lunedì 5 novembre 2012

La Stampa 5.11.12
Bersani in chat sul sito de La Stampa
Lunedì 5 alle 13 il segretario del Pd sarà ospite nella nostra redazione. Dalle primarie al futuro del governo, inviate le vostre domande nello spazio commenti, qui


l’Unità 5.11.12
Perché l’area Marino sostiene Bersani
di Michele Meta


IN QUESTI ANNI CHI SI È RITROVATO NELL' AREA «CAMBIA L'ITALIA», DOPO AVER SOSTENUTO ALLE SCORSE PRIMARIE DI PARTITO (CIRCA 500, 000 ELETTORI) la candidatura di Ignazio Marino, ha svolto un ruolo di proposta culturale e politica in modo libero, schietto e unitario. Ha affermato tante personalità, a partire dai suoi leader, che hanno arricchito la politica della sinistra e del nostro Paese. Crediamo che se il Pd ha fatto dei passi in avanti sui temi riguardanti i diritti civili e delle persone, sul miglioramento dei servizi, sul rinnovamento del Partito, sull’apertura alla società e sull’unità delle forze progressiste, in parte sia anche merito nostro. Non ci siamo mai sentiti una corrente; semmai un pezzo critico e pensante della nostra comunità politica, teso a un lavoro costruttivo. Certo, non ci sono mancati limiti e difetti, ma l’impegno è stato davvero sincero.
Oggi siamo di fronte alla prova delle primarie per la scelta del candidato premier. È un passaggio delicato e decisivo. Ci impegneremo, prima di tutto, per fare in modo che il più alto numero di cittadini vada a votare. Crediamo nelle primarie; che certo non sono la soluzione di tutti i problemi, ma costituiscono uno degli antidoti rispetto alla drammatica lontananza dei cittadini dalla politica, confermata dai risultati siciliani. Nella loro diversità, tutti i candidati, sottolineo tutti, vanno rispettati e ascoltati. Semmai il mio richiamo è che la battaglia, pur inevitabilmente accesa, non disperda e danneggi un dato incontrovertibile: il Pd, nel disfacimento della democrazia italiana, rimane tuttora la sola ancora di salvezza.
L’area Marino ha deciso di sostenere Bersani. Le ragioni sono forti ma semplici:
1) Di fronte alla più grave crisi che l’Italia abbia vissuto dal dopoguerra, il compito del Pd è avanzare una proposta di governo credibile, che chiuda la pur importante parentesi tecnica e che sia capace di indicare una guida politica, autorevole, equilibrata, competente e di riconosciuta esperienza. L’attuale segretario del Pd corrisponde a queste esigenze.
2) È assai dubbio che una ricetta liberista possa far riprendere il Paese. È stata l’idolatria del mercato e della rincorsa alla ricchezza attraverso la finanza, che ci ha cacciato nel baratro. Tagliare va bene. Ma non basta. Occorre creare ricchezza e mobilitare le energie. La condizione per tutto ciò è la coesione sociale e la giustizia. È proprio ciò che è mancato in questi mesi; che Monti non poteva dare. Bersani ne è consapevole. Renzi non mi pare.
3) La devastazione che dobbiamo cominciare a riparare non è solo economica e sociale. È anche (soprattutto?) democratica, morale e culturale. È decisivo, per questo, l’esempio. Sono decisivi i comportamenti, lo stile, la sobrietà, il senso del noi, la percezione dei propri limiti, la laboriosità di un lavoro costante e di lunga lena. Berlusconi ha lasciato immagini di cartapesta, una politica urlata, sprezzante e offensiva, l’idea che uomini soli al comando calcando palchi desertificati dalle loro ambizioni e narcisismi, possano essere capaci di imprese tanto grandi e veloci, quanto bugiarde e impossibili. La replica dei fatti è stata micidiale. Oserei dire che occorre una modificazione antropologica rispetto alla politica berlusconiana. Bersani in questo senso ha qualcosa di diverso e di autentico. Assai più dei suoi competitori.
4) La rottamazione rischia di eliminare i migliori. I simboli di una storia, che hanno guidato le formazioni politiche fondative del Pd: D’Alema, Veltroni, Castagnetti. Rischiando di salvare, invece, tanti bravi compagni ed amici che tuttavia, dopo quasi, o addirittura, più di vent’anni di Parlamento, possono benissimo dare il loro contributo da altre postazioni. Sono per un rinnovamento radicale, ma non per il taglio delle nostre radici. Errori, anche gravi, stanno alle nostre spalle. E tuttavia siamo giunti alle soglie di una possibile nuova prova di governo. Il nuovo nasce con il coraggio di uno stacco rispetto al passato, non con un taglio velleitario e avanguardistico che ci porterebbe a un salto nel buio.
Ecco le ragioni di un nostro sostegno a Bersani. Naturalmente critico su molte cose. Prima di tutto sul Partito. Occorre una riflessione franca e spietata sulla nostra forma politica. Non regge più un campo democratico frammentato in tanti partiti, e poi in correnti, sottocorrenti, cordate elettorali. Si dice: c’è l’antipolitica. Preferisco dire c’è una politica diffusa non rappresentata che inevitabilmente si incarognisce nel rifiuto o nella protesta sterile. Ecco perché è nostro compito riaccendere i canali di una partecipazione individuale, responsabile, libera e pulita dei cittadini alla gestione del potere. Ridando forza alla parola degli iscritti, alle loro decisioni, alla loro voglia di contare attraverso forme di democrazia diretta e trasparente. Mi fermo qui. È un lavoro enorme da fare. Guai, se dovessimo governare il Paese, trascurare ancora una volta il rinnovamento del Partito e la promozione di una nuova classe dirigente.

Corriere 5.11.12
«Voterò il sindaco e il leader Cinque Stelle perché voglio mandare tutto in frantumi»
Flores d'Arcais: ormai la posta in gioco è la scelta tra la partitocrazia e l'Altra politica
di Fabrizio Roncone


ROMA — «Sì, certo, ho letto ciò che Eugenio Scalfari ha scritto su di me e se proprio devo...».
No, aspetta, Paolo Flores d'Arcais: facciamo un passo indietro. Partiamo dall'articolo che, alcuni giorni fa, hai firmato sul Fatto. Il titolo dell'articolo era eloquente: «Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò».
«Bene, partiamo da lì, partiamo da una domanda: qual è oggi la principale posta in gioco? È la scelta, penso io, tra partitocrazia e Altra politica, intesa quest'ultima come il riformismo vero della Fiom, l'impegno dei Girotondi, la lotta alla mafia e tutto quello che viene bollato come giustizialismo...».
Continua.
«La partitocrazia è invece Berlusconi e il suo mondo in disfacimento, ma è partitocrazia anche il "partito" Napolitano-Monti e il centrosinistra così come viene descritto, da Bersani a Vendola. È chiaro che non sono tre realtà equivalenti, ma certo si somigliano sempre di più e soprattutto impediscono la nascita di una autentica politica riformista. Detto questo...».
Tu suggerisci di votare alle primarie del Pd per Renzi: non è paradossale?
«No. Perché se siamo d'accordo che la questione essenziale è scegliere tra partitocrazia e Altra politica, allora votare per Renzi alle primarie del Pd e poi votare per Grillo alle elezioni è la scelta più razionale».
Non sembra così razionale, francamente.
«E invece sì. Ascoltami: votando Renzi e aiutandolo a vincere, si aumentano le probabilità che il centrosinistra vada in frantumi; poi, andando a votare Grillo, diventa forte la prospettiva che vadano in frantumi addirittura tutti e tre i settori della partitocrazia sopra elencati».
Capito: auspichi che venga giù tutto in macerie. Non ti sembra un po' troppo?
«No. A me sembra il male minore. Ritengo infatti che oggi siamo già al peggio. Il governo Napolitano-Monti ha appena varato, a larghissima maggioranza, una legge che rende la vita dei concussori molto più facile. Un regalo ai politici criminali che viene chiamato "legge anticorruzione"».
D'accordo, quella legge poteva essere più incisiva, tuttavia il tuo giudizio mi sembra severo e...
«È come dico io, dai! Del resto, vedi: Berlusconi faceva leggi che avvantaggiavano i politici criminali, ma era chiaro che erano leggi ad personam e ad Castam. Napolitano e Monti fanno la stessa cosa ma riescono a far credere di fare il contrario, distruggendo quindi ogni possibilità di indignazione e di lotta. Mi sembra più grave».
Scalfari, su Repubblica, nel suo editoriale della domenica, sospetta che tu stia lavorando alla nascita del partito d'azione, «quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui?».
«Magari! Purtroppo, il movimento o lista elettorale, scegli tu la definizione, del partito d'azione, oggi è solo un auspicio, benché io creda che un programma "Giustizia e libertà" sia maggioritario tra i cittadini. Ed è proprio per questo che va fatta tabula rasa di tutto quanto ne impedisce la nascita».
Direttore, «tabula rasa» è un concetto forte e pericoloso, non trovi?
«Sì. L'alternativa, tuttavia, è la morta gora in cui il Paese si sta avvitando da venti anni, procedendo di male in peggio per opera del berlusconismo, per omissioni del centrosinistra e per un combinato disposto di opere e omissioni del partito Napolitano-Monti».
Scalfari, comunque, immagina che a voler guidare questa sorta di partito d'azione possa essere tu, insieme «con Santoro e tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi. A me — conclude il fondatore di Repubblica — sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico».
«Io invece aspetto che Scalfari dica altro, che fornisca argomenti, altrimenti la sua è solo una innocua battuta, neppure di vaghissimo sapore brezneviano... Scalfari è infatti il sostenitore più entusiasta del partito Napolitano-Monti, un partito che, fatti alla mano, in molti articoli ho mostrato essere la prosecuzione del berlusconismo senza la cloacale volgarità di quel regime. Come ho scritto, la prospettiva di un governo Bersani con D'Alema agli Esteri, la Melandri alla Cultura e Buttiglione alle Pari Opportunità mi sembra peggiore di un governo estratto a sorte... fra gli incensurati, ovviamente».
(Paolo Flores d'Arcais, 68 anni, è il direttore di Micromega).

La Stampa 5.11.12
Fuori dalle liste chi è condannato. Pronto il testo
La durata sarà pari al doppio della pena inflitta Cancellieri: sarà in vigore già per le Regionali
Oltre il dieci per cento del totale. Con le nuove norme molti sarebbero esclusi dalle liste
Più di cento i parlamentari condannati o indagati
di Grazia Longo


Ce n’è per tutti i gusti. Tra denunciati, sottoposti a richieste di rinvio a giudizio e condannati - alcuni anche in via definitiva - sono più di 100 i nostri parlamentari protagonisti di procure e tribunali.
Il palcoscenico è ricco e vario, non risparmia alcun partito ma la bilancia pende prepotentemente verso il centro destra. A partire dal senatore Marcello Dell’Utri, vicinissimo a Silvio Berlusconi, che la Cassazione ha punito con una pena di 2 anni per frode fiscale e false fatturazioni Publitalia. Condanna definitiva anche per l’ex leader della Lega nord Umberto Bossi, per vilipendio alla bandiera italiana - «Quando vedo il tricolore mi inc... Il tricolore lo uso per pulirmi il c.... » quello attuale. A Roberto Maroni la Corte suprema ha inflitto 4 mesi e 20 giorni per resistenza a pubblico ufficiale durante la perquisizione della polizia nella sede di via Bellerio a Milano (noto come caso delle «camicie verdi).
E 230 mila euro dovrà sborsare, su sentenza della Cassazione, il super imitato Domenico Scilipoti - deputato ex Idv oggi Popolo e territorio - per saldare il conto ad un ingegnere che 20 anni fa realizzò un progetto su richiesta di Scilipoti per la costruzione di un poliambulatorio medico in provincia di Messina. In attesa del pagamento il deputato s’è visto pignorare gli immobili di proprietà. Giusto per non farsi mancare nulla, poi, Scilipoti è pure coinvolto nell’inchiesta sulla compravendita di parlamentari, per la quale la Procura di Roma aprì un’inchiesta nel 2010 dopo una denuncia di Antonio Di Pietro.
Tra i più illustri indagati senza mai essere condannato in via definitiva - c’è l’ex presidente del Consiglio Berlusconi. Decine di inchieste giudiziarie - di cui il Ruby gate è solo l’ultima - sia per quanto concerne la sua attività imprenditoriale, sia per quella politica. Più la polemica innescata dalle «leggi ad personam» che avrebbero depenalizzato i reati contestati.
Il nome del senatore a vita - e 7 volte premier - Giulio Andreotti è associato per vari motivi alle indagini sulla P2 di Licio Gelli, Cosa Nostra, Michele Sindona, il Golpe Borghese. Eppure non è mai stato condannato a riguardo. Da non dimenticare che per i «rapporti con la mafia e associazione per delinquere», il reato «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980» si è estinto per prescrizione (sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione). L’unica sua condanna definitiva riguarda la diffamazione del giudice Almerighi.
Recente è invece lo scandalo che ha portato all’arresto dell’ex tesoriere della Margherita Lugi Lusi (accusato d’aver sottratto 22 milioni di euro dalle casse del partito). Mentre per aver distribuito marijuana alla fine di alcune manifestazioni è stata più volte denunciata la deputata radicale Rita Bernardini. Scalpore a Torino quando la deputata Pd Francesca Ciluffo notaio di professione, subentrata alla Camera dopo le dimissioni nel 2011 del neoeletto sindaco Piero Fassino - è finita sotto la lente degli inquirenti per evasione fiscale. L’Agenzia delle Entrate, quattro mesi fa, ha riscontrato irregolarità su una decina di notai torinesi - compresa Ciluffo - per un totale di 2,9 milioni di euro.

La Stampa 5.11.12
Non aspettiamo che la sentenza sia definitiva
di Carlo Federico Grosso


Secondo indiscrezioni, il governo starebbe lavorando alla stesura del decreto delegato sulla non candidabilità dei condannati definitivi; l’intenzione sarebbe, addirittura, di approvare il nuovo testo legislativo in tempo utile già per le elezioni regionali di Lazio e Lombardia.
Se la notizia fosse confermata e, soprattutto, se l’iniziativa avesse successo, si tratterebbe di una dimostrazione ulteriore di efficienza di questo esecutivo.
Sempre secondo le indiscrezioni ricevute, la non candidabilità conseguente alle condanne penali avrebbe natura temporanea. Essa riguarderebbe, in particolare, i soggetti condannati in via definitiva ad una pena di almeno due anni di reclusione, ed avrebbe una durata doppia rispetto alla condanna ricevuta: quattro anni di sospensione per una condanna a due anni di reclusione, sei anni di sospensione per una condanna a tre anni, e via dicendo.
Ireati/ostacolo ad una candidatura sarebbero stati individuati, sostanzialmente, nell’ambito di tre tipologie: quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c. p.p, quelli previsti dall’art. 51 comma 3 quater c. p.p., quelli previsti dal libro II, titolo II capo I c. p. Si tratta, fondamentalmente, delle seguenti categorie di illeciti penali: a) di reati gravissimi di tipo associativo, come le associazioni a delinquere finalizzate a commettere reati attinenti alla schiavitù delle persone, alla contraffazione di marchi o brevetti, al traffico di stupefacenti e al contrabbando, o le associazioni di tipo mafioso, nonché di reati altrettanto gravi come il sequestro di persona a scopo di estorsione e la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù e la tratta di persone; b) di reati di terrorismo; c) di tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Che dire di fronte a queste indiscrezioni? Un giudizio esauriente sul decreto potrà essere espresso, ovviamente, soltanto quando ci si troverà di fronte ad un testo scritto in tutti i suoi dettagli. Già ora è tuttavia possibile formulare alcune valutazioni, talune sicuramente positive, altre ispirate ad una maggiore cautela.
Nulla da eccepire, innanzitutto, in merito all’indicazione, fra i reati la cui condanna è di ostacolo a una candidatura politica o amministrativa, dei reati associativi più gravi, degli ulteriori reati indicati nell’art. 51 comma 3 bis c. p.p. e dei reati di terrorismo. Perché, tuttavia, tali reati, e non altri reati «comuni» altrettanto, o addirittura più gravi? Qual è il criterio in forza del quale un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione non può presentarsi alle elezioni e può invece, ad esempio, presentarsi l’autore di una violenza o di un altro reato contro la persona?
Il profilo più qualificante del decreto riguardaperaltro, sicuramente, l’inclusione, fraireati ostacolo ad una candidatura, di tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Tutti, anche quelli meno gravi, come l’omissione di atti di ufficio o l’abuso di ufficio, e non soltanto il peculato, la concussione e la corruzione. Si tratta, mi sembra, di un doveroso, importante, completamento della legge anticorruzione recentemente approvata in via definitiva dal Parlamento (e che prevedeva appunto, nel suo testo, la delega al governo per la definizione delle cause d’incandidabilità).
Anche qui, tuttavia, una domanda è d’obbligo. Perché circoscrivere a condanne superiori a anni due di reclusione l’ostacolo a candidarsi? Dato che i minimi edittali previsti nei confronti dei delitti contro la pubblica amministrazione non sono sempre elevati, e consentiranno frequenti condanne penali di minore entità, perché non abbassare quantomeno a un anno il livello delle condanne penali in grado di impedire di presentarsi alle elezioni? Dato che si tratta di reati commessi con abuso delle funzioni pubbliche esercitate, l’abuso mi sembrerebbe elemento di per sé in grado di impedire la sospensione temporanea del diritto di candidarsi.
Su un ulteriore profilo si potrebbe, infine, discutere: perché attendere, per applicare la sanzione d’incandidabilità, la sentenza definitiva, e non anticiparla invece al momento in cui viene pronunciata la sentenza di condanna di primo grado o quantomeno quella di secondo grado? Perché, mi si potrebbe rispondere, la Costituzione prevede che l’imputato deve essere presunto innocente fino alla condanna passata in giudicato, e, pertanto, fino a quel momento non lo si può ragionevolmente colpire con la limitazione di un suo diritto fondamentale. Accettiamo, nella prospettiva di questo giustificato garantismo, che le nostre assemblee elettive continuino ad essere, talvolta, zeppe di indagati e condannati di prima e di seconda istanza. Non potrebbero essere tuttavia, a questo punto, le stesse forze politiche ad autoregolamentarsi?
Al di là dei possibili rilievi, il testo che il governo si appresterebbe ad approvare costituisce comunque, rispetto alla situazione attuale, un grande passo avanti. Benissimo, pertanto, se esso verrà, come si prospetta, tempestivamente approvato. Che dire, tuttavia, se il governo cercasse di utilizzare gli ultimi scampoli di legislatura che l’attendono per fare approvare, magari con un decreto legge, quelle due/tre/ quattro ulteriori innovazioni che renderebbero la legislazione anticorruzione davvero incisiva a tutto campo nei confronti della corruttela dilagante?
Ci attendiamo dunque con ansia, dal ministro Severino, quantomeno i seguenti ulteriori provvedimenti, tutti, sibadi, diagevoleerapida confezione: l’abrogazione della Cirielli (per restituire tempi ragionevoli alla prescrizione), la reintroduzione del falso in bilancio, l’introduzione del delitto di autoriciclaggio, la riforma del voto di scambio.

l’Unità 5.11.12
Rappresentanza le cose da fare
Servirebbe un primo, parziale, intervento di legge da adottare già prima delle elezioni
di Luigi Mariucci


L’Italia soffre di molte anomalie rispetto alle democrazie europee. Una riguarda il tema delle relazioni sindacali. In nessun Paese accade che non si sappia quale sia l’efficacia giuridica di un contratto collettivo non sottoscritto da tutti i sindacati rappresentativi.
Che sia, inoltre, incerta la natura e la composizione delle rappresentanze sindacali aziendali, che appaia possibile espellere dalla rappresentanza in azienda il sindacato che dissente dal contenuto di un accordo e, pur essendo rappresentativo, non lo sigla. Quanto accaduto, appunto, alla Fiat in questi anni è il sintomo più vistoso di una anomia che è una delle principali cause all’origine del disordine e della inefficienza del sistema delle relazioni sindacali.
Ha fatto bene quindi Susanna Camusso, in un intervento sul Corriere della sera di ieri, a porre il problema di una regolazione della rappresentanza. La questione si trascina da tempi ormai immemorabili, da quando risultò impraticabile l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione. Per un lungo periodo il problema fu oscurato dalla indubbia rappresentatività delle maggiori confederazioni e dal loro rapporto unitario. Ma la crisi, prima, dell’unità sindacale e poi la crescente disarticolazione del sistema hanno reso non più tollerabile questo vuoto normativo. In questo quadro anche le regole pattizie, come quelle stabilite dall’accordo Cgil, Cisl, Uil del 28 giugno 2011 mostrano scarsa tenuta. Perciò sarebbe necessario un primo, parziale, intervento di legge che si potrebbe adottare già in questi mesi che ci separano dalle elezioni, rinviando la complessiva soluzione del problema alla prossima legislatura, quando il tema della rappresentanza e della democrazia sindacale dovrà essere affrontato assieme a quello della democrazia economica, ponendo in virtuosa connessione l’attuazione dei principi di cui agli articoli 39 e 46 della Costituzione.
Questo primo e «leggero» intervento di legge dovrebbe riguardare tre specifiche questioni, che attengono agli aspetti più critici delle relazioni contrattuali: l’efficacia giuridica dei contratti collettivi aziendali, da subordinare alla approvazione maggioritaria di rappresentanze elette da tutti i lavoratori, le procedure del ricorso a referendum in caso di dissenso espresso da un sindacato rappresentativo o da una significativa percentuale dei lavoratori interessati e il diritto a costituire rappresentanze aziendali in capo alle organizzazioni che superano un soglia di rappresentatività nella media tra iscritti e voti riportati in libere elezioni.
Le soluzioni indicate nell’accordo del 28 giugno 2011 potrebbero quindi essere recepite in legge in termini persino testuali. Né potrebbero negarsi al caso di specie i requisiti della «urgente necessità» che autorizzano il ricorso allo strumento del decreto legge.
In questo modo non si interverrebbe direttamente sull’aspra situazione conflittuale determinatasi alla Fiat, che esige piuttosto misure del tipo moral suasion di cui certo il governo e le più alte autorità della Repubblica non difettano, ma si introdurrebbe una prima regolazione della rappresentanza sindacale che corrisponde indubbiamente agli interessi generali del Paese.

l’Unità 5.11.12
Fiat, operai pregano contro i licenziamenti
A Pomigliano il parroco ha chiamato a raccolta i lavoratori
Oggi a Torino nuovo incontro per il contratto
di Valerio Raspelli


ROMA Per difendere i diritti non si firmano accordi che si ritiene li ledano, per difendere il lavoro si sciopera, si protesta in piazza come farà sabato prossimo la confederazione Cobas, che oggi incontrerà gli studenti ed i centri sociali di Napoli, per organizzare un corteo a Pomigliano d'Arco.
Ma capita anche che un gruppo di lavoratori, al centro di una vertenza a dir poco anomala, come quella della Fiat dello stabilimento campano, si ritrovi in chiesa a pregare. A chiamarli a raccolta con una messa dedicata a loro è stato ieri don Peppino Gambardella, parroco della chiesa san Felice in Pincis, che in più di un’occasione si è schierato a fianco dei lavoratori.
A lui l’omelia, mentre alcuni operai si sono alternati all’altare per leggere brani e salmi domenicali. «Preghiamo perché venga riconosciuto a tutti il diritto al lavoro senza pericolose distinzioni» aveva detto qualche giorno fa il vescovo di Nola Beniamino Depalma: una lavoratrice di Fabbrica Italia lo ha ripetuto leggendolo ai colleghi della Fiom e di altre sigle e a quelli rimasti fuori ancora fuori dalle assunzioni della newco.
Così, mentre la leader della Cgil Susanna Camusso chiama in causa il governo rilanciando il tema determinante della rappresentanza sindacale da regolare se si vogliono evitare altre Pomigliano, in chiesa si prega «affinché si abbia il coraggio di intraprendere la via del dialogo intersindacale ha letto la giovane operaia della Fip, Genny Piccolo convinti, come cristiani, che l'unica via per risolvere i problemi sia il dialogo. Non ci si può parlare da lontano senza guardarsi negli occhi».
L'omelia di don Peppino è stata quasi del tutto dedicata agli operai della Fiat, alle loro problematiche, ed agli appelli a Marchionne ed al Lingotto a trovare «soluzioni solidali». «Alcuni di questi operai ha poi spiegato don Peppino dopo la messa frequentano la parrocchia, altri sono volti nuovi. Ma la nostra comunità cristiana ha voluto unirsi nella preghiera per questi operai che vivono un momento così difficile». «Noi come Chiesa continua lanciamo una proposta evangelica: si attuino i contratti di solidarietà».
Di quei contratti, come di altri strumenti che sono a disposizione per dare una soluzione alla vertenza si continuerà a parlare in questi giorni. Oggi le sigle firmatarie degli accordi incontreranno l’azienda per discutere del contratto. Alla vigilia il leader Fim-Cisl Giuseppe Farina chiarisce la posizione del suo sindacato: «Su Pomigliano, non v'è nessuna trattativa da fare, né lodi da emettere, ci sono solo decisioni sindacali responsabili da assumere: la Fiat faccia un passo indietro e ritiri la procedura di mobilità, la Fiom faccia un passo avanti e firmi anche sull'accordo del 28 di giugno, gli accordi sindacali approvati dalla maggioranza delle Rsu e dei lavoratori dello stabilimento Fiat di Pomigliano», dice. Un doppio passo indietro, dunque. E seppure senza nominarlo replica al segretario Fiom, Maurizio Landini che in un’intervista all’Unità aveva chiesto a a Fia di fermarsi e aprire una nuova trattativa. «La trattativa è già stata fatta nell'accordo del giugno 2010, quello che ha permesso 800 milioni d'investimento». Il risultato, spiega Farina, «è stato il rientro al lavoro di oltre 2000 lavoratori con previsione del graduale rientro di tutti, e quindi anche di quelli iscritti alla Fiom». Che finora, però, sono rimasti fuori.

Repubblica 5.11.12
La politica e la nemesi tv
di Ilvo Diamanti


“Homo videns”, come lo ha definito Giovanni Sartori. Un po’ per noia e un po’ per disgusto. Un po’ perché la nuova classe di governo — Monti in testa – appariva poco spettacolare. E, piuttosto, grigia.
Invece, da qualche tempo, il vento sembra di nuovo cambiato. Gli ascolti dei programmi tele-politici sono in ripresa. Ma, soprattutto, la tivù sembra tornata ai fasti e ai nefasti di vent’anni fa. Nella stagione di Tangentopoli, mentre Berlusconi si apprestava a scendere in campo. Quando la televisione divenne “teatro della rivoluzione”. Dove Gad Lerner metteva il scena il Profondo Nord, direttamente “nella tana della Lega”. Dove Gianfranco Funari dava volto e voce – con assoluta naturalezza – alla gente con tre ggg, indignata contro i politici. Vent’anni dopo, la tivù torna a contare. Ma a pagarne il prezzo sono, per primi, i protagonisti di vent’anni fa. E degli ultimi vent’anni. La Lega: sfinita dalla saga familiare di Bossi. Dagli scandali che non le vengono perdonati – e fanno notizia – proprio perché in passato Bossi e la Lega hanno interpretato il ruolo dei Grandi Censori. Ma la tv, in questi giorni, ha sanzionato il declino dei protagonisti della Seconda Repubblica. Per primo, Silvio Berlusconi. Che ha dettato le regole e i format della politica e dei suoi attori. Per quasi vent’anni. Il Cavaliere. Ha cominciato la sua avventura il 26 gennaio 1994, con un video nel quale annunciava la sua “discesa in campo”. Ma dopo la conferenza stampa del 27 novembre è difficile non considerare il suo tempo scaduto. Anche se annunciava il contrario. La sua ri-discesa in campo. Pochi giorni dopo avere annunciato l’intenzione di “tirarsi indietro”. Più delle parole, è l’immagine a tradire Berlusconi. Sugli schermi tutti hanno visto un vecchio. Incapace di invecchiare. Di accettare i segni dell’età. Di affrontare il declino – fisico – con dignità. Una nemesi che ha colpito anche il suo “nemico” di sempre. Antonio Di Pietro. Protagonista delle inchieste e dei processi di Mani Pulite. Una sorta di rito purificatore, celebrato di fronte al popolo riunito. Davanti alla televisione. Impossibile immaginare Tangentopoli senza le immagini in diretta dei processi ai politici della Prima Repubblica.
Antonio Di Pietro e i magistrati divennero, allora, gli eroi popolari del cambio d’epoca e di sistema. Dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico. Di cui Silvio Berlusconi diviene presto il regista e il protagonista assoluto.
La carriera di Antonio Di Pietro, però, oggi appare in crisi. Compromessa dall’inchiesta di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli, che una settimana fa ha scavato nei conti del suo partito, descrivendolo come una sorta di azienda familiare. Di Pietro. Colpito dalla satira di Maurizio Crozza, nel programma trasmesso su La 7. Con effetti ancor più deleteri. Perché oggi, per la carriera di un politico, Crozza conta più di Vespa, Floris e Santoro. Non a caso Di Pietro ha reagito soprattutto dopo il ritratto velenoso di Crozza. Ha parlato di killeraggio. Fornendo una versione dei fatti in contrasto con quella di Report. Con scarsi risultati, visto che, nelle stime elettorali, l’Idv è scesa al di sotto del 5%. Mentre, per livello di impopolarità, Di Pietro affianca Silvio Berlusconi. I nemici di sempre sono finiti in fondo alla scala. Dell’opinione pubblica. L’importanza della tivù, nella politica attuale, è confermata dalle strategie di comunicazione di Beppe Grillo. Anche se di segno contrario. Egli è, infatti, implacabile nel sanzionare ogni apparizione televisiva degli esponenti del M5S. Da ultima, la partecipazione a Ballarò di Federica Salsi, consigliera comunale di Bologna. Per Grillo, la presenza nei talk show televisivi è “il punto G”. Che genera piacere a chi vi appare. Ma, al tempo stesso, ne logora l’immagine. E, insieme, mina la credibilità delle forze politiche a cui fanno riferimento gli ospiti televisivi.
Le valutazioni – e le imposizioni – di Grillo, sono significative. Perché Grillo è un esperto di media. Ha frequentato la tv per quasi vent’anni. Ne è stato un personaggio di successo. Poi ha calcato le arene e i teatritenda.
Infine, ha sperimentato il potere dei new media. Ne ha fatto un modello alternativo di partecipazione politica. Alla base del suo MoVimento. La rete, il blog, i Meet up: hanno permesso al M5S di sottrarsi ai condizionamenti – politici ed economici – dei media tradizionali. E permettono a Grillo di controllare, a sua volta, gli eletti del MoVimento. Di cui “possiede” il marchio. Nel M5S, d’altronde, la consegna del silenzio è accuratamente rispettata. Nessun militante si reca nei Talk dei media nazionali. Salvo eccezioni, prontamente sanzionate dal leader. Che è l’unico ad apparire – nei video ripresi dal suo blog o registrati nelle sue tournées “politiche”. D’altronde, ci pensano i talk e i tg (per primo, quello di Mentana su La 7) a inseguire Grillo e il M5S, garantendogli grande visibilità (come mostrano i dati dell’Osservatorio di Pavia).
Tuttavia, l’indicazione di Grillo circa gli effetti politici della televisione è significativa e fondata. Apparire in tv, nei talk show, in tempi di delegittimazione dei partiti e dei loro leader, significa venire associati ad essi. Assimilati nello stesso clima antipolitico del tempo. Come, vent’anni fa, la Lega. Esclusa dai media. Eppure aveva successo. Proprio per questo. Perché i media e la tv erano identificati con i partiti tradizionali.
Il che suggerisce l’analogia di questa fase con il cambio d’epoca di vent’anni fa. Ora, come allora, andare in tv delegittima, invece di legittimare. Rende impopolari, piuttosto che popolari. Con la differenza, decisiva, che oggi la televisione conta molto più di allora. Vent’anni di democrazia del pubblico guidata da Berlusconi non sono passati invano. Così, oggi la televisione fa molto più male alla politica e ai politici. Anche perché, in tempi di antipolitica, li ha inseriti in format di infotainment e politainment. Naturaliter anti-politici. E perché i politici e i partiti, negli ultimi vent’anni, hanno abbandonato la società e il territorio per trasferirsi lì. Nei salotti e nei talk show. A recitar la parte dei cattivi. In alternativa e, più spesso, insieme ai casi turpi di giornata. Tra un delitto irrisolto, un’aggressione e uno scandalo sessuale.

l’Unità 5.11.12
Per la ricerca sono finiti i soldi E l’Italia arranca
Nel 2011 i fondi destinati al settore sono scesi dell’1,6 per cento
Disattesi gli obiettivi di Lisbona
di Carlo Buttaroni

presidente Tecnè

Già nel 1945, Vannerer Bush, fondatore della National Science Foundation, aveva previsto che per molti decenni a venire la scienza avrebbe rappresentato la base dello sviluppo economico, e affermava anche che la vera sfida dei Paesi avanzati fosse proprio la continua esplorazione di questa frontiera. E proprio l’Italia, Paese che necessita di grande spinta innovatrice per recuperare, dopo la crisi, un ritardo preesistente a essa in termini di competitività e crescita, rappresenta la Cenerentola d’Europa e in generale dei Paesi sviluppati. L’Italia, infatti, investe in ricerca l’1,3% del Pil, molto meno di Francia e Spagna, Repubblica Ceca, Irlanda, Australia e Cina. La Germania e gli Stati Uniti spendono più del doppio; il Giappone, la Finlandia e la Svezia più del triplo. Se a questo sommiamo la nostra incapacità ad affrontare i cambiamenti indotti dalla crisi economica e la debole crescita, il risultato è che stiamo accumulando un ritardo via via crescente. Un quadro, quindi, in costante peggioramento.
È ovvio che non tutti i Paesi sono egualmente capaci di sfruttare la crisi in chiave di forte discontinuità, ma l’alternativa, per Paesi come l’Italia, non può comunque essere quella di rimanere fermi o addirittura sacrificare ulteriormente i già ridotti investimenti nell’ambito della ricerca e sviluppo. Eppure i numeri dimostrano come, nel nostro caso, si stia procedendo proprio in questo senso. Nel 2011, gli investimenti sono crollati a -1,6% rispetto all’anno precedente, a causa dei tagli nel settore pubblico, delle università e delle imprese. La spesa media in ricerca e sviluppo nel triennio 2009-2011 è stata pari a 19,3 miliardi di euro, con oltre metà degli investimenti effettuati delle imprese (52,9% del totale nazionale), e la parte restante sostenuta dall’università (30,3%), dalle istituzioni pubbliche (13,4%) e dal settore non profit (3,4%).
QUADRO DESOLANTE
L’elemento più rilevante in questo quadro è che, rispetto alla media europea e agli obiettivi di Lisbona (3% del Pil destinato alla ricerca), la quota di partecipazione agli sforzi è sbilanciata. Se gli indirizzi europei richiedono che i due terzi della spesa in ricerca deve arrivare dagli investimenti del settore privato e solo un terzo dal pubblico, in Italia si nota come il settore privato, invece, contribuisca molto poco. I motivi sono sostanzialmente due. Il primo è rappresentato dalla ragnatela di piccole e medie imprese che caratterizza il tessuto imprenditoriale italiano e che associa al concetto di ricerca quello di alto rischio e di non  rientro dell’investimento. Il secondo motivo è che, con la privatizzazione del sistema delle imprese a partecipazione statale, la logica di mercato fondata sul breve termine e sulla liquidità immediata ha ridimensionato drasticamente gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Un calo che ha portato, a cascata, una drastica diminuzione del personale impegnato, alimentando così la migrazione dei cervelli: oltre il 7% dei dottori di ricerca si è già trasferito all’estero. Non solo s’investe poco, ma soprattutto si investe male. Mancano una strategia di sistema e obiettivi chiari. Forse occorre chiedersi che cosa significhi, oggi, fare ricerca nel nostro Paese. Perché se la ricerca ha, innanzitutto, l’obiettivo di costruire un patrimonio crescente di conoscenze da trasferire al sistema in modo da renderlo competitivo, questo non può avvenire senza armonizzare e rendere efficiente il rapporto tra investimenti ed effetti delle attività stesse di ricerca. Non è automatico, infatti, che la ricerca generi innovazione e che quest’ultima, a sua volta, generi competitività. Tale risultato si ottiene solo con una strategia complessiva, dove l’equazione del successo è data da ricerca, innovazione e competitività che crescono in equilibrio con i bisogni individuali e collettivi del Paese. È impensabile prescindere da una logica d’insieme. Il trasferimento delle conoscenze non può essere ricondotto semplicemente a un modello teorico sequenziale, che vede il primo passo nella ricerca di base, cui fanno seguito l’ingegnerizzazione e, infine, le applicazioni. II processo d’innovazione che oggi è richiesto è molto più articolato e richiede un costante dialogo fra il mondo della ricerca e le imprese, in primo luogo facilitando la nascita di programmi concertati con i futuri utilizzatori della ricerca stessa. Perché nel momento in cui la ricerca è fatta insieme a tutti gli attori, nasce già “trasferita”. Vanno, quindi, risolti tutti quei difetti strutturali che ostacolano le opportunità di costruire un sistema di ricerca e sviluppo: frammentazione, dispersione, sproporzione e isolamento. Tutto ciò con una visione politico-strategica che ha come obiettivo i mercati e lo sviluppo del Paese. Un approccio che porterebbe a programmare l’attività per commesse strategiche, con una netta distinzione fra il ruolo di committente (la domanda del mercato) e quello di esecutore (l’offerta del mercato).FACILITARE L’ACCESSO ALL’INNOVAZIONE
Il sistema deve essere ovviamente tarato sulle esigenze delle aziende e dei settori: non ha senso, infatti, prevedere che tutte le piccole imprese debbano impegnarsi direttamente nella ricerca. Se è vero che l’innovazione non è solo tecnologica, ma anche organizzativa, di mercato, di comunicazione, finanziaria e così via, è parimenti vero che le tecnologie favoriscono anche questi settori.
La questione è, quindi, legata anche al tema di come rendere disponibili alle imprese i ritrovati, le conoscenze, i processi che esse non conoscono o rispetto ai quali hanno difficoltà di accesso. Se si creano le condizioni per uno sviluppo competitivo reale, ecco che, tramite iniezioni di tecnologia, si valorizzano tutti quei settori produttivi in cui il marchio made in Italy è sinonimo di tradizione, unita a qualità e originalità. Una tradizione importante come quella rappresentata dai distretti industriali di un tempo, oggi va ripresa e trasformata in una dimensione di distretti tecnologici. Ciò significa non solo nuova tecnologia, ma il superamento della distinzione fra “settori tradizionali” e “settori innovativi”. Non è ragionevole immaginare un’Italia che fa soltanto hi-tech, né un’Italia che non lo faccia per niente. L’obiettivo deve essere un Paese che investe con il duplice scopo di presidiare i settori tradizionali e di generare conoscenze che mantengano competitivi i settori più avanzati del nostro sistema produttivo. Fare sistema significa puntare sulla costruzione di una rete tra settori produttivi e competenze scientifiche, in grado di rendere l’Italia competitiva in sede internazionale. Il tema della ricerca è centrale, incrocia il futuro e ha bisogno, per dare i suoi frutti, di tempi più lunghi di una legislatura o della durata di un governo.

Repubblica 5.11.12
Migranti, in mare una strage di donne
Sono 8 tra gli 11 cadaveri recuperati finora dalla Guardia costiera di Lampedusa
di Fabrizio Lentini


PALERMO — L’ultimo cadavere è stato ripescato dai marinai italiani quando il sole stava già tramontando, di fronte alle coste libiche. Era un’altra donna. Un’altra donna dalla pelle nera. Somala, quasi certamente, come tutte le vittime dell’ultima tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo. Una strage di donne. Perché degli undici corpi finora recuperati dalla Guardia costiera di Lampedusa, otto sono di ragazze africane che tentavano di raggiungere l’Italia e hanno perso la vita nel naufragio del gommone di dieci metri con le fiancate sgonfie sul quale erano stipate assieme a un altro centinaio di disperati.
Resteranno undici le nuove croci nel cimitero di Lampedusa, dove i cadaveri sono arrivati ieri sulla stessa nave della Marina italiana che ha sbarcato i settanta superstiti: 62 uomini e otto donne, una delle quali incinta. I soccorsi infatti sono stati sospesi quando si è fatto buio e non c’erano più speranze di trovare vivo qualcuno dei naufraghi. Gli altri morti sono stati sepolti dal mare: una trentina, se è vero quanto raccontano i testimoni, e cioè che su quella carretta colata a picco a 35 miglia dalla Libia viaggiavano 115 persone. Reduci dalla lunga marcia nel deserto e nella fame che li aveva portati dal Corno d’Africa al Magreb.
Le due motovedette hanno fatto rientro a Lampedusa, dopo la corsa di sette ore e 140 miglia seguita al primo allarme, giunto sabato mattina con un telefono satellitare alla Capitaneria di Palermo. Silenzio dalle autorità libiche, apporto minimo da quelle maltesi che hanno inviato solo un aereo di ricognizione. Un’inerzia che ha irritato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, il quale sottolinea «l’assoluta necessità di rafforzare la collaborazione tra tutti i Paesi coinvolti». E che ha spinto Angela Maraventano, l’ex vicesindaco di Lampedusa oggi senatrice della Lega Nord, a chiedere alla Farnesina di richiamare l’ambasciatore a Tripoli.
Quel che è certo è che senza l’intervento italiano questa ennesima tragedia del mare avrebbe assunto dimensioni apocalittiche. «Un intervento di straordinario valore», dice Laura Boldrini, portavoce dell’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Una giornata drammatica, per gli uomini della Guardia costiera. Una giornata particolare, per il neogovernatore siciliano Rosario Crocetta che, giunto a Lampedusa per un weekend di riposo dopo lo stress della campagna elettorale, ha dovuto invece accogliere in porto uomini distrutti e donne in lacrime. «È stato — racconta — un confronto con il dolore di un intero popolo, quello somalo, costretto a fuggire da una dittatura terribile e dalla miseria».
Dopo l’abbraccio al presidente della Regione, i settanta naufraghi hanno raggiunto i trecento migranti già stipati nel centro di accoglienza dell’isola. Un’avanguardia di disperati che annuncia altre ondate di sbarchi e di polemiche. Proprio mentre i somali trovavano un tetto provvisorio, diciassette pakistani, tutti uomini, venivano tratti in salvo, al largo della Puglia, dalla Guardia costiera di Santa Maria di Leuca e di Otranto. Due drammi paralleli, avvisaglie di una nuova prevedibile emergenza.

Repubblica 5.11.12
Gianluca Falanga e il suo saggio sull’organizzazione dei servizi segreti della Germania dell’Est
Il popolo delle spie
L’esercito di volontari al servizio della Stasi
di Simonetta Fiori


“Hai tempo per me? ”, chiede l’uomo sfilandosi dal taschino una carta da gioco, un jack tagliato a metà. “Per te sempre”, risponde la donna, provvista dell’altra metà. Siamo a Francoforte, al numero 31 della Karl Marx Strasse. Non è un incontro galante un po’ retro né la scena di un film, ma una cerimonia che fino agli anni Ottanta del Novecento si è ripetuta infinite volte in un anonimo appartamentino nel cuore della città, una delle tante location della delazione quotidiana al servizio della Stasi. L’azienda “Origlia & Spia” del generale Mielke ne contava decine di migliaia per tutta la Germania dell’Est. Così come oltre mezzo milione erano gli “IM” (Inoffizielle Mitarbeiter), “collaboratori non ufficiali” reclutati in ogni angolo della società. E centinaia di migliaia i funzionarisoldati impiegati nella “Gestapo rossa”. E ancor più numerose le vittime del più grande e impenetrabile servizio di sicurezza che la storia abbia mai conosciuto. Una polizia segreta che ha operato per quattro decenni e non ha eguali nel mondo sia per densità (una spia ogni 59 persone, così nell’89) che per invasività nelle “vite degli altri”. La meticolosa mappatura di Gianluca Falanga ne Il ministero della paranoia (Carocci) sottrae lo splendido film di von Donnersmarck dal regno dell’invenzione per ricondurlo a un ruolo quasi documentale. «Anzi, quel film era anche troppo ottimista», dice Falanga, 35 anni, autore di saggi storici ( Non si può dividere il cielo. Storie dal Muro di Berlino) e collaboratore del museo della Stasi allestito oggi a Berlino nelle stanze abitate un tempo dal famigerato Mielke. «Ci siamo tutti commossi dinanzi al pentimento del capitano della Stasi ne Le vite degli altri, ma tra gli anni Settanta e Ottanta i casi di ravvedimento sono stati pochi. Si trattava di una falange molto omogenea anche sul piano dell’ideologia». Nutrito dalla produzione storiografica tedesca più aggiornata e da originali ricerche d’archivio, Il ministero della paranoia è la prima monografia italiana su quella che è stata definita una sorta di «Auschwitz delle coscienze». Un Grande Fratello comunista che ha sconvolto l’esistenza di molti e con cui la Germania fatica a fare i conti. Il libro fa luce su molti episodi rimossi, e anche su fenomeni poco conosciuti come la vendita dei prigionieri politici attraverso il muro: tra il 1964 e il 1989 il governo federale ha acquistato la libertà di 33.755 detenuti, con odiosi preziari fissati in base all’età e alla professione. «Quello della Stasi è un problema ancora aperto», sostiene Falanga, che da oltre dieci anni vive a Berlino. «La maggior parte di ex ufficiali e collaboratori è caduta in piedi, gode di una buona pensione e ha conservato un’estesa rete di rapporti. E le vittime, cosa hanno avuto in cambio? Aspettano un risarcimento che tarda ad arrivare. E alle spalle si lasciano famiglie sfasciate e vite professionali spezzate».
Lei ha potuto accedere alla documentazione?
«È ormai aperto al pubblico quasi il 90 per cento di una mole impressionante di
materiali: oltre 180 chilometri di carte, quasi tre milioni di foto e diapositive, e circa 5.000 videocassette, in sostanza l’immagine più efficace di un popolo sotto sorveglianza di un potere paranoico. Ma il problema è che molti nomi rimangono decrittati. Probabilmente si vogliono coprire ancora alcune vicende, specie quelle che coinvolgono la Germania occidentale, principale obiettivo nella lotta con l’Occidente».
Gli storici la considerano un caso unico nel panorama dei servizi segreti.
«Sì, ufficiali e informatori della Stasi formarono un esercito invisibile capace di manipolare, intimorire e reprimere un’intera collettività, oltre che di occupare la prima linea nella guerra fredda: i suoi tentacoli si spinsero fino all’ufficio del cancelliere Brandt, nel quartier generale della Nato e nelle stanze vaticane durante il pontificato di Wojtyla. E quel che gli archivi ci mostrano è spaventoso. Accreditandosi come leader di un paese aperto al mondo, Honecker aveva necessità di nascondere la violenza del regime. Da qui la sapiente pratica di un “terrorismo discreto”, affidato a una malvagità psicologica più che muscolare. Dagli anni Settanta in poi, non potendo far male con il carcere, si cercava di colpire i dissidenti in altro modo».
Con la “decomposizione delle anime”, come la definì Jürgen Fuchs.
«Arrivavano perfino a farne materia di insegnamento. Nell’accademia segreta riservata solo ai quadri - la JHS, una Scuola superiore di giurisprudenza - esisteva un corso di “psicologia operativa” che ti insegnava cosa fare per distruggere un sentimento di fiducia o un amore. E anche come sollecitare tensioni dentro un gruppo o condurre una persona a dubitare di sé e delle proprie idee».
Colpisce che la Stasi avesse una sua propria università.
«Sì, la seconda generazione di spie fu generalmente più istruita rispetto a quella dei padri, da cui in molti ereditarono il mestiere. Ma quella fornita dall’Università JHS non era una vera formazione culturale, piuttosto una serie di competenze tecniche declinate con modesto indottrinamento di tipo marxista-leninista. Con la sola eccezione della sezione addetta agli intellettuali. Alle spie degli scrittori si insegnava a parlare con proprietà, perché non venissero scoperte. Ma si trattava di pura retorica».
Al ceto colto si attribuiva un ruolo fondamentale: fa riflettere che il numero più alto di IM, collaboratori non ufficiali, siano stati reclutati tra i maîtres-àpenser.
«Sì, per invidia e rivalità, per convenienza o per fedeltà ideologica. I nomi più noti sono quelli di Hermann Kant, presidente del Pen tedesco, e dello scrittore Rudolf Fries, mentre diverso è il caso di Christa Wolf: le sue testimonianze non furono rilasciate volontariamente ma “estorte” a sua insaputa da falsi amici. La delazione più eclatante fu quella di Sascha Anderson, artista di punta della scena alternativa: in cambio di denaro e protezione contribuì all’arresto e all’espulsione di molti suoi compagni di lotta».
La Stasi tentò di stroncare il cantautore dissidente Wolf Biermann.
«Sì, fu una delle prime vittime delle misure di “decomposizione”, ossia della procedura di annientamento personale. Un piano in venti punti che farà scuola presso gli altri servizi segreti. Un esempio? Pubblicazione di articoli diffamatori sui giornali occidentali in cui lo si sospetta di essere spia della Stasi. Furto di manoscritti e cancellazione di nastri. Presenza di contestatori ai concerti. Continue avances di attraenti ragazze minorenni. Insomma, un inferno. Però Biermann riuscì a resistere».
Andò peggio al calciatore Lutz Eigendorf, il “Beckenbauer della Ddr”.
«La sua fuga, nel marzo del 1979, fu per la Stasi un affronto intollerabile. Mielke escogitò un piano diabolico, inducendo la moglie di Lutz a chiedere il divorzio, per poi farla sposare a un suo agente segreto. Intanto Eigendorf rimane un sorvegliato speciale. Nell’83 finirà schiantato contro un albero. Nel 2010 un suo amico ex collaboratore della Stasi ha dichiarato davanti al tribunale di Dusseldorf di essere stato incaricato dell’omicidio».
Per molti tedeschi, dopo la caduta del Muro, il risveglio sarà molto doloroso.
«Sì, è stato inevitabile rivedere in altra luce i fallimenti della propria vita: la moglie che ti lascia, il capufficio che ti annienta, il figlio che ti si rivolta contro. Dietro c’era l’artiglio di Mielke, una lama sottile che entra nell’intimo dei rapporti. Penso a Vera Lengsfeld, un’ambientalista che capeggiò la rivolta nell’89. Fu tra le prime ad accedere alla documentazione, nel gennaio del 1992: scoprì che il marito Knud Wollenberger era stato un IM della Stasi, e aveva fatto delazione proprio su Vera. Come lei, tanti altri: oggi le domande per visionare i documenti ammontano a oltre sei milioni e cinquecentomila».
Una ferita aperta. Perché?
«La Germania continua a fare i conti con il Novecento, le sue due tragiche dittature. La domanda che ricorre è: ma le vittime del comunismo sono eguali a quelle del nazismo? Finora non sono state onorate nello stesso modo. Probabilmente occorrerà del tempo, ma l’impressione è che sopravvivano moltissime resistenze».

l’Unità 5.11.12
Siria, il caso delle armi ai ribelli
«Trent’anni fa per fermare l’Urss vennero armate milizie islamiche afghane. Oggi l’errore si ripete a Damasco»
di Pino Arlacchi


Quanto accade oggi in Siria sembra contraddire il detto che la storia non si ripete se non sotto forma di farsa. Un'originaria tragedia accaduta in Afghanistan trent’anni fa si sta ripetendo sotto forma di una tragedia ancora più grande. Sappiamo infatti da fonti ben informate che la maggior parte delle armi inviate in Siria dagli Usa e dai loro alleati allo scopo di rovesciare il regime di Bashar Assad stanno finendo nelle mani di estremisti islamici del tutto simili ai mujaheddin afghani degli anni ’80. Come andarono allora le cose?
L’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan nel 1979 installandovi un governo amico ed alterando gli equilibri della Guerra fredda nella regione. Gli Stati Uniti, l’Arabia saudita ed altri paesi decisero allora di finanziare ed armare le milizie afghane anticomuniste. Usando il Pakistan come intermediario, Usa e alleati si trovarono a dover distribuire armi di ogni genere ad un variopinto arco di «combattenti per la libertà». Una buona metà di queste milizie erano composte da quelli che oggi chiamiamo «jihadisti islamici». Tra questi c’era un ricco saudita, tal Bin Laden, che andò emergendo prima come finanziatore e poi come capo militare.
L’Afghanistan fu inondato di armi leggere, e infine anche dai micidiali missili antiaerei Stinger, che buttarono giù un bel numero di elicotteri d’attacco russi. Il governo di Najibullah non aveva fatto quasi in tempo a cadere nel 1992, tre anni dopo il ritiro dell’Urss, che i combattenti della libertà si erano già divisi tra loro ed avevano iniziato una nuova guerra civile tra i Talebani, sostenuti dagli Usa e dal Pakistan da un lato, e l’Alleanza del Nord, armata dalla Russia, dall’Iran e da altri sul versante opposto.
I Talebani entrarono a Kabul nel 1996 e governarono l’Afghanistan fino a poco dopo l’11 settembre 2001, quando gli americani divenuti nel frattempo loro nemici invasero il paese per punirli della loro ospitalità a Bin Laden. Ma le armi in mano oggi ai talebani ed agli altri gruppi che combattono contro gli Usa sono ancora in larga parte quelle donate loro dalla Cia trenta anni prima. E lo stesso vale per il training di guerriglia, gli esplosivi, e per alcuni personaggi come Gulbuddin Hekmatyar, spietato combattente antisovietico ieri, efferato macellaio anti-americano oggi. Perfino i missili Stinger sono ancora lì, e li ho visti anche nelle mani dei trafficanti di droga che operano sul confine con l’Iran.
Adesso che gli Usa si ritirano sconfitti dall’Afghanistan e la sagoma di un take over talebano si staglia di nuovo all’orizzonte, è amara la lezione da trarre. L’intervento dall’esterno in una guerra civile o in una occupazione militare armando milizie locali non è mai risolutivo perché non raggiunge l’obiettivo voluto ma sposta solo lo scontro su una nuova scala. Più sanguinosa, più ardua da affrontare in seguito con i mezzi della diplomazia e della politica.
Nella Siria di oggi come in Afghanistan tre decenni fa, è illusorio pensare che gli Stati Uniti, l’Europa o qualunque altro soggetto esterno siano in grado di controllare il destinatario finale delle armi. L’opposizione siriana è ancora più disorganizzata e divisa del fronte dei mujaheddin afghani. I suoi gruppi più forti militarmente sono proprio quelli composti da fondamentalisti islamici, e si sono distinti finora per un grado di crudeltà e di disprezzo per la sicurezza dei civili non dissimile da quello dei soldati di Assad.
Le operazioni clandestine di rifornimento di armi ai ribelli siriani, inoltre, non vengono effettuate direttamente, ma tramite intermediari. Il ruolo giocato dal Pakistan nel caso dell’Afghanistan viene qui svolto dai Sauditi e dal Qatar, soggetti che è improbabile si preoccupino di escludere gli islamisti più radicali. Non c’è da sorprendersi se in Siria, come in Afghanistan, siano proprio le fazioni più estreme che si dimostrano le più valide sul campo di battaglia. Anche per effetto dell’opzione occidentale verso la militarizzazione de conflitto, ciò che era iniziato come una tappa della primavera araba e come un pacifico processo di cambiamento politico è degenerato in una brutale guerra civile. Una guerra che consiste di scontri feroci, dove i più feroci tra i gruppi di opposizione finiscono naturalmente col prendere il sopravvento.
Armare l’opposizione siriana contro un regime militarmente molto forte e relativamente coeso, appoggiato da gruppi significativi della popolazione, significa ridurre drasticamente le chances di un «soft landing» se e quando Assad cadrà. Significa spaventare sempre più quei siriani che sostengono il regime solo perché temono la prosecuzione delle violenze su larga scala. Se Assad crolla, è da sciocchi aspettarsi che l’opposizione armata accetti la smobilitazione. Essa tenterà di consolidare la propria posizione a costo di spaccarsi e iniziare un nuovo ciclo di violenze settarie, ed anche a costo di rivoltarsi contro i suoi sponsor. Come in Afghanistan, appunto.

Repubblica 5.11.12
Mosca, la foto dell’orrore fa tremare Putin
Uno scatto clandestino svela l’inferno delle carceri e riapre il caso Magnitskij
di Nicola Lombardozzi


MOSCA — L’orrore in una foto. Un’immagine che sembra uscita dagli agghiaccianti documenti dei lager nazisti o dei gulag staliniani della Kolyma. Detenuti ammassati come bestie in una cella piccola e sporca. Ma quello che inquieta di più sono la data e il luogo dello scatto: estate 2009, carcere di Butyrskaja nel centro di Mosca. La foto, pubblicata, ieri dal britannico Daily Mail è un colpo gravissimo per l’immagine internazionale del governo russo, e rende sempre più tetra la vicenda del cosiddetto caso Magnitskij, un giovane avvocato russo morto misteriosamente in cella subito dopo le sue denunce della macchina della corruzione che dal colosso energetico Gazprom passa per gli uomini più importanti del sistema fino al presidente Putin in persona. Prima di morire nel carcere più moderno di Matriosskaja Tshima, Magnitskij ha passato mesi nell’inferno descritto dalla foto. Un’immagine di repertorio dunque quella pubblicata dal Daily Mail, presa da uno dei tanti reportage di denuncia fatti negli anni scorsi. Ma che calza perfettamente con le nuove rivelazioni sulla detenzione di Magnitstkij pubblicate in un articolo del suo datore di lavoro, Bill Browder: «Magnitskij fu costretto come gli altri detenuti a mangiare cibo avariato, con larve di scarafaggio dentro alle scodelle di metallo. Poi veniva regolarmente picchiato e torturato».
Foto e articolo scuotono l’opinione pubblica occidentale e feriscono il Cremlino in giorni in cui il “caso Magnitskij” sta creando seri problemi ai rapporti internazionali di Mosca. Il governo russo ha accettato proprio l’altro ieri di avviare un’inchiesta sulla morte del detenuto come imposto dal Consiglio d’Europa, ma in pochi credono che il mistero possa essere definitivamente svelato dalle autorità russe. Se non altro perchè le fonti ufficiali continuano a parlare di morte naturale ammettendo, al massimo, una certa trascuratezza e qualche errore di valutazione da parte dello staff sanitario carcerario. Intanto Stati Uniti e Gran Bretagna continuano le pressioni sulla Ue per ufficializzare cosiddetta la “Magnitskij List”, un elenco di 60 tra funzionari e manager di Stato russi a cui vietare l’accesso in Europa e in America.
Il caso è noto. Comincia con l’arresto dell’avvocato Magnitskij nella sede russa della sua compagnia, la anglo-americana Hermitage Capital Management. L’accusa è di frode fiscale. La compagnia che lavorava come partner di Gazprom aveva da tempo cominciato a raccogliere dossier su episodi di corruzione che vedevano in primo piano personaggi di altissimo livello. L’arresto di Magnitskij scatena uno scambio di accuse incrociate. L’avvocato è imputato ma diventa un testimone chiave per svelare le magagne di Gazprom e dei suoi potentissimi dirigenti. Dopo la morte di Magnitiskij, Biull Browder, ammini-stratore delegato di Hermitage, trasloca da Mosca a Londra. E co-
mincia a denunciare quello che secondo lui è stato un omicidio premeditato ordinato dall’alto.
Da allora a oggi il clamore delle accuse ha più volte messo in imbarazzo il Cremlino. Accertato che Magnitskij soffriva di gravi problemi gastrici, è ormai certo che i medici del carcere non hanno fatto molto per aiutarlo. Dopo mesi di sdegnato disinteresse il Cremlino ha deciso di avviare un’inchiesta che comunque si incentra sui medici e sul direttore del carcere che non avrebbero colto lo stato di debolezza e di prostrazione del detenuto. Ma Bill Browder insiste sull’omicidio premeditato. E ieri, dopo la notizia dell’avvio di un’indagine della Procura di Mosca ha voluto riaprire la questione con la massima forza. Ha elencato le sofferenze di Magnitiskij già note da tempo. Ma la scelta della foto dell’orrore ha fatto molto di più. Scatenando reazioni indignate su internet e raccontando il caso Magnitskij anche ai più distratti.

Corriere 5.11.12
Una polizza per la «dolce morte», la frontiera estrema dell’etica
di Luigi Offeddu


Per prima nel mondo, come essa stessa garantisce, la compagnia di assicurazioni olandese Menzis offre da tempo sconti e deduzioni a chi pratica una vita sana, non fuma o fa sport.
Ma, dall'altro ieri, offre anche le polizze della dolce morte, o qualcosa di simile: pagherà ai suoi assicurati che ne abbiano diritto i costi della «Clinica della fine della vita», a L'Aia. Là ci si rivolge per morire anche se il proprio medico è contrario, per chiedere una morte a domicilio grazie a una delle sei «squadre mobili», composte da un medico e da un'infermiera. C'è un impiegato in una stanza, ci si prenota e si attende. Da marzo, la clinica ha ricevuto 456 richieste di eutanasia, e ne ha esaudito 51. Oggi, ne riceve in media tre alla settimana. Il servizio non è gratuito, ovviamente: e per questo la Menzis, due milioni di assicurati, propone la sua offerta. Non senza discussioni fra i suoi dirigenti, però: il tema è delicato come in ogni altro Paese. E qui in Olanda, ancora di più. L'eutanasia è formalmente illegale, punibile con 12 anni di reclusione se nella decisione non interviene un'autorità medica. Ma da 10 anni è ammessa se i medici accertano una «sofferenza intollerabile» o «problemi psicologici senza speranza». La legge non impone espressamente che la malattia sia incurabile. Circa il 2,8% di tutti i decessi olandesi è attribuito alla «dolce morte».
Nella clinica dell'Aia le richieste più numerose non sono giustificate da tumori, ma da patologie che non minacciano direttamente la sopravvivenza. Il 10% dei pazienti dichiara di essere stanco della vita, il 30% denota problemi psichiatrici. Il 65% ha superato i 60 anni, ma un 20% non ha compiuto i 30.
Così la decisione ultima resta sui medici, e pesa: la legge, da sola, mette ordine nei codici ma non nei cuori. Sempre in Olanda, genitori e medici insieme possono decidere l'eutanasia per bambini o neonati senza speranze di vita. E i ragazzi fra i 12 e i 16 anni possono chiederla per sé, sempre in accordo con la famiglia e i sanitari. Dai 16-17 anni in su, vale il principio della responsabilità personale. Nessuna polizza lo copre.

Corriere 5.11.12
L'Europa non sopravvive se dimentica il suo orgoglio
Perché le nostre divisioni possono essere superate
di Sergio Romano


Negli anni Ottanta Fernand Braudel, storico del Mediterraneo all'epoca di Filippo II, disse che occorreva scrivere una storia d'Europa nello spirito della scuola di cui era il maggiore esponente (l'École des Annales) e invitò più volte a Parigi un piccolo gruppo di amici studiosi. So che Giuseppe Galasso non condivide la passione per la «lunga durata», diffida della «cultura materiale» e crede, a differenza di molti esponenti dell'École, che i grandi eventi politici e militari abbiano spesso, nel corso della storia, un'influenza determinante. Ma se avesse partecipato a quelle riunioni, avrebbe scoperto che i temi trattati erano in buona parte quelli a cui ha dedicato la sua vita di studioso; e il risultato dei suoi studi sarebbe stato ascoltato con molto interesse.
Ne ho avuto la conferma leggendo i saggi raccolti in un libro di Galasso intitolato Nell'Europa dei secoli d'oro. Aspetti, momenti e problemi dalle «guerre d'Italia» alla «Grande guerra» (pp. 432, 30), apparso ora presso l'editore Guida di Napoli. Il lettore non vi troverà la storia d'Europa dal Cinquecento ai nostri giorni, ma scoprirà molte delle ragioni che rendono questa penisola dell'Asia, come fu definita da Paul Valéry, alquanto diversa dagli altri continenti. Capirà perché i viaggi di Colombo siano stati un'altra cosa rispetto a quelli, molto di moda in questi ultimi decenni, dei vichinghi o dei cinesi. Capirà perché la pluralità delle autonomie abbia dato alla storia d'Europa caratteri non riscontrabili in altre società mondiali. Capirà che la diplomazia è nata in Europa ed è diventata il tessuto connettivo di un continente in cui gli Stati potevano farsi la guerra, ma anche sentirsi membra di uno stesso corpo, cugini (così si definivano i re nella loro corrispondenza) di una stessa famiglia. Scoprirà che dietro le molte lotte per l'egemonia continentale vi era implicitamente l'ambizioso desiderio di occupare un trono ideale appartenente alla loro comune memoria. Comprenderà quale sia stato il ruolo delle corti e dei salotti nel fissare le regole europee della convivenza civile, della gerarchia sociale, delle buone maniere, del gusto e dei costumi. Scoprirà che le guerre europee furono sempre, per molti aspetti, fratricide e non impedirono ai fratelli nemici di vivere collegialmente tutti i grandi movimenti culturali nati in Europa: il gotico, il barocco, l'umanesimo, il rinascimento, l'illuminismo, il romanticismo, il positivismo, il liberalismo, il socialismo, il fascismo, il comunismo, «tutti proiettati sullo sfondo europeo, anche se hanno avuto le loro radici o le loro massime e più caratteristiche espressioni in singoli Paesi europei».
La pluralità delle lingue (in maggior parte indoeuropee) non ha mai impedito la comunicazione tra i Paesi del continente e la loro capacità di trarre vantaggio dalle reciproche esperienze. Siamo europei perché siamo in grado di copiarci e imitarci. Vi sono stati momenti e discipline in cui una lingua è stata egemone e quindi particolarmente studiata: l'italiano per gli studi umanistici, le arti plastiche e la musica; il francese per la diplomazia e la comunicazione tra i dotti all'epoca dell'illuminismo; il tedesco per la scienza e la filosofia; l'inglese per il commercio e la finanza, più tardi la politica e la scienza. Tutte le maggiori lingue europee hanno prodotto grandi letterature, ma le loro opere hanno smesso di essere esclusivamente nazionali nel momento stesso in cui cominciavano a circolare, tradotte, negli altri Paesi del continente.
Non è mai esistito, dopo il crollo dell'Impero romano d'Occidente, uno Stato europeo esteso all'intero continente, ma vi sono state una République des lettres e una Société des esprits di cui ogni europeo poteva essere cittadino. Non è possibile scrivere la storia di una nazione senza intrecciarla con quella delle altre. Vale per le storie di Francia, Italia o Germania ciò che Machiavelli scrisse del proprio metodo di lavoro all'inizio delle sue Istorie fiorentine: se non avesse parlato delle cose notabili della penisola, la sua storia fiorentina «sarebbe stata meno intesa e meno grata», perché «dall'azione degli altri popoli e prìncipi italiani nascono il più delle volte le guerre, nelle quali i fiorentini sono d'intromettersi necessitati».
Il fattore che meglio spiega questa unità nella diversità e questa concordia nella discordia è l'importanza che la storiografia ha sempre avuto nella storia d'Europa. In un saggio su «Storicismo e identità europea» Galasso osserva che l'idea della storia e del metodo storico sono una invenzione europea, ereditata dalla tradizione greca e romana. La storia, per gli europei, è quindi la consapevolezza della propria esistenza, dei propri mutamenti nel tempo, del legame che unisce le generazioni, del modo in cui gli eventi formano una necessaria catena e possono essere compresi soltanto se studiati e compresi in una prospettiva cronologica. Esistiamo perché, a differenza di altri popoli, non abbiamo mai smesso di raccontare il nostro passato. La mentalità dell'europeo, quale che sia il Paese a cui appartiene, è una mentalità storica. La storia è il suo navigatore, lo sguardo dall'alto che gli ricorda continuamente la sua collocazione nel tempo. I libri di storia sono una sorta di autoritratto continuamente aggiornato alla luce delle nostre convinzioni ed esigenze.
È possibile che l'Europa stia scrivendo in questo momento i suoi ultimi capitoli? Galasso vede segnali inquietanti. L'idea che tutte le culture si equivalgano, una propensione all'auto-fustigazione e all'odio di sé, la continua criminalizzazione del suo passato sembrano annunciare la fine dell'orgoglio europeo. Ma vi è, nelle ultime pagine del libro, una nota di speranza. L'Europa attraversa oggi una crisi che è al tempo stesso economica e identitaria. Ma un filosofo e teologo tedesco citato da Galasso (Ernst Troeltsch) ha scritto: «Le grandi crisi storiche guariscono spesso, come la lancia di Odino, le ferite che hanno inferto». Tradotto in linguaggio contemporaneo, questo significa che dalla crisi dell'euro l'Europa potrebbe uscire più forte.

Repubblica 5.11.12
Dall’umanesimo al “rinuncianesimo”
Una replica dello scrittore all’intervento di Lodoli sulle difficoltà degli insegnanti
di Andrea Bajani


Ho il sospetto che sia tutto cominciato quando i genitori, gli zii e i nonni hanno cominciato a parlare di babysitteraggio per intendere il tempo da destinare ai loro stessi figli. Invece di “passare il tempo con”, di “prendersi cura di”, e dunque di mettere in gioco la genetica, gli affetti e quel po’ di cultura pedagogica che arriva dai libri e dalla vita, di colpo si è cominciato a indossare panni da professionisti a libro paga. Tutte le volte che ho sentito dire “oggi serata babysitter”, ho pensato con un po’ di sconforto a quel soggiorno dove tutto si sarebbe consumato, con i più piccoli a chiedere attenzioni e i più grandi a pensare a procedure. Soprattutto, dentro quella frase – pronunciata per lo più per osmosi culturale – non riesco a non vederci una sorta di scacco, quando non di resa: gli adulti che dichiarano che tutto quello che sapevano, che applicavano d’istinto, ormai non serve più. Perché il mondo è cambiato, e noi oggi stiamo nella nostra parte di soggiorno a guardare le schiene dei nostri ragazzi sciogliersi come pastiglie effervescenti nel computer. Stiamo nella nostra parte di aula, dietro la cattedra, di fronte a facce che ci guardano senza vederci, che ci trapassano infilzandoci al passato. La sindrome (e il dramma) dell’invisibilità degli insegnanti, di cui racconta Marco Lodoli nel suo intervento La fine dell’umanesimo, pubblicato su questo giornale il 31 ottobre scorso, in parte la conosco perché in parte la vivo. Conosco lo sconforto di alcuni insegnanti (non di tutti), gli sfoghi sugli occhi dei ragazzi come buchi neri in cui finiscono risucchiati anni di apprendistato e di esperienza al timone della classe. Lo conosco perché sono anni che lavoro con gli insegnanti e i ragazzi nelle scuole superiori, del centro e delle periferie. Entro nelle classi in maniera impropria, non come insegnante ma come scrittore. Faccio irruzione senza registro, il che semplifica e complica le cose al tempo stesso: spazza via la routine in nome dell’eccezionalità, e però contemporaneamente rende inservibile l’esercizio tradizionale dell’autorità di cui proprio il registro è da sempre mezzo e simbolo. Io ho come strumento unico il linguaggio. Sono le parole quelle di cui mi servo: le rovescio sulla cattedra e insieme costruiamo e disfiamo mondi, le montiamo, proviamo a vedere come suonano battute con i mezzi che abbiamo tra le mani. Proviamo a riabitarle quando sono state abbandonate, cerchiamo di sentirne la ricchezza, il potere, la violenza, ci chiniamo su di loro come ci si china sopra un mappamondo.
Lo scorso anno, per il Salone del Libro di Torino, abbiamo inventato parole nuove per indicare fenomeni che secondo loro non avevano ancora un nome. I ragazzi alzavano la mano, e mi proponevano temi e parole. Ce n’è stata una che mi ha colpito più di altre, proposta da una ragazza di un istituto professionale. Era la parola Rinuncianesimo, una religione del non fare, che dagli adulti ricadeva su di loro. Si trattava, cercava di spiegarmi, di una tendenza diffusa tra i grandi – e per conseguenza tra di loro – a pensare che nessuno sforzo li avrebbe tirati fuori da un presente paludoso. In quella parola proposta da una ragazza di 16 anni, nella parola Rinuncianesimo, c’era l’allarme di una generazione che agli adulti chiede di fare gli adulti. Di assumersi la responsabilità, e la fatica, di farlo. Di costruire, quando forse è più veloce buttare tutto a mare. Ci chiede di non liberarci di tutti gli strumenti con cui nel passato abbiamo provato a costruire il futuro – l’umanesimo, il marxismo, etc – ma di trovare un linguaggio per farli arrivare fino a loro. Troppo comodo buttare l’umanesimo. Poi decideranno loro come usarli, se considerarli buoni, vintage o soltanto vecchi. Perché forse, pensavo mentre leggevo l’articolo, hanno ancora bisogno di madri, padri e nonni, che facciano le madri i padri i nonni, e non di babysitter che li guardano perplessi. E hanno bisogno di insegnanti – e ce ne sono tantissimi, di questo tipo, per fortuna – che facciano quel che possono, con gli strumenti che hanno e quelli che s’inventano, per aprirgli una finestra sul futuro, e non di studentsitter, che girano per la classe guardandogli le spalle, e crogiolandosi nel loro dorato e inservibile passato.

Repubblica 5.11.12
L’eterno ritorno dei morti viventi
Perché le figure simbolo dell’horror sono di nuovo un fenomeno culturale da Halloween a film, libri e fumetti
Piacciono ai ragazzi: se davvero il mondo sta finendo, meglio essere pronti andando “oltre” i canoni
di Pierdomenico Baccalario

Dopo Halloween, Lucca Comics & Games, festival che si è chiuso ieri, nonché punto di vista privilegiato per capire dove si trovi, oggi, l’immaginario giovanile. Ebbene: fumetti, film, serial Tv e videogiochi sono invasi dagli zombie. Che giochiate con la WII-U a ZombiU, accendiate la televisione su Dead Set, andiate al cinema per vedere Resident Evil o Zombie Apocalypseo che vogliate travestirvi da cosplayer, ovvero diventare un personaggio collettivo per un giorno, poco importa. Dovrete avere a che fare con gli zombie. E se è stata pubblicata la versione horror della Austen ( Orgoglio e Pregiudizio e Zombie), i film non ci hanno fatto mancare – ne lo faranno – combinazioni bizzarre: in Zombie ExS di George Smith siamo nel filone demenziale con ex fidanzate zombie, mentre in Dead Blood stanno con i vampiri. In attesa di World War Zadattamento dal libro di Max Brooks, con Brad Pitt. Gli zombie sono esplosi a livello popolare con i fumetti di The Walking Dead e le cinque serie televisive che (la prima in particolare) hanno avuto la forza del grande racconto popolare, almeno quanto Twilight della Meyer la ebbe sui vampiri. Dopo il celebre fumetto Dylan Dog di Sclavi, i morti viventi hanno avuto, tutti per loro, un paio di registi di culto, tra cui Rob Zombie, che a partire dal 2003 ne reinterpretò genialmente il canone. Ne La casa dei mille corpie I reietti del Diavolo, gli zombie diventano personaggi vincenti e complessi, perché del tutto privi di una morale convenzionale. Se gli zombie degli anni ’80, che si nutrivano di cervelli, erano una chiara metafora dell’instupidimento della società, quelli contemporanei propongono due contrapposte visioni del mondo: da una parte la volontà di “sopravvivere” a tutti i costi in un mondo di zombie, con sparute comunità umane che devono rinunciare a ogni forma di tecnologia sociale, e difendere i pochi oggetti simbolici che li identificano come vivi. Dalla parte opposta la consapevolezza che, se davvero il mondo sta morendo, i ragazzi sono già pronti ad andare oltre: si dicono già-morti. E guardano cosa succede. A differenza dei vampiri, però, dove il male veniva estetizzato fino a diventare irresistibile, la cultura zombie mortifica il corpo. L’orrore viene esposto ed esaltato, una sorta di ribellione (come lo fu il punk, se è concesso il paragone) a questo mondo dove invece sembra indispensabile avere una totale cura di sé e del proprio aspetto. La nuova morale dei ragazzi-zombie non è affatto voler abbracciare la morte o la non-vita: anzi, si sentono dei sopravvissuti, rivendicano la possibilità di essere “brutti”. Così a Lucca in 150 mila si sono travestiti soprattutto da zombie camminando di giorno per farsi fotografare. Di notte parlavano di storie e di altri mondi possibili. «Io sono vivo, voi siete morti», scriveva Philip K. Dick, in Ubik, il suo romanzo, ovviamente, immortale.