l’Unità 23.10.12
Bersani-Renzi, ora il duello sulla sinistra
Il segretario soddisfatto dagli ultimi sondaggi che danno il Pd vicino al 30%
di Simone Collini
ROMA «Per il Pd è tutta salute». La frase con cui Bersani chiude da Brescia una giornata contrassegnata da una serie di attacchi personali sferrati contro da Renzi non è di quelle propagandistiche che in politica a volte si dicono per mascherare la realtà, di quelle cioè che vanno lette al contrario. Il leader del Pd, che domani vedrà Monti a Palazzo Chigi per discutere di legge di Stabilità, è veramente convinto che la sfida innescata per scegliere il candidato premier del centrosinistra porti consensi al suo partito. Nonostante tutto. E ieri ne ha avuto una riprova sotto forma del sondaggio settimanale che la Ipsos fornisce al Pd sulle intenzioni di voto degli italiani. Per la prima volta dal 2008 quota 30% sembra a portata di mano. Stando ai rilevamenti effettuati dall’istituto demoscopico la scorsa settimana il Pd è infatti al 29,4%. E di fronte a questo, Bersani è tutt’altro che preoccupato per gli attacchi di Renzi nel giorno in cui il camper tocca Biella, Vercelli, Asti e Genova.
Il sindaco di Firenze contesta le regole per le primarie e gli dice che «ha paura»? Che sarebbe «un premier debole»? Che su finanza e Cayman «non ha fatto una bella figura»? Il leader del Pd si limita a dire che è «contento» per come sta andando la campagna per le primarie del centrosinistra. Che ha fatto bene a volere una deroga per far correre anche altri del suo partito. Che se il Pd si mette «faccia a faccia con la gente» i risultati arrivano.
CHI FAVORISCE LA DESTRA
Questa è «l’unica cosa» che Bersani dice di inerente alle primarie, quando viene interpellato dai cronisti in serata a Brescia. Anche le uscite di Renzi su un suo «scivolamento a sinistra» vengono volutamente lasciate passare sotto silenzio. Il sindaco di Firenze sostiene infatti che lo «spostamento a sinistra di Bersani, se vincesse lui le primarie, possa favorire un centrodestra ora inesistente». Dice Renzi (oltre a ribadire la sua contrarietà al Monti-bis e a far sapere che vedrebbe bene l’attuale premier al Quirinale): «Nell’ultima settimana, con la polemica contro la finanza e l’intervento sulla scuola, mi pare che il segretario stia lisciando il pelo alla parte più militante del partito e perdendo contatto con la realtà più ampia del Pd e con il Paese».
Renzi non ci sta ad essere etichettato come «figlio di Berlusconi» («se davvero ero di destra ci ero già andato, con il vuoto che c’è», dice in una videochat col sito web de La Stampa), però resta convinto che queste primarie debbano servire per convincere elettori delusi del centrodestra a fare questa volta una diversa scelta di campo. E lo si può fare se l’offerta va al di là delle ricette ideologiche: «Ci sono 14 milioni di voti di persone indipendenti che scelgono la persona e non la qualificazione di sinistra o di destra. Chi è capace di prendere quei voti lì vince». Ecco come il «suo» Pd potrebbe arrivare al 40% e andare al governo.
Bersani evita di replicare, e ai giornalisti che gli chiedono un commento si limita a rispondere che non vuole «dare numeri», che il Pd «sta crescendo» e che anche lui è «in un’ottima posizione». I ragionamenti che però fa in privato non sono teneri col sindaco fiorentino. La vicenda della cena milanese organizzata da Davide Serra e la successiva difesa del fondatore di Algebris denota per Bersani una «subalternità» di Renzi a quel mondo, un’«ansia di legittimazione» che mal si concilia con l’aspirazione a governare col sostegno di una maggioranza di centrosinistra. Il problema non è il dialogo con i banchieri, quanto il messaggio che tutto sia lecito. E che per il leader Pd si debba distinguere tra finanza e finanza è dimostrato dalla decisione di presentare ieri un libro su Mino Martinazzoli insieme a Giovanni Bazoli.
Lo stesso proposito di attirare i consensi dell’elettorato di centrodestra abdicando a idee e valori della sinistra è per Bersani velleitario: non solo non si otterrebbe quel 40% di cui parla Renzi, ma si perderebbero i consensi di chi guarda al Pd sperando in un futuro in cui vi sia più uguaglianza. Dice il leader del Pd: «Non rimettiamo in giro vecchie ricette spacciandole per nuove, per carità. Girano bellissime parole. Per esempio opportunità. Se però al concetto non aggiungiamo quello di uguaglianza, si rischia di tirare l’acqua all’altro mulino. Idem per la parola merito. Il rischio è farsi ingannare. Teniamole queste parole, va bene, ma mettiamole sempre in un contesto, vicine ai motivi per cui noi facciamo politica, un sentimento acuto per l’uguaglianza e la dignità di tutti gli uomini e di tutte le donne».
BOTTA E RISPOSTA VIA TWITTER
Se Bersani preferisce non polemizzare direttamente con Renzi (che per il leader dell’Udc Casini «fa il discorso che fa Grillo in doppiopetto») via twitter va in scena un duro botta e risposta tra il sindaco di Firenze e la portavoce del comitato Bersani, Alessandra Moretti. «Non sta bene dove può essere messo in discussione, non ama il confronto democratico, si comporta da prima donna, come Berlusconi», dice la vicesindaco di Vicenza. Risponde Renzi: «La Moretti... Ah! Sexy, carina e come idee anche meglio della Belen». Paragone che fa infuriare Moretti, che risponde sempre via twitter: «Misogino e maschilista questo sei! Quando sei a corto di argomenti che fai? Metti in moto la macchina del fango!».
l’Unità 23.10.12
Dal Manifesto all’Eliseo: la sfida europea del leader Pd
Oggi l’incontro a Roma con Gabriel, segretario Spd, poi il cancelliere austriaco Faymann, fino al clou di giovedì con il presidente francese
di Umberto De Giovannangeli
Un investimento sull’Europa. Un investimento dell’Europa. L’Europa dei progressisti, quella del «Manifesto di Parigi». Nasce da lontano il tour europeo che vedrà impegnato nei prossimi giorni Pier Luigi Bersani. Si inizia oggi pomeriggio, con l’incontro a Roma tra il segretario del Pd e il leader della Spd tedesca, Sigmar Gabriel. Si prosegue domani, quando Bersani incontrerà, sempre nel pomeriggio nella sede del Partito Democratico, il cancelliere austriaco Werner Faymann in occasione della sua visita a Roma. Ma il momento clou della settimana europea del leader dei Democratici italiani sarà giovedì, quando a Parigi Bersani sarà ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Francois Hollande.
TOUR EUROPEO
Il ciclo d’incontri si concluderà venerdì a Tolosa: Bersani interverrà in apertura del congresso del Partito socialista francese, dove incontrerà il nuovo segretario nazionale, Harlem Desir, ed altri leaders progressisti europei e internazionali.
Una visione comune dell’Europa.
Un progetto che ha al suo centro una idea progressiva di crescita, fondata sull’equità sociale, su investimenti mirati in settori strategici, dall’istruzione alla green economy. Una Europa solidale, in cui la politica non abdica alla tecnocrazia: è il «Patto dei progressisti», quello stretto, in tempi (elettorali o di primarie) non sospetti dai leader delle forze progressiste e di sinistra europee. Un patto che unisce le piazze e le cancellerie, l’azione politica e l’elaborazione programmatica. Un patto che ha alcune date significative. Come quella del 5 novembre 2011, quando dal palco di una gremita Piazza San Giovanni, nella manifestazione nazionale indetta dal Pd, prende la parola il leader della Spd tedesca, Sigmar Gabriel. Poco prima, la piazza aveva applaudito un video messaggio dell’alloa candidato socialista all’Eliseo, Francois Hollande. Quella che emerge è una visione comune dell’Europa, la convinzione che l’Europa è il luogo centrale della politica dei progressisti. Una visione che prende ancora più forma e sostanza il 16 dicembre 2011. A Roma si svolge, su iniziativa del Pd, la Conferenza nazionale «Il futuro dell’Europa». Accanto a Bersani c’è Hollande. I due leader si dicono d’accordo che bisogna ripartire con nuove prospettive di risveglio del progetto europeo contro «il rischio di un avvitamento tra austerità e recessione». Una triste prospettiva caratterizzata dal patto Merkel-Sarkozy che Hollande definisce «folle e limitato». In quell’occasione, il leader del Ps sottolinea con forza, in piena sintonia con Bersani, la necessità di dar vita a «un patto tra progressisti europei per fare cambiare la rotta all'Europa. Costruire una piattaforma che abbia alla sua base i progressisti francesi, italiani e i socialdemocratici tedeschi: i tre Paesi che in tempi più o meno ravvicinati saranno chiamati ad elezioni politiche».
Una messa a punto che trova una sua importante concretizzazione nel «Manifesto per l’Europa», sottoscritto il 18 marzo 2012 da Bersani, Gabriel e Hollande. Con loro, tra i promotori, c’è uno dei «padri nobili» dell’Europa unità: Jacques Delors. Parole chiave del
«manifesto» sono «crescita», «solidarietà» e «democrazia». Si insiste molto sulla necessità di un rilancio dell’integrazione europea e di dare un nuovo corso alle politiche comunitarie, si prospetta una linea più attenta alla coesione sociale di quella perseguita finora e una precisa regolazione dei mercati finanziari, si riconosce il valore del «rigore» ma si sottolinea che i veri fattori indispensabile per una «rinascita» dei Paesi membri e dell’Unione tutta sono lo sviluppo e l’aumento dell’occupazione.
Per Bersani, «i progressisti europei devono alzare la voce e dire che gli squilibri di oggi sono l’esito di un impianto istituzionale europeo troppo debole, di scelte di politica economica radicalmente sbagliate, di una resa agli interessi della finanza, di un’austerità cieca. I danni sono sotto i nostri occhi...» .
Quella «voce» si è levata. Ed in Francia è diventata, con l’elezione di Hollande alla Presidenza della Repubblica, voce di Governo. L’incontro di giovedì prossimo a Parigi è lo sviluppo di quel percorso: da San Giovanni a l’Eliseo. Nella convinzione che «si vince o si perde insieme. In Europa. Per l’Europa».
La Stampa 23.10.12
Niente duello tv con Renzi Bersani: il clima è cambiato
Il segretario: “Sono in ottima posizione”. I sondaggi lo danno avanti di 5 punti
Ipr Marketing lo vede al 41%, lo sfidante al 36% e Vendola al 17%
di Carlo Bertini
Niente confronto a due in tv Bersani-Renzi, perché il segretario (ragione ufficiale) non vuole trasformare queste primarie di coalizione in primarie del Pd. Ma basta fare due più due e il motivo vero del niet può esser individuato nella percezione che ha Bersani di un trend a lui più favorevole; nella convinzione, condivisa con i suoi uomini mentre si dirige verso Brescia per l’ennesimo comizio, che negli ultimi giorni «il clima è cambiato» anche grazie «agli errori di Matteo». E poiché l’Italia non è l’America, chi si sente in vantaggio non ha particolari motivi di dare all’avversario pubbliche occasioni di rimonta. «Bersani vuole un confronto con tutti i candidati alle primarie di centrosinistra, primarie di coalizione e non del Pd», fa sapere via twitter la portavoce del suo comitato Alessandra Moretti.
Nei sondaggi lo sfidante tallona ancora il segretario, che non intende dunque salire sul ring per un match a due, almeno fino all’eventuale ballottaggio, perchè «sono in ottima posizione»: l’ultimo flash numerico diffuso ieri da Ipr Marketing al Tg3, vede Bersani crescere di due punti al 41%, Renzi salire di un punto al 36% e Vendola staccato dietro al 17%. Ma va tenuto anche in conto che l’avversario è sempre temibile se un altro istituto, l’Emg, alla domanda per il Tg di Mentana su chi gli italiani vedrebbero meglio come premier, fotografa un Renzi che si piazza subito dopo Monti col 12% e di un punto sopra il segretario Pd.
Ma quel che più galvanizza Bersani è che il partito cresce e raggiunge la soglia psicologica del 30%, a detta di Antonio Noto di Ipr il «massimo storico dal 2008». Non sorprende se alla luce di questo trend confortante, il segretario dica che quel che sta succedendo con queste primarie, «per il Pd è tutta salute». E che i ragionamenti che svolge in privato siano quelli di chi sente di non aver sbagliato una mossa, a differenza del suo avversario. Il quale con tutta evidenza soffre da «ansia di legittimazione», perché questo svela la scivolata su banchieri e finanzieri. Nervo in realtà sempre scoperto a sinistra, dove pochi possono vantare patenti di verginità; ma anche se le polemiche sui social network non risparmiano nessuno, la tesi in auge nell’entourage bersaniano è che con quegli ambienti lì «ci puoi parlare ma poi deve essere chiaro che tu fai un altro mestiere», insomma che non ti fai influenzare.
E dunque, se Renzi soffre questo bisogno di farsi legittimare che gli fa commettere «errori che lo portano a distaccarsi dal sentimento di appartenenza al centrosinistra, perché non puoi convincere i delusi di centrodestra con argomenti di centrodestra», Bersani resta ben ancorato al filone del socialismo europeo. E segue questa strada stando attento a non scoprire troppo il fianco con i «montiani» del Pd che pure lo sostengono. Solo per dare l’idea del clima, un giovane lettiano membro della segreteria, come Marco Meloni, è convinto che «Bersani mostra di avere un passo più solido e che il tentativo di Renzi di descrivere tutto il partito come una cosa altra da sè trasmette un’idea di debolezza». Insomma, Bersani è più tranquillo, soprattutto ora che il partito si è messo in moto e le varie correnti si son messe finalmente all’opera sul terreno. E dunque, questa settimana per coronare quell’immagine di leader riconosciuto e apprezzato anche in Europa, raffica di faccia a faccia, con i socialisti d’oltralpe più influenti. Oggi con il tedesco Sigamer Gabriel dell’Spd, giovedì a Parigi da Hollande per un bilaterale in forma privata; in mezzo un colloquio con Monti a palazzo Chigi per fare il tagliando alla legge di stabilità prima che arrivi in aula.
E al netto di tutto ciò, che il clima di entusiasmo intorno a Renzi subisca una battuta d’arresto lo confermano pure i suoi sostenitori in Parlamento. Che danno la colpa a queste regole delle primarie «costruite apposta per tenere sotto controllo l’elettorato al secondo turno, per non far votare i giovani... Regole insomma, che per forza di cose mettono piombo nelle ali alla campagna di Matteo...».
Corriere 23.10.12
Scout contro Sessantotto, le due anime Pd
Non solo il duello sull'alta finanza: le diverse «sinistre» del segretario e del sindaco
di Angela Frenda
MILANO — Anime. O correnti. Indipendentemente da come le si voglia chiamare, in questo momento nel Pd si stanno fronteggiando due diversi modi di intendere la sinistra che è e che verrà. Capirle non è complicato, anche perché a incarnarle sono Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Il segretario che non vuole farsi rottamare e il sindaco aspirante premier. E i loro sostenitori, renziani e bersaniani. Categorie politiche che raccontano lo scontro nel Pd: tra chi vuole rottamare anche un passato considerato ingombrante e chi invece proprio quella storia vuole difendere come valore. Divisi più o meno su tutto, dagli slogan fino al concetto di denaro: «La sinistra ha una strana idea di denaro» dice il sindaco di Firenze.
E pensare che se fosse solo per le tesi di laurea, qualcosa in comune i due sfidanti ce l'avrebbero: quella di Renzi in Giurisprudenza, sul «Sindaco Santo» di Firenze, il dc Giorgio La Pira. Quella di Bersani in Filosofia, su papa Gregorio Magno. Poi, però, le strade si separano: post ideologico versus ideologico. Matteo Renzi è uno che chiama tutti per nome, un ex segretario provinciale ppi che cita Blair e Miliband, che usa parole chiave come «adesso» e «rottamazione». Che dell'esperienza di Botteghe oscure vuol sapere poco, e alla fotografia di Enrico Berlinguer preferisce quella di Barack Obama. Pier Luigi Bersani invece si affida a termini più tradizionali come «coraggio», «Italia» e «legalità». Ricorda uno per uno i nomi dei volontari delle ex feste dell'Unità oggi del Pd, cita Reichlin, crede nell'uso della parola «compagni» e mostra con orgoglio l'Unità. Figlio di un benzinaio di Bettola, in provincia di Piacenza, racconta ancora oggi con orgoglio quando organizzò lo sciopero dei chierichetti contro il parroco per un'ingiusta suddivisione delle mance. Renzi invece, figlio di un ex consigliere comunale dc di Rignano sull'Arno, da scout si firmava Zac quando dirigeva la rivista nazionale Camminiamo insieme. Ed è cosa nota che ancora diciannovenne, nel 1994, per cinque puntate consecutive partecipò come concorrente a «La ruota della fortuna», vincendo 48 milioni di lire. Stile più da manager che da capo di partito, iperattivo e stakanovista ai limiti della sopportabilità, ha puntato sul restyling della sua immagine (passando da abiti dozzinali a Ermanno Scervino), su suggerimento del suo spin doctor, il produttore tv Giorgio Gori.
Guai invece a chiedere a Bersani del suo stilista preferito: «Se devo confrontarmi su queste cose, preferisco perdere...», o a parlargli di spin doctor. Il segretario non ha un vero staff per la comunicazione. Piuttosto un «Tortello magico» (copyright Mario Adinolfi) nel quale gli uomini di punta sono quasi tutti «di sinistra», legati alla comune esperienza giovanile nella Fgci (Errani) e storici collaboratori (Di Traglia e Seghetti). A un brainstorming con gli scrittori di punta preferisce fare due chiacchiere con il consigliere regionale Miro Fiammenghi, vecchio amico di Ravenna, canale di collegamento in Emilia tra i bersaniani e i dalemiani, e mediatore con il mondo di piccoli e grandi poteri locali (da Hera, alle Coop, a Unipol).
Diverso invece l'universo finanziario di riferimento di Matteo Renzi. Del golden boy Davide Serra e del suo fondo di investimento Algebris (compresa la polemica sulle Cayman) in questi giorni si è scritto molto. Ma tra i finanziatori a lui vicini vanno ricordati almeno altri due nomi: Nerio Alessandri, patron di Technogym e sponsor dell'incontro (poi saltato) con Bill Clinton a Firenze, e Sebastiano Cossia Castiglioni, proprietario dell'Azienda Agricola Querciabella ma pure unico italiano nello Humane and Animal Rights Advisory Board della «Sea Sheperd»: la temuta flotta che protegge le balene. Insomma, l'obiettivo di Renzi sembra quello di cancellare la parola «comunista» dal Pd. Mentre Bersani non intende rinunciarci. Una decisione confermata dalla scelta di quella foto di famiglia accanto alla pompa di benzina del padre, simbolo di un'estetica operaista e malinconica. In pieno contrasto con le parole che sua madre Desolina, quando già lui muoveva i primi passi in politica, gli sussurrava: «Se vuoi essere comunista, almeno non raccontarlo in giro».
Repubblica 23.10.12
Il blogger Zoro: “Un po’ di stracci con le primarie dovevano volare, ma qui mi sembra che si sta esagerando”
“Quarantenni scarsi, che volete da D’Alema?”
di G. D. M.
ROMA — Blogger, autore televisivo, romano e romanista, 43 anni, Diego Bianchi, in arte Zoro, ama avvitarsi nelle vicende del Pd. Lo fa da militante di sinistra. Disilluso, ironico, a volte disperato per il tafazzismo della sua parte. Lui, le sue primarie le ha già vinte. Ieri è stato eletto rappresentate di classe di sua figlia, quarta elementare. All’unanimità, con un solo voto contrario: il suo. «Non ci ho nemmeno il programma».
Non sarà il momento di smetterla con regole e Cayman?
«Un po’ di panni devono volare ma si sta un po’ esagerando visto che i panni volano tra esponenti dello stesso partito. Per carità, le regole e la finanza sono questioni di sostanza più che di forma però non sono la sostanza più interessante. Dico solo che penalizzare la partecipazione non mi sembra una gran furbata».
E il pasticcio che avvenne a Napoli?
«Questa l’ho già sentita. Abbiamo la magistratura in casa, dicono. Ma lì il partito sbagliò a invalidare il voto, fu una scelta autolesionista. Erano andati a votare i camorristi? Dovevano annullare quei voti, non tutti quelli dei napoletani perbene ».
Sulle Cayman da che parte è schierato?
«Non possiamo fare la sinistra triste e povera e quindi sdoganare certi tipi di rapporti è necessario. Però non mi piace la subalternità e soprattutto non mi piace il mistero. L’incontro a porte chiuse non è stata una grande mossa e mi meraviglia che l’abbia fatta un comunicatore come Renzi. Se fai incontri pubblici lo devono essere tutti».
A 43 anni si è per forza rottamatori?
«Prima o poi qualcuno di nuovo arriva. Ma non mi convincono le quote giovani. La destra aveva quattro ministri 40enni: Alfano, Carfagna, Gelmini e Brambilla. Hanno brillato ben poco».
Nostalgia di D’Alema e Veltroni?
«A me non mancano. Mancheranno più a quelli che di antidalemismo e antiveltronismo hanno campato per tanto tempo. Sono stati due protagonisti di questi anni anche perché la mia generazione, che non è quella di Renzi, ha prodotto delle pippe, questa è la verità».
Dopo aver seguito Renzi nel tour, farà qualche tappa di Bersani?
«Sono già stato a Bettola. Ma domani vado in Sicilia da Grillo. Quando vai nei posti senti l’aria che tira. Con Renzi ho visto le stesse dinamiche trasversali che c’erano a Parma. Dove chiunque avrebbe capito come sarebbe finita».
Lei con chi sta?
«La mia storia è più vicina a quella di Bersani e Vendola. Ma non mi schiero. Come Veltroni e Prodi... ».
il Fatto 23.10.12
Il sondaggio: tra i due quasi un testa a testa
IL PD al 28,2% dei voti (+0,1 % rispetto la scorsa settimana), il Pdl al 17% (+0,2%) e il Movimento 5 Stelle stabile al 17,7%: sono le percentuali che avrebbero oggi i tre principali partiti secondo il sondaggio sulle intenzioni di voto alla Camera elaborato da Emg e diffuso ieri sera nel corso del TgLa7. Le rilevazioni mostrano poi in lieve ascesa la Lega che raggiungerebbe il 6,4% (+0,2%), l’Udc che arriverebbe al 6% (+0,1) e l'Idv al 4,4% (+0,3%), mentre in lieve calo risulterebbe Sel con il 5% dei voti (-0,2%). Quanto agli altri partiti, Fli avrebbe il 3% (+0,1%), la Federazione della sinistra arriverebbe al 2,1% (-0,2%) superata dalla Destra al 2,2% (+0,1%) e Psi sarebbe all’1,3% (-0,1%). Gli indecisi sarebbero il 17,3%, gli astenuti il 29,7% e le schede bianche raggiungerebbero il 3,4%. Risale dell’1% rispetto alla scorsa settimana la fiducia in Mario Monti che arriverebbe al 50%. Nella classifica della premiership, invece, indica che il 20% degli italiani voterebbe ancora Mario Monti. Dietro di lui Matteo Renzi al 12% che supera Pier Luigi Bersani all’11%. Ancora in calo invece i votanti per Silvio Berlusconi che otterrebbe l’8% dei consensi. Sale al 6% la preferenza per Beppe Grillo, al pari di Luca Cordero di Montezemolo. Angelino Alfano sarebbe votato dal 5%; Nichi Vendola e Roberto Maroni dal 4%.
Corriere 23.10.12
Se il proporzionale aiuta Monti e il Porcellum favorisce Bersani
di Michele Salvati
Sulle
prossime elezioni politiche la nebbia è ancora fitta ma inizia a
diradarsi e consente di costruire possibili alternative, se non
previsioni. Gli scenari divergono soprattutto a seconda della legge
elettorale con la quale si andrà a votare: l'accordo su una legge
proporzionale, corretta da un premio modesto al partito più votato,
sembra oggi meno lontano e in questo caso è improbabile che un insieme
di partiti relativamente coerente — per vicinanza ideologica e politiche
proposte — sia in grado, dopo le elezioni, di costruire una coalizione
robusta. C'è però la possibilità, e dobbiamo tenerne conto, che
l'accordo in via di formazione salti e si vada ancora a votare con la
legge elettorale in vigore, col Porcellum. In questo caso la maggioranza
assoluta dei seggi, almeno alla Camera, sarebbe assicurata dal premio
elettorale alla coalizione che ha ottenuto la maggioranza relativa dei
voti: se poi si tratti di una coalizione coerente e in grado di
governare è tutto da vedere, perché sinora non è stato così.
Tutte
le proiezioni e le simulazioni finora fatte sulla base dei sondaggi
danno luogo a queste conclusioni ed è inutile lamentarsi che
l'alternativa sia limitata al Porcellum o ad una legge che sottrae agli
elettori la scelta del governo: leggi migliori ci sarebbero e sabato
scorso Sartori è tornato a illustrare sul Corriere quella che anche a me
sembra preferibile, un doppio turno alla francese, ma questo Parlamento
non sembra in grado di approvarla. Se l'alternativa realistica è
quella, le conclusioni sono immediate, sempre tenendo conto dell'alone
di incertezza che avvolge ogni ragionamento politico. Con una legge
proporzionale, e in presenza di uno stallo nella formazione di una
maggioranza solida e politicamente coerente, probabilmente si tornerebbe
a una Grosse Koalition all'italiana, come quella che sostiene l'attuale
governo: Mario Monti ha già dichiarato la propria disponibilità al
ruolo di presidente del Consiglio, se «chiamato» dal presidente della
Repubblica. Se invece si resta con il Porcellum, la vittoria arriderà
alla coalizione che otterrà anche solo un voto in più rispetto alle
altre. Quale? Qui i pronostici si fanno ancor più incerti. Data la crisi
del centrodestra, e l'indisponibilità dei partiti di centro ad allearsi
con una destra in cui ancora è presente Berlusconi o con un Pd alleato
con Vendola, sembra possibile la vittoria di un'alleanza
Bersani-Vendola... se Renzi non sconvolge i loro programmi. Insomma,
Monti con il proporzionale e Bersani con il Porcellum.
Inutile
ricordare ancora che questi scenari sono ottenuti al costo di forti
semplificazioni e dando molto peso ai sondaggi di oggi nel valutare la
forza relativa dei partiti. Man mano che ci si avvicina alle elezioni
gli umori degli elettori possono cambiare e i partiti compiere scelte
diverse da quelle che hanno sinora preannunciato. Solo per dare un'idea
di possibili mutamenti di scenario non del tutto campati per aria: Renzi
potrebbe riscuotere un tale successo alle primarie da rendere inagibile
una alleanza Bersani-Vendola e Berlusconi potrebbe veramente farsi da
parte e rendere una alleanza di centrodestra più attraente per Casini.
Ulteriore complicazione. È probabile che non sarà Napolitano a formare
il nuovo governo e dunque la legislatura inizierà con la nomina del
nuovo presidente della Repubblica: chi non vuole Monti presidente del
Consiglio avrebbe così un altro ruolo cui destinarlo. Resta però che gli
scenari di fondo sono quelli che ho appena indicato e si
semplificheranno non appena si capirà con quale legge elettorale andremo
a votare.
Scegliere spetterà poi agli elettori. Le previsioni che
abbiamo fatto si basano su sondaggi e previsioni di voto, ma l'elettore
è libero e può dare una tale maggioranza a una delle tre offerte
politiche disponibili — centrodestra, centro e centrosinistra — da
consentirgli di sventare, anche nel caso di una legge sostanzialmente
proporzionale, la necessità di una Grosse Koalition all'italiana. A meno
che non sia proprio questa che i nostri concittadini vogliono, che sia
tale il loro disgusto per la politica e i partiti da sottovalutare i
guasti di un Parlamento molto incoerente, se questo poi rende necessaria
la nomina di un presidente del Consiglio rassicurante e stimato come
Mario Monti.
Gli elettori però non fanno ragionamenti strategici
complicati, i partiti invece sì. Come già ho ricordato, il Pdl potrebbe
indurre Berlusconi a risalire dal campo in cui era disceso nel lontano
1994, a uscire dalla politica in modo così definitivo da tentare Casini
con un'alleanza di centrodestra. Ma qui c'è un piccolo problema:
Berlusconi è il Pdl. Il Pd è invece un vero partito, capace di decisioni
nell'interesse collettivo, del partito se non del Paese. Perché allora
si è legato le mani alleandosi con Vendola? In un sistema proporzionale
non gli serve a formare una maggioranza di governo, perché un'alleanza
con la sinistra esclude quella con il centro. Scommette allora sulla
permanenza del Porcellum? Solo con l'attuale legge elettorale Bersani e
Vendola, semmai alleandosi in extremis con Di Pietro, potrebbero vincere
e avrebbero senso le primarie di coalizione: se passasse una riforma
elettorale proporzionale e con un premio modesto al maggior partito è
improbabile che il vincitore delle primarie possa diventare il futuro
presidente del Consiglio.
Ma forse la spiegazione è più semplice:
in un partito in cui quadri, dirigenti e militanti sono in prevalenza
ex-comunisti, o da questi sono stati formati, il pas d'ennemis à gauche,
nessun nemico a sinistra, è parte delle loro reazioni di pelle.
Repubblica 23.10.12
Il Pdl insiste sulle preferenze e i democratici sono pronti a bloccare tutto. La riforma sul binario morto
Legge elettorale, paralisi al Senato Cavaliere e Pd ripuntano sul Porcellum
di C. L.
ROMA
— La legge elettorale ormai rischia il binario morto. Paralizzato dai
veti e dalle convenienze. Al punto che sia Berlusconi, sil il partito di
Pierluigi Bersani si sono ormai riorientati sul porcellum. L’attuale
sistema.
Il testo base torna oggi “sotto i ferri” al Senato, ma
nessuno scommette più un euro sull’approvazione in aula della bozza
adottata a maggioranza in commissione. L’esame degli emendamenti
prosegue al rallentatore e i primi voti non ci saranno prima di dieci
giorni. E l’eventuale sì di Palazzo Madama è destinato a infrangersi poi
col passaggio alla Camera. Il Cavaliere e il segretario democratico non
ne fanno più mistero, nei summit con i più stretti collaboratori. Tanto
il leader Pdl quanto il leader pd si sono convinti che l’esito più
probabile è quello che, a parole, tutti scongiurano: «Vedrete che
dovremo misurarci col Porcellum».
Per i democrats, sondaggi alla
mano, quel “monstrum” elettorale che garantisce un premio fino al 55 per
cento alla coalizione vincente può anche fare comodo.
L’asse con
Vendola (sempre che Bersani vinca le primarie) potrebbe sbancare, senza
bisogno di un’alleanza forzata coi centristi di Casini. Ma Berlusconi e i
suoi, che vantaggio ne avrebbero? Eppure ci sarebbe, a stando al quadro
che Denis Verdini continua a tratteggiare al Cavaliere. Alla Camera la
partita sarebbe persa, è vero, ma al Senato il Porcellum avrebbe
l’effetto di un tritacarne, creando la frammentazione più caotica.
L’ideale per spianare la strada a un nuovo governissimo, guidato
possibilmente da Mario Monti. Insomma, non c’è un accordo, nemmeno
tacito, tra i due leader. Ma certo è che le due segreterie non si
stracceranno le vesti se, alla fine, la creatura di Calderoli dovesse
restare clamorosamente in vita. Con buona pace del presidente della
Repubblica Napolitano. Oggi il presidente del Senato Schifani incontrerà
il presidente della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini e,
in via informale, gli sherpa di Pdl e Pd. L’obiettivo è tentare di
uscire in extremis dalla palude. Il gruppo dei democratici terrà una
riunione col loro responsabile Maurizio Migliavacca. Il fatto è che su
220 emendamenti depositati al testo base adottato dalla commissione con
16 voti favorevoli di Pdl, Udc, Lega, Fli, Mpa e Coesione nazionale (e
10 contrari di Pd, Idv e Vizzini del Psi), ben 143 sono stati presentati
dai partiti che lo hanno approvato. In poche parole, piena impasse. Di
condiviso, dunque, c’è davvero poco. I senatori del gruppo guidato da
Anna Finocchiaro hanno dichiarato guerra alle preferenze. Le bocceranno
anche in aula. Pdl e Lega non accettano di rivedere la bozza,
sostituendo le preferenze con i collegi, come vorrebbero i democratici.
Dunque è un muro contro muro. E seppure la riforma dovesse essere
approvata a maggioranza al Senato, a dicembre arriverebbe alla Camera.
Dove il testo è destinato a essere radicalmente capovolto in aula. A
Montecitorio sono previste votazioni segrete e 40 deputati del Pdl hanno
già annunciato il loro no alle preferenze. E a inizio 2013, con i
partiti in piena campagna elettorale, potrebbe essere troppo tardi per
rimettere mano alle regole.
il Fatto 23.10.12
Maurizio Mian
Uno degli editori dell’Unità
“Quote comprate con soldi scudati”
di Wa.Ma.
Le
quote dell’Unità? Le ho comprate con soldi rientrati in Italia con un
regolare e legale scudo fiscale, che appartengono al mio cane, Gunther
V”. Parola di Maurizio Mian, erede di una dinastia di imprenditori
farmaceutici, che risponde al telefono da Miami, dove al momento è più o
meno in vacanza, ma sta per far partire un progetto legato alla
“felicità umana”, mentre lavora nell’intrattenimento televisivo e fa
affari con Fabrizio Corona. In passato anche proprietario del Pisa
(sempre per conto di Gunther) al momento ha una quota di 2 milioni e 600
mila euro e detiene il 37,14% delle azioni del quotidiano diretto da
Claudio Sardo.
Che cosa mi racconta del cane Gunther?
Ora,
il cane Gunther, che era nato il 14 novembre del ‘92, è morto. Però, la
sua eredità è stata ricevuta dal suo successore, Gunther V.
Dunque, è vero: lei ha intestato tutti i suoi beni a un cane. Ma come le è venuto in mente?
Non
è venuto in mente a me. Questi sono soldi che ho ereditato da mia
madre, che voleva fossero un legato per un animale. Io sono un care
taker, una sorta di fiduciario, anche se non esiste una parola italiana
giusta.
Si parla di un fondo di 200 milioni di euro di cui il cane, Gunther, era intestatario, che stavano nel Lichtenstein.
Sì,
un tempo erano nel Lichtenstein e alle Bahamas (io stesso ero residente
alle Bahamas). Ma poi mia madre ha rimpatriato tutto, tutti i soldi con
lo scudo. E anch’io ho preso la residenza in Italia. Quindi lei ha
comprato le quote dell’Unità con dei soldi scudati?
Si tratta di soldi rientrati in passato. Le quote sono di una società italiana, che si chiama Gunther Reform Holding.
Ma
non le sembra allora fuori luogo che proprio l’Unità abbia fatto una
denuncia così frontale contro i rapporti di Renzi con Serra, sparando in
prima pagina un titolo come “Le primarie in paradiso fiscale”?
Sono due cose completamente diverse. Qui non parliamo di paradisi fiscali, di società basate alle Cayman.
Forse, però, si tratta di questione più formale che sostanziale.
Non
mi faccia dare un giudizio politico in un momento delicato come questo.
I capitali dell’Unità sono tutti italiani. Ci pago le tasse in Italia.
Adesso però. In passato no.
All’Unità
sapevano tutto. Forse dovreste chiedere a loro. Casomai si tratta di
una questione morale, politica, non legale. Hanno valutato che la mia
fosse una posizione di persona onesta. E poi parliamo di uno scudo fatto
dieci anni fa.
Quando ha comprato le quote dell’Unità?
La prima volta nel 2003, siamo usciti nel 2008, tornati nel 2009.
Dunque, lei con i soldi scudati 10 anni fa ha subito dopo comprato le quote del giornale?
Sì.
Non trova che sia stato un po’ imprudente da parte di Bersani sparare contro Serra?
L’ha
fatto lui non io. Io stimo Bersani, è un bravo politico. E anche lui
sapeva tutto della mia situazione fiscale. Certo, secondo me Renzi non
ha fatto nulla di male.
Non pensa che con questa polemica il Pd
rischi di avere un effetto boomerang, che si possa capire che anche lì
ci sono delle situazioni non proprio trasparenti?
Bersani è un
grandissimo uomo politico, ma è una polemica che poteva essere evitata.
Non c’era nulla di grave in questa storia di Renzi con Serra.
il Fatto 23.10.12
I 20mila euro di Renzi, la casa a Bettola di Bersani
Conti Ma la mamma del sindaco fattura 4 milioni
di Giampiero Calapà e Wanda Marra
Con Beppe Grillo farei a cambio solo del conto corrente, sul mio ci sono 20 mila euro”. Con questo fendente contro il comico-politico “milionario”, lanciato a In mezz’ora di Lucia Annunziata, Matteo Renzi ancora una volta impone l’agenda del dibattito. Questa volta con una battuta solo apparentemente casuale mette sul tavolo la questione della situazione patrimoniale dei candidati, sicuro di poter ostentare una cifra decisamente presentabile. Ieri il Fatto ha chiesto a tutti e quattro i contendenti quanti soldi avessero sul conto e su quanti appartamenti di proprietà potessero contare. Pronto a rispondere il sindaco di Firenze. Matteo Renzi, che dichiara di non possedere né partecipazioni né azioni societarie, annovera fra le sue proprietà una sola abitazione, 12 vani e mezzo, cointestata con la moglie, insegnante precaria, a Pontassieve, venti chilometri da Firenze. Nel garage c’è un’utilitaria, intestata solo alla moglie, e una bicicletta olandese, con la quale ogni tanto il sindaco va a passeggio. Per la casa i Renzi pagano un mutuo di 1650 euro al mese. Ieri il saldo del conto corrente del sindaco alla Cassa di risparmio di Firenze registrava la cifra di 18 mila e 741,26 euro. “Dalla Annunziata ha detto 20 mila, potete scrivere che ha mentito”, scherzano nello staff del boy scout rottamatore. Certo può dormire comunque sonni tranquilli: la Eventi6, società che si occupa di distribuzione di giornali e di marketing, gestita dalla madre e dalle sorelle di Matteo Renzi, fattura nel 2011 poco meno di quattro milioni di euro.
“Ma perchè dobbiamo parlare di queste cose? Che senso ha? ” Lo staff di Pier Luigi Bersani ne fa quasi una questione ideologica. E non c’è verso di strappare una cifra, figuriamoci un estratto conto. Eppure il leader del Pd è uno dei parlamentari che ha acconsentito a mettere la sua dichiarazione dei redditi online. Dalla quale si evince che all’anno guadagna 119.673 euro da redditi assimilabili da lavoro dipendente (ovvero dalla sua attività di deputato). Il pressing nei confronti degli uomini del segretario dura praticamente tutto il pomeriggio. Alla fine il portavoce Stefano Di Traglia “scuce” qualche informazione: “Ha il piano terra della casa di famiglia di Bettola (è figlio di benzinai”. E il distributore è suo? “No. L’officina è del cugino. Il benzinaio è dato in gestione ad altri”. Per poi concludere: “Nun c’ha na lira!! ”. Affermazione un po’ forte per uno sposato con una farmacista e che può vantare un passato da ministro. Ma tutto può essere.
Reticente (sebbene parzialmente) anche Nichi Vendola. Che può contare su due proprietà: una casa di 100 metri quadri al centro del suo paese Terlizzi (con annessa una parte della terrazza condominiale) sulla quale paga un mutuo ventennale e un monolocale a Roma, zona Campo de’ Fiori. Come governatore della Puglia (anche la sua dichiarazione dei redditi è online) percepisce un reddito annuale di 169.284 euro, ma sul suo conto corrente tace. “Ragioni di privacy”, spiegano: è cointestato col fidanzato Eddy Testa, che nella vita fa il creativo pubblicitario. Il fido portavoce Paolo Fedeli però ci tiene a fornire qualche altro particolare: “C’è anche una Renault Megane del 2010 comprata usata e intestata al suo compagno”.
Laura Puppato, invece, non ha un conto corrente florido. A quanto dice lei stessa rischia pure di andare in rosso: “Sto raccogliendo i fondi necessari e sufficienti a pagare la richiesta dell’ufficio delle entrate che deve conguagliare una liquidazione avvenuta nel 2010, per la quale ho versato solo ritenuta d’acconto. L’ammontare complessivo si aggira su non meno di 50 mila euro. In conto corrente ne ho 32 mila, per cui ne mancano all’appello circa 18 mila”. Per sua fortuna a immobili sta messa meglio: ha una casa di proprietà al cento per cento, circa 80 metri quadri, a Montebelluna, nord di Treviso. Un ufficio adibito ad agenzia di assicurazione e di promozione finanziaria di 120 metri quadri, per cui paga una rata mensile di 1400 euro di mutuo. Un altro ufficio al primo piano dello stesso stabile di 40 metri quadri (mutuo con rata mensile di 700 euro). Parcheggiata sotto casa c’è un’utilitaria, mille e 300 di cilindrata, del 2010, 145 mila già percorsi.
l’Unità 23.10.12
La corruzione
Rapporto choc: l’Italia come il Ghana
Presentato dal governo lo studio più approfondito dai tempi di Mani Pulite: «Rafforzare la prevenzione»
«Il fenomeno ha assunto forme inedite, che sfuggono al nostro codice penale»
di Claudia Fusani
ROMA
Ha cambiato pelle e faccia la corruzione negli ultimi dieci anni. S’è
fatta sistema, si muove per gruppi, ha densità gelatinosa, s’annida
ovunque, in ogni certificato, nella ricerca di un posto di lavoro fino
ai classici, appalti e sanità dove da sempre la mazzetta e la tangente
sguazzano con contratti, stipule, gare d’appalto. È così sfuggente e ben
camuffata che le fattispecie di reato previste oggi dal nostro codice
non sono più adeguate per combatterla e punirla. Ne consegue che le
denunce sono quasi scomparse e così pure le condanne.
In 500
pagine di tabelle, analisi e ricette il governo fotografa la corruzione
in Italia. È il rapporto forse più completo dai tempi di Mani Pulite:
fornisce dati, propone soluzioni ma soprattutto affronta la piaga
corruzione definendola, sono parole del ministro per la Funzione
Pubblica Filippo Patroni Griffi, «principale causa di dissesto delle
finanze pubbliche, dell’inefficienza dei servizi e della disaffezione
dei cittadini fino a determinare una compromissione dei principi di
uguaglianza che mina le pari opportunità diventando fattore di
disgregazione sociale».
La Commissione, insediata presso la
Funzione Pubblica a novembre 2011 e presieduta da Roberto Garofoli
(magistrato del Consiglio di Stato) parte dall’analisi del dato reale.
Che è agghiacciante: il distacco tra la corruzione sanzionata (quella
che arriva a sentenza) e quella percepita. Un numero su tutti: se nel
1996, il top per la stagione di Mani Pulite, il casellario giudiziario
segnava 1700 persone condannate per reati di corruzione, nel 2006 erano
diventate 239, un settimo. Nel 2010 sono appena risaliti (295). Piccoli
numeri contro grandi fenomeni perchè invece il livello di corruzione
percepita vola così in alto da precipitarci agli ultimi posti nelle
classifiche di Banca Mondiale (nel 2000 il “nostro” valore era 82 dove
100 significa assenza di corruzione e nel 2009 è diventato 59),
Transparency International (89° posto, al pari di Ghana e Macedonia). E
via di questo passo.
«La differenza tra corruzione percepita e
quella sanzionata» spiega Garofoli «si spiega con il fatto che la
corruzione ha assunto forme diverse da quelle tradizionali, che sfuggono
al nostro codice penale». Non solo «Sono cambiati i soggetti e il
contenuto del patto corruttivo». La corruzione, infatti, non è più solo
un patto segreto e criminale tra due persone bensì coinvolge «soggetti
ulteriori, destinati a svolgere funzioni di intermediazione e di
filtro». È cambiato anche il contenuto del patto corruttivo: «Il
pubblico agente corrotto non compie qualcosa nel proprio ufficio bensì
fa valere il suo peso istituzionale ed esercita un'attività di
influenza». È il caso del funzionario pubblico che si impegna ad
assicurare protezione al corruttore nei suoi futuri rapporti con
l'amministrazione. Non girano soldi, girano favori, protezione. È il
comportamento che il nuovo reato di traffico di influenze illecite cerca
di colpire.
Se è necessario adeguare gli strumenti penali e
investigativi, ancora di più occorre prevenire. Aggredire culturalmente
il fenomeno. Perchè, dice il ministro Severino, «vista la metamorfosi
quantitativa e qualitativa punire non basta più, occorre prevenire».
Il
Rapporto, che nasce da mesi di audizioni con esperti dei vari settori
della pubblica amministrazione, individua una serie di misure
trasversali di prevenzione tutte già recepite nella prima parte del
disegno di legge contro la corruzione, una parte di cui si è sempre
parlato poco ma che contiene molte novità. Sono introdotte «regole di
integrità» che hanno a che fare con la incompatibilità, la
incandidabilità e la ineleggibilità, con adeguati meccanismi di
trasparenza, nuovi codici di condotta e responsabilità disciplinare che
arrivano ad ipotizzare anche ipotesi di licenziamento per chi si macchia
di reati contro la pubblica amministrazione o è legato ad associazioni
mafiose.
Tra le misure indicate per prevenire la corruzione è
prevista la rotazione degli incarichi «nelle fasi procedimentali più a
rischio»; il monitoraggio dei «legami tra l'amministrazione e i soggetti
che alla stessa si rapportano»; obblighi di informazione «per il
dirigente che vigila sul funzionamento del piano».
«Adeguati
meccanismi di trasparenza» significa anche massima diffusione su
internet dei procedimenti disciplinari attivati e conoscerne l'esito
(«nel rispetto della privacy»), avere visione «dei dati reddituali e
patrimoniali, almeno delle categorie dirigenziali» e dei «dati relativi
ai titolari di incarichi pubblici». Da rendere «trasparenti» anche «le
forme di utilizzo delle risorse pubbliche».
Tra i settori più
ostaggio della corruzione sono la sanità, dove girano più soldi che
altrove e sottoposti a regole meno rigide; e degli appalti pubblici, 106
miliardi di euro, l’8,1% del pil nel 2011, numeri che ne dicono da soli
la grande capacità attrattiva. Se per la sanità si propongono, tre le
altre cose, «criteri più severi nella nomina dei diretori generali», per
gli appalti si chiede di unificare le stazioni appaltanti, ognuna
potenziale fonte di patti corruttivi. In ogni caso, per rompere «la
cortina di silenzio» arriva «il sistema premiale che incentiva la
segnalazione dell'illecito».
Le indicazioni del Rapporto sono
state recepite nel disegno di legge contro la corruzione. E dovranno
diventare operative grazie alle tre deleghe che dovranno esercitare
Funzione Pubblica e Interni non appena la legge sarà tale. Manca ancora
il via libera finale della Camera. Ma quelle norme, parziali,
insufficienti, sicuramente figlie di un compromesso al ribasso dettato
da logiche politiche, «sono comunque dice il ministro Severino la base
necessaria per poi passare alla Fase 2».
L’importante è avere una
diagnosi chiara della malattia. E iniziare a curarla. Perchè la
corruzione produce costi enormi, destabilizza le regole dello stato di
diritto e del libero mercato e mina la democrazia in un paese.
il Fatto 23.10.12
Magistrato e membro della commissione che ha stilato il rapporto anticorruzione
Raffaele Cantone: “Più che uno studio è il libro dei sogni”
di Chiara Paolin
Beata
sincerità. Raffaele Cantone, magistrato e membro della commissione che
ha stilato il rapporto anticorruzione, ammette di aver contribuito alla
mappatura del rischio italico più che alla concreta aggressione del
malcostume nazionale.
A cosa serve il rapporto?
Partiamo dal
principio. Ci fu chiesto di lavorare sul testo anticorruzione di
Alfano, concentrandoci solo sulla parte della prevenzione
amministrativa. Per intenderci: niente penale, solo reati legati alla
distrazione del denaro pubblico.
I famosi 60 miliardi euro persi ogni anno.
Ormai è una cifra convenzionale, l’importante sarebbe riuscire finalmente a invertire la tendenza.
Voi che suggerite?
Abbiamo
semplicemente analizzato le aree fragili del sistema, i passaggi della
vita pubblica e istituzionale in cui s’infiltra volentieri la
corruzione. Sanità, enti locali, pianificazione urbanistica, lobbismo.
Luoghi noti.
Certo.
È una mappa a uso futuro: chi vorrà ostacolare la corruzione dovrà
mettere le mani soprattutto lì. Se vogliamo, è un libro dei sogni.
Perché parla di futuro? Il governo Monti sta lavorando in queste ore alla corruzione.
Siamo
su due piani diversi. Noi abbiamo tentato di disegnare un panorama, il
disegno di legge deve entrare nel dettaglio e trovare meccanismi
efficienti per prevenire e arginare il fenomeno.
Ci sono questi strumenti nel ddl?
Ho
parecchie riserve sulle norme in discussione. Concordo con chi lamenta
l’assenza di reati importanti come il falso in bilancio, ma segnalo tre
punti specifici che potevano scardinare il malaffare dentro la Pubblica
amministrazione a costi sostenibilissimi.
Prego.
Primo
punto: creare un meccanismo premiale della denuncia, un po’ come per i
pentiti di mafia. Bisogna incoraggiare chi è costretto a pagare per
ottenere cariche o appalti nella Pubblica amministrazione a venire allo
scoperto. Secondo passaggio, ancora più importante, è quello delle pene
accessorie. Attualmente esiste l’interdizione dai pubblici uffici per
chi commette reati legati a corruzione e concussione, ma se viene
concessa la sospensione della pena succede che in realtà l’interdizione
non ha effetto. Al contrario, chi si è dimostrato suscettibile al
fascino del denaro deve essere allontanato dalla Pubblica
amministrazione in via definitiva.
Manca il terzo punto.
È la riforma della prescrizione, ma anche qui si affronta una materia assai complessa. Non so chi potrà farsene carico.
Il prossimo governo?
Guardando al passato nutro scarse speranze. Ci si agita molto nelle emergenze, passato il momento clou si dimentica il tema.
il Fatto 23.10.12
Il Csm: regole ancora troppo inefficaci
di Antonella Mascali
UN
PASSO AVANTI è stato fatto, ma sulla lotta alla corruzione ancora non
ci siamo. È questo il senso del parere votato ieri dalla Sesta
commissione del Csm sulla legge del governo Monti approvata la settimana
scorsa al Senato. In tutto nove pagine, un po' ammorbidite, rispetto a
una prima bozza. Sull'onda di quanto dichiarato dal vicepresidente
Mi-chele Vietti, “l'ottimo è nemico del bene", si riconosce al ministro
della Giustizia, Paola Severino, di aver segnato un punto nella lotta
alla corruzione (soprattutto in riferimento alla prevenzione), ma la
strada è ancora in salita. “Pene troppo esigue” per il reato di
concussione per induzione (da 3 a 8 anni) così come per il traffico di
influenze e la corruzione tra privati. La conseguenza è una prescrizione
breve che vanifica l'azione penale. Per quanto riguarda il traffico di
influenze e la corruzione tra privati, “costituiscono un utile
arricchimento all'armamentario punitivo dello Stato”, ma le pene lievi
pregiudicano le indagini: “Deve osservarsi come l'efficacia appare
fortemente condizionata dall'esiguità della pena edittale stabilita. La
sanzione massima a tre anni preclude l'utilizzo delle intercettazioni”
fondamentali per reati come questi. Un altro “nodo di criticità” è la
normativa che regolamenta la prescrizione, in molti casi dimezzata con
l'entrata in vigore, nel 2005, della legge ex Cirielli, voluta da Silvio
Berlusconi. Secondo il parere della commissione Riforme del Csm, questa
norma va modificata: “Senza un suo ripensamento ogni modifica
legislativa rischia di risultare vana in quanto le statistiche
dimostrano che il principale ostacolo nella repressione del fenomeno sta
nell'attuale sistema di calcolo e nei termini troppo brevi della
prescrizione”. E ieri Vietti su questo punto è stato netto: “La riforma
delle riforme è quella sulla prescrizione. Dobbiamo cambiare
profondamente il meccanismo che oggi manda al macero 170 mila processi
l'anno, facendo sì che enormi risorse materiali ed economiche vengano
spese invano”. Inoltre, di conseguenza, “potrebbero esserci benefici
effetti sulla ragionevole durata dei processi”. Domani il documento sarà
votato dal plenum del Csm.
l’Unità 23.10.12
Scandalo Polverini: niente urne Zingaretti: lo stallo costa milioni
L’ex governatrice insiste: «Elezioni difficili entro l’anno»
Il candidato del centrosinistra: «Impedimenti giuridici? Colossali balle»
di Angela Camuso
La
governatrice dimissionaria è decisa a resistere. «Votare entro l'anno?
Mi sembra abbastanza improbabile rispetto alla nostra normativa
regionale e ai decreti degli ultimi mesi sulla Spending review e il
ridimensionamento del numero dei consiglieri», si barrica, dopo gli
appelli del centrosinistra e le grida allo scandalo che crescono, sempre
più insistenti per il suo temporeggiare. E questo nonostante la lettera
aperta che il ministro Cancellieri ha pubblicato ieri su Repubblica,
nella quale sottolinea che «bisogna ridare al più presto la parola ai
cittadini».«Tutto quello che si è detto sugli impedimenti legislativi
sono delle colossali balle perché in realtà le norme sono chiare»,
replica duro il presidente della Provincia di Roma e candidato alle
regionali per il centrosinistra, Nicola Zingaretti. Tutte le riforme,
ripete lui, si possono fare dopo il voto e con l'election day «non si
risparmia niente, anzi una paralisi come quella attuale costa ai
cittadini milioni e milioni di euroin termini di assenza di
provvedimenti, di investimenti».
E mentre va avanti lo stallo
istituzionale, il batman di Ananagni, che ha fatto deflagrare lo
scandalo Lazio, intanto, resta in carcere. Lui, quel Franco Fiorito,
«ingordo grassatore della cosa pubblica». Che «ha assecondato i propri
sfizi e i propri capricci». «Goffo», nel suo tentativo di inquadrare la
propria vicenda «in un contesto di scontro che ha attraversato il gruppo
consiliare del Pdl». «Provocatorio» e «spudorato» quando afferma la
legittimità della sua condotta. Così, nelle motivazioni del
provvedimento con il quale è stata respinta l'istanza di scarcerazione,
scrivono i giudici del Riesame di Roma sull'ex capogruppo del Pdl alla
Regione Lazio finito in carcere il 2 ottobre scorso con l'accusa di
peculato per aver trasferito da conti del gruppo a suoi depositi
personali, in Italia e in Spagna, la somma complessiva, finora
accertata, di un milione e 375mila euro.
«Approfittando della
propria alta funzione si legge nelle undici pagine depositate ieri
mattina – Fiorito si è comportato uti dominus nei confronti di denaro di
cui aveva il possesso in ragione del suo ufficio, impiegandolo per la
soddisfazione di spese personali, spesso di natura voluttuaria». Come i
29.534 euro spesi al “Sardegna Resort” per una vacanza di due settimane.
O come i 1800 euro per la caldaia da installare nella sua casa a San
Felice Circeo.
Senza contare l’utilizzo incontrollato di assegni
(130, per un totale di 369.149 euro), carte di credito (184.400 euro),
prelevamenti allo sportello (121.350 euro) e con bancomat (26.805 euro).
Ancora, i 33.500 euro per l’acquisto del Suv “Jeep Wrangler”, in
occasione della nevicata a Roma dell’anno scorso e soprattutto i viaggi
di piacere fatti figurare come “viaggi istituzionali del presidente
Fiorito”, il quale invece, a spese dei contribuenti, se ne andava a
Londra per una settimana a festeggiare il capodanno insieme alla
fidanzata Samantha Reali ( 6.230euro); volava a Tenerife col suo autista
(3000 euro); trascorreva sei notti da nababbo a Positano (Hotel S.
Pietro, 4.700 euro) e infine si recava due volte a Nizza (3800 euro
complessivi).
Per questo e altro, secondo il Tribunale, Fiorito
deve restare in carcere. Non appare fondato il pericolo di fuga
sostenuto dai pm ma c’è il pericolo di inquinamento delle prove e di
reiterazione del reato, anche alla luce del fatto che l’ex capogruppo è
in attesa di processo a Frosinone per tentata concussione riguardo a
episodi accaduti quando era sindaco di Anagni. Egli è ancora in grado, è
scritto nelle motivazioni del provvedimento, di «esercitare la già
sperimentata influenza illecita sulle persone e le strutture di
riferimento a livello regionale e locale...». Ai domiciliari infatti
potrebbe inquinare le prove o proseguire nella sua condotta. Lo dimostra
anche «l’azione di dossieraggio intimidatoria svolta, sempre attraverso
l’utilizzo di alcune fatture, contro gli avversari politici del gruppo
consiliare» e che è costata a Fiorito l’iscrizione nel registro degli
indagati a Viterbo per calunnia.
Bocciata, altresì, la tesi
sostenuta dai legali dell’ex capogruppo, Carlo Taormina ed Enrico Pavia,
che hanno tentato di dimostrare l’insussistenza del reato di peculato
essendo a loro parere i gruppi consiliari associazioni regolate dal
diritto privato e non da quello pubblico. Secondo i giudici, «i soldi
ricevuti dal consiglio come capocapogruppo devono avere necessariamente
una destinazione pubblica, con obbligo di rendiconto».
Questa
settimana Fiorito verrà di nuovo interrogato e così pure Vincevo
Maruccio, l’ex capogruppo alla Pisana dell’Idv, anch’egli accusato
peculato dalla procura di Roma. I pm vogliono ascoltare di nuovo anche
Mario Abruzzese (non indagato), presidente del consiglio regionale del
Lazio.
il Fatto 23.10.12
Fino all’ultimo rimborso: Chi guadagna senza lavorare
Nel Lazio e in Sicilia zero sedute, ma tutte ben pagate
I consiglieri del Molise forse dovranno restituire tutto
di Chiara Paolin
Il
gran giorno potrebbe essere oggi. Oppure domani. In ogni caso, ormai ci
siamo: il Consiglio di Stato sta decidendo in queste ore se il Molise
vive sequestrato dal consiglio regionale attualmente in servizio o se
invece è stato il locale Tar a prendere un granchio clamoroso
sentenziando che la vittoria di Michele Iorio (governatore Pdl per la
terza volta consecutiva) non è affatto regolare.
UN ANNO FA Iorio
la spuntò d'un soffio, lo 0,97 per cento in più di voti. Il problema è
che due liste a suo sostegno, una civica e una dell'Udc, risultarono
ampiamente viziate: i fogli con nomi e firme pro candidati erano pinzati
alla buona, bucherellati più volte come se qualcuno avesse confezionato
i plichi a seconda della bisogna. Per questo partì subito un bel
ricorso, e lo scorso maggio il Tar molisano decise: elezioni non valide,
si torni alle urne. Iorio preferì invece ricorrere al Consiglio di
Stato, e nel frattempo i 45 consiglieri (più la giunta) hanno lavorato a
pieno ritmo intascando lo stipendio. Ovvero 4.558 euro al mese, più una
generosa diaria di 4.464 euro e spiccetti vari per i rimborsi extra.
Tutti
soldi da restituire se, come dicono in molti, i politici li hanno presi
in modo illegittimo rimanendo attaccati alla poltrona anche dopo il
verdetto del Tar. Sulla materia si aprirà eventualmente un apposito
contenzioso, per ora i consiglieri devono pensare alla Guardia di
Finanza che qualche giorno fa ha acquisito una corposa documentazione di
spesa dei 17 gruppi rappresentati (di cui 7 monocellulari).
Del
resto nessuno rinuncia volentieri all'assegno mensile, se è
materialmente possibile intascarlo. Lo sanno bene in Sicilia, dove il
governatore uscente Raffaele Lombardo si è dimesso il 31 luglio in un
tripudio di nomine e prebende last minute. Ma la fine ufficiale della
legislatura è stata decretata solo il 5 settembre, davanti a un'aula
deserta. Giusto un'oretta di seduta, senza nemmeno poter contare sul
numero legale per accogliere le dimissioni di una consigliera.
Regolarmente per-venuti invece i lauti compensi dei consiglieri assenti e
presenti, 20 mila euro a capoccia tra indennità standard, diaria,
rimborsi stradali, varie ed eventuali. Da notare che, in tempi di
spending review alla sicula, il nuovo regolamento aveva previsto un
lieve tagliuzzamento delle voci di spesa proprio a partire dal primo
ottobre 2012: ad esempio, anziché riconoscere a tutti un forfait da 10
mila euro per trasporti e spese di viaggio, la banda Lombardo ha deciso
di riconoscere un'indennità variabile tra i 6 mila e gli 8 mila euro
all'anno a seconda della residenza dei consiglieri. Un notevolissimo
risparmio, specie considerando che chi vive a Palermo potrà contare
d’ora in poi sulla striminzita cifra di 3.300 euro l'anno: basterà
andare fuori provincia di un metro per raddoppiare il quantum.
ANCHE
NEL LAZIO le dimissioni della Polverini non hanno scalfito gli incassi
degli eletti. Infatti, i 7 mila euro base più la diaria da 3.500 e pure 2
mila euro di spese miste sono stati puntualmente attribuiti ai 74
consiglieri nonostante l'assenza totale di impegni nell'ultimo mese.
Perché il forfait parla chiaro: un consigliere laziale dovrebbe
presentarsi al lavoro 18 giorni al mese, e in base a questa stima
predittiva si merita 3.500 euro di rimborso stradale. Esiste
naturalmente un meccanismo punitivo: chi non partecipa ai consigli perde
ogni volta 222 euro. Ma siccome i consigli convocati sono zero, nel
Lazio nessuno ha perso un euro. Idem con raddoppio in Sicilia: qui la
detrazione è di 224 euro per le sedute consiliari e di 112 per le
assenze in commissione. Per due mesi nessuna convocazione, nessuna
detrazione, tutti felici in corsa per 90 posti che diventeranno 70
(forse) nel 2017.
l’Unità 23.10.12
Raid neofascista in due licei romani
di Luciana Cimino
ROMA
Volto coperto, fumogeni, bandiere nere sventolanti, braccia tese, cori.
Ieri mattina un gruppetto di militanti di Blocco studentesco,
organizzazione che fa riferimento a Casa Pound, ha fatto irruzione nel
Liceo Giulio Cesare di Roma e ha tentato il blitz al Mamiani.
Nell’istituto del quartiere Trieste una trentina di persone, non tutte
giovanissime, è entrato al grido di «viva il duce», lanciando fumogeni e
volantini, i volti coperti da caschi e fazzoletti, armati di bastoni
secondo alcuni testimoni (ma l’organizzazione di fascisti del “terzo
millennio” smentisce). «Sono entrati verso le 12.30 raccontano gli
studenti con i visi travisati, alcuni avranno avuto anche 25, 30 anni.
Gridavano cori nei corridoi, aprivano le porte delle classi e lanciavano
fumogeni». Le azioni sarebbero state effettuate per manifestare il loro
dissenso verso il processo di privatizzazione delle scuole e delle
università e «per dire no al governo dei Baroni», spiega Blocco
Studentesco. Incerta la paternità della fallita irruzione al Mamiani
dove il personale della scuola si è accorto subito di persone che
cercavano di scavalcare i cancelli dell’istituto e ha avvisato le forza
dell’ordine. «Rivendichiamo l’azione fatta al Giulio Cesare ma siamo
totalmente estranei ai fatti accaduti nel liceo Mameli» ha dichiarato
Fabio De Martino, responsabile romano di BS. Intanto polizia e
carabinieri hanno fermato 5 persone. Gli studenti del Giulio Cesare in
una nota hanno dichiarato che «questa azione ha cercato di separare
l’unione ormai affiatata di tutti gli studenti contro i tagli alla
scuola pubblica, per questo ribadiamo che mai Blocco studentesco entrerà
nella scuola e nel quartiere». E interviene anche il presidente della
Provincia, Nicola Zingaretti, «questi ragazzi, istigati da cattivi
maestri mi fanno pena: perché stanno insegnando loro ad esprimersi
attraverso la violenza e non per mezzo della partecipazione democratica.
Non andranno da nessuna parte perché sono una inconsistente minoranza».
Durissima l’Anpi, che stigmatizza «l’ennesima aggressione squadrista»,
«è più di un anno che lanciamo l’allarme sulla pericolosità
dell’estremismo neofascista. È ora che governo, polizia e istituzioni
locali si diano una mossa».
La Stampa 23.10.12
Spranghe e “Viva il Duce” Assalto fascista al liceo
Roma, blitz di “Blocco studentesco” al Giulio Cesare
di Rosaria Talarico
A
volto coperto, gridando «Viva il Duce», hanno fatto irruzione nel liceo
classico Giulio Cesare di Roma e lanciato fumogeni nelle aule. Il blitz
che porta la firma del Blocco studentesco, ha terrorizzato studenti e
professori. «Sono entrati con i fumogeni e i volantini urlando “Viva il
Duce” e in pochi minuti, fuori e dentro dall’istituto, c’era solo fumo
hanno riferito alcuni testimoni -.
Molti studenti sono usciti impauriti dalle classi e all’esterno dello stesso istituto, bloccando il traffico in strada».
Qualcuno
al telefono ha lanciato l’allarme parlando anche di spranghe nelle mani
dei giovani. Tre ragazzi sono stati subito fermati dai carabinieri
mentre tentavano la fuga a bordo di un’auto. Precedentemente i ragazzi
avevano tentato un’irruzione al Liceo Mameli di via Micheli, in zona
Parioli, ma i bidelli erano riusciti a chiudere in tempo il portone e
prendere nota dei numeri di targa di auto e moto. Questo ha permesso
alla Digos di bloccare altri due ragazzi in via Archimede. Uno di loro
aveva con sé una macchina fotografica, con la quale aveva ripreso le
immagini del blitz, e alcuni volantini contro la spending review, di
quelli che erano stati diffusi all’interno del Giulio Cesare. Il
materiale è stato sequestrato dalla Digos e ora sarà utile agli agenti
per identificare tutti i responsabili dell’assalto.
Il leader
romano del Blocco Studentesco Fabio Di Martino ha giustificato la
protesta sostenendo che si è trattato di «un’azione dimostrativa e senza
violenze contro i tagli alla scuola. Abbiamo voluto sottolineare che la
generazione definita dal premier Monti perduta non è disposta ad
accettare le misure e i tagli imposti alla scuola e all’università
pubblica». Di Martino ha poi negato ogni coinvolgimento nell’assalto,
fallito, al Mameli. Più tardi è arrivata anche una dichiarazione di
CasaPound, di cui Blocco studentesco è l’associazione giovanile: «Se di
squadrismo si tratta, è squadrismo mediatico: un modo per rendere
visibili le proprie idee e non certo per imporle a suon di bastone».
La
condanna da parte delle istituzioni è invece unanime. «Violenza stupida
e gesti idioti», li ha definiti il sindaco Gianni Alemanno, mentre il
questore di Roma, Fulvio Della Rocca, ha fatto sapere che «si procede
con la massima fermezza e determinazione per identificare tutti i
responsabili». Secondo il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti,
«a Roma negli ultimi mesi aggressioni e intimidazioni all’interno delle
scuole stanno superando il livello di guardia. Questi ragazzi, istigati
da cattivi maestri, mi fanno pena: perché stanno insegnando loro ad
esprimersi solo attraverso la violenza e non per mezzo della
partecipazione democratica».
Sono cinque i ragazzi fermati dalle
forze dell’ordine. Fra di loro c’era anche un quindicenne che è stato
subito affidato ai genitori.
l’Unità 23.10.12
Il ministro e quella visione arcaica dell’educazione
di Benedetto Vertecchi
È PROBABILE CHE NULLA FOSSE PIÙ LONTANO DALLE INTENZIONI DI CHI RECA LA RESPONSABILITÀ DEL SISTEMA SCOLASTICO dell’idea di aprire un dibattito sullo stato della scuola e sulla necessità di una sua riforma (o di una refondation de l’école, come in questi mesi si usa dire in Francia). Eppure, è ciò che è accaduto, tanto da far apparire irreale il ripiegamento sulla questione dell’aumento dell’orario settimanale di lavoro nelle secondarie dalle 24 ore annunciate alle 18 ore consuete. Non si può, dopo aver sollecitato un punto così sensibile com’è quello dell’organizzazione del lavoro far finta di niente. Niente è come prima. L’incauta sortita sull’orario di lavoro ha sollecitato, implicitamente, gli insegnanti a riflettere su ciò che fanno prima, durante e dopo le 18 ore che costituiscono il loro impegno formalmente riconosciuto.
Non si venga a dire che solo una parte degli insegnanti impegna un tempo aggiuntivo considerevole per essere in condizione di svolgere in modo adeguato l’attività didattica. Sarebbe il solito argomento sulla base del quale si apprezza, anche in modo enfatico, qualche caso specialmente virtuoso per criticare più pesantemente i comportamenti difformi. Il fatto è che quando si deve riflettere sui problemi di un gruppo professionale che conta molte centinaia di migliaia di addetti non ci si può limitare a considerare i casi estremi, nel bene e nel male, ma occorre capire quali siano le condizioni normali di lavoro della grande maggioranza degli insegnanti, le difficoltà che incontrano, il disagio che deriva dallo sbiadimento o dalla perdita di quei simboli sociali che in altri momenti hanno, almeno in parte, compensato la modestia delle retribuzioni.
La proposta di aumentare di un terzo l’orario di lavoro, al di là degli aspetti strettamente sindacali, lascia emergere una sostanziale incomprensione non solo del lavoro degli insegnanti, ma del progressivo complicarsi della funzione educativa della scuola. Chi pensa che le risorse destinate all’educazione siano eccessive, e che riducendone l’ammontare sia possibile migliorarne la finalizzazione, mostra di avere come riferimento un modello arcaico di scuola, quello che nei paesi industrializzati ha caratterizzato la fase, generalmente superata, dell’espansione quantitativa dei sistemi d’istruzione.
È proprio di un modello arcaico della scolarizzazione pensare a un’utilizzazione del personale centrata sull’orario delle lezioni. Da un lato (quello degli allievi) si è proceduto alla riduzione del tempo educativo, dall’altro (dalla parte degli insegnati) si è pensato di prolungare l’orario di servizio. L’organizzazione delle scuole si è ridotta a una semplice questione contabile, quella di far corrispondere il numero complessivo di ore di lavoro degli insegnanti al numero di ore occorrente per assicurare a ciascuna classe le lezioni previste. Quello che viene affermato è una sorta di minimalismo educativo che si cerca di nascondere sotto le fumisterie ideologiche della cosiddetta meritocrazia. Ma nessuno dei campioni della meritocrazia si è mai preoccupato di spiegare per quale ragione i rampolli delle classi favorite fruiscano generalmente (per esempio, in America, nel Regno Unito, ora anche in Cina) di un’educazione scolastica che si distende fra il mattino e il pomeriggio e che solo in parte consiste in lezioni, o in quel che oggi corrisponde ad esse, mentre per il resto è costituita da esperienze volte a consolidare ciò che si è appreso, a riflettere sul rapporto tra l’apprendimento e la natura, tra il pensiero e l’azione, tra l’individuo e la società. Agli insegnanti si chiede non solo di trasferire repertori di conoscenze, ma di contribuire in modo sostanziale a qualificare le esperienze che si effettuano nel tempo di funzionamento delle scuole. Il fatto che ai nostri insegnanti sia stato prospettato con una gelida norma legislativa il passaggio da 18 a 24 ore, in assenza di un disegno volto a trasformare i modi dell’educazione scolastica, è un segnale estremamente negativo: si può pensare a un sostanziale disimpegno per quel che riguarda la scuola pubblica, alla quale accede la gran parte degli allievi, per lasciare spazio, come è avvenuto in paesi come quelli prima menzionati, a scuole d’élite. Gli insegnanti subirebbero quanto gli allievi un tale disimpegno, in termini di ulteriore impoverimento della loro immagine professionale e sociale. Si capisce quindi perché il rifiuto delle 24 ore sia stato corale, e perché si sia aperto uno spazio di dibattito che investe non solo questioni contrattuali, ma di riassetto dell’intero sistema educativo.
l’Unità 23.10.12
Professori, il ministro ci ripensi o il Pd dia battaglia
di Luigi Berlinguer
I PROFESSORI ITALIANI GUADAGNANO 1.200 EURO AL MESE AD INIZIO CARRIERA. DOPO NOVE ANNI CONSEGUONO UN PRIMO SCATTO DI CIRCA 80 EURO. Dall’ultimo rapporto Ocse emerge che gli stipendi degli insegnanti in Europa sono aumentati, in termini reali, del 7%. In Italia sono diminuiti dell’1%. Gli scatti biennali sono fermi e, sempre in questi ultimi anni, sono stati tagliati molti posti di insegnamento. Contemporaneamente è aumentato il carico di lavoro per ciascun docente (con il disagio, per molti, di svolgere lezioni in più istituti). Da ultimo molti insegnanti di ruolo hanno perso la cattedra e sono diventati sovrannumerari. Alcuni andranno a fare gli insegnanti di sostegno.
Ho citato alcuni elementi di forte criticità che evidenziano l’enorme disagio di una categoria. Le norme contenute nella legge di stabilità vanno a collocarsi in questo clima di altissima tensione che si intreccia con un profondo stato di frustrazione. Le attuali 18 ore settimanali di lezione frontale sono già un lavoro molto pesante (anche all’estero, laddove esistano, sono più o meno le stesse). Non è un caso che il lavoro docente sia stato considerato, dopo anni di discussioni, lavoro usurante. L’aumento delle ore di lezione frontale da 18 a 24, come ora ipotizzato, non è pertanto sopportabile.
Aggiungo un’altra considerazione di merito: nell’organizzazione arcaica del sistema didattico italiano, col predominio della lezione frontale (dalla cattedra ai banchi) oggi abbandonata in tutti i Paesi evoluti, tale aggravio di lavoro (per di più senza miseri aumenti retributivi, anzi) non sarà tollerato. L’aumento dell’attività frontale prima che gli insegnanti danneggia la scuola. Eppure ci sono centinaia di straordinarie iniziative innovative nelle scuole che, dal basso, stanno cambiando la didattica in assenza del cambiamento dell’impianto educativo di cui pure tanto necessita l’Italia. Numerosi docenti che, nonostante il clima appena descritto, si sono rimboccati le maniche e hanno prodotto esempi straordinari di innovazione e qualità educativa (ne discuteremo a breve a Firenze in un seminario nazionale di www.educationduepuntozero.it).
Il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, consapevole della gravità della situazione, ha affermato che i parlamentari del Pd voteranno contro quella proposta. E senza il voto del Pd quella proposta in Parlamento non passerà. So che il ministro Profumo, annunciando la possibilità di cambiare la norma, ha dato mandato ai tecnici del ministero di studiare l’ipotesi di spostare la ricerca dei risparmi dal costo del corpo docente a capitoli di spesa capaci, attraverso una revisione selettiva, di eliminare sprechi amministrativi. Personalmente mi sento di fare un appello alle autorità di governo affinché annuncino subito di accettare tali cambiamenti e al Pd di svolgere un’azione parlamentare risoluta per cancellare la norma. Il messaggio alle scuole deve arrivare chiaro come quello lanciato da Obama: se da un aereo troppo carico si deve buttare giù qualcosa di pesante per mantenere la rotta, l’unica certezza è quella che non si può gettar via: il motore.
l’Unità 23.10.12
Diffamazione, la vecchia legge meglio della riforma
Il testo nato per eliminare la punizione con il carcere si è trasformato in uno strumento per liquidare il giornalismo più incisivo e controllare la Rete
di Roberto Natale
Se governo e Parlamento proprio vogliono, ricominciamo a protestare senza esitazioni. L’autonomia del giornalismo e il diritto dei cittadini ad una informazione corretta sono per noi valori fondamentali in ogni stagione politica, indipendentemente dal nome dell’inquilino di Palazzo Chigi.
E allora oggi, dalle 17,30 alle 19, saremo di nuovo al Pantheon come al tempo della battaglia (vinta) contro il ddl intercettazioni in contemporanea con l’arrivo in aula del disegno di legge sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa. Un presidio, per ora, contro quella che si sta configurando come una nuova norma-bavaglio.
È impressionante il modo in cui, sull’iniziale (e condivisibile) proposito nato dal «caso Sallusti» di eliminare il carcere per i giornalisti, si è innestata una serie di proposte vendicative e rancorose, come se si volesse cogliere l’occasione per liquidare il giornalismo più incisivo e far pagare all’informazione i conti del diffuso clima «anti-casta».
La spia più evidente e pericolosa è l’abnorme innalzamento delle sanzioni in denaro: 100mila euro (questo il nuovo massimo) sono una cifra già pesante per un grande giornale, ma sarebbero una condanna a morte per tante voci medie e piccole, che dovrebbero chiudere, e per i molti precari e freelance che una somma del genere ci mettono qualche anno a guadagnarla. Inevitabile sarebbe l’intervento diretto e invasivo dell’editore sui contenuti del giornale: direttore e capocronista non potrebbero sottrarsi ad un attentissimo vaglio preliminare degli articoli «pericolosi», con l’effetto di accantonare temi suscettibili di irritare i potenti (in politica, economia o finanza).
Quanto alla rettifica, è giusto renderne più stringente l’obbligo: troppo spesso noi giornalisti abbiamo disatteso un basilare dovere professionale, nascondendo a pagina 40 la correzione di errori gridati a pagina 1. Ma se la rettifica viene fatta presto e bene, deve servire a fermare l’azione penale; tranne che nei casi di diffamazione grave e ripetuta, nei quali è giusto che si arrivi alla sospensione dall’attività professionale, e persino alla radiazione dall’Albo (non stiamo certo chiedendo l’impunità per noi giornalisti). Ma che questa legge voglia tenere l’informazione sotto scacco lo dimostra l’assenza di meccanismi che scoraggino le richieste di risarcimento danni, in sede civile, «sparate» senza limiti (fin sopra il milione di euro) per intimidire giornalisti ed editori senza che coloro che si dicono diffamati paghino pegno se la diffamazione non c’è. Di questo fastidio per l’informazione fa le spese anche la rete: i testi in discussione non distinguono tra i doveri del giornalismo professionale e le regole alle quali devono attenersi i blogger, che è sbagliato assimilare a strutture redazionali organizzate.
È duro dirlo: ma se queste rimarranno le caratteristiche del provvedimento, è meglio che il Senato lasci in vigore la brutta legge esistente, carcere incluso. Però con l’uscita di Berlusconi non è stata archiviata l’alleanza tra i giornalisti e i tanti cittadini non più disposti a farsi sequestrare il diritto di sapere.
Se uguale è il rischio-bavaglio, uguale sarà la risposta.
La Stampa 23.10.12
Diffamazione, c’è poco da cambiare
di Carlo Federico Grosso
Oggi la commissione giustizia del Senato dovrebbe licenziare la riforma della diffamazione a mezzo stampa. Il Parlamento sta tuttavia affrontando tale riforma in modo pessimo e la legge, che sembrava destinata ad eliminare giustamente il carcere per i giornalisti, rischia di diventare, in realtà, un oggetto imbarazzante.
L’obiettivo perseguito, la cancellazione della pena detentiva, è del tutto condivisibile. E, si badi, non si tratta di un’innovazione utile soltanto per Sallusti, bensì di una novità che riflette i più moderni orientamenti in materia di sanzione penale, favorevoli, tutti, a utilizzare il carcere soltanto nei confronti dei reati più gravi ed a sostituirlo, negli altri casi, con sanzioni alternative pecuniarie o interdittive.
l nuovo testo presentato al Senato, e i successivi emendamenti depositati, rischiano tuttavia di turbare l’esercizio della professione giornalistica e di incidere, di conseguenza, sulla libertà di stampa. Prevista l’eliminazione della prigione, per mantenere comunque salda l’efficacia preventiva della norma, s’ipotizza di elevare il livello delle pene pecuniarie e di prevedere, in caso di recidiva, anche sanzioni interdittive. In linea di principio nulla da obiettare. Il problema è definire comunque entro confini ragionevoli il livello del carico pecuniario e non pecuniario minacciato e l’ambito delle persone alle quali le sanzioni si applicano: se la sanzione diventa troppo elevata, e se si coinvolge nella condanna in modo diretto la proprietà del giornale, si rischia infatti di incidere sulla libertà del giornalista (non a caso la Corte di Strasburgo ha, di recente, giudicato che pene eccessive costituiscono una lesione della libertà d’informazione sancita dai trattati europei).
Qual è tuttavia, esattamente, il livello sanzionatorio che s’ipotizza nel progetto? Leggendo i diversi emendamenti, emerge che in caso di diffamazione per fatto determinato si prevede addirittura la multa da 5.000 a 100.000 euro, che può essere raddoppiata se il colpevole è recidivo; a questa multa si affianca la possibilità d’infliggere una elevata riparazione pecuniaria a favore delle vittime e di condannare ulteriormente il diffamatore al risarcimento dei danni. Chi pagherà, tuttavia, tutte queste somme di denaro: il giornalista, ovvero l’editore, che fino ad ora si è accollato (quantomeno nelle grandi testate) l’onere delle spese legali e dei risarcimenti? E se l’editore, a fronte delle nuove somme inevitabilmente ingombranti, dovesse rifiutarsi di farlo?
Non solo. Da taluni emendamenti affiora un evidente spirito di punizione nei confronti del mondo della informazione. Si è ipotizzato ad esempio di cancellare la copertura finanziaria normalmente offerta al giornalista dalla testata, prevedendo la nullità delle clausole contrattuali in forza delle quali la proprietà s’impegna, normalmente, a fare fronte alle spese legali. Si è ipotizzato, per altro verso, di coinvolgere direttamente la proprietà nel processo penale come responsabile in solido delle conseguenze civili dell’eventuale condanna. E se, in conseguenza, i giornalisti, intimoriti, smettessero di essere incisivi nelle loro inchieste o nei loro servizi? E se, all’opposto, le proprietà, preoccupate dal rischio di dovere pagare eccessivo denaro, facessero pesare in redazione tale rischio per ammorbidire direttore e giornalisti? Non risulterebbe, in questo modo, alterato il delicato equilibrio che ha garantito, fino ad oggi, la libertà del giornalista e dell’informazione? E se, ancora, questo carico complessivamente pesante costringesse le testate più piccole e povere a chiudere?
Fortunatamente la situazione sembra ancora fluida. Qualche promotore del progetto, di fronte alle critiche, pare essersi sfilato. E’ possibile che già oggi, addirittura, la commissione parlamentare approvi un testo innovativo rispetto a quello prospettato. Nell’attesa delle auspicate novità, mi permetto comunque di sviluppare alcune considerazioni sulle linee di una possibile riforma ragionevole.
A mio avviso, in materia di diffamazione a mezzo stampa, c’è poco da cambiare. Partiamo dalla valutazione di ciò che accade oggi nelle aule giudiziarie penali quando si discute di diffamatori e diffamati. Se il giudice ritiene provata la commissione del reato, nella stragrande maggioranza dei casi (pressoché sempre) condanna alla multa prevista in alternativa alla reclusione, e, se c’è costituzione di parte civile, al risarcimento dei danni subiti dalla vittima. Soltanto in via del tutto eccezionale (quasi una stravaganza) qualche giudice fa, invece, ricorso alla pena detentiva. E nessuno ritiene che, stando così le cose sul terreno della prassi giudiziaria, vi sia scarsa tutela delle vittime del reato o insufficiente punizione dei colpevoli.
Ma allora perché non limitarsi a formalizzare, sul terreno della legge, questa normativa consolidata nella prassi: abrogare quindi formalmente il carcere e confermare, nel resto, le sanzioni oggi concretamente applicate nei confronti degli autori della diffamazione e a ristoro delle persone offese? Tutt’al più, per rendere più incisiva la riparazione dell’onore senza innescare meccanismi pericolosi per la libertà di stampa, si potrebbe pensare d’introdurre una disciplina più stringente delle rettifiche (pubblicazione immediata, uguale spazio, uguale collocazione), di utilizzare, ma in modo molto attento, lo strumento della sanzione disciplinare, di prevedere circuiti privilegiati per i processi per diffamazione in modo da assicurare alla vittima la soddisfazione per la condanna del suo diffamatore quando di tale condanna ancora gli importa qualcosa.
l’Unità 23.10.12
L’Aquila, sei anni agli scienziati del sisma
Una sentenza rischiosa
di Pietro Greco
LI HANNO CONDANNATI TUTTI, CON UNA PENA DURISSIMA: 6 ANNI DI RECLUSIONE. Li hanno condannati tutti, i membri della Commissione Grandi Rischi che si riunì a l’Aquila poco prima del terremoto del 6 aprile 2009. Li hanno condannati tutti, dirigenti della Protezione Civile e illustri geofisici come Franco Barberi ed Enzo Boschi, non per «cattiva scienza» ma per «cattiva comunicazione della scienza».
È la prima volta al mondo. E senza voler entrare nel merito della vicenda giudiziaria la sentenza potrebbe avere effetti perversi sui diritti dei cittadini, nell’era della conoscenza, ad avere pieno e totale accesso all’informazione scientifica.
Vediamo perché. Tutto nasce dallo sciame sismico che nel dicembre 2008 investe l’Abruzzo, interessando in maniera pesante il capoluogo, L’Aquila. Le scosse si succedono per mesi. Ogni tanto ce n’è una più forte. C’è chi teme che possa arrivare una devastante. Per fare il punto della situazione l’allora capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, il 31 marzo convoca, proprio a L’Aquila, una riunione della Commissione Nazionale Grandi Rischi. La commissione, presieduta dal vice capo della Protezione Civile, Bernardo De
Bernardinis, è composta da tecnici e scienziati e ha il compito di «fornire pareri di carattere tecnico-scientifico su quesiti del Capo Dipartimento e dare indicazioni su come migliorare la capacita di valutazione, previsione e prevenzione dei diversi rischi».
Al termine delle riunione De Bernardinis tiene una conferenza stampa rassicurante. Gli aquilani possono stare tranquilli e restare nello loro case, lo sciame sismico sta dissipando energia e dunque non ci sarà una scossa più forte.
Come siano andate le cose è noto. La scossa più forte arrivò una settimana dopo, mietendo molte vite. I famigliari di alcuni aquilani deceduti accusano la Commissione: i nostri cari volevano lasciare L’Aquila. Voi li avete rassicurati, inducendoli a restare. Siete colpevoli della loro morte.
La tesi è ripresa dalla Procura, che accusa la Commissione di cattiva comunicazione del rischio sismico. Di non aver detto compiutamente tutto quello che gli esperti, in scienza e coscienza, sapevano. E cioè che uno sciame sismico che dura da mesi si conclude in genere con un’attenuazione dell’intensità delle scosse. Già, in genere. Ma non sempre. In altri termini sostengono i giudici la Commissione ha dato per certo quello che è solo molto probabile. Male informata, la gente è rimasta in città ed è morta sotto le macerie di una scossa devastante. Se aveste data un’informazione corretta,
molte di quelle persone si sarebbero salvate. Dunque vi accusiamo di omicidio plurimo colposo.
Si badi bene. L’accusa non è quella di non aver previsto il terremoto. Perché i terremoti non sono prevedibili con precisione deterministica. Ma di aver fornito un errato quadro statistico.
Ma nessuno nel mondo aveva accusato di omicidio colposo tecnici e scienziati di una Commissione che ha solo parere consultivo a causa di una comunicazione giudicata errata. E il mondo si è interessato alla vicenda, forse più dell’Italia stessa.
Il dibattito in tribunale è stato molto seguito dalle riviste scientifiche internazionali.
La sentenza di primo grado giunta ieri ha accolto la tesi dell’accusa. E sta già suscitando clamore, anche fuori d’Italia.
Lo ripetiamo, non giudichiamo la sentenza. Ma ne prevediamo gli effetti. D’ora in aventi molti tecnici e molti scienziati non si porranno più il problema di informare correttamente il pubblico. Per evitare ogni equivoco, preferiranno tacere. Non esporsi. Privando i cittadini del diritto di sapere.
Certo non sta ai giudici pronunciare sentenze che tengano conto degli effetti culturali e sociali. Ma sta alla politica regolare le forme e i modi in cui devono essere soddisfatti i nuovi diritti di cittadinanza scientifica.
Corriere 23.10.12
I dubbi, le conseguenze
di Sergio Rizzo
Abbiamo capito perché la commissione Grandi rischi si chiama così. I Grandi rischi sono quelli che corrono i suoi componenti, come si deduce dalla sentenza che li ha condannati a sei anni di prigione per non aver previsto il devastante terremoto dell'Abruzzo. Qui non è in discussione il merito della decisione dei giudici, a proposito della quale va comunque ricordato che non esiste alcun precedente a livello mondiale. Ma le conseguenze di una tanto singolare interpretazione del concetto di giustizia non possono essere taciute.
La più immediata è la delegittimazione della stessa commissione Grandi rischi, che stando a quella sentenza sarebbe formata da incompetenti assoluti. La più evidente è invece lo sconcerto planetario suscitato dalla notizia che in Italia esperti considerati responsabili della mancata previsione di un terremoto, a differenza dei loro colleghi giapponesi o americani che a casa loro non hanno evidentemente saputo fare di meglio, vengono spediti in galera per omicidio. La più preoccupante, tuttavia, è che d'ora in poi non ci sarà uno scienziato disposto a far parte di quella commissione, sapendo di poter andare incontro a pesantissime condanne penali per non aver indovinato il verificarsi di una scossa catastrofica.
Sanzioni che invece non hanno mai neppure sfiorato i veri responsabili dei disastri. Per esempio, certi amministratori che non si sono accorti di palazzine spuntate come funghi nei letti dei fiumi. Per esempio, i politici nazionali che pensando soltanto al consenso hanno approvato tre condoni edilizi, e quelli locali che ne hanno promessi decine, alimentando così la piaga dell'abusivismo: ben sapendo come in un Paese fragilissimo si sarebbero condonate milioni di costruzioni prive di qualunque precauzione asismica. Per esempio, gli autori di piani regolatori sconsiderati che hanno consentito all'Italia di conseguire il deprecabile record nel consumo del suolo, in molti casi senza nemmeno verifiche geologiche accurate né prescrizioni di elementari prudenze costruttive. Non ci dice forse questo l'ultimo terribile, e già dimenticato, terremoto dell'Emilia-Romagna e della Lombardia con la strage dei capannoni industriali?
Per riparare ai danni di tutti gli eventi sismici che si sono susseguiti dal 1968 al 2003, non considerando quindi le tragedie dell'ultimo decennio, abbiamo speso l'equivalente di 162 miliardi di euro. Senza calcolare ovviamente le vite umane: quelle non hanno prezzo. Avendo più cura per l'ambiente e il modo di costruire, forse, non si sarebbe potuto evitare tutto questo. Ma buona parte sì. Secondo i tecnici sarebbero stati sufficienti fra i 25 e i 41 miliardi per mettere in sicurezza sismica il patrimonio edilizio. Risparmiando tanto dolore.
E di una cosa almeno siamo sicuri. Se non è stato fatto, non è per colpa di scienziati incapaci di prevedere i terremoti.
Corriere 23.10.12
Quell’intreccio maldestro tra scienza e politica
Su «New Scientist»: processo senza senso
L'articolo su New Scientist che riporta la condanna dei sette esperti italiani
di Anna Meldolesi
Al Tribunale dell'Aquila, ieri, c'erano inviati da tutto il mondo, da Al Jazeera alla tv giapponese. La notizia del verdetto ha meritato l'occhiello delle occasioni importanti sui media stranieri, breaking news, e i commenti sono stati ovunque all'insegna dello sconcerto. Sembra un paradosso ma non lo è: sin dall'inizio la comunità internazionale ha compreso meglio di noi la posta in gioco di questo processo kafkiano. Degli scienziati accusati di omicidio colposo plurimo per aver preso parte alla riunione di una commissione e aver rassicurato la popolazione locale, pochi giorni prima che una scossa distruttiva facesse il suo sporco lavoro. E adesso c'è anche una pena severa, che forse placherà il dolore dei parenti delle vittime (forse), ma non rende giustizia e potrebbe complicare la gestione delle future emergenze.
La rivista New Scientist ha rilanciato un commento scritto da Thomas Jordan prima del verdetto. Lo studioso di scienze della Terra ha presieduto il panel di esperti nominato dal Governo italiano dopo il disastro dell'Aquila e afferma: «Non vedo che senso abbia processare dei servitori dello Stato che cercavano in buona fede di proteggere la cittadinanza in circostanze caotiche. Con il senno di poi la mancata capacità di comunicare l'entità del pericolo appare incresciosa, ma le inazioni di una commissione sotto stress non possono essere rappresentate come atti criminali dei singoli membri». La lezione da imparare, secondo Jordan, è che il ruolo dei consulenti scientifici va separato da quello dei decisori politici. I primi hanno il compito di fornire informazioni obiettive sui rischi naturali, i secondi devono controbilanciare i benefici delle misure precauzionali e il costo dei falsi allarmi.
Ma queste due anime, nel policy-making italiano, sono da sempre maldestramente intrecciate. Quando arriverà il prossimo sciame sismico o la prossima minaccia di alluvione, che effetto avrà sugli esperti il precedente dell'Aquila? Se lo chiedono anche fuori dai nostri confini e così rispondono. «Spero che gli italiani si rendano conto di quanto sono arretrati questo processo e questo verdetto» (Erik Klemetti, professore di scienze della Terra in Ohio). «È fondamentale che gli scienziati siano capaci di suggerire i modi per mitigare e valutare i rischi senza essere ritenuti penalmente responsabili» (Ted Nield della rivista Geoscientist). Parole simili a quelle, pesanti come pietre, pronunciate dall'attuale presidente della Commissione grandi rischi Luciano Maiani. Bill McGuire, geofisico britannico, ci manda a dire che «ogni scienziato che lavora nel campo dei disastri naturali ci penserà due volte prima di fare una previsione, anche se pensa di avere abbastanza dati per fornirne una affidabile. Nella peggiore delle ipotesi si potrebbe arrivare a una moratoria delle previsioni di ogni tipo e allora il bilancio di morti e devastazioni sarebbe ben più grave di quello dell'Aquila». L'organizzazione britannica «Sense about Science» parla per bocca della direttrice Tracey Brown: «Invece di criminalizzare gli scienziati, i governi dovrebbero lavorare per comprendere e comunicare l'incertezza quando ricevono una consulenza scientifica». Giustissimo, ma ancora più importante è il messaggio che consegna all'Italia Ian Main, sismologo di Edimburgo. Smettiamola di perdere tempo con i capri espiatori. «Prima il focus sarà spostato sul miglioramento degli standard di costruzione sull'esempio di California e Giappone, meno vittime vedremo negli anni a venire».
Repubblica 23.10.12
Processo alla previsione
di Stefano Rodotà
È BUONA norma, di fronte a sentenze di particolare rilevanza, ricordare che un giudizio adeguato esige la lettura delle motivazioni. Tacere, quindi, fino a quando queste saranno conosciute? Ma la pesante condanna dei componenti della Commissione Grandi Rischi solleva troppi interrogativi.
Diventa quindi legittimo cercare di individuare almeno i punti critici intorno ai quali già si è avviata una discussione che richiama i dubbi e le emozioni che accompagnarono subito il terribile terremoto che colpì quella città.
La condanna è stata pronunciata per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni personali, con riferimento al fatto che la Commissione avrebbe dato informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie sulla pericolosità della situazione dopo le scosse che si erano registrate nei mesi precedenti al terremoto del 6 aprile 2009. Il punto chiave, allora, diventa quello delle modalità delle informazioni fornite e del modo in cui queste erano state elaborate. Un processo alla scienza, la porta aperta a qualsiasi ciarlatano che lancia allarmi senza un adeguato fondamento? La risposta è affidata alle motivazioni della sentenza, anche se gli elementi disponibi-li, messi in evidenza dalla requisitoria del pubblico ministero, orienterebbero le valutazioni piuttosto verso la frettolosità del lavoro della Commissione, le modalità del comunicato diramato alla fine della veloce riunione, la dichiarata volontà dell’allora responsabile della Protezione civile di utilizzare la Commissione per rassicurare la popolazione di fronte a un allarme ritenuto ingiustificato. Così delimitata la materia del giudizio, non sarebbe la scienza ad essere sotto accusa, ma i comportamenti specifici delle persone riunite d’urgenza in quella mattinata, di chi ha scritto il comunicato, di chi guidava la Protezione civile. Questa precisazione, tuttavia, non sarebbe sufficiente se si concludesse in modo sbrigativo che il rischio terremoto sfugge alla possibilità scientifica della previsione, sì che ricercare responsabilità individuali sarebbe una forzatura. Allo stesso tempo, però, il riferimento all’uragano Katrina, fatto dal pubblico ministero, appare improprio, perché in quel caso la negligenza era evidentissima di fronte ad un rischio ormai evidente.
Allontanandoci da posizioni tanto divaricate, è possibile provare a fare qualche riflessione intorno agli effetti che la sentenza è destinata comunque a produrre. È indubbio, infatti, che diverrà particolarmente difficile acquisire le competenze necessarie per svolgere funzioni così delicate. Quali studiosi accetteranno domani di far parte della Commissione Grandi Rischi? E, comunque, non si manifesterà una attitudine simile a quella che ha dato origine alla cosiddetta “medicina difensiva”? Proprio di fronte al rischio di dover risarcire possibili danni, si sono radicati comportamenti volti non a garantire la salute del paziente, ma a mettere il medico al riparo da quella eventualità. Ecco, allora, la prescrizione infinita di accertamenti preventivi, di analisi forse inutili, fino alla rinuncia ad effettuare interventi ritenuti troppo rischiosi non per il malato, ma per il chirurgo.
Forse, di questa attitudine difensiva abbiamo già avuto una prova in occasione dell’allarme recente su un nubifragio a Roma, rivelatosi in buona parte infondato, ma che evidentemente rifletteva la volontà di non trovarsi di nuovo di fronte ad una emergenza incontrollabile, com’era avvenuto in occasione della memorabile nevicata dell’inverno scorso. Meglio questo, si dirà, che far correre rischi alle persone. Ma un regime di allarme permanente e generalizzato, non filtrato da alcuna valutazione scientifica, può alterare le dinamiche sociali, produrre costi ingiustificati.
Nella sentenza di ieri si riflette un bisogno diffuso di individuare comunque responsabilità singole anche in situazioni complesse. Questo non vuol dire che, per evitare simili distorsioni, debbano svanire le responsabilità individuali. Dobbiamo piuttosto interrogarci su quali siano i modi più corretti per affrontare questioni difficili in una società sempre più spesso definita appunto come quella del rischio e dell’incertezza. Ma questa definizione non assolve dall’obbligo di apprestare strumenti, anche giuridici, adeguati al modo in cui si manifestano e si sommano problemi vecchi e nuovi. Basta ricordare il rilievo assunto da principi come quelli di prevenzione e di precauzione, che hanno determinato anche un modo diverso di costruire i criteri della valutazione scientifica. La scienza non è mai stata un mezzo per sottrarsi alle responsabilità.
La Stampa 23.10.12
“Presto un nuovo contenitore” I cattolici passano alla fase due
Todi, al lavoro per sostenere un bis del Prof a Palazzo Chigi
di Andrea Tornielli
Nel documento finale della riunione di Todi, presentato dal presidente delle Acli Andrea Olivero, si legge: « La grave crisi morale ed insieme la costante erosione di consensi rende oggi necessario un percorso che consenta, entro i prossimi appuntamenti elettorali, di generare proposte nuove tanto nel contenitore quanto nei contenuti». Il leader della Cisl Raffaele Bonanni, che ha ormai assunto il ruolo di «federatore», è ancora più esplicito: «Il vino deve andare solo in otri nuovi, perché nei vecchi diventa aceto». Dunque le associazioni del mondo del lavoro, ma anche le tradizionali sigle dell’impegno ecclesiale (a Todi c’erano Azione Cattolica, Rinnovamento nello Spirito, Focolarini, Neocatecumenali, Comunità di Sant’Egidio) concordano nella necessità di favorire l’impegno politico di loro esponenti creando qualcosa di nuovo, senza aderire agli attuali partiti: anche per questo i segretari Alfano, Bersani e Casini, inizialmente invitati, sono stati sollecitati a non presentarsi. Il nuovo «contenitore» punta a vincere le elezioni e a riportare Mario Monti a Palazzo Chigi nel 2013.
«Ci impegniamo – si legge nel documento finale – affinché la stagione inauguratasi con il governo Monti non si esaurisca e non si ritorni alla drammatica situazione precedente. È indubbio che è oggi necessario operare per dare al prossimo governo una maggioranza autenticamente politica, fondata su un programma condiviso e coerente». «Questo va fatto – continua il manifesto – assicurando la continuità con quanto di positivo è stato fatto in quest’ultimo anno, garantendo la prosecuzione delle politiche di risanamento del Paese e, al contempo, integrando gli obiettivi iniziali con quelli della crescita, dell’occupazione, di un nuovo welfare, di una ritrovata equità e di pieno ripristino dei valori costituzionali». Insomma, un’agenda Monti con alcuni correttivi, portata avanti da un’area politica nuova, di centro, ma con contenuti socialmente avanzati che vanno dal sostegno alle famiglie al reddito minimo di cittadinanza fino alla cittadinanza italiana per gli immigrati.
La nuova «cosa bianca» si saprà presto se «contenitore», partito vero e proprio o lista elettorale di sostegno al premier – certamente non sarà confessionale, ma sarà aperta alla collaborazione con quei laici che si stanno già muovendo per Monti. «Lavoreremo per una nuova offerta politica – ha spiegato Bonanni – lanciando un appello a coloro che fanno riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, a quanti si riconoscono nell’agenda Monti, anche laici, e a tutti coloro che si impegnano per un reale rinnovamento».
L’operazione è più avanzata di quanto appaia: Bonanni ha avuto diversi contatti con il presidente del Consiglio e con i suoi uomini. La svolta il mondo associativo è rappresentata dal passaggio dal pre-politico al politico, con un documento che mette insieme i presidenti di sei delle sette sigle che un anno fa diedero vita al primo «conclave» di Todi. All’appello manca solo la Coldiretti, che si è sfilata nei giorni scorsi. Ed è significativo che a sottoscrivere il manifesto siano associazioni che vanno dalle Acli alla Compagnia delle Opere. Segno inequivocabile che l’attuale offerta politica e le alleanze che si vanno prefigurando, come quella del Pd di Bersani con Nichi Vendola, lasciano perplesso questo mondo.
«Inizia da adesso – spiega Carlo Costalli, presidente del MCL – un percorso che deve portare, entro poche settimane, a costruire un movimento politico di cattolici e di laici, cui stiamo già lavorando da tempo, come punto d’incontro in grado di mobilitare significativamente il mondo cattolico proprio in forza della sua identità e dei suoi valori».
il Fatto 23.10.12
La crisi dei giornali pochi utili, molti dividendi
Rcs, l’espresso, Mondadori: debiti e tagli ai dipendenti ma i soci non se la passano male
Via Solferino in rivolta
di Giovanna Lantini
Milano Cedole sì, stipendi sempre meno. Per i soci il dividendo difficilmente manca. Anche se in piena crisi e per contenere i costi si tagliano i posti di lavoro. Se poi c’è di mezzo un bene prezioso come l’informazione, il contesto si complica. Non hanno tutti i torti i giornalisti di Corriere della Sera e Repubblica che, in forme diverse, in questi giorni stanno invitando i loro editori alla coerenza in tema di contenimento dei costi e incremento degli investimenti. Soprattutto se si guarda alla cedola incassata dai soci negli ultimi cinque anni: dal 2007 al 2011 i più importanti editori del Paese, Espresso, Mondadori e Rcs, hanno distribuito ben 337.323 milioni di euro di dividendi ai soci. I loro amministratori delegati nello stesso periodo hanno complessivamente incassato quasi 30 milioni di euro. In nome della crisi e della riduzione degli incassi pubblici-tari, sono stati però tagliati quasi 3300 posti, il 21% circa del totale.
ANCHE A DISPETTO del fatto che le tre aziende assieme abbiano generato circa 381 milioni di utili, somma che tiene conto delle massicce perdite dell'editrice del Corriere della Sera, Rcs, principalmente imputabili alla disastrosa acquisizione della spagnola Recoletos. Avventura fallimentare, quest’ultima, che sta minando gli equilibri nel composito azionariato del gruppo di via Solferino (da Mediobanca a Rotelli a Della Valle). Anche perché la Rcs, pur essendo la società messa peggio, è quella che ha tagliato di meno: 700 persone sulle 6628 che impiegava mediamente nel 2007 (-10,5%). E dire che nello stesso periodo la testata ammiraglia del gruppo, il Corriere, ha bruciato oltre 171 mila copie (-26,3%). Ultimo posto anche per remunerazione dei top manager, con Antonello Perricone che in cinque anni ha portato a casa 6,8 milioni di euro oltre a 3,4 milioni di liquidazione. Anche troppo, dicono oggi i giornalisti di via Solferino, visto che è sua la firma sull'acquisizione della spagnola Recoletos a 1,1 miliardi di euro, prezzo che oggi pare assurdo e che sta mettendo in difficoltà tutto il gruppo su cui ora gravano 938,2 milioni di debiti (dato di fine 2011). Un buco solo in parte riempito dalla vendita dell’editore Flammarion e che ha assunto dimensioni tali da far registrare – a metà anno – perdite superiori a un terzo del patrimonio. In cinque anni, tra 2007 e 2011, il saldo tra utili e perdite negativo per 186,5 milioni. La vicenda ha creato burrasca tra i soci, benché ora, come dichiarato giovedì 18 dal presidente di Banca Intesa, Giovanni Bazoli, sarebbero pronti al grande passo dell'aumento di capitale che secondo il sindacato dei giornalisti del Corriere dovrebbe arrivare a 400 milioni. Cifra che però poteva essere più bassa se gli azionisti si fossero attribuiti meno dividendi di quanto hanno fatto, cioè quasi 100 milioni nel quinquennio.
TACCIONO, PER ORA, i sindacati della Mondadori nonostante il gruppo editoriale della famiglia Berlusconi in questi anni abbia abbinato cesoie e dividendi. Complessivamente, infatti, nel quinquennio l'editrice di Segrate ha lasciato a casa 1914 persone (-34%) e ha versato agli azionisti 124.1 milioni di euro su utili per un totale di 335.7 milioni. Record, rispetto ai concorrenti, anche per gli stipendi dei top manager, con l'amministratore delegato, Maurizio Costa, che nel periodo ha portato a casa 13.85 milioni. Del resto lui il suo lavoro di pulizia dei bilanci l'ha fatto bene: tra risparmi sui costi e utili macinati, Mondadori nei cinque anni ha ridotto la sua posizione debitoria del 38% portandola da 535 a 335 milioni a dispetto del fatto che testate importanti come Panorama hanno bruciato il 26% delle copie crollate dalle 479 mila del 2007 alle 351 mi-la del 2011 (-127 mila).
MEGLIO DI LUI ha fatto solo la collega dell'Espresso, Monica Mondardini, che ha sostituito Marco Benedetto nel 2009. Principalmente grazie alla sua guida, l'editrice di Repubblica, a dispetto di un crollo del 29,5% delle copie del quotidiano (-127,6 mila) e del settimanale del 25,8% (-101.8 mila), ha chiuso il quinquennio con 231,6 milioni di utili, più di metà dei quali (123.529 milioni) sono andati nelle tasche degli azionisti capitanati da Carlo De Benedetti. E intanto il debito dell'azienda è sceso quasi del 60% passando da 265 a 110 milioni. Un aiuto è senz'altro arrivato dai tagli del 20% circa del personale che a fine 2011 era di 2747 persone, 667 in meno del 2007.
il Fatto 23.10.12
Il ribelle rosso vien (trasmesso) solo di notte
di Fulvio Abbate
Sabato sera, su Rai Storia (canale 54 del digitale terrestre) è andato in onda un bel documentario di Giancarlo Bocchi, Il ribelle, dedicato alla storia di Guido Picelli, leggenda vivente e combattente dell’antifascismo, caduto sul fronte di Spagna nel 1937, quando le sorti della Repubblica non sembravano ancora interamente compromesse dalla sollevazione dei militari golpisti e dei loro alleati, nazisti tedeschi e fascisti italiani. Il comunista Picelli, nome sovente associato a un’altra resistenza pre-bellica, cioè alle barricate della Parma (dov’era nato nel 1889) d’Oltretorrente. Con gli Arditi del popolo a fronteggiare gli squadristi in camicia nera di Italo Balbo. Un’avventura esemplare del “secolo breve”, che a raccontarla per intero ci sarebbe bisogno di un arazzo storico dalla fittissima trama. Nel senso che, narrata per intero, la vicenda umana di Picelli pretende di mostrare il giovane Guido attore con Ermete Zacconi, e poi, già nel 1921, deputato con il Partito socialista e nel 1924 con il Partito comunista d'Italia, per lui c’è perfino la galera e il confino a Lipari, e ancora, nel 1932, eccolo in Urss emarginato e perseguitato dagli stalinisti. Tuttavia Picelli nell'ottobre del 1936 riuscirà a uscire dall'Urss per raggiungere la Spagna in fiamme con l'intento di combattere i franchisti. Un comunista atipico, se è vero che addirittura lo ritroveremo vicino al Poum (un’organizzazione antistalinista ispirata a Trotskij) che avrebbe voluto affidargli il comando di un battaglione, e invece nel novembre 1936 Guido assumerà il comando del 9° Battaglione delle Brigate Internazionali, denominato poi “Battaglione Picelli”.
POI, LA MORTE. In battaglia, e le ombre sui reali mandanti ed esecutori del delitto, sebbene avvenuto al fronte. Un documentario impeccabile, Il ribelle, ingiusto però che sia stato piazzato ai piani più bui del palinsesto, poco prima di mezzanotte, quando la buona volontà civile cede al sonno, soprattutto presso un popolo allergico alla memoria collettiva, il nostro. Nonostante i documenti segreti scoperti da Bocchi a Mosca e altrove, assieme ai filmati inediti rinvenuti nel fondo degli archivi, il nostro Servizio pubblico televisivo ha scelto di ignorare il documentario per un anno. “Una mosca bianca in un palinsesto zeppo di filmati su Mussolini e Hitler”, ribadisce, con amarezza, il regista.
Poi, finalmente, la messa in onda. Assieme allo smacco. Pochi istanti dopo gli ultimi fotogrammi crepitanti del fronte di Madrid, con la cavalleria dei miliziani “rossi”, in attesa che arrivassero i tre minuti inediti con le immagini in movimento dei suoi funerali, ecco che improvvisamente è arrivato il nero, addirittura privo perfino dei titoli di coda. Un finale troncato di netto. Più di 70 anni dopo Picelli muore un’altra volta ancora, e non più per eroicamente al fronte con le armi in pugno. Adesso per mano dei responsabili del palinsesto Rai. La storia delle rivolte non è fatta per gli italiani, evidentemente.
www.teledurruti.it
GUIDO PICELLI comunista e antifascista, a cui è dedicato “Il ribelle” di Giancarlo Bocchi
Corriere 23.10.12
Pussy Riot ai lavori forzati negli ex gulag staliniani
E i giudici convocano Madonna per «propaganda gay»
di Fabrizio Dragosei
MOSCA — La più vicina è stata spedita a più di 400 chilometri dalla capitale, in Mordovia, ma non è certo quella che si troverà meglio.
Nadezhda Tolokonnikova, la più giovane delle Pussy Riot, 22 anni e una figlia di quattro, potrebbe anche finire nel campo di lavori forzati dove venne spedita dal Kgb Olga Ivinskaya, la Lara dell'autore del Dottor Zhivago Boris Pasternak. «Eravamo messe in fila sulla terra nuda, con le nostre casacche grigie con il numero sulla schiena... eravamo coperte di mosche», ha scritto nelle sue memorie l'amante del dissidente, premio Nobel per la letteratura. In un campo maschile della Mordovia morì un altro «ribelle», lo scrittore e poeta Yurij Galanskov. Non negli anni Trenta delle grandi purghe, ma nel 1972. Quando la sua ulcera non curata divenne gravissima, lo fecero operare da un altro recluso che non era medico.
Maria Alyokina, l'altra Pussy Riot che a 24 anni ha un figlio di 5 anni, sembra sia finita nella regione di Perm, ai piedi degli Urali. Altra zona di gulag, di sofferenze indicibili per milioni di cittadini sovietici (il famigerato lager Perm 36 è stato chiuso solo nel 1987). Il ballo e i canti per denunciare i legami delle autorità religiose con Vladimir Putin stanno costando carissimi alle componenti del gruppo punk di protesta. Una, la trentenne Yekaterina Samutsevich, è stata liberata dopo la condanna a due anni di reclusione. Ha detto che se aveva offeso qualcuno chiedeva scusa. Masha e Nadia invece dovranno scontare l'intero periodo in un campo di lavoro. Non a Mosca, come avevano chiesto per poter rimanere in contatto con i figlioletti. Non nella provincia della capitale, ma lontanissimo, a centinaia di chilometri.
La notizia del trasferimento non è ancora ufficiale, visto che viene dalle guardie carcerarie che l'hanno data ai parenti andati in prigione a portare qualche genere di conforto. Ieri, 48 ore dopo l'inizio del trasferimento, le donne risultavano ancora in viaggio, e chi conosce come vanno le cose assicura che questi spostamenti sono lunghi e faticosi, viste tutte le incombenze burocratiche. Un potere che ha deciso di calcare sempre di più la mano? Sembra di sì, visti anche gli altri avvenimenti di questi giorni. Di fronte all'opposizione che ha organizzato le primarie per dare un segno di vita, scattano nuove misure repressive. Uno dei leader, Sergej Udaltsov, è sotto tiro e sta per essere arrestato. Lo accusano di aver preso soldi da un georgiano «per organizzare disordini di massa» in base a un video girato di nascosto dai servizi che non si sa se sia genuino. Uno dei suoi collaboratori, Leonid Razvozzhayev, si trovava in Ucraina dove voleva chiedere asilo politico. È stato rapito da uomini mascherati. Poi è ricomparso a Mosca dove la Procura dice che ha spontaneamente confessato di aver partecipato al complotto (naturalmente con Udaltsov). Prima di essere portato in carcere, Razvozzhayev ha urlato ai giornalisti: «Mi hanno torturato per due giorni!». Poi però pare che abbia invece detto di non aver subito alcuna violenza, secondo quanto ha riferito il commissario del governo per i diritti umani. E mentre Putin vara un decreto per reintrodurre «l'educazione patriottica» (forse anche con l'ausilio dei cosacchi), i giudici tentano di mettere il sale sulla coda a Madonna, la cantante che nel suo spettacolo a San Pietroburgo si pronunciò a favore delle relazioni libere. È accusata (da nove «danneggiati») di aver fatto propaganda omosessuale davanti a bambini (portati al concerto dai genitori). L'avevano già convocata nella città sul Baltico per l'11 ottobre. Ora i giudici ci riprovano per dopodomani.
Repubblica 23.10.12
Il mondo “sorpreso” da Romney solo Israele punta sul repubblicano
La sua rimonta preoccupa i governi che tifano Obama
di Federico Rampini
NEW YORK — Eurozona, Medio Oriente, Cina: il resto del mondo aveva “votato” in anticipo per Barack Obama dando per scontata una sua conferma il 6 novembre; all’indomani del terzo duello televisivo dominato dai temi di politica estera, arriva lo shock. La risalita di Mitt Romney nei sondaggi delle ultime settimane costringe i governi stranieri a includere un nuovo scenario, considerato altamente improbabile solo un mese fa. Con poche eccezioni come Israele e qualche leader dell’Est europeo, nessuno aveva puntato davvero sul repubblicano. Molte capitali lo considerano non solo un’incognita, ma una potenziale minaccia. Se ne accorge la stampa americana, e il Washington Post avverte che «i leader stranieri sono impreparati».
EUROPA
Una ricerca del German Marshall Fund indica che il 75% dei cittadini sul Vecchio continente “tifa” Obama; con una punta dell’82% tra i tedeschi. Non è più la stessa “Obama-mania” del 2008, le delusioni ci sono state. Ma nel frattempo il presidente democratico si è rafforzato come partner essenziale dei governi. Nel corso della crisi dell’eurozona ha svolto un ruolo prezioso per mediare tra Angela Merkel e i governi mediterranei. È stato talmente assiduo nei suoi interventi da essere considerato quasi un “membro esterno” dell’eurozona. Anche la destra lo rispetta: quando la Merkel inviò una delegazione del suo partito cristianodemocratico alla convention repubblicana (Tampa, Florida), quelli rilasciarono interviste alla stampa tedesca per sottolineare di avere eccellenti rapporti anche coi democratici Usa. Non giova a Romney l’avere usato l’Europa come «paradigma negativo » durante tutta la campagna elettorale, citando Italia Spagna e Grecia come «nazioni fallite», «società assistite dove i cittadini si aspettano tutto dallo Stato». La stessa Merkel ha una visione dell’austerity che include un’elevata pressione fiscale, agli antipodi rispetto al programma di Romney. Resta qualche paese dell’Europa orientale affezionato ai repubblicani, in memoria di Ronald Reagan e del suo anticomunismo. L’ex presidente polacco Lech Walesa appoggia Romney. Viceversa il repubblicano è riuscito a indispettire un alleato storico come il partito conservatore inglese, con le sue gaffe in occasione della visita ai Giochi olimpici di Londra (dichiarò «impreparata» la capitale britannica).
GRANDE MEDIO ORIENTE
La popolarità di Obama è scesa molto tra i popoli islamici, dal Nordafrica all’Afghanistan, rispetto al suo discorso del 2009 all’università del Cairo. Lo si è visto con la violenza delle manifestazioni anti-americane dopo il film su Maometto: la rapidità con cui
quelle reazioni hanno riempito le piazze ha rivelato il persistere di risentimenti profondi. I droni che fanno stragi di civili in Afghanistan e Pakistan non aiutano, così come lo stallo sulla questione palestinese. E tuttavia Obama è stato il sostenitore delle aspirazioni popolari nelle “primavere arabe”, ciò che Romney condanna come un errore. L’Iran avrebbe dato qualche disponibilità a un dialogo diretto con Washington sul nucleare, ma a condizione che l’interlocutore sia Obama. Per Romney si schiera invece un bel pezzo della leadership d’Israele, Benjamin Netanyahu in testa. I due sono amici di lunga data, furono anche colleghi. Romney accusa Obama di avere tradito Israele.
CINA
Il governo di Pechino segue con preoccupazione l’escalation di critiche lanciate da ambedue i candidati. L’agenzia Nuova Cina mette in guardia: «Questa campagna elettorale si trasforma in una gara a chi è più duro contro di noi». Ma Obama ha soprattutto preso di mira le delocalizzazioni in Cina di cui lo stesso Romney ha profittato quando era finanziere (e nei suoi investimenti attuali). Il repubblicano invece ripete a oltranza che «dal primo giorno alla Casa Bianca» denuncerà la Repubblica Popolare per «manipolazione competitiva della moneta», un gesto che aprirebbe la possibilità di pesanti sanzioni doganali e misure protezioniste. Dei due, Obama è considerato il meno minaccioso, anche se la Cina ha visto con inquietudine questo presidente tessere una tela di alleanze dall’India al Vietnam in funzione di “contenimento”.
RUSSIA
Durante un vertice Obama confidò a Dmitri Mdvedev che «sarebbe potuto diventare più flessibile dopo la rielezione». Una gaffe perché credeva di avere i microfoni spenti. Ma resta come una prova di disponibilità che Mosca apprezza. Malgrado il peggioramento recente dei rapporti sulla Siria, l’appoggio russo è stato essenziale per Obama nel far passare al Consiglio di sicurezza Onu il giro di vite delle sanzioni sull’Iran.
AMERICA LATINA
C’è stato il viaggio di Obama in Brasile nel marzo 2011, con un forte omaggio alla presidente Dilma Roussef, e al modello socialdemocratico di Lula capace di ridurre le diseguaglianze. C’è stato il trattato di libero scambio con la Colombia. Obama ha un’immagine positiva anche se la levata dell’embargo su Cuba procede con estrema lentezza. Pesa in favore di Obama anche il Dream Act, la legge con cui ha creato una corsia verso la cittadinanza per i giovani immigrati illegali, gran parte dei quali sono ispanici. Al contrario Romney è considerato vicino alle politiche anti-clandestini varate in Arizona, preludio a una possibile “caccia all’ispanico”.
l’Unità 23.10.12
Roberto Herlitzka. Teatro mon amour
Parla il grande attore: dal cinema al palco, oggi conta solo avere un nome
Ma anche il grande schermo mi piace
Il personaggio che più ho amato? Aldo Moro, nel film di Bellocchio «Buongiorno, notte»
di Francesca de Sanctis
PER CHI LO AMA E LO SEGUE SOPRATTUTTO AL CINEMA, PROBABILMENTE NON PUÒ DIMENTICARE IL SUO ALDO MORO nel film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte. Ma sono davvero tanti i personaggi a cui ha prestato il suo volto, il suo corpo e la sua voce nel corso della sua lunga carriera (in questo periodo è nelle sale italiane con due film: Il rosso e il blu di Piccioni e La bella addormentata di Bellocchio). Eppure la sua grande passione resta ed è da sempre il teatro, perfino quando ha recitato en travesti in Lasciami andare madre (regia di Lina Wertmuller) ha saputo emozionarci.
D’altra parte Roberto Herlitzka, classe 1937, proviene dalla scuola di Orazio Costa e le sue doti attoriali sono fuori discussione.
Infaticabile lavoratore, in questi giorni sta provando per un nuovo spettacolo: Il soccombente, regia di Nadia Baldi. «Si tratta di una riduzione teatrale di Ruggero Cappuccio dal romanzo Il soccombente di Thomas Bernhard, che parla del grande pianista Glenn Gould e di due suoi amici, uno dei quali è appunto il soccombente. Debutterà a Formello il 10 novembre. E poi girerà». A dicembre, invece, rifarà il suo Amleto che ormai è in scena da vent’anni. «ExAmleto (di recente al Teatro Lo Spazio di Roma, ndr), arriverà al Teatro Franco Parenti di Milano dove è in programma una rassegna di Amleti».
A proposito di «ExAmleto», questo è l’unico spettacolo di cui lei firma la regia. Resterà anche l’unica? «Sì, resterà l’unica. Io non intendo fare il regista. In questo caso si trattava di un monologo di cui ho curato anche la riduzione, ma è un esperimento. Un’operazione riuscita grazie ad Amleto. Credo che il lavoro del regista e quello dell’attore siano due mestieri diversi. Non sono due lavori che si sommano, ma due lavori che si sottraggono».
In genere come si prepara per i suoi spettacoli?
«Provo con gli altri attori quando le prove sono collettive. Ma prima ancora registro, mi ascolto e faccio tutte le modifiche per poi registrarmi ancora. Insomma studio molto a casa».
Nella sua vita c’è tanto cinema, ma ho l’impressione che il teatro resti il suo vero amore, è così?
«Sì è vero, in teatro i testi hanno un loro valore assoluto. Certo c’è poi anche un teatro di consumo, più leggero, per il quale non sono tagliato. Nel cinema non c’è la stessa opportunità. Non fare teatro per me significherebbe rinunciare a questo valore. Spero che non mi chiedano mai di scegliere fra l’uno e l’altro, ma nel caso estremo credo che sceglierei il teatro. Comunque il cinema mi piace moltissimo, per esempio mi piace il fatto che un film quando l’hai fatto c’è, mentre il teatro non c’è più».
In genere lei predilige gli autori classici, da Shakespeare a Cechov, mentre più di rado è andato in scena con testi contemporanei. Una casualità o una scelta ben precisa?
«Quando mi capita un testo contemporaneo che mi piace lo faccio. Il problema è più complicato. Io ricevo molti testi di drammaturgia contemporanea. Ma il linguaggio è usato come veicolo per raccontare, mentre nei classici il linguaggio è l’essenza, è come un pittore che si inventa i colori. A quel punto preferisco il cinema».
Lei ha sempre lavorato, ma sia il mondo del teatro che quello del cinema non sono così accessibili ai giovani che si avvicinano a questa professione... «Purtroppo non lo sono neppure per un attore non giovane. Conosco attori e attrici di grande valore che non trovano lavoro. Mi sembra di poter dire che la preparazione, la sapienza di un attore oggi sia considerata poco e serve di più avere un certo tipo di fisico e soprattutto un nome. Le altre parti sono scelte un po’ al risparmio. Ma per certi attori di una certa età che non possono cavarsela, purtroppo succede che si dedicano al doppiaggio».
E nel cinema?
«I cast si fanno ogni volta ex novo e lì il peso dei nomi è ancora più importante. Anche in quel caso di nomi ne bastano uno o due, poi si passa a dove conviene. Io ho fatto cinema quando mi hanno chiamato».
Come sceglie i suoi personaggi? Conta più il nome del regista o la storia?
«In genere scelgo in base al ruolo che mi viene proposto. In teatro il personaggio deve anche far parte di un testo che mi piace, nel cinema questo aspetto è meno importante».
Qual è il personaggio che più ha amato?
«Amleto è il personaggio che preferisco. Mi piace anche Edipo, Re Lear, però Amleto è quello che trovo più straordinario di tutti, perché Amleto non è una personaggio ma una persona, mentre gli altri sono più legati alla storia. Per quanto riguarda il cinema il personaggio che più ho amato, e che forse anche il pubblico ha amato più di tutti, è Aldo Moro nel film di Bellocchio Buongiorno, notte. Bellocchio ha saputo ispirare all’attore una certa atmosfera. La sua vicenda l’avevo già vissuta quando è accaduta, mi aveva molto colpito, per questo mi sono sentito implicato emozionalmente, anche perché mi ha emozionato il fatto che Bellocchio che credo inizialmente non pensava di farne un personaggio centrale si sia fermato a riprendermi. Il personaggio ha acquistato una sua profondità durante la lavorazione e questo per un attore è un fatto particolare. Poi ci sono altri personaggi a cui sono legato, ma si tratta di film che non hanno avuto grande distribuzione. Uno è Aria, regia di Valerio D’Annunzio. Facevo la parte di un maturo pianista ripreso in tarda età da un specie di allucinazione fanciullesca, quando voleva essere una donna. L’altro si chiama Narciso (regia di Marcello Baldi, poi morto senza neanche aver visto il film finito): è la storia di un anziano montanaro che alleva le mucche e fa i formaggi e che ha un figlio emigrato in India; quando torna ha moglie e figlio. La moglie viene accolta con sospetto anche dal padre che poi riconosce la sua bellezza interiore, mentre il paese la rifiuta. Un altro film a cui tengo è Marianna Ucría con la regia di Faenza, dove facevo la parte di un pedofilo».
Nel nuovo film di Bellocchio, «La bella addormentata», lei ha girato una sola scena anche se d’impatto. «Ho accettato malgrado fosse una sola scena perché l’ho trovata molto interessante. Considero Bellocchio un grande artista».
Non le pare che quando si parla di eutanasia, in Italia si scatenano tutti... perché secondo lei?
«È un tema che provoca sempre discussioni, addirittura ci sono state polemiche ancora prima che il film venisse visto. Gli opposti si scatenano perché è un argomento che in Italia è controverso: la Chiesa è contraria e tutti quelli che si appoggiano alla Chiesa sono restii ad accettare questo procedimento».
Parliamo ancora di cinema: cosa c’è nel suo futuro?
«Mi hanno proposto un film che si dovrebbe girare a gennaio. Una storia in cui io sono un vecchio attore in lotta con un attore giovane per un equivoco del passato. Un film che si svolge per metà su un set e per metà nella vita reale. C’è anche una giovane donna... Insomma è una storia fantastica proposta da una regista piemontese che si chiama Varlotta. Poi ho anche partecipato all’ultimo film di Sorrentino, La grande bellezza, dove faccio un cardinale. Ma non posso dire altro».
Esiste un personaggio che non ha mai interpretato e che le piacerebbe fare?
«Vorrei fare un Otello molto diverso da quello che normalmente si fa. Immagino un Otello che anziché essere un condottiero forte e giovane è uno stratega, molto bravo nella scienza militare, che applica questa strategia contro se stesso. E per distruggersi usa Jago. Mi piacerebbe anche fare un Otello extracomunitario che parla con l’accento africano solo quando comunica con gli altri, mentre quando fa i monologhi parla una lingua giusta».
La Stampa 23.10.12
Finché c’è rabbia c’è speranza
Un sentimento tornato prepotentemente d’attualità dalle manifestazioni di piazza alla riflessione dei filosofi
di Marco Belpoliti
In un piccolo libro, un pamphlet, Dio è violento (Nottetempo), una filosofa, Luisa Muraro, affronta l’argomento, e fa un elogio della rabbia e della violenza in una società, la nostra, in cui, com’è scritto nella quarta di copertina, «è venuta meno la narrazione salvifica del contratto sociale». Il tema della rabbia sembra tornato in modo prepotente d’attualità. Nei mesi scorsi è comparsa nei titoli dei giornali riguardo la chiusura di fabbriche, l’occupazione di miniere o le manifestazioni di piazza. Una rabbia non solo individuale, ma anche, e soprattutto, sociale. Il filosofo Peter Sloterdijk in Stress e libertà (Cortina), sembra indirettamente rispondere alla filosofa femminista. Scrive che nella coesione di una società è fondamentale il livello di stress provato dai suoi componenti, e che il compito dei mass media sembra proprio quello di mantenere alto il livello di inquietudine della collettività; un tipo di stress che, invece di disgregare, crea piuttosto consenso. Non certo attraverso l’adesione a un’ideologia, ma, appunto, intorno a uno stato d’animo.
L’indignazione, l’invidia, la presunzione, e anche la rabbia, sono fattori aggreganti e non disgreganti, almeno fino a che lo stress non supera un certo livello, per cui vale la pena di ribellarsi. Allora nella società esplodono atti di ribellione palese, di violenza, come sembra invocare Luisa Muraro. Casi che, tuttavia, si danno raramente, e solo in alcuni momenti della storia umana: le rivoluzioni. La rabbia, quindi, sarebbe per Sloterdijk un elemento di vitalità: i collettivi umani sani s’irritano, s’inquietano e danno in questo modo buona prova di sé. Il problema che il saggio del filosofo tedesco si pone è: «perché la nostra società, così egotica, paranoica e individualista, continua a far sì che gli uomini stiano insieme? ». La rabbia sostengono gli psicoanalisti, che lavorano per lo più sul livello individuale è un fattore narcisistico.
Heinz Kohut in La ricerca del Sé (Bollati Boringhieri) cita due libri della cultura occidentale in cui la rabbia sembra evidenziarsi allo stato puro: Michael Kohlhaas (1808) di Kleist, dove l’insaziabile ricerca della vendetta manifesta una grave ferita narcisistica, e poi Moby Dick di Melville, in cui Achab è travolto da una implacabile rabbia narcisistica. Kohut si spinge addirittura a indicare nella rabbia dopo la sconfitta nella guerra, e l’umiliazione del 1918, la causa dell’adesione dei tedeschi al nazismo.
L’analisi dello psicoanalista è complessa, dal momento che ritiene il narcisismo non affatto colpevole in toto dello scatenamento rabbioso. A suo parere l’aggressività umana è più pericolosa quando si connette a due «costellazioni psicologiche assolutizzanti: il Sé grandioso e l’oggetto arcaico onnipotente». Per spiegarsi, aggiunge che la più orribile distruttività umana non s’incontra sotto forma di comportamenti selvaggi, regressivi o primitivi, ma come «attività ordinate e organizzate nelle quali la distruttività umana degli esecutori è amalgamata con la convinzione assoluta circa la grandezza e con la devozione a figure arcaiche onnipotenti». Cita il caso di Himmler e dei quadri delle SS, una tesi che richiama inevitabilmente quella della Arendt sulla «banalità del male»: i carnefici sono i pacifici vicini della porta accanto, non selvaggi che urlano, sbraitano e compiono atti teppistici. Probabile. Ma il problema della rabbia resta, della sua natura e funzione.
Kohut non nega che la rabbia narcisistica appartenga all’ampia zona dell’aggressività, della collera e distruttività umana, ma, dice, è un fenomeno circoscritto. Leggendo le sue pagine si ha la sensazione che Pasolini rientri in questa categoria; innegabile che dai suoi versi, dai racconti, dalle frasi degli articoli, emani un che di violento, insieme con un’insondabile e assoluta dolcezza: la rabbia è decisiva nella costituzione della sua identità di artista. E allora come interpretare la rabbia che si scatena nelle piazze e nelle strade? Luisa Muraro la invoca; e, per quanto il suo ragionamento sia complesso, è evidente che quella cui s’appella sia la rabbia della rivolta, una delle questioni decisive dei nostri anni. Ha anche trovato dei suoi teorici: Furio Jesi, e più di recente un giovane filosofo partenopeo, Pierandrea Amato. In un libro intitolato Rivolta (Cronopio) questi tesse una lode dell’azione rivoltosa, «un effetto che contiene in sé la propria causa»; ovvero nasce e si risolve in se stessa, oltre ogni possibile razionalità. L’opposto dell’idea di rivoluzione, tesa a creare nel futuro il Regno della Libertà. La rivolta sospende ogni tempo storico, come gli operai di Parigi, ricordati da Walter Benjamin, che sparavano contro gli orologi, simbolo dell’odiato tempo di lavoro. Al di là di ogni teoria, è indubbio che l’individualismo di massa delle nostresocietà fa di noi degli individui isolati, vittime di continui soprusi, piccoli o grandi che siano, per cui la necessità di reagire, di vendicare un torto, di annullare un danno subìto portano a reazioni rabbiose. Non ci sono più le grandi banche del rancore e del risentimento, come le chiama Sloterdijk in Ira e tempo (Meltemi), le chiese cristiane e il comunismo, a trattenerci e consolarci. Oggi ciascuno è solo con la sua rabbia. Ed è subito sera.
Corriere 23.10.12
Eutanasia ed ergastolo: i dilemmi di un'Antigone di oggi
di Eva Cantarella
Scriveva Georges Steiner, nel 1984, che tra traduzioni e adattamenti in quella data esistevano già più di 1530 Antigoni: una dimostrazione di quella che egli definisce «l'energia di reiterazione» del mito greco, la straordinaria capacità di inventare storie capaci di riproporsi come attuali al di là del tempo. Nel caso di Antigone, una storia celeberrima: nata dal matrimonio incestuoso di Edipo e Giocasta, Antigone (che dopo la tragica morte dei genitori vive a Tebe, governata dal fratello della madre Creonte), contravviene al divieto di questi di dare sepoltura al cadavere di suo fratello Polinice, morto dando l'assalto a una delle sette porte della città, difesa dall'altro fratello, Eteocle. E quando viene scoperta affronta lo zio sostenendo le sue ragioni in uno scontro che secondo Goethe rinchiudeva l'essenza stessa della tragedia: da un canto Creonte, sconvolto all'idea che la colpevole — che egli ritiene suo dovere condannare — sia sua nipote, promessa sposa di suo figlio Emone; dall'altro «Antigone celeste» (come la definisce Hegel nei corsi di Storia della Filosofia), che afferma la sua fedeltà a un sistema di leggi diverse da quelle dettate dal potere: le leggi «non scritte», che esprimono i principi etici sentiti dall'individuo come imprescindibili. Donde il dilemma tragico che si ripropone ogni volta che l'applicazione della regola giuridica, anche in un sistema legittimo e «giusto», si scontra con la coscienza di chi non riconosce il suo fondamento etico.
E veniamo, ciò posto, all'ultima, recente rivisitazione fatta da Valeria Parrella: un'Antigone del duemila, che nel Prologo, rivolta alla sorella Ismene dichiara di non accettare la legge della città che impone la sopravvivenza di un «simulacro di fratello che solo nel sembiante è ancora Polinice». Un primo avvertimento di quel che di lì a poco sarà esplicito: Creonte non ha vietato di dar sepoltura a un cadavere, ha vietato di staccare i tubi che da tredici anni pompano aria nei polmoni di Polinice, tenendolo addormentato — dice Creonte (chiamato «il legislatore») — «nel sonno chimico dal quale nessuno per legge, la mia legge, può trarlo fuori». Ma la vita «è un soffio che esce, non uno che entra», dice questa Antigone, che fa rivivere il dilemma tragico sofocleo nel problema odierno dell'interpretazione delle regole giuridiche in materia di accanimento terapeutico. Un'Antigone che consente a Valeria Parrella di affrontare, accanto al dramma del fine vita, un altro tragico, non meno attuale problema. La sua Antigone infatti, a differenza di quella sofoclea, non muore, suicida, dopo essere stata condannata a morte. La pena che Creonte le infligge è il carcere, «con sulle vesti ricamato fine pena mai»: una vita che non è più tale, senza neppure l'oblio del sonno: «Come dormire qui, sull'ultima di quattro brande, schiacciata l'aria compressa contro il soffitto, e movimenti e strazi e urla disarticolate sotto di me per altri sette corpi abbandonati alla stanchezza della gabbia». È l'ergastolo il secondo tema di questa Antigone: una pena che Cesare Beccaria, ritenendola ancor più temibile della morte, proponeva di sostituire alla pena capitale per i (pochissimi) crimini per i quali riteneva che questa fosse ammissibile (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII). Una pena alla quale Antigone del duemila si sottrae suicidandosi. In termini diversi, questa Antigone ripropone il dilemma espresso, in Sofocle, nel famoso primo corale che inizia con le parole «molte cose sono tremende (o "mirabili" , a seconda delle possibili traduzioni dell'aggettivo deinos), ma nessuna come l'uomo». Quell'uomo, dice Sofocle, che ha saputo fare buon uso del progresso: ha imparato a navigare, a pescare, a lavorare la terra, a ripararsi dal freddo, a vincere le malattie... Ma «talora verso il male, talora verso il bene muove».
È un bel libro, questa Antigone, che riesce a conciliare la modernità del tema con una scrittura che, pur essendo sciolta e duttile, evoca felicemente il tono alto della tradizione letteraria della quale la nostra lingua colta è erede. E dimostra ancora una volta che la tragedia antica non ha bisogno di essere «attualizzata». È e sarà sempre attuale.
Repubblica 23.10.12
Italia Decadence
Un saggio di Guido Crainz racconta la trasformazione vissuta dal paese e dalla democrazia negli ultimi decenni
Nell’euforia del boom le radici lontane dei vizi d’oggi
di Nello Ajello
Perché, e quando, la democrazia si è trasformata, nel nostro paese, in «una partitocrazia decadente, inefficiente e corrotta»? Ecco la domanda che si fa chiunque guardi all’attuale situazione italiana con l’ansia di capirci qualcosa.
Ed è proprio questo l’interrogativo che percorre l’opera di Guido Crainz, Il paese reale in uscita presso l’editore Donzelli (pagg. 403, euro 29). Nel sottotitolo esplicativo – “Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi” – sembra cogliersi il desiderio di dare alla vicenda un inizio meno remoto, e forse l’intenzione di non allarmare troppo il lettore.
In realtà l’intera ricerca di Crainz allarmante è, e tale resta. Essa dimostra, inoltre, che i primi sintomi delle odierne traversie vanno collocati indietro nel tempo. Si manifestarono cioè fin dall’epoca del “miracolo italiano”, un “tumultuoso processo” al quale la politica si limitò ad assistere compiaciuta. Quella “belle époque inattesa” (così la vide Italo Calvino), diffuse una frenesia della crescita cui non si accompagnarono né meditati quesiti sulla sua consistenza né lucidi propositi per l’avvenire.
Non che in questo senso mancassero i pensieri e gli sforzi – come dimenticare quel disegno di “programmazione economica” dovuto alla preveggenza di Ugo La Malfa? – ma restarono a un livello di testimonianza. Un’intera classe dirigente confidò che quel prodigio nostrano, utile e comodo, durasse all’infinito. Ma anche quando la conformistica aspirazione al soddisfacimento di ciò che Crainz chiama le tre M – Macchina, Moglie e Mestiere – venne messa a disagio dall’azione disgregatrice della “baby boom generation”, figlia del dopoguerra avanzato e fucina della rivolta del Sessantotto, anche questi clamorosi preannunzi di cambiamento trovarono il vertice politico più incline a scandalizzarsi che a interpretarli.
Fra i pochi che si mostrarono più riflessivi in materia si sarebbe distinto Aldo Moro. Ma, in generale, la sordità apparve cronica. Così come il vastissimo sconcerto sociale prodotto nel paese dalle fasi ulteriori del disfacimento italiano – il terrorismo prima, e più tardi il “riflusso” nel privato, stagioni di natura opposta ma convergente – trovarono impreparate le istituzioni, quasi che simili eventi e pulsioni non promettessero un catastrofico e crescente disgusto per la politica.
È andata dunque in scena una sequela ininterrotta di sorprese e di sconfitte ai danni del
Paese? Crainz crede di sì. La sua lettura può suscitare le impressioni più varie, tranne l’indifferenza. Ne nascerebbe perfino un’inerte assuefazione all’“umor nero” dell’autore se non fosse per le centinaia di felici citazioni, che egli riporta, firmate da giornalisti, commentatori, esponenti politici e testimoni d’epoca. Chi abbia seguito con qualche attenzione i decenni dei quali qui si dà conto, vi troverà continui riscontri di fatti, persone, e giudizi nell’intrecciarsi di cronaca e commento, diario e sentenze, memoria e riflessione.
È un’aria di quotidianità critica che si addensa soprattutto nelle centoventi pagine (oltre
un terzo del volume), dedicate agli anni Ottanta e all’alba del decennio successivo, autentica vigilia del dissesto che ora ci assedia. Sto parlando della stagione segnata dall’euforia craxiana, qui illustrata in ogni sua piega, cui seguiranno Tangentopoli e la nascita di quella che si chiamerà la Seconda Repubblica. L’aspra trama del racconto si nutre di istantanee eloquenti. Sono pezzi di giornalismo che sembrano qui smentire la caducità attribuita al genere. Se non siamo alla “storiografia dei giornalisti” a suo tempo individuata da Croce, poco ci manca.
È una chiave di scrittura della quale qui si può offrire solo qualche esempio. Nel capitolo intitolato “La frana e il crollo”, l’autore destina quasi un’intera pagina alla trascrizione dei titoli con i quali i quotidiani rivelavano, tra metà aprile e metà maggio del 1992, quel “Watergate all’italiana” che tenne dietro all’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa” (così lo battezzò Craxi), il primo di una folla perennemente attuale di tangentomani. Qui sembra davvero di assistere a uno spettacolo cui si potrebbe incollare un’etichetta: “l’oggi in differita”. Al centro di un libro così impegnativo, con una trama così desolante, è come un invito a sorridere. Invece che assolvere all’obbligo di disperarsi.
Titoli e ritagli, dunque, sottratti al loro tempo e più freschi che mai. Ecco il presidente di Mediaset che definisce una “decisione eroica” e “un calice amaro” il suo proposito di “scendere” in politica (un dramma, o una farsa, che avranno, come sappiamo, delle repliche). Ecco più in là un titolo del Corriere della sera, “Nasce la destra smoderata”, a metà strada tra fra parodia e profezia. E ancora, una variante dello spettacolo: sullo sfondo di un articolo-istantanea si scorge l’Italia smarrita per le ruberie che le si rivelano, e in primo piano l’Unto del Signore. «Con i tempi grami e luttuosi che corrono – commenta La Stampa – è come se Lui «fosse piombato in mezzo a un funerale distribuendo pacche sulle spalle».
Che quella fosse la natura del leader era già assodato in quei tempi lontani. Ma come definire la psicologia dei suoi seguaci? «Si tratta di “petit peuple”, piccoli e piccolissimi borghesi»: così li vide Sandro Viola, mandato da Repubblica a percorrere la Lombardia. E intanto Barbara Spinelli vedeva nel debutto del Cavaliere «una fiaba con finale infelice: c’era il principe, e nelle ultime righe si apprende invece che è un rospo».
Adesso il finale infelice s’è consumato (così ci si augura), e il rospo nazionale non fa più tanta paura a quella metà degli italiani che non lo ha prediletto. Ma c’è da chiedersi se il paese che gli fece da tana abbia assorbito in pieno la lezione. Dopo una sbornia durata una ventina d’anni, non si sa se e quando riuscirà a riprendersi. Ciò sarebbe essenziale, dovendo l’intero paese accingersi «un’opera di ricostruzione», le cui dimensioni «sono simili» – conclude Guido Crainz – «a quelle della fase post-bellica».
Anziché che una Terza Repubblica, come si sente dire, ciò che ci aspetta è un Secondo Dopoguerra? Nell’attesa, sarà bene ricordare che non sempre i miracoli si ripetono.
Repubblica 23.10.12
La lista degli scrittori sopravvissuti al male
di Marco Ansaldo
«Perché tanti scrittori nati nei Lager? Per varie ragioni. Perché è un evento che non ha cambiato il mondo, ma ha cambiato i sopravvissuti. E tu senti l’obbligo di ricordare, e di scriverne. E perché è un’esperienza che non si digerisce, non ha termine e probabilmente non finirà mai. Auschwitz è come un figlio mai nato». Schietta, mai banale, poco diplomatica per sua stessa ammissione, Edith Bruck, scrittrice di origine ungherese ormai da cinquant’anni in Italia, conosce bene l’argomento. Non pochi deportati, usciti da quella sconvolgente vicenda della loro vita, emergeranno dai campi nazisti prima mettendo insieme i pezzi della loro memoria, poi trasferendo nero su bianco quanto avevano visto e provato. Diventando così narratori, romanzieri, poeti, artisti. Alcuni di essi sono presenti in queste pagine, disseminati in vari capitoli, con i documenti e le schede della loro deportazione: da Imre Kertész a Primo Levi, da Boris Pahor a Elie Wiesel. Altri ancora hanno vissuto storie non meno amare: al punto di togliersi persino la vita, anche decenni dopo, con un estremo gesto di insondabile disperazione. E così sorge spontanea una duplice domanda: come si coniuga l’esperienza dei campi di concentramento con l’esperienza successiva della scrittura? E perché alcuni di questi scrittori non sono riusciti a proseguire il loro percorso umano, decidendo addirittura di fermarlo?
Edith Bruck, “Signora Auschwitz” come la chiamò un giorno una studentessa impacciata, fu deportata nei Lager da bambina, e ha dedicato tutta la sua vita alla testimonianza. Un fardello non di piccolo peso, come mi dice nella sua casa al centro di Roma. «I sopravvissuti restano tali, purtroppo, anche nella vita normale, quando vanno a comprare il pane dal fornaio o fanno il loro lavoro. Non dimenticano mai di essere dei reduci. Poi, c’è chi ha sentito la necessità e ha avuto il talento di mettersi a scrivere: come gli autori latinoamericani che hanno trasformato i drammi da loro vissuti in grande letteratura ». (…) I Lager dunque, proprio per la realtà estrema che rappresentavano, costituiranno uno sfondo imprescindibile e unico per molti scrittori. Gli esempi sono tanti. Giovannino Guareschi è uno di questi. Il futuro creatore dei personaggi di Peppone e Don Camillo, al momento dell’armistizio verrà arrestato e mandato per due anni prima nei campi di Czestochowa e di Benjaminovo, in Polonia, poi a Wietzendorf e Sandbostel, in Germania. (…) Ma a Bad Arolsen, nonostante il lungo soggiorno in tanti luoghi diversi, su Guareschi Giovannino (o Giovanni) non compare incredibilmente nemmeno una scheda.
Lo scrittore olandese Jona Oberski, oggi fisico nucleare, nato da una famiglia ebraica che nel 1937 abbandonò il territorio tedesco per vivere ad Amsterdam, raccontò la sua esperienza di bambino di sette anni nel romanzo autobiografico Anni d’infanzia.
Il ragazzino Jona, nella realtà, passò dal Lager di Westerbork a quello di Bergen-Belsen, ma i suoi genitori non sopravvissero. Quando infine Oberski, a quarant’anni, deciderà di scrivere la propria storia, il libro otterrà un grande successo in molti Paesi. In Italia vi si è ispirato il regista Roberto Faenza, che diresse il film dal titolo Jona che visse nella balena.
Jorge Semprún, autore spagnolo ma di adozione francese scomparso nel 2011, iscritto al Partido comunista de España, per combattere i nazisti entrò in clandestinità. Fu arrestato dalla Gestapo nel settembre del ’43 e mandato a Buchenwald, dove militò nell’organizzazione comunista segreta creatasi nel Lager. Vicende che ripercorrerà in diversi dei suoi romanzi. Altri, come accadrà allo stesso Primo Levi, non riusciranno però a sopportare più di vivere. Il viennese Jean Améry, pseudonimo di Hans Mayer, nato da una famiglia di origini ebraiche, decise nel 1938 di fuggire in Belgio e di unirsi alla Resistenza. (…) Malato e prostrato dalle elucubrazioni mentali della sua esperienza nei campi, si suiciderà nel 1978 con una dose eccessiva di stupefacenti. A vivere con grande sofferenza le difficili condizioni nei campi, trasponendole poi nei suoi lavori, sarà anche lo scrittore polacco Tadeusz Borowski. Pure a lui toccherà una lunga trafila nei luoghi famigerati (...). Si toglierà la vita nel 1951 rompendo una conduttura del gas. Aveva ventotto anni. Le sue opere sono state citate e apprezzate da ben tre premi Nobel per la letteratura: il polacco Milosz, l’ungherese Kertész e il turco Pamuk. Alcuni suoi lavori sono ricordati nel celebre romanzo di Bernhard Schlink Der Vorleser (Il lettore), in italiano noto con il titolo A voce alta, diventato una pellicola di grande successo al cinema.
Le carte che emergono nell’archivio tedesco ricostruiscono anche la fuga del poeta romeno ebreo Paul Celan: «Geflüchtet» si legge, fuggito, «a piedi, e in parte in treno». Celan era di madrelingua tedesca, ma nato in una regione oggi parte dell’Ucraina e a quel tempo oggetto di deportazioni verso i campi di concentramento. Parlava cinque lingue, come è scritto nei documenti qui presenti: «Tedesco, francese, romeno, inglese, russo». (…) Difficile e doloroso per molti ricordare. Diverso forse scrivere. Benché, per tanti, come abbiamo visto, necessario. Il perché lo spiegò Boris Pahor in un’intervista a Isabella Bossi Fedrigotti: «Raccontare a voce era infatti impossibile, non aveva senso perché chi non è passato per quell’esperienza, anche se ci mette buona volontà, non può capire, non può. Forse è per questo che molti sopravvissuti si sono poi uccisi».
Repubblica 23.10.12
Sacks: “Vi racconto le mie visioni”
Le allucinazioni uditive non le hanno solo gli psicotici
Sono un problema se svalutanti o se danno ordini
Il 6 novembre esce il nuovo libro del neurologo
di M. Pag.
Emicrania, febbri alte, uso di alcuni medicinali, lesioni all’occhio o cerebrali, malattie neurodegenerative: sono tutti casi in cui si possono verificare fenomeni di allucinazione visiva
Racconta Sacks: “Se guardo uno spazio vuoto ad esempio fisso un soffitto ho uno scotoma, cioè un’area di assoluta cecità e sono invaso da allucinazioni, in particolare vedo motivi geometrici”
L’allucinazione è percezione in assenza di stimoli Interpretare male stimoli esistenti è illusione
Allucinazione è inganno del cervello, prendere per reale un oggetto visivo o sonoro che non esiste. Lo psichiatra Henry Ey l’ha definita “una percezione senza oggetto da percepire”. Nei manuali è catalogata tra i disturbi della percezione. E Hallucinations è l’ultima fatica letterario-scientifica del neurologostar Oliver Sacks che uscirà negli Stati Uniti il 6 novembre ed già è in offerta sui principali siti editoriali per la prenotazione con sconto (da 26,95 dollari a 15,85). La tesi è che l’allucinazione non è prerogativa dei “matti”: esistono vari tipi di allucinazioni non psicotiche. Fa parte di noi, della condizione e della storia umana (in varie culture l’uso di piante o sostanze allucinogene era ricercato).
Sul New Yorkerdi agosto (ne ha parlato Repubblica il 22 agosto) una “ meditazione -confessione” di Sacks anticipava gli aspetti più personali del libro, gli anni (i favolosi ‘60) delle sue esperienze “psichedeliche” e della sua dipendenza. Ora altri particolari emergono nell’intervista (“Che cosa ho imparato dalle mie allucinazioni”) al neurologo britannico, autore di Risvegli, L’occhio della mente e L’uomo che scambio sua moglie per un cappello.
L’intervista (di Jean Francois Marmion per la rivista francese Le Cercle Psi) apparirà, tradotta, sul numero di novembre del bimensile Psicologia contemporanea, diretta da Anna Oliverio Ferraris.
Racconta Sacks: «Io avevo forti tendenze autodistruttive, al punto che i miei amici non credevano che sarei vissuto fino ai 30-40 anni...». E poi aggiunge: «In questi quasi 50 anni ho oscillato tra la dipendenza dalla psicoanalisi e quella dai trattamenti farmacologici». Sacks riparte da problemi personali (come in vari suoi libri) parlando delle sue disfunzioni della percezione visiva: fin da piccolo non riconosce luoghi e volti. Da ragazzino «per strada mi perdevo molto facilmente, a scuola non riuscivo a riconoscere i compagni: attribuivo tutto a sbadataggine, non pensavo a problemi percettivi...». Quando dopo 35 anni di distacco ha rivisto il fratello in Australia ed ha saputo che aveva le sue stesse difficoltà si è chiesto se non si trattasse di un fatto genetico. «Ora ho imparato a conviverci...: spesso è la mia assistente Kate, che riconosce le persone al posto mio... mi evita di abbracciare degli sconosciuti!».
Ma sei anni fa, in un cinema alla vigilia di Natale, «prima che cominciasse il film, ho visto improvvisamente come un’esplosione di luce da una parte dell’occhio». Dopo due giorni la diagnosi: melanoma all’occhio. I medici decisero di eliminare il tumore sacrificando anche la retina: dal 2009 il suo occhio è pieno di sangue ma sembra che il tumore si sia arrestato. Ma se guarda uno spazio vuoto, come ad esempio un soffitto, «ho una lacuna nel campo visivo, e sono invaso da allucinazioni, in particolare da motivi geometrici».
Ma perché il cervello nel momento in cui non può trattare le informazioni provenienti dal sistema visivo produce allucinazioni? Sacks sostiene che le aree visive del cervello sono sempre attive. In alcuni casi si stimolano da sole... «Nelle allucinazioni più complesse delle mie percepire e immaginare sono la stessa cosa per il cervello. Quando si hanno allucinazioni di volti di persone, ad esempio (non è il mio caso!) le zone del cervello destro utilizzate normalmente per riconoscere i volti sono in superattività. Sia dal punto di vista fisiologico che fenomenologico, le allucinazioni complesse assomigliano quindi enormemente alle percezioni, e possono essere considerate come tali, a torto, dal soggetto».
Il neurologo britannico spiega la distinzione tra le sue allucinazioni musicali (ne ha parlato in Musicofilia: esclusivamente la musica di Chopin si trasformava per lui in martellamento metallico) e quelle visive. Con Chopin il problema era “la perdita di senso della tonalità a causa di una emicrania”. Nel suo specifico caso la cause sarebbero l’uso di troppi medicinali e, confessa, «permettere ai miei sentimenti di invadermi completamente».
Il nuovo libro, Hallucinations, spiega Sacks, distingue questi tipi di allucinazioni da quelle tipiche della schizofrenia (le “voci” che danno ordini....). Persone con emicrania possono sentire odori strani, vedere archi di luci abbaglianti o minuscole, lillipuziane figure di uomini o animali; gli ipovedenti si possono paradossalmente immergere nella vista di un mondo fantastico allucinatorio; chi ha forti febbri può vedere macchie di colori, volti meravigliosi o terrificanti; c’è chi è “visitato” dai defunti e chi ha crisi mistiche. Certe allucinazioni possono derivare da deprivazioni, intossicazioni, lesioni, malattie, farmaci. «Quando una volta mi è accaduto di fare dei sogni strani dopo un viaggio in Brasile, il mio psicanalista (Sono in analisi da 46 anni! Siamo invecchiati insieme, lui e io...) mi ha detto: lei ha fatto più sogni strani in queste due settimane che negli ultimi vent’anni. Che cosa sta succedendo? Niente di particolare, ho pensato io, poi mi sono reso conto che in quel periodo assumevo un medicinale che, tra gli effetti collaterali, comportava quello di provocare sogni particolari o allucinazioni. Il mio è senz’altro uno psicoanalista molto attento!».
La Stampa TuttoScienze 17.10.12
“La filosofia prova a fare pace con le verità della ricerca”
Il “Nuovo realismo” contro i vecchi stereotipi
La medicina è una delle prove dei successi della scienza
di Maurilio Orbecchi
La filosofia non si risolve nella scienza, è un’attività diversa, ma mi sembra molto difficile fare una buona filosofia in contrasto con la scienza».
Chi parla è Maurizio Ferraris, uno dei più influenti filosofi italiani, professore di filosofia teoretica all’Università di Torino e teorico del «New Realism», presentato nel saggio «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza). Ferraris sottolinea come nell’antirealismo, che spesso si collega alla critica della scienza, si manifesti una contraddizione pratica. «Prendiamo Martin Heidegger. Tra le sue affermazioni più problematiche c’è l’espressione “La scienza non pensa”. La scienza sarebbe un’attività secondaria rispetto ad altre più fondamentali, come l’arte, la filosofia, la politica. Ma, se le cose stanno così, per quale motivo, quando è entrato in depressione, ha cercato l’aiuto di uno psichiatra, Medard Boss, e non di un pittore, di un filosofo, di un parlamentare? ».
Quello della malattia prosegue Ferraris è un esperimento cruciale: epistemologi anarchici che scrivono che il cardinale Bellarmino aveva più ragione di Galileo, filosofi ermeneutici che sostengono che la scienza non pensa, filosofi dionisiaci per i quali l’artista è superiore all’uomo di scienza, nel momento in cui si ammalano scelgono di farsi curare con quanto di meglio offrono scienza e tecnica. «Allora – ci si domanda – perché prima dicevate che la scienza non pensa e che l’illusione è il massimo bene? Come fate a vivere in questa doppia verità o doppia menzogna? Come ci può essere una discrepanza così forte tra quello che pensate e quello che fate? ».
Questa discrepanza è un problema teorico e vale non solo per la critica della scienza, ma anche per l’antirealismo e per la critica della verità. «Anche il filosofo più radicalmente antirealista aggiunge Ferraris si comporta nella vita pratica come il resto del mondo, accettando l’idea che il suo letto esista anche quando dorme. E lo stesso filosofo che sostiene che la verità è solo un effetto di potere è interessato a sapere a che ora parte il treno, se suo figlio ha fatto i compiti, se piove. Spesso i filosofi antirealisti obiettano che non mettono in discussione nessuna di queste verità ovvie e che il livello, in cui si sostiene che non ci sono fatti, solo interpretazioni, che la verità non esiste e che bisogna dire addio alla verità, è ben altro. Mi chiedo tuttavia quale sia questo livello. Per esempio, è il livello di chi afferma che la Shoah non c’è stata? Dovendo scegliere, è meglio negare la pioggia! ».
Difficile capire come si possa passare buona parte del proprio tempo alla ricerca della verità e vivere in un mondo che è permeato di scienza, dicendo che la verità stessa è una truffa e la scienza non pensa. Talvolta si ha l’impressione di avere a che fare con la situazione descritta ne «La grande magia» da Eduardo De Filippo: il protagonista, Calogero, sostiene che la vita non è realtà che scorre, ma solo immagine e gioco. A un certo punto chiede al servitore di andare al mercato. E quello gli risponde, chiedendogli il denaro: «Signò, se le immagini dei venditori, al mercato, non vedono le immagini dei soldi, non si prestano al giuoco! ».
Lo scetticismo filosofico ha tante origini e molte declinazioni. Di certo, in Italia, ha pesato l’eredità del neoidealismo che ha combattuto quella che Ferraris chiama «l’alleanza tra scienza e filosofia» e l’ha sostituita con quella tra storia e filosofia. Per una nuova alleanza, però, è sufficiente, secondo il «Nuovo realismo», «conoscere e accettare le scoperte scientifiche, evitare posizioni contraddittorie fra teorie filosofiche e pratica personale e riconoscere che esistono ampi spazi di realtà, dalla politica all’arte, dove la scienza è marginale e la filosofia ha molto da dire».
Dopo decenni di sterile postmodernismo, chi ama la scienza non può che accogliere con favore questo sviluppo filosofico. "Maurizio Ferraris Filosofo RUOLO: È PROFESSORE DI FILOSOFIA TEORETICA ALL’UNIVERSITÀ DI TORINO E DIRETTORE DEL «LABONT» (LABORATORIO DI ONTOLOGIA) IL LIBRO: «MANIFESTO DEL NUOVO REALISMO» LATERZA"
La Stampa TuttoScienze 17.10.12
Quando le vie dei canti risuonavano negli oceani
Nomadi sì, ma soprattutto marinai: la colonizzazione dimenticata della Terra
Resta controverso come i polinesiani si siano avventurati nel Pacifico e siano arrivati nei loro attuali paradisi
di Richard Newbury
Brian Fagan Archeologo RUOLO: È PROFESSORE EMERITO DI ANTROPOLOGIA ALLA UNIVERSITY OF CALIFORNIA, SANTA BARBARA (USA) IL SITO: WWW.BRIANFAGAN.COM/ IL LIBRO: «BEYOND THE BLUE HORIZON» BLOOMSBURY
Due terzi del mondo sono sott'acqua, noi esseri umani, invece, siamo, per definizione, creature terrestri, che hanno popolato il pianeta spostandosi a piedi. Eppure ci illumina Brian Fagan, britannico di nascita e professore emerito di Antropologia all'Università di California, nel nuovo libro sull’espansione globale dell'uomo «Beyond the Blue Horizon» 50 mila anni fa siamo diventati marinai sempre più avventurosi, costantemente guidati da ciò che i vichinghi chiamavano «Aefintyre», vale a dire «un’inquieta curiosità per ciò che si trova al di là dell’orizzonte».
La passione di Fagan per le barche a vela e gli studi scientifici, archeologici e antropologici l’hanno portato a navigare sulle orme dei nostri antenati nei mari e negli oceani, seguendo proprio quei marinai intrepidi e la loro incredibile capacità di leggere il mare e il vento prima che i Gps, la radio e il diesel ci scollegassero irreparabilmente, come specie, dall’intima interdipendenza tra cielo e mare.
Ma che cosa ha spinto i primi marinai a inventare una canoa e a pagaiare più lontano di quanto potessero nuotare? Fagan documenta la storia della ricerca del dominio sull'oceano quel grande fiume che circonda la Terra – seguendo le gesta dell' uomo nel Sud e nel Nord Pacifico, nel Mare del Nord e nell'Atlantico, nel Mediterraneo e nell'Oceano Indiano. Perché i polinesiani si sono avventurati nel Pacifico e come hanno fatto ad arrivare nelle loro isole? Perché i greci, insediati sul continente eurasiatico, avevano una così forte vocazione per il mare? Perché i vichinghi, invece di mappare le coste del Mare del Nord per poi dirigersi verso l’Islanda, la Groenlandia e il Nord America, non si sono diretti a Sud, verso climi più caldi? Perché, in generale, questi uomini i più intraprendenti della specie sembrarono ignorare il Pianeta Terra per esplorare il Pianeta Blu, «oltre l'orizzonte»?
Fagan analizza le complesse relazioni che i nostri antenati intrecciarono «con paesaggi dominati da forze incontrollabili, acque abitate da bestie potenti e divinità, così come dagli antenati». E immagina come nel mondo di 40 mila anni fa in mancanza di testimonianze archeologiche gli aborigeni potessero «sognare il mare», in una realtà di venti monsonici ciclici, attraverso «paesaggi marini della memoria», in un modo analogo a quello con cui, oggi, continuano a «cantare» la loro strada attraverso l’outback australiano. Quei marinai, di sicuro, sfruttavano le stelle, i venti, le stagioni e le migrazioni degli uccelli e anche le vibrazioni delle scogliere più lontane per tracciare le rotte.
Fagan si dice molto colpito da certe coincidenze, proprio come lo fu James Cook nel 1778, quando, navigando a Nord-Est di Tahiti, non solo scoprì le Hawaii, ma anche che gli abitanti parlavano la stessa lingua di Tahiti e della Nuova Zelanda, a 4300 miglia di distanza. «Non si sa quanto si estendano in entrambe le direzioni le colonie, ma ciò che sappiamo già conferma la nostra convinzione che siano, anche se forse non le più numerose, sicuramente, le più estese sulla terre»: così recitava il diario di Cook. E non è un caso che il suo pilota thaitiano, Tupaia, lo portò con infallibile precisione proprio in Nuova Zelanda, anche se non lì non aveva mai messo piede prima.
Sono il Mediterraneo e l'Oceano Indiano a portarci finalmente in tempi archeologici e storici. Lì la navigazione era per lo più di «cabotaggio», seguendo la linea costiera, mentre il centro del mare era, nelle parole di Braudel, «vuoto come un deserto», mentre tra Africa e Arabia erano i monsoni il «motore» di tutto. Ma si tratta di realtà che impallidiscono di fronte alle gigantesche spedizioni cinesi in Africa al comando dell’eunuco Zheng He, all’inizio del XV secolo, con una flotta di navi colossali, lunghe 130 metri e larghe 54, con 12 vele ed equipaggi di un migliaio di uomini. Eppure la reazione dell’imperatore cinese fu quella di richiamare la flotta e distruggerla con tutti i resoconti delle sue spedizioni, in quanto si trattava di «racconti ingannevoli di cose bizzarre». Il messaggio implicito di «Beyond the Blue Horizon» è che, se nel breve tempo di una vita abbiamo perso, grazie all' elettronica, le nostre capacità di sopravvivenza, ora non sappiamo nemmeno più come siamo arrivati al punto in cui ci troviamo, abbandonati al di là dell’orizzonte del mare.traduzione di Carla Reschia