerogative delle aule di giustizia.
Paradossalmente, forse, a favore di Dell’Utri ha giocato l’enorme mole di atti entrati nel processo in corso d’opera. Durante l’appello sono arrivate le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza (lo stesso del processo Borsellino) con le accuse sul presunto coinvolgimento dell’imputato, e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, nelle vicende delle stragi mafiose. Ancora le stragi, ancora il filo rosso che trascina nelle aule di giustizia un’intera stagione politica. Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di una innaturale sinergia, diciamo organica, tra mafia e politica. Neppure quello ad Andreotti pure offerto all’opinione pubblica come «La vera storia d’Italia». E il processo che si profila all’orizzonte di Caltanissetta soffre già del vizio d’origine: la difficoltà di provare il coinvolgimento dei politici che, infatti, sono stati indicati come «presenti» nel palcoscenico del periodo della «trattativa» e delle stragi, ma senza «mani sporche». Una mediazione possibile, come in quasi tutti i processi di mafia e politica, compreso quello contro il sen. Dell’Utri, che può sperare in un nuovo processo e, in subordine, nella prescrizione. Il nuovo clima, derivato dalla caduta di Berlusconi, per paradosso gli può persino giovare. Senza con questo voler credere in una magistratura sensibile ai cambi di stagione.

Repubblica 10.3.12
Il vizio ad personam della prescrizione
di Attilio Bolzoni


FREQUENTARE la mafia non è reato. Se poi la giustizia è lenta, non è neanche un problema. Ne sa qualcosa Marcello Dell´Utri, senatore della Repubblica, bibliofilo, inventore di Forza Italia e in intimità con i «meglio» boss di Palermo. Devono rifare il suo processo. Significa che non ci sarà mai una vera sentenza.
Significa che di riffa o di raffa, lui si salverà per prescrizione. Finisce così una delle più incredibili vicende del nostro Paese - giudiziarie ma non solo giudiziarie - dell´ultimo quarto di secolo, la storia di un siciliano doc che si è trascinato le sue conoscenze palermitane nella Milano dove cominciava la grande scalata al potere un signore di nome Silvio Berlusconi. Finisce come era cominciata tanto tempo fa: nella normalità italiana.
L´imputato non doveva mai diventare un imputato.
Cosa ha fatto di così grave per scivolare negli ingranaggi delle investigazioni antimafia? Aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola ma che importa, mica c´è la prova di un suo «contributo» all´associazione criminale denominata Cosa Nostra? Stare una vita al fianco di Vittorio Mangano, lo «stalliere» di Arcore, trafficante di stupefacenti, uomo d´onore della famiglia di Porta Nuova, non è illecito. Invitare il sicario Gaetano Grado o il capo della decina di Santa Maria del Gesù Mimmo Teresi su in Lombardia, non è un delitto.
Vincoli innocenti. Mangiate. Bevute. Flirt.
È per questo che devono iniziare un´altra volta il processo al senatore, che in una vita ha navigato nel brodo bollente siciliano e che nell´altra vita ha trasferito il suo «patrimonio» di rapporti e di amicizie lassù, quando era al servizio di re Silvio.
Concorso esterno. Non c´è. «Non ci crede più nessuno, spetta a voi il compito di smentirmi», incalza il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello in una requisitoria che a qualcuno è sembrata un´arringa difensiva. Perché «non si fanno così i processi», ha aggiunto il pg.
Allora diciamo che bisogna ricominciare tutto daccapo. Anche per ricostruire la vita e le gesta di Marcello Dell´Utri, ex anonimo impiegato di una cassa rurale di Belmonte Mezzagno nato nel 1941 e poi trasformatosi nel più misterioso personaggio di collegamento fra la Sicilia e la Milano degli affari, costruzioni e politica, soldi e laboratorio ideologico, voti e intrighi.
E «tradizione». Quella c´è tutta nella biografia di Marcello. Complicità non occasionali ma lunghe venticinque anni. Da Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino» a Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. Da una generazione all´altra di mafia, dall´aristocrazia dei boss di Palermo alla follia di Totò Riina e dei suoi Corleonesi terroristi. È rimasto sempre incollato a loro, Marcello Dell´Utri. Non è reato. Però è andata così.
Anche se non conta più niente per gli eccellentissimi giudici della Suprema Corte della Cassazione.
È tutto annacquato ormai. Un esempio: un´agenzia di ieri sera, ore 19.54. Testuale: «Vittorio Mangano considerato vicino alla mafia...». Non si sa più quello che si dice e quello che si scrive anche sulle più autorevoli agenzie di stampa. Vittorio Mangano non era uno «considerato vicino alla mafia»: era un mafioso. Se partiamo da questa - come dire, piccola imprecisione - possiamo scrivere un´altra storia di Marcello Dell´Utri. Ma a noi piace raccontare quella vera.
Quella della Palermo mafiosa dove Marcello Dell´Utri era infilato, magari non protagonista ma sicuramente consapevole, sempre in contatto con gli amici degli amici dei Bontate, dei Calderone, dei Cancemi, dei Cinà. Non abbiamo mai avuto prove delle rivelazioni bislacche, sospette e a puntate di Massimo Ciancimino sul ruolo di Dell´Utri e della sua trattativa fra Stato e mafia, ma nessuno ha mai avuto dubbi - nemmeno il procuratore generale della Cassazione - sulla vicinanza fra il senatore e quella gente là.
Un concorso esterno che non esiste più e un processo lungo 11 anni hanno fatto il resto.
Il passato di contiguità mafiosa di Marcello Dell´Utri (che nessun giudice e nessuna Corte potrà mai cancellare con una sentenza di rinvio o con sofisticate acrobazie giuridiche) è lì e lì resterà per sempre. Che poi non ci sarà condanna, è altro discorso.
Anche se non valgono niente le dichiarazioni di una ventina di pentiti di Cosa Nostra. Anche se è ormai carta straccia quello che ha dichiarato nemmeno tre anni fa il killer Gaspare Spatuzza sul «paesano» Dell´Utri e il suo amico Berlusconi sulle stragi in Continente organizzate dai Graviano di Brancaccio.
Tutto destinato all´archivio. Tutto inghiottito dalla scienza del diritto. Per i potenti, in Italia, funziona sempre così. Per tutti gli altri no.

il Fatto 10.3.12
Dell’Utri, sua onnipresenza
di Peter Gomez


Filippo Alberto Rapisarda, l’amico del vecchio capo dei capi, Stefano Bontade, interruppe il suo discorso e, rivolgendosi al giovane cronista, chiese: “Ma lei conosce il dottor Dell’Utri? ”. Subito dopo il discusso finanziere siciliano, con alle spalle una fedina penale alta qualche centimetro e una latitanza in Venezuela trascorsa alla corte dei boss Caruana-Cuntrera, si mise a urlare quasi a squarciagola: “Marcellino, Marcellino, Marcellino”. Fu così che Dell’Utri, versione 1989, entrò nella grande sala riunioni da una porticina nascosta tra gli stucchi. Guardò il giornalista e tendendogli la mano disse: “Io la leggo sempre, lei scrive molto bene. Ma sa... l’importante non è solo come si scrive. È importante soprattutto cosa si scrive”.
Ecco se si vuol raccontare davvero chi è Marcello Dell’Utri e la sua quasi infallibile capacità di avere rapporti con le persone sbagliate nel momento sbagliato, si può benissimo partire da qui. Dal palazzo di Rapisarda in via Chiaravalle a Milano, che Dell’Utri riprende a frequentare a partire dal 1988, dopo averci lavorato e vissuto sul finire degli anni Settanta, quando per quasi quattro anni si era allontanato da Silvio Berlusconi.
Un ritorno strano il suo. Ambiguo e carico di misteri, come è stata ambigua e carica di misteri la sua vita, destinata a farlo incappare, come testimone o indagato, in inchieste giudiziarie di ogni tipo: dalle stragi, alla P4, dalla corruzione, ai furbetti del quartierino, dalla frode fiscale, alla mafia e alla ‘ndrangheta. A fargli vestire, al di là dell’esito dei processi, i panni dell’uomo nero della Seconda Repubblica.
Dell’Utri torna a calcare i pavimenti di via Chiaravalle che, secondo i testimoni, erano stati calpestati da uomini d’onore del calibro di Ugo Martello, Pippo Bono, Vittorio Mangano e, forse, Vito Ciancimino, pochi mesi dopo un esplosivo interrogatorio di Rapisarda. Un lungo verbale del luglio del 1987 in cui il finanziere, in quel momento accusato di bancarotta e mafia (sarà poi prosciolto), sostiene di averlo assunto nelle sue aziende nel 1978, dietro i pressanti consigli di Bontade, del costruttore mafioso Mimmo Teresi e di un loro parente acquisito, Gaetano Cinà, il proprietario di una piccola lavanderia palermitana. “Era molto difficile dire di no a Cinà” ricorda davanti a un magistrato Rapisarda, che poi aggiunge un carico da novanta. Dice di aver un giorno incontrato per caso Bontade e Teresi in piazza Castello a Milano. I due boss, afferma, gli avrebbero domandato un consiglio: “Berlusconi ci ha chiesto 20 miliardi di lire per diventare soci nelle sue televisioni. Secondo te è un buon affare? ”.
Dell’Utri non presenta denuncia per calunnia. Incassa, tace e dopo anni di cattivi rapporti, fa la pace con il suo accusatore. Torna a frequentarlo, mentre sua moglie, Miranda Ratti, tiene a battesimo una figlia di Rapisarda. Nel 1992 a chi gli chiederà il perché di questo singolare atteggiamento, risponderà citando un proverbio siciliano: “Non si può tirare un sasso a ogni cane che abbaia”.
Smussare, mediare, alzare la voce solo quando è strettamente necessario, usare spesso frasi e detti della tradizione palermitana, è del resto una caratteristica di Dell’Utri. Così nel 1991, eccolo mentre dice al senatore repubblicano Vincenzo Garraffa, deciso a non versare una grossa somma in nero a Publitalia: “Abbiamo uomini e mezzi per convincerla a pagare”. Poche parole a cui seguirà un incontro tra Garraffa e un boss trapanese che chiede al parlamentare lumi sui problemi insorti “con l’amico Marcello”. Cinque anni dopo ancora una frase destinata, nel suo piccolo, a diventare celebre. Dell’Utri è appena stato ascoltato per 17 ore dalla procura di Palermo che lo accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei suoi problemi è il legame antico con il boss Mangano, in quel momento detenuto al 41 bis. Ma lui affronta i giornalisti con piglio sicuro: “Mangano? Se fosse libero ci prederei un caffè”. Poi quando Piero Chiambretti gli chiede “esiste la mafia? ”, sorride: “Le risponderò con una frase di Luciano Liggio: se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”.
Insomma quando è in pubblico Dell’Utri dà l’impressione di fare di tutto per mostrarsi a proprio agio nei panni nei dell’uomo nero. E in privato addirittura raddoppia. Nel 2007, mentre il suo processo a Palermo è in corso, intercettando due uomini legati alla cosca Piromalli Molè i carabinieri scoprono che parlano con Dell’Utri, chiedendo aiuti per gli affari e promettendo voti. Intanto l’ex big boss della Banca di Lodi, Gianpiero Fiorani, racconta di avergli versato 100.000 in contanti, attraverso un altro senatore, per ottenere appoggi per la sua banca. Mentre la sorella di un capomafia siciliano lati-tante in Sud Africa gli telefona proponendogli un incontro. Dell’Utri non si nega. Ha una buona parola per tutti. E continua a far politica e business. Che poi per lui sono una cosa sola. Così nel 2009 di nuovo i carabinieri fotografano una riunione di lavoro. Intorno a un tavolo ci sono lui, il faccendiere Flavio Carboni e due esponenti dell’organizzazione poi ribattezzata P4: Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi. Con loro si discute di soldi e di giustizia. Ci sono appalti legati all’energia eolica da concludere e, secondo, l’accusa nomine al Csm da pilotare, giudici della Corte costituzionale e di Cassazione, da avvicinare. Perché la linea della palma, come diceva Leonardo Sciascia, sale di un metro all’anno. Ormai ha superato abbondantemente Roma. E Dell’Utri, lo sa. Sciascia lo ha letto. Lui infatti è un uomo colto. Sul fatto.

il Fatto 10.3.12
La mafia non esiste
di Marco Travaglio


La Cassazione che annulla una condanna con rinvio ad altro processo d’appello rientra nella fisiologia del sistema giudiziario italiano. Non comporta affatto una bocciatura delle accuse, ma solo della sentenza d’appello, che qui presentava più di un’incongruenza. Del resto, chiunque lo conosca un po’ sa bene che il processo Dell’Utri è il più solido fra tutti quelli celebrati per concorso esterno in associazione mafiosa. Il meno dipendente dai mafiosi pentiti. Il più ricco di prove autonome, documentali e testimoniali, di intercettazioni, addirittura di ammissioni dell’imputato: insomma il meno legato alle parole e il più ancorato ai fatti. Se nel nuovo appello Dell’Utri fosse assolto, significherebbe che non si potrà mai più condannare nessuno per aver servito la mafia dall’esterno, cioè senza farne parte. Una jattura dalle proporzioni incalcolabili, in un paese infestato dalle mafie proprio grazie ai loro rapporti esterni con politici, pubblici funzionari, finanzieri, professionisti, magistrati, avvocati. Eppure ieri il Pg della Cassazione Francesco Iacoviello, ex pm a Ravenna, già celebre per aver chiesto e ottenuto l’annullamento delle condanne di Squillante per Imi-Sir e di De Gennaro per il G8, e la conferma dell’assoluzione di Mannino e della prescrizione per Berlusconi nel caso Mondadori, non si è limitato a criticare la criticabilissima sentenza d’appello che condannava Dell’Utri fino al 1993 e lo assolveva per il periodo politico. Ha preso in contropiede persino i difensori e ha liquidato 15 anni di lavoro di investigatori, pm, periti e giudici come cosa da niente, lanciandosi in una sprezzante lezione di diritto ai pm che hanno indagato Dell’Utri, al gup che l’ha rinviato a giudizio, ai tre giudici del tribunale che l’han condannato a 9 anni e ai tre giudici d’appello che l’han condannato a 7 anni. Già che c’era, ha aggiunto che il concorso esterno non esiste, “è un reato a cui non crede più nessuno”. In realtà al concorso esterno non credono i mafiosi e i loro amici. Ci credono le sezioni unite della Cassazione (9 giudici), che nelle sentenze Carnevale e Mannino hanno confermato che il concorso esterno esiste eccome, delimitandone i confini. Ci credono decine di giudici della Suprema Corte, che hanno confermato condanne per concorso esterno di politici (Gorgone e Cito), imprenditori (Cavallari) e funzionari infedeli (Contrada e D’Antone). Devono averci creduto anche quelli del processo Dell’Utri, altrimenti ieri avrebbero annullato senza rinvio. Ma soprattutto ci credevano Falcone e Borsellino che, non avendo avuto la fortuna di lavorare a Ravenna, configurarono per primi quel reato nella sentenza-ordinanza del processo maxi-ter a Cosa Nostra e poi la mafia li ammazzò anche perché al concorso esterno ci credevano. Il processo Dell’Utri non si basa su “frequentazioni e conoscenze con mafiosi”, come sostiene Iacoviello paragonandolo al caso Mannino. Di Mannino i giudici ritennero provate le conoscenze e le frequentazioni mafiose, ma non i favori alla mafia. Su Dell’Utri, invece, ci sono montagne di prove sui favori alla e dalla mafia. Anche limitandosi alla carriera pre-politica di manager berlusconiano, è stranoto che B. fosse succube dei mafiosi (al punto di pagarli o di dirsi pronto a pagarli) proprio perché Dell’Utri gli aveva infilato Mangano in casa e mediò per riportare la pace dopo ogni minaccia e attentato. Dire che questo non è concorso esterno e soprattutto che il concorso non esiste è un salto indietro, culturale prima che giuridico, agli anni bui in cui per certi giudici Cosa Nostra era solo un coacervo di bande disomogenee e disorganizzate. Insomma la Cupola era un’invenzione di Falcone, il “teorema Falcone” che “non capisce niente” e vuole solo “fregare qualche mafioso”, come diceva nel 1994 Corrado Carnevale al collega Aldo Grassi, che non faceva una piega e ieri presiedeva il collegio che ha annullato la condanna di Dell’Utri. Anni fa Dell’Utri disse che “la mafia non esiste” e un’altra volta concesse: “Se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”. Non immaginava che un giorno, in Cassazione, avrebbe dovuto chiedere il copyright.

il Riformista 10.3.12
Mafia, stragi e strategia della tensione
di Emanuele Macaluso


Leggo l’incipt dell’articolo di Attilio Bolzoni su Repubblica: «A tradire Paolo Borsellino non è stato solo un ufficiale infedele dell’Arma o un ministro della Repubblica colluso, un poliziotto corrotto o un giuda nel Palazzo. A tradire Paolo Borsellino è stato un patto che hanno voluto tanti, troppi in Italia. Un patto che lo Stato ha fatto con la mafia». A questo punto inevitabilmente si pone una domanda: chi è lo “Stato”, chi lo rappresenta complessivamente, dato che a tradire non è stato né un ministro, né un alto ufficiale dei Carabinieri ecc.? Quando Borsellino e la sua scorta furono massacrati, 19 luglio 1992, Capo dello Stato era Oscar Luigi Scalfaro e presidente del Consiglio Giuliano Amato (nominato 20 giorni prima).
Parlare genericamente dello “Stato” non porta a niente. I fatti ci dicono che lo stragismo mafioso, volto contro “uomini dello Stato”, inizia nel 1979 con l’uccisione del segretario della Dc Michele Reina, del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova. Negli anni ottanta vengono assassinati i vertici della magistratura, il Procuratore capo Gaetano Costa, il giudice istruttore Chinnici e i vertici della politica Piersanti Mattarella e Pio La Torre, e con loro altri magistrati, poliziotti e carabinieri.
Nel corso della campagna elettorale del 1992 fu ucciso Salvo Lima, punito perché le cose (soprattutto i processi) non andavano come pensavano i capi di Cosa Nostra. La quale contava sul deputato Dc, anche come uomo di Giulio Andreotti.
«La strategia della tensione non è mai finita», dice il procuratore Grasso. Infatti, proprio nell’acuirsi della crisi politica quella strategia si intensifica e viene assassinato Giovanni Falcone che simboleggia, con Paolo Borsellino, una stagione giudiziaria che a Palermo era stata inaugurata non dimentichiamolo dal procuratore Gaetano Costa. Nel 1992, Cesare Terranova concluse il suo impegno parlamentare nella commissione antimafia (scrivendo, con La Torre, la relazione di minoranza che resta una pietra miliare nell’analisi del fenomeno mafioso e nell’indicazione dei mezzi per combatterlo) e doveva assumere l’incarico di giudice istruttore. Era intollerabile, fu detto e scritto a Palermo, che nel Tribunale di Palermo, Procuratore e Giudice istruttore fossero «due toghe rosse». Dopo Falcone, ecco Borsellino e le stragi di Firenze, Roma e Milano, su cui ancora si indaga e su cui non si è fatta piena luce. Borsellino fu ucciso perché si oppose alla trattativa tra “mafia e Stato”?
Su questo fronte c’è un processo in corso a Palermo che vede imputati il generale Mori e il Colonnello De Donno. Processo che ha sollevato dubbi e discussioni infinite.
Colgo questa occasione per sottolineare un fatto: il generale Mori ha rifiutato l’avvenuta prescrizione: vuole una sentenza. Aspettiamola per riaprire la discussione. Intanto, la procura e il giudice delle indagini preliminari di Caltanissetta dicono che effettivamente Borsellino fu ucciso perché si opponeva a una trattativa tra “Stato e mafia”. Tuttavia proprio il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, ha chiarito che «la deliberazione della strage di Via d’Amelio nasce da una decisione presa autonomamente da Cosa Nostra. È sbagliato parlare di mandanti esterni, semmai di concorrenti esterni». Insomma, per quel che Borsellino aveva fatto e per quel che rappresentava nell’immaginario popolare e in quello mafioso, come Falcone, era negli obiettivi stragisti di Cosa Nostra. La quale se ha capito che ostacolava una “trattativa”, avrà accelerato l’operazione criminale, attuata all’indomani della formazione del governo Amato, accelerando la crisi del sistema politico.
La procura di Caltanissetta ha il merito di avere messo in evidenza la terribile menzogna che caratterizzò il primo processo per l’uccisione di Borsellino, concluso con tanti ergastoli confermati anche dalla Cassazione,individuando i veri responsabili. Oggi la stessa procura compie passi avanti per fare luce sulle ombre che circondano ancora quel delitto. Tuttavia, siccome queste ombre (la trattativa) coinvolge persone vive e morte che hanno avuto un ruolo rilevante nelle istituzioni e nelle strutture dello Stato, è bene fare chiarezza.
Penso che con l’aiuto della procura nazionale antimafia occorre arrivare rapidamente a una conclusione. Altrimenti tutti sono nel mucchio (lo Stato!) dei sospettati senza nessuna certezza.

l’Unità 11.3.12
L’Unità rilancia la proposta al governo. Tante le adesioni nella rete
L’iniziativa della Cgil «Ogni comune mandi una pietra per la sua tomba»
Quelli che vogliono i funerali di Stato per Placido Rizzotto
«Funerali di Stato per Placido Rizzotto». La proposta, lanciata da David Sassoli, esplode su Internet. Veltroni si appella a Napolitano e Monti. Tra le adesioni, Nichi Vendola, Pierre Carniti, Sergio D’Antoni
di Andrea Carugati


«Una pietra da ogni Comune e da ogni Regione d’Italia, per costruire la tomba di Placido Rizzotto a Corleone». La proposta arriva dalla Cgil siciliana, per ricordare il sindacalista Cgil ucciso dalla mafia nel 1948, i cui resti trovati in un burrone in provincia in Palermo sono stati identificati pochi giorni fa. «Vogliamo dare il segno dice Mariella Maggio, segretaria generale della Cgil Sicilia di un paese unito nella lotta contro la mafia, che si stringe attorno a un suo martire». E proprio quel martire, a 64 anni dalla morte, potrebbe avere finalmente dei funerali. Esequie di Stato, come ha proposto per primo l’europarlamentare del Pd David Sassoli appena l’esame del dna ha confermato che quelle ossa ritrovate tre anni fa sui monti di Rocca Busambra appartengono a Rizzotto.
LA RETE SI MOBILITA
La proposta, lanciata venerdì su Twitter e ripresa dall’Unità, sta raccogliendo moltissime adesioni in rete. Al grido di: «Non dimenticare». Walter Veltroni, membro della commissione Antimafia, scrive: «Al Presidente Napolitano e al presidente Monti: funerali di Stato per Placido Rizzotto. Per dire che anche lo Stato non dimentica». «Doverosi i funerali di Stato per un martire della lotta per la democrazia e per la libertà in Sicilia», dice la Cgil nazionale.
Aderisce anche il leader di Sel Nichi Vendola: «Rizzotto è una figura splendida, un eroe civile che ci ricorda come l’antimafia nasca proprio dalle battaglie per il lavoro, per il superamento di forme selvagge e arcaiche di sfruttamento», spiega a l’Unità. «I clan e i picciotti sono stati a lungo il presidio armato a tutela dei latifondisti. Quell’omicidio è uno degli episodi che inaugurano un Dopoguerra in cui Stato e mafia da un lato si combattevano, e dall’altro nell’ombra e nell’indecenza di porzioni di classe dirigente costruivano patti indicibili e collusioni destinate a durare nel tempo». Vendola racconta il «turbamento» che ha provato quando quelle ossa hanno finalmente trovato un nome. «Quelle ossa in quella fessura della terra sembrano una metafora di tutte le verità ancora sepolte nelle fessure della storia italiana, e il pensiero corre subito a Capaci e via d’Amelio». All’appello per i funerali di Stato, che l’Unità ha deciso di fare proprio, aderisce anche l’ex leader della Cisl Sergio D’Antoni: «È giusto onorare adeguatamente la memoria di un simbolo così importante dell’antimafia». Così anche il suo predecessore Pierre Carniti e Roberto Cuillo.
Tra i primi ad aderire Cesare Damiano. «Rizzotto voleva difendere la legalità e la dignità di chi voleva lavorare senza dover abbassare la testa ai soprusi. Oggi più che mai la sua figura è attuale». D’accordo il segretario sei socialisti Riccardo Nencini, secondo cui lo Stato deve onorare chi «ha dedicato la vita ai valori della libertà e della giustizia e alla difesa dei più deboli e fu tra i primi a combattere con coraggio l’oppressione mafiosa». Giuseppe Giulietti e Vincenzo Vita sottoscrivono l’appello e chiedono alla Rai di trasmettere sulle reti principali il film di Pasquale Scimeca sulla figura di Rizzotto, andato in onda venerdì su Rai storia. «Bisogna promuovere una serata dedicata a questo
eroe civile».
Raffaele Scassellati, presidente di una sezione Anpi di Torino, scrive: «Merita di essere commemorato con tutti gli onori, in quanto, oltre che un valoroso sindacalista, si era distinto anche come partigiano dopo l'8 settembre, unendosi alla Brigata Garibaldi ed aveva anche costituito la sezione Anpi a Corleone».

l’Unità 11.3.12
La lettera
La nostra richiesta al Presidente Monti
di Luca Landò


Chiediamo al Presidente del Consiglio di tributare ai resti di Placido Rizzotto l’alto onore dei funerali di Stato. Lo chiediamo perché la lotta alla mafia non conosce tempo, perché i crimini di Cosa Nostra non invecchiano mai. Perché Falcone e Borsellino, caduti vent'anni or sono, è come se fossero stati uccisi ieri, anzi oggi. E lo stesso vale per Placido Rizzotto colpito il 10 marzo di 64 anni fa. Lo chiediamo perché se l'esame scientifico restituisce alla storia italiana le ossa di un uomo ucciso nel 1948 dalla mafia, sta a noi, a tutti noi fare in modo che nel Dna del Paese entri la memoria di quel giovane sindacalista assassinato per il suo coraggio e le sue idee.
Placido Rizzotto è stato giustiziato a Corleone a soli 34 anni da una banda guidata dal giovane Luciano Liggio. Rizzotto era amato dalla gente e temuto da Cosa nostra. Era il segretario della Camera del lavoro di Corleone, era un socialista, un combattente: la notizia della sua morte, della sua uccisione avrebbe creato problemi. Così, dopo averlo ammazzato, i sicari lo caricarono sulla schiena di un mulo e gettarono il corpo nel fondo di un crepaccio. Nascondere i resti per cancellare la memoria, che è poi quella che fa la mafia ogni giorno sollecitando l'omertà e imponendo il silenzio. Per questo, anche per questo è importante imboccare la strada opposta. E per questo, anche per questo l’Unità ha deciso di raccogliere e rilanciare una proposta avanzata ieri da David Sassoli e che sta circolando con crescente insistenza: celebrare con i funerali di Stato i resti ritrovati di Placido Rizzotto.

l’Unità 11.3.12
Terra, lotta, diritti
Parole che saranno sempre di moda
Perché ancora oggi, 64 anni dopo, la notizia dell’identificazione del cadavere del sindacalista e politico corleonese emoziona? La risposta è dentro la storia di quest’uomo, e della sua regione
di Francesco Benigno


Perché l’identificazione dei resti del corpo di Placido Rizzotto, ritrovati in un anfratto della Rocca Busambra, la montagna che sovrasta Corleone, ancor oggi colpisce ed emoziona? Perché, anche se sono passati ben 64 anni dall’ uccisione di questo dirigente socialista e segretario della Camera del lavoro, si avverte nella  pubblica opinione una speciale attenzione per la sua figura? Perché la scoperta compiuta comparando il Dna dissotterrando la salma del padre di Rizzotto produce un effetto diverso da quello dei tanti cold cases cui ci hanno abituato i serial polizieschi televisivi?
Una prima importante ragione sta nel fatto che questo ritrovamento e questa identificazione sono una rivincita contro chi aveva voluto cancellare insieme col corpo gettato in un dirupo, anche la memoria di questo giovane (34 anni) dirigente del movimento contadino. Il locale capo-mafia Michele Navarra, un medico che agiva per conto degli interessi dei grandi proprietari terrieri minacciati dalla divisione dei feudi, non si era limitato solo ad ordinare di eliminare Rizzotto e fare sparire il suo cadavere, ma aveva anche con tutta probabilità provveduto ad uccidere con un’iniezione di veleno l’unico testimone dell’omicidio, Giuseppe Letizia, un ragazzo-pastore di appena 13 anni. La rivincita si estende anche alla sentenza del processo per l’omicidio Rizzotto, conclusosi clamorosamente con un nulla di fatto, dopo che le indagini avevano portato all’identificazione del gruppo di uccisori, guidato dal famigerato Luciano Liggio. Le indagini, condotte da un giovane capitano dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, avevano condotto all’identificazione degli esecutori materiali, che avevano confessato il crimine, ritrattando però nel corso del procedimento giudiziario, che sfociava – in sintonia col clima politico di ritorno all’ordine promosso dal centro-destra vittorioso nelle elezioni del 18 aprile in una clamorosa assoluzione per insufficienza di prove.
La seconda ragione è che questa storia si svolge a Corleone, il paese del palermitano salito alla ribalta mondiale per essere stato il centro da cui il «capo dei capi» Totò Riina, dopo aver vinto la luttuosa guerra di mafia del 1981-82, ha lanciato negli anni ’80 la sua sanguinosa offensiva volta a rinsaldare un controllo centralistico sulle varie famiglie mafiose inaugurando al contempo quella tragica strategia terroristica diretta a colpire chiunque – magistrati, forze dell’ordine e perfino politici – si opponesse all’egemonia de «i corleonesi».
Non è però un caso se Corleone sia stato al centro di tutto ciò. Corleone non è un paese come tanti altri. Negli anni novanta dell’Ottocento proprio da Corleone era partita quella grande agitazione contadina per la riforma dei patti agrari nota come «i fasci siciliani» e proprio a Corleone il movimento socialista aveva conosciuto importanti affermazioni grazie a Bernardino Verro, capo del fascio cittadino e primo sindaco socialista, poi ucciso anche lui dalla mafia, nel 1915. E ancora di nuovo nel 1946-48, grazie a Placido Rizzotto, Corleone era ridiventato uno dei più importanti centri dell’agitazione sindacale per il diritto alla terra che era divenuta contemporaneamente agitazione politica socialista e comunista. Epicentro di un terremoto politico che portava all’affermazione della sinistra alle elezioni regionali siciliane del 1947. Ne verranno in provincia di Palermo le esecuzioni in serie di sindacalisti e di dirigenti della sinistra e, il 1 maggio del 1947, l’eccidio di Portella delle Ginestre, la prima strage dell’Italia repubblicana.
Ma soprattutto questa identificazione consente di ripensare una figura che ancora ci colpisce: partito militare e dopo aver combattuto in Carnia, Rizzotto era passato alla Resistenza, militando nelle brigate Garibaldi. Iscritto all’Anpi, la sua storia è dunque quella di uno dei tanti «ragazzi di montagna» che hanno cercato un nuovo orizzonte politico democratico e socialmente più avanzato, un riscatto nazionale dalla tragedia in cui il regime fascista aveva cacciato il paese. Ma, a differenza di tanti altri partigiani, egli aveva dovuto continuare una battaglia che in Sicilia non si combatteva solo con le ragioni della politica.
Così, ancora oggi, quelle fila di contadini che egli guidava all’alba con le zappe a spalla e le loro bandiere rosse per occupare i feudi, così come pure quella cooperativa che egli aveva creato per la gestione dei feudi occupati, chiamata suggestivamente «la madre terra», ci ricordano che i diritti, anche quelli più elementari, non fioriscono da soli, spontaneamente, come le bellissime agavi del paesaggio siciliano. Che essi hanno bisogno, per nascere e crescere, di esperienze politiche condivise; e talvolta di una lotta che non si è sviluppata solo attraverso la propaganda e il dibattito delle idee, ma purtroppo anche attraverso la violenza. La storia di Placido Rizzotto ci ricorda tutto questo.

il Riformista 10.3.12
Le minacce di Lusi e il centrosinistra
di Marcello Del Bosco


La minacciosa insinuazione del senatore-inquisito Lusi ( «tutti sapevano...se parlo salta il centrosinistra») va presa con la dovuta cautela; ogni imputato ha il diritto di difendersi come crede, e se i suoi avvocati gli hanno suggerito una strategia poco cristallina sono fatti suoi. E magari dei magistrati che lo stanno interrogando, i quali a questo punto debbono chiedere conto all’ex tesoriere della Margherita delle sue affermazioni; visto che, a quanto pare, il senatore ha già fatto delle ammissioni o dice tutto o va trattato alla stregua di un pentito di mafia di dubbia credibilità. Salti chi deve, ammesso che ci sia qualcosa o qualcuno da far saltare.
C’̀è un problema, però, che riguarda l’insieme del centrosinistra. Da Rutelli (di cui Lusi era uomo di fiducia), all’area dell’ex Margherita (che ieri ha parlato di “delirio”), al Pd
che lo ha (tempestivamente) cacciato dal gruppo parlamentare. Dinanzi alle minacce di Lusi tutti i leader delle varie anime e sottocorrenti dovrebbero insorgere e pretendere che si giunga alla verità al più presto, mettendo a disposizione ogni strumento necessario. Se Lusi bluffa va smascherato subito. Dilazioni e reticenze non potrebbero che alimentare le campagne qualunquiste del “tutti uguali” o le campagne indiscriminate contro la “casta”. Fin troppi sono stati gli episodi che hanno portato alla luce corruzione e intrighi; il centrodestra si è sempre e comunque schierato come una falange macedone a difesa degli inquisiti (ultimo caso il leghista Boni), e non certo per garantismo. Non sempre il centrosinistra ha saputo reagire con prontezza e trasparenza nei casi che lo hanno coinvolto. Eppure sarebbe ipocrita negare che il suo elettorato ha verso i temi della moralità pubblica una sensibilità particolarmente accentuata, e che vive ogni vicenda di malaffare come un doloroso tradimento. Ecco, non c’è davvero bisogno di cani da guardia a difesa delle “pecore nere” o grigie che siano.

l’Unità 11.3.12
Ornaghi, chi l’ha visto?
Il Mibac è alla canna del gas ma il ministro non dà segni di vita: Potrebbe iniziare salvando Arcus Spa, da rivedere ma fonte di denaro preziosa
di Vittorio Emiliani


Falle macerie, dei beni culturali e paesaggistici gira da giorni una vignetta col ministro Lorenzo Ornaghi accompagnato da una scritta: «Chi l’ha visto? Scomparso dopo l’8 settembre». L’8 settembre del governo Berlusconi, di ministri alla Bondi che al Collegio Romano non c’era quasi mai o alla Galan la cui impresa più memorabile rimane la candidatura di Giorgio Malgara, amico caro del Cavaliere, alla presidenza della Biennale di Venezia, sonoramente  bocciata da una marea di firme, veneziane, nazionali e internazionali, per la riconferma di Paolo Baratta. Il professor Ornaghi al Collegio Romano ci sta dalla mattina alla sera, fino a notte. Però da più parti gli viene chiesto di non lasciar fare tutto al capo di gabinetto, l’onnipotente e onnipresente Salvo Nastasi o al sottosegretario Roberto Cecchi. Ma, per ora, Ornaghi non dà segni di vita. Un’occasione ora ce l’ha ed è rappresentata da Arcus SpA che Corrado Passera ministro di molte cose fra cui le Infrastrutture e soprattutto il suo vice-ministro Mario Ciaccia (un tempo a capo di Arcus) paiono decisi a cancellare. E che Ornaghi per ora non difende, in un fragoroso, monastico silenzio. Premetto che Arcus anche da me attaccata in passato per le infinite pratiche clientelari così com’è stata non va proprio. Ma il dato delle sue origini, e cioè finanziare opere di restauro dei beni culturali e paesaggistici attraverso il 3 o il 5 per cento sugli appalti delle grandi opere, mi è sembrato e mi sembra utile. Più che mai oggi che il MiBac è alla canna del gas e non riesce più a far fronte ad impegni di mera sopravvivenza, a cominciare (voglio sottolinearlo) dai settori che meno «fanno notizia», cioè gli archivi e le biblioteche storiche, ormai agonizzanti o sottoposti a tagli mortali. Per risalire poi ai siti e alle aree archeologiche sempre meno difese, ai musei minacciati di chiusura, alla continua smagliatura della tutela del paesaggio esposto a ferite: cito il caso più recente, davanti alla già devastata piana di Scalea in Calabria, campo di marte di n’drangheta e camorra, si è deciso di costruire un altro porto da oltre 500 posti-barca, un’altra opera inutile che infliggerà il colpo mortale alla povera Scalea.
Ma torniamo ad Arcus SpA presieduta, dal 2010, dall’ambasciatore Ludovico Ortona che conosco come persona di qualità. Essa è stata, sin dagli inizi, stravolta nelle sue nobili funzioni originarie, da ministri alla Lunardi che destinò circa un quarto dei fondi di allora, a «Parma capitale della musica», cioè al suo collegio elettorale. O alla Matteoli che pure convogliò il flusso dei finanziamenti sulla propria area di influenza archeopolitica. Non a caso ho citato due ministri delle Infrastrutture. I loro colleghi dei Beni culturali hanno contato sempre pochino nella partita per il riparto dei fondi. Oppure hanno delegato nel caso di Bondi loro rappresentanti, come l’archeologa padovana Elisabetta Ghedini, sorella dell’avvocato del Cavaliere.
PIOGGIA DI SOLDI
In mezzo a questa pioggia di denari regolata da rubinetti assai più politico-clientelari che tecnico-scientifici, sono state finanziate anche opere degne come il restauro di Villa Adriana a Tivoli o del Bosco di San Francesco a cura del Fai, della Galleria Sabauda di Torino, della chiesa di Santa Cecilia a Roma, ecc. Per dire quanto possa essere importante mantenere questo flusso di fondi (197 milioni per il triennio 2009-2112), dando ovviamente ad esso regole e priorità di scelta inattaccabili, citerò soltanto un caso: quello del centenario della morte del più moderno dei grandi poeti italiani fra ’800 e ’900, Giovanni Pascoli. L’altro giorno si è letto che per il Comitato pascoliano di San Mauro non c’è un solo euro ministeriale, mentre Arcus ha già destinato 700.000 euro al restauro e alla catalogazione delle carte di Pascoli esistenti presso l’archivio di Castelvecchio di Barga dove visse negli ultimi anni. Senza i fondi Arcus, nulla si sarebbe fatto per il poeta nel 2012. Da sprofondare.
Insomma, Arcus va rivista, dalla testa ai piedi, riducendo a 3 componenti il suo consiglio e rafforzando il raccordo tecnico-scientifico col MiBac. Fra l’altro ci sarà da qualche parte il progetto di riforma che Paolo Baratta fu incaricato di redigere per il ministro Rutelli. Abolendo Arcus, tout court, non si risparmia un euro (essa si finanzia coi grandi appalti), ma si toglie altra acqua al già assetato, morente settore dei restauri. Vuol dare, per favore, un segno di vita e di «resistenza» il ministro Ornaghi dicendo cosa vuol fare o non fare? Essere «tecnici» non vuol dire essere muti.

Corriere della sera 10.3.12
Se l’aiuto è il lettino dell’analista
Due imprenditori si uccidono «Così non si va più avanti»
Imprenditori in difficoltà,  il soccorso dell’analista
di Dario Di Vico


A prendere l'iniziativa è stato un imprenditore varesotto, Massimo Mazzucchelli, che ha lanciato il progetto Terraferma. Reclutare un pool di psicologi per aiutare gli imprenditori depressi dagli effetti della Grande crisi. Mazzucchelli fa parte del movimento Imprese che resistono e nel giro di qualche settimana ha trovato già la disponibilità di una quindicina di professionisti distribuiti un pò in tutte le zone del Paese.
La dottoressa Annalisa Bucciol è una di questi, ha lo studio a Padova ed ha condiviso subito il progetto Terraferma. «Ogni storia che ha come epilogo una conclusione drammatica fa caso a sé. Ma è evidente che il peso della situazione economica accentua il senso di solitudine del singolo imprenditore. E non è facile trovare le energie per farvi fronte da soli». Gli psicologi, dunque, si possono rivelare estremamente utili. «Prima di tutto diamo loro un posto dove poter parlare, dove poter scaricare il loro senso di vergogna sociale per aver fallito la prova» dice Bucciol. A mettere in crisi gli artigiani non è solo il rapporto con l'alto (le banche e i creditori) ma soprattutto quello verso il basso (i propri dipendenti). Non si trova il coraggio di licenziare persone con le quali si è vissuto accanto per anni e i cui figli magari sono compagni di scuola dei propri. Marzia Sgambelluri, psicologa anche lei, è di Concesio, in provincia di Brescia. Intervistata dal blog «Nuvola del lavoro» ha sottolineato come «la nostra è una scelta di etica pubblica, non possiamo far finta di vivere in un periodo normale e per questo chiediamo una cifra simbolica». Di fronte però alla grande disponibilità dei medici il progetto Terraferma fatica a intercettare il disagio. Racconta Mazzucchelli. «Molti imprenditori non sanno che è partito il nostro servizio e tra quelli che lo sanno spesso prevale il pudore. E' chiaro che stiamo parlando di due mondi, la manifattura e la psicologia, che si conoscono pochissimo e che se si avvicinano lo fanno proprio per la gravità dell'emergenza».
Come fare, però, perché Terraferma non resti solo un'intuizione giusta? L'offerta di servizi di terapia si potrebbe coniugare con un'altra esperienza fatta in passato dalla Camera di Commercio di Padova che aveva istituito un numero verde per gli imprenditori in difficoltà. Combinando i due strumenti si avrebbe un accesso semplificato alla richiesta di aiuto e poi si potrebbero più facilmente creare le condizioni per l'intervento dello psicologo. Certo è che non stiamo trattando di un esperimento a freddo e sarebbe bene che le associazioni di categoria mettessero in campo la loro forza e le loro sedi.

Corriere della Sera 11.3.12
Giorno di guerra a Gaza Israele uccide 15 palestinesi
L'omicidio mirato di un miliziano lascia una scia di sangue
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Non sarà un'altra operazione Piombo Fuso, uguale a quella del 2009. Ma erano tre anni e più che non si scaldava tanto piombo, nel crogiolo di Gaza. Quindici morti e 20 feriti, tutti palestinesi. Un centinaio di razzi, tutti palestinesi pure quelli. Una decina d'attacchi aerei israeliani. Una decina di ricoverati per attacchi di cuore o d'isteria, pure quelli israeliani. Con le sirene dell'allarme rosso che tolgono il sonno alle città del Sud. Con le braccia che ai funerali alzano al cielo bare, mitra e minacce. Con le mediazioni seppellite. Un'operazioncina vecchio stile: l'intelligence israeliana che giovedì segnala un target ai militari, gli elicotteri che il giorno dopo ammazzano un capataz di Hamas, le brigate Qassam che la notte fanno piovere cento razzi su Ashdod e Beerseheva, i bombardamenti del sabato sulla Striscia... Trentasei ore di guerra vera. E la truce previsione di Ehud Barak, il ministro della Difesa israeliano: «Ci saranno ancora un paio di giorni di violenza».
L'ennesima replica del Gaza Horror Show ha un che di già visto e insieme d'inedito. La Striscia è tornata a infiammarsi quando un missile ha squarciato la berlina blu di Zuhar a-Qaissi e del suo genero Mahmoud Hanini, leader d'una succursale di Hamas, i Comitati di resistenza popolari. È stata un'esecuzione mirata. Come non se ne vedevano da mesi: più precisamente da agosto, quando fu ammazzato allo stesso modo il precedente segretario degli stessi comitati, Kamal al-Naraib. «Abbiamo eliminato un terrorista che pianificava attentati contro Israele», la spiegazione.
«Una pericolosa escalation senza alcuna giustificazione», la risposta. Le batterie dei Grad palestinesi si sono scaldate subito e venerdì notte è cominciata la pioggia, stavolta intercettata («al 90 per cento») dal nuovo scudo antimissile, l'Iron Dome, un gioiellino made in Israel e venduto fino in Corea: contro-razzi che riescono a bloccare qualsiasi cosa s'alzi in un raggio tra i 7 e i 90 km. L'aviazione militare ha terminato il lavoro, ieri, colpendo un po' ovunque: fra le 15 vittime, dice Hamas, ci sono anche civili che non c'entravano nulla.
«Quante volte abbiamo visto questo film?», sbadigliano i commentatori israeliani al risveglio dallo Shabbat. «Come possiamo sostenere un'altra violazione della tregua?», s'indignano i media arabi. «Siamo fortemente preoccupati», cerca di farsi sentire Lady Ashton a nome dell'Europa. Qualche motivo d'apprensione vera, c'è.
Non solo perché Hamas e Jihad promettono vendetta. O perché le ong internazionali ordinano l'evacuazione dei loro uffici di Gaza. O perché i soliti mediatori egiziani non considerano scontato, stavolta, far siglare una tregua. Il punto è che Qaissi era considerato la mente degli ultimi attentati nel Sinai: una terra di (quasi) nessuno dopo la caduta di Mubarak, una trincea dove Israele vorrebbe colpire le cellule qaediste e fermare il traffico d'armi. Se l'Iron Dome funziona e i razzi di Hamas molto meno, molti gruppi sono spinti a un cambio di strategia. E il Sinai fa al caso loro: consente azioni più efficaci, vedi la strage di Eilat dell'estate scorsa (ideata proprio da Qaissi). C'è un'altra pericolosa novità: dopo la liberazione di Gilad Shalit, in ottobre, gl'israeliani si sentono più liberi di colpire chi e dove vogliono, coi rischi che ciò comporta. Il medesimo Qaissi, come altri cinque già arrestati o uccisi in questi mesi, era fra i detenuti rilasciati in cambio del soldato ostaggio. Hamas significa sempre e solo Iran, per Israele. «E se Teheran deciderà d'attaccarci — dice una fonte militare — siamo certi che userà innanzi tutto i suoi amici». Non è detto che il primo fronte saranno le centrali nucleari: c'è già una guerra, sporca e nascosta, che si combatte nel silenzio del Sinai.

il Fatto e Der Spiegel 11.3.12
Il Mossad: Tel Aviv attaccherà l’Iran senza avvertire
Per il servizio segreto dello Stato ebraico il presidente americano Barack Obama avrà un preavviso di sole 12 ore
di Dieter Bednarz, Erich Follath, Juliane von Mittelstaedt e Holger Stark


Secondo fonti del Mossad, le autorità isrealiane avrebbero detto al capo di stato maggiore Usa Martin Dempsey che, in caso di attacco contro l’Iran il governo di Tel Aviv avvertirà la Casa Bianca solo 12 ore prima. È questo il modo di trattare il più importante alleato?
Chiaramente il presidente Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non si piacciono e lo si è visto in occasione dell’ultimo vertice, concluso con un nulla di fatto. Obama non vuole che l’Iran si doti di armi nucleari, ma non vuole nemmeno l’ennesima guerra. Per fare contento il suo ospite il presidente ha ripetuto che “tutte le opzioni sono sul tavolo”, ma questa dichiarazione a Netanyahu non basta più.
IL FATTO è che non c’è ancora “la pistola fumante”, la prova certa che l’Iran sta mettendo a punto un ordigno nucleare. Nemmeno gli ispettori dell’Aiea sono stati in grado di prendere posizione limitandosi a concludere in modo ambiguo che il programma nucleare iraniano “ha una dimensione militare”. Ma sono elementi tali da giustificare una guerra? Esperienze recenti – Afghanistan e Iraq – inducono alla cautela. In realtà il conflitto tra Israele e l’Iran sulla questione del nucleare è già in corso da qualche tempo. Si tratta di una guerra non dichiarata iniziata da Gerusalemme quattro anni fa. Stando alle voci – per altro mai smentite – squadre speciali israeliane avrebbero assassinato scienziati nucleari a Teheran impiegando bombe magnetiche mentre numerosi sono stati i tentativi di bloccare il programma sabotando i computer con i virus.
Nell’ultimo rapporto dell’Aiea, il direttore generale Yukiya Amano sottolinea “le sue gravi e crescenti preoccupazioni” in ordine alle ambizioni nucleari iraniane. Il rapporto ha rafforzato l’opzione militare e si parla già dei possibili obiettivi di un raid aereo israeliano: i centri per l’arricchimento dell’uranio a Natanz e Qom, lo stabilimento di riconversione nei pressi di Isfahan, il reattore ad acqua pesante in costruzione ad Arak e la centrale nucleare di Busheehr. Fonti militari, politiche e del Mossad ritengono che l’attacco dovrebbe avere luogo in una data compresa tra la prossima estate e l’autunno.
Netanyahu ha parlato spesso di “una seconda Auschwitz” e prende maledettamente sul serio le minacce del negazionista Ahmadinejad. Non a caso bolla la politica occidentale di codardia e ricorda quali furono le conseguenze dalla politica di appeasement con Hitler: “Si sta ripetendo la situazione del 1938 con l’Iran nei panni della Germania”, ama ripetere. Ma questa volta, aggiunge, gli ebrei non svolgeranno il ruolo dell’“agnello sacrificale”.
IL PROSSIMO ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan e i rivolgimenti in diversi Paesi del Medio Oriente hanno indebolito il regime iraniano. L’eventuale caduta di Assad sarebbe per Ahmadinejad un duro colpo in quanto perderebbe un prezioso alleato e la sua influenza su Hamas. Nella regione poi, diversi Paesi arabi del Golfo non gradiscono l’ipotesi di un Iran ancor più forte. Una cosa è certa: nel 2012 il problema più grave della politica internazionale sarà l’Iran, crisi dell’euro a parte. Obama a questo riguardo non sembra padrone della situazione. È contrario all’uso della forza, ma non può inasprire le relazioni con Israele e fornire sul piatto d’argento un argomento come questo ai Repubblicani alla vigilia delle elezioni. Inoltre pende sul capo dell’Occidente la minaccia iraniana di chiudere lo stretto di Hormuz e Mario Draghi, presidente della Bce, ha ricordato all’Ue che le conseguenze potrebbero essere incalcolabili: aumento vertiginoso del prezzo del petrolio e fiammate inflazionistiche. In Occidente prevale il pessimismo. Ma le cose stanno in questi termini? Molti descrivono l’Iran come un Paese con diversi centri di potere e una guida politica razionale e tutt’altro che imprevedibile. L’Iran è il quarto Paese esportatore di petrolio e il quarto al mondo quanto a riserve petrolifere. Non è un Paese povero anche se il reddito è distribuito iniquamente e metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Ma è anche un Paese dove fortissime sono le contraddizioni: formalmente è una democrazia parlamentare, ma il “leader rivoluzionario”, l’ayatollah Khamenei, controlla tutti gli organismi elettivi. Una delle stranezze del programma nucleare iraniano è di esser nato non in località segrete e remote, ma nel cuore di Teheran. Il centro di ricerca nucleare, costruito dagli americani negli anni ’60, si trova in pieno centro abitato. Gli scienziati iraniani insistono sulle finalità pacifiche del nucleare iraniano: “Il mio lavoro consiste nel salvare vite umane”, ha dichiarato Fereydoon Abbasi-Davani, responsabile dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica. Ma i timori occidentali riguardano il centro di Fordo dove viene arricchito l’uranio e dove sono state installate diverse centinaia di centrifughe. La buona notizia è che a Fordo sono presenti gli ispettori dell’Aiea. Basta per essere tranquilli? È comunque certo – come sottolineano molti in Occidente – che un attacco israeliano farebbe il gioco di Ahmadinejad, chiuderebbe la bocca all’opposizione e ricompatterebbe il Paese dietro il suo leader. E magari consentirebbe a Khamenei e Ahmadinejad di dare veramente il via alla costruzione dell’atomica. Dieter Bednarz, Erich Follath, Juliane von Mittelstaedt e Holger Stark, © Der Spiegel, 2012 – Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere della Sera 11.3.12
Papa Pio XII favorevole a uno Stato per gli ebrei


ROMA — (m.a.c.) Per circa quarant'anni, dal 1917 fino al 1958, prima come vescovo e nunzio, e poi come papa, Pio XII, Eugenio Pacelli (foto), si adoperò costantemente per permettere la costruzione dello Stato d'Israele e per agevolarne il riconoscimento internazionale. Lo dimostrano nuovi documenti storici, ora pubblicati on line dall'organizzazione ebraica Pave The Way Foundation. In particolare la Ptwf cita un documento del 1944, in cui Pio XII in risposta ad una nota scritta del capo della diplomazia vaticana, Domenico Tardini, contrario ad aiutare gli ebrei nella creazione di un loro Stato, scrisse di suo pugno: «Gli ebrei hanno bisogno di una propria Patria».

La Stampa 11.3.12
Como, il sacerdote ammette il legame
Abusi su una tredicenne “Relazione affettiva”


COMO. Chiederà gli arresti domiciliari in una struttura religiosa protetta don Marco Mangiacasale, 48 anni, l’economo della diocesi di Como arrestato mercoledì per violenza sessuale ai danni di una minorenne. Lo ha anticipato il legale Renato Papa, in vista dell’interrogatorio davanti al gip fissato per lunedì mattina.
«Il mio assistito è molto provato, riferisce il difensore, ma è anche conscio del percorso che lo attende». Secondo l’avvocato gli arresti in una comunità consentirebbero al sacerdote «di cercare di intraprendere un percorso personale di riflessione e di recupero, in attesa del processo». Don Mangiacasale è accusato di avere abusato del suo ufficio di sacerdote al fine di avviare una relazione sentimentale con la ragazzina. Relazione iniziata nel 2008, quando la giovane era tredicenne e quando il prete era parroco di San Giuliano a Como, e durata sino a pochi giorni fa, quando la ragazza si è confidata con il nuovo prevosto. «Riteniamo che i fatti non si siano svolti in un contesto di violenza, ma di affettività anomala» spiega ancora il legale, lasciando intendere che l’indagato intenda fare ammissioni.

l’Unità 11.3.12
La denuncia per i brogli elettorali continua nella capitale russa
Appuntamento il 1 ̊ maggio. Proteste anche a San Pietroburgo
Mosca, in migliaia contro i brogli sul Nuovo Arbat. Ondata di arresti
di Virginia Lori


Continua la protesta contro Putin. Migliaia i manifestanti in piazza a Mosca malgrado la morsa delle forze di sicurezza, 25 i fermi. Cortei contro i brogli anche in altre città. Le opposizioni preparano la protesta del 1 ̊maggio.

In una Mosca blindatissima ieri l’opposizione è tornata a protestare contro la rielelezione del premier Vladimir Putin al Cremlino. È in piazza Novi Arbat, nel cuore della capitale russa che si sono dati appuntamento i manifestanti, nettamente meno numerosi rispetto alle manifestazioni della vigilia delle elezioni. Ma i riconoscimenti internazionali, ieri il presidente statunitense Obama ha telefonato a Putin per felicitarsi, e i numeri quel 63,6 per cento di voti attribuitogli non hanno fermato la protesta e la denuncia dei brogli mossa dall’opposizione.
Malgrado l’imponente e minaccioso schieramento delle forze di sicurezza, con migliaia di agenti in assetto anti sommossa, carri per il trasporto delle truppe, autobus come bastioni lungo la strada, in attesa di eventuali fermi che sono stati solo 25, in piazza hanno manifestato in 25 mila (secondo gli organizzatori), mentre sono sarebbero stati non più di 10 mila per le autorità.
Intanto si sono registrate anche alcune assenze significative: quelle dell’ex ministro delle Finanze Alexiei Kudrin e dell’oligarca Mikhail Prokhorov, mentre il popolare blogger anti Putin, Alexiei Navalni che è stato tra gli animatori della protesta, ha preferito non salire sul palco per protestare tra la gente. La protesta si indebolisce?
«Ci dicono che siamo pochi, che siamo solo 25 mila, ma potevamo immaginare di essere tanti tre mesi fa?» risponde il giornalista Serghiei Parkomenko, uno degli organizzatori. «La nostra è una maratona, in alcuni momenti si tira il fiato», spiega Ilia Iashin, uno dei leader della contestazione. «Abbiamo fatto l'esperienza per la prima volta della resistenza e questo non è che l'inizio. Ci privano della libertà da 12 anni, è impossibile farla tornare in tre mesi», gli fa eco l'ex campione di scacchi Garry Kasparov. Ma ieri a piazza Novi Arbat, sono intervenuti soprattutto gli osservatori, per denunciare i brogli riscontrati alle presidenziali del 4 marzo.
L’OPPOSIZIONE SI ORGANIZZA
Ilya Yashin, uno dei principali leader del movimento politico Solidarnost così commenta l’esibizione di forza di Putin: «È la dimostrazione pubblica della sua illegittimità, perché se hai vinto le elezioni in maniera limpida e chiara, che interesse hai a mandare in piazza così tanta polizia in assetto anti sommossa?». E assicura «Ci saranno altri meeting». «Dobbiamo tornare in piazza. Io non penso che la gente sia diminuita. Noi ci aspettiamo non soltanto una crisi politica. Ci saranno problemi economici assicura che rafforzeranno la voglia di scendere in piazza». L’opposizione si organizza. «Le proteste continueranno, solo la piazza, solo le masse possono ottenere il cambiamento» gli fa eco, convinto Serghiei Udaltsov, il leader dell’opposizione comunista che promette un corteo di un milione di persone per il prossimo primo maggio, una settimana prima dell'insediamento di Putin. Intanto ieri Udaltsov, alla guida di un centinaio di manifestanti, ha tentato di raggiungere piazza Pushkin, ma il corteo non autorizzato è stato bloccato dalla polizia e Udaltsov è stato arrestato per essere rilasciato dopo alcune ore. Un’altra azione di protesta si è registrata in un'altra zona della città, vicino alla stazione Kievskaja, anche in questo caso non autorizzata. Cortei e manifestazioni di protesta si sono tenute a San Pietroburgo (40 fermati) e a Nizhni Novgorod (60).
Quale possa essere la strategia dell’opposizione lo spiega all’Ansa l’ex premier Mikhail Kasianov: «Le proteste di piazza devono continuare per mantenere la pressione sul potere e far approvare le riforme entro il 7 maggio, quando si insedierà Putin. Così potranno essere registrati nuovi partiti, si potranno formare coalizioni, e in autunno chiederemo le elezioni politiche anticipate». Ormai palloncini e nastri bianchi non bastano più, occorrono le armi della politica.

La Stampa 11.3.12
A febbraio il disavanzo peggiore dal 1989
Allarme Cina. Deficit record per Pechino
Cala l’export, bilancia in rosso
di Maurizio Molinari


I numeri. La crisi mette in difficoltà anche la Cina che vede drasticamente calare la quota di export con il deficit commerciale ai massimi dal 1989. A febbraio il rosso commerciale è schizzato a 31,5 miliardi di dollari da un surplus di 27,3 miliardi di gennaio.

Il confronto. Sui dati pesa anche il fermo delle attività per il capodanno cinese, ma resta il fatto che l’export ha registrato un calo mensile del 23,6 per cento e una flessione annua del 18,4 per cento contro una crescita delle importazioni del 39,6 per cento, sempre su base annua.

La Cina ammette il maggiore deficit commerciale dal 1989 tradendo un nuovo segnale di difficoltà della propria crescita. A diffondere i dati sono le autorità di Pechino secondo le quali in febbraio lo squilibrio fra importazioni ed esportazioni ha raggiunto 31,5 miliardi di dollari per l’effetto combinato della crisi del debito europeo, che ha rallentato la domanda dal Vecchio Continente, e della crescita degli acquisti di materie prime, a cominciare da greggio, rame e ferro, per sostenere l’alto ritmo di investimenti interni. Il deficit nasce dal fatto che le importazioni sono cresciute del 39,6 per cento rispetto all’anno precedente, raggiungendo 145,9 miliardi di dollari, mentre le esportazioni sono diminuite del 18,4 per cento, scendendo a 114,5 miliardi di dollari. Ad evidenziare il rallentamento c’è il fatto che le esportazioni in gennaio-febbraio hanno rallentato al 6,9 per cento mentre le importazioni sono aumentate nello stesso periodo del 7,7 per cento. Sebbene i dati siano in parte distorti dal fatto che il nuovo anno lunare cinese è iniziato nel 2012 in gennaio e nel 2011 in febbraio, le autorità di Pechino non nascondono il momento di difficoltà come dimostra il fatto che il ministro del Commercio
Cheng Deming pochi giorni fa aveva avvertito che per riuscire a far crescere gli scambi del 10 per cento nell’anno corrente «saranno necessari sforzi ardui». Ciò che colpisce è come il deficit si sia registrato nonostante Pechino abbia consentito un ulteriore indebolimento dello yuan rispetto al dollaro, dall’inizio del 2012, al fine di sostenere le esportazioni verso i mercati dei Paesi industrializzati colpiti da crisi finanziaria e recessione.
Si tratta del deficit commerciale maggiore di Pechino dal 1989 perché l’unico precedente risale al febbraio del 2004 quando il saldo negativo fu di 7,87 miliardi di dollari ed a confermare la duplice origine sono i dati che arrivano da Pechino. Sul fronte dell’Unione Europea, il maggiore mercato delle esportazioni cinesi nel 2011, infatti si è registrato in gennaio un calo del 3,2 per cento che in febbraio non è stato recuperato nonostante un’inversione di tendenza del 2,2 per cento, lasciando intendere che le oscillazioni degli acquisti da parte del Vecchio Continente tendono ad un saldo negativo. Riguardo invece alle importazioni di materie prime, quelle di rame in febbraio sono state le seconde più alte di sempre mentre per il greggio si è trattato del record assoluto, dovuto ad un prezzo al barile che ha raggiunto 112,39 dollari rispetto ai 92,28 dello scorso anno. L’aumento della domanda interna di petrolio si deve alla stagione agricola, che vede milioni di contadini impegnati nella semina, e alla decisione del governo di Pechino di accrescere le proprie riserve strategiche nel timore di dover fronteggiare situazioni di emergenza a causa dei venti di guerra che spazzano il Golfo Persico. A questo bisogna aggiungere situazioni specifiche come le difficoltà di Suntech Power Holdings, il maggiore produttore mondiale di pannelli solari, la cui azienda cinese Wuxi prevede un declino degli ordini del 30 per cento nel primo trimestra a causa della maggiore competizione internazionale e della riduzione dei sussidi governativi. Il deficit di febbraio viene comunque considerato da Goldman Sachs come un «dato stagionale» che non impedirà a Pechino di confermare il surplus annuale ma il fatto che si sia registrato, in maniera imprevista, è un campanello d’allarme sulla vulnerabilità del gigante cinese al rallentamento delle maggiori economie così come ai prezzi delle materie prime. D’altra parte Pechino prevede di chiudere l’anno corrente con un aumento del pil del 7,5 per cento, in discesa rispetto alla media del 10 per cento degli ultimi tre decenni. "Non accadeva dal 2004. Pesa anche lo stop delle attività per il capodanno"

La Stampa 11.3.12
Intervista
“Troppi investimenti e consumi bassi I pericoli di Pechino”
L’economista: la modernizzazione è una trappola
di M. Mol.


La Cina paga l’eccesso di squilibrio fra investimenti e consumo, deve correggerlo per evitare di innescare una nuova crisi asiatica». A sostenerlo è Douglas Paal, vicepresidente della Fondazione Carnegie a Washington nonché ex direttore per l’Asia nel consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca di George H. W. Bush.
Da dove nasce il maggiore deficit commerciale cinese dal 1989?
«Dal fatto che importano troppe materie prime per alimentare una corsa sfrenata agli investimenti, dovuta alla convinzione che sia questa modernizzazione forzata la strada migliore per sostenere la crescita interna».
Quale è il punto debole di questi investimenti?
«Hanno un effetto limitato sulla crescita. Si tratta della costruzione di autostrade, centri commerciali, treni veloci e complessi per appartamenti che sorgono a velocità impressionante ma restano senza utenti perché i consumi sono ancora troppo bassi. La Cina acquista ingenti quantità di materie prime per sostenere la realizzazione di strutture che restano spesso vuote. Il treno veloce di Shanghai, di cui tanto si parla, è spesso vuoto perché in pochi possono permettersi il prezzo del biglietto così come i centri commerciali che sorgono come funghi restano senza acquirenti perché la gente non ha soldi abbastanza da spendere».
Quale è il rischio per Pechino?
«Di andare incontro ad una crisi da modernizzazione forzata come quelle attraversate dal Giappone nel 1990, dalla Corea del Sud nel 1998 e da Taiwan a metà degli anni Ottanta. Per scongiurare tale scenario gli investimenti devono rallentare e i consumi aumentare».
Ma in realtà gli stipendi in Cina stanno aumentando...
«Certo, crescono, ma non a sufficienza per tenere il ritmo degli investimenti».
Cosa c’è dietro la debolezza dei consumi?
«Da un lato il fatto che il governo cinese dovrebbe impegnarsi per aumentare il tenore di vita della popolazione dall’altro c’è il problema di come i cinesi gestiscono i loro risparmi».
Ovvero?
«Chi ha redditi bassi non ha molte alternative e mette i soldi nei conti correnti ma le banche versano interessi inferiori all’inflazione e dunque i risparmi diminuiscono di valore. Chi invece ha redditi più alti mette i soldi in investimenti immobiliari o in progetti industriali e in questa maniera contribuisce a spingere ulteriormente in avanti gli investimenti. Ciò che manca è il consumo interno collegato al miglioramento delle condizioni di vita».
È per questo che la Banca Mondiale con il suo recente rapporto ha lanciato l’allarme sul rischio di un rallentamento della crescita di Pechino?
«La Banca Mondiale ha messo nero su bianco quanto la dirigenza cinese dibatte da oltre dieci anni. Pechino è ben al corrente delle riforme economiche e sociali da varare per correggere gli squilibri interni della propria economia ma non riesce ad accordarsi su come e quando farlo».
L’atteso insediamento in autunno del nuovo presidente cinese Xi Jinping può riuscire a rompere questa situazione di stallo?
«E’ tutto da vedere. Bisogna tener presente che in ottobre assieme a Xi vi sarà un ricambio al vertice nelle 8-10 posizioni più importanti del partito comunista. L’interrogativo è se emergerà una dirigenza omogenea. Al momento ciò che sappiamo è che fra Xi e Li Keqiang, che dovrebbe sostituire Wen Jiabao nel ruolo di premier, vi sono frizioni tali da impedire all’uno di sostenere l’altro nelle reciproche elezioni. Si tratta di frizioni su economia e modello sociale. Per avere un’idea dello stallo in cui si trova Pechino bisogna guardare a Washington dove il Congresso è bloccato dai veti incrociati fra repubblicani e democratici: loro non hanno partiti diversi bensì fazioni in disaccordo dentro lo stesso partiti. Ma il risultato politico è assai simile».

Repubblica 11.3.12
Strauss-Kahn a Cambridge, studenti in rivolta
L’ex capo dell´Fmi parla a un convegno. Proteste: "Via gli stupratori dal nostro ateneo"
Per l’avvocato della Diallo, l’invito rappresentava un "insulto alle donne vittime di abusi"
di Enrico Franceschini


LONDRA - Dalla prigione di New York all´Università di Cambridge: cambia tutto per Dominique Strauss-Kahn, tranne le polemiche che continuano ad accompagnarlo. L´ex-presidente del Fondo Monetario Internazionale venerdì ha tenuto una conferenza sull´economia mondiale davanti all´uditorio della Students Union della prestigiosa istituzione accademica inglese, che lo aveva invitato prima del processo per stupro di una cameriera negli Usa dello scorso anno. Ma il suo arrivo scatena proteste e scontri fra dimostranti e polizia, al grido di "Via gli stupratori dalla nostra università".
Il palcoscenico di Cambridge viene offerto abitualmente a capi di Stato, personalità mondiali e personaggi dello show-business per dibattere i temi più importanti o anche questioni curiose e stravaganti: è uno dei riti della cultura britannica. A molti studenti, tuttavia, sembra che invitare l´ex-uomo politico francese, in procinto di candidarsi alla presidenza della Repubblica quando scoppiò lo scandalo, sia un modo di legittimare la violenza contro le donne, sebbene le imputazioni nei suoi confronti fossero cadute quando è stata messa in dubbio la credibilità della cameriera che lo accusava (è atteso però dal procedimento civile per danni intentatogli dalla vittima, che comincia a New York il 23 marzo). Centinaia di universitari lo aspettano con cartelli con scritte come "Dsk non è benvenuto qui" e "Non più violenze, non più stupri". Una petizione firmata da quasi un migliaio di allievi per cancellare l´evento non fa cambiare idea agli organizzatori, che hanno difeso la scelta di invitarlo in nome della libertà d´espressione. La protesta culmina in scontri con la polizia, presente in forze per evitare incidenti, e si conclude con un paio di arresti e qualche contuso.
Strauss-Kahn entra nell´aula del dibattito da una porta di servizio, scortato da quattro guardie del corpo. Rimane per tutto il tempo vicino all´uscita, nell´eventualità di vedersela brutta. La stampa è tenuta rigorosamente fuori, per volontà dell´ex-presidente dell´Fmi, ma non è difficile farsi raccontare dagli studenti cosa succede. «Capisco», esordisce Dsk, come è soprannominato, «che la mia presenza qui ha provocato qualche emozione». Poi fa la sua esposizione sull´economia europea e mondiale. Risponde alle domande del pubblico sull´argomento. Tutto tranquillo. Sin verso la fine, quando uno studente gli chiede seccamente se è in grado di spiegare perché Nafissatou Diallo, la cameriera 32enne di origine africana al centro della vicenda, ha sofferto «contusioni vaginali», se non si è trattato di stupro. «La realtà è che ho passato una settimana in prigione e dopo un mese e mezzo il processo si è chiuso con il mio proscioglimento», replica Strauss-Kahn. «Perciò cosa volete da me?», aggiunge senza apparire intimidito. Richiesto di un parere sulla dimostrazione di protesta all´esterno, minimizza: «Sono liberi di dire e fare quello che vogliono. Personalmente, penso che sbaglino». Douglas Wigdor, l´avvocato della Diallo, commenta che l´invito di Cambridge a Dsk rappresenta «un insulto a tutte le donne vittime di crimini sessuali».

Corriere della Sera 10.3.12
L'India non arretra: sul caso dei marò vale la nostra legge
L'Europa all'Italia: faremo il necessario La Farnesina: precedente pericoloso
di Ivo Caizzi


COPENAGHEN — L'Italia e l'Unione Europea hanno concordato un accordo diplomatico di massima per contribuire in modo più incisivo a risolvere il caso dei due fucilieri della Marina militare fermati in India con l'accusa di aver ucciso due pescatori locali scambiati per pirati. L'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Ue, la britannica Catherine Ashton, dopo un incontro con il responsabile della Farnesina Giulio Terzi nel Consiglio informale dei 27 ministri degli Esteri a Copenaghen, ha fatto sapere che l'Europa «farà tutto il necessario» per risolvere questa delicata vicenda.
Il governo Monti spera che l'intervento dell'Ue con l'India consenta di far sviluppare il procedimento giudiziario in base alle leggi italiane, in quanto l'uccisione dei due pescatori sarebbe avvenuta in acque internazionali. Ma al momento l'intesa tra Roma e Bruxelles non ha generato risultati concreti. Il ministro degli Esteri indiano S. M. Krishna, da Singapore, ha ribadito la linea dura del governo di New Delhi sulla sua competenza nazionale nel processo con l'accusa di presunto omicidio per i due marò.
Nella prima giornata del Consiglio dei ministri degli Esteri la Ashton e Terzi, pur impegnati nella composizione diplomatica dello scontro tra Roma e Londra per il blitz britannico in Nigeria non annunciato al governo Monti, hanno manifestato la volontà di superare le divergenze emerse nei giorni scorsi sul caso dei due marò. In particolare l'Italia sollecitava maggiore impegno dell'Ue nelle pressioni sull'India, mentre da Bruxelles scaricavano sulla Farnesina i ritardi e le carenze nella gestione della trattativa. La Ashton non ha comunque fornito dettagli sull'andamento dei contatti diplomatici dell'Ue con il governo di New Delhi perché si tratta di «una questione diplomatica molto sensibile».
Terzi si è detto soddisfatto del colloquio con l'Alto rappresentante Ue. «La mia richiesta è stata perfettamente compresa — ha dichiarato il responsabile della Farnesina —. Confido in una azione attiva dell'alto rappresentante e su una voce autorevole dell'Europa anche nei confronti delle autorità indiane». Terzi non è entrato nella ricostruzione di quanto ha portato alla morte dei due pescatori indiani. Ma ha fatto circolare tra gli altri ministri una nota di tre pagine che ricostruisce gli aspetti di diritto internazionale per cui «l'Italia considera i suoi militari a bordo di queste navi come partecipanti a missione sotto la legittima protezione militare». La Ashton non è stata però in grado di integrare l'azione con una ricostruzione dell'inviato dell'Ue a New Delhi ancora in corso di elaborazione.
«Mi sono soffermato in dettaglio su quello che è avvenuto in India», ha spiegato Terzi a Copenaghen ricordando che «due militari italiani impegnati in operazione anti-pirateria sono stati oggetto di una misura detentiva e sono al momento in un carcere indiano». La Farnesina punta a far capire «come sia fondamentale per gli interessi dell'intera Unione Europea, ma anche di tutta la comunità internazionale e dell'Italia, che il principio di libertà di navigazione sia tutelato». Tale tutela dovrebbe includere il «riconoscimento degli organi di uno Stato che legittimamente agisce nel quadro delle risoluzioni dell'Onu e delle navi che battono bandiera nazionale». La Farnesina ha iniziato anche un'azione di sensibilizzazione del centinaio di Paesi impegnati in missioni militari all'estero, ammonendo sulle conseguenze di un precedente come quello che potrebbe verificarsi in India.

Corriere della Sera 10.3.12
Rock sull'altare, in carcere le ragazze anti-Putin
di Paolo Valentino


MOSCA — Rischiano ben sette anni di prigione Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokinnova, le due componenti del gruppo punk femminista russo Pussy Riot, che il mese scorso improvvisarono una perfomance anti-Putin all'interno della cattedrale di Cristo Redentore a Mosca.
Fermate sabato notte, alla vigilia del voto che domenica ha riportato Vladimir Vladimirovich al Cremlino, le ragazze sono accusate di teppismo, vilipendio della religione, incitazione all'odio e violazione dell'ordine pubblico. Dopo che un giudice lunedì ha confermato l'arresto, Maria e Nadezhda, che negano di aver preso parte alla preghiera punk e anche di far parte della band, hanno iniziato uno sciopero della fame per protesta contro l'incarcerazione, che definiscono illegittima poiché sono entrambe madri di figli piccoli e quindi avrebbero diritto quantomeno ai domiciliari.
Il caso ha ridato carica e mobilitato l'opposizione, in parte frustrata dai risultati di domenica che hanno visto Putin trionfare con oltre il 60% dei voti. Un centinaio di persone ha tentato di entrare nella cattedrale, per una preghiera dimostrativa in favore delle ragazze, ma ha trovato le porte sbarrate, ufficialmente per ragioni tecniche.
L'avvocato Aleksej Navalny, paladino delle campagne anti-corruzione e leader morale dell'opposizione al Cremlino, ha preso parte a una piccola manifestazione di fronte al quartier generale della polizia moscovita, per protestare contro il trattamento riservato alle due punk. Navalny non giustifica le ragazze, che ha definito «matte» per quanto hanno fatto, ma ha invitato la Chiesa ortodossa a perdonarle e ha chiesto alle autorità russe il loro rilascio su cauzione.
Il riferimento alla gerarchia religiosa non è causale: è stato infatti Vsevolod Chaplin, il portavoce del patriarca Kirill, a chiedere che Maria e Nadezhda vengano «punite severamente» per il loro gesto, aggiungendo però che una pena detentiva sarebbe eccessiva. L'affaire spacca però la comunità ecclesiastica: diverse migliaia di fedeli hanno infatti scritto una lettera aperta a Kirill, chiedendogli di mostrarsi magnanimo.
Il video della bravata nella più bella cattedrale di Mosca, ricostruita da pochi anni dov'era e com'era dopo essere stata demolita in era staliniana per far posto al Palazzo dei Soviet, peraltro mai realizzato, mostra il collettivo delle Pussy Riot, incappucciate e agghindate in abiti colorati, mentre si scatena sull'iconostasi della chiesa in una danza punk e intona una preghiera: «Madre di Dio, Vergine benedetta, liberaci da Putin». Il portavoce del Cremlino ha definito l'esibizione «disgustosa», spiegando che Vladimir Putin e il presidente uscente, Dmitri Medvedev, la giudicano molto negativamente.
A metà strada tra denuncia politica e perfomance artistica, il gruppo punk è attivo sin da ottobre, ma ha raggiunto lo status di culto in gennaio, con un concerto improvvisato sulla Piazza Rossa, nel quale ha lanciato il suo motivo di maggior successo, dal titolo «Putin ha paura». Più delle loro esibizioni, non annunciate per cogliere di sorpresa le forze dell'ordine e viste dal vivo da poche decine di passanti, le Pussy Riot devono la loro celebrità ai video, che vengono mandati in rete e sono fra i più cliccati dal popolo del web in Russia.
Le Pussy Riot si ispirano al gruppo femminista underground Riot Grrrl, che emerse sulla West Coast degli Stati Uniti all'inizio degli Anni Novanta.

Corriere della Sera 10.3.12
Allieve contro polizia religiosa. Scontri all'università saudita
In 8 mila sfidano le autorità nella città di Abha. Oltre 50 ferite
di Cecilia Zecchinelli


Un mare di veli identici e neri, che coprono visi, corpi, capelli. Solo le mani spiccano bianche contro quella oscurità in movimento. Molte fanno il segno della vittoria, altre stringono telefonini. Si sentono urla, le acute zarghuta delle donne arabe che esprimono gioia, o dolore. È uno dei video, brevi e confusi, arrivati dall'università femminile Re Khaled di Abha. Una città che in Occidente quasi nessuno conosce, nel profondo sud-ovest dell'Arabia Saudita, arroccata a 2.200 metri d'altezza sui monti verso lo Yemen. È qui che mercoledì si è spinta a sorpresa l'onda della Primavera araba. Una protesta che ha visto 8 mila studentesse affrontare fisicamente la polizia religiosa, le forze dell'ordine. Il ministero della Sanità ha poi ammesso: «Ci sono state 53 ferite, 22 di loro curate in ospedale». Si sparge la voce di una ragazza morta per crisi epilettica dopo gli incidenti, un'altra avrebbe abortito. Nessuno conferma queste affermazioni e suscita dubbi che a insistervi siano i media iraniani: la Repubblica islamica è arcinemica del Regno saudita, la crisi siriana ha peggiorato i rapporti e aumentato la «disinformazja».
Ma anche in assenza di «martiri», Abha è diventata già un simbolo. Non solo perché il Regno ha evitato finora il contagio delle rivolte: solo gli sciiti nell'Est hanno osato tentare una nuova intifada, con scarso successo. Ma perché a sfidare le autorità sono state le donne, nel Paese più maschilista della regione e forse del mondo. «Tutto è partito dalle condizioni misere delle facoltà femminili di lettere e magistero: assoluta mancanza di attrezzatura e di igiene — spiega sul suo blog Wael, fratello di un'allieva contestatrice —. E poi i continui maltrattamenti da parte delle addette alla sicurezza, la pessima gestione del rettore corrotto. Già martedì c'era stato un diverbio per la sporcizia, le ragazze avevano gettato sulle guardiane bottiglie e lattine. Mercoledì per ripicca nessuno ha pulito, c'era immondizia ovunque. Le guardiane hanno aggredito le ragazze, usato idranti e estintori, le studentesse gettato tutto quello che trovavano. È arrivata la polizia religiosa, poi le forze dell'ordine».
Il governatore della regione principe Faisal bin Khaled, che ha cercato di sminuire la rivolta, ha promesso «un'inchiesta». L'università ha giustificato l'intervento della polizia come «necessario per riportare nel campus la buona condotta». Ma le ragazze non tornano indietro. Spiegano che «non è solo per il degrado della facoltà, ma per la mancanza di libertà» che si sollevano. «Vogliamo usare Internet e i cellulari quando vogliamo, meno limiti per l'abbigliamento». E «sabato — oggi — ci sarà un nuovo sit-in, venite tutti, anche i maschi», scrivono sui social network, incoraggiate da tutto il mondo. «Brave! Avete osato quello che i maschi sauditi non osano», scrivono in molti.
Il coraggio delle saudite nelle loro battaglie, in testa quella per guidare, non è nuovo. Ma è inedito che questa protesta non sia nata tra l'élite intellettuale di Jedda, Riad o dell'Est, bensì in una città di montagna tradizionale. E che tutto sia nato dalla richiesta di «più igiene in classe». «Perché stupirsi? Tutte le rivolte nel mondo sorgono oggi da giovani che vogliono risultati concreti, sono stanchi di sistemi vecchi e corrotti e di tante parole — commenta il noto politologo saudita Khaled Al Maeena —. Sono appena tornato dagli Usa, anche lì i giovani occupano Wall Street perché perdono casa e lavoro mentre i banchieri hanno bonus più alti. L'Arabia, almeno su questo, non è diversa dal mondo».

Repubblica 11.3.12
Il romanzo della scrittrice finlandese è un racconto crudo. Tra le tragedie del comunismo e le difficoltà di oggi
Dall’Urss di Stalin fino all’anoressia il mondo di Sofi
di Leonetta Bentivoglio


La prima volta di Anna è un´esperienza divina. "Immaginavo che sarebbe stato complicato, sudicio e appiccicoso", confessa. "Immaginavo che avrei perso sangue". Invece è altro: soddisfazione, appagamento, lievità. La fiamma dell´accendino, dopo l´atto, illumina il suo sguardo languido. Anna è compiuta. "La mia prima sigaretta dopo la mia prima volta. Divina anche quella. Divino tutto". Si pensa a un´iniziazione al sesso, ma non è così. Il personaggio di Anna, voce narrante del romanzo Le vacche di Stalin, ci sta introducendo nel vortice libidinoso del proprio caos alimentare. Descrive il piacere del rigetto forzato, dopo l´ingestione di enormi quantità di cibo. Riferisce le pratiche perverse che accompagnano quel rito osceno, dentro il bagno. Ci dice l´infinitezza della gioia di sparire nelle proprie ossa. La sua intera comunicazione con l´esterno si fonda su quel dominatore occulto: "Ho inventato per il mio corpo una lingua in cui i chili sono parole e le sillabe sono cellule, e in cui i reni danneggiati e le viscere strappate sono la grammatica".
Spesso lo stile è acido: Sofi Oksanen, autrice de Le vacche di Stalin, scrive così, con spietatezza impavida. In Anna quel codice legato alla frenesia bulimico-anoressica equivale a una spasmodica volontà di controllo della realtà, la propria realtà di ragazza scissa e lacerata, in bilico tra due culture. Sua madre è estone, il padre è finlandese. Anna cammina sul crinale tra quei mondi, storicamente e culturalmente in lotta, e in tale vertigine affondano le radici della sua urgenza di padroneggiare tutto. Ansia presa da sua madre Katariina, la quale, a sua volta, vive in una persistente alienazione da se stessa. Per non vergognarsi, e per non farsi chiamare puttana (nell´epoca in cui Katariina sposa il finlandese tutte le puttane arrivano dai paesi del blocco comunista, e sono pronte a vendersi a un occidentale per un paio di collant), la madre di Anna, nella libera e ricca Finlandia, deve nascondere a chiunque di essere figlia della sovietica Estonia, ed educare Anna a fare altrettanto, costringendola a negare la sua lingua dell´infanzia, in un supplizio che ci riporta ai climi de La lingua salvata di Elias Canetti. (Che cosa c´è di più profondamente identitario della lingua? E con quanto sacrificio un bambino può riuscire a cancellarla?). Parallelamente, e in un conflitto insanabile, Katariina, tornando a Tallinn, deve nascondere il proprio essere "finlandese" per non correre il rischio di passare per spia dell´Occidente.
Tessendo questa trama, Sofi Oksanen ricostruisce un percorso autobiografico. Nata nel ‘77 da padre finlandese e madre estone, la romanziera ha attraversato, da giovanissima, fasi violente di disordini alimentari. Oggi ha un volto da fumetto o da amazzone punk, con bocca turgida e occhioni da folle cerbiatta. Le sue mises sono esageratamente vistose e teatrali, e in lei c´è qualcosa di sfacciato e slabbrato che ne fa una specie di Amy Winehouse. Pare comunque, dalle foto, più una cantante rock che una scrittrice. Le vacche di Stalin, proposto ora in Italia da Guanda (uscirà la prossima settimana), fu nel 2003 la sua opera prima (ma in Italia Sofi emerse già nel 2010 con La purga, suo terzo romanzo, molto premiato e tradotto in una trentina di paesi), e la temperie esibizionistica e debordante del libro, dove si oscilla senza sosta tra gli anni Quaranta, i Settanta e i giorni nostri, denota una peculiare sintonia col volto lupesco e truccatissimo della sua artefice. L´andirivieni cronologico è estenuante: quando si sta nell´oggi si va di nuovo in retromarcia, in un vagare dall´Estonia in lotta contro l´invasione russa alle deportazioni dei dissidenti in Siberia, e dal cupo dominio sovietico fino al crollo dell´Urss nel ‘91. (Bellissime le parti sul sentimento di declino e di romanticismo decadente dei vecchi paesi socialisti). La scrittura è gonfia e diseguale, e le sezioni del racconto sono provocatoriamente sbilanciate: mentre la prima parte consta di quasi cinquecento pagine, la seconda e la terza, corrispondenti alla guarigione di Anna e al ritrovamento di sé, sono all´incirca di venti. Per dire che al centro dell´interesse di Sofi pulsano il morbo della protagonista e il suo intimo nesso con i guasti della Storia. Quando fronteggia temi quali la guarigione e la "salute", Sofi Oksanen sembra annoiarsi.
S´intrecciano, connessi allo sfasamento temporale, i molti livelli del racconto. C´è la storia della "bulimaressia" di Anna, tremenda per dettagli crudi offerti con competenza. C´è quella del rapporto simbiotico tra Katariina e Anna, dove la tara ereditaria dell´iper-controllo passa da madre in figlia. C´è il quadro della passione di Katariina per il marito finlandese e ci sono i flashback nell´epoca di Stalin, con le vicissitudini di Arnold e Sofia, i genitori di Katariina. Ci sono gli amori di Anna, in un succedersi sbadato di amplessi inutili tra una devastazione nutrizionale e l´altra. Infine, ponderoso e avvolgente, c´è l´asse politico del libro, con la tragica russificazione e spersonalizzazione dell´Estonia e della sua cultura negli anni Quaranta, le menzogne del regime, le fucilazioni, i suicidi e la convinzione del "male assoluto" che infetta la Storia. Non è una lettura riposante, Le vacche di Stalin. Prendere o lasciare. Se si decide di prendere, si percepirà una somiglianza con Marguerite Duras. Stessa prosa martellante, sgarbata, frammentaria. Ma di un´intensità e di un anticonformismo vitalissimi.

l’Unità 10.3.12
Gramsci, lo «scoop» sono le sue idee altro che finti gialli
Libri e saggi sul pensatore, con molto scandalismo e pseudo rivelazioni a conferma comunque di un fascino che perdura
di Bruno Gravagnuolo


A tutto Gramsci. Il fascino del pensatore sardo è inesauribile, e pur tra polemiche strumentali i pensieri di quel piccolo uomo non smettono di interrogarci. Nel giro di pochi mesi sono usciti quattro volumi sul «prigioniero» di caratura diversa. Mentre per fine marzo è atteso un altro volume nell’ambito della Nuova edizione nazionale delle Opere a cura della Fondazione Istituto Gramsci e sotto l’egida della Presidenza della Repubblica (lettere fino al 1926). Dopo la pubblicazione un paio di anni fa dei quaderni di traduzione e di un primo volume dell’epistolario.
I quattro libri sono quelli di Leonardo Rapone (Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci); Franco Lo Piparo, (Le due carceri di Gramsci, Donzelli); Alessandro Orsini (Gramsci e Turati, Rubettino); e la splendida raccolta di uno studioso gramsciano prematuramente scomparso nel 2004: Antonio Santucci, Affermare la verità è una necssità politica (Rubettino, presentato il 27 febbraio a Roma III da Lelio La Porta, Guido Liguori, Alberto Burgio, Diego Giannone, in una commovente cerimonia in onore di Santucci che fu editore di testi gramsciani per conto de l’Unità, e stretto collaboratore di Gerattana nell’edizione cronologica dei Quaderni Einaudi). Risegnaliamo infine un opera utile e rigorosa: il Dizionario gramsciano Carocci a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, 600 lemmi gramsciani chiave, selezionati nell’ambito della «International Gramsci Society». Uno strumento indispensabile per orientarsi tra momenti, luoghi e categorie filosofiche o storiografiche di Antonio Gramsci, massimo pensatore comunista occidentale per originialità e «lunga durata».
Bene, cos’è che di recente sembra al centro di tutto questo rinnovato interesse? Risposta: il «comunismo» di Gramsci. Dunque la fedeltà, l’eresia o addirittura la fuoriuscita eventuale di Gramsci dal comunismo novecentesco. E poi la parentela di Gramsci col sovversivismo interventista e di destra, negli anni pre-carcerari. Infine il legame tra il prigioniero e il Pc.d’I. Tante le frottole che stanno tentando di propinarci. Quella di un Gramsci «violento» ad esempio. Come nel caso del libro di Orsini, esaltato da Roberto Saviano. Oppure di un Gramsci pentito, come nel caso di un saggio su Nuova Storia contemporanea di Dario Biocca, accreditato goffamente da Repubblica. Che scambia la richiesta gramsciana di libertà condizionale per buona condotta, per una specie di istanza di grazia in base al «ravvedimento». Che nel codice di allora non figurava proprio all’articolo 176, a cui Gramsci si appella. O la leggenda di un Gramsci «tenuto» in galera da Togliatti o compromesso da Grieco nel 1928, con una lettera «imbarazzante» (che tale non era salvo trattare Gramsci... da Gramsci, cioè il dirigente comunista universalmente noto a polizia, giudici e regime). Infine c’è la leggenda del Quaderno scomparso e nascosto da Togliatti, secondo Lo Piparo. Che afferma che Gramsci era ormai «socialdemocratico». Peccato che i Quaderni fossero solo 36: 29 teorici, 4 di traduzioni, due in bianco e uno di indici redatto da Tatiana Schucht. Quanto al Gramsci «socialdemocratico», basti dire che molto dopo la svolta «socialfascista» di Stalin, Gramsci lo difende contro Trotzski! Per aver il primo ben compreso il nesso cosmopolitismo/ nazione. Il meno che si possa dire e che Gramsci non fece in tempo a divenire socialdemocratico...

il Riformista 10.3.12
Gramsci e Turati. Le due sinistre
di Gianfranco Sabattini e Lorenzo Bona


Chi è stato tra Filippo Turati e Antonio Gramsci il portatore maggiore di valori democratici e riformisti?. A questa domanda si propone di dare risposta il sociologo Alessandro Orsini, in un volume uscito di recente intitolato Gramsci e Turati. Le due sinistre.
Orsini ripercorrendo i principali “modelli pedagogici” alla base delle due maggiori anime della sinistra, ricostruisce i valori politico-culturali dei due personaggi più rappresentativi della sinistra italiana: principalmente attraverso atti congressuali per Turati e, per Gramsci, attraverso numerosi scritti che vanno dal 1916 sino ai celebri Quaderni del carcere.
Dal confronto Orsini ricava l’idea che Turati sia stato autentico difensore dei principi a fondamento della cultura politica dei socialisti democratici e riformisti. Mentre di Gramsci, sin tanto che è stato uomo libero, il sociologo ricava l’immagine di uno strenuo difensore di principi antidemocratici ed antiriformisti propri del “modello bolscevico”.
Orsini, inoltre, invita a rilevare due circostanze. Una è che, malgrado la diversità dei principi professati, la figura di Turati è stata coperta da discredito e messa in ombra, soprattutto a causa dei giudizi negativi mossi sul suo conto da esponenti del partito di Gramsci. La seconda circostanza è che Gramsci, contrariamente a Turati, verrà celebrato e ricordato come uno dei padri nobili della sinistra democratica italiana.
Il materiale documentario proveniente da fonti congressuali indurrebbe, cioè, senza troppi dubbi a ricavare che la cultura politica turatiana è sempre stata aperta ai principi del relativismo culturale, del rispetto degli avversari, del pluralismo politico, dell’elogio del dissenso, della difesa del diritto all’errore e dell’amore dell’eresia. Principi questi ai quali Turati è sempre stato fedele e, per questo motivo, riconoscibile “campione” di democrazia e di riformismo.
Più complesso, sempre per Orsini, sarebbe il discorso su Gramsci. Nel senso che dagli scritti del pensatore sardo prima del suo arresto e dai Quaderni del carcere, emergono aperture ai valori della democrazia e del riformismo diametralmente opposte. Mentre, nel periodo anteriore all’arresto, la cultua politica gramsciana appare sostanzialmente chiusa ai principi della democrazia e del riformismo, nel periodo successivo, la stessa cultura sembra rivelare una nuova “carica vitale” in una revisione profonda dei principi precedentemente condivisi.
Si tratta di un passaggio critico che, nel lavoro di Orsini, viene sminuito in importanza. Nel senso che, nello stesso lavoro, tale passaggio è associato al fatto che Gramsci in carcere avrà uno spazio tanto ristretto da risultare totalmente sottomesso «alle regole dell’istituzione carceraria» e, completamente isolato dal partito comunista, propenso ad evitare «ogni gesto sgradito all’autorità». L’isolamento e la sottomissione avrebbero così determinato un affievolimento della chiusura di Gramsci ai principi democratici e riformisti.
Questa interpretazione sembra però riflettere un eccesso di wishful thinking di natura ideologica. Ovvero, sembra riflettere il desiderio di poter giustificare l’esclusione di Gramsci dal novero dei pensatori di sinistra democratici e riformisti. Sennonché, lo studio dei Quaderni del carcere, sottratti alle strumentalizzazioni politicoideologiche, ha potuto suggerire che in essi si è compiuto un reale superamento dell’originario pensiero politico di Gramsci. Basti pensare il ruolo assegnato al concetto di egemonia nella spiegazione del funzionamento delle istituzioni proprie di un sistema sociale democratico per il governo della società civile.
Come è noto, il pensatore sardo interpreta la democrazia come luogo di confronto tra gruppi sociali antagonisti. La sfida è per loro l’instaurazione di un rapporti egemonico. I gruppi stanno cioè in una contrapposizione sempre reciproca e dialettica. Il loro obiettivo è quello di stabilire uno “scambio equilibrato” tra tutti gli interessi presenti all’interno della società civile. E proprio questo scambio a legare in modo del tutto originale la democrazia al pluralismo della società politica. L’esercizio del rapporto egemonico si trasforma così in un «governo delle differenze» e non in una omologazione o dissoluzione delle differenze in una presunta visione superiore della società civile, come ipotizzato da Gramsci prima della carcerazione, quando pensava alla dittatura del proletariato.

Repubblica 11.3.12
A Lugano una grande mostra su un artista ben radicato nel XX secolo Pittura concettualizzata che esprime nostalgia di un ordine perduto
Morandi. Perché le sue bottiglie sono arte d’avanguardia
di achille Bonito Oliva


La modernità, il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell´arte, per cui l´altra metà è l´eterno e l´immutabile; esiste una modernità per ogni pittore antico" La frase di Baudelaire può costituire l´epigrafe di questa mostra di Giorgio Morandi (1890-1964) al museo d´arte di Lugano (fino al 1° luglio). Cento opere, a partire dall´Autoritratto del 1924, testimoni di un percorso creativo improntato sulla capacità metafisica della pittura di esplorare la natura delle cose e rappresentarne caducità e durata, cogliere l´intreccio tra spazio e tempo.
Con estrema coerenza con lo Zeitgeist del XX secolo egli ha perseguito una poetica costantemente aggiornata da un´ansietà formale, dalla ricerca di un ordine linguistico che a sua volta rinvia a un superiore ordine morale. Frutto della grande tradizione occidentale di un´arte improntata sulla techné, sicuramente Morandi è artista d´avanguardia, nel senso della sperimentazione come continua esperienza del fare esecutivo.
Ogni opera è frutto di un accanimento e di una elaborazione specifica. Ogni opera nello stesso tempo, nel suo prodursi, annulla lo sforzo e l´arrovellamento per approdare nella classicità di una forma oggettiva e superiore: Natura morta 1920. Nasce da una cultura che trova i propri modelli nella classicità e nel rinnovato desiderio di ordine del Quattrocento italiano. La prospettiva non è soltanto la forma simbolica di un´ideologia antropocentrica ma anche la linea di una visione del mondo che non vuole aggiungere ordine all´ordine ma piuttosto sopperire al disordine esterno con la nostalgia di una misura aurea. Giorgio Morandi sviluppa una sua personale poetica della metafisica che non cerca nell´ordine prospettico di beffare il mondo, come de Chirico.
Se da Leonardo egli assume la concettualizzazione del procedimento pittorico, un sottile e silenzioso furor michelangiolesco accompagna costantemente la sua opera. Un rigore preminimalista sembra abitare le nature morte di Morandi, un eroismo da camera che sviluppa una iconografia riflessiva sul tema del tempo transeunte.
Tutta la sua pittura è cadenzata da stazioni iconografiche con molte diramazioni culturali e consonanze filosofiche con artisti e letterati che sembrano lontani da lui e che a mio avviso invece interagiscono con la sua opera: Giacometti, Beckett e Bacon. Ma rispetto a tali autori Morandi conserva febbrile costanza esecutiva e conferma tematica: una laboriosità manuale che sembra togliere perentorietà concettuale all´opera rispetto a quella di autori che del silenzio, del decadimento e dell´urlo hanno fatto cifre costanti delle loro poetiche. Lo scontornamento delle figure di Giacometti trova in quello degli oggetti di Morandi una concordanza di visione e di impianto linguistico. Così come lo spegnimento della composizione sembra alludere allo spazio della conversation piece beckettiana. Senza soprassalti o cambi di temperatura cromatica. Un monologo iconografico contro due monologhi incrociati del teatro. È la prospettiva comunque, briglia spaziale che recinta il perimetro dell´immagine, a imporre un tono minimale alla composizione contro cui invece non si rassegna Bacon che usa taglio fotografico e memoria pittorica, Tiziano e nostalgia dell´ordine prospettico.
Morandi nella pluralità espressiva del XX secolo sembra introiettare nel suo universo la tentazione a spegnere l´entropia di un mondo che ancora ci offre i propri banchetti iconografici. L´artista bolognese non chiede degustazione ma piuttosto contemplazione dello stato definitivo delle cose. Una visione del mondo che non chiede all´arte di essere una pratica consolatoria ma piuttosto un´opera continua di investigazione e domanda sul mondo. Da questo l´artista italiano recupera il quotidiano con le sue famose bottiglie, mai seriali come la Coca-Cola di Warhol, per assemblarli in un ordine formale che della pittura conserva il bisogno della forma nei suoi accenti di simmetria, proporzione e armonia: Natura morta 1929-1930 e Natura morta (1957). Al transeunte e fuggitivo del poeta francese Baudelaire, l´artista italiano contrappone una possibile classicità del moderno. All´emotività performativa di molta arte contemporanea contrappone la durata di uno sguardo testimone e partecipe, sostenuto da un´ottica che non si nutre sui documenti della cronaca, come la pop art, ma sul costante respiro della storia. La storia significa anche per lui, come per tutta l´arte europea compreso Beuys, memoria, possibilità di attingere agli eterni temi della pittura classica per fondare soluzioni iconografiche, frutto di un operoso processo creativo nella sua sostanzialità bolognese.
In definitiva, Giorgio Morandi costituisce un esempio dell´arte italiana che ha sempre cercato nella bellezza una difesa dal mondo ma ha sempre resistito all´eleganza della facile soluzione. Esso costituisce un modello di produzione estetica come resistenza morale, la durata contro l´effimero, la capacità di stemperare l´impazienza sperimentale dell´avanguardia nella soluzione di una forma capace di affrontare domande primarie.

Repubblica 11.3.12
Se un classico ci spiega cosa è davvero il capitale
di Antonio Gnoli


Improvvisamente ci sentiamo tutti più dubbiosi e incerti circa le sorti del capitalismo. Sarà alla fine? Come recitano alcuni critici. Oppure, quel suo permanente ricorso alla crisi lo rende sì instabile, ma anche insostituibile per la sua capacità innovativa? Nel corso dei secoli abbiamo assistito a diverse mutazioni. Ma oggi guardiamo con un certo sconcerto al passaggio da un´economia dei beni materiali a una sostanzialmente fondata sull´immateriale. E non si sta parlando di Internet, ma di qualcosa che coinvolge le nostre tasche.
Eppure, dopo tante brillanti analisi del vecchio Marx, toccò a un curioso personaggio di origini viennesi, che era stato ministro all´epoca di Weimar, mettere in guardia dall´evoluzione del capitalismo. Rudolf Hilferding avvertì che c´era qualcosa di intrinsecamente insano nell´economia. Nelle sue pratiche tutt´altro che virtuose. Vi scrisse sopra un indimenticabile e pallosissimo libro (Il capitale finanziario, appena riedito da Mimesis) che si concludeva con le seguenti parole: «Il capitale finanziario nella sua forma più compiuta implica il completo dominio dell´oligarchia capitalistica sul potere politico ed economico. Esso è la più compiuta realizzazione della dittatura dei magnati del capitale».
Dittatura è una parola gravida di conseguenze Non ci vuole la sfera di cristallo per leggere che ciò che stava nascendo poco più di un secolo fa, e che Hilferding intuì con raro acume, si è oggi pienamente dispiegato. La questione, tuttavia, non è solo fin dove siamo giunti, ma quanto possiamo ancora spingerci oltre, sapendo che i mercati, come ha osservato un´analista sconsolato, sono sempre più veloci della democrazia.

Repubblica 11.3.12
Pelosi su Pasolini "Ho taciuto per paura" Veltroni: verità vicina


ROMA - Dopo 36 anni Pino Pelosi, condannato per l´uccisione di Pier Paolo Pasolini, è stato sulla tomba del poeta nel Friuli. «Gli ho voluto chiedere scusa, spiegare il mio silenzio dettato solo dalla paura. Ho paura a fare nomi, perché sono stato minacciato di morte». E Walter Veltroni, che su Twitter ha commentato un colloquio avuto con Pelosi, ha ribadito: «Sono convinto da anni e sempre di più che Pier Paolo sia stato ucciso in un agguato organizzato e che sia seguito un depistaggio. Ma la verità si avvicina».

Corriere della Sera 11.3.12
La dittatura dell'apparenza
Il potere e la vanità sono l'unico metro di giudizio L'analisi di Vittorino Andreoli su un'epoca senz'anima
di Giangiacomo Schiavi


La questione, in apparenza, è una questione di pelle. Di effimere ossessioni che vanno dalla testa ai piedi e attraversano la superficie di un corpo ritoccato per essere bello. Cute piallata e levigata per dare un senso all'essere e all'avere nel deserto etico di questa società. E rughe stirate, capelli colorati, nasi rifatti, seni gonfiati, addomi scolpiti per portare in giro qualcosa da mostrare che nasconda il vuoto dentro, la tristezza di un tempo senza memoria che uccide i sogni e cancella i ricordi.
Ma c'è dell'altro nell'inventario fallimentare che Vittorino Andreoli compila analizzando le perversioni della modernità. C'è la perdita di senso e l'ostentata pornografia dei valori diffusa coi messaggi impropri della politica. C'è la crisi della famiglia, la scuola a pezzi, lo smarrimento dei padri, la banalità delle madri, la confusione degli adulti in balia di pulsioni e frustrazioni riversate addosso ai demiurghi della contemporaneità, quei medici che aiutano a cambiar faccia, pelle e bocca e trasformano le persone in tanti ex.
Ormai, scrive Andreoli, viviamo in uno specchio deformato: cerchiamo solo potere e bellezza. Quel che appare è diventato quello che si è. Siamo un corpo vuoto che galleggia nella società liquida di Zygmunt Bauman. Viviamo da precari, alla giornata, sull'orlo della bancarotta etica ed economica. Abbiamo cancellato la speranza nei giovani. E stiamo affidando a Internet il nostro destino.
L'uomo di superficie (Rizzoli) non è un semplice libro. È un ammonimento, il grido d'allarme di uno psichiatra che usa il culto del corpo come metafora del degrado di un Paese e di certe sue istituzioni. Bastano poche pagine per capire che il marketing del corpo rischia di cancellare la consapevolezza di quel che ci portiamo dentro. La nostra storia, le passioni, le emozioni, l'umanità che ci ha fatto grandi. Andreoli non si chiede dove siamo finiti. Sa benissimo che abbiamo sconfinato. Navighiamo a vista. In questo momento stiamo andando al buio.
Ci vuole il coraggio di pochi ribelli per rompere la spirale di conformismo che sta appiattendo tutto. Ma servono spalle larghe e propensione al rischio. Andreoli questo coraggio ce l'ha. Dice cose che danno fastidio. Non cerca facili applausi. Si mette in gioco parlando di sé, dell'iniziazione alla vita nella scuola contadina, della solidarietà che insegna a saziare la fame con una misera aringa divisa in famiglia. Racconta l'indimenticabile felicità del freddo e del fuoco, ricorda il dolore per la perdita del padre, il senso di colpa, la paura del vuoto e la fede fortificata nella certezza che si può continuare a vivere in simbiosi con chi ci ha voluto bene. Parla della sua scelta di lavorare in manicomio: con gli ultimi si impara e ci si misura con le fragilità della vita. Ai drogati da successo dice che si cresce attraverso gesti ed esempi imitabili. Quelli che oggi, purtroppo, non si trovano quasi più.
Il driver della società è il potere, «malattia grave per cui non c'è cura se non aumentarlo, come dire che si guarisce stando peggio». Non c'è nessun Robin Hood in grado di liberarci, perché «ci siamo consegnati a una classe politica inetta e rapace». Il berlusconismo, secondo Andreoli, è stato «un governo in maschera che poteva dire e negare, sostenere a parole e distruggere di fatto, prigioniero degli interessi personali del leader». Ma le opposizioni si sono adeguate al peggio, finendo nel ridicolo tra faide e pessime imitazioni. Andreoli confessa la sua delusione per Romano Prodi, di cui è stato analista e trainer (psicologico) nei vittoriosi duelli con il cavaliere di Arcore. «Non chiesi nulla per quei successi elettorali — ricorda — ma interruppi la relazione con lui subito dopo l'ultima vittoria: mi telefonò per salutarmi e io gli raccomandai il piano per i giovani che era stata la molla che mi aveva spinto a partecipare alla campagna. Doveva essere gestito dalla presidenza del Consiglio, ma lui disse che aveva creato un ministero per i giovani affidato a Giovanna Melandri… Mi resi conto che aveva già dimenticato tutto, e mi indignai. Gli dissi di prendere una matita e cancellare il mio numero di telefono». Prodi cadde due anni dopo, per le liti tra piccoli uomini «che non avevano a cuore le sorti dell'Italia». Come il governo Berlusconi, anche il centrosinistra «era dominato dalle logiche narcisistiche dei partiti che rappresentavano se stessi e non il Paese».
Come se ne esce? E' la domanda che viene spontanea. Andreoli non ha una terapia. Indica nella politica vanesia e autoreferenziale il nodo da sciogliere. «Finché il sistema di governo non funziona si parlerà solo di poteri e i bisogni di un popolo non saranno nemmeno considerati». Anche chi è abituato a indagare il cervello degli uomini respira l'aria inquinata di questa società e cammina nella nebbia: «La nostra civiltà è in sala di rianimazione e l'ossigeno è poco». Bisogna ripartire dai fondamentali, «cultura, giovani, ricerca, arte e conservazione, tutto ciò che è umano ma appare ridotto alla bidimensionalità di una superficie translucida, senza radici». Bisogna reimparare le tabelline della vita. Che non si trovano sull'iPad o nello schermo del computer.

Repubblica 11.3.12
Il dibattito sulla fine del postmoderno: non tutto è interpretazione
Umberto Eco: cari filosofi è l’ora del Realismo Negativo
La risposta postmoderna al moderno è consistita nel volerlo rivisitare con ironia, senza innocenza
Il Realismo Negativo prevede che si possa dire quando un’ipotesi interpretativa è sbagliata
di Umberto Eco


Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull´Essere, del 1985.
So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d´Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità.
In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell´uno o dell´altro polo di questa dialettica, dall´idealismo magico al relativismo (benché quest´ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei ad espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell´oggetto di conoscenza, l´eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall´Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero.
Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo.
Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell´ambito delle teorie dell´architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale).
L´elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L´avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d´Avignon erano state il gesto tipico dell´avanguardia. Poi l´avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l´aveva annullata, era arriva all´astratto, all´informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all´edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall´atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.
Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l´arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.
Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta.
Ma se questo è stato il postmodernismo in architettura, arte e letteratura, che cosa aveva o ha in comune col postmodernismo filosofico, almeno quale lo si fa nascere con Lyotard? Certamente, teorizzando la fine delle grandi narrazioni e di un concetto trascendentale di verità, si riconosce l´inizio di epoca del disincanto – e nel celebrare la perdita della totalità e dando il benvenuto al molteplice, al frammentato, al polimorfo, all´instabile, il postmodernismo filosofico mostra alcune connessioni con l´ironia metanarrativa o con la rinuncia dell´architettura a prescrivere modi di vita razionali. Ma queste analogie, questa comunità di clima culturale, non sembrano aver alcuna connessione diretta con la questione del realismo, perché si può essere polimorfi e disincantati, rinunciare ai grandi racconti per coltivare saperi locali, senza per questo mettere in dubbio un rapporto quasi vetero-realistico con le cose di cui si parla. Caso mai verrebbe messo in dubbio il sapere degli universali, non la credenza anche fortissima nella persistenza dei particolari e nella nostra capacità di conoscerli per quel che sono (e in tal senso sarei tentato di ascrivere a una temperie postmoderna anche la teoria kripkiana della designazione rigida – e infine ricordiamo che il passaggio da Tommaso a Ockham, se sancisce la rinuncia agli universali, non mette in crisi i concetti di realtà e di verità).
Quello che piuttosto emerge (nel cosiddetto postmodernismo filosofico), passando attraverso la decostruzione (sia quella di Derrida sia quella d´oltre oceano, che è solo un articolo prodotto dall´industria accademica americana su licenza francese) e le forme del pensiero debole, è un tratto molto riconoscibile (su cui in effetti si accentra la polemica di Ferraris), e cioè il primato ermeneutico dell´interpretazione, ovvero lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni.
A questa curiosa eresia avevo da gran tempo reagito, a tal segno che a una serie di miei studi degli anni Ottanta avevo dato nel 1990 il titolo I limiti dell´interpretazione, partendo dall´ovvio principio che, perché ci sia interpretazione ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse altro che l´interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto – e che in ogni caso il regressum ad infinitum dovrebbe a un certo punto arrestarsi a ciò da cui era partito e che Peirce chiamava l´Oggetto Dinamico. Ovvero ritenevo che, quand´anche conoscessimo I promessi sposi solo attraverso l´interpretazione che ne dava Moravia nell´edizione Einaudi, quando avessimo dovuto interpretare l´interpretazione di Moravia avremmo avuto davanti a noi un fatto innegabile, il testo di Moravia, punto ineliminabile di riferimento per chiunque avesse voluto, sia pure liberissimamente, interpretarlo, e dunque fatto intersoggettivamente verificabile.
È vero che quando si cita lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni anche il più assatanato tra i post modernisti è pronto ad asserire che lui o lei non hanno mai negato la presenza fisica non solo dell´edizione Einaudi dei Promessi sposi, ma anche del tavolo a cui sto parlando. Il postmodernista dirà semplicemente che questo tavolo diventa oggetto di conoscenza e di discorso solo se lo si interpreta come supporto per un´operazione chirurgica, come tavolo da cucina, come cattedra, come oggetto ligneo a quattro gambe, come insieme di atomi, come forma geometrica imposta a una materia informe, persino come tavola galleggiante per salvarmi durante un naufragio. Sono sicuro che anche il postmodernista a tempo pieno la pensi così, salvo che quello che stenta ad ammettere è che non può usare questo tavolo come veicolo per viaggiare a pedali tra Torino e Agognate lungo l´autostrada per Milano. Eppure questa forte limitazione alle interpretazioni possibili del tavolo era prevista dal suo costruttore, che seguiva il progetto di qualcosa interpretabile in molti modi ma non in tutti.
L´argomento, che non è paradossale, bensì di assoluto buon senso, dipende dal problema delle cosiddette affordances teorizzate da Gibson (e che Luis Prieto avrebbe chiamato pertinenze), ovvero dalle proprietà che un oggetto esibisce e che lo rendono più adatto a un uso piuttosto che a un altro. Ricorderò un mio dibattito con Rorty, svoltosi a Cambridge nel 1990, a proposito dell´esistenza o meno di criteri d´interpretazione testuali. Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d´interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco.
Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d´interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Nell´intervento poi consegnato da Rorty all´editore l´allusione alla grattata d´orecchio era scomparsa, perché evidentemente Rorty l´aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l´intervento orale. Possiamo astenerci dall´attribuirgli questo esempio non più documentato ma, visto che – se non lui – qualcun altro ha usato argomenti consimili, posso ricordare la mia contro-obiezione di allora, basata proprio sulla nozione di affordance. Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi d´entro l´orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l´azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C´è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest´ultimo a capriccio.
Rorty aveva rinunciato all´argomento dell´orecchio, ma che dire di tanto decostruzionismo che rivisita l´antico detto di Valéry per cui il n´y a pas de vrai sens d´un texte e di Stanley Fish che nel suo There a Text in This Class? Consentiva alla libera interpretazione di ogni testo
Che non vi siano fatti ma solo interpretazioni viene attribuito a Nietzsche e credo che persino Nietzsche ritenesse che il cavallo che aveva baciato non lontano da qui esistesse come fatto prima che lui decidesse di farlo oggetto dei suoi eccessi affettivi. Però ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, e queste responsabilità emergono chiaramente in quel testo che è Su verità e menzogna in senso extra-morale. Qui Nietzsche dice che, poiché la natura ha gettato via la chiave, l´intelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. Noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: così pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individuale esista una «foglia» primordiale «sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale».
L´uccello o l´insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di «percezione esatta» che non esiste, perché «la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile». Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale.
A questo punto per Nietzsche la verità è solo «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti. E di lì un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso «colombaio romano», cimitero delle intuizioni.
Che questo sia un ottimo ritratto di come l´edificio del linguaggio irreggimenti il paesaggio degli enti, o forse un essere che rifiuta a essere irrigidito in sistemi categoriali, è innegabile. Ma rimangono assenti, anche dai brani che seguono, due domande: se adeguandoci alle costrizioni di questo colombaio si riesce in qualche modo a fare i conti col mondo, per esempio decidendo che avendo la febbre è più opportuno assumere aspirina che cocaina (che non sarebbe osservazione da nulla); e se non avvenga che ogni tanto il mondo ci costringa a ristrutturare il colombaio, o addirittura a sceglierne una forma alternativa (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche non sembra chiedersi se e perché e da dove un qualche giudizio fattuale possa intervenire a mettere in crisi il sistema-colombaio.
Ovvero, a dir la verità, egli avverte l´esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come «forze terribili» che premono continuamente su di noi, contrapponendo alle verità «scientifiche» altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire ad esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l´armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente. «Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura». Bella coincidenza, queste righe vengono scritte due anni dopo che Rimbaud, nella lettera a Demeny, aveva proclamato che «le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens», e nello stesso periodo vedeva «A noir, corset velu de mouches éclatantes» e «O suprème Clairon plein des strideurs étranges».
Così infatti per Nietzsche l´arte (e con essa il mito) «confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell´uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno». Un sogno fatto di alberi che nascondo ninfe, e di dèi in forma di toro che trascinano vergini.
Ma qui manca la decisione finale. O si accetta che quello che ci attornia, e il modo in cui abbiamo cercato di ordinarlo, sia invivibile, e lo si rifiuta, scegliendo il sogno come fuga dalla realtà (e si cita Pascal, per cui basterebbe sognare davvero tutte le notti di essere re, per essere felice – ma è Nietzsche stesso ad ammettere che si tratterebbe d´inganno, anche se supremamente giocondo), oppure, ed è quello che la posterità nicciana ha accolto come vera lezione, l´arte può dire quello che dice perché è l´essere stesso, nella sua languida debolezza e generosità, che accetta anche questa definizione, e gode nel vedersi visto come mutevole, sognatore, estenuatamente vigoroso e vittoriosamente debole. Però, nello stesso tempo, non più come «pienezza, presenza, fondamento, ma pensato invece come frattura, assenza di fondamento, in definitiva travaglio e dolore» (e cito Vattimo, Le avventure della differenza, p. 84). L´essere allora può essere parlato solo in quanto è in declino, non s´impone ma si dilegua. Siamo allora a una «ontologia retta da categorie «deboli» (Vattimo p. 9). L´annuncio nicciano della morte di Dio altro non sarà che l´affermazione della fine della struttura stabile dell´essere (Introduzione al Pensiero debole, p. 1983: 21) L´essere si darà solo «come sospensione e come sottrarsi» (Vattimo Oltre l´interpretazione, p. 18).
In altre parole: una volta accettato il principio che dell´essere si parla solo in molti modi, che cosa è che ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, e che quindi non solo l´essere ci appaia come effetto di linguaggio ma sia radicalmente e altro non sia che effetto di linguaggio, e proprio di quella forma di linguaggio che si può concedere i maggiori sregolamenti, il linguaggio del mito o della poesia? L´essere allora, oltre che (come ha detto una volta Vattimo con efficace piemontesismo) «camolato», malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. A questo punto esso sarebbe davvero opera dei Poeti, intesi come fantasticatori, mentitori, imitatori del nulla, capaci di porre irresponsabilmente una cervice equina su un corpo umano, e far d´ogni ente una Chimera.
Decisione per nulla confortante, visto che, una volta regolati i conti con l´essere ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis (che è poi il limite di ogni idealismo magico). Qual è lo statuto ontologico di colui che dice che non vi è alcun statuto ontologico?
Non solo. Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni «cattive». Dire che non c´è figura vincente del poker che non sia costruita da una scelta del giocatore (magari incoraggiata dal caso) non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d´assi l´altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono nella nostra partita con l´essere dei momenti in cui Qualcosa risponde con una scala reale al nostro tris d´assi?
Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l´orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SI a molte delle mie interpretazioni ma a molte, e almeno ad una risponde di NO.
Riflettiamo su questo NO, che sta alla base di quello che chiamerò il mio Realismo Negativo. Il vero problema di ogni argomentazione «decostruttiva» del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d´accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d´interpretazione, e sino a ieri lo interpretavamo come se i neutrini viaggiassero anch´essi alla velocità della luce e forse domani dovremo deciderci a cambiare idea mettendo in crisi una presunta costante universale. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell´impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo – e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda?
oniamo pure, con Vattimo (Oltre l´interpretazione, p.100) una differenza tra epistemologia, che è «la costruzione di corpi di sapere rigorosi e la soluzione di problemi alla luce di paradigmi che dettano le regole la verifica delle proposizioni» (e ciò sembra corrispondere al ritratto che Nietzsche dà dell´universo concettuale di una data cultura) e ermeneutica come «l´attività che si dispiega nell´incontro con orizzonti paradigmatici diversi, che non si lasciano valutare in base a una qualche conformità (a regole o, da ultimo, alla cosa), ma si danno come proposte «poetiche» di mondi altri, di istituzione di regole nuove». Quale regola nuova la Comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia? Vi sono pur sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che viviamo non all´esterno bensì all´interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall´uomo – e ad essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili.
Di lì l´idea di un Realismo Negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l´oggetto da interpretare non ammette.
Poniamo che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l´oeil che rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe l´oeil che intende ingannarmi, come porta vera (e aperta), come rappresentazione con finalità estetiche di una porta aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e così via, forse all´infinito. Ma se l´interpreto come vera porta aperta e cerco di attraversarla, batto il naso contro il muro. Il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di interpretare si è ribellato alla mia interpretazione.
Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati così da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato «buone», debbano essere ritenute definitive. Ma questo frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuole dire che everything goes.
In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell´essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone.
Chi ha mai detto che i fatti che interpreto possano pormi dei Limiti? Come posso fondare il concetto di Limite?
Questo potrebbe essere un semplice postulato dell´interpretazione, perché se assumessimo che delle cose si può dire tutto non avrebbe più senso l´avventura della loro interrogazione continua. A questo punto anche il più radicale dei relativisti potrebbe decidere di assumere l´interpretazione del più radicale dei realisti vecchio stampo, visto che ogni interpretazione vale l´altra.
Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l´esperienza della Morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c´è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora.
iò che voglio dire ora si ispira a una teoria non metafisica ma semiotico-linguistica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su che cosa viene ritagliato? Su una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l´esperibile, il dicibile, il pensabile – se volete, l´orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza. Chiamiamolo pure essere o Mondo, come ciò che presiede ogni costruzione e donazione di forma operata dal linguaggio. Parrebbe che, prima che una cultura non l´abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. E in tal senso Hjelmslev non avrebbe detto nulla di diverso da Nietzsche. Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev chiamasse il continuo, in danese, mening, che è inevitabile tradurre con «senso» (ma non necessariamente nel senso di «significato» bensì nel senso di «direzione», nello stesso senso in cui in una città esistono sensi permessi e sensi vietati).
Che cosa significa che ci sia del senso, prima di ogni articolazione sensata operata dalle conoscenza umana? Hjelmslev lascia a un certo momento capire che per «senso» intende il fatto che espressioni diverse in lingue diverse come piove, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuo ci sono delle linee di resistenza e delle possibilità di flusso, come delle nervature del legno o del marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell´altra. È come per il bue o il vitello: in civiltà diverse viene tagliato in modi diversi, per cui la sirloin steak americana non corrisponde a nessuna bistecca nostrana. Eppure sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momento l´estremità del muso e la coda.
Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. Il mondo può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire.
Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per così dire «sbattuto la testa» contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima.
Naturalmente ci sono dei gradi di costrizione. Si prendano due esempi, la confutazione del sistema tolemaico e quella dell´esistenza della Terra Australis Incognita come una immensa calotta – fertilissima – che avrebbe avvolto l´emisfero sud del pianeta. Quando vigevano le due ipotesi, ora refutate, il mondo noto permetteva di essere spiegato in modo verosimile e ragionevole: la teoria tolemaica per secoli ha dato ragione di moltissimi fenomeni, e la persuasione dell´esistenza di una terra australe ha incoraggiato innumerevoli viaggi di scoperta, che di quella terra avevano persino toccato le presunte propaggini. Poi si è scoperto che il sistema copernicano (con le varie correzioni apportatevi sino a Keplero) spiegava meglio i fenomeni celesti, e che la Terra Australe in quanto calotta globale non esiste. Potremmo persino pensare che un giorno – anche se per ora la teoria eliocentrica risponde a più quesiti e ci permette più previsioni di quanto non potesse la teoria geocentrica – emerga un sistema più esplicativo che mette in crisi entrambe le teorie. Ma per ora noi dobbiamo scommettere sul sistema di Keplero, come se fosse vero, e non possiamo usare più la teoria geocentrica. Quanto alla Terra Australe, nella misura in cui dobbiamo prestar fede ai dati di una esperienza provata da migliaia di testimoni e da misurazioni scientifiche, pare assolutamente impossibile affermare che esiste un continente che copre a calotta l´emisfero sud del pianeta, a meno che non decidiamo di definire come Terra Australis l´Antartide (ma si tratterebbe di un puro gioco sui nomi).
Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice NO. Questo NO è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, pura interdizione.
E qui debbo fare una precisazione, perché mi rendo conto che la metafora dello zoccolo duro può fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno o l´altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo; e nello stesso tempo la metafora può fare pensare che questo zoccolo, questi limiti di cui ho parlato, siano quelli che corrispondono alle leggi naturali. Vorrei chiarire (anche a costo di ripiombare nello sconforto gli ascoltatori che per un attimo avevano creduto di ritrovare una idea consolatoria della Realtà) che la mia metafora allude a qualcosa che sta ancora al di qua delle leggi naturali, che persisterebbe anche se le leggi newtoniane si rivelassero un giorno sbagliate – ed anzi sarebbe proprio quel qualcosa che obbligherebbe la scienza a rivedere persino l´idea di leggi che parevano definitivamente adeguare la natura dell´universo. Quello che voglio dire è che noi elaboriamo leggi proprio come risposta a questa scoperta di limiti, che cosa siano questi limiti non sappiamo dire con certezza, se non appunto che sono dei «gesti di rifiuto», delle negazioni che ogni tanto incontriamo. Potremmo persino pensare che il mondo sia capriccioso, e cambi queste sue linee di tendenza – ogni giorno o ogni milione di anni. Ciò non eliminerebbe il fatto che noi le incontriamo.
siste uno Zoccolo Duro persino nel Dio delle religioni rivelate, dove Dio prescrive dei limiti persino a se stesso. C´è una bella Quaestio Quodlibetalis di San Tommaso in cui il filosofo chiede utrum Deus possit reparare virginis ruinam e cioè se Dio possa riparare al fatto che una vergine abbia perso la propria verginità. La risposta di San Tommaso è chiara: se la domanda riguarda questioni spirituali, Dio può certamente riparare al peccato commesso e restituire alla peccatrice lo stato di grazia; se riguarda questioni fisiche, Dio può con un miracolo ricostituire l´integrità fisica della fanciulla; ma se la questione è logica e cosmologica, ebbene, neppure Dio può fare che ciò che è stato non sia stato. Lascio da decidere se questa necessità sia stata posta liberamente da Dio o faccia parte della stessa natura divina. In ogni caso, dal momento che c´è, anche Dio ne è limitato.
Credo che ci siano dei rapporti tra questo mio modestissimo Realismo Negativo (per cui avvertiamo qualcosa fuori di noi e dalle nostre interpretazioni solo quando riceviamo un diniego) e l´idea popperiana per cui l´unica prova a cui possiamo sottoporre le nostre teorie scientifiche è quella della loro falsificabilità. Non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene.
Credo di essermi attenuto a questo principio di realismo negativo sin da quando, all´inizio degli anni Sessanta, nel sostenere l´indispensabile collaborazione del fruitore a ogni testo artistico, intitolavo il mio libro Opera Aperta. Questo apparente ossimoro mirava a sostenere che l´apertura, potenzialmente infinita, si misurava di fronte all´esistenza concreta dell´opera da interpretare.
Che era poi da parte mia una ripresa dell´idea pareysoniana che l´interpretazione si articola sempre in una dialettica di iniziativa dell´interprete e fedeltà alla forma da interpretare.
Infinite sono le interpretazioni possibili del Finnegans Wake ma neppure il più selvaggio tra i decostruzionisti può dire che esso racconta la storia di una contessa russa che si uccide gettandosi sotto il treno.
Potrei tradurre questa mia idea di Realismo Negativo in termini peirceani. Ogni nostra interpretazione è sollecitata da un Oggetto Dinamico che noi conosceremo sempre e solo attraverso una serie di Oggetti Immediati (l´Oggetto Immediato essendo già un segno, che può essere chiarito solo da una serie successiva di Interpretanti, ciascun interpretante successivo spiegando sotto un certo profilo il precedente, in un processo di semiosi illimitata). Ma nel corso di questo processo produciamo degli Abiti, delle forme di comportamento, che ci portano ad agire sull´Oggetto Dinamico da cui eravamo partiti e a modificare la Cosa in Sé da cui eravamo partiti, offrendo un nuovo stimolo al processo della semiosi. Questi abiti possono avere o meno successo, ma quando non l´ottengono il principio del fallibilismo deve portarci a ritenere che alcune delle nostre interpretazioni non erano adeguate.
È sufficiente intrattenere questa idea minimale di realismo, che coincide benissimo col fatto che conosciamo i fatti solo attraverso il modo in cui li interpretiamo? Una volta Searle aveva detto che realismo significa che siamo convinti che le cose vadano in un certo modo, che forse non riusciremo mai a decidere in che modo vadano, ma che siamo sicuri che esse vadano in un certo qual modo anche se non sapremo mai quale. E questo ci basta per credere (e qui Peirce viene in soccorso a Searle) che in the long run, alla fin fine, sia pure sempre parzialmente noi possiamo portare avanti la torcia della verità.
La forma modesta del Realismo Negativo non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità, ovvero sapere definitivamente what is the case, ma ci incoraggia a cercare ciò che in qualche modo sta davanti a noi; e la nostra consolazione di fronte a ciò che altrimenti ci parrebbe per sempre inafferrabile consiste nel fatto che noi possiamo sempre dire, anche ora, che alcune delle nostre idee sono sbagliate perché certamente ciò che avevamo asserito non era il caso.