l’Unità 13.10.12
Scuola e ricerca gridano aiuto
Cortei in 90 città contro i tagli del governo. Studenti e professori in piazza con le carote: «Finora soltanto bastoni»
Camusso lancia la manifestazione del 20 ottobre: risposte sul lavoro o sciopero generale
In Parlamento tutti dicono: la legge di stabilità va corretta
La forza allegra dei centomila studenti
In piazza anche gli insegnanti della Cgil e molti ricercatori
l’Unità 13.10.12
Se manca un progetto è inutile aumentare l’orario
di Benedetto Vertecchi
NON ERA DIFFICILE IMMAGINARE CHE NEL CLIMA GIÀ CALDO CHE IN QUESTO INIZIO D’ANNO DOMINA NELLE SCUOLE parlare di un possibile aumento dell’orario di lavoro degli insegnanti avrebbe aggiunto a quelle già esistenti ulteriori ragioni di disagio.
E ciò non solo per le fosche previsioni che si possono fare circa la capacità del sistema educativo di assorbire nuovo personale o, quanto meno, di collocare dignitosamente quello che da anni ruota in condizione di precarietà attorno alla scuola.
Ma ancor più perché la sortita estemporanea sul nuovo orario di cattedra costituisce un ulteriore prova dell’improvvisazione con la quale si interviene, o si dichiara di voler intervenire, sul funzionamento del sistema scolastico.
L’orario di lavoro non è, infatti, qualcosa che possa essere variato prescindendo da considerazioni che riguardano i modelli organizzativi e didattici dell’attività educativa. Si può anche considerare inadeguato l’orario attuale: ciò non perché sia inadeguato il numero di ore richiesto agli insegnanti, ma perché tale orario rispecchia una concezione dell’educazione scolastica che poteva essere accettata fino ad alcuni decenni fa, mentre oggi risulta incapace di corrispondere alle esigenze che nel frattempo si sono venute manifestando. Per cominciare, non si può seguitare a far coincidere l’orario delle lezioni con quello di funzionamento delle scuole. Poiché l’impegno di lavoro degli insegnanti corrisponde al numero di lezioni necessario per coprire l’orario di funzionamento delle scuole, si capisce che anche solo ventilare un aumento lasci subito intravedere fosche prospettive per l’occupazione.
Non solo. Non c’è bisogno di richiamare i dati delle indagini comparative internazionali per rendersi conto che il sistema educativo fatica ad adeguarsi ai mutamenti intervenuti e a quelli che stanno intervenendo nel quadro culturale e sociale. L’enfasi posta su elementi di modernizzazione proposti alle scuole (per esempio, l’uso di apparecchiature tecnologiche) può dare l’impressione che qualcosa stia cambiando, ma si tratta, appunto, solo di un’impressione. Le nuove dotazioni possono avere una capacità di attrazione finché sono inconsuete (e solo sulla parte più sprovveduta degli allievi), ma non sono in grado di configurare profili culturali la cui validità si estenda per un tempo lungo. Le strumentazioni che oggi appaiono all’avanguardia potranno essere utilizzate, sempre che lo siano davvero, per pochi anni. Per acquisirle saranno state impegnate le poche risorse disponibili per le dotazioni delle scuole. Ma, ammesso pure che i tempi fossero meno grami di quello che sono, avrebbe senso impegnare tali risorse per inseguire le offerte del mercato? Non ci si può non stupire di fronte al tono assertorio con cui si vantano i benefici che verrebbero dall’uso di questo o quel mezzo, in assenza di elementi obiettivi, di ricerche originali, di esperienze condivise. Intanto, per far posto a dotazioni che resteranno nelle scuole meno del tempo degli allievi che potrebbero usarle, non ci si cura più dei laboratori, dei gabinetti per le scienze della natura, delle raccolte bibliografiche e di quelle naturalistiche. Non ci si preoccupa di offrire agli allievi la possibilità di collegare pensiero e azione, di stimolare la loro creatività perché esprima un saper fare intelligente. Ed è proprio questo che gli insegnanti dovrebbero fare se ne avessero il tempo, se gli orari di funzionamento delle scuole non fossero così rachitici.
In Europa, e in genere nei Paesi industrializzati, la scuola assorbe gran parte della giornata, al mattino e al pomeriggio (talvolta, spazi e dotazioni sono fruibili anche di sera). Certo, non per far lezione, ma per trasformare ciò che si apprende in elementi di un profilo culturale che resti attraverso il tempo e possa adattarsi e riadattarsi ai mutamenti che intervengono nella conoscenza e nella società. Quel che serve è elaborare un’idea dell’educazione, e effettuare scelte coerenti con essa. La logica dei rattoppi non produce – l’abbiamo visto nulla di buono. Si attenua il rapporto di fiducia sul quale si fonda l’attività delle scuole. E gli stessi insegnanti sono alla rincorsa d’intenti che non sanno quanto siano condivisi. Quel che manca, e di cui c’è soprattutto bisogno, è una politica per l’educazione.
il Fatto 13.10.12
Fiom: sciopero il 16 novembre. Anche contro il premier
“PRIMA VIENE TOLTO di lì questo governo, meglio è, non sta facendo l’interesse dei lavoratori. La manovra è una truffa”. La Fiom chiede lo sfratto dell’esecutivo Monti e, in questo modo così netto ed esplicito, è la prima volta che lo fa. È la prima notizia dell’assemblea dei delegati del sindacato di Maurizio Landini che si è svolta ieri a Modena. Davanti a circa 5000 delegati, il segretario dei metalmeccanici ha poi annunciato lo sciopero generale della categoria per il 16 novembre con al centro il rinnovo del contratto, specialmente dopo la pretesa di Federmeccanica di siglarlo separatamente con le altre sigle sindacali . Ma la giornata a questo punto si carica di un significato più generale. Landini ha poi attaccato anche Renzi per le sue giravolte su Marchionne ma non ha risparmiato nemmeno quei politici, a partire dal Pd, che ora criticano il sindaco di Firenze e che prima sostenevano lo stesso amministratore Fiat. Infine, la richiesta alla Cgil di non firmare nessun accordo sulla produttività.
il Fatto 13.10.12
Camusso: sciopero generale? Vediamo dopo il 20 ottobre
“COSA faremo dopo il 20? Lo decideremo dopo il 20”. Con queste parole Susanna Camusso, segretario generale Cgil, commenta l’ipotesi di uno sciopero generale durante la conferenza stampa di presentazione della manifestazione del 20 ottobre. "Voglio dire agli amici di Cisl e Uil che è il momento di riprovare a fare delle iniziative insieme. Date le scelte fatte nella legge di stabilità, dobbiamo capire che di tasse e di tagli il lavoro italiano sta morendo. Una politica che non salva il lavoro non salva neanche l’Italia. La ripresa si allontana e la recessione diventa sempre più forte". Intanto a settembre la cassa integrazione è aumentata ancora: +3,6%.
l’Unità 13.10.12
Bersani: «Il coraggio dell’Italia» Oggi il manifesto dei progressisti
Il leader Pd sceglie lo slogan della campagna che inizia domani a Bettola
Chiuso il confronto sulle regole, nella Carta nessun riferimento a Monti
di Simone Collini
ROMA Chiuso il confronto sulle regole e definito il testo della «Carta d’intenti per l’Italia bene comune», le primarie entrano nel vivo. E non è detto che i motivi di polemica siano destinati a diminuire, anzi. Oggi il leader del Pd Bersani, quello di Sel Vendola e quello del Psi Nencini presenteranno il manifesto che andrà sottoscritto da chi vuole correre per essere scelto come candidato premier. Ma questa mattina dovrebbero essere illustrate anche le modalità di voto della sfida ai gazebo. Il condizionale è d’obbligo perché la riunione tra gli sherpa dei tre partiti della coalizione progressista, che doveva essere risolutiva, si è chiusa con il fronte vendoliano recalcitrante ad accettare la norma (benvista da Pd e Psi) per la quale possa votare al secondo turno (fissato per il 2 dicembre nel caso nessun candidato ottenesse il 50% dei consensi il 25 novembre) soltanto chi si è registrato (cioè ha firmato l’appello a sostegno del centrosinistra) entro la domenica precedente. Per di più, quando sono iniziate a trapelare indiscrezioni su quale fosse il punto di caduta della trattativa (si può votare al solo secondo turno esclusivamente in «rari e isolati» casi, ovvero dimostrando che al primo turno si era malati o all’estero), il coordinatore della campagna di Renzi, Roberto Reggi, si è precipitato a Roma per contestare questa norma, quella per cui il luogo dove registrarsi sarà diverso da quello dove si voterà e anche quella per cui i nomi di chi sottoscriverà il manifesto del centrosinistra saranno pubblici e l’albo degli elettori sarà consultabile.
LO SLOGAN DI BERSANI
La discussione è andata avanti ma Bersani ha dato mandato ai suoi di chiudere prima di stamattina questa partita, per poter lanciare oggi manifesto e regole e aprire una nuova fase della sfida. Il leader del Pd apre infatti la sua campagna domani, che tra le altre cose è il giorno del quinto anniversario della nascita del Pd (le primarie che hanno eletto Veltroni segretario si sono svolte il 14 ottobre 2007). Il luogo scelto per la partenza è Bettola, paese natale del segretario democratico, e per la precisione a fornire il set sarà la pompa di benzina che gestiva il padre, Giuseppe. E domani verrà ufficialmente svelato anche lo slogan della campagna di Bersani (la scritta verrà posta sul piccolo palco montato nel piazzale della pompa di benzina) che sarà «Il coraggio dell’Italia». Il leader del Pd, che guarda alle primarie ma soprattutto alla sfida per Palazzo Chigi, lo ha scelto per ricordare che il Paese ha saputo far fronte anche ai problemi più drammatici, ma anche per chiamare gli italiani a una «riscossa civica», insieme a un centrosinistra che dovrà avere il coraggio di «ripensare al lavoro», «fermare i privilegi», «ridare prestigio alla politica» (sarà su queste e altre questioni che verrà declinato lo slogan principale).
UNA CARTA SENZA MONTI
Bersani oggi intanto rischia però di dover fare i conti con due fronti polemici. Agli attriti con i renziani, che esploderanno non appena le regole verranno ufficialmente presentate, rischiano infatti di aggiungersi delle critiche provenienti dai cosiddetti montiani del Pd. La «carta» che verrà presentata oggi non contiene infatti riferimenti espliciti all’operato di Monti, diversamente da quella messa a punto da Bersani prima dell’estate, nella quale si parlava dell’«autorevolezza» dell’attuale premier. Una scelta obbligata, visto che Vendola spingeva per inserire un riferimento a Monti di segno negativo. La decisione di non citare l’attuale capo del governo fa però storcere la bocca a quanti, nello stesso Pd (da Gentiloni a Morando, da Tonini a Ceccanti a Vassallo) guardano con favore all’ipotesi del Monti bis e guardano invece con preoccupazione a una «carta» in cui si critica la linea del rigore a livello europeo.
La Stampa 13.10.12
E ora nel Pd torna il timore di un Monti bis
I democratici: “Le parole del Colle un siluro al premio di coalizione”
di Carlo Bertini
Con aria sorniona, Casini prevede: «La legge elettorale? Eeeeeh», ampio gesto con la mano per far intendere che «il cammino sarà lungo», ne vedremo delle belle. Abbiamo un testo base, è vero. Ma chi segue le cose da dentro non scommette un cent che sarà pure il testo definitivo. Al massimo, un primo passo. Quagliariello e Zanda, i negoziatori per conto di Pdl e Pd, sottovoce riconoscono che «si può, si deve far meglio»: questa riforma va blindata sul piano politico e resa invulnerabile su quello parlamentare, perché così com’è appare troppo fragile. Senza puntelli, rischia di crollare. La prima incognita si chiama premio di maggioranza. Nella bozza vale il 12,5 per cento. A Bersani non è garanzia sufficiente per sentirsi la vittoria in tasca, però gli sembra meglio che nulla, per cui se lo tiene stretto. Anzi, il timore nel Pd è che nel «lungo cammino» della legge scatti qualche tagliola. Ad esempio, che venga votata una soglia percentuale minima per far scattare il premio. Calderoli, il solito guastatore, vuole proporne una del 40 per cento, chi non ci arriva resta senza premio. Va spargendo la voce che sulla soglia «tutti mi verranno dietro, centristi compresi». Nel Pd suona l’allarme.
Però più che su Calderoli, l’attenzione è concentrata sul Capo dello Stato. E in particolare sul passaggio della lettera a Schifani dove si dice basta alle alleanze nate solo per vincere, anziché per governare. «È un evidente siluro al premio di coalizione», lo interpreta un personaggio di spicco del Pd. I cui vertici guardano con forte sospetto tutto quanto potrebbe spingere verso un bis del governo Monti. La grande paura è di ritrovarsi una legge che, come risultato finale, renda inevitabili le larghe intese...
L’altra incognita si chiama Berlusconi. Il testo base della legge gli va a genio o no? Perfino tra i suoi, nessuno riesce a capirlo, per cui regna una paralisi decisionale. L’uomo è confuso, oppure si diverte a confondere gli altri. Qualcuno sostiene che vorrebbe tenersi l’attuale «Porcellum». Col quale perderebbe, però in Parlamento farebbe eleggere chi vuole lui. Si sussurra che alla Camera, quando si voterà a scrutinio segreto, Silvio scatenerà contro le preferenze l’esercito dei «nominati». A quel punto addio riforma, non ci sarebbe più tempo per aggiustarla.
In verità, nemmeno al Pd le preferenze convincono. Anzi, c’è rivolta. Approvare una legge che le contiene creerebbe parecchi grattacapi a Bersani. Per cui sotto sotto in queste ore si sta già studiando la maniera di disinnescare la mina. L’ultima ipotesi sul tappeto ipotizza una sorta di scambio, un ulteriore «do ut des». Al posto delle preferenze, verrebbero indicati sulla scheda 4-5 nomi per ogni simbolo. Scegliendo il partito si eleggerebbero automaticamente i candidati, un ibrido tra listini bloccati e collegi. Una volta tolte di mezzo le preferenze, forse il Pd potrebbe accontentarsi del premio al partito, anziché alla coalizione. Proprio come sembra suggerire Napolitano. E a quel punto sarebbero tutti contenti...
La Stampa 13.10.12
Una versione aggiornata della Prima Repubblica
di Marcello Sorgi
Il testo della nuova legge elettorale votato in commissione al Senato piace al Presidente della Repubblica, che ha scritto al presidente del Senato Schifani per manifestare il suo consenso e spronare i partiti all’accordo finale. Il Capo dello Stato trova convincente soprattutto il meccanismo che, moderando l’effetto maggioritario del premio elettorale, elimina la necessità di giocarsi il tutto per tutto per vincere, anche a costo di mettere insieme alleanze eterogenee che alla prova dei fatti non riescono a governare, e lascia alla trattativa parlamentare il compito di costruire la coalizione che dovrà poi sostenere il governo.
La differenza fondamentale tra il Porcellum e il testo votato, per adesso, solo da Pdl, Lega e Udc, infatti sta in questo: con il Porcellum il partito o la lista che prendevano un voto più degli altri ottenevano il 55 per cento dei seggi della Camera. Con la riforma, se passerà, per avere un premio del 12,5 per cento dei seggi occorrerà raggiungere il 37,5 per cento. Tra voti e premio, insomma, non sarà più possibile superare il 50 per cento. E siccome con la metà dei parlamentari non si governa, il partito o la coalizione che vincerà le elezioni, il giorno dopo i risultati dovrà contrattare l’appoggio necessario alla creazione della maggioranza.
In altre parole, se Bersani e Vendola, al momento accreditati in vantaggio, riescono a toccare la fatidica soglia del 37,5 per cento dei voti (obiettivo realistico, dato che il Pd nei sondaggi è accreditato al 28-29 e Sel al 7), potranno, sì proclamarsi vincitori la sera stessa della chiusura delle urne, ma per formare il governo dovranno necessariamente rivolgersi a Casini. E a un analogo percorso sarebbero portati Pdl e Lega, ammesso che riescano a ricostituire la loro alleanza e il vento elettorale giri in loro favore.
Resta ancora da capire se un sistema come questo, ibrido di proporzionale e maggioritario, rappresenti un’evoluzione della Seconda Repubblica o un suo definitivo accantonamento. La seconda ipotesi è più probabile, dal momento che il centro non sarà più obbligato a schierarsi preventivamente con la destra o con la sinistra, e che l’una o l’altra dovranno chiederne il sostegno parlamentare per governare. Così, anche se è presto per dirlo, più che alle soglie della Terza Repubblica è probabile che ci ritroveremo in una versione aggiornata della Prima: con il Parlamento che torna ad essere centrale e i candidati premier figure simboliche, che dopo il voto, e prima di andare a Palazzo Chigi, dovranno comunque negoziare con gli altri partiti.
Repubblica 13.10.12
L’imbroglio delle preferenze
di Gianluigi Pellegrino
BISOGNA stare attenti a non fraintendere le parole del Capo dello Stato. Napolitano si felicita perché la riforma elettorale è giunta finalmente (se non a tempo scaduto) nella sede propria delle aule parlamentari.
Ma l’apprezzamento del Presidente finisce qui. Nel merito il suo messaggio, pur nel rispetto dei ruoli, è nella sua oggettività assai ben critico se non di autentica bocciatura del testo base approvato in commissione. Che infatti è indifendibile, per ragioni evidenti che certo il Presidente non poteva esplicitare. Dietro la sacrosanta esigenza del superamento del porcellum, si rischia in realtà un approdo quasi peggiore, perché aggravato dal sapore della beffa. Restano infatti per oltre il trenta per cento i listini bloccati e quindi il boccone più indigesto della legge porcata. E per gli altri due terzi si propone un appiccicoso quanto surreale salto nel passato, con ritorno all’inguardabile sistema delle preferenze.
Non è nemmeno necessario, come pure sarebbe sufficiente, richiamare il recente rosario di scandali per ricordare che sono tutti, non a caso, legati alle preferenze. Non solo le vicende dei Fiorito “batman”, degli Zambetti “pisciaturu”, dei Piccolo “superman”, e dei Maruccio di ogni risma; ma anche il decreto di scioglimento del Comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose è interamente motivato sugli scambi connessi a quel sistema di raccolta dei voti, purtroppo in vigore nelle elezioni comunali e regionali. Il che già dovrebbe bastare e rendere impensabile la sua estensione alle politiche. Ma la ragione di fondo che deve imporre un no senza condizioni a questa opzione, è persino più rilevante, perché riguarda al fondo la cultura politica e delle istituzioni necessaria per provare a risanare la “democrazia ma-lata”, fotografata con impietoso allarme ieri da Ezio Mauro.
Ed infatti proprio le elezioni politiche devono essere un voto di opinione e non un voto di clientela. I partiti postideologici se vogliono dare un senso alla loro missione devono recuperare la strada della credibilità che invece perdono per sempre se scelgono sistemi che fomentano al loro interno guerre intestine, familistiche se non criminali. Comitati d’affari dei quali infine i partiti medesimi restano vittime e subalterni. Svuotati dall’interno. Nella loro stessa anima.
Optare per le preferenze vuol dire ostentare, in un masochismo accecato, una clamorosa indifferenza a questa esigenza vitale, quando l’alternativa valida la conoscono tutti. Sono i collegi l’unico strumento idoneo a saldare voto di opinione, nuova centralità dei progetti politici, valorizzazione dei candidati, virtuoso collegamento con il territorio. Si deve poi ovviamente azzerare qualsiasi residuo di listino bloccato, cimelio non richiesto del porcellum.
Sul fronte della governabilità infine, Napolitano ha parlato chiaro. Se è vero che si devono evitare coalizioni forzate è altrettanto vero che il premio deve servire a sostenere un governo di legislatura, risultando invece di dubbia costituzionalità se serve solo come cadeau a questo o quel partito. Con il rischio di produrre il medesimo cortocircuito che oggi il porcellum presenta al Senato dove il premio opera persino in danno di chi deve formare la maggioranza di governo.
Vale per la riforma elettorale quel che vale per l’anticorruzione. Non serve una legge purchessia, ma la legge che tutti sanno sarebbe utile per il paese e che però si stenta ad approvare per tornaconti personali o di partito. Lì per avere salvacondotti nei processi, qui per la trasparente tentazione di far finta di ridare la parola agli elettori, ma scegliendo sistemi buoni solo a garantire se stessi e a reclutare i peggiori. Democratici, dipietristi e vendoliani hanno votato contro. Ma non basta. Anche al porcellum dissero di opporsi per poi abusarne abbastanza. Arrivati alla soglia della riforma implorata dai cittadini, il più odioso dei tradimenti deve essere contrastato con forza visibile e senza infingimenti.
La cronaca ogni giorno ci dice che si è giunti al fondo del pozzo. Dovrebbe quanto meno esserci l’istinto a provare a spingere verso l’alto per cercare la risalita. Continuare a scavare, non è sopravvivere, ma solo un cieco cupio dissolvi.
La Stampa 13.10.12
Centrosinistra
Primarie infuocate scontro sulle regole del ballottaggio
I fedelissimi di Renzi: ci vogliono danneggiare
di Carlo Bertini
Se passa la linea del ballottaggio a numero chiuso in cui può votare solo chi si è iscritto al primo turno, è un problema serio per Renzi», ammette uno dei sostenitori dello Sfidante, proprio mentre a Roma va in scena una battaglia di trincea sulle regole: prima anticipate e poi smentite, visto che anche il leader di Sel, sulla carta, non schioda dalla linea del Piave di primarie aperte sempre a tutti fino all’ultimo. E’ la vigilia dello showdown, stamattina Bersani, Vendola e il socialista Nencini lanceranno in pompa magna le tre tavole della Coalizione: la «Carta d’intenti per l’Italia bene comune», che provoca già polemiche a iosa nel Pd per l’assenza di alcun accenno all’opera meritoria di Monti, come richiesto da Sel. Un programma stilato col bilancino che blinda i confini dell’alleanza dentro l’Europa e fissa l’urgenza di uscire dalla crisi guardando all’economia reale più che allo spread. Dieci capitoli: Europa, Democrazia, Lavoro, Uguaglianza, Libertà, Sapere, Sviluppo sostenibile, Beni comuni, Diritti; e infine Responsabilità: è qui che vengono promesse decisioni a maggioranza dei gruppi parlamentari, lealtà agli impegni internazionali e ai trattati, insomma quel complesso di assicurazioni per garantire agli italiani che la coalizione sia affidabile e credibile.
Poi c’è «L’appello agli elettori di centrosinistra» che dovranno firmare tutti quelli intenzionati a votare. E la «Carta delle regole»: sulla quale fino a notte, nella migliore tradizione, si tratta sulle virgole. Uno scontro tale da indurre Roberto Reggi, plenipotenziario di Renzi, a prendere di corsa un aereo da Venezia a Roma per vedersela a quattr’occhi con un altro piacentino, osso duro come lui, Maurizio Migliavacca, fidato braccio destro di Bersani. E anche se i sondaggi del comitato pro-Renzi fotografano una realtà sorprendente (l’EMG dà lo sfidante in testa al primo turno, percentuale tra il 35,6 e il 39,4%, Bersani dietro tra il 33,3-35,2% e Vendola terzo, tra il 17,6-21%), tutti sanno che la partecipazione sarà elemento decisivo.
Per questo al tavolo delle regole, «le stanno pensando tutte per scoraggiare la voglia di andare a votare e per danneggiarci», dicono gli uomini del sindaco di Firenze. Unici finora tra i candidati ad aver superato lo scoglio delle 90 firme di delegati dell’assemblea del Pd necessarie per candidarsi, «ne abbiamo oltre 100 per sicurezza»; ma infuriati per i tiri mancini che «gli altri» provano a tirargli: come il doppio albo, quello dei votanti (solo consultabile) e quello pubblico dei sostenitori dell’Appello; o come l’escamotage dei banchetti per iscriversi sistemati «il più vicino possibile» ai gazebo dove si voterà. Accorgimenti per disinnescare i rischi di inquinamento del voto, ma nella sostanza anche per scoraggiare i votanti dell’ultim’ora che potrebbero essere la maggioranza. Insomma, se voterà un milione o quattro milioni di persone, farà la differenza e Renzi punta a trascinarne il più possibile al primo giro. Per questo, quando domani Bersani avrà terminato il suo show nella piazzola della stazione di servizio in quel di Bettola, lo Sfidante sarà seduto negli studi di Domenica In, ospite di Giletti per una comparsata di una mezz’ora. Piani di esposizione diversi, per il leader Pd che esordisce così nella sua campagna per le primarie e per Renzi ormai in corsa da settimane, ma ancora non così noto in ogni angolo dello stivale come Bersani. E dunque intenzionato a colmare quel gap con ogni mezzo, dall’intervista a “Chi” fino al salotto domenicale di massimo ascolto.
il Fatto 13.10.12
La difesa dei Pm: “Il Presidente non è un sovrano”
di Beatrice Borromeo
Il presidente della Repubblica non è un monarca assoluto: è questa la tesi della procura di Palermo, che in una memoria indirizzata alla Corte Costituzionale spiega perché Giorgio Napolitano proprio non può pretendere l’immunità totale.
Liberi tutti.
Se la Consulta dovesse accogliere il conflitto d’attribuzioni – sollevato dal Capo dello Stato per paura che le sue telefonate con l’ex senatore Nicola Mancino finiscano sui giornali – le conseguenze sarebbero tanto gravi quanto paradossali. Ecco cosa succederebbe se si sancisse che il Presidente non può essere intercettato in alcuna circostanza, neanche indirettamente e casualmente: “Una volta accolto il ricorso - scrivono gli avvocati dei pm palermitani, Pace, Serges e Serio - i magistrati sarebbero indotti, nel dubbio, ad astenersi dal disporre intercettazioni a carico di tutti coloro che, ancorché sottoposti a indagine penale, potrebbero avere titolo, in ragione di attuali o pregressi rapporti o funzioni precedentemente svolte, a comunicare direttamente con il Presidente della Repubblica”. Consiglieri, ex ministri, vecchie fiamme e compagni d’asilo inclusi. E questo - scrivono - costituirebbe una “violazione dell’obbligatorietà dell’azione pena-le”.
Il nastro magico.
Sulle oltre novemila telefonate intercettate sull’utenza di Mancino, la voce di Napolitano si sente solo quattro volte. E dato che la registrazione “si verifica in forma automatica mediante apparecchiature informatiche, non controllabili e non influenzabili, almeno nell’immediato, da intervento di un operatore” (così i pm), risulta difficile accontentare il presidente della Repubblica, che nel decreto dello scorso 16 luglio dice: “Il divieto di intercettazione riguarda anche le cd. Intercettazioni indirette o casuali comunque effettuate mentre il Presidente è in carica”. Proprio in questo passaggio, oltretutto, l’avvocatura dello Stato ammette che le telefonate con Mancino siano state intercettate casualmente, ma sostiene che nulla cambi. Ma il divieto di ascoltare il presidente, scrivono gli avvocati di Francesco Messineo, Antonio Ingroia e Nino di Matteo, “è previsto solo per le intercettazioni dirette” e può al massimo “estendersi a quelle indirette non casuali”.
Istigazione a delinquere.
Se poi le bobine ci sono, secondo gli avvocati di Napolitano, i pm devono “procedere alla distruzione immediata del testo intercettato”. Peccato che il magistrato non lo possa fare (per legge). Spiega la Procura di Palermo che non è possibile “procedere all’immediata distruzione prescindendo dal ricorso del giudice e dalle garanzie del contraddittorio”. E questa è “l’unica azione compatibile con la salvaguardia dei principi costituzionali”, visto che i pm non possono arrogarsi il potere di distruggere bobine (sarebbe illegale: spetta al giudice) e che non si può “inibire all’innocente la possibilità di portare in giudizio la prova, anche irritualmente acquisita, della non colpevolezza”. La paura del presidente è che che se si rispetta la legge (col giudice che decide la distruzione dei nastri in udienza apposita, dopo averli fatti ascoltare agli avvocati difensori degli indagati che ne facciano richiesta) c’è il rischio che il contenuto delle telefonate trapeli all’esterno.
Re Sole.
C’è poi l’articolo 90 della Costituzione, che “sancisce la irresponsabilità del Presidente - salve le ipotesi di alto tradimento o attentato alla Costituzione - solo per “gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”. L’avvocatura dello Stato ne propone un’interpretazione molto ampia: “Il perseguimento delle finalità costituzionali caraterizza l’attività sia formalizzata sia non formalizzata del presidente della Repubblica connotando-la in senso funzionale”. Telefonate con vecchi amici comprese. Ma, dicono i pm, questa affermazione è “infondata giuridicamente” ed è “paradossale”: “Non solo nelle allocuzioni pubbliche ma anche nelle comunicazioni riservate, il Presidente parlerebbe sempre e soltanto come Capo dello Stato”. Un’inviolabilità “che caratterizza il Sovrano”, si legge nella memoria, e che “implicava la totale immunità dalla legge penale”. Ma non di un Sovrano qualunque: la Costituzione spagnola, per esempio, dice l’intercettazione legittima di una telefonata nella quale accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a “investigare la persona del Re”, e verrebbe valutata dal giudice istruttore che la farebbe distruggere solo se irrilevante ai fini delle indagini. “In caso contrario - spiega la Procura di Palermo - le telefonate resterebbero agli atti”. Per l’inviolabilità che vuole il presidente Napolitano bisogna tornare al Re Sole.
l’Unità 13.10.12
Quei minori «rapiti per legge» che non fanno notizia
di Carla Forcolin
TUTTA L’ITALIA SI INDIGNA O FINGE DI INDIGNARSI davanti al filmato che ci mostra un bambino di 10 anni, conteso dai genitori, mentre viene preso con la forza all’uscita da scuola e caricato in una macchina della polizia. Leonardo si oppone disperatamente al suo trasferimento forzato in una struttura di Cittadella, al suo allontanamento dalla madre, dalla zia, dai suoi compagni ... Ma non viene ascoltato, viene preso a viva forza.
Non entro in merito alle decisioni della Corte d’Appello del Tribunale dei Minorenni di Venezia, non ho gli elementi per farlo, ma non posso non vedere in questo bambino, che tutta l’Italia ha visto combattere una lotta impari contro i poliziotti che lo hanno prelevato all’uscita della scuola, tutti i bambini rapiti per legge. E per bambini «rapiti» intendo coloro che sono costretti a cambiare famiglia, ambiente e tutta la loro vita contro la loro volontà.
Non solo i bambini contesi tra madre e padre, ma anche i bambini posti in affidamento e poi costretti a lasciare la famiglia affidataria, per finire in qualche struttura e da lì passare ad una famiglia adottiva. I bambini tolti ai genitori naturali perché considerati «inadeguati», anche se i bambini li amano e gli stessi genitori, con tutti i loro limiti, amano loro. I bambini sottratti ai genitori ingiustamente accusati di violenza (è successo tante volte). Sono rapiti tutti quei bambini che all’uscita dalla scuola trovano una persona diversa da quella che aspettavano e che da quella persona (assistente sociale o poliziotto) vengono costretti a cambiare residenza e a perdere tutti coloro che amano nel loro cuore.
La giustizia minorile, nei paesi che si ispirano alla «Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989», non potrebbe ignorare i desideri, i sentimenti e la volontà dei bambini, trattandolo come oggetti, ma lo fa lo stesso. La Convenzione, all’art. 12, stabilisce che il fanciullo ha «il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, essendo essa debitamente presa in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità». Leonardo ha espresso ben chiaramente la sua opinione opponendosi a chi lo ha voluto rinchiudere in una comunità e tutto il mondo lo ha visto, ma ci sono bambini portati via da casa o da scuola in modo meno vistoso, ma ugualmente violento.
Già ieri sera il questore di Padova, intervistato in televisione, ci dice che il piccolo Leonardo sta bene. Anche Maria, Felice, Carlotta, che del padre aveva tanta paura ed è stata mandata da lui, stanno bene. Stanno tutti bene questi bambini, anche se costretti a separarsi in un momento da tutto ciò che è loro caro, proprio come succede nella morte.
Ormai tre anni fa fu lanciata dall’ associazione «La gabbianella e altri animali» la petizione «Diritto ai sentimenti per i bambini in affidamento». L’onorevole Francesco Paolo Sisto (PdL) è il relatore della materia, ma nessuna legge è stata ancora fatta. Si farebbe ancora in tempo a discutere le proposte di legge che giacciono in Commissione Giustizia e sono frutto di petizione popolare, se lui e i suoi onorevoli colleghi volessero.
Le migliaia di firmatari della petizione lo pregano di porre la questione di nuovo con urgenza, non lasciar cadere la legislatura senza avere fatto ciò che è in suo potere perché il problema sia risolto.
I bambini vengono rapiti per legge con grande frequenza, ma nessuno se ne occupa se non fanno notizia, se non c’è un filmato che li renda «famosi».
Ora ci si aspetta che almeno Lorenzo sia ascoltato, che la sua richiesta di aiuto urlata al mondo abbia un seguito, anche quando i riflettori della cronaca si spegneranno su di lui.
*(Presidente dell’associazione «La gabbianella e altri animali»)
il Fatto 13.10.12
Luigi Cancrini: “Nel conflitto il figlio resta solo”
di Silvia D’Onghia
L’errore è quello di non riuscire a passare dalla dimensione coniugale a quella genitoriale. E spesso i periti si concentrano sul bambino perdendo di vista l’oggetto: la relazione interpersonale tra i due adulti”. Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, una vita spesa dalla parte dei minori e delle famiglie, sa che a Cittadella, pur se “in buona fede”, sono stati commessi molti errori.
Quali, professore?
In primo luogo la sindrome da alienazione parentale che è stata diagnosticata al bambino. Una configurazione clinica molto discutibile che ha definito ‘alienato’ il bambino, ‘alienante’, quindi mostruosa, la madre, ‘vittima’ di un sopruso il padre. E una volta che il bambino diventa ‘alienato’, non lo si ascolta più, si dà per scontato che la sua mente non funzioni liberamente, ma che sia soggetta a volontà altrui.
Ma quali dinamiche possono aver portato a quello che abbiamo visto?
Non dimentichiamoci che ci si trova di fronte al fallimento di una coppia, alla sua separazione. La reazioni più comuni sono due: si cerca di dividere il figlio a metà o ci si dimentica completamente del figlio. È come “La guerra dei Roses”: aggrappati al lampadario facciamo venire giù tutto. Nei Tribunali ognuno arriva col proprio legale e col proprio perito, che magnificano l’assistito ai danni dell’altro genitore. Per cui è frequentissimo che i giudici prendano provvedimenti in termini di diritto e non di comprensione e di cura.
Quali sono le conseguenze nel bambino?
Prendiamo due situazioni tipo. Il bambino resta con la madre e non vede più il padre. Fino ai 12/13 anni rimane accoccolato alle esigenze della madre, fa finta di non ricordarsi che il padre esiste. La mamma dice: ‘Va bene a scuola, che se ne fa di un padre così’. Poi arriva l’adolescenza e il bambino comincia a chiedere ragione di quanto accaduto, diventa inquieto. Oppure il conflitto va avanti per anni con alterne vicende, il bambino viene sballottolato di qua e di là. Ogni genitore gli starà accanto e gli dirà: ‘Io ti voglio bene, mica come quell’altro’. Si chiama conflitto di lealtà. Allora avremo un bambino profondamente solo, che tende a diventare anaffettivo.
I giudici, gli assistenti sociali, la polizia sono preparati ad affrontare situazioni come quelle di Cittadella?
A macchia di leopardo. A Roma, Milano, Torino, Napoli ci sono centri di aiuto ai bambini maltrattati che collaborano con i Tribunali, ci sono associazioni e servizi. In altri luoghi ci si muove solo sul piano assistenziale.
Nel suo nuovo libro, “La cura delle infanzie infelici”, lei affronta un “viaggio all’origine dell’oceano borderline”. Ci sono storie che le sono rimaste impresse?
Una proprio sul conflitto di lealtà, una bambina presa nella trappola. L’altra è la storia di un bimbo di tre anni che non voleva più stare con i genitori affidatari. ‘È la mia mamma che non vuole’, diceva al terapeuta. Ma la sua mamma era morta.
Corriere 13.10.12
Come con Salomone vince chi rinuncia per non fargli male
di Silvia Vegetti Finzi
Nel prelievo forzato del piccolo Leonardo, all'indignazione succede ora la riflessione sulla possibilità di prevenire avvenimenti così incresciosi. Sullo sfondo vi è un annoso conflitto sulla gestione del figlio che si rifiuta d'incontrare il padre. Incapaci di trovare un accordo, i genitori delegano all'autorità giudiziaria la loro funzione chiedendole di dirimere una vertenza che riguarda le passioni più che le ragioni. Ma la Legge, incapace di mutare i sentimenti, può agire solo sui comportamenti e i suoi interventi, per quanto giusti, possono risultare contradditori quando i diritti delle parti si equivalgono. Basta considerare la sentenza che toglie alla madre la potestà genitoriale e le conferma l'affidamento del figlio o quella che lo riaffida al padre, pur riconoscendo che, con il ricorso a numerose querele, ha ostacolato l'accordo.
Credo, in questi casi, sarebbe opportuno affrontare subito un percorso di mediazione che mantenga i problemi nell'ambito dell'interazione familiare. Col tempo la contesa per il «possesso» di Leonardo s'inasprisce sino a sfociare nell'intervento «chirurgico» di mercoledì scorso, che ha posto la società di fronte ai limiti del ricorso alla giustizia nei conflitti familiari. Sono soprattutto i padri ad appellarsi al Diritto, ma Re Salomone insegna che, nella contesa del figlio, vince chi rinuncia per non fargli male. Il genitore respinto che sa dire al bambino «ti voglio bene e ti attendo» ha molte probabilità di riavere il suo posto quando, con l'adolescenza, iniziano i fisiologici processi di distacco dalla madre e di emancipazione dalla famiglia. Talvolta l'amore si afferma nella rinuncia, nel sacrificio di sé per il bene dell'altro.
Corriere 13.10.12
Le oomande che non possiamo evitare
di Paolo Di Stefano
E adesso, povero bambino? Quanto tempo dovrà passare perché dimentichi il trauma dell'altro giorno? Quanti anni di terapia? Al netto delle scuse della polizia e delle indagini che seguiranno, non si può fare altro che porsi domande, a proposito della vicenda del piccolo Leonardo, vittima di troppi errori adulti: dell'incapacità della polizia, che non ha trovato di meglio che catturarlo e trascinarlo via dalla scuola afferrandolo per le braccia e per le gambe; della evidente inadeguatezza dei suoi genitori che non hanno saputo dargli la serenità che merita sempre un bambino, e tanto più quando mamma e papà non vanno d'accordo.
Lo dimenticherà mai, quel trauma, Leonardo? Quante volte da adulto rivedrà il filmato di quella giornata? E quante volte lo rivedranno migliaia di altri occhi inorriditi? E per farne che cosa? E quegli occhi restano più inorriditi dalla brutalità dei poliziotti o dal come si sia potuto arrivare a tanto? E i compagni di Leonardo, costretti a lasciare l'aula per non essere testimoni oculari di quello strazio, essendone però, probabilmente, testimoni auricolari, perché figurarsi se non avranno sentito il marasma, gli urli e i lamenti? Che cosa avranno detto i maestri agli alunni per spiegare la tragedia del loro compagno? E cosa capiranno a dieci anni? E come accoglieranno Leonardo se mai farà ritorno — come sarebbe giusto — in quella scuola?
E ancora: quale insensata ragione spingeva i nonni a sorvegliare la scuola ogni giorno, come fossero ronde padane, per evitare il temuto blitz? E lo choc della madre che avrà certamente visto in tv, come tutti noi, il suo bambino urlante che si divincolava trascinato a forza per la strada? E quel padre, che pensando di fare il bene del figlio, ha collaborato con la polizia per trascinarlo via? Davvero pensa, come ha detto, che finalmente adesso il bambino «è libero e sereno»? Da quali catene (o fantasmi?) sarebbe stato liberato, il povero Leonardo, e quale serenità avrà finalmente raggiunto, se sospetta, come è inevitabile, di essere diventato l'arma dell'odio tra i suoi genitori? E quella zia inferocita? Come ha potuto, nel caos di quel momento, avere la prontezza di tirar fuori il cellulare e filmare, urlando «bastardi!», le sequenze del trascinamento per farne un caso nazionale? Ed è stato giusto o sbagliato farne un caso nazionale e televisivo? E parlamentare, e istituzionale? E sbattere in faccia al Paese (e al futuro del piccolo Leonardo) questa tragedia privata che, diciamo la verità, era tragedia ben prima che facesse irruzione la goffaggine della polizia?
Tragedia privata diventata di pubblica utilità? Per chi, alla fine, visto che l'odio è odio, e sappiamo da sempre che non si dovrebbe ma purtroppo si può arrivare ad anteporre le ragioni del proprio dolore, che diventa odio cieco, alla tranquillità di un figlio? Cos'è che induce a pensare che il tuo dolore di genitore sia esattamente uguale a quello, innocente, del tuo bambino? E che i tuoi risentimenti coincidano con i suoi? E che passato il tuo dolore, sia passato anche il suo?
Bisognerebbe fare solo domande, nessuna affermazione, a proposito di questa storia. Ben sapendo che nessuno risponderà mai. Per esempio: quanti utilissimi libri sulla «separazione genitoriale», sul «divorzio consensuale e senza traumi», sui vantaggi dell'affido condiviso, su come vincere l'ansia da separazione, su come curare la «sindrome da alienazione parentale» dovranno ancora uscire perché non si consumino più queste guerre familiari contro i bambini? E quanti eserciti di assistenti sociali e psicologici che ci insegnino come fare bisognerà ancora mettere in campo per evitare il peggio? E infine perché tra l'iperprotezione ansiogena dell'infanzia e lo sfregio violento fatichiamo tanto a trovare una via di mezzo? Ma soprattutto c'è un'ultima domanda che vale per le altre rendendole forse retoriche e inutili: quanti bambini soffrono ingiustamente come Leonardo tra le mura della loro casa, con mamma o con papà, oppure magari con tutti e due?
Corriere 13.10.12
Figli tutti uguali. Legge sullo status in dirittura d'arrivo
ROMA — Entro la fine del mese la commissione Giustizia della Camera dovrebbe dare il via libera per l'Aula alla proposta di legge che equipara in tutto i figli naturali a quelli legittimi (cioè nati all'interno del matrimonio). La proposta è nel calendario dell'Aula di novembre: se venisse approvata senza modifiche sarebbe legge. Se passerà, il provvedimento andrà a modificare l'attuale normativa civile della filiazione naturale, eliminando le distinzioni rimaste tra status di figlio legittimo e status di figlio naturale. La norma riconosce, tra l'altro, ai figli naturali un vincolo di parentela con tutti i parenti e non solo con i genitori: questo fa sì che, in caso di morte dei genitori, il figlio possa essere affidato ai nonni e non dato in adozione come accade oggi. In più, la parificazione ha conseguenze anche ai fini ereditari.
l’Unità 13.10.12
E ora mai più complici
Due giorni per dire no alla violenza sulle donne
di Daniela Amenta
GABRIELLA, LUCIA, ELÈNA, ZINEB. AVEVANO 50, 40, 36, 22 ANNI. ERANO ITALIANE, MOLDAVE, NORDAFRICANE, ASIATICHE. Lavoravano, non lavoravano. Erano madri, non avevano figli. Erano single, erano sposate. La loro storia non esiste mai in questi casi. Cancellata, ridotta a una fototessera di un documento d’identità, icona lugubre ripetuta all’infinito. Un trafiletto su un giornale, se il delitto non è stato particolarmente efferato. «Solo» una coltellata a spaccare in due il cuore. Gabriella, Lucia, Elèna e Zineb morte ammazzate da mariti, fidanzati, amanti e conviventi. Uomini killer che vengono protetti da alibi concettuali, linguistici. Giustificati. «Ha ucciso dopo un raptus, ha ucciso per gelosia, ha ucciso perché aveva paura di essere lasciato». La vittima non esiste mai: il maschio assassino, ancora una volta, è il protagonista.
Novantadue vittime in Italia dall’inizio dell’anno. Sono numeri da guerra. Perché la guerra è in atto ed è un conflitto di genere. Per questo, oggi e domani, le donne di «Se non ora quando» si ritrovano a Torino. Il titolo di questa nuova iniziativa è «Maipiucomplici», scritto così tutto di seguito, un concetto da dire in fretta, memorizzare in un attimo. Un titolo, una campagna lanciata da Snoq a maggio dopo il massacro di Vanessa Scialfa, vent’anni, uccisa dal fidanzato dopo una banale lite.
Spiegano: «Vogliamo affrontare il tema con un nuovo punto di vista, con parole nuove, per superare la dimensione immediata e drammatica della testimonianza. L’intento è provare a raccontare le forme della complicità con la violenza e cercarne le ragioni, ma anche per approfondire insieme ai Comitati Territoriali Snoq ed alle associazioni che operano nel settore gli aspetti giuridici, sociali ed economici relativi al contrasto della violenza e al sostegno delle vittime».
Due giorni per riflettere, per lanciare una denuncia forte. Gli appuntamenti sono fissati per stasera presso le Officine Grandi Riparazioni (corso Castelfidardo 22). Un incontro aperto a tutti in cui si mescolano linguaggi diversi e in cui sarà rappresentata la prima della nuova pièce teatrale di Cristina Comencini L’amavo più della sua vita con gli attori Irene Petris e Edoardo Natoli. La regia è curata da Paola Rota del Teatro Stabile di Torino. Tra gli interventi anche quello della scrittrice Silvia Avallone con il suo racconto inedito La telefonata della danzatrice coreografa Simona Bertozzi e un video La parola ai giovani a cura di Stefanella Campana e Elisabetta Gatto (realizzato da IK Produzioni). Altre iniziative sempre oggi, ma nel pomeriggio: a partire dalle 18.00 in piazza Castello, angolo via Garibaldi una serie di letture su testi legati al tema della violenza con gli scrittori Gianni Farinetti, Alessandra Montrucchio, Alessandro Perissinotto, Margherita Oggero, Giuseppe Culicchia. Parteciperanno anche il direttore artistico del Festival del Cinema di Venezia Alberto Barbera e il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Mario Napoli. Domani, invece, una giornata di approfondimento con la ministra Elsa Fornero che farà il punto sulla legge anti violenza. A seguire un monologo di Lidia Ravera.
Una guerra si diceva. Dichiarata dagli uomini che odiano le donne. I dati, per quanto glaciali, danno il senso di un fenomeno in escalation. Per esempio il numero di donne seguite da Demetra, il Centro di supporto alle vittime di violenza delle Molinette di Torino, è in costante aumento: 300 dall’inizio del 2012, due al giorno. I casi erano stati 340 nel 2011, 170 nel 2010, 140 nel 2009.
Mai più complici, allora. Perché questa guerra, oltre ai lutti, lascia sul campo il dolore infinito delle sopravvissute. Il Premio Nobel della Medicina 2009, Elizabeth Blackburn, ha studiato le riduzioni dei telomeri (piccole porzioni di Dna che hanno un ruolo importante nel determinare la durata della vita di ciascuna cellula) presenti nelle donne vittime di violenza come causa di invecchiamento precoce e cancro. I risultati sono inquietanti, devastanti.
Un problema, insomma, che dovrebbe essere in cima all’agenda politica dei governi. Il nostro, in particolare, dopo l’allarme lanciato anche da Rashida Manjoo (ex commissario parlamentare della Commissione sulla parità di genere in Sud Africa, docente Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Città del Capo) che ha chiesto al nostro Paese interventi concreti e non parole per fermare il femminicidio. «La violenza contro le donne rimane un problema significativo in Italia ha spiegato -. Siamo alla presenza di omicidi basati sul genere culturalmente e socialmente radicati, che continuano ad essere accettati, tollerati e giustificati, mentre l’impunità costituisce la norma».
«Maipiucomplici». E anche questa volta la battaglia di civiltà di «Se non ora quando» è estesa a tutte e a tutti. Così gli uomini di noino.org dal Web hanno lanciato il loro manifesto. «Per sentirci uomini non abbiamo bisogno di essere violenti scrivono sul loro sito e sui social network -. Noi diciamo no alla cultura del possesso e del controllo, alla disinformazione, alle giustificazioni. La fine delle violenze maschili contro le donne inizia da noi».
Hanno già aderito in molti: da Stefano Benni a Vinicio Capossela, dal calciatore Alessandro Diamanti al regista Giovanni Veronesi. E tanti si stanno aggiungendo in queste ore.
Maipiucomplici. Mai più.
l’Unità 13.10.12
Turchia-Siria, prove di guerra aerea
Due caccia di Ankara intercettano elicottero siriano al confine
L’esercito turco ammassa altri 250 carri armati alla frontiera
Razzi siriani in territorio libanese
Rifugiati, allarme umanitario
di Umberto De Giovannangeli
I due caccia turchi si levano in volo per respingere l’elicottero siriano che si era avvicinato al confine. L’esercito di Ankara ammassa altri 250 mezzi corazzati a difesa dei villaggi frontalieri. Oltre il fronteggiamento: la guerra. Quella che sta montando di giorno in giorno tra Turchia e Siria. Due jet turchi si sono levati in volo dopo il bombardamento degli elicotteri di Damasco della città siriana di Azmarin, a pochi passi dal confine con la Turchia. A riferirlo è la britannica Sky News. Mentre è sempre al massimo la tensione con Damasco dopo l'intercettazione di mercoledì di un aereo di linea siriano nello spazio aereo turco, Ankara ha chiesto alla Nato l’attivazione dei radar antimissili della base di Kurecek e il loro puntamento verso la Siria, riferisce il quotidiano Sabah. La misura rientra fra i provvedimenti decisi dalla Turchia per potenziare il proprio dispositivo militare lungo il confine in caso di possibile conflitto, stando al giornale. La Turchia negli ultimi giorni ha ammassato oltre 250 carri armati sul confine con la Siria.
Il quotidiano turco Hurriyet, ha spiegato ieri che i mezzi militari dell’esercito di Ankara sono arrivati da Sanliurfa, Mardin e Gaziantep, tutte località del sud-est turco a maggioranza curda e che solo l’altro ieri ne sono arrivati un' altra sesssantina Nel frattempo, ad Azmarin è in corso da giorni una massiccia offensiva dell’esercito governativo: la popolazione è in fuga, donne e bambini sono stati aiutati dalla popolazione turca di un villaggio vicino a guadare il fiume che segna il confine tra i due Paesi. Ieri, le forze governative hanno diramato con gli altoparlanti un allerta preannunciando l’avvio dell’offensiva terrestre nel villaggio, considerato una roccaforte della ribellione.
ESCALATION
Intanto, l’esercito turco ha negato che vicino al confine con la Siria siano presenti militari americani e francesi, come scritto dalla stampa estera. In una nota il comando dell’esercito turco, riferisce il giornale Zaman, ha affermato che «non ci sono forze straniere» sul confine con la Siria e che quanto scritto dai media stranieri «è inesatto». Il quotidiano britannico The Times aveva scritto che forze speciali di Usa e Francia si trovano già da settimane nella base turca di Incirlik, vicino al confine con la Siria.
Dalla guerra sul campo a quella «diplomatica». Che dal Medio Oriente si proietta fino alla lontana Russia. Mosca attende ancora una risposta da Ankara sui motivi del divieto imposto ai diplomatici russi di incontrare i connazionali che si trovavano sull'aereo di linea siriano Mosca-Damasco intercettato in Turchia: lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov. Il capo della diplomazia russa ha riconosciuto che «l’equipaggiamento per le installazioni radar è di doppio uso (civile e militare, ndr) ma non è vietato da alcuna convenzione internazionale». Inoltre ha sostenuto che «il trasporto di questo tipo di equipaggiamento con aerei civili è una prassi assolutamente normale». Lavrov ha annunciato anche che il fornitore degli equipaggiamenti, che si trovava a bordo dell'aereo, chiederà la loro restituzione perché tutto è stato fatto regolarmente.
«Non abbiamo segreti», ha sostenuto il capo della diplomazia russa. «Naturalmente non c’era, né avrebbe potuto esserci alcuna arma. A bordo dell’aereo c’era un carico che un fornitore legale russo stava mandando in modo legale ad un cliente legale», ha aggiunto.
BATTAGLIA
In meno di 24 ore i ribelli siriani hanno ucciso 106 soldati, 92 nella giornata di ieri e 14 venerdì mattina in un attacco ad un posto di blocco dell'esercito nella provincia di Deraa. Lo ha riferito l’Osservatorio siriano dei diritti umani, aggiungendo che sei rivoltosi hanno perso la vita nello stesso attacco, avvenuto a Khirbata. Giovedì le violenze in tutto il Paese hanno causato 240 morti: oltre ai 92 soldati, 81 civili e 87 ribelli. Il bilancio provvisorio di ieri è di almeno 70 morti, secondo una stima dei Comitati locali di coordinamento dell’opposizione (Lcc).L’area del conflitto si estende: in serata, dieci razzi lanciati da jet militari siriani durante un attacco contro postazioni dei ribelli, sono caduti fuori bersaglio in territorio libanese, nella Valle della Bekaa, a ridosso del confine. Lo riferiscono i media libanesi, sottolineando che non vi sono state vittime. I missili sono caduti in una zona disabitata nei pressi del villaggio di Tufail. In questo scenario di guerra, cresce l’emergenza umanitaria. Ad oggi sono «340.935 rifugiati siriani registrati o in attesa di registrazione nei paesi che confinano con la Siria», Giordania, Libano, Turchia ed Iraq. È quanto rende noto l'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati (Unhcr) ricordando come «2-3mila siriani oltrepassino il confine ogni giorno».
La Stampa 13.10.12
Il letterato più celebre del Paese si discosta per la prima volta dalla linea ufficiale
Mo Yan stupisce la Cina “Fuori Liu dalla prigione”
Appello per il dissidente che vinse il Nobel prima di lui
di Ilaria Maria Sala
La mattina dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura, come è ovvio, tutti i giornali cinesi hanno Mo Yan in prima pagina, sbandierando totale delizia. E’ fatta, la Cina ha un Nobel di cui essere fiera, anche con il regime attuale. Internet, invece, è diviso come non mai: sui Weibo, i servizi di microblogging simili a Twitter (bloccato in Cina), la gioia e l’orgoglio sono onnipresenti, e riportano alla ribalta dettagli che altrove parrebbero impossibili. Come il fatto – forse non proprio un dettaglio – che Li Changchun, il direttore del Dipartimento di propaganda, ha scritto una lettera di congratulazioni all’Associazione degli scrittori cinesi (un’associazione ufficiale filo-governativa, di cui Mo Yan è vice-Presidente) in cui dice che questo onore «riflette la prosperità e il progresso della letteratura cinese, così come la crescente influenza della Cina nel mondo». Il direttore del Dipartimento di propaganda, proprio così. Poi, c’è Twitter: non censurato, accessibile solo a chi sa come scavalcare il muro della censura, dove invece nessuno fa sconti a Mo Yan, con insistenti domande sulla sua tessera del Partito comunista cinese, sul suo aver accettato di far parte di quegli intellettuali che hanno reso omaggio all’anniversario del discorso di Mao Zedong sull’arte e la letteratura di Yan’an, ricopiandolo a mano, anche se uno dei pilastri del discorso è che le arti devono servire «il popolo», e il Partito.
Alle lunghe, la pressione deve essere arrivata fino alla campagna dello Shandong dove si trovava Mo Yan, che ieri pomeriggio ha indetto una conferenza stampa. Nel corso della quale ha strabiliato tutti, affermando che si auspica «la liberazione di Liu Xiaobo», il Premio Nobel per la pace 2010, attualmente in prigione e cancellato da ogni discorso pubblico. Certo, l’inflessione data da Mo Yan poteva essere letta come un’esortazione a renderlo in grado, da libero, di avvicinarsi al Partito, ma lo stesso, si tratta di una dichiarazione straordinaria, fatta in un momento straordinario. Nessuno se l’aspettava: ma forse Mo Yan, che si è attirato così tanti nemici in patria per il suo appoggio al governo e le sue dichiarazioni a favore della censura, ora che è in una posizione tanto privilegiata può permettersi di fare e dire quello che vuole. Parlare di Liu Xiaobo in pubblico è certamente un buon inizio.
l’Unità 13.10.12
Caccia ai classici perduti, a partire da Lucrezio
«De rerum natura»
Composto intorno alla metà del I secolo a.C. nel corso del tempo è apparso e scomparso
di Luca Canali
ROMA È GIÀ IN LIBRERIA IL PRIMO VOLUME DELLA COLLANA «I SESTANTI», IDEATA E DIRETTA DA PAOLO MIELI. SI TRATTA DI UN ROBUSTO E AFFASCINANTE LIBRO DI STEPHEN GREENBLATT, professore di inglese a Harvard, vincitore del National Book Award 2011e del Pulitzer 2012 per la saggistica (Il Manoscritto, Rizzoli, 2012, pag. 365, € 22,00). È davvero un brillante esordio per la ricchezza dei temi e dei personaggi trattati con il rigore della ricerca specialistica e insieme con la disinvoltura dell’alta divulgazione. Lo sfondo è la caccia ai classici ritenuti perduti. In questo caso il cacciatore pertinace e fortunato è l’umanista Poggio Bracciolini, il classico latino la cui opera viene ricercata attraverso mezza Europa, è Tito Lucrezio Caro, autore del poema De rerum natura (La natura delle cose) composto intorno alla metà del I sec. a.C., che avrà la strana sorte di apparire e scomparire per secoli, poi di ricomparire e scomparire più volte nel corso della Storia: ciò perché si tratta di un testo di straordinaria qualità poetica e scientifica, ispirata alla filosofia del greco Epicuro, e animata da uno spirito polemico così «scomodo» da potere persino apparire sovversiva. Già nell’antichità classica, per lo stesso motivo, scrittori e poeti eccettuato Ovidio, ammiratore di Lucrezio, evitarono di fare il nome dell’autore, cercando così di mettere in ombra e di far passare inosservati sia quel loro solitario e scontroso collega e soprattutto la sua unica opera, pur accogliendone suggestioni ed echi, e persino esplicite citazioni. Ad esempio, Virgilio definisce – in materia soprattutto religiosa – «fortunato» chi conobbe la causa (non divina) delle cose, ma fortunato anche chi credette nelle divinità dell’agricoltura, basi della religione pagana. Mentre il pensiero di Lucrezio, rigorosamente laico, aveva anche aspramente polemizzato contro tale religione: basta ricordare, in proposito, il suo severissimo verso tantum religio potuit suadere malorum («a tali crimini poté indurre la superstizione religiosa»), a proposito del sacrificio della figlia del re, Ifigenia, richiesto dai sacerdoti per propiziare il viaggio della flotta greca per raggiungere e assalire Troia.
Certo, Lucrezio nomina gli dei dell’Olimpo, ma soltanto in funzione metaforica: ad esempio, proprio all’inizio del poema, Marte, dio della guerra, riposa in grembo alla dea dell’amore Venere, ma entrambe queste divinità non sono altro che una metafora della pace.
Il lettore attento a tutte le parti del libro, può invece dissentire da una netta affermazione editoriale che sostiene, in assenza di copertina, un concetto molto discutibile: «I grandi libri cambiano la storia del mondo». È vero che i grandi libri (e il De rerum natura è uno di questi) hanno sicuramente influenzato le menti di personaggi eminenti di ogni epoca: ma anch’essi, come Lucrezio, non sono riusciti a sconfiggere l’egoismo umano, il flagello delle guerre, il culto della ricchezza, il dominio della prepotenza, l’uso della menzogna nella diplomazia e nella poetica, tutti pseudovalori della vita delle nazioni, come invece vorrebbe Lucrezio. Il poema di Lucrezio sarà stato scritto, dunque, non da un rivoluzionario vittorioso, ma da un poeta – filosofico «sovversivo» ma infine anch’egli sconfitto nella prassi, e tuttavia trionfatore nella provvidenziale astrazione dell’unico autentico valore immutabile: quello della poesia e dell’arte, di tutte le arti ovviamente.
Questa vittoria nessuno potrà negarla. Persino il suo «nemico» nella teoria filosofica, Cicerone, rispondendo ad una lettera di suo fratello Quinto, così scrive accettandone il giudizio positivo sul poema lucreziano, ritenuto multis luminibus ingeni, multae tamen artis, (ricco di un luminoso talento, ma anche di molta cultura poetica): si ricordi in proposito, che nella concezione critica ciceroniana, ingenium ha appunto il significato di «estro creativo» e ars quello di «preparazione culturale e retorica» necessaria all’esplicarsi di quell’estroso talento letterario. Del resto, l’ideale etico dell’epicureismo, quindi anche di Lucrezio, era la voluttà «statica», cioè il piacere «tranquillo» dei saggi, non quello «cinetico», cioè in continuo e angoscioso movimento. Comunque, a problemi di questa natura (compresa ovviamente la trattazione scientifica della struttura dell’universo) in questo eccellente saggio di Greenblatt sono dedicati interi capitoli, fra i quali, molto belli, quelli riguardanti il viaggio di Bracciolini che lo conduce nei vari monasteri, conventi, biblioteche, dandogli modo di conoscere i dettagli, positivi e negativi, della vita monastica, e persino l’evoluzione dei materiali per la stesura dei manoscritti, dal papiro alla pergamena.
il Fatto 13.10.12
Bibliopride, la lezione dei Girolamini
Si tiene oggi a Napoli la Giornata Nazionale delle Biblioteche, promossa dall’Associazione Italiana Biblioteche. Qui di seguito una testimonianza di Tomaso Montanari.
Non avrei pensato che avrei potuto imparare così tanto, sul mio Paese, da una grande e meravigliosa biblioteca storica di questa città, dove ho l’onore di insegnare da alcuni anni. Alludo, lo avrete forse capito, alla Biblioteca dei Girolamini. Quando, il 28 marzo scorso, ci entrai, pensavo solo che sarebbe stato faticoso strappare condizioni favorevoli di accesso per un mio dottorando a cui avevo suggerito di studiare proprio il primo insediamento oratoriano a Napoli. Invece, quella visita fu una vera, e tragica, rivelazione.
APPRESI CHE si poteva dirigere una simile biblioteca senza essere laureati, e senza avere alcun altro tipo di titolo, in sommo sprezzo della faticosa e solida preparazione dei nostri laureati. Appresi fino a che punto la classe politica avesse trasformato anche il patrimonio storico e artistico della Nazione in un bottino da spartire. Appresi quali letali golfi d’ombra si attestino intorno alla incerta linea che difende gli interessi pubblici connessi a beni ecclesiastici.
Appresi quanto possa essere a rischio una biblioteca che esce dalla vita quotidiana, e poi anche dalla percezione, di una società intellettuale, e quindi della stessa città che la ospita.
Appresi quanto fosse facile insabbiare un’ispezione, fino a che punto potesse essere marcio un ministero, e fino a quale incredibile soglia di ignavia potesse ascendere un ministro della Repubblica. Appresi quanto tetragona fosse l’omertà dei mercanti di libri: nessuno fece notare che forse non era opportuno che un socio espulso dall’Alai diventasse direttore di una simile biblioteca.
Ma, soprattutto, appresi ciò che non si riesce quasi ancora a credere nonostante le confessioni, le ammissioni, i riscontri dell’inchiesta rigorosamente condotta dal procuratore aggiunto di Napoli. E cioè che un consigliere del ministro per i Beni culturali aveva saccheggiato la biblioteca che era stato chiamato – indegnamente – a dirigere. Dopo averne derubate – è notizia freschissima – molte altre. Che almeno quattromila volumi dei Girolamini irroravano da mesi il mercato antiquario – un mercato complice: bene dirlo ancora una volta.
Che – horribile dictu – almeno due libri si trovano nelle mani del senatore presidente della Commissione Biblioteca del Senato della Repubblica.
Suo malgrado, la Biblioteca dei Girolamini ci ha dunque insegnato molte cose, in questi mesi. Ma sarebbe imperdonabile dimenticare che, oltre a tutto questo ineffabile abisso di nequizia e corruzione, questa vicenda ha aperto anche prospettive decisamente più incoraggianti.
SE I GIROLAMINI si sono salvati, il primo, vero e incancellabile, merito a due dei suoi bibliotecari: Maria Rosaria e Piergianni Berardi. E infatti sono solo i loro, i nomi propri di persona che voglio pronunciare in questo discorso. Laddove tradivano i vertici della Repubblica, laddove gli intellettuali togatissimi distoglievano lo sguardo fingendo di non vedere, laddove la Chiesa taceva, ad essere fedeli fino in fondo e, con gravissimo rischio personale, sono stati due bibliotecari. Due bibliotecari precari: precari da quasi quarant’anni.
Il secondo motivo di speranza è legato alla pubblica amministrazione: che nonostante i silenzi, le complicità, i punti ancora oscuri ha saputo affidare finalmente in mani salde e oneste la Direzione generale delle biblioteche e la carica di Conservatore dei Girolamini.
Il terzo motivo di speranza è legato ai cittadini: che, una volta dato l’allarme, hanno risposto subito al durissimo, coraggioso appello scritto da un mio collega dell’università di Napoli. In pochi giorni oltre 5000 cittadini italiani hanno detto: la Biblioteca dei Girolamini ci appartiene, ci sta a cuore, ci interessa. Così come oltre 20.000 altri cittadini stanno chiedendo alla Regione Campania di trovare finalmente una sede ai libri dell’Istituto di Studi Filosofici: una richiesta che si scontra tuttora con uno scandaloso muro di gomma.
ED È DA QUA che dobbiamo ripartire. Perché tutto questo non si ripeta: anzi per far sì che il sacrificio dei Girolamini non sia del tutto vano. Potremmo cominciare, come sempre, dalle parole. Nelle cronache sulla vicenda dei Girolamini, un singolare corto circuito mediatico ha legato alla devastazione di una biblioteca la parola ‘bibliofilo’: quasi che un eccesso di amore per i libri, potesse non dico giustificare, ma almeno spiegare la distruzione di una biblioteca. Ecco, credo si debba dire chiaramente che i libri non sono un lusso per i ricchi, che le biblioteche non servono ai bibliofili, ma ai cittadini. Le biblioteche sono prima di tutto uno strumento attraverso il quale i cittadini possono esercitare appieno la loro sovranità: uno luogo sacro della democrazia, dove si producono libertà ed eguaglianza attraverso il sapere critico.
Repubblica 13.10.12
“Giulio Cesare ucciso alla fermata del tram” gli archeologi svelano il luogo della congiura
“Morì aLargo Argentina”. Lì c’era la Curia di Pompeo. Oggi il capolinea dell’8
di Cinzia Dal Maso
ROMA — Dicono che in un primo momento Giulio Cesare abbia cercato di difendersi, alzandosi dalla sedia dov’era seduto e gridando. Poi però, visto che nessun senatore si levava a difenderlo ma tutti fuggivano terrorizzati, si avvolse tutto nella sua toga e si lasciò trafiggere da ventitré pugnalate senza un lamento. Cadde così il grande dittatore, il 15 giorno delle Idi di marzo dell’anno 44 a. C. E ora Antonio Monterroso, archeologo del Consiglio nazionale per le ricerche spagnolo, dice di aver individuato il luogo esatto dell’assassinio. L’edificio lo conosciamo da tempo: è la cosiddetta “Curia di Pompeo” che faceva parte di un grandioso complesso fatto costruire da Gneo Pompeo nel 55 a. C. e comprendente un teatro, un enorme portico rettangolare addossato al teatro e, al centro di uno dei lati del portico, la Curia. La sua parte estrema si vede ancora oggi nell’Area sacra di Largo Argentina: è un grande podio che sta proprio alle spalle del tempio circolare, mentre il resto dell’edificio è coperto dalla strada moderna e dal settecentesco teatro Argentina.
Indagini di anni passati ci hanno restituito un’immagine abbastanza dettagliata di com’era fatta, ma mai nessuno prima d’ora si era posto il problema di capire in quale punto esatto dell’edificio Cesare spirò. Forse perché in parte già si sapeva.
Gli storici antichi dicono infatti che, dopo essersi alzato dalla sedia, Cesare si mosse verso uno slargo davanti alla statua di Pompeo, e lì i congiurati lo accerchiarono con le spade in mano. Anche la statua è giunta fino a noi ed è conservata nel vicino palazzo Spada. Tutto fila, dunque. E la dichiarazione di Monterroso che dice «fino a oggi non avevamo trovato nessuna prova materiale dell’evento» non è proprio del tutto veritiera: abbiamo la statua. Monterroso dice però di aver identificato una struttura di cemento larga tre metri e alta due, che sarebbe una sorta di Memoriale eretto anni dopo da Ottaviano Augusto per condannare il feroce assassinio. «Le fonti dicono che il luogo esatto dove Cesare cadde fu racchiuso in una struttura rettangolare colmata di cemento», continua Monterroso. E secondo lui questa struttura sarebbe da decenni davanti ai nostri occhi perché sarebbe una parte di quel podio che si ammira tra gli edifici dell’Area sacra di Largo Argentina.
Monterroso ha studiato per anni il teatro di Pompeo e ora sta ampliando le sue ricerche agli altri edifici del complesso. Il suo annuncio odierno, per quanto affascinante, richiederebbe qualche prova in più per convincere. Ma ha comunque il merito di riportare l’attenzione pubblica su un luogo importantissimo dell’antica Roma ma trascurato. Poche persone oggi, mentre vanno a teatro o pigliano il tram lì di fronte,
ricordano che proprio in quel luogo si consumò uno degli eventi più decisivi della storia della romanità. Un evento che affascina da sempre, che ha ispirato la grande tragedia di Shakespeare come i film ispirati all’antica Roma e persino il recentissimo “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Magari Monterroso riuscirà ad ancorare l’immaginario storico alla realtà.
Repubblica 13.10.12
Andrea Carandini, autore dell’Atlante di Roma antica: “Vorrei far vedere tutto ai turisti”
“È una tesi che ha bisogno di prove ora bisogna cercare sotto le rotaie”
ROMA - L’archeologo Andrea Carandini, che ha di recente pubblicato il monumentale Atlante di Roma antica, frutto di decenni di lavoro di un’équipe nutritissima di studiosi, è perplesso di fronte alla notizia della scoperta del luogo dell’assassinio di Giulio Cesare. “Io sono come Tommaso — dice — e quel podio lo devo vedere bene prima di giudicare”.
Ma sappiamo com’era fatta esattamente la Curia?
«Certo, è tutta ricostruita, basta guardare l’Atlante. Sono stati trovati frammenti di murature che ci hanno consentito di disegnare le dimensioni esatte dell’edificio. Si è trovato poi un muro parallelo a un lato dell’edificio che era forse la fondazione di una fila di colonne, per cui pensiamo che la curia fosse probabilmente affiancata da un portico. Si sono trovati persino i resti di una nicchia, che con molta probabilità ospitava la statua di Pompeo. Come vede, non c’è molto altro da dire».
La nicchia però è nella parte della Curia che oggi non è a cielo aperto, mentre Monterroso parla di un memoriale di cemento nell’Area sacra.
«Io mi fido dei testi antichi che parlano di assassinio di fronte alla statua di Pompeo. Se Monterroso non porta prove più convincenti, per me il caso è chiuso».
Lei crede dunque che non sia necessario indagare ancora?
«Merita sempre indagare e capire sempre meglio. Anzi, proprio ora che si sta per spostare il capolinea del tram, e sono in programma lavori ingenti nell’area, potrebbe essere il momento propizio per effettuare delle ricerche almeno nel terrapieno sotto il capolinea. Poi si potrebbe ricoprire il tutto e consentire ai turisti di visitare la curia entrando dall’Area sacra, in grotta. Sarebbe affascinante per tutti, e renderebbe giustizia a Cesare».
(c. d. m.)