venerdì 2 novembre 2012

l’Unità 2.11.12
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Così cambieremo l’Italia»
«Le priorità: moralità e lavoro»
«Se sarò premier convocherò subito a Palazzo Chigi la Caritas, l’Arci e le associazioni per affrontare il disagio sociale»
«Rilanciare il progetto europeo: a dicembre e a febbraio incontreremo a Roma i leader socialisti e democratici»
«Sulle primarie rivendico di aver visto giusto. La scelta ci ha rinvigorito. E la Sicilia dimostra che nel caos generale la nostra forza è una speranza per l’Italia»
di Simone Collini


L’«incontro» tra progressisti e moderati, la «collaborazione» con Monti che proseguirà anche dopo il 2013, le primarie che hanno «rinvigorito» il Pd. Ma in questa intervista a l’Unità Pier Luigi Bersani fa anche un paio di annunci. Il primo: a dicembre saranno a Roma tutti i leader socialisti e democratici per rilanciare «una grande idea europeista» e per «creare una rete tra forze che vanno al di là delle antiche famiglie politiche». Il secondo: da presidente del Consiglio, nella Sala verde di Palazzo Chigi (quella in cui solitamente il governo riceve le parti sociali e i rappresentanti delle Regioni) convocherà prima di tutto associazioni e movimenti per discutere con loro come far fronte al disagio sociale che c’è nel Paese. Il leader del Pd guarda infatti già al futuro, e fa un ragionamento che può essere sintetizzato con questo titolo: così cambieremo l’Italia. Anche all’interno del Pd c’è chi considera ingiustificato l’ottimismo che ha espresso dopo le elezioni in Sicilia: come risponde, segretario Bersani? «Invitando a leggere i risultati elettorali, in particolare della lista del Pd e di quella di Crocetta, nella quale eravamo largamente presenti».
«Ancora una volta, nel marasma generale, la nostra forza rimane intatta. In un mare grande di disaffezione, di rabbia, di protesta, attorno al Pd e al suo candidato convergono sia le esigenze di cambiamento sia le esigenze di governo. E quindi il messaggio che dobbiamo ricavare dice che la protesta da sola non risolve ma anche un governo senza cambiamento non servirebbe. E questa è un’indicazione che vale anche sul piano nazionale». Prima di cambiare piano, due cose sempre sulla Sicilia. La prima: lei ha definito questo risultato “storico”, e Renzi, Castagnetti e altri le hanno rimproverato di aver dimenticato Piersanti Mattarella. «Chi mi ha ascoltato in Sicilia, specialmente quando sono stato nei luoghi emblematici della lotta alla mafia, sa benissimo che non ho dimenticato Mattarella. È chiaro che con quella frase alludevo al fatto che per la prima volta le forze progressiste tutte insieme sono arrivate al governo della Regione».
La seconda cosa: lei parla di vittoria ma non sarà il movimento di Grillo, col suo 15%, il vero vincitore?
«In quel movimento ci sono istanze che interrogano tutti e che devono essere una parte del cambiamento, sulla sobrietà della politica, per un rapporto più diretto con i cittadini e anche un utilizzo largo degli strumenti moderni. Dopodiché queste istanze sono messe in un contesto politico che non può essere utile a un Paese che sta affrontando una crisi gravissima, che ha bisogno di una chiara visione europeista e concentrata sui temi sociali e del lavoro, un Paese che ha bisogno di una democrazia rappresentativa riformata e che non può essere governato da un tabernacolo. Se il modello 5 Stelle, come meccanismo di partecipazione, fosse trasferito alla dimensione di governo, sarebbe un nuovo eccezionalismo italiano, sarebbe fuori da ogni esperienza di democrazia rappresentativa». E se il modello Sicilia fosse trasferito alla dimensione nazionale? Pd e Udc alleati e Sel fuori?
«Io rimango fermo a quanto detto da un paio d’anni, che allora sembrava poco credibile e che invece si è rivelato via via più probabile, perché corrisponde a un’esigenza nazionale. Ovvero, noi aiutiamo a organizzare il campo dei progressisti che hanno una cultura di governo e che condividono l’idea di un confronto e di un incontro con le forze moderate europeiste. Questo è il messaggio politico fondamentale, che passa poi per applicazioni che possono avere un diverso segno. In Sicilia purtroppo non è stato possibile convincere una parte della sinistra a condividere un’esperienza importante. E il risultato ci dice che quello è stato un errore, che mi auguro ora faccia da insegnamento».
Veramente Casini dice “no ai vecchi tabù della sinistra” e Vendola che il leader Udc “non può essere nella nostra compagnia”: come può realizzarsi l’incontro tra progressisti e moderati?
«Guardi, siamo in una fase in cui prevalgono i fattori competitivi e l’esigenza di caratterizzarsi. Io però dico semplicemente: tenete conto tutti che il Pd è fermo su questa posizione, che peraltro figura nella carta d’intenti che ha lanciato le primarie».
Non c’è il rischio “ammucchiata”?
«La nostra proposta non è e non è mai stata di ammucchiata. C’è l’autonomia del campo progressista, che è disponibile a confrontarsi con le forze moderate che rifiutano una deriva populista e berlusconiana».
Le “applicazioni”, come dice lei, di questo modello dipendono anche dalla legge elettorale: dovesse rimanere il Porcellum può esserci una coalizione elettorale che va dall’Udc a Sel?
«Il Porcellum non può rimanere in vigore e vanno assolutamente accolti gli appelli del Presidente della Repubblica ad approvare una nuova legge elettorale. Sono convinto che se si prosegue la discussione al Senato sulla base della traccia fondamentale prevista, ovvero premio al partito o alla coalizione che arriva prima attorno al 12,5%, soglia di sbarramento, norme sulla democrazia paritaria e sull’esclusione di gruppi inventati, rimane come punto aperto solo il modo di scegliere i parlamentari da parte degli elettori, che può trovare una soluzione nella discussione parlamentare».
Per quanto vi riguarda?
«Siamo contrari alle liste bloccate e preferiamo i collegi alle preferenze».
Nel Pd c’è chi giudica sbagliata anche la “traccia fondamentale”.
«È chiaro che alla fine verrebbe fuori una legge che possiamo accettare ma che non è quella che vogliamo noi. Il doppio turno di collegio, lo dico a futura memoria, è per noi la vera soluzione. Ma non abbiamo la maggioranza in Parlamento e un compromesso lo possiamo trovare solo attorno a quella traccia». Approvata la legge elettorale si può andare a elezioni anticipate?
«È una discussione che non capisco. Per noi lealtà vuol dire che il governo deve arrivare alla scadenza naturale della legislatura. Per fortuna abbiamo un Presidente della Repubblica che sa interpretare al meglio il suo ruolo, e inviterei tutti a non inventare soluzioni che non spettano ad altri che al Quirinale».
Non avete la maggioranza in Parlamento, diceva: nel caso la aveste dal 2013, quale saranno le vostre priorità?
«Tutto si riassume in due parole: moralità e lavoro. Prima di tutto serve una lenzuolata sui temi della democrazia, della sobrietà, della pulizia, dei diritti, della riscossa civica. È necessario partire da lì perché la barriera tra istituzioni ed elettori è diventata impressionante. Bisogna approvare norme che creino anche un certo rapporto sentimentale tra cittadini e politica. E l’operazione delle primarie è anticipatrice di questo, mostra che c’è una politica che si mette in gioco e che riprende con i cittadini un rapporto all’altezza degli occhi. Rivendico di aver visto giusto nel volere le primarie, e nel volerle aperte. Ci hanno rinvigorito. Ora, sapendo che servono per scegliere il candidato dei progressisti al governo, usiamole per parlare dell’Italia. E di farle funzionare, perché se le facciamo per bene poi non ci ammazza nessuno». Diceva del lavoro: quali politiche vanno adottate per creare occupazione? «Intanto, servono una fiscalità e investimenti che diano lavoro, non a caso sulla legge di stabilità stiamo convincendo a portare tutta l’operazione in direzione dell’alleggerimento del carico su lavoratori e pensionati. E poi bisogna attuare politiche industriali che aiutino le imprese a rafforzarsi, che sollecitino l’innovazione, che mobilitino nel campo delle ricerche. Un discorso che riguarda l’industria ma anche l’agricoltura e il terziario».
Tra le nostre imprese principali c’è la Fiat, che ha messo 19 operai di Pomigliano in mobilità dopo che una sentenza della Corte d’appello di Roma ha disposto il reintegro di altrettanti iscritti Fiom: come giudica la mossa di Marchionne? «Inaccettabile perché urta la sensibilità di tutti, persino sul piano morale. Se hai commesso un errore o se ti viene riconosciuta una colpa, perché questo è il giudizio espresso dalla Corte, non puoi farla pagare ad altri».
Il prossimo governo che rapporto dovrà avere con le parti sociali?
«Intanto, dovrà evitare di ritenere che parlare con i corpi sociali sia un impaccio, che è un’assurdità. E poi non dovrà ribadire una concertazione vacua e verbale. Bisogna ripartire da dei rapporti concreti, trasparenti, esigibili, darsi degli obiettivi misurabili. Non possiamo più battezzare come concertazione una cosa troppo vaga perché ne perdono di credibilità il sistema e tutte le rappresentanze, non solo il governo. Mentre ritengo prezioso il rapporto dell’esecutivo con le organizzazioni sociali. Tutte, non solo quelle economiche».
Cosa intende dire?
«Che vorrei vedere nella Sala verde la Caritas, l’Arci, le Acli, le associazioni del terzo settore. Le chiamerei per prime a Palazzo Chigi per discutere con loro come dare sollievo alla crisi sociale che c’è nella realtà del Paese, per capire qual è lo stato di disagio più acuto e come dare una risposta. Dobbiamo riuscire a rilanciare i consumi interni e questo ha a che fare anche con la tenuta dei sistemi di welfare, perché se la gente si deve pagare anche la sanità e la scuola la situazione diventa veramente complicata. Sulla scuola abbiamo chiesto al governo di fermarsi perché non possiamo continuare a colpire l’istruzione parlandone solo in termini di costi. Serve un ragionamento più di impianto su come rafforzare l’offerta formativa perché l’aumento di abbandono scolastico e la diminuzione delle iscrizioni all’università è una tendenza che va arrestata».
Dovesse arrivare a Palazzo Chigi, chiamerà Hollande come il presidente francese ha fatto con lei all’Eliseo?
«Non solo. Con i leader progressisti europei c’è una convergenza di analisi sul fatto che serve una verifica reciproca dei bilanci dei nostri Paesi, in cambio di qualche operazione sull’occupazione. E questo va fatto in tempi rapidi. Perciò noi continueremo il lavoro sulla dimensione internazionale. A metà dicembre, a Roma, ospiteremo un grande appuntamento a cui parteciperanno progressisti e democratici provenienti da ogni parte del mondo, per creare una rete che va al di là delle antiche famiglie. E D’Alema, in qualità di presidente della Feps, sta lavorando per organizzare a febbraio un incontro che ha l’obiettivo di lanciare sul piano politico una grande idea europeista». È una risposta a chi sostiene che in Europa vogliono ancora Monti dopo Monti? «Nella prossima legislatura serve una maggioranza politica. Per noi Monti resta una risorsa preziosissima. Tanto è vero, per dire quanto lo abbiamo a cuore, che nel giorno in cui ha detto che i partiti stanno messi male, io ero in Campania, in mezzo a un tumultuoso incontro con gli operai Irisbus, ad affrontare i precari della scuola in agitazione, ad incontrare i lavoratori forestali che da undici mesi non prendono lo stipendio, a parlare con un gruppo di esodati che solo lì sono 20 mila. E in nessuno di questi casi ho detto andate da Monti. Stiamo collaborando, in realtà. Si sta collaborando con lealtà. E lo faremo anche in futuro».

il Fatto 2.11.12
Nichi scrive a Bersani: “Casini non ci serve”


“BERSANI ha detto che per lui è fondamentale l’accordo coi moderati. Tradotto in italiano, Bersani ora vuole Casini nel centrosinistra. Le primarie del 25 novembre diventano così un appuntamento fondamentale per i nostri elettori. Non dovranno solo decidere il leader, dovranno anche decidere le alleanze”. Parole postate da Nichi Vendola su Fb, cui Pier Luigi Bersani da Piacenza ha risposto picche: “Ognuno adesso prende la sua posizione e il suo profilo - ha detto il segretario - noi abbiamo scritto la carta di intenti che è il campo dei progressisti, ben distinto da quello dei moderati, e tuttavia è aperto a una discussione con i moderati, europeisti, democratici che rifiutino la deriva populista”.
Insomma, Casini serve: “Invito tutti quanti - continua Bersani - a prendere atto che esiste una forza che si chiama Pd e che sta dicendo da due anni la stessa cosa, e cioè che per venir fuori dai guai c'è bisogno di una salda guida di progressisti che cerchino un incontro con altre forze democratiche costituzionali, che non cedano a derive berlusconiane, populiste, leghiste, antieuropee”.

il Fatto 2.11.12
Lecca lecca
Coccole, burraco e nanna: il Corriere festeggia Nichi


LA NARRAZIONE s’era fatta alquanto verminosa. ‘Sette notti che non ci dormivo’, confesserà Nichi, consunto dall’attesa della sentenza...”. Con questo incipit sobrio ed essenziale si apre la cronaca del Corriere della Sera sull’assoluzione di Nichi Vendola dall’accusa di abuso d’ufficio. Ma non finisce qui, perché la prosa secca e asciutta dell’inviato Goffredo Buccini prosegue implacabile: “Accanto a sé, Nichi ha il fidanzato talismano Ed, sciarpa azzurrina e faccia da eterno adolescente. Nella natìa Terlizzi, la mamma totem Antonietta, finalmente uscita dall'ospedale dopo una brutta caduta estiva (‘no, non l’ho ancora chiamata mamma, l’ha chiamata Ed, io mi commuovo troppo’): tra questi poli si muove la sfera intima d’un Peter Pan rosso che ha trasfuso l’intimità nella vicenda politica, e che per anni aveva sbalordito la Puglia appunto con l’idea d’una politica diversa e poetica...”. Mancano soltanto le zie e gli eventuali cognati. Ma ecco il gran finale, sempre all’insegna della sobrietà: “Ulcerazione dell’anima. Per lenire e guarire, il nostro verso sera corre a Terlizzi, da mamma Antonietta che l’attende. Coccole, burraco e a nanna presto: che domani tocca sfidare Renzi e Bersani, ‘comincio la cavalcata’. Ora si può”.

il Fatto 2.11.12
Vendola, ora rimane l’ultima accusa
I 45 milioni spesi per la transazione sull’ospedale Miulli sono un peso sulle primarie
di Antonio Massari


Bari Superato il primo ostacolo giudiziario, con l’assoluzione dell’altroieri, per Nichi Vendola resta in piedi un’ultima accusa: quella di abuso d’ufficio, peculato e falso per una transazione da 45 milioni con l’ospedale ecclesiastico Miulli. Il fascicolo è ancora aperto, siamo alla prima proroga delle indagini preliminari, per l’inchiesta che vede indagati anche gli ultimi due assessori regionali alla Sanità (il senatore Alberto Tedesco e Tommaso Fiore), il direttore dell’ospedale Miulli, don Mimmo Laddaga, e il vescovo di Acquaviva delle Fonti, monsignor Mario Paciello.
LA VICENDA risale al 2009: l’ospedale ecclesiastico Miulli rivendicava d’aver subito un danno, nella realizzazione di un nuovo plesso, poiché la giunta, non destinandogli i fondi pubblici, l’aveva spinto a indebitarsi pesantemente. L’ente, però, trova un’intesa con la Regione: chiude una transazione, con l’ex assessore Alberto Tedesco, accordandosi, rispetto ai 145 milioni richiesti, per la cifra di 45 milioni di euro. Il 2009, però, è anche l’anno nero della sanità pugliese, con Tedesco che finisce sotto inchiesta e, appena appresa la notizia d’essere indagato – da un lancio Ansa – decide di dimettersi per approdare in Senato, grazie a un ripescaggio nelle liste del Pd, ottenendo l’immunità che lo salverà da una richiesta di arresto.
La giunta di Vendola è nel pieno della bufera giudiziaria e al posto di Tedesco, Vendola, nomina Tommaso Fiore che, insieme con la poltrona d’assessore, eredita anche la transazione da 45 milioni. E la firma. Salvo cambiare idea il 5 luglio 2010: la giunta decide di annullare la delibera sulla transazione. Cade l’accordo. E si riattiva, in questo modo, il contenzioso con l’ospedale che – inevitabilmente – si vede costretto a ricorrere al Tar. E il tribunale amministrativo, che con la sua sentenza sancisce le ragioni dell’ente ecclesiastico, stabilisce che il danno subìto ammonta a ben 175 milioni di euro, ben 30 in più di quelli richiesti in origine dal Miulli, più del triplo della cifra pattuita con la transazione. Per le finanze della Regione, l’annullamento di quella transazione, si rivela quindi un pessimo affare. E l’operazione incriminata, secondo la Procura di Bari, è proprio l’annullamento di quella delibera.
IL FASCICOLO è affidato ai pm Desireé di Geronimo e Francesco Bretone, due dei tre pm che, sempre per Vendola, avevano chiesto 20 mesi di reclusione per l’abuso d’ufficio – per la riapertura di un concorso da primario – ottenendo due giorni fa l’assoluzione del governatore pugliese. In questo caso, le indagini si concentrano sul dietrofront della Regione nella transazione chiusa da Tedesco prima e firmata da Fiore poi. Una marcia indietro che è costata, alla Regione, un esborso di oltre 100 milioni di euro in più, finiti nelle casse dell’ente ecclesiastico. Una decisione tanto più incomprensibile se si considera che la decisione del Tar – favorevole al Miulli e contraria alla Regione – era più che probabile. Anche alla luce dell’accordo, stretto proprio da Tedesco, che aveva già accettato di risarcire il danno. Otto mesi fa, ricevuto l’avviso della proroga delle indagini, Vendola commentò: “Ribadisco la mia totale estraneità a fatti che sono al di là di ogni mia immaginazione. E dal tenore dell’atto ricevuto non sono neanche in grado di capire cosa mi sarebbe addebitato”.

«Prospettiva Renzi: alba o notte fonda?» /1
 il Fatto 2.11.12
Disastro puro
Con la sua vittoria, il trionfo dei vizi peggiori
di Pancho Pardi

Caro Paolo, nel tuo articolo sul Fatto di domenica sostieni che il programma di Renzi è pessimo e il suo stile insopportabile. E subito affermi che andrai a votarlo alle primarie: una sua vittoria manderebbe in pezzi il Pd e ciò permetterebbe ai suoi elettori di partecipare in modo più creativo a un centrosinistra del tutto rinnovato.
NON SONO d’accordo. Prima di tutto perché penso che accettare l’idea stessa della candidatura di Renzi sia un cedimento al predominio della televisione. Renzi ha sostenuto che fare il sindaco di Firenze è il mestiere più bello del mondo. Dopo appena due anni di incarico decide di abbandonarlo. Non ha concluso il mandato, non ha realizzato ancora nulla di duraturo. Ha promesso lo sviluppo edilizio zero, ma nei presupposti del piano strutturale ci sono eccezionali incrementi di volumi. Aveva usato il ruolo di presidente della Provincia per preparare la candidatura a sindaco, ora usa il ruolo attuale come trampolino da cui saltare verso un altro mestiere (ancora più bello?). Molti fiorentini che l’hanno votato pensano che dovrebbe concludere il mandato. Troppo comodo andarsene senza aver dimostrato di saper governare. In secondo luogo non ci sono prove che la sua eventuale vittoria scardinerebbe il Pd. Certo parecchi non sarebbero contenti. Ma c’è differenza tra il successo nelle primarie e la conquista di una maggioranza congressuale nel Pd. Renzi vincitore alle primarie potrebbe scoprire come sia arduo governare senza avere un partito alle spalle. Ha dovuto sperimentarlo Prodi che, ammetterai, aveva ben altra statura. Non c’è dubbio che una vittoria di Renzi farebbe scoppiare il contrasto tra le forze sul cui equilibrio si basa il Pd. Ma siamo sicuri che ciò produca una deflagrazione definitiva? Mi pare altrettanto plausibile immaginare una transizione laboriosa in cui i soggetti in lotta si logorano a vicenda. Invece di uno schianto, una lagna. In terzo luogo ammettiamo che si verifichi almeno in parte la tua previsione: il Pd va in pezzi. Ma davvero si disperderebbe come un sacchetto di coriandoli? Mi sembra più realistico immaginare una divisione tra le sue parti. Non Ds da una parte e Margherita dall’altra ma quattro, cinque soggetti temporanei che non è affatto detto perdano il loro elettorato. Tu fai della demolizione del Pd la leva per la liberazione dell’elettorato: milioni di cittadini prigionieri che liberi diventerebbero protagonisti di una palingenesi. Ma erano davvero prigionieri? Avrebbero voluto qualcosa di meglio del Pd e del centrosinistra? Certo, per esprimere la loro opposizione a Berlusconi non potevano contare sul partito della Bicamerale di D’Alema e si sono appoggiati ai movimenti. Ma in 10 anni la loro volontà non si è concretizzata in un’alternativa e ha preso la via dell’astensione. La Sicilia conferma.
ANCHE A ME piacerebbe un partito d’azione di massa, ma quando noi dei movimenti abbiamo avuto la possibilità di costruirlo non ci abbiamo neanche provato. E oggi chi lo farebbe? La Fiom può solo dare una mano e l’unico soggetto col vento in poppa è Grillo, ma si muove in tutt’altra direzione. Caro Paolo, non potrai convincere la Fiom a votare il sindaco più antisindacale perciò lascia che lui e Grillo se la cavino da soli. Perché potrebbe andare anche peggio. Auspichi la tabula rasa. Ma una scena in cui domina Renzi sostenuto dalla destra Pd e da robusti poteri finanziari, con un’opposizione monopolizzata da Grillo, non è una bella tabula rasa. Cerchiamo di proporre una prospettiva migliore.

«Prospettiva Renzi: alba o notte fonda?» /2
il Fatto 2.11.12
Nuovo inizio
Dalle macerie del Pd può nascere la liberazione
di Paolo Flores d’Arcais


Caro Pancho, l’articolo “incriminato” ha ottenuto un record di critiche, sul web almeno il 90%, per lo più feroci. Rispondendo a te provo a tener conto anche di altre accuse, morali oltre che politiche, visto che vengono da persone di cui ho profonda stima (Gian Carlo Caselli, Barbara Spinelli, Roberta De Monticelli...).
LA MIA argomentazione era una sorta di sillogismo: 1) nel paese esiste una vasta area di cittadini, politicamente orientati sui valori “giustizia e libertà” (nel senso che l’establishment ha cercato di denigrare come giustizialismo, girotondismo e fiom-ismo) 2) una parte cruciale di tale area viene ibernata, o utilizzata ad altri fini, attraverso il voto al Pd, un’altra spinta all’astensionismo per disgusto verso la nomenklatura del Pd (vale anche per le burocrazie di Idv e Sel) 3) le energie e i voti di questi cittadini troveranno rappresentanza solo se “liberate” dall’ipoteca Pd (Idv, Sel), cioè da un collasso “tabula rasa” del centrosinistra partitocratico 4) la logica della “tabula rasa” è sempre pericolosa, perché può dare luogo a un peggio, ma 5) al peggio ci siamo già, una legge pro-concussori spacciata come anti-corruzione è l’incubo di Orwell realizzato, al ricatto del male minore è necessario ormai sottrarsi 6) la vittoria di Renzi manderebbe Pd e centrosinistra in frantumi. Dunque, è razionale votare Renzi anche se molesta il sistema viscerale. Corollario: “Sic stantibus rebus” e chiunque vinca le primarie 7) il voto al M5S è l’unico che possa scardinare la morta gora del dominio partitocratico e riaprire possibilità di cittadinanza attiva (l’ideogramma cinese per “crisi”, Wej-ji, è composta da “pericolo” e “opportunità”). Che la vittoria di Renzi non scardinerebbe il Pd mi sembra obiezione davvero debole. Sia chiaro, nulla in politica è certo, quando un giornalista mi chiede previsioni la mia risposta standard è di girare la domanda a Nostradamus, ma basta aver letto una dichiarazione di D’Alema, basta immaginare come reagirebbe il “popolo ” delle feste dell’Unità (standing ovation a ogni attacco alla “Casta”) all’alleanza ovvia tra Renzi e il “centro”, per ipotizzare come probabilissimo l’effetto a catena. A catena, proprio nel senso della fissione nucleare: non credo proprio che rimarrebbero tre o quattro tronconi con una qualche consistenza, l’effetto sarebbe piuttosto da 8 settembre. Più consistente l’altra obiezione: ma su questa tabula rasa non nascerebbe nulla, la Fiom che io invoco come catalizzatore di una lista “giustizia e libertà” non è disponibile, e del resto potevamo dar vita a una nuova organizzazione con i girotondi e non lo abbiamo fatto. È vero, e abbiamo sbagliato, e ho riconosciuto pubblicamente, per iscritto e a voce in tanti incontri, questo errore (mio, di Nanni Moretti e solo da ultimo tuo, in ordine di responsabilità). Ma dagli errori penso si debba imparare, “perseverare diabolicum”. La Fiom attualmente rifiuta il ruolo che fu delle Trade Unions in Gran Bretagna oltre un secolo fa, fondare con la Fabian Society il Partito laburista. Ma un anno fa neppure poneva il tema della rappresentanza politica, mentre dopo l’incontro del giugno scorso con i partiti di sinistra a Roma (Parco dei Principi) non fa che sottolineare come il modo del lavoro non trovi ormai in nessuno di essi una rappresentanza fosse anche pallida.
L’EMERGENZA cambia in ciascuno di noi la lucidità, il senso della responsabilità e delle cose possibili. La “catastrofe” del Pd e del centrosinistra propiziato dalla vittoria di Renzi potrebbe essere il big-bang capace di far precipitare (in senso chimico) girotondi, popolo viola, se non ora quando, resistenza al marchionnismo, rivolta studentesca, web refrattario al pensiero unico, testate non allineate, attorno a una leadership promossa o “garantita” dalla Fiom, cioè dalla serietà della più grande (e anti-corporativa) forza operaia organizzata. Quanto alle obiezioni di ordine morale (mossa machiavellica e politicista, poco trasparente, piena di tranelli, l’opposto del “sì sì, no no” che di continuo predico...): noi dobbiamo serietà e coerenza a noi stessi e agli altri cittadini, non ai partiti. Che vanno usati, perché devono essere solo nostri strumenti. E rispettati solo se si conquistano una rispettabilità che oggi non hanno. Altrimenti, come diceva Pertini, a brigante brigante e mezzo (io non sono cristiano). Questa strumentalizzazione l’ho avanzata con il massimo di trasparenza (l’opposto del machiavellismo), e spiegandone la razionalità rispetto al fine (illuminismo di massa). Negli Stati Uniti per votare bisogna registrarsi (come repubblicano, democratico, indipendente), ma si può cambiare “registrazione” all’ultimo momento e dunque da leader repubblicano (fino alla vigilia) partecipare alle primarie democratiche e viceversa. È successo per cariche importantissime, e non fa scandalo.
È possibile che dalle macerie del centrosinistra non scaturisca, entro aprile, il big-bang che io auspico: si riproporrà comunque come necessità dopo aver votato Grillo. A meno che la vittoria del M5S sia considerata una iattura peggiore di un nuovo governo Monti, o di un governo Bersani-Casini con D’Alema agli Esteri, la Melandri alla Cultura e Buttiglione alle Pari opportunità. In tale caso, “prosit! ”, io preferisco rischiare i Cancelleri e i Pizzarotti.

Repubblica 2.11.12
L’autunno del disincanto
di Guido Crainz


NON potendo rimuovere completamente le dimensioni del “non voto” siciliano, le differenti forze politiche sembrano già assumerlo come l’inevitabile e quasi normale scenario del futuro. Eppure in passato il “caso italiano” fu costituito, tutto all’opposto, dal lungo permanere della partecipazione elettorale a livelli altissimi, oscillanti fra il 92% e il 93% dei voti.
Solo nelle elezioni regionali del 1980, mentre già emergevano corposi casi di corruzione e di corrosione delle istituzioni, si scese sotto il 90%, con la contemporanea crescita di schede bianche e nulle. Erano passati 32 anni dalle prime elezioni politiche della Repubblica, e dopo altri 32 anni esatti siamo scesi sotto il 50%: il declinare è stato progressivo e relativamente lento fino alle regionali del 2010, che hanno visto la brusca discesa dei votanti al 65% ed il primo affacciarsi del Movimento Cinque Stelle.
In questi pochi dati è sintetizzato il drammatico aggravarsi di una crisi intrisa di disincanto e sfiducia che ha avuto un'incubazione lunghissima: e che esige quindi un'inversione di tendenza altrettanto profonda. Il segnale d'allarme del 1980 trovò immediata conferma nelle elezioni politiche del 1983, precedute da un dibattito che coinvolse anche commentatori pacati e poco inclini all'antipolitica: l'astensione, osservava Enzo Biagi, “è venuta crescendo insieme con la delusione di un'opinione pubblica che ha visto vanificare le speranze di rinnovamento (…). La richiesta di una maggiore pulizia con uno dei pochi strumenti ancora concessi a un italiano è forse un vaneggiamento?” (La mia scheda sarà bianca... era il titolo di quell'articolo). Eravamo, come si è detto, nel 1983, e la Liga veneta portava allora per la prima volta in Parlamento un deputato e un senatore. In quei mesi l'estensione della corruzione appariva ormai evidente, confermata dalle bufere giudiziarie che investivano il Psi, e non solo esso, a Torino e Genova; unita, anche, a quella occupazione partitica dello stato che Enrico Berlinguer aveva denunciato in modo crudo due anni prima. Altro che “modernizzazione” degli anni ottanta: il decennio craxiano avrebbe alimentato in modo decisivo i comportamenti destinati a infangare l'immagine della politica nel vissuto di milioni di italiani; e avrebbe consolidato un ceto di amministratori e politici (e di cittadini beneficiari) sempre più convinti che non esistano confini fra i propri interessi privati e gli interessi pubblici. Al tempo stesso, nel declinare di una forma-partito basata sull'appartenenza, si delineavano forme di “conquista del consenso” in cui il carisma del leader non era espressione di una solida realtà organizzata ma quasi un surrogato di essa, fortemente alimentato dai media. Nutrito di coreografie e di dissoluzioni della politica: l'irrompere di “nani e ballerine”-per dirla con il socialista Formica- faceva da contorno al primo delinearsi di un “partito personale” che avrebbe avuto poi incarnazioni molto più corpose (e un'apoteosi di nani e ballerine molto più indecenti). Contemporaneamente sistema politico e sistema televisivo iniziarono ad intrecciarsi sempre più strettamente, sino a diventare quasi indistinguibili.
Vent'anni fa, nel crollo della “prima Repubblica”, fu forte l'illusione che i processi degenerativi avessero riguardato solo il sistema dei partiti: furono così rimosse le loro conseguenze nel corpo vivo della “società civile”, sempre più aliena se non ostile -in una sua parte non irrilevante- ad un universo di regole e vincoli. Mancò allora -come già era accaduto in altri momenti della nostra storia- un esame di coscienza collettivo, una riflessione seriamente autocritica sul modo di essere del Paese e sul suo deformarsi. Mancò anche una chiara proposta riformatrice, intessuta di “buona politica”: e così agli occhi di milioni di elettori il “nuovo” fu incarnato dall'antipolitica e dal populismo mediatico di Umberto Bossi e di Silvio Berlusconi.
Oggi, in condizioni molto più gravi di allora, siamo di nuovo a quel bivio. E appare ancor più debole la speranza che questo Paese riesca ad esprimere sia una “destra normale” sia una sinistra coerentemente ed efficacemente riformatrice, adeguata ai nodi drammatici che sono sul tappeto. Sul primo versante le macerie del Pdl lasciano trasparire la vera trama del tessuto ordito da Silvio Berlusconi, intriso di indecenza, arroganza ed estraneità alla democrazia: e forse sarà un bene se il Centro si troverà a svolgere in qualche modo una “funzione vicaria”, assumendo al suo interno anche i compiti di una destra democratica di cui non si vede traccia.
Poca luce, o una luce ancora inadeguata, viene però dallo stesso centrosinistra, unico possibile protagonista di un mutamento reale. È difficile rimuovere un dato evidente: pur nello sfacelo della maggioranza esso non è riuscito a conquistare neppure un elettore in più e ne ha invece persi a sua volta. È un caso forse unico nella storia, non solo italiana, ma non sembra sollecitare le riflessioni necessarie. In questo scenario è difficile comprendere il primo entusiasmo per il risultato siciliano, ed è altrettanto difficile pensare che le differenti ipotesi oggi in campo siano all'altezza di una crisi così radicale della democrazia. Neppure dopo queste elezioni, inoltre, il Pd sembra aver compreso che nessun partito è oggi credibile se non mette al primo posto una drastica riduzione dei costi e delle immoralità della politica: con proposte di lunga lena e con scelte immediate, simboliche e concrete al tempo stesso. Anche con decisioni unilaterali, anche con l'“autoriduzione” autonoma di privilegi e prebende: più di un anno fa Mario Pirani lo aveva proposto al Pd su queste pagine con grande forza e lucidità ma le risposte non sono venute. Oggi non sono più differibili scelte esemplari e limpide, capaci di dimostrare davvero ai cittadini che “non tutti sono uguali”. Capaci di convincere gli elettori che una brutta pagina viene definitivamente e radicalmente chiusa, e si può iniziare a scrivere collettivamente un nuovo libro. Pochi giorni fa Massimo Salvadori ha ricordato la bellissima lettera scritta nel 1944 da un giovane partigiano, Giacomo Ulivi, alla vigilia della sua morte: “Tutto noi dobbiamo rifare (…). Ma soprattutto, vedete, dobbiamo rifare noi stessi”. In quella stessa lettera Ulivi aggiungeva: l'inganno peggiore di una “diseducazione ventennale” è stato quello di convincerci della “sporcizia” della politica, e di intaccare così “la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi (…), la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, ogni sua sciagura è sciagura
nostra”. Ancora una volta, dobbiamo ripartire da qui.

il Fatto 2.11.12
“Io al posto di un altro? La notte non ci dormo”
Uno sciopero nazionale a Pomigliano il 14
di Salvatore Cannavò


Stasera ho la pressione a 200. Non ho chiuso occhio l’altra notte. Sono davvero agitato. E triste”. L’operaio di Pomigliano, per il quale il giudice ha stabilito il rientro in fabbrica, e che non vuole essere nominato, vive così la notizia dei 19 licenziamenti annunciati dalla Fiat per fare posto a lui e ai suoi compagni. “Sono momenti difficili, dolorosi. Le notizie si accavallano e noi ci sentiamo scaraventati da una parte e dall’altra. Solo perché vogliamo lavorare. Solo perché abbiamo il diritto di farlo”. Il nostro interlocutore ha la voce affannata eppure non rinuncia a commentare quanto è a successo. Del resto, a Pomigliano non si parla d’altro. La città non riesce, suo malgrado, a uscire dall’attenzione generale. L’altra sera, Maurizio Landini, segretario genereale della Fiom, ha lanciato l’idea che il 14 novembre, giorno in cui la Cgil ha proclamato lo sciopero generale di 4 ore, si tenga qui una grande manifestazione nazionale. Un modo per costringere il sindacato tutto, ma anche la politica e lo stesso governo, a fare i conti con la situazione. Pomigliano, capitale sindacale d’Italia.
Ma tra gli operai che lavorano in fabbrica, e sono 2150, e quelli che invece sono ancora rimasti fuori, e sono altrettanti, si respira male, la tensione si fa più spessa. A dare un’altra testinianza è Sebastiano D’Onofrio, ex Rsu di Pomigliano e uno dei 19 da reintegrare: “Mi sono posto il problema che per far entrare me ci sarà qualcun altro a dover uscire, ma noi non abbiamo alcuna responsabilità nei licenziamenti annunciati da Marchionne, e questo lo sanno bene anche i tanti lavoratori che sono nella “newco”, perchè la Fiat sta facendo solo quello che ha sempre fatto”. Anche D’Onofrio parla di notte insonne, di “stare male” per quanto è stato annunciato dalla Fiat: “E' inaccettabile - sottolinea - quello della Fiat è un atto scellerato, e Marchionne oltre a dettare “legge” su chi deve entrare e chi no, adesso caccia anche chi è dentro”. D’Onofrio dichiara di aver incontrato gli operai che lavorano dentro lo stabilimento, quelli che ora sono minacciatiatti di licenziamento. “Ma nessuno di loro ci ha addossato la colpa”. Strana storia, questa, di chi spera di poter lavorare e deve scusarsi per averlo chiesto alla magistratura. Ma la discriminazione degli operai iscritti alla Fiom è stata accertata dal giudice in forma palese, è evidente a chiunque sappia far di conto. Così come è palese un’altra stortura di questa vicenda. La Fiat, con l’accordo di Pomigliano, siglato sull’onda del referendum, si era impegnata a riassumere tutti gli operai del vecchio stabilimento. Ne ha assunti solo la metà e se il solo rientro di 19 operai basta a far saltare i suoi progetti cosa devono mai pensare gli altri 2000?
Intanto da ieri è sottoscrivibile un appello nazionale “Stiamo con i 19+19” che sostiene il diritto degli operai della Fiom” che hanno vinto la causa a rientrare nello stabilimento di Pomigliano, ma che si schiera anche “contro ogni forma di rappresaglia e di disgregazione del principio di uguaglianza e della carta costituzionale”.
Per questo, si legge ancora nell’appello, “chiediamo al governo di imporre il rispetto della legalità e della dignità delle persone. A nessuno possono essere consentite eccezioni, neppure alla Fiat” (l’appello si trova sul sito di Articolo 21).
Il grosso dei lavoratori, però, preferisce non parlare. La paura di perdere il posto di lavoro è più forte di ogni altra cosa. Solo sui vari profili facebook ci si lascia andare a giudizi e improperi: “L'obiettivo di Marchionne è chiaro!!! chiudere nel giro di due anni Pomigliano per poter successivamente trasferirsi all'estero dove la manodopera è più bassa”. Un altro, riferendosi alle scarse reazioni, si mostra comprensivo ma non fa sconti alla politica: “Credo che molto dipenda dalla disperazione di non voler accettare di perdere il posto di lavoro, quello che non comprendo è come alcuni politici liberi dal ricatto di Marchionne non capiscano o non vogliano capire che questo è degno del peggior venditore”. C’è poi chi chiama direttamente in causa i sindacati che hanno firmato gli accordi i quali, a loro volta, si dicono contrari all’ipotesi della mobilità annunciata dall’azienda ma non risparmiano critiche alla Fiom e alla Cgil. Come il segretario aggiunto della Cisl, Giorgio Santini che chiede alla Fiat di ritirare i provvedimento: “Adesso questi lavoratori che escono non potrebbero nemmeno avere la cassa integrazione che hanno gli altri. Allora - prosegue - la soluzione sta nel sedersi ad un tavolo: chi non ha firmato gli accordi (la Fiom) li firmi, perchè con gli accordi si possono tutelare tutti i lavoratori, sia quelli al lavoro che quelli fuori, che debbono nel tempo rientrare”. Poi, riferendosi allo sciopero “solitario” del 14 novembre, Santini lo definisce “una vicenda un po’ triste”. Gli rispondono, a distanza, i lavoratori della Fiom di Pomigliano chiedendo alla Fim e alle altre organizzazioni se pensano di tutelare i lavoratori “proclamando lo sciopero” oppure se “faranno ancora finta di non vedere e sentire cosa succede in fabbrica e fuori”.

l’Unità 2.11.12
Abdulbaset Sieda: «Siria, l’estremismo cresce sull’inerzia del mondo»
di Umberto De Giovannangeli


Curdo, 56 anni, è presidente del Consiglio nazionale siriano, principale piattaforma dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad

«Ormai ho perso il conto delle volte in cui abbiamo fatto appello alla comunità internazionale perché agisse per porre fine alla guerra che un regime dispotico e sanguinario ha dichiarato contro il popolo siriano. Ogni appello ad agire per fermare questa mattanza è caduto nel vuoto, scontrandosi alle Nazioni Unite con i veti dei potenti alleati di Bashar al-Assad: Russia e Cina. Quei veti equivalgono ad una licenza di uccidere concessa al dittatore. È questa assenza di iniziativa della comunità internazionale che alimenta la crescita dell’estremismo in Siria». A sostenerlo è Abdulbaset Sieda, 56 anni, curdo, presidente del Consiglio nazionale siriano (Cns), principale piattaforma dell’opposizione al regime baathista.
Nei giorni scorsi, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton ha chiesto all’opposizione siriana di «resistere agli estremisti» islamici che sembrano assumere un ruolo crescente nel fronte anti-regime. «Noi non stiamo solo “resistendo” agli “estremisti”, stiamo facendo molto di più...».
Cosa state facendo?
«Estendere il fronte anti-Assad coinvolgendo ampi settori della società siriana e unendo forze di diverso orientamento politico e religioso. Se l’estremismo cresce le responsabilità vanno ricercate in altre direzioni».
Quali?
«Nell’inerzia che ha caratterizzato, in questi 19 mesi di rivolta popolare, la comunità internazionale. Noi non abbiamo mai chiesto un intervento militare esterno come è accaduto in Libia. Ciò che abbiamo chiesto è di permettere a quanti si sono ribellati al dittatore di avere la possibilità di liberarsi da un regime dispotico e sanguinario. Abbiamo chiesto l’isolamento del regime, l’apertura di corridoi umanitari protetti da una forza internazionale. Mentre migliaia di siriani morivano o venivano cacciati a forza dalle loro case, all’Onu il veto di Russia e Cina ha impedito l’approvazione di risoluzioni di condanna di Bashar al-Assad. Una vergogna senza fine. La comunità internazionale deve criticare se stessa, e chiedersi: che cosa ha dato al popolo siriano? Come ha aiutato i siriani a fermare il folle sterminio da parte del regime? La risposta
è desolante».
L’ennesima tregua è fallita. In Siria si continua a combattere e a morire. È una situazione senza via d’uscita? C’è chi vi esorta ad una «riconciliazione» con Bashar al-Assad: è una strada percorribile?
«No, non lo è. Non ci può essere riconciliazione con un despota che ha dichiarato guerra al suo popolo, macchiandosi dei crimini più efferati. Siamo pronti ad aprire un tavolo di riconciliazione nazionale, ad una unica condizione». Quale?
«L’uscita di scena di Bashar al-Assad. Con lui al potere, il dialogo non ha senso. Una vera riconciliazione a cui lavorare, per la quale siamo impegnati, è quella tra settori della società civile divisi dal regime. Non cerchiamo vendetta, pretendiamo giustizia».
La Russia ripete che la sorte di Assad deve essere decisa dal popolo e che è proprio insistere sulla sua uscita di scena che alimenta la violenza.
«Di quale popolo parlano? Quello a cui Assad ha dichiarato guerra? In libere elezioni, il regime sarebbe spazzato via. Assad lo sa bene, per questo pratica un terrorismo di Stato che produce centinaia di morti al giorno. Come si può parlare di pace e continuare, come fa la Russia, a difendere un uomo pronto a tutto pur di mantenersi al potere?».
C’è chi sostiene che l’incertezza internazionale su Assad sia anche dovuta alle divisioni interne all’opposizione siriana. Le stesse affermazioni del segretario di Stato Usa danno corpo al timore che ad assumere la guida della rivolta siano i jihadisti.
«Non stiamo combattendo un regime dispotico per veder poi instaurato un “regime della sharia”. Quella ad Assad è una opposizione inclusiva. Sappiamo distinguere tra il clan Assad e quanti hanno servito lo Stato, Un discorso proiettato nel futuro. La nuova Siria sarà un Paese civile, democratico, pluralista e lo Stato sarà neutrale per quanto riguarda l’appartenenza religiosa e le etnie».
L’uscita di scena di Assad è un problema politico o militare?
«Quello tra politico e militare è un confine labile, praticamente inesistente se chi hai di fronte conosce solo il linguaggio della forza. Lo ripeto: noi non chiediamo un intervento militare internazionale ma un sostegno che riduca il gap di mezzi tra gli insorti e le forze fedeli al regime. L’inerzia internazionale può portare ad una situazione catastrofica con più estremismo e un effetto domino destabilizzante per i Paesi confinanti, a cominciare dall’“anello” più debole: il Libano».

Repubblica 2.11.12
“Tunisi 1988, ventisei minuti per uccidere” così il Mossad eliminò la mente dell’Intifada
di Fabio Scuto


Khalil al-Wazir, noto con il nome di battaglia di Abu Jihad, era il braccio destro di Arafat (nella foto accanto a lui) e fondatore del partito Fatah. Dirigeva dall’estero la prima Intifada palestinese.
Ehud Barak, ministro della Difesa, era nel 1988 vice Capo di Stato maggiore

GERUSALEMME — Era una notte senza luna sulle acque meridionali del Mediterraneo quella del 16 aprile 1988. Gli uomini del commando scivolarono giù veloci da quattro gommoni neri con i motori silenziati sulla spiaggia deserta di Gammarth, a metà strada sulla costa fra Tunisi e Sidi Abu Said. Ventisei minuti più tardi se ne riandranno indisturbati per la stessa strada. La missione è stata compiuta: Khalil Al Wazir, più noto con il suo nome di battaglia di Abu Jihad, numero due di Al Fatah che fondò insieme ad Yasser Arafat, è nel suo letto in un lago di sangue. Crivellato da 50 proiettili. La Browning 7,65 che teneva sul comodino è nel palmo della sua mano, ma non è riuscito a sparare nemmeno un colpo. Quell’azione audace del Mossad rivive oggi sulle pagine del quotidiano israeliano Yedioth Aronoth, perché il giornale dopo una lunga battaglia legale con la censura militare, pubblica un’intervista, postuma, al capo dei commandos israeliani che agirono quella notte. Per dodici anni Yediothha tenuto nel cassetto l’intervista che Nahum Lev diede al quotidiano nel 2000, prima di poterla pubblicare. Ed è la prima volta che Israele ammette che furono i suoi uomini a uccidere Abu Jihad nella capitale tunisina nell’ambito di un’operazione destinata a decapitare la dirigenza della prima Intifada, che era scoppiata nei Territori occupati nel dicembre del 1987, e di cui Jihad era uno dei dirigenti all’estero.
La missione — ha ricostruito il giornale — fu compiuta da 26 uomini del Sayeret Matkal, un gruppo d’élite dello stato maggiore dell’esercito israeliano, allora diretto da Moshe Yaalon, che oggi è ministro degli Affari strategici. A capo dei commandos c’era appunto il comandante Nahum Lev, che poi morì in un misterioso incidente di moto proprio quell’anno. Il commando sbarcato sulla spiaggia di Tunisi, si divise due gruppi: uno, quello di Lev, si diresse in macchina fino ai pressi della villa di Jihad. Accompagnato da un soldato travestito da donna in modo da sembrare una coppia in uscita la sera, in mano Lev ha una gran scatola di cioccolatini che nasconde una pistola con silenziatore. I due si abbracciano, scherzano. Si avvicinano e uccidono la prima guardia che è assopita in macchina davanti l’abitazione. Il secondo gruppo, ad un segnale convenuto, entra nella casa dopo aver forzato la porta di ingresso. Viene ucciso un secondo bodyguard palestinese e un ignaro giardiniere tunisino che dormiva nella baracca in giardino. Una volta all’interno e individuata la stanza da letto di Jihad, Lev e uno dei commandos con il passamontagna salgono rapidamente le scale. Il tempo è tutto. I colpi di pistola col silenziatore, specie quelli sparati con le mitragliette emettono un sibilo, una specie di gemito soffocato, inconfondibile per un esperto militare come Abu Jihad che forse sente qualcosa. Senza accendere la luce allunga la mano verso la pistola sul comodino nel momento in cui la porta viene abbattuta. Il soldato è più veloce del suo comandante e spara per primo, Lev racconta che sparò dopo una lunga raffica «attento a non ferire la moglie che dormiva a fianco di Abu Jihad», i due figli — dodici e due anni — dormivano nella stanza a fianco. «Ho sparato senza la minima esitazione — ha raccontato Lev al giornale — era votato a morire. Era coinvolto in crimini orribili contro civili israeliani».
Quella notte un Boeing 707 equipaggiato per la guerra elettronica seguì l’operazione dal cielo volando in un corridoio aereo (Blue 21) che passa tra la Sicilia e la Tunisia. Il suo compito era quello di azionare le apparecchiature di disturbo elettronico per isolare i telefoni di tutta la zona interessata dall’operazione. Ma il Boeing senza insegne era anche il centro di comando dell’intera azione. A bordo c’era il generale Ehud Barak — allora vicecapo di Stato maggiore dell’Esercito e oggi ministro della Difesa — che già anni prima nel 1973 aveva guidato i commando israeliani (lui si era travestito da donna) che a Beirut, in maniera quasi identica a Abu Jihad, uccise tre alti dirigenti dell’Olp e decine di palestinesi. L’aereo comparve al largo della Tunisia alle 00.30 del 15 aprile e scomparve alle 01.26, quando ormai i ventisei commando sbarcati dai gommoni erano al sicuro a bordo unità navale israeliana. Il sommergibile fu inghiottito rapidamente dalle acque nere del Mediterraneo senza luna. Il messaggio in codice venne trasmesso a Gerusalemme ai due comandanti che avevano ordinato l’operazione: il primo ministro Yitzhak Shamir, il ministro della Difesa Yitzhak Rabin. La risposta fu una sola parola: “Mazel tov” (complimenti).

l’Unità 2.11.12
Ma la Verità ci salverà dal populismo?
di Pietro Barcellona


SEBBENE I DIBATTITI FILOSOFICI SEMBRINO SITUARSI SU UN TERRENO LONTANO DALLA VITA QUOTIDIANA, i concetti che ne vengono fuori interferiscono notevolmente con la formazione del senso comune: la rilevanza politica delle teorie filosofiche è sempre più evidente, innanzitutto nella formazione del lessico della contemporaneità.
Ad esempio, l’attacco che Maurizio Ferraris da molti anni conduce contro il soggettivismo delle interpretazioni è diventato persino strumento politico per contrastare il populismo: alcuni opinionisti sostengono che l’oggettività impedisca la proliferazione di linguaggi falsi e demagogici, che dimostrerebbero la propria fallacia appena messi a confronto con la nudità dei fatti.
Per capire il significato del tentativo di affermare l’oggettività del mondo reale delle cose sulla soggettività ondivaga e ambigua degli interpreti, bisognerebbe per prima cosa metterne in rilievo la sostanziale infondatezza epistemologica. Recentemente, in uno scritto polemico verso le tesi di Severino, Ferraris ha affermato che una «multa» è un fatto assolutamente indipendente da ogni interpretazione soggettiva; ma se si riflette su cosa rappresenti la parola multa nel linguaggio corrente, ci si accorge che non si tratta di un fatto che dispiega da se stesso le proprie conseguenze, ma, al contrario, di un fatto che assume un significato pratico soltanto se inscritto nelle fattispecie giuridicamente rilevanti. Il fatto puro della multa non esiste se non all’interno del discorso giuridico.
Basterebbe considerare con più attenzione gli studi di antropologia culturale per rendersi conto che non esistono fatti puri; anche eventi naturali come un’eruzione vulcanica o un terremoto diventano oggetti di comprensione umana e di comunicazione verbale soltanto attraverso il loro inserimento in universi simbolici che esprimono il livello della coscienza collettiva del gruppo rispetto alla natura e al mondo esterno. Il fulmine, che allo stato attuale del nostro sapere possiamo definire come una scarica elettrica che va dalle nuvole verso la terra, è stato per molti secoli vissuto come un segno dell’ira divina. Dal punto di vista epistemologico questa credenza non contraddice per nulla le attuali conclusioni del sapere scientifico che descrive il fenomeno in termini di scarica elettrica; in entrambi i casi, però, le parole adoperate per rappresentare il fatto sono espressive della configurazione del rapporto fra soggettività interpretante e realtà fenomenica.
Tutto ciò che rappresentiamo mentalmente con parole associate ad immagini ha un sostegno nella realtà materiale, biologica e fisica del mondo che ci circonda: indagare il rapporto tra questo sostegno materiale e lo sviluppo di rappresentazioni mentali, che attraverso le parole assegnano un significato alle cose, è un problema che interroga la nostra capacità di riflessione sui processi di pensiero e sul rapporto col mondo.
Al punto in cui siamo, nella vicenda millenaria dell’autorappresentazione degli esseri umani, dovremmo riconoscere che non esiste alcuna via diretta e immediata per avere accesso alle cose se non attraverso la mediazione del pensiero e del linguaggio, che non sono arbitrarie costruzioni determinate dalla capricciosità del parlante ma appartengono ad un contesto di uomini e donne, di soggetti e di oggetti che interagiscono in un rapporto di comunicazione oggettivata attraverso il discorso. Ciascuno produce un mondo di significazioni e allo stesso tempo abita uno spazio di significati già istituiti che gli consentono di orientarsi praticamente nell’ambiente che lo circonda, motivandolo sia alle cosiddette azioni inconsapevoli e abituali sia alla ricerca di nuove parole e nuove significazioni; tale scarto tra oggettività e soggettività rende possibile configurare la libertà e la responsabilità di ciascuno rispetto al mondo a cui appartiene.
Alla luce di queste considerazioni si capisce il significato politico di tutti i tentativi di affermare il primato dell’oggettività dei fatti e delle cose del mondo sulla soggettività interpretante: solo un’assoluta oggettività dei processi che connettono i movimenti pratici e le operazioni mentali consentirebbe di affermare l’esistenza di una Verità che impedisce ogni arbitrarietà delle scelte e ogni significativo mutamento della visione del mondo.
L’oggettività della Verità, consegnata interamente al processo «naturale» di connessione fra le molecole che compongono il vivente, impedisce di ipotizzare uno spazio di libertà che produca una trasformazione dell’accadere non spiegabile meccanicisticamente. Ma se si abbandona il terreno di questa ideologia dell’oggettività, bisogna riconoscere che la conversazione umana non esprime certezza assoluta ma opinioni confrontabili; il regime della doxa è alla base della costruzione della polis e della forma democratica della convivenza. Al contrario il regime della Verità oggettiva non consente di dare alcun peso alle opinioni che, in quanto tali, sono fragili ed estemporanee.
Il tentativo di Ferraris di riformulare una teoria della Verità incontrovertibile risponde, dunque, all’esigenza politica di ridurre ogni spazio di discrezionalità e sottrae la decisione politica alla contestazione popolare. Viceversa, riconoscere l’inaccessibilità immediata alla Verità non esclude il riconoscimento di una trascendenza che si manifesta attraverso i limiti che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana. Ci scontriamo continuamente con la dura realtà del mondo e con la fatica di vivere, per questo siamo spinti a cercare un senso che dia conto della nostra finitezza e mortalità. Il limite della soggettività e dell’ermeneutica impedisce, nel contesto storico in cui si vive, di cadere nell’onnipotenza nichilistica.
Come sosteneva Castoriadis, la democrazia deve essere un regime dell’autolimitazione, in cui l’interesse alla continuazione della specie umana impedisce di disporre del mondo in modo da pregiudicarne la disponibilità per le future generazioni. La democrazia delle opinioni non implica la babele delle lingue, ma il riconoscimento di un patrimonio comune che riguarda la memoria del passato e le speranze del futuro. Già dal principio dell’autolimitazione della democrazia si possono ricavare regole che impediscono il dispiegarsi della selvatichezza egoistica che abita dentro ciascun essere umano. Per questo, come ha osservato Massimo Recalcati, il riconoscimento dell’inconscio come opacità del sapere di se stessi e del mondo è la garanzia che la democrazia non diventi delirio di onnipotenza.

il Fatto 2.11.12
Risorgeremo (ma all’opposizione)
di Gianni Vattimo


Se davvero Di Pietro e Landini (e magari, finalmente, anche Vendola, una volta che la morsa Bersani-Renzi l’avrà stritolato alle primarie del Pd) si metteranno insieme imboccando la via di una opposizione franca e senza sconti al governo Monti-Napolitano-Marchionne-Banche, allora forse ci sarà qualcosa da sperare a sinistra. Il patetico teatro bersaniano impiantato sulla vittoria dell’innocente Crocetta in Sicilia, crollerà presto seppellito da astensionisti e grillini. Questi ultimi hanno avuto il buon senso di capire che in Italia, oggi, un partito di sinistra che fa di tutto per essere forza di governo è destinato a scomparire. Quel che ci occorre è una forte opposizione, anche non tanto sguaiata come certe volte – non sempre, e non dovunque – è quella di Grillo. Ma consapevole che nell’attuale quadro nazionale e internazionale, dove i media padronali di ogni genere hanno ucciso e ridicolizzato ogni pensiero alternativo, la cosa più realistica e forse efficace che si può immaginare – se non si vuole accettare il disordine esistente – è una limitazione del danno. Lo so che non si può pensare a una campagna elettorale che non preveda un “programma di governo”, gli elettori vogliono una proposta “positiva”. Questo, in fondo, ha frenato finora Di Pietro. Ma allora perché tanto successo di Cinque stelle? Ovvio che l’elettorato è più maturo di quanto i politici credano. In questo senso bisogna riprendere, alla lettera, l’eredità della Resistenza. Le ottime (?) intenzioni di chi predica la stabilità, la compatibilità con i mercati, il fiscal compact europeo, non fanno più presa neanche su chi finge di crederci, meno che mai sui tanti cittadini che non hanno quasi più niente da conservare e salvare. Il “mitico” proletariato di Marx? Non sarà proprio così, ma si deve tener presente che ai tempi di Marx non c’era la Tv, l’unico oppio del popolo era la religione, che poveretta adesso riesce a fare la sua funzione solo se si allea coi mass media e i loro proprietari. Il nuovo proletariato espropriato avrà sempre più motivi di svegliarsi dal torpore mediatico. La cura Monti non ha funzionato e non funzionerà per un bel po’, è inutile che, riprendendo il disastroso ottimismo berlusconiano, i tecnici-banchieri ci dicano che la fine del tunnel è prossima. Il conflitto sociale dilaga ormai nel paese: se non sono gli studenti senza scuola e senza prospettive sono gli operai sardi, i pastori, gli agricoltori, gli esodati, i cittadini di Taranto messi di fronte alla scelta tra il cancro e la disoccupazione, i licenziati vittime della rappresaglia e le tante altre vittime della legge Fornero. Non so se davvero l’Idv debba sciogliersi o cancellare il nome di Di Pietro dal simbolo: siamo pur sempre in Italia, il popolo non è bue ma spesso è frettoloso; e poi un solo capo carismatico è meglio che tanti colonnelli di periferia in lotta per i pacchetti di tessere. Il punto è prendere atto che non è più il caso di rappresentarsi come possibile forza di governo, perché in questa situazione ci si costringe solo a compromessi e alleanze innaturali. Crocetta ha dovuto allearsi con l’Udc, altro che vittoria della sinistra riformista. E anche così deve presentarsi con il cappello in mano ai grillini. È davvero una sciagura che il Pd non ci voglia, che non voglia l’Idv, nella sua coalizione di finta sinistra, cedendo al ricatto casiniano e all’impulso vendicativo di Napolitano? Forse è invece un segno del cielo, una vera grazia di Dio. Morte e risurrezione. Colui che può cogliere il senso di questa vocazione è sempre ancora il “resistente” Di Pietro, e chi se no? Del resto, non è nemmeno detto che la risurrezione sia così lontana. Anche in termini elettorali, solo abbracciando senza remore la via dell’opposizione radicale, cioè della limitazione del danno prodotto dai “tecnici”, il consenso elettorale arriverà. E infine, molto più che il destino dell’Idv qui è in gioco la sorte della democrazia italiana. Solo una forte opposizione di sinistra ci salverà dal risorgere di tentazioni terroristiche o comunque di lotta violenta, con le sue fatali conseguenze di autoritarismo. La militarizzazione della Val di Susa in nome del Tav (inutile, sconfessato da gran parte dei tecnici veri che ne hanno analizzato il progetto, pascolo per le mafie di tutti i generi) è solo un anticipo di quello che accadrà, o potrebbe accadere, prima o poi nelle nostre città, quando gli effetti delle “riforme” si faranno sentire ancora di più in tutta la loro portata. Forza Tonino (e Grillo, e Vendola, Ferrero, ecc.) ancora uno sforzo.

Corriere 2.11.12
«Merkel è stata coinvolta in Germania in una politica di rancore verso il Sud»
Lo sfidante Steinbrück: il rigore condanna l'Europa alla depressione
intervista di Paolo Lepri


BERLINO — Peer Steinbrück, l'uomo che fra un anno sfiderà Angela Merkel, è noto anche per il suo tagliente sarcasmo. E non vuole smentire la sua fama. Accetta volentieri le congratulazioni per la sua nomina a candidato cancelliere della Spd, ma aggiunge subito: «C'è anche chi mi fa le condoglianze». Siamo al Willy-Brandt Haus, il quartier generale e la casa della cultura dei socialdemocratici tedeschi, dove lavora in una stanza luminosa, all'ultimo piano, che guarda verso gli spazi sterminati del quartiere di Kreuzberg. Questa al Corriere è la prima intervista che l'ex ministro delle Finanze nel governo di grande coalizione, 65 anni, concede a un giornale straniero dopo la sua investitura. Dal 2005 al 2009 ha collaborato con la sua avversaria. Ma più che al passato, Steinbrück vuole guardare al futuro e a come costruire, con tutto il rigore che lo contraddistingue, un'alternativa alla coalizione nero-gialla (cristiano-democratici, cristiano-sociali e liberali) che guida la Germania. Le critiche sui lauti compensi percepiti negli ultimi anni per discorsi e interventi non sembrano averlo demoralizzato. Anzi. Nei giorni scorsi ha detto che aver indicato dettagliatamente tutte le somme ricevute è stato «un esempio» che tutti dovranno seguire. Oggi arriva in Italia per incontrare il presidente del Consiglio Mario Monti e il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani. In camicia bianca senza giacca, cravatta rossa, fa capire di non aver tempo per molti altri preamboli.
Lunedì scorso, alla tavola rotonda dell'Istituto Berggruen, è stato chiesto a Schröder, Blair e González, che cosa farebbero, per affrontare la crisi europea, al posto dei loro successori. Le vorrei chiedere che cosa farebbe lei, oggi, al posto della cancelliera Merkel.
«Il governo parte da una analisi insufficiente della crisi, ritenendo che si tratti di una crisi del debito pubblico degli Stati. È così solo parzialmente. A questa analisi insufficiente segue una terapia sbagliata. E questa terapia viene praticata da due anni: risparmiare, risparmiare, risparmiare. Intanto la situazione europea non diventa migliore, ma anzi più problematica. Gli Stati scivolano dalla recessione alla depressione, e così non ottengono migliori condizioni sui mercati finanziari. Tornando a Schröder, Blair e González, un consolidamento è giusto, se la dose è giusta. Serve una stabilizzazione del nostro sistema bancario malato e una regolamentazione. Ed è necessario uno stimolo per la crescita. Soprattutto in molti Paesi mediterranei, per combattere la disoccupazione giovanile troppo alta.
È stato un errore fare entrare la Grecia nell'euro? Dobbiamo adesso darle più tempo per realizzare le riforme concordate?
«Dal punto di vista odierno, la Grecia non dovrebbe appartenere economicamente all'eurozona, ma l'errore è stato fatto. L'ammissione della Grecia è stata influenzata politicamente. Non ha senso oggi discuterne a lungo. Gli inglesi direbbero: "The cat is out of the bag". In Germania c'è stata una manovra politica basata sul rancore nella quale la cancelliera è stata coinvolta. Angela Merkel conduce almeno in parte la sua politica europea secondo una "Raison d'être" di politica interna. Lei sbircia molto attentamente con un occhio gli umori dei tedeschi. Ma per la coesione europea tutto questo non è molto intelligente. La cancelliera deve dire chiaramente all'opinione pubblica che la Grecia dovrà essere sostenuta ancora.
Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha proposto la creazione di un «supercommissario» che abbia forti poteri sulle politiche di bilancio nazionali. Che ne pensa?
«In linea di principio, la proposta non è nuova. È stata fatta già da anni. Sorprende il momento in cui Wolfgang Schäuble la ha riattivata. Sorprende che non abbia detto chiaramente allo stesso tempo che con questo la sovranità degli Stati membri sarà toccata. Perché questo commissario alle valute e alle finanze avrebbe ampi diritti di controllo che intaccano quello dei Parlamenti nazionali. E non solo per il Portogallo o la Grecia. Dovrebbe usarli anche per la Germania. Mi irrita che non siano state prese in esame in anticipo queste conseguenze».
A un anno della sua nomina, qual è la sua opinione sull'operato di Mario Draghi? Il piano di acquisto dei titoli di Stato dei Paesi indebitati è stata una svolta importante?
«Io apprezzo Mario Draghi, così come Jean-Claude Trichet. Conosco Draghi dall'epoca in cui ero ministro delle Finanze e ho apprezzato il suo lavoro come presidente del Financial stability forum. Credo che molti capi di Stato e di governo, e anche la Cancelliera, accendano ogni sera una candela alla finestra nella speranza che la Bce faccia incetta di titoli di Stato. La responsabilità viene attribuita alla Bce per non sporcarsi le mani. Draghi ha detto che la Bce procederà all'acquisto illimitato di titoli di Stato se i Paesi si impegneranno in un programma di riforme strutturali. Ma la Bce non può né definire né formulare questo programma. C'è bisogno di altre istituzioni europee. Ai miei occhi sta qui la debolezza della proposta».
Il cancelliere Steinbrück sarebbe entrato in conflitto con la Bundesbank?
«No, la Bundesbank è indipendente».
Il fatto che sulla politica europea la Spd abbia sempre votato insieme al governo, può rappresentare non solo un punto di forza, ma anche un punto di debolezza. C'è il rischio che gli elettori non capiscano le differenze?
«La Spd non si collocherà mai in Europa su posizioni opportunistiche. L'Europa come risposta alla catastrofe del ventesimo secolo e come risposta alla sfide globali del presente non è fatta per fare scintille in politica interna».
Lei ha escluso di tornare al governo con Angela Merkel e si è pronunciato per un governo rosso-verde (socialdemocratici-ecologisti). Ma se il risultato delle prossime elezioni non consentisse questa maggioranza, quali sarebbero le sue scelte?
«Mi occupo solo dello scenario che desidero si realizzi. Tutto il resto può solo distrarre».
Come valuta la situazione italiana e cosa pensa di una possibile prosecuzione, anche dopo il voto, dell'esperienza del governo tecnico presieduto da Mario Monti? Se il centrosinistra vincesse le elezioni, dovrebbe governare?
«Credo che questa domanda debba essere rivolta agli elettori italiani e non ad un tedesco, che potrebbe essere giudicato come un maestro di scuola. Conosco Mario Monti da molto tempo, dall'epoca in cui era commissario europeo. Abbiamo spesso negoziato da parti diverse del tavolo e per questo ho imparato ad apprezzarlo come un cortese gentiluomo, un forte negoziatore e un uomo di grande ampiezza di cognizioni. Ho grande apprezzamento per il fatto che in un momento molto difficile abbia assunto l'incarico di capo del governo. Ma lei capisce come io non voglia commentare la politica interna italiana. Ho grande considerazione di come Monti tenti di risolvere le difficoltà dell'Italia. Riguardo alle elezioni, spero molto che la professionalità di questo governo sia rappresentata anche in un governo successivo».
È favorevole ad una intensificazione dei rapporti tra Spd e Partito democratico?
«Senza dubbio sì. Siamo enormemente interessati a lavorare insieme, in modo stretto e intenso, con Pier Luigi Bersani».
Il Movimento Cinque Stelle, in Italia, è stato paragonato al partito dei Pirati. Vede un pericolo nel declino delle forze politiche tradizionali?
«Bisogna dire autocriticamente che il movimento di Grillo in Italia come qui i Pirati sono un segno della perdita di fiducia nei partiti consolidati. Nel momento in cui la critica ai partiti si trasforma in una sorta di disprezzo, io mi insospettisco».

Corriere 2.11.12
Cina, i mille divieti del Congresso
Non sarà possibile fare gite scolastiche o aprire i finestrini dei taxi
di Marco Del Corona


PECHINO — La scala che scende verso il nightclub dell'Hotel Chongqing ieri sera languiva in un buio senza speranza. Un foglio avverte che il locale è chiuso «in occasione del 18° Congresso» del Partito comunista che inizierà tra meno di una settimana, l'8 novembre. Niente musica, neppure le peccaminose lusinghe della penombra né le presenze femminili che la popolano. Al massimo ci si può consolare con la cucina sichuanese del piano di sopra, di un piccante di genere diverso. Se poi i gusti dei cittadini puntano verso passatempi più innocenti, come l'aeromodellismo, anche in quel caso devono tener conto dell'attenzione — o, secondo gli insofferenti, della paranoia — che il Partito riversa nelle misure di sicurezza. Per l'acquisto di velivoli giocattolo radiocomandati si esige la registrazione dell'identità dell'acquirente. E se anche per la festa nazionale del 1° ottobre a Pechino sono normalmente vietati gli aquiloni, la stretta sui modellini ha raccolto un supplemento di ironia popolare.
L'evento che consegnerà i destini della Cina a una nuova leadership innervosisce i vertici, riuniti nell'ultimo plenum del comitato centrale uscente, il 17°. Le voci danno ancora aperta la contesa per la scelta dei nomi che affiancheranno i capi già decisi. La capitale risente del clima, ritrovandosi in bilico tra misure di sicurezza e riflessi condizionati vecchio stile: striscioni onnipresenti inneggiano all'armonia sociale, rinnovano il benvenuto al Congresso, scenografiche composizioni floreali, dotazioni di bandiere nuove. Mobilitati, oltre alla polizia, anche un milione e 400 mila «volontari». Vietata la vendita di coltelli. Ai tassisti è stato chiesto di vigilare su eventuali comportamenti sospetti e di tenersi alla larga dalla Tienanmen durante i giorni del Congresso, ma soprattutto di bloccare l'apertura dei finestrini posteriori nel timore, non esplicitato ma subito colto dall'opinione pubblica, che qualcuno possa lanciare volantini o altro (se a qualche potenziale sovversivo non fosse venuto in mente, adesso ha di che meditare, come quando i genitori di un cinquenne gli raccomandano di non provare a scavalcare la balaustra del balcone…).
L'argomento stesso, il Congresso del Partito, non è tra i più graditi dai censori del regime, come prevedibile. I navigatori della Rete irridono i timori e parlano di «Sparta» («sibada» in mandarino, che suona quasi come «shibada», formula sintetica per «18° Congresso»). Il ministero della Cultura ha dovuto smentire la boutade di un paroliere, Gao Xiaosong: aveva twittato che le reti tv stavano censurando canzoni che contenessero la parola «morte» o altre espressioni poco fauste. Il Congresso porta con sé — secondo il celebre microblogger Zuoyeben fatto proprio dal South China Morning Post — il blocco delle gite scolastiche e delle riprese cinematografiche all'aperto, permessi più stringenti per chi arriva in macchina da fuori, no ai camion dentro la «quinta circonvallazione», concerti rinviati. Internet appare più lento, benché non sempre e non ovunque, e le televisioni piazzate in alcune palestre frequentate dalla classe media ora trasmettono solo programmi cinesi. Tutti ad aspettare l'8 novembre, anche se al Congresso gli spettacoli migliori rimangono riservati agli attori.

Corriere 2.11.12
«Non trasformiamo la morte in una fiction»
Lo psicopatologo Ammaniti: «Basta tabù sulla fine della vita Rimuoverla provoca solo sofferenza»
di Paolo Conti


«La morte, in una società caratterizzata dalla pretesa di prolungare all'infinito la gioventù, e quindi di allungare il tempo della seduttività e della bellezza, ha smesso di rappresentare la naturale e inevitabile conclusione di un ciclo vitale. Questione che riguarda tutti gli esseri umani, nessuno escluso. Direi che nei nostri giorni la morte è uno scacco inaccettabile rispetto alla propria dimensione narcisistica».
Oggi è il 2 novembre e la chiesa cattolica, da secoli, invita al ricordo dei defunti. Ma parlare di morte nella nostra contemporaneità è difficile, quasi impossibile. Lo spiega molto bene Massimo Ammaniti, docente di Psicopatologia all'Università «La Sapienza» di Roma, apprezzato saggista. Il suo lavoro lo porta ad analizzare le molte tappe di un'esistenza umana. E quindi anche il rapporto del singolo contemporaneo con la fine della vita sia propria che altrui: «Viviamo appunto immersi nel mito del successo, della ricchezza, della bellezza ad oltranza. Il tema della perdita di chi ci è caro, del dolore che ne consegue, diventa materia difficile da accettare e quindi lontana. Risale agli anni Cinquanta il saggio di Geoffrey Gorer La pornografia della morte. Direi che oggi la situazione è peggiorata».
Per Ammaniti affrontare e dialogare con la morte è l'unico modo per evitare che diventi un macigno insostenibile: «Farò un esempio, credo, eloquente. Tempo fa mi portarono una bambina di sei anni come paziente. Non riusciva ad apprendere niente. Sua madre era morta quando aveva due anni. Scoprii che il padre e i nonni, per evitarle il dolore, avevano fatto sparire ogni foto e qualsiasi traccia di quella donna. Capii facilmente che il blocco della bambina derivava da quell'amputazione del sé: era incapace di esplorare il mondo per la mancanza della figura della madre. Tutto ciò vale anche per gli adulti». Inevitabilmente Ammaniti ricorre a un altro esempio legato al Grande Genitore della psicoanalisi, Sigmund Freud: «Quando morì suo padre, notoriamente Freud fu colto da una grande depressione. Ma quella parentesi fu anche l'occasione di una grande crescita».
Due esempi che dimostrano quanto sia importante non allontanare la morte ma, anzi, farla rientrare nell'alveo della propria esistenza, della quotidianità. Ma il famoso mito della Bellezza Eterna, secondo Ammaniti, fa il paio con un'altra abitudine che impedisce l'elaborazione della morte: «Assistiamo a una sua continua spettacolarizzazione. Non mi riferisco solo alla fiction televisiva o del cinema, che mostra ossessivamente la fine cruenta di esseri umani come un semplice fatto narrativo. Io penso alla parallela "fiction" di tanti funerali: c'è rumore, si susseguono numerosi discorsi, si applaude come se quella persona senza vita debba essere salutata come un divo da esaltare. Questo è un altro errore grave per chi resta».
Il pensiero del professore va a un saggio fondante dell'antropologia italiana, Morte e pianto rituale nel mondo antico del grande Ernesto de Martino: «Penso, da laico, al simbolo del Pianto di Maria sul corpo di Gesù. La morte richiede silenzio, spazio per il dolore, tempo per riflettere su chi ci ha lasciato e su "cosa" ci ha lasciato. Invece oggi, ed è un male per chi resta, il singolo resta solo di fronte alla ferita ricevuta dal distacco di un caro. Prima la collettività lo accoglieva e, con la parentesi condivisa del lutto, la morte si trasformava in qualcosa di diverso. Oggi è difficilissimo ottenere quel risultato: cioè fare in modo che il morto diventi una nostra rasserenante presenza interiore con la quale continuare a dialogare. Lo spiegava bene il mio amico psicoanalista Mauro Mancia: ciascuno di noi ha la possibilità di crearsi una sorta di "religione" intima fatta dei legami interiori con le persone che sono state importanti. Vive o morte che siano»
Per sopravvivere a una morte, sostiene in conclusione Ammaniti in questo 2 novembre 2012, «è essenziale non occultarla, non nasconderla, non mascherarla». Saper dialogare con il momento conclusivo della vita è essenziale. Non tutti hanno la forza di un Ezra Pound. L'attore Enrico Maria Salerno raccontava spesso di averlo incontrato nel 1970 a Venezia. Di avergli chiesto: «Maestro, come va?». E Pound, in perfetto dialetto veneziano, riferendosi alla morte: «Me sta sempre de drio ma non ghe do confidenza...»

La pillola del futuro e quella del giorno dopo

Mentre da noi ancora ci si chiede che cosa sia esattamente la pillola anticoncezionale, visto che ogni campagna di informazione in materia è vietata o boicottata manco fosse un libro di Salman Rushdie nei Paesi islamici, in Francia quella invenzione rivoluzionaria viene addirittura “passata dalla mutua”. Di più: non contenta di questo modernismo, la ministra della Sanità d’Oltralpe, Marisol Touraine, l’ha appena resa completamente gratuita per le minorenni tra i 15 e i 18 anni, che potranno richiederla persino anonimamente! Lo Stato Vaticano, con l’aiuto del ministero della Difesa italiano in missione di pace, sta già predisponendo un attacco aereo per bombardare di embrioni le cugine francesi, ma ciò avverrà nel più stretto riserbo, per non alimentare possibili insurrezioni delle donne italiane, che tutte le pillole anti-qualcosa le pagano a carissimo prezzo, quando riescono a superare le Guardie svizzere. Come l’aborto chirurgico, cui le nostre donne giungono come extrema e stremata ratio, in strutture private carbonare e schivando i famigerati parabolani di coscienza, mentre in Francia da oggi sarà completamente a carico del servizio sanitario nazionale.
Paolo Izzo