mercoledì 17 ottobre 2012

l’Unità 17.10.12
Bersani: non chiederò a D’Alema di candidarsi
Il segretario Pd: «Io non nomino deputati La deroga si chiede alla Direzione»
di Simone Collini


ROMA «Io non chiederò a D’Alema di candidarsi. Io non chiedo a nessuno di candidarsi. Io non sono quello che nomina i deputati. Io farò applicare la regola: chi ha fatto più di quindici anni per essere candidato deve singolarmente chiedere una deroga alla direzione nazionale». Bersani quasi si sorprende della sorpresa suscitata da queste sue frasi, dall’enfasi data alla notizia, come titolano i siti web in tempo reale mentre parla a Repubblica tv, della sua decisione di “scaricare” D’Alema.
Il leader del Pd, poco dopo mentre sul fronte pro-Renzi già si canta vittoria per il «Bersani rottamatore» (Roberto Reggi dixit), lo spiega allo stesso presidente del Copasir che con quell’uscita voleva sottolineare che non spetta al segretario fare le liste elettorali, che voleva dimostrare che è vero che non è del Pd il modello dell’uomo solo al comando e che contrariamente di quel che avviene a destra le regole da questa parte si fanno rispettare. Un chiarimento che però solo fino a un certo punto cancella l’amarezza di D’Alema nel vedere Renzi esprimere soddisfazione per le presunte conquiste del fronte “rottamatore” e ribadire, come il sindaco di Firenze fa da Carrara, che «è giusto che il gruppo dirigente che ha fallito vada a casa».
Bersani è convinto che via via si renderà chiaro che lui vuole «innovare ma non rottamare» e che questa discussione su chi ha più di 15 anni di permanenza in Parlamento troverà una composizione positiva prima che si tenga la direzione del Pd che dovrà decidere sulle deroghe: «Si può essere protagonisti senza essere parlamentari». Non è però passato inosservato che alla riunione con i parlamentari convocata da Bersani a sera per discutere delle prossime sfide, a cui partecipano oltre duecento tra deputati e senatori (compresi veltroniani come Walter Verini o ex-popolari come Beppe Fioroni) D’Alema non si fa vedere.
Ora però Bersani vuole spostare l’attenzione su altre questioni che non siano le ricandidature in Parlamento (ora si aggiunge Arturo Parisi alla lista di chi fa un passo indietro). Già nel corso del videoforum a Repubblica tv il leader del Pd parla per un’ora di legge elettorale («se rimane il Porcellum faremo le primarie per scegliere i parlamentari»), costi della politica («quanto fatto non è sufficiente»), dell’intenzione di fare un confronto con gli altri candidati alle primarie («alla grande»), dell’opportunità di prevedere norme per la sfida ai gazebo («ora basta vittimismi»). L’uscita su D’Alema viene però enfatizzata e rilanciata dal fronte pro-Renzi, con il coordinatore della sua campagna Reggi che non risparmia bordate. Dice il responsabile Enti locali del Pd Davide Zoggia: «Come si può dedurre da una sua dichiarazione di oggi “Ora non ci resta che aspettarli uno a uno sulla riva del fiume” per Reggi l'obiettivo dell'impegno politico non sembra essere la risoluzione dei problemi che affiggono il Paese ma l’eliminazione dei componenti del suo stesso partito». La battuta sui cadavari portati dal fiume non è piaciuta neanche a Stefano Fassina, che parla di dichiarazioni «squallide e inaccettabili». Dice il coordinatore del comitato Bersani Roberto Speranza che il leader de Pd «assieme a tutto il gruppo dirigente, ha da tempo promosso un ampio rinnovamento in molti punti chiave del partito e delle istituzioni, capisco che siamo in campagna elettorale ma c’è un limite a tutto».
La questione delle ricandidature e delle deroghe per chi ha alle spalle più di 15 anni in Parlamento verrà affrontata dopo le primarie e anche dopo che sarà chiaro quale sia la legge elettorale con cui si andrà a votare. Ovvero, non prima di gennaio o febbraio.
Ma intanto c’è già chi prevede che questi attriti possano influire proprio sulla discussione in corso sul sistema di voto che dovrebbe sostituire il “Porcellum”. Fioroni, conversando alla Camera con i giornalisti, sintetizza la giornata dicendo che Bersani e D’Alema «si son dati due schiaffoni, e Renzi, tramite Reggi, dice che aspetta i cadaveri e porta sfiga». Per l’ex ministro «una cosa è certa: così non vinceremo le elezioni».
Fioroni dice però anche che ci sarebbe un modo per disinnescare gli scontri interni. «Speriamo che passino le preferenze, così eviteremo a Reggi di aspettare. Dovrà aspettare solo se stesso», dice alludendo al fatto che i renziani possono contare su una limitata base di votanti. A favore delle preferenze si è già espresso anche il vicesegretario Enrico Letta.
E anche D’Alema, prima ancora che nell’Aula del Senato approdasse una proposta di legge elettorale che prevede le preferenze, aveva invitato a non demonizzare questo sistema di voto, facendo notare che i rischi di campagne elettorali troppo costose possono essere evitati prevedendo dei collegi piccoli.

il Fatto 17.10.12
Bersani scarica D’Alkema: “Vuole la deroga? La chieda”
Il segretario non soccorre il suo grande sponsor
Tra le firme a sostegno del “Lider Maximo” almeno due falsi
di Paola Zanca


Davanti al piccolo ascensore che dal piano terra della Camera conduce alla sala del Mappamondo, Massimo D'Alema fa cenno a un paio di cronisti di avvicinarsi. Loro si guardano allibiti, realizzano che è successo un miracolo e si avviano in direzione del Lider Maximo. Non avevano osato nemmeno passargli vicino: poche ore prima, Pierluigi Bersani lo ha ufficialmente rottamato dicendo che non gli chiederà di candidarsi, D'Alema non è mai troppo socievole, figuriamoci oggi. Invece, è lui che li chiama. Vuole pronunciare la sua cattiveria qui, lontano dalle telecamere che lo aspettano al piano di sopra. “Non è Bersani che decide – sibila – ma il partito. Io infatti ho detto che mi candido se me lo chiede il partito”. Poi si infila nell'ascensore e sale su, a presentare il libro di Ciriaco De Mita, La storia d'Italia non è finita. Nemmeno quella di D'Alema, a giudicare dalla paura che fa.
Durante i suoi show, Matteo Renzi manda in onda a ripetizione il video in cui l'ex ministro degli Esteri dice che se vince il rottamatore “si spaccherà il centrosinistra”. Renzi lo getta in pasto alla platea e dice: “Se vinco io, al massimo non viene ricandidato D'Alema”. Gli applausi ogni volta si sprecano, e nel partito sostengono che Pier Luigi Bersani si sia fatto convincere da quelli, quando ha deciso di mostrare il pugno duro proprio con l'uomo che ha sostenuto la sua vittoria alla segreteria del Pd.
INGRATO, lo giudica qualcuno. “Ponzio Pilato”, lo chiama la Velina rossa, “bollettino” dalemiano. Incapace di gestire “un nodo” prevedibilissimo, aggiungono altri. Ma di certo, ieri, il figlio del benzinaio di Bettola ha dimostrato che la sua cavalcata è appena cominciata, costi quel che costi. Bersani non dice solo che non chiederà a D'Alema di ricandidarsi, come non lo chiederà “a nessuno”. Aggiunge che “chi ha fatto più di quindici anni, per essere candidato deve singolarmente chiedere una deroga alla direzione nazionale”. Lo dice lo statuto. Ma finora, la prassi aveva funzionato diversamente. Per i più titolati del Pd – ex segretari, ex ministri, presidenti di alcuni organismi – non c'era mai stato bisogno di alzare la mano e dire: riprendetemi, come adesso Bersani chiede di fare a D’Alema. Finora la deroga era scattata in automatico, infilata in una relazione, approvata all'unanimità. Al segretario, poi, era stata riservata una quota di candidature (Veltroni portò, tra gli altri, Carofiglio, la Concia, Achille Serra, la Madia, Calearo): persone senza storia di partito, scelte per allargare alla società civile. “Io non sono quello che nomina i deputati”, insiste oggi Bersani. Adesso il candidato alle primarie gioca per sé. Ha deciso di tirarsi fuori dalle beghe di partito, sta provando pure a far dimenticare l'esperienza del governo Monti. Così ieri, per una strana coincidenza, il protagonista democratico della maggioranza Abc, era proprio D'Alema, plasticamente seduto al tavolo del passato con cui Bersani (e Vendola) vorrebbero chiudere: Alfano, Casini, Fini e poi il vecchio Ciriaco De Mita, che “inorridisce” solo a sentir parlare di rottamazione.
LUI RAPPRESENTA “il precedente illustre” di cui parla Giuseppe Fioroni: “Se ci fosse un'altra legge elettorale – spiega – consiglierei a D'Alema di fare come De Mita: quando i Popolari gli chiesero di farsi da parte, lui si sottopose all'ordalia degli elettori, la prova di forza delle preferenze: c'erano i collegi uninominali, spazzò via sia il candidato di destra che quello di sinistra”. D'Alema la sua prova di forza l'ha già fatta: 700 firme pubblicate in un appello a pagamento su l'Unità per dire che Massimo è il “punto di riferimento” per quel Sud che vuole affrontare la sfida per il governo. Amministratori locali, sindaci, presidenti: una macchina organizzativa che fa paura, perché se si mette di traverso rischia di favorire proprio l'odiato Renzi. Un pericolo che lo stesso D’Alema ha adombrato in una telefonata “chiarificatrice” con Bersani. Qualcuno minimizza: nemmeno al Sud i dalemiani hanno più il polso della situazione, tant'è che tra quelle firme ce ne sono almeno due “false”: una siciliana (Sabrina Rocca) e una lucana (Antonio Placido), e non è detto che qualcun altro non si accorga che il suo nome è entrato in quell’elenco a sua insaputa.
“Il nostro padrone è il popolo”, dice Pierferdinando Casini guardando D'Alema. “È la vendetta della storia, Massimo”, gli sussurra De Mita mentre parlano del bipolarismo. Lui si allontana dalla sala. Questa volta non prende l'ascensore. Scende a piedi, circondato dai cronisti che adesso hanno preso coraggio. Lui è poco socievole come al solito: “Studiatevi lo statuto! - si infervora – Studiatevi lo statuto! Voi non conoscete le regole! Chi vuole una deroga la deve chiedere”. Lei lo farà? “Vedremo. Questa è una decisione che spetta al mio libero arbitrio”.

Corriere 17.10.12
L'ex leader: «Siamo in piena battaglia»
di Maria Teresa Meli


Una telefonata non scioglie il gelo «Volevo sostenere di nuovo il segretario Ma c'è chi pensa che debba andarmene...»
Il limite di mandato parlamentare oltre il quale nel Pd scatta l'incandidabilità è di 15 anni: lo stabilisce lo Statuto del partito, di cui l'assemblea nazionale il 14 luglio scorso
ha fissato l'interpretazione autentica
Sono previste deroghe, al massimo il 10% dei parlamentari eletti, in virtù del «contributo fondamentale» che si è dimostrato di poter dare e dell'«esperienza politico-istituzionale».
La decisione, a maggioranza, spetta alla direzione nazionale su richiesta dell'assemblea

ROMA — «Siamo in piena battaglia»: nel primo pomeriggio Massimo D'Alema suona la carica. Per la verità, il presidente del Copasir il conflitto con il segretario del Pd lo ha aperto da tempo. Mesi fa, quando ha cercato di opporsi alle primarie. Pier Luigi Bersani le aveva volute anche per scrollarsi di dosso D'Alema e tutti gli altri maggiorenti del partito, convinto che in realtà stessero lavorando non per portarlo a palazzo Chigi, ma per il Monti bis: «Se vinco le primarie, decido io che cosa fare». Chissà se al numero uno del Pd era giunta anche l'eco di una battuta fatta dall'ex premier a una cena: «Certo, adesso abbiamo Monti, che è autorevole e parla in inglese, poi avremo Bersani... che parla in emiliano».
Comunque il segretario quella volta ha giocato d'anticipo e ieri ha fatto la stessa cosa. Del resto l'ex premier aveva provato a condizionarlo lunedì e quella dichiarazione sulle candidature di chi è in Parlamento da piu di quindici anni è stata la risposta del leader. Già, perché far pubblicare quell'appello sull'Unità aveva un significato ben preciso. Era un segnale non inviato all'esterno ma all'interno del partito, e per la precisione a Bersani.
L'elenco di quei 700 nomi pressoché sconosciuti ai più (tra cui c'era anche qualche inserimento indebito, come il sindaco di Avellino e quello di Rionero in Vulture) non serviva a stupire il pubblico. Era un messaggio al leader del Partito democratico: nel 2009 hai vinto le primarie per l'elezione a segretario nel Meridione, e il Meridione è «roba mia». E ora tutti nel Pd si chiedono che cosa faranno i dalemiani, che nel corpo del partito ci sono ancora, quando il 25 novembre il voto dovrà decidere chi è il candidato premier del centrosinistra.
Ma ieri D'Alema non ha mostrato solo il volto del combattente. Quando, nel pomeriggio, è arrivato alla Camera dei deputati per la presentazione di un libro di Ciriaco De Mita aveva l'occhio attonito e l'incarnato pallido. È stato lui a chiamare i giornalisti delle agenzie per rilasciare le prime dichiarazioni sulla mossa di Bersani. Atteggiamento insolito per chi, come il presidente del Copasir, non ama né ha mai amato i rappresentanti della stampa. Con i cronisti, prima di infilarsi nel dibattito al secondo piano del palazzo di Montecitorio, D'Alema ha cercato di ridimensionare l'accaduto e di negare che tra lui e Bersani vi fosse una questione aperta: «Ha ragione il segretario, non è lui che decide le liste».
Con gli amici, più tardi, è stato più esplicito: «Vi pare che io potevo mai chiedere a Bersani di ricandidarmi? Non me lo sono sognato nemmeno». E tutti i suoi interlocutori gli hanno dato ragione. Effettivamente una richiesta del genere contrasta con il carattere orgoglioso dell'uomo. E comunque, ha aggiunto il presidente del Copasir, «Bersani non è Berlusconi e non decide lui chi candidare o meno. Il Pd non è un partito padronale come il Pdl e decide nei suoi organismi dirigenti». Una frase a doppio senso, questa. Da una parte, D'Alema ripete una cosa scontata, ossia che la dialettica democratica dentro il suo partito esiste e non è paragonabile a quella del Pdl. Dall'altra, sottolinea che Bersani sarà pure il segretario, ma che il suo potere è limitato.
È chiaro che D'Alema a questo punto difficilmente mollerà la presa. Sarebbe per lui una sconfitta troppo plateale tirarsi indietro perché Bersani, di fatto, glielo ha chiesto. «La battaglia continua», annunciava ai suoi. Che erano sul piede di guerra anche loro, come dimostra la «Velina rossa», un foglio molto vicino agli ambienti dalemiani, che ieri attaccava Bersani paragonandolo a Ponzio Pilato.
È ancora presto per capire quale sarà l'esito di questo braccio di ferro tra il presidente del Copasir e il segretario. Bersani non vuole cedere: se vuole, sia D'Alema a chiedere la deroga, lui non muoverà un dito. Ma anche l'ex premier è irremovibile. Non è la voglia di tornare a Montecitorio che lo spinge, visto che era stato lui stesso il primo a proporre a Bersani un paio di mesi fa di non candidarlo. È una questione di principio. E, per dirla con le sue parole, anche di «rispetto nei confronti di chi ha speso la vita per questo partito». E poi, se Bersani è lì dove è adesso è anche perché «io l'ho sostenuto alle primarie per la segreteria. E volevo fare lo stesso anche questa volta, ma vedo che c'è chi pensa che sia bene che io mi faccia da parte...». E c'è anche un altro elemento che non piace a D'Alema: «È sbagliato dare l'impressione che stiamo cedendo a Renzi».
Come finirà? Beppe Fioroni assicura che alla fine «D'Alema accoltellerà tutti». Il renziano Andrea Sarubbi ritiene invece che il segretario e il presidente del Copasir «siano d'accordo» e che alla fine l'ex premier «si candiderà». La notizia serale di una telefonata di chiarimento tra Bersani e D'Alema sembra dare ragione a Sarubbi. Ma la ruggine tra i due non è storia di ieri. Non basterà un colloquio a mettere la parola fine a questa vicenda. E a sera, quando il segretario riunisce l'assemblea dei parlamentari del Pd, D'Alema non è lì ad ascoltarlo.

Repubblica 17.10.12
L’intervista
“Io difendo la nostra storia e sbaglia chi mi crede finito”
L’ex premier: non sono un cane morto, ve ne accorgerete
di Massimo Giannini


ROMA — «Polemica? Ma quale polemica! Io sono perfettamente d’accordo con il mio segretario...». Massimo D’Alema è appena uscito da Montecitorio, dove ha presentato l’ultima fatica letteraria di un altro leader di lungo corso del Palazzo romano, Ciriaco De Mita. E di fronte alle parole di Pierluigi Bersani, che a Repubblica Tv dichiara «non chiederò a D’Alema di ripresentarsi », il presidente del Copasir (ex leader dei Ds ed ex presidente del Consiglio) non batte ciglio.
Come sarebbe, presidente D’Alema? Vuol dire che si aspettava queste parole di Bersani?
«Certo che me le aspettavo. Pierluigi ha detto una pura e semplice verità, che chiunque conosce le regole e lo statuto del nostro partito può facilmente verificare. Non è il segretario che decide le candidature: c’è una procedura prestabilita, e c’è un organo preposto. Quell’organo si chiama direzione. Ed è lì che si decide. Questo ha detto Bersani, e questo dico anch’io».
Quindi non c’è nessun disaccordo e nessuna polemica tra voi?
«Nessun disaccordo e nessuna polemica. Nessun “attacco” e nessuna “replica”. Capisco che questo dispiacerà a qualche titolista, ma Bersani ed io la vediamo esattamente allo stesso modo. Io l’ho ascoltata, l’intervista di Pierluigi a Repubblica Tv: e l’ho apprezzata in ogni sua parte. Il resto sono chiacchiere, illazioni, strumentalizzazioni».
Questo significa che lei non chiederà alcuna deroga, per quanto riguarda la sua candidatura?
«Non è un tema all’ordine del giorno. Valuterò quando sarà il momento, il che significa tra alcuni mesi».
Eppure era sembrato che Bersani, con le sue parole, andasse nel solco di Matteo Renzi e avallasse la rinuncia unilaterale di Walter Veltroni...
«Era sembrato male. Se legge bene, quella di Bersani che dice “non sono io a decidere” non è una risposta a me, ma semmai a chi si crede e pretende che a decidere non sia un organo collegiale del partito, ma un capo solo al comando, che magari ha vinto le primarie. Vorrei far notare che le cose non funzionano così... ».
Lei ce l’ha con Renzi, anche stavolta. Com’era già successo per i viaggi in aereo invece che in camper.
«Io non ho mai polemizzato e continuerò a non polemizzare con Renzi. Né voglio polemizzare con chi invoca il cambiamento. Io sono il primo a volere il cambiamento. Vuole che glielo dica? Avevo già deciso di non ricandidarmi due mesi e mezzo fa, si figuri se aspetto Renzi! Renzi non mi interessa. Ma mi interessa molto, invece, l’operazione politica che sta dietro la cosiddetta “rottamazione”. A quella mi oppongo, perché la trovo ingiusta e dannosa».
Dannosa per chi?
«Per il partito, ovviamente. Le primarie sono un grande evento, un grande fatto politico che alimenta il pluralismo e la buona democrazia. Ma perché questo succeda le primarie devono avvenire in un clima di coesione e di consenso, non di rissa personale sistematica e quotidiana. E allora, mi chiedo e le chiedo, a chi giova mettere ogni giorno Bersani contro qualcuno di noi, o qualcuno di noi contro Bersani? Non giova a nessuno. Al contrario, fa solo del male al Pd».
Ma insomma, presidente D’Alema, lei si candiderà o no alle prossime elezioni?
«Ho già risposto a questa domanda. Valuteremo insieme, nelle sedi deputate e al momento opportuno. Quello che mi sta a cuore, adesso, è difendere la mia, la nostra storia. Noi abbiamo governato questo Paese, noi l’abbiamo portato in Europa. Questo è un fatto, non è un’opinione».
Nonostante questo, che è un dato oggettivo, c’è qualcuno che non la pensa così, e che continua a chiedervi di fare un passo indietro.
«Se c’è qualcuno che pensa che io sia ormai un cane morto, beh, credo proprio che in termini di consensi reali, nel partito e nel Paese, si stia sbagliando. E se ne accorgerà ».

Repubblica 17.10.12
I consigli di Staino “Max ti voglio bene ma fai come Walter”
Il creatore di Bobo: “Non è ora di ripicche”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — D’Alema l’ha chiamata? Ride, Sergio Staino. Sa che la vignetta sull’Unità con Bobo che promette migliaia di firme per il dirigente pd a patto che dica: «No grazie», lascerà il segno. E sa che, di solito, D’Alema non la prende bene: «Lui e Craxi sono le persone che più soddisfazione hanno dato ai disegnatori satirici. Sono quelli all’Andreotti, che ci distruggono».
Bobo comincia la sua lettera con una dichiarazione di affetto.
«Parole profondamente vere. Io voglio tanto, tanto bene a Massimo D’Alema. È una delle persone più belle che abbia mai conosciuto. Generoso, rispettoso, leale, attento ai legami di amicizia nel bene e nel male. Quella che passa per altezzosità è spesso una forma di timidezza. Ha questo senso dell’onore: roba da vecchio Pc. Una cosa antica. Bella».
Perché lasciare, allora?
«Perché è vero che io le troverei, quelle firme. Alle persone vicine al partito fa male vederlo trattato così da un ragazzino altezzoso. Anche lui, però, permaloso com’è, non può dire: “Ho deciso di andar via, ne ho parlato con Bersani, ma siccome lo chiede Renzi non vado più”. Non può anteporre al bene del partito la ripicca verso un bambino maleducato ».
Gli attacchi sono molto duri.
«Sì, e capisco ci sia rimasto male, ma uno “statista” dev’essere superiore. Perché non dà un segnale nobile come Veltroni? Non è una resa, è un mettersi a disposizione rispetto a una storia che è alle spalle, chiusa, finita».
Vuole mandarlo in pensione?
«Deve fare il padre nobile. Non può guidare, l’ha già avuta questa possibilità. Nei colloqui privati, è il primo a dire che il Pd è diventato un pateracchio immondo, e che se c’è un capo che deve sciogliere questo nodo, il capo è Bersani. Lascialo in pace, non stargli dietro come un’ombra».
Sbaglia?
«Negli anni ha fatto moltissime scelte che ho condiviso. Chiamare Di Pietro al governo, credere nella Bicamerale con Berlusconi, andare a Palazzo Chigi dopo la caduta di Prodi, invitare Veltroni per un caffè dicendogli: “Prendi il partito e fai il Pd”. Le ho condivise tutte credendole idee geniali. Erano delle cazzate mostruose che ci hanno messo nei guai. Ora deve lasciare che il partito veda le cose con gli occhi dei giovani».
Farsi da parte?
«Guardarsi allo specchio e dire: Massimo, devi mettere un punto a questa storia».
E Renzi?
«Pensa che miseria, per accaparrare voti, sputare su un padre del partito. Ma D’Alema, non può rispondere lui. In Puglia ha vinto Vendola perché la gente è andata al seggio per votare contro D’Alema. Vuoi che alle primarie accada lo stesso? Che vinca Renzi? Tu che sei una colonna di questo partito devi fare il passo giusto. Vorrei dirglielo da fratello, davanti a un bicchiere di vino».

il Fatto 17.10.12
E ora parte la caccia alla Bindi
È il primo bersaglio dei big da mandare a casa. Lei sdegnata, non ci sta
di Fabrizio d’Esposito


La rottamazione genera gravidanze immaginarie. Ugo Sposetti, ex tesoriere ds, avanza nel cortile del Transatlantico e punta un gruppo di cronisti. Ha l’aria di chi vuole dire qualcosa, meglio precisare, se non smentire. Una settimana fa, Sposetti ha annunciato la sua decisione di non ricandidarsi per il Parlamento: “Farò il nonno se mia figlia vorrà”. Una via di fuga in famiglia dal male di vivere che sta assalendo gli altri rotta-mandi, a partire da D’Alema. Così, da quel momento, in tutti gli articoli sugli esodati della Casta democratica, il sessantacinquenne Sposetti, quattro legislature, è diventato “nonno Ugo”. Trascorsi sette giorni dalla fatidica promessa, il volto spossato e grave di Sposetti affronta però i giornalisti: “Volevo dirvi che non sono nonno. Sto ricevendo telefonate anche da vecchi colleghi delle Ferrovie ma mia figlia non è nemmeno incinta. Capito? ”.
L’arguto professore Arturo Parisi, già prodiano, ribalta invece il punto di vista dei suoi colleghi di partito schiacciati dalla paura del vuoto una volta a casa. Per loro meglio continuare a fare i morti viventi (copyright a metà tra Grillo e Di Pietro) in Transatlantico. Per Parisi meglio dire basta al senso di giornate pesanti e vuote allo stesso tempo: “Dodici anni in Parlamento sono un’infinità, specie se penso agli ultimi quattro passati a pigiare bottoni a comando. La mia esperienza è sicuramente conclusa”. Colpa anche delle riforme mancate e di quelle pasticciate, come la bozza della nuova legge elettorale: “Una sola parola: vergogna. Perché solo ora si sta affrontando un tema la cui discussione è stata avviata ben 13 mesi fa. Napolitano, poi, con le sue dichiarazioni di incitamento non fa altro che rallentare il cammino, più che paletti quelli messi da Napolitano sono palate”.
NEL FORTINO del Pd assediato dal furore nuovista di Matteo Renzi c’è un’invisibile linea di confine. Da un lato quelli che sicuramente andranno via e parlano senza problemi. L’ultimo è Enrico Letta: “Questa sarà la mia ultima legislatura”. Dall’altro i resistenti che s’incupiscono se accenni loro la questione dopo la svolta di Veltroni di abbandonare la Camera, seguita dallo scontro tra D’Alema e Bersani. Sono urla del silenzio, quelle della nomenklatura democratica mollata pure dal segretario. Accanto a D’Alema, nella prima fila dei bersagli facili, c’è Rosy Bindi. Contro la pasionaria del Pd c’è una sgradevole caccia alla donna. Non solo da parte dei renziani. Profetizza un autorevole bersaniano a taccuino chiuso: “Vedrete, alla fine D’Alema non si candiderà e il vero problema sarà convincere la Bindi a ritirarsi”.
Il fuoco amico contro l’ex ministra è cominciato all’assemblea del 6 ottobre scorso. Lei, presidente del partito, si è trovata sotto accusa per l’eccessiva rigidità delle regole da imporre alle primarie, con l’obiettivo di penalizzare l’odiato sindaco di Firenze. Nessuna mediazione, lotta a oltranza. È dovuto intervenire Bersani per chiedere il ritiro degli emendamenti sulla cosiddetta doppia registrazione. All’isolamento, la Bindi sta reagendo incazzata ma anche ferita. In due giorni ha ricevuto una decina di richieste d’intervista. Rigettate. Questione d’orgoglio, anche. Una con la sua storia, sembra di capire, capolista in più circoscrizioni, non accetta di ridurre tutto alla burocrazia delle deroghe, peraltro resa rovente dall’uscita antidalemiana di Bersani. Il segretario non garantirà più una rete di protezione. Tradimento? Nel caso della Bindi, nota il deputato Pd Dario Ginefra, ci potrebbe essere persino una doppia deroga: sia da presidente del partito, sia da vicepresidente della Camera. Ne chiederà almeno una, lei?
Ieri sera, Bersani ha organizzato una riunione con i parlamentari che lo sostengono alle primarie. Assente D’Alema, presente invece la Bindi. Con lei anche Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato, e Franco Marini, altri due illustri esponenti finiti sulla strada della rottamazione. La Finocchiaro è un’altra donna che reagisce con sdegno alle richieste dei cronisti. Nel Pd, la crisi di nervi è generale. Solo Beppe Fioroni, che ravvisa nella tensione di questi giorni la volontà di decimare l’ala centrista del partito, cerca di ironizzare su D’Alema e Bersani: “Se so’ un po’ presi a schiaffi”. Sulla deroga, Fioroni, dice: “Io chiedere la deroga? Sarà la direzione a decidere se rientro o meno nei criteri, mica la chiedo io. Ma prima che arrivino a me ce ne vuole, ho solo 15 anni e 8 mesi qui dentro”. D’Alema, Bindi, Marini, Finocchiaro. Da ieri la rottamazione è diventata bipartisan nel Pd. Bersani fa compagnia a Renzi.

Repubblica 17.10.12
Pd in subbuglio, lite sulla rottamazione
Finocchiaro: non chiedo deroghe. I renziani: li aspettiamo sulla riva del fiume
Anna Finocchiaro è tra i plurieletti uscenti che dovranno chiedere la deroga per ricandidarsi
di Giovanna Casadio


ROMA — Nel mirino ci sono anche loro, le due leader del Pd: Rosy Bindi, la presidente del partito, e Anna Finocchiaro, la capogruppo al Senato. Esperienza politica e carisma. Ma non saranno ricandidate in Parlamento, se non chiederanno la famosa deroga alla Direzione del partito, quella stessa che dovrà presentare D’Alema e che è al centro dello scontro con Bersani.
Il clima è surriscaldato. C’è aria di burrasca tra i Democratici, alle prese con la scelta di Veltroni - che darà l’addio al Parlamento - la “rottamazione” di Renzi e il pressing di Bersani per il ricambio. Da qui, la ritrosia di Finocchiaro e l’insofferenza di Bindi.
In un corridoio di Palazzo Madama, di corsa tra una giunta del regolamento e l’aula da gestire sull’anticorruzione, Anna Finocchiaro sorride: «Io non chiedo deroghe ». La presidente dei senatori democratici è tranquilla, non vuole entrare nel gioco di chi si tira fuori e di chi no, di chi chiede e di chi pretende. «Sono a disposizione del partito, saranno i suoi organismi a decidere se sarò utile o meno ». Anche perché «non ho mai chiesto di essere candidata a nulla in vita mia». E scappa via, a fare quel lavoro parlamentare su cui ha accumulato 25 anni di esperienza. A Montecitorio freme invece Rosy Bindi. Ha giurato a se stessa e alla madre Melfi che, prima di parlare, si calmerà un po’. Racconta che la mamma l’ha svegliata dicendole: «Rosy, guarda che finora nessuno ha vissuto fino a 120 anni». E lei: «Cosa vuoi di’?». «Che tu hai sessant’anni e non ne vivi altri sessanta, quindi sta’ calma ». Deve però mordersi la lingua, fumantina com’è, e convinta che non si cede a Renzi e alla rottamazione. «Mi hanno chiesto persino se mi candido sindaco di Roma. Allora sì che sarei da trattamento sanitario obbligatorio». Prova ancora a scherzare: «Sono un po’ ingrassata. Ora mi diranno: allora, va fuori». Intanto aspetta di discutere con Bersani.
Una rivoluzione generazionale è in atto nel Pd. Enrico Letta, il vice segretario annuncia: «Sono in Parlamento da nove anni e la prossima sarà la mia ultima legislatura ». Lo scontro si fa sempre più aspro. Roberto Reggi, il coordinatore della campagna del sindaco “rottamatore”, canta vittoria: «Sulla rottamazione abbiamo vinto, ora non ci resta che aspettarli a uno a uno sulla riva del fiume». La reazione dei bersaniani è dura: «Le parole di Reggi sono squallide e inaccettabili, si cavalca l’antipolitica per qualche voto in più» (Fassina); «Indecorosa questa caccia all’uomo» (Boccia). In serata i supporter di Bersani nella sfida per le primarie si riuniscono, non c’è D’Alema ma molti big. Ci si aspetta che il segretario dica qualcosa su chi resta e chi va: «La rottamazione svilisce il confronto nel paese, non è così che si risolvono i problemi degli italiani», esordisce. Franceschini, il capogruppo a Montecitorio, conclude: «Sulle deroghe per i parlamentari si valuti il lavoro che hanno svolto».
Oltre a Veltroni, Castagnettie Livia Turco, non si ricandiderà Arturo Parisi: «Dodici anni sono stati anche troppi specie se penso agli ultimi 4 passati a pigiare bottoni a comando». Non chiederanno la deroga probabilmente Bressa, Treu, Garavaglia. Sarà la Direzione (120 membri più quelli di diritto, in tutto 180) a dover giudicare secondo l’articolo 21 dello Statuto, a decidere chi sì e chi no. Le deroghe possibili sono una trentina; chi non ha fatto tre mandati pieni (ovvero 15 anni) è ricandidabile. Antonello Giacomelli sottolinea l’importanza che i casi siano affrontati individualmente (nel 2008 ci fu il “listino” dei derogati). Gianni Cuperlo vorrebbe una direzione ad hoc per un dibattito serio sul ricambio. Ettore Rosato scommette che le deroghe saranno assai meno del previsto. «Ci vogliono per chi rappresenta la memoria storica e per chi ha competenze come Morando», afferma Tonini. Luigi Zanda, vice capogruppo in Senato, difende Finocchiaro: «È la migliore parlamentare che abbiamo, questa discussione è assurda». Ma Roberto Zaccaria, ex presidente Rai, ricorda: «Basterebbe una legge elettorale che consente di scegliere per risolvere i problemi».

La Stampa 17.10.12
Solo se vincerà di poco il segretario potrà ricompattare i capicorrente
di Marcello Sorgi


Il duro botta e risposta tra Bersani e D’Alema, a proposito della sua contestata candidatura, fa definitivamente della rottamazione il tema principale delle prossime primarie. Con Renzi gongolante, di fronte al Pd prigioniero della sua parola d’ordine, e sfottente con il segretario: «Gli stiamo dando una mano». E con il Partito democratico alle soglie di una crisi di nervi.
A D’Alema, che lo chiamava in causa dicendo che è pronto a ricandidarsi se il partito glielo chiede, Bersani ha risposto a distanza, dallo studio di «Repubblica tv», che non glielo chiederà. Ed anche se formalmente, come ha spiegato, non tocca al segretario proporre le candidature, ma alla direzione approvarle, D’Alema ha capito benissimo che Bersani ha ormai preso le distanze e di non poter sperare in aiuti da parte sua. Se davvero vorrà tornare in lista, dunque, dovrà domandare e ottenere la deroga alla regola del tetto dei tre mandati parlamentari, ed accettare che la direzione voti su di lui.
Ma dietro l’ex-presidente del Consiglio, che ha raccolto la sfida, rumoreggia un bel pezzo di gruppo dirigente, consapevole di trovarsi in condizione di essere rottamato. Criticato dalla «Velina rossa», l’atteggiamento «pilatesco» di Bersani, che si rifiuta di entrare nel merito del problema, ieri è stato al centro di molti capannelli di deputati e di una riunione dei gruppi parlamentari.
Se la questione dovesse veramente essere affrontata secondo le vecchie regole interne, il segretario, che non si è certo espresso a favore del ritorno di D’Alema in Parlamento, dovrebbe prendere atto che s’è aperta una crepa nella sua maggioranza interna, di cui appunto l’expremier è un pilastro. Ma nel partito, ormai in corsa verso le primarie, tutte le regole sono saltate e le uniche cose che conteranno saranno le percentuali che usciranno dai gazebo del primo turno, il 25 novembre.
Come si vede già da ora, sarà un referendum sulla rottamazione. Se Bersani vince, ma senza superare la soglia del 50 per cento, sarà portato a spingere ancora sul rinnovamento, per conquistare più voti al secondo turno. Se invece sarà Renzi ad arrivare primo, il precario equilibrio interno del Pd non reggerà.
A quel punto, tutto diventerebbe possibile: dalle dimissioni del segretario a una scissione tra le diverse anime del partito. Solo se prevarrà, sì, ma con Renzi attaccato a un’incollatura, Bersani potrebbe essere spinto a cercare un nuovo compromesso con i capicorrente.

l’Unità 17.10.12
Rinnovare, non rottamare. Per far vincere le capacità
di Enrico Rossi e Andrea Manciulli


Rinnovare, rottamare. È giunto il momento di dirsi non solo che c’è differenza tra un termine e l’altro ma che l’idea della rottamazione, in quanto sancisce la secca cesura con la memoria storica e i valori a cui la classe dirigente della sinistra italiana ha affidato la formazione della propria cultura politica, è il contrario del rinnovamento. Rottamare, nell’accezione in cui oggi la parola viene usata nella politica, non implica né battaglia di idee né discussione intorno ai progetti per uscire dalle difficoltà ereditate da vent’anni di berlusconismo; promette un tutto e subito, solleticando propensioni populiste e affidandosi a uno slogan demagogico dove si perde traccia del duro campo dell’azione politica e della maturazione democratica della nuova progettualità politica; le sue parole guida sono oblio e punizione, l’idea non detta ma diffusa è che facendo piazza pulita della nomenclatura si intenda avere mano libera anche rispetto alla storia che l’ha prodotta, lasciando il campo a una presa del potere non accompagnata dal corredo democratico di una trasparente dichiarazione della società che si intende costruire. Rottamare, in breve, è una pseudo risposta politica che sembra derivare strettamente dalla crisi di competenza, politica, etica, gestionale, quale appare oggi il vero lascito berlusconiano. Non a caso è soprattutto un concetto mediatico che non accetta nessuna verifica se non quella del successo in termini di consenso irrazionale, dove non trovano posto progetti e proposte che impegnano il leader davanti ai cittadini chiamati a chiedergli conto.
Rinnovare, come ha scritto su queste colonne Michele Prospero, implica un ricambio che «accompagni il riconoscimento collettivo del merito acquisito nella lotta politica da giovani dirigenti, amministratori, militanti». È un tentativo di definire il criterio del merito all’interno del necessario rinnovamento del Pd a cui ben pochi hanno prestato attenzione. Ma è un passaggio fondamentale. Per questo il vero rinnovamento parte dal valutare chi ha svolto funzioni politiche, tenendo conto di successi ed errori, come dirigente cui far giocare un ruolo importante nei processi formativi di chi prenderà il suo posto. Non serve nessuna rottamazione catartica, ma un ricambio fondato su criteri di competenza e capacità, qualità che non si acquisiscono tutte e subito e che necessitano di un vaglio collettivo.
Per questo noi riteniamo importante indicare due punti. Il primo, è una proposta: creare in Italia una scuola di alti studi politici e amministrativi sull’esempio dell’Ena francese, capace di una forte capacità selettiva e aperta a tutti, senza distinzione di censo e senza essere ostaggio del vizio tutto italiano della raccomandazione, il cui scopo è avviare la formazione di una classe dirigente di livello europeo, di grande qualità e preparazione. Negli ultimi anni la politica ha subito un grave decadimento in termini di qualità e capacità culturali, sono arrivati in parlamento soubrette e avventurieri i cui unici meriti sono stati l’aver frequentato studi televisivi ed essere disponibili a cambiare bandiera. Ma essere telegenici non basta. Al contrario, come ha dimostrato l’arrivo sulla scena di Mario Monti, qualità intellettuali e professionali sono requisiti indispensabili per ridare autorevolezza alla politica, addirittura si sono rivelati l’unico strumento per riacquistare rispetto e considerazione dagli altri partner dell’Unione. Dunque, non si esce dalla crisi della politica con proposte spot che solleticano gli istinti più bassi degli elettori, ma cominciando a ricostruire competenze e qualità della politica.
Il secondo punto è l’urgenza di un rinnovamento morale che recuperi il senso di solidarietà da cui è nata la politica. Questo senso morale ha assunto le sembianze del nuovo stile e del nuovo modo in cui chi fa politica deve stare nelle istituzioni. Ed ha il volto del presidente Napolitano. È uno stile ispirato a sobrietà e grande attenzione al bene pubblico che già fu proprio dei politici che condussero l’Italia dai disastri della guerra agli anni del miracolo economico, alla sua progressiva e sempre più piena democratizzazione. Questo senso etico del bene istituzionale del Paese è la prima via da percorrere oggi per ridare prestigio e autorevolezza all’Italia. Per questo, noi pensiamo che Pier Luigi Bersani sia il leader che garantirà il ricambio della classe dirigente nel rispetto di chi c’era prima e nel recupero di una dimensione morale della politica che non è se non muove dalle sue radici e dalla sua storia.
* Presidente Regione Toscana ** Segretario Pd della Toscana

l’Unità 17.10.12
La posta in gioco
di Michele Ciliberto


Vorrei cercare di svolgere una riflessione pacata e nei limiti del possibile distaccata sulla questione così dibattuta in questi mesi della cosiddetta «rottamazione». Un termine infelice che allude però a un problema reale con cui occorre confrontarsi. E bisogna farlo anche perché la polemica ha assunto, specie negli ultimi giorni, toni miseri, anche penosi, e ha coinvolto direttamente personalità di primo piano della nostra vita politica.
Prendo le mosse da una considerazione preliminare: ogni «corpo misto» (per riprendere l’espressione di Machiavelli) ha bisogno di rinnovarsi, di riformarsi, se non vuol morire. Né è detto che rinnovandosi continui a vivere: la fine, la morte sono in modo inesorabile nell’orizzonte della storia. Di questo fatto hanno avuto piena e complessa coscienza tutti i grandi leader politici, i quali si sono impegnati, in modo costante, in questa azione di rinnovamento e di ricambio.
Ma il rinnovamento ed è questa la seconda osservazione da fare non è un fatto generazionale (anche questo un termine equivoco): è un problema di carattere politico ed anche etico-politico la cui importanza e la cui urgenza è da valutare, volta per volta, a seconda della situazione storica in cui viene proposto e, quando possibile, attuato.
Le domanda da porre diventano quindi queste: qual è oggi la situazione della democrazia italiana? Ha bisogno, e in che misura, di un profondo rinnovamento e di un ricambio? E a quali livelli? Né è possibile rispondere in modo corretto a queste domande se non si tiene conto di quello che ha significato nella storia italiana il ventennio berlusconiano. È da qui che occorre prendere le mosse per capire la direzione da prendere.
Il berlusconismo ha generato una crisi radicale della nostra democrazia; ha portato al diffondersi di posizioni populistiche sia a destra che a sinistra; soprattutto ha determinato una separazione mai così aspra e violenta tra governanti e governati da cui, per contrasto, è scaturita e si è diffusa a livello di senso comune una forte e impetuosa ondata anti-politica, anti-partiti, anti-parlamentare che ha confuso in un fascio solo vinti e vincitori, perseguitati e persecutori. Non è giusto, lo so bene, ma è così che stanno le cose a livello di sensibilità assai diffuse: se non fosse così, come si spiegherebbe il successo di Grillo e la forte e violenta richiesta di democrazia diretta che anima tutti i suoi seguaci? Da un lato c’è disprezzo verso la politica e i partiti, dall’altro una fortissima esigenza di partecipazione e la tentazione di farsi giustizia da soli. Non per nulla Grillo ha evocato i tribunali popolari come strumenti di questo nuovo potere democratico parola, anche questa, che si è svuotata di significato, come avviene nei tempi di crisi.
L’esigenza del ricambio politico ed etico-politico nasce proprio qui: perché concerne, direttamente, la questione della degenerazione e del destino della democrazia italiana. È in questo contesto eccezionale e non ordinario che va posta, e apprezzata, la decisione di Bersani di aprire le primarie a Renzi, modificando lo statuto del Pd. Ha ritenuto giustamente che in tempi come i nostri il problema dei rapporti tra governanti e governati sia diventato cruciale e che occorra fare di tutto, mettendo in gioco anche se stessi, per cominciare a suturare lo strappo tra dirigenti e diretti che attraversa le viscere dell’Italia, con conseguenze che è perfino difficile immaginare. Insomma, con la sua scelta Bersani ha posto il problema politico ed etico-politico,della democrazia italiana. E lo ha fatto riconoscendo giustamente anche il ruolo politico che, su questo terreno, oggi gioca Renzi. Le cose vanno viste per quello che sono, senza lasciarci abbacinare dai pregiudizi: il sindaco di Firenze, usando strumenti e parole d’ordine che possono piacere o dispiacere, allestendo spettacoli più o meno interessanti, sta contribuendo in ogni caso a ristabilire un canale di comunicazione tra cittadini e politica. Sta, in altre parole, facendo uno sforzo che può giovare alla nostra democrazia, se il punto massimo della crisi concerne il rapporto tra politica, partiti, democrazia. È un contributo da non sottovalutare.
Questi sono i termini reali del problema che, lo ribadisco, è politico ed etico-politico, non generazionale. Ma è proprio un effetto della crisi della nostra democrazia se oggi è difficile metterlo a fuoco nei suoi reali termini, senza precipitare in polemiche volgari. Né si tratta di un’eccezione: oggi è diventato normale confondere sovranità dei cittadini, ruolo dei partiti, funzione del Parlamento e anche problemi politici e problemi generazionali. Oggi le parole si sono svuotate, hanno perso peso ponendo con forza l’esigenza di un nuovo linguaggio, di un nuovo lessico all’altezza dei tempi e della situazione.
È in questo contesto difficile e complicato che va posta anche la questione della candidatura di importanti personalità della nostra vita politica, sottraendola ai riti tribali cui sembra essersi ridotta, ma considerando con l’attenzione necessaria il dilemma, anche personale, esistenziale oltre che politico, che essa pone. Come non capire, infatti, che senza la loro presenza il Parlamento sarà meno autorevole, meno forte? Che non bisogna mai fare di ogni erba un fascio? Certo, la politica non si risolve nel Parlamento, anche questo è vero ed è stato osservato. Ma è un’osservazione ordinaria, una risposta insufficiente. I nostri sono tempi duri, eccezionali, veramente straordinari.
Il problema di fondo è un altro e riguarda la costituzione interiore dell’Italia: se quello che si è appena detto è vero, come non vedere che nel Paese esiste, ed è violenta, un’ondata anti-politica che ha assunto anche una forma generazionale e che va frontalmente contrastata nell’unico modo possibile: individuando i motivi che ne sono al fondo e cercando, con tutti gli strumenti a disposizione, di proiettarla e dirigerla in un orizzonte democratico e parlamentare, evitando le derive della democrazia diretta e plebiscitaria, di matrice populistica? Certo, possono essere alti i prezzi da pagare. Ma questo è il problema, e questo è oggi il nostro comune orizzonte, anche quello del Partito democratico. Nelle polemiche sulla «rottamazione» è in gioco qualcosa di profondo, che richiede una riflessione complessa, e che chiama ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità.

Partitosocialista.it 16.10.12
Lettera di Riccardo Nencini del 16 ottobre 2012
Abbiamo fatto la nostra parte e ci siamo ripresi il posto che ci spettava nella Sinistra italiana


Care compagne e compagni, care amiche e amici, sabato scorso a Roma ho sottoscritto, assieme a Pierluigi Bersani e a Nichi Vendola, la "Carta di intenti" della nuova alleanza riformista Pd-Sel-Psi. Per la prima volta la sinistra riformista si presenta agli italiani più forte e con un progetto per governare l'Italia.
Con due certezze: la "foto di Vasto" non esiste più (escluso definitivamente il giustizialismo di Di Pietro, esclusi gli estremismi che nel 2008 affossarono l'Unione) ; assieme all'alleanza, regole chiare per le primarie, per una competizione in cui il senso di responsabilità dovrà prevalere sugli eccessi e sui protagonismi C'è, da parte di ciascuno di noi, la consapevolezza che questa strada si possa intraprendere mostrando coesione, chiarezza nelle proposte che avanziamo e attraverso un patto pubblico per il bene comune.
Abbiamo fatto la nostra parte e ci siamo ripresi il posto che ci spettava nella sinistra italiana.
Portando in testa all'agenda politica dell'alleanza temi e proposte che negli ultimi mesi hanno caratterizzato la nostra azione politica: abolizione dell'Imu sulla prima casa e introduzione di una patrimoniale sulle grandi ricchezze; più merito nella scuola pubblica; più laicità, che significa regolamentazione per legge del "fine vita", riconoscimento giuridico delle famiglie, la Chiesa che paga l'Imu per le sue attività commerciali. Sempre in tema di laicità, nei prossimi mesi promuoveremo due grandi incontri pubblici: il primo a Udine, nel nome di Loris Fortuna e Beppino Englaro; il secondo a Roma, per fare del PSI il punto di riferimento di tutta l'area laica.

Contestualmente all'avvio della campagna elettorale per le primarie - che non ci vede impegnati con nostri candidati ma a maggior ragione ci rafforza nel ruolo di "sentinelle" di un percorso di coesione tra i partiti e lealtà alla Carta di intenti - avvieremo su tutto il territorio nazionale una campagna pubblica per l'abolizione dei costi impropri nelle bollette di luce e gas e delle tasse inique sulla benzina. Lo faremo in maniera capillare, con una petizione popolare e con ordini del giorno che i nostri eletti presenteranno nelle istituzioni, dai consigli comunali a quelli regionali.

La traversata nel deserto sta volgendo al termine. Abbiamo resistito in questi anni tra mille difficoltà, ma siamo rimasti fedeli ai nostri ideali e alle ragioni del socialismo italiano, nella consapevolezza che l'unica via per riportare al governo dell'Italia la sinistra avrebbe dovuto passare da un'alleanza riformista sul modello delle grandi democrazie europee. Un'alleanza che dovrà dialogare con il campo del cattolicesimo liberaldemocratico, ripensando al fatto che tutte le grandi riforme che l'Italia repubblicana ha conosciuto sono passate da un accordo tra queste due anime.
Riccardo Nencini

Roma, 16 ottobre 2012

Repubblica 17.10.12
Occupata la sede della giunta
Lazio, presidio per il voto. Bondi commissario


ROMA — Blitz ieri dell'opposizione alla sede della giunta regionale del Lazio per chiedere «l'indizione delle elezioni entro dicembre». «Questo è un golpe per la democrazia », ha commentato Luigi Nieri (Sel). «Se continua l'imbarazzante silenzio sulla data delle elezioni da parte della Polverini — ha rilanciato Esterino Montino (Pd) — resteremo qui tutta la notte». Di «vicenda inquietante» e di «istituzione sotto sequestro» ha invece parlato il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. La querelle sulla data del voto va avanti dalle dimissioni del presidente Polverini a fine settembre. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri aveva indicato un termine di 90 giorni per andare alle urne, ma l’ultima parola spetta comunque all’ex governatrice. Intanto ieri il Consiglio dei ministri ha nominato Enrico Bondi commissario per la Sanità della regione Lazio, in sostituzione del presidente dimissionario Polverini, che ha commentato: «Consegniamo una sanità sulla via della guarigione. La nostra gestione si è chiusa in equilibrio finanziario».

l’Unità 17.10.12
La parola del magistrato
È opportuno dopo qualche settimana tornare sulle critiche a me rivolte da Magistratura democratica
di Antonio Ingroia


A DISTANZA DI QUALCHE SETTIMANA DAL COMUNICATO CON IL QUALE L’ESECUTIVO DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA, PUR SENZA MAI NOMINARMI, ha stigmatizzato alcune mie pubbliche esternazioni, e quindi ad animi meno accalorati dalla polemica, credo possa essere utile una riflessione collettiva sullo stato di salute di un diritto di libertà costituzionale, che merita in quanto tale di essere difeso ad ogni costo e da chiunque. Il diritto di parola di ogni cittadino, e quindi anche del cittadino-magistrato.
Di questo e solo di questo vorrei discutere, e perciò preferisco sorvolare su certe espressioni verbali di rara violenza e asprezza contro di me, e perfino offensive, contenute in quel comunicato. Per non cadere nel gioco delle repliche e delle controrepliche, tipiche della politica gridata di questi ultimi tempi. A costo di apparire acquiescente verso certe accuse. Ma qui la posta in gioco non è una vicenda personale, perché, a mio modo di vedere, lo stato di salute di questo sacrosanto diritto di libertà, così come quello di altri diritti, è davvero preoccupante.
Perché dico questo? Perché, da una parte, sembra prevalere una certa dose di ipocrisia quando si ribadisce a parole ed in linea di principio il diritto di tutti i cittadini, magistrati compresi, di partecipare al dibattito politico su certi temi, quanto meno quelli inerenti alla materia professionale di ciascuno (il magistrato che parla di giustizia e diritti, il medico che parla di politica della sanità, l’insegnante che parla di riforma della scuola), e dall’altra cresce l’intolleranza verso il pensiero critico quando il diritto, pur riconosciuto a parole, viene negato quando usato per interventi forti o in contesti ritenuti aprioristicamente «sbagliati», impropri o inopportuni.
UN DIRITTO DI LIBERTÀ COSTITUZIONALE
Ma, mi chiedo, se il magistrato ha il diritto di partecipare al dibattito sui temi della giustizia e dell’antimafia, dove dovrebbe svolgere le sue analisi, eventualmente denunciando i limiti della politica antimafia, se non interloquendo proprio con la politica in convegni eventualmente organizzati anche da partiti, o in congressi di partito nei quali sia dedicato uno specifico spazio alla difesa dei diritti e della Costituzione? E di cosa dovrebbe parlare un pm antimafia? Non è un’ipocrisia riconoscergli a parole il diritto di partecipare al dibattito politico per poi precludergli i luoghi, i temi e i toni che rendono più efficace il discorso politico?
Il magistrato che partecipa al dibattito politico fa politica? Certo che la fa. Deve fare politica. Sono stupefatto che questo non venga capito, o si dica di non capirlo. D’accordo che tutti possono intervenire e dire la loro? Magistratura democratica è nata per smascherare il dogma ipocrita della neutralità e apoliticità della giurisdizione, dietro cui si è mimetizzato a lungo il rapporto organico fra magistratura e classe politica, della quale soprattutto i vertici della magistratura furono, per decenni e decenni, una vera e propria articolazione. Ed è soprattutto grazie a Magistratura democratica che la magistratura tutta è cresciuta, acquisendo sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo sociale e della necessità di partecipare al dibattito politico su questioni cruciali.
Arrivarono gli anni ’80 e l’azione della magistratura siciliana più impegnata sul fronte antimafia non rimase confinata nelle aule giudiziarie. Al punto che Paolo Borsellino, un grande magistrato, ma non certo tra i fondatori di Magistratura democratica, in pubblici dibattiti denunciava che il nodo della lotta alla mafia era prevalentemente «politico». E forse Paolo Borsellino in quel periodo non conduceva delicatissime indagini anche sulle collusioni con la mafia di potenti e politici siciliani? E dove diceva queste cose Borsellino? Era il 22 giugno del 1990 quando a Roma, Borsellino, partecipando ad un dibattito organizzato dal gruppo parlamentare del Msi, provocatoriamente intitolato «Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?», denunciò che lo Stato non si era «arreso» per il semplice fatto che per potersi arrendere avrebbe dovuto almeno tentare di combattere contro la mafia, cosa mai avvenuta perché non c’era mai stata una «seria intenzione di combattere la criminalità mafiosa». Borsellino diceva queste cose mentre si occupava di delicatissime indagini e in un’iniziativa organizzata da un partito di opposizione che della lotta alla mafia e alla corruzione faceva una sua battaglia politica. Qualcuno accusò, forse, Borsellino di parole eccessive o di presenze inopportune in luoghi della politica? Ovviamente, no. Occorre altra dimostrazione per rendersi conto di quanto siamo arretrati in questi ultimi vent’anni, se le mie denunce hanno provocato più clamori per le modalità delle mie esternazioni, anziché per le cose che ho denunciato in tema di ritardi nella lotta alla mafia e nella tutela dei diritti?
Così è stato quando, al congresso del Partito dei comunisti italiani, invitato a dire la mia su diritti e Costituzione, ho svolto la mia analisi sulla crisi della Costituzione, i cui valori fondanti e propulsivi invece che esaltati sono stati sottoposti sotto assedio, dichiarandomi pronto a difenderla con l’espressione intenzionalmente enfatica «partigiano della Costituzione». E per questo sono finito sotto accusa. Possibile credere seriamente che il solo fatto che prima del mio vi fossero stati interventi dichiaratamente «comunisti» ed evidentemente schierati riuscisse ad «appannare» la mia imparzialità? Ma cosa c'entra? La mia imparzialità processuale va verificata sul campo, sul terreno della mia attività professionale. E sfido chiunque ad accusarmi di partigianeria partitica nell’esercizio delle mie funzioni. Altra e ben diversa cosa è la neutralità culturale. Sui valori non sono affatto neutrale. Sto dalla parte della Costituzione e dei suoi valori più avanzati.
Analoghi equivoci si sono ingenerati quando alla festa de Il Fatto alla Versiliana, invitato a partecipare ad un dibattito a più voci sulla stagione delle stragi, ho parlato del necessario cambio di classe dirigente e sono stato accusato di aver fatto un discorso di sapore pre-elettorale, quando invece basta ascoltare su internet la registrazione del mio intervento la mia conclusione era solo il frutto di un’amara analisi del fenomeno mafioso e di una politica antimafia inadeguata perché spesso ispirata dal sentimento di convivenza con la mafia. Per spiegare all’opinione pubblica, spesso abbagliata dall’immagine mitizzata ed ingannevole di una «magistratura salvifica», che la mafia non potrà essere mai sconfitta per via giudiziaria, ma solo attraverso un profondo rinnovamento del modo di relazionarsi coi poteri criminali da parte della nostra classe dirigente. È tanto scandaloso dire questo? Forse sì, nella misura in cui smaschera i soliti luoghi comuni della mafia «coppole e pizzo» e della comoda scorciatoia della delega alla magistratura della lotta alla mafia.
LA DENUNCIA DI BORSELLINO
Per il resto, ho detto cose che ritengo banali e ovvie, come è banale e ovvio dire di sentirsi partigiani della Costituzione. Ma nell’Italia di oggi, dopo anni di omologazione cultural-televisiva, l’ovvio e il banale fanno scandalo, altro sintomo del grave arretramento politico-culturale del Paese. E forse un pm antimafia non ha più diritto a dire queste cose. Non si può più parlare delle relazioni indicibili della classe dirigente con i ceti criminali del nostro Paese? E quindi della necessità di cambiare la classe dirigente per avviare una più efficace lotta alla mafia? Poteva dirlo Paolo Borsellino negli anni ’90 e non si può più oggi? Io credo che ne avesse diritto egli allora e noi oggi, e ne avrebbero il dovere tutti, compresi quelli che credono, in buona fede, si debba tacere. Perché con la loro parola eviterebbero di sovraesporre i pochi che esercitano il diritto di parola. Con l’aria pesante che tira, sempre più pochi, pochissimi. C’è di che essere davvero preoccupati se il pm antimafia che partecipa al dibattito sulla mafia viene accusato di «approfittare» delle sue conoscenze, quando invece andrebbe da tutti rivendicato il diritto di usarle, farle fruttare, mettendole a disposizione della comunità attraverso il pubblico dibattito. Così, oltretutto, sottraendosi ad ogni forma di acquiescenza alle più gravi semplificazioni e mistificazioni che sulla materia imperano.
LA VERITÀ SULLO STRAGISMO MAFIOSO
È con questo spirito che, in quella stessa occasione, ho stimolato la politica e i cittadini a fare tutto ciò che ciascuno può e deve per l’affermazione della verità sulle stagioni buie della nostra storia, a cominciare da quella più buia e vicina (quella dello stragismo mafioso del 1992-1993). Ma ancora una volta mi si è detto che non avrei dovuto farlo per le interferenze col mio ruolo di pm, perché sarebbe come invocare il consenso per le indagini da me svolte, così favorendo il formarsi di verità preeconfezionate in contesti impropri che potrebbero negativamente influenzare le future decisioni giudiziarie. Ma qui il consenso alle indagini non c’entra proprio nulla, ed ho troppo stima per l’autonomia e indipendenza di giudizio della magistratura per pensare che possano determinarsi simili impatti perversi dell’opinione pubblica.
Semmai, sarebbe meglio preoccuparsi dell’effetto disorientante sull’opinione pubblica di certe campagne di stampa di disinformazione che in questi mesi, con notizie false artatamente diffuse, ha cercato di creare un’opinione pubblica ostile all’indagine e alla magistratura inquirente. Sicché, è divenuto talvolta doveroso precisare certi fatti obiettivi per rettificare alcune falsità circolate sulla stampa e dall’altro lato sollecitare l’opinione pubblica ad una partecipazione al dibattito nel Paese sulle verità difficili su certe stagioni cruciali della nostra storia, sollecitando il costruirsi di verità storiche e politiche, in sedi diverse da quelle giudiziarie, per ripristinare i presupposti di una verità condivisa sul nostro recente passato.
Vietato anche questo? Ed ancora, si è detto essere pericoloso sollecitare la gente a fare il tifo per la magistratura. Io personalmente non l’ho mai sollecitato, ma sarebbe bene ricordare che l’espressione non è stata certamente mia, bensì di Borsellino che, dopo la morte di Falcone, ne ricordò un’espressione che in un momento di difficoltà rievocava che nel momento d’oro del pool c’era stato un movimento antimafia che aveva supportato l’azione della magistratura siciliana. Il che non significava, ovviamente, che Falcone auspicasse una pressione dell’opinione pubblica per ottenere sentenze di condanna a furor di popolo. Anzi, le difficoltà incontrate da Falcone e Borsellino sono la dimostrazione che le loro indagini non furono mai né facili né popolari, come non lo sono state neppure quelle della Procura di Palermo in anni più recenti. E Falcone aveva ben presente che «si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
D’altra parte, si sostiene che a certe manifestazioni non si dovrebbe partecipare perché il magistrato non solo deve essere imparziale, ma anche apparirlo. Giusto. Però, anche su questo versante si rischia di andare verso una china pericolosa. Intendiamoci: è vietata l’iscrizione ai partiti politici ed è inopportuno partecipare a manifestazioni di tipo elettorale, ci mancherebbe. Ma inseguendo ad oltranza l’apparenza di imparzialità non si sa dove andiamo a parare. Dovrò forse stare attento alla par condicio nei giornali che compro, perché se il mio giornalaio dovesse raccontare quali quotidiani leggo, trasparirebbe cosa io penso e quali potrebbero essere le mie idee politiche? E devo stare attento ai film che vado a vedere al cinema? E magari anche nella scelta degli amici devo evitare di frequentare chi ha idee politiche troppo schierate?
Insomma, anche sull’argomento dell’apparenza di imparzialità prevale molta ipocrisia. Lo stesso mi pare valga in riferimento alla partecipazione alle feste di partito o di giornali, quali che siano gli indirizzi del partito e del giornale, non necessariamente condivisi da chi vi partecipa. Se vieni invitato ad un dibattito su un tema concernente la tua attività professionale hai il diritto a parteciparvi senza temere che la tua sola presenza sia interpretata come fiancheggiamento alle posizioni politiche di quel giornale o di quel partito. Ho partecipato alla feste de Il Fatto e de l'Unità che su molte cose hanno posizioni diverse. Sarei schizofrenico se la mia partecipazione equivalesse a sostegno delle une e delle altre. E quando ho rilasciato un’ampia intervista al direttore di Libero, significava forse un mio sostegno ad una testata giornalistica che ho a volte citato per danni per certi articoli che ho ritenuto diffamatori? Questo modo di ragionare, secondo schemi di schieramento militante, per cui si va solo dai giornali amici (amici di chi? quali?), sicché, se vai alla manifestazione di un certo giornale significa che ne sostieni la linea, ci porta su una china pericolosissima, di progressivo soffocamento di diritti di libertà sacrosanti.
ARRETRAMENTO CULTURALE
Vogliamo tornare alla vecchia idea del magistrato governativo, non più buono se partecipa a dibattiti organizzati da partito o giornali di opposizione, perché non più imparziale? Spero proprio che non si debba arrivare a tanto. Ma c’è di che essere preoccupati perché oggi troviamo su certe posizioni non soltanto ambienti conservatori, ma perfino luoghi dell’elaborazione politico-intellettuale dove si è formato un modello nuovo e aperto di magistratura, un modello di magistrato costituzionale, imparziale nella funzione ma non neutrale nelle opzioni valoriali, un magistrato che sa comunicare con la società, che spiega, che si mette in discussione, che argomenta, e che sa interloquire con la politica, tutta e dappertutto, dialogando e criticando, e mantenendo integra la sua autonomia e indipendenza di pensiero e di giudizio. Senza collateralismi con nessuno, né cedendo all’omologazione e alla compressione dei diritti politici. Possibile non rendersi conto dell’arretramento politico-culturale di questi ultimi anni? Possibile non rendersi conto che la mia sovraesposizione non è nata dall’esasperata ricerca di palchi mediatici, ma dall’esasperato sottrarsi degli altri, di chi, entrato in stato di soggezione, è rimasto vittima di una progressiva autocensura, che al pur nobile fine di togliere argomenti all’avversario non ha fatto altro che regalargli praterie. Giocare sempre in difesa sa già di sconfitta. E infatti, di contenimento in contenimento, si sta perdendo il gusto di esercitare i propri diritti di libertà. Andiamo sempre di più verso il declino dei diritti con la nostra stessa complicità, con la complicità delle parti più consapevoli e sensibili a certi temi. Mentre nel Paese infuria la corruzione sistemica e i sistemi criminali si integrano e si rafforzano, compenentrandosi con la classe dirigente, è ora di svegliarsi dal torpore, altrimenti il risveglio sarà brusco e tardivo.

l’Unità 17.10.12
Caccia F35: altro che tagli, costo più che raddoppiato
Il modello base passa da 80 a 137 milioni di dollari

Il generale Debertolis lo dice sulla rivista della Difesa Di Paola aveva promesso di ridurre la spesa
di Rachele Gonnelli


ROMA Esosi anche nel modello «nude», figuriamoci compresi gli accessori. I nuovi cacciabombardieri F35 erano stati ridotti di numero dal governo «tecnico». L’esecutivo Monti aveva portato la commessa statale da 131 velivoli agli attuali 90. La riduzione, annunciata nel febbraio scorso dall’ammiraglio-ministro Giampaolo Di Paola, era stata decisa come contributo alla prima spending review, sulla scia di una campagna che ha coinvolto 660 associazioni, oltre 60 enti locali e raccolto 77mila firme di cittadini a favore della riduzione delle spese militari. Si scopre ora però che il costo di ogni singolo aereo nel frattempo è lievitato. Non un po’, più del doppio, tanto che il risparmio sul programma di realizzazioni e acquisizioni firmato dall’ammiraglio Di Paola 11 anni fa di fatto è sparito. E anzi, sembra che gli F35 siano destinati a pesare sempre più sull’erario.
Dell’aggravio sui costi scrive in una lunga intervista sull’ultimo numero della rivista di settore “Analisi Difesa” il generale Claudio Debertolis, segretario generale dello stesso ministero, cioè in definitiva colui che presiede alle acquisizioni di armamenti per la Difesa. Debertolis aveva da sempre ritenuto «irrealistico» il costo stimato in Parlamento di 80 milioni di dollari ciascuno per i primi tre caccia stealth a marchio Lockeed Martin che dovrebbero uscire dalle catene di assemblaggio di Cameri a inizio 2015. Aggiornando i prezzi, rivisti i prototipi e i rincari dei materiali Debertolis ammette che il costo medio dell’aereo «nudo», in gergo recurrent fly-away cost, sarà di 137,1 milioni di dollari nel 2015 anche se poi non specifica per effetto di cosa sarebbe destinato a scendere negli anni a seguire. Si tratta di un aggravio del 60 per cento circa rispetto alla spesa indicata al Parlamento. Quindi almeno 13-14 miliardi di euro invece dei 10 pattuiti dal governo. «Pensiamo che la lievitazione dei costi in corso d’opera sia solo agli inizi», sostiene Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo che, prendendo a confronto i dati e le osservazioni della Corte dei Conti statunitense al Congresso Usa, denuncia in Italia la mancanza di trasparenza sui contratti e sulla loro portata, sulle penali da pagare in caso di riduzione «poi rivelatesi fasulle» e sulle ricadute occupazionali del progetto negli stabilimenti Faco di Cameri nel Novarese. L’ammiraglio Di Paola in audizione aveva detto che gli F35 avrebbero dato lavoro a 10mila addetti ma finora non sono più di 700 in tutto i ricercatori, progettisti e tecnici specializzati coinvolti. «Soprattutto con tutti questi soldi quante altre cose si potrebbero fare? creando molti più posti di lavoro, ad esempio nella manutenzione degli edifici scolastici si chiede Giulio Marcon di Sbilanciamoci senza contare che gli F35 non sono neanche caccia intercettori come gli Eurofighter, con compiti quindi di difesa, sono aerei esclusivamente d’attacco per voli radenti sui fronti di guerra». Marcon si chiede «perché la Ragioneria dello Stato che fa le pulci al provvedimemento sugli esodati di Damiano su questo progetto faraonico non dice niente».
Per Savino Pezzotta, deputato Udc «quegli areei non sono necessari e in tempi di sacrifici, di crisi, di drammi occupazionali sono un lusso che non possiamo permetterci, con quei soldi si può investire in settori molto più produttivi».

La Stampa 17.10.12
I sindacati: si taglia la strada ai precari. Bersani: Misure inaccettabili
Sei ore in più, scuola in rivolta Profumo: ora gli stati generali
di Maria Teresa Martinengo


Il sottosegretario Rossi-Doria: faremo una riforma per dare progettualità
Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo si è detto pronto a discutere «purché si rispettino i vincoli di bilancio»

Tutti contro l’allungamento dell’orario degli insegnanti da 18 a 24 ore scritto nero su bianco nella proposta di legge di stabilità inviata alla Camera dopo l’approvazione in consiglio dei ministri. Il testo, pubblicato ieri, ha scatenato le reazioni dei sindacati, compatti nel chiedere la cancellazione del provvedimento, e ha suscitato una netta presa di posizione del segretario del Pd Pierluigi Bersani. «Le misure sulla scuola sono inaccettabili», ha detto Bersani, definendole «improvvisate» e, venendo al nocciolo del problema cui guardano le organizzazioni sindacali: «Chiudono la strada ai precari. La logica non tiene. La scuola ha bisogno che ci fermiamo e reimpostiamo il discorso in modo strategico».
Piena disponibilità al dialogo con Bersani e il Pd sulla scuola è arrivata poco dopo dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, «purchè si resti all’interno dei vincoli di bilancio votati dallo stesso Parlamento». Per il suo dicastero significa un taglio di 182 milioni. «Condivido appieno l’esigenza espressa da Bersani - ha detto il ministro - di impostare il confronto in un quadro strategico complessivo. È in quest’ottica che sto lavorando a una conferenza generale sulla scuola, nei primi due mesi del 2013, con il coinvolgimento di tutte le forze professionali e sociali. Circa le misure, ogni suggerimento nel dibattito parlamentare sarà benvenuto».
Per il sottosegretario Marco Rossi Doria «i vincoli di bilancio non possono che essere rispettati, ma non è sostenibile tagliare altri posti di lavoro nella scuola. Poi, il dibattito in Parlamento dovrà tener conto che non è più rimandabile l’avvio di un processo di innovazione che porti a una scuola secondaria più flessibile, più simile alla primaria, dove il tempo scuola degli insegnanti non coincide con le ore frontali, come nella maggior parte dei paesi sviluppati. Una condizione che è anche in parte all’origine dei risultati accreditati e abbastanza stabili della nostra primaria». Rossi Doria ribadisce che «occorre più progettualità, possibilità di recupero di chi è indietro, ma anche promozione di chi è avanti, maggiore flessibilità nell’organizzazione del tempo scuola, classi e aule non necessariamente corrispondenti per rispondere a bisogni non standardizzati. Tutto questo fa pensare a un progressivo aumento di orario per i docenti, a differenziazione di compiti. Certo, un processo così significativo non si fa facilmente con la legge di stabilità. Ma speriamo che le forze politiche in Parlamento colgano il problema».

Repubblica 17.10.12
Una legge vera contro i corrotti
di Barbara Spinelli


Se gravità inaudita vuol dire qualcosa – inaudito è ciò di cui prima non s’era udito parlare, mai esistito – serve un’azione che sia all’altezza del responso: anch’essa inaudita, ha da essere un farmaco senza precedenti. Non devono più esistere un Parlamento, un Consiglio regionale, una Provincia nei quali nuotino squali: politici navigati e novizi, anziani e giovani, uomini di partito o d’affari, che si arricchiscono togliendo soldi a un’Italia impoverita. Che addirittura, come a Milano, negoziano con la ’ndrangheta prebende, voti, posti, spartendo con lei i beni e il dominio della pòlis.
Paola Severino ha detto, giorni fa: «Ce lo chiede l’Europa ». È una frase che non andrebbe neanche pronunciata, perché questo sì è perdere sovranità e massima umiliazione. Possiamo delegare all’Europa parte della politica economica; non la nostra coscienza, la capacità di distinguere tra bene e male, lecito e illecito. È come se dicessimo che, bambini senz’ancora uso della ragione, non capiamo bene cosa sia il Decalogo (settimo comandamento compreso) e lo depositiamo nel grembo dell’Europa- genitore. A chi tentenna in Parlamento, e mercanteggia per salvare brandelli di impunità, il governo dovrebbe dire che sono gli italiani a esigere quel che già Eraclito riteneva imperativo: combattere per la legge come per le mura della città.
Se il governo avesse dimenticato cosa pensano gli italiani, guardi ai 300.000 cittadini che hanno firmato la petizione di Repubblica, perché giustizia sia fatta: hanno firmato non per una legge abborracciata ma per un nuovo inizio, per una scossa autentica. Osi riconoscere che questa non è Tangentopoli- 2. È Tangentopoli mai interrotta; sta travolgendo istituzioni cruciali; è sfociata, a Nord, in un patto fra organi di Stato e mafie che non è più un episodio passato indagato dai giudici, ma un presente che ci avviluppa e uccide lo Stato.
Non è chiaro se l’esecutivo dei tecnici sia consapevole di questa domanda che sale dal basso. Se si renda conto dell’urgenza di una questione morale divenuta nel frattempo antropologica, economica, politica: biografia di una nazione, nauseante per tanti. L’impressione che dà è strana, più ancora della maggioranza che lo sorregge. Da settimane i governanti avanzano, indietreggiano, ogni tanto alzando la voce ma non la mano che intima l’altolà della sentinella. Sono puntigliosamente determinati quando parlano di conti, tasse. Paiono animati da una sorta di divina indifferenza all’immoralità che regna nella cosa pubblica, a una cultura dell’illegalità che in Lombardia secerne antichi connubi fra borghesia imprenditoriale, Stato, poteri pseudoreligiosi come Comunione e Liberazione. Poteri assecondati da una Chiesa che solo in apparenza ha smesso l’ingerenza politica dopo il crollo della Dc; che tollera o sostiene certi affarismi della Compagnia delle opere e certi patteggiamenti con le cooperative rosse. Che tace sull’infiltrazione, nel connubio, della criminalità organizzata.
La vera sovranità da resuscitare è questa: lo Stato che riconquisti il territorio, e non permetta che gli sfuggano di mano roccaforti decisive (Lazio, Sicilia, Lombardia). È un secondo Risorgimento e una seconda Liberazione di cui abbiamo bisogno.
Già è stato troppo accontentato, il partito nato come Forza Italia non per superare Tangentopoli, ma per poterla più perfettamente perpetuare. La legge non reintroduce il falso in bilancio, svuotato da Berlusconi nel 2002: eppure il crac del San Raffaele cominciò proprio così. Non contempla un reato essenziale, l’autoriciclaggio: punito in gran parte d’Europa; reclamato, prima che da Bruxelles, dalla Banca d’Italia. Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, lo ripete dal 2010: la non punibilità dell’autoriciclaggio “frena le indagini, non consente di indagare su quanti, avendo commesso un reato, utilizzano i proventi del denaro sporco per investirlo in attività lecite e turbare l’economia”. Punirlo è “necessità assoluta”, ma – ha detto nel settembre scorso – «di tale necessità non riusciamo a convincere il legislatore».
Lo stesso dicasi per il voto di scambio: nella legge è punibile se il politico lo paga in denaro, non se lo compra con assunzioni, appalti favori. Sul Corriere, Luigi Ferrarella ne deduce che Domenico Zambetti, l’assessore della Regione Lombardia arrestato con l’accusa di aver comprato 4000 voti dalla ’ndrangheta, «non sarebbe neppure indagato per voto di scambio, se non avesse pagato in denaro».
Troppe omissioni, nella legge presente, troppi favori: non è la muraglia di Eraclito. Sono elencati crimini punibili solo in teoria – traffico di influenze, concussione – visto che i trasgressori rischiano pene talmente ridotte che prestissimo otterranno la prescrizione. C’è poi il divieto di candidarsi, se sei condannato per corruzione con sentenza definitiva. Ma non si sa se il divieto scatti subito, e l’idea stessa della sentenza definitiva ha qualcosa di scandaloso. Perché resti candidabile dopo la prima, la seconda condanna? Un deputato, un assessore, un governatore, un sottosegretario sono presunti innocenti sino al terzo grado di giudizio, come ogni cittadino. Ma non sono cittadini qualsiasi. Dovendo dare l’esempio, hanno più obblighi: lo Stato non può esser affidato a onesti
presunti.
La nomina di Monti voleva rappresentare una rottura anche morale, rispetto ai predecessori. Accennando alla lotta anticorruzione, il Presidente del consiglio ha denunciato «l’inerzia, comprensibile ma non scusabile, di alcune parti politiche». Perché comprensibile? Perché questa deferenza verso parti politiche che non ci si azzarda nemmeno a nominare? Il rischio è che così facendo, l’esecutivo faccia il notaio delle stesse inerzie che critica. Che non trovi il coraggio di forzare il varo di una legge seria. Chi non è d’accordo va messo davanti all’opinione pubblica: dica a voce alta che vuole una storia italiana fondata su corruzione e mafie in espansione. Non basta più essere esperti di spread, davanti a quel che accade. Non basta presentare l’evasione come nuovo discrimine di civiltà, se castigati sono i piccoli negozianti e non gli squali. Occorre lo sguardo tragico e lungo dello storico, non solo sugli ultimi vent’anni. Occorre rileggere quel che Pietro Calamandrei scrisse fin dal 1946, appena un anno dopo la Liberazione: lo spirito della Resistenza già era deperito, se per resistenza s’intende «la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza », e «la sete di verità, di presenza, di fede nell’uomo».
Già allora s’intuiva il disfacimento, e il pericolo non era «nel ritorno del fascismo: era in noi». Era nella rinascita del disgusto della politica che aveva dato le ali a Mussolini; nel «desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti». Oggi come ieri, è nell’attrazione esercitata da capipopolo dai nomi esoterici: Belzebù, Cavaliere, Celeste, e chissà come designeremo i prossimi. Calamandrei chiamò questo disgusto desistenza,
contrapponendola alla tuttora necessaria resistenza. Non più eroica, ma pur sempre resistenza: «resistenza in prosa».
È tardi per simile resistenza? Non è tardi mai per divenire adulti, e sovrani nella coscienza. Per difendere le mura della legge e le sue sentinelle, come si difendono le mura della città.

Repubblica 17.10.12
La rivoluzione tranquilla di Raul, spuntate le armi dei dissidenti
di Norberto Fuentes


LA VERITÀ è che Raúl sta riuscendo nell’impossibile impresa di trasformare il colorito, imprevedibile, violento corso della vita cubana in uno dei Paesi più noiosi del pianeta. E con il fratello ancora vivo, quel Fidel che è stato uno dei più riusciti interpreti della politica come spettacolo. Finite le denunce e le accuse perché Cuba non lasciava viaggiare liberamente i suoi cittadini: a partire dal prossimo 14 gennaio se hai un passaporto valido, un visto e un biglietto aereo puoi andare dove ti pare. A partire da questo momento la responsabilità di muovere i cubani nello spazio aereo internazionale non è del governo cubano, ma dei governi del resto del mondo. E, badate, non solo del governo degli Stati Uniti. Che le cancellerie occidentali si preparino, perché la brulicante moltitudine ha appena voltato l’angolo.
Potete immaginare in questo stesso momento che la notizia, che è stata accolta con gioia all’interno di Cuba, non è lo è stata altrettanto a Miami, dove più di un milione di emigranti cubani si guadagnano da vivere. Alla fin fine sono questi emigranti che dovranno aprire il portafogli per foraggiare i viaggi.
Altri benefici collaterali per il presidente Raúl Castro: ripulire nuovamente il Paese di scontenti e «personale non gradito», ma in modo fluido e, se così si può dire, civile. Non saltuariamente, in mezzo a grandi crisi internazionali e con dispiegamento di mezza flotta statunitense nella Corrente del Golfo per fermare le ondate di balseros.
Come nel 1980, quando le autorità cubane consentirono l’espatrio di 125.000 persone verso gli Stati Uniti, lasciando uscire migliaia di «indesiderabili» in quello che passò alla storia come «l’esodo di Mariel», dal porto di imbarco cubano: ecco, se vogliamo questa decisione di Raúl la possiamo definire un «Mariel silenzioso», ma in realtà è un’idea molto più intelligente, perché non ha propositi tattici. È strategica. È a tutti gli effetti una legge, non un provvedimento eccezionale. Non mira ad allentare la pressione che minaccia di far saltare tutto, vuole essere qualcosa che entra a far parte della vita del Paese. Insomma, una di quelle cose che piacciono a Raúl. Spettacolo zero. Si fa una legge e la si applica.
E se gli emigranti cubani del Sud della Florida vedranno assottigliarsi le loro riserve economiche, non saranno loro a subire il colpo peggiore. Sarà la dissidenza interna. Sono loro che sono rimasti «appesi al pennello», come si dice sull’isola evocando l’immagine di una persona che sta dipingendo una parete e improvvisamente gli tolgono la scala da sotto i piedi. Insomma, l’assenza di drammaticità per Raúl va benissimo. Ma che nostalgia di Fidel, non è vero?
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 17.10.12
Quei piccoli sogni nelle notti di Gaza
Un libro di Cecilia Gentile: undici storie di bambini palestinesi
di Stefania Parmeggiani


Amal, undici anni, ha visto uccidere il padre sotto i suoi occhi, mentre il fratellino moriva dissanguato tra le braccia della madre. Lei è rimasta sepolta per quattro giorni sotto le macerie e ha quindici schegge in testa. Yaser, dieci anni, non ha più una casa. Così se ne sta raggomitolato a terra, sul pavimento duro di una baracca di cemento e non gioca, non sorride, non parla. Solo qualche mozzicone di frase. Amal e Yaser sono vittime della violenza, a Gaza e nei Territori Occupati della Palestina. La loro storia è raccontata da Cecilia Gentile, giornalista di Repubblica, in un libro agile e crudo: Bambini all’inferno, pubblicato da Salani Editore nella collana “I garanti”. Il lettore cammina insieme all’autrice in un corridoio sospeso nel nulla, in mezzo al deserto, sotto il tiro delle armi israeliane. Attraversa il varco di Erez e si trova con lei in una terra di sassi e pietre, tra montagne di detriti e immondizia, circondata dagli uomini di Hamas e dal loro integralismo, ma anche dai bambini che vendono frutta al mercato, che scavano con le mani tra i calcinacci per trovare materiale da vendere o da riutilizzare. Bambini che hanno smesso di giocare e che sognano di diventare adulti. Gentile è entrata nelle loro vite e con delicatezza li ha fatti parlare.
Nascono così le undici storie di Bambini all’inferno, quella di Amal e Yaser, ma anche quella di Khaled, passato dentro un tunnel per fuggire dall’Egitto e tornare a Gaza. Era stato il padre a portarlo fuori della striscia, a promettergli una vita diversa e ad affidarlo nelle mani di una donna che lo legava e picchiava. Non andava a scuola, non aveva amici. È tornato percorrendo al contrario uno dei tunnel di Rafah: un chilometro sotto terra e poi la luce. A otto anni il campo profughi di Al-Magazi può essere chiamato “casa”. Khaled è tornato per vivere e come molti suoi coetanei accarezza la speranza di diventare un adulto che aiuta gli altri. I bambini di Gaza sognano di fare i costruttori di case, strade e ponti, le infermiere e i medici. Ma per quanti continuano a credere nel futuro c’è chi alimenta il desiderio di vendetta. Ripetono frasi terribili, che conducono sul baratro di un odio senza fine: «Mai perdonare, mai dimenticare ». Percepiscono gli israeliani solo come il nemico. E più hanno paura e più odiano: «Quando vogliono, i coloni vengono e ci picchiano. La polizia non ci protegge, non c’è sicurezza», dicono Emran ed Ejad, che raccolgono sassi e li scagliano, combattono la loro piccola Intifada e vengono arrestati. A dodici anni. In questa terra che l’autrice ha voluto visitare su invito di Maria Rita Parsi, direttrice della fondazione Movimento Bambino e della collana “I garanti”. L’obiettivo era indagare l’infanzia nel cuore di un conflitto grazie alla collaborazione delle organizzazioni internazionali e delle associazioni locali che lavorano a Gaza. E grazie a persone come Vittorio Arrigoni, l’attivista per i diritti umani assassinato a Gaza il 15 aprile 2011. A lui l’autrice dedica questa inchiesta che è insieme denuncia e atto di solidarietà: i diritti d’autore del libro saranno devoluti al Palestinian Centre for Democracy and Conflict Resolution, associazione di Gaza che insieme a Save the Children è impegnata in progetti di sostegno e di protezione per l’infanzia.

il Fatto 17.10.12
Il libro
Revelli, quando il potere seduce e rende amorali
di Maurizio Viroli


Il processo di pietrificazione del mondo si è fatto totale, e a creare il mondo pietrificato è un potere impalpabile, immateriale, astratto che si presenta nella forma amichevolmente neutra di un sistema di segni. Con questa diagnosi Marco Revelli chiude il suo saggio I demoni del potere (La-terza), in libreria, nel quale spiega che il potere che pietrifica è quello che trasforma gli individui in materia inerte, in esseri che non hanno più uno sguardo proprio. La cultura greca ha espresso questa concezione del potere nel terribile e affascinante mito di Medusa, una delle Gorgoni, “colei che domina” ed “è sovrana” e pietrifica chiunque incontri il suo sguardo. Il suo è un potere brutale, primordiale, duro, feroce, come Achille, che dopo aver ucciso Ettore ne strazia il cadavere. Per Revelli, un potere siffatto si è manifestato in tutto il suo orrore nel lager. Prova ne sia che Primo Levi, parlando dei più disgraziati fra i prigionieri del campo di sterminio, li ha definiti coloro che hanno “visto la Gorgone” e sono per questo diventati non uomini, hanno perso se stessi: non più esseri umani, eppure vivi. Un’altra faccia del potere che domina il nostro tempo, scrive Revelli, è la seduzione. Non pietrifica, attira a sé; non infonde paura, affascina. La sua rappresentazione classica è la sirena che conquista e porta alla morte, con un canto di una dolcezza ammaliante. Per resistere alle sirene ed evitare di naufragare sugli scogli, Ulisse si fa legare all’albero maestro della nave e impartisce ai compagni l’ordine di non slegarlo per nessuna ragione: “Ma voi con legami strettissimi dovete legarmi, perché io resti fermo, in piedi sulla scarpa dell’albero: a questo le corde mi attacchino. E se vi pregassi, se vi ordinassi di sciogliermi, voi con nodi più numerosi stringetemi”.
L’ULISSE OMERICO, dopo essere sfuggito al canto delle sirene, può narrare la sua storia. Noi, invece, non siamo in grado di narrare quello che è avvenuto. La prova più eloquente è, ancora una volta, Auschwitz, e il testimone da citare è di nuovo Primo Levi: “Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala, oltre che esigua: siamo quelli che, per la loro prevaricazione, o abilità, o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto. […] I sommersi, settimane e mesi prima di spegnersi avevano già perduto le virtù di osservare, ricordare, commiserare ed esprimersi”.
Il potere totalitario ha dunque una duplice caratteristica: pietrifica e si rende inconoscibile. Il potere democratico ha invece dimostrato di avere una peculiarità diversa che Revelli descrive come capacità di creare la realtà attraverso le parole. L’esempio più significativo è il discorso del Segretario di Stato americano Colin Powell di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu quando ha raccontato all’opinione pubblica mondiale, con abbondante supporto di immagini e di elaborazioni virtuali, la favola delle armi di distruzione di massa nascoste dall’Iraq agli ispettori delle Nazioni Unite e denunciò i legami fra Saddam Hussein e al Qaeda. Il racconto di Powell ha poi creato la realtà della guerra in Iraq, che, come lo sguardo della Gorgone, ha pietrificato nel senso letterale del termine: ha trasformato in cumuli di macerie città e monumenti millenari. Le considerazioni di Revelli, con il costante riferimento ai miti della Gorgo-ne e delle Sirene, sono di rara efficacia, e invitano a riflettere sulle caratteristiche permanenti del potere e sull’enorme difficoltà di incatenarlo con la forza del diritto. Ma sarebbero state ancora più stimolanti se avesse spiegato meglio, oltre alle somiglianze, le differenze profonde che separano il potere totalitario da quello democratico. È vero che tanto il totalitarismo quanto lo Stato democratico hanno fatto credere menzogne che poi hanno contribuito a causare morte e distruzione. Ma è vero del pari che Colin Powell è stato immediatamente confutato, contestato e ha di fatto chiuso con quel discorso, ingloriosa-mente, la sua carriera politica. Nessuno ha denunciato Hitler o Goebbels per le menzogne che hanno portato la morte e la distruzione nel mondo.
DIFFERENZE a parte, le democrazie contemporanee sembrano avere in comune con il totalitarismo l’inquietante propensione a produrre esseri umani banali, capaci di diventare spietati aguzzini che non si rendono conto di quello che fanno, o di rimanere indifferenti di fronte alla brutalità. I soldati americani guardavano impassibili i commilitoni che torturavano i prigionieri iracheni e molti di loro hanno inviato le immagini degli orrori di guerra a un apposito sito in cambio di video pornografici.
Delle tre caratteristiche del potere che Revelli ha discusso – pietrificare, sedurre, ridurre la persona a un essere moralmente indifferente – la terza è la più pericolosa perché è la più subdola, e contro di essa non abbiamo ancora trovato rimedio.