venerdì 14 settembre 2012

l’Unità 14.9.12
Confronto Ingroia-Pellegrino stasera a Milano con «Unitalia»
L’incontro pubblico organizzato da l’Unità e Left
Appuntamento alla festa democratica di Sesto San Giovanni
Su unita.it, in streaming questa sera a partire dalle 21
di R.V.


Continua il viaggio di Unitalia che oggi arriva a Milano ospite della Festa democratica metropolitana al Carroponte di Sesto San Giovanni (appuntamento alle ore 21.30). Questa a volta, al centro del dibattito, il tema «Corruzione, legalità e diritti», argomento centrale nel dibattito politico e istituzionale di questi giorni.
Ne discuteranno Antonio Ingroia e Giovanni Pellegrino. A guidare il confronto il direttore de l’Unità Claudio Sardo e quello di Left Giommaria Monti, la rivista che ogni sabato trovate allegata al nostro quotidiano e con cui abbiamo stabilito, già da tempo, un percorso di idee e collaborazione in comune.
L’incontro sarà visibile sul nostro sito, unita.it, in streaming a partire dalle 21. Con questo dibattito continuano le iniziative di Unitalia, all’interno delle feste democratiche, che hanno già raccolto una forte partecipazione di pubblico. Il 31 agosto abbiamo trattato il tema del lavoro a Piombino con Stefano Fassina, Susanna Camusso e Vincenzo Boccia. A Pisa, lo scorso 6 settembre, abbiamo discusso di un tema scottante per migliaia e migliaia di giovani: «Come fermare il sapere in fuga». Con Sardo e Monti sono intervenuti Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e Paolo Valente, fisico, rappresentante nazionale ricercatori Infn.
Una fuga che si paga anche in termini economici, quella dei nostri migliori cervelli. E se il calcolo non è facile, il danno prodotto da questa emorragia negli ultimi 20 anni è stato stimato in 4 miliardi di euro, una cifra pari all’ultima finanziaria. Un argomento scottante in un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e dove le migliori forze, il futuro della nostra Italia, sono costrette a guardare, cercare altrove. Con una perdita di intelligenze che ormai non riguarda più soltanto i ricercatori, ma anche gli studenti.
Infine, l’8 settembre a Bologna, è stata la volta dell «Costo della politica», dibattito alla presenza di Antonio Misiani, deputato e tesoriere Pd e Mario Staderini, segretario Radicali italiani

l’Unità 14.9.12
Elezioni americane e razzismo su Left di domani


Il razzismo gioca ancora un ruolo determinante nelle elezioni americane. E’ il tema della copertina del numero di left in edicola domani con l’Unità. Alla vigilia della sfida tra Obama e Romney, negli Stati Uniti ci sono ancora bianchi che non si fidano di un leader nero e che voteranno repubblicano per sbarrare la strada a «quel musulmano di Obama». Succede tra i proletari dell’Alabama, Mississippi e Louisiana, dove i democratici non fanno nemmeno campagna elettorale, dando per scontata la sconfitta. Ma succede anche alla convention repubblicana, dove il fronte razzista si espande: contro i neri definiti «scioperati e nullafacenti» si scagliano anche gli asiatici, una comunità in crescita che sostiene sempre più le tesi dei Tea parties. Left racconta storie di razzismo in America con un reportage da Birmingham, Alabama, dove i più esaltati si dicono pronti a imbracciare le armi per impedire un secondo mandato a Obama. Mentre da Tampa, dove si è tenuta la convention repubblicana, gli attacchi ai neri arrivano persino da un pastore afroamericano. E il politologo della New York University Charlton McIlwain spiega: «Romney deve convincere a votare per lui gli indecisi, che sono soprattutto bianchi e maschi. Lo fa attaccando le riforme di Obama nel settore del welfare. E siccome afroamericani e latinos sono quelli che ricorrono di più all’assistenza sociale, sono loro i parassiti da colpire». Nel numero in edicola anche un’intervista al Ministro Balduzzi sulla riforma della Sanità e la Legge 40.

l’Unità 14.9.12
Bersani al sindaco rottamatore «Il Pd è alternativo alla destra»
«Sondaggio Swg: col segretario il 55% degli elettori
D’Alema: «Mi riconosco nel sentimento di più»
di Simone Collini


«Il Pd è alternativo alla destra». Dovrebbe essere un’osservazione scontata, ma evidentemente così non è se Matteo Renzi si è candidato a guidare il Paese strizzando l’occhio ai delusi dal centrodestra e da Berlusconi.
Ieri Pier Luigi Bersani è stato praticamente tutta la giornata chiuso al terzo piano della sede de Pd ad ascoltare le relazioni di un centinaio di economisti chiamati a raccolta da tutt’Italia (o collegati via Skype da Washington e altri paesi stranieri). Dieci ore a parlare della crisi e a definire i pilastri della proposta di politica economica con cui il Pd si candiderà a governare.
In estrema sintesi, il messaggio consegnato dagli economisti nell’incontro a porte chiuse è che bisognerà puntare su crescita e sviluppo e contribuire a cambiare rotta nell’area Euro per spezzare la spirale tra austerità, recessione e aumento del debito pubblico. Una discussione che ha fatto emergere, qualora ce ne fosse bisogno, il fallimento delle politiche neoliberiste e la necessità di mettere in campo un modello alternativo a quello perseguito dalla destra a livello nazionale e non solo.
Così, anche se ieri Bersani ha evitato qualunque commento circa la prima uscita di Renzi col camper («questo è il suo giorno») anche la discussione sulle politiche economiche è servita al leader Pd per ribadire quello che dovrebbe essere scontato e che invece per qualcuno scontato non è: «Noi siamo alternativi alla destra». Il punto insomma non è recuperare i delusi da Berlusconi, come se il problema fosse solo l’ex premier. E anche la scelta di Renzi far anticipare il suo discorso da un filmato in cui comparivano anche Margaret Thatcher e di Ronald Reagan ha fatto storcere la bocca. Il Pd, nel ragionamento di Bersani, si deve candidare a governare l’Italia proponendo un modello di sviluppo diverso da quello della destra, centrato su lavoro e diritti, redistribuzione sociale, riequilibrio fiscale, senza rincorrere ricette che hanno una responsabilità determinante nello scoppio della crisi attuale.
Le stesse iniziative che il leader del Pd ha messo in agenda per i prossimi giorni vanno in questa direzione. A cominciare dagli incontri per discutere della «carta d’intenti» con sindacati, imprenditori, amministratori locali e dalla stessa decisione presa ieri di dare un seguito all’appuntamento con i cento economisti con incontri tematici, e di dar vita a un network economico che accompagni la definizione delle proposte programmatiche per il 2013.
LE FIRME PER LE CANDIDATURE
Bersani insomma non si sposta dal registro seguito fin qui. Ovvero «le primarie servono a parlare del Paese, non del Pd», anche se tra poco bisognerà affrontare anche una questione tutta interna, cioè le regole per la sfida ai gazebo. Il 6 ottobre si svolgerà l’Assemblea nazionale che voterà la norma transitoria che potenzialmente permetterà a ogni iscritto al Pd di partecipare alla sfida per scegliere il candidato premier. Lo statuto del partito prevede infatti che possa correre soltanto il segretario, ma Bersani ha chiesto e ottenuto di far votare una deroga ad hoc. Le candidature, in casa democratica, fioccano, perché oltre al leader del partito e al sindaco di Firenze si sono fatti avanti Stefano Boeri e Laura Puppato (che ieri era a Roma a spiegare a Bersani il perché della sua candidatura), mentre ancora Rosy Bindi e Pippo Civati non hanno rinunciato all’idea di correre.
Candidature che difficilmente vedranno veramente la luce se all’Assemblea del 6 ottobre verranno approvate regole simili a quelle che valgono a livello territoriale. Lo statuto del Pd prevede infatti che per candidarsi a sindaco sia necessario raccogliere il 35% delle firme dei delegati dell’assemblea comunale o il 20% degli iscritti di quel territorio. Il che significa, se trasposto a livello nazionale, che gli aspiranti concorrenti alle primarie dovrebbero raccogliere 350 firme tra i membri dell’Assemblea nazionale o circa 120 mila firme tra i tesserati (gli iscritti al Pd sono attualmente più di 600 mila). Bisognerà vedere quanti riusciranno nell’impresa. E comunque, visto che ogni delegato all’Assemblea nazionale può sottoscrivere al massimo una candidatura, sarà difficile che il 25 novembre si sfidino ai gazebo più di tre esponenti del Pd.
SWG: IL SEGRETARIO TRA 55 E 61%
Come che sia, è evidente che la sfida sarà tra Bersani e Renzi. Un sondaggio Swg pubblicato ieri da Affaritaliani.it dà il segretario al 55% fra gli elettori del partito e addirittura il 61% fra quanti dichiarano un’alta probabilità di partecipare alle primarie. Il sindaco di Firenze si attesta, invece, rispettivamente, sul 27 e 26%. Più staccati Nichi Vendola (7% e 5%) e Bruno Tabacci (1% e 2%). Dice Massimo D’Alema arrivando a Firenze poco dopo che viene reso noto il sondaggio: «Questa è la tendenza, io mi riconosco nel sentimento dei più». E Dario Franceschini (che da un mesetto si è fatto crescere la barba) ironizzando sul fatto che Renzi gli ha copiato non solo lo slogan delle primarie del 2009, «Adesso», ma anche la mise camicia bianca e cravatta senza giacca: «Matteo, prossima tappa la barba?».

il Fatto 14.9.12
L’Altrapolitica può vincere
di Paolo Flores d’Arcais


I partiti del fronte unico conformista di Napolitano e Monti sono in grande ambascia, i sondaggi dei diversi istituti demoscopici annunciano unanimi che alle prossime elezioni il primo “partito” sarà quello che l’establishment esorcizza e insulta come “antipolitica”, ma in realtà è solo buona volontà di Altrapolitica in contrapposizione ai disastri della Casta. Le intenzioni di voto per Grillo e Di Pietro, sommate, superano infatti ormai quelle del Pd, da un anno vincitore “in pectore”, che con l’attuale legge elettorale si prenderebbe il 55% dei seggi alla Camera. In realtà i voti per l’Altrapolitica sono già molti di più, poiché nel conteggio non compaiono quelli di una eventuale lista di società civile legata alle lotte degli ultimi 15 anni e promossa dalla Fiom, voti che in buona misura stentano a convergere su M5S e Idv, ma che rifiutano ormai Sel, Pcd’I e altre Rifondazioni.
Nel paese il mood anti-Casta e il bisogno di Altrapolitica, benché non perfettamente coincidenti, sono del resto maggioranza schiacciante, visto che l’insieme dei partiti ha da mesi nei sondaggi il gradimento stabile di un miserando 5%. Per questo il fronte unico conformista di NapolitanoeMontivuoleatamburbattenteunalegge elettorale peggiore del Porcellum: per impedire che il prossimo Parlamento rispecchi questa travolgente volontà di svolta. Ma i marchingegni di leggi truffa non basteranno più. Il peso del “partito” dell’Altrapolitica alle urne non può che aumentare. L’esasperazione e la collera di decine di milioni di italiani contro tutte le nomenklature partitocratiche, è tale che ormai si esprimerà nel voto anche se Grillo e Di Pietro non si emendassero dai difetti macroscopici qui più volte segnalati. Ed è giusto così. La Casta tenta di correre ai ripari scimmiottando l’Altrapolitica, cercando di ricucirsi una verginità di società civile e di “nuovo” a forza di retorica e di “rottamazioni”. Ma che credibilità possono avere i Montezemolo e i Renzi, o i Passera e i Bonanni unti dal cardinal Bagnasco? La potenza di fuoco del monopolio mediatico sarà dispiegata oltre ogni indecenza, ma l’organicità di questi signori alla Casta, di cui vogliono semplicemente scalzare i vertici per prenderne il posto, è troppo smaccata perché l’equivoco possa durare. Il fronte unico conformista può vincere solo se l’Altrapolitica (dal M5S all’Idv, dai movimenti alla Fiom, dalle testate libere agli intellettuali pubblici) nei prossimi mesi peccherà ancora più “fortiter”, per atti e/o omissioni, piccinerie di bottega in primis.

Corriere 14.9.12
Pressing su Bersani: disinneschi le primarie
Tra i big del partito prevale il sarcasmo Ma i veltroniani: «Così ci sono troppi rischi»
di Monica Guerzoni


ROMA — Rinchiuso per ore ai piani alti del Nazareno con un centinaio di economisti, Pier Luigi Bersani ha scelto di non commentare la partenza del camper di Matteo Renzi. E anche ai suoi ha suggerito (non imposto) una sorta di consegna del silenzio. Ma a sera, dalla festa del Pd di Firenze, Massimo D'Alema prende il toro per le corna. Fa gli auguri a Renzi («uno dei nostri») e a Laura Puppato, fresca di autocandidatura alle primarie. Poi dice di aver letto un sondaggio in cui «il 55% degli eletti del Pd» voterebbe Bersani e solo il 22-23% Renzi. E lui, l'ex premier? «Io mi riconosco nel sentimento dei più».
All'una, quando il sindaco di Firenze chiude l'intervento, i cellulari dei capicorrente squillano a vuoto. Rosy Bindi sceglie il «no comment» e, a caldo, solo Dario Franceschini accetta di parlare di una diretta video che, «forse per snobismo», non ha seguito. Il capogruppo mostra sul palmare una foto che lo ritrae sul palco durante le primarie 2009, quella in cui a correre contro Bersani era lui e non Renzi: «Non siamo identici? Stessa camicia bianca, stesso taglio di capelli, stesso slogan...». A sera l'ironia di Franceschini, riapparso con folta barba alla fine dell'estate, approda su Twitter: «Matteo, prossima tappa la barba?». La rottamazione per Franceschini è un «tema sacrosanto, ma è da primarie di partito e non di coalizione». E Beppe Fioroni si dice «felice» per non essere stato rottamato: «Nel '68 avevo poco più di nove anni e Matteo mi ha graziato. Ma speriamo che non mi venga a prendere, come ha detto di voler fare con gli elettori del Pdl».
Il registro sarcastico intonato dai dirigenti, tra ironie e silenzi ostentati, rivela il fastidio e la preoccupazione per la corsa del primo cittadino, 37 anni e molto fiato nei polmoni. Il vicesegretario Enrico Letta, che pure nel merito condivide molte delle posizioni di Renzi, non ha apprezzato il passaggio sulla presunta «debolezza» del Pd nei giorni della caduta di Berlusconi: «La nascita del governo Monti è stato il segno della nostra forza».
Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione, rende a Renzi il merito di aver allestito un evento «ben fatto, senza nascondere le cose spigolose», ma sui contenuti ci va giù duro: «Dov'è la novità? La continuità con la terza via di Tony Blair è la proposta più antica. Con queste idee vintage, vecchie di vent'anni, Renzi mi fa meno paura di ieri. Sono le cose che diceva D'Alema negli anni 90...». E la patrimoniale? E la difesa dei più deboli dagli effetti del capitalismo?
Bersani «è tranquillo», assicurano i fedelissimi. Per tutto il giorno si è concentrato sulla stesura di un programma di «europeismo progressista», che Stefano Fassina sintetizza con il leitmotiv «cambiare rotta nell'area euro per lo sviluppo, il lavoro e la riduzione del debito». Ma le primarie nascondono insidie e Bersani lo sa. Il pressing su di lui perché le depotenzi è forte e il 6 ottobre il segretario ha convocato l'assemblea nazionale, per discutere di regole e della Carta d'intenti. Tra i veltroniani il giudizio negativo è diffuso. «Fatte così — teme Walter Verini — le primarie sono molto rischiose. Vedo uno sferragliar di truppe che non promette nulla di buono». Veltroni non ha dimenticato come la road map promessa da Bersani fosse diversa: legge elettorale, programma, coalizione, regole e, solo alla fine, primarie. E di certo non gli è sfuggito quel «non siete la meglio gioventù» che Renzi ha scagliato contro la generazione del '68. Chi era nello staff del Lingotto di Veltroni, racconta di provare uno sgradevole senso di «sovrapposizione» con la scenografia e le parole d'ordine di allora. Quando a invocare gli Stati Uniti d'Europa o a declamare «noi non siamo contro la ricchezza, ma contro la povertà», non era Renzi, ma l'ex sindaco di Roma.

Repubblica 14.9.12
Ma tra i democratici ora sono in diversi a pensare di “correre” per “pesarsi”.
La tentazione della Bindi, le paure degli ex Ppi
Il segretario: quel discorso è un autogol


ROMA — Il discorso di Renzi Pier Luigi Bersani lo guarda alla tv tra una riunione e l’altra. Sceglie di non commentare, di non invadere la giornata del suo principale rivale. Quel che trapela, però, è che il segretario considera l’appello del sindaco al centrodestra un autogol. Un’affermazione che servirà a ricompattare il centrosinistra attorno a lui. Che lo rafforza, piuttosto che indebolirlo. Il sondaggio di Swg - con Bersani al 55 e Renzi al 27 per cento - è un altro dato positivo. Anche se, tutte le altre rilevazioni che i democratici hanno fra le mani parlano di un rottamatore indietro di 10-11 punti, ma in crescita, con il segretario che non va mai oltre il 43 per cento. Quel che preoccupa, ora, è la tenuta del partito. La candidatura di Laura Puppato può aprire un valzer inaspettato. Gli ex popolari, ad esempio, non si sentono rappresentati, e potrebbero decidere di candidare qualcuno per pesarsi, e pesare, di più. Dario Franceschini nega: «Non si torna indietro. Ho scelto la strada del rimescolamento e da lì non mi muovo». Ma Beppe Fioroni, che prepara per domani un significativo incontro con il presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai, il segretario Cisl Raffaele Bonanni, il presidente delle Acli Andrea Olivero - dice invece: «Il problema non è solo se candidarsi o meno alle primarie. Il problema è se restare. Avevamo promesso agli elettori di non rifare l’Unione, che non è un’alleanza, è una metodologia di governo. E invece». Poi c’è Rosy Bindi, la più tentata a correre. Ha subìto troppi attacchi, sia sul fronte laicità che su quello anagrafico, e non si è sentita per niente difesa da Bersani. Anche il 7 o l’8 per cento - con primarie che, con più candidati, arriveranno senz’altro al doppio turno - potrebbero garantirle una rivincita contro giovani turchi e rottamatori.
(a.cuz.)

Repubblica 14.9.12
Il pressing di Napolitano: legge elettorale da cambiare
E Bersani riapre la trattativa: “Ma non si modifica per peggiorarla”
di Giovanna Casadio


ROMA —Torna alla carica Napolitano. L’ultimo pressing del capo dello Stato per cambiare la legge elettorale - e restituire ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere rappresentati in Parlamento - arriva ieri in un colloquio riservato con Bersani. Poche parole chiare, quelle che il presidente ripete da mesi, e cioè che il Porcellum è una vergogna; che nessuno si senta esonerato dalla responsabilità di cambiarlo.
Non hanno apprezzato al Quirinale lo scontro degli ultimi giorni tra i partiti, che ha fatto piombare di nuovo la riforma elettorale nella palude. Meno ancora è piaciuto l’irrigidimento delle posizioni: Casini, che non esclude un blitz con il Pdl; Bersani, che dice di non accettare «ricatti ». Se non ci fosse una schiarita, il presidente della Repubblica sarebbe pronto a inviare un messaggio. Nessun leader pensi di nascondersi dietro ragioni o, peggio, convenienze di parte: è il
ragionamento del Colle. Un compromesso, una mediazione quindi va trovata a tutti i costi. Il colloquio con Bersani precede l’incontro di Napolitano con Schifani, che poi dichiara: «Questo nodo deve essere sciolto pubblicamente e in tempi brevi». Ma Napolitano insiste con il segretario del Pd.
Bersani ha ribadito, in questi giorni: «Noi stiamo lavorando per cambiare il Porcellum, ma non si può cambiarlo a tutti i costi ». Insomma, il leader democratico ha avuto la tentazione di tenersi la legge attuale, piuttosto che cedere su una questione che, a questo punto, diventa politicamente dirimente: il premio di maggioranza. Sulle preferenze infatti il Pd può anche trattare: lo hanno detto Enrico Letta e Rosy Bindi, lo ribadisce Anna Finocchiaro.
Una trattativa si fa cedendo una cosa importante per non rinunciare a un’altra, che si ritiene ancora più indispensabile. E sul principio che «la sera delle elezioni il paese deve sapere chi governa», il leader democratico non è disposto a transigere. Anche perché qui si gioca la partita politica vera e propria. Un modello proporzionale con un premio al partito (non più alla coalizione), e per giunta basso, significa assegnare un sicuro vantaggio a chi rema per un Monti bis. Piace anche a Berlusconi che, se sconfitto, può sempre pensare di rientrare in gioco. Il Pd finora ha puntato su un premio ampio, almeno del 15%.
Solo del resto, in un sistema che mantiene il bipolarismo, le primarie del Pd hanno un senso. Se il premier lo si decidesse post
voto, anche in caso di vittoria nella competizione per la premiership del centrosinistra Bersani avrebbe assai poche possibilità di guidare il futuro governo. Ne ha parlato con Prodi, il segretario, nell’incontro a Bologna. Il Professore è un bipolarista convinto: per gli stessi prodiani (che danno sempre un occhio all’elezione
in primavera del prossimo presidente della Repubblica) sarebbe meglio giocare con queste bocce, con la legge elettorale attuale, piuttosto che passare dalla padella alla brace. E se il problema è risalire la china della sfiducia dei cittadini nei confronti di un Parlamento di nominati, allora si può pensare piuttosto a «primarie per scegliere i parlamentari» del Pd, tenendosi il Porcellum. Però nell’incontro al Colle, Bersani ha garantito che la trattativa per cancellare il Porcellum non sarà abbandonata.
La linea della segreteria e dei bersaniani la riassume Maurizio Migliavacca: «L’attuale legge porcata non va bene. Ma tra tenersi questa e andare verso una super porcata c’è di mezzo il buonsenso». Rimanda la palla nell’altra metà campo, nel centrodestra:
«Noi abbiamo presentato la nostra proposta, si dibatta pubblicamente, senza colpi di mano. Se c’è la garanzia per la stabilità del paese ne discuteremo, altrimenti sarà scontro». I montiani del Pd premono nell’altra direzione: cambiare a tutti i costi la legge porcata. Stefano Ceccanti, uno dei supporter dell’Agenda Monti (per la continuità tra le politiche dell’attuale governo e di quello che sarà eletto), avverte: «Non si può neppure pensare che gli altri partiti accettino una posizione che li penalizzerebbe. E comunque, se ci fosse la tentazione di tenersi il Porcellum, sarebbero l’Udc e il Pdl a coalizzarsi per giocare all’attacco e portare a casa quello che vogliono».
Alfano torna con un altolà sul premio di maggioranza: «Vorremmo che chi vince abbia un premio, ma che sia ragionevole». Stando ai sondaggi che danno il primo partito tra il 26 e il 27%, un premio del 15% «è troppo». Perciò preferenze e premio di governabilità basso sono i “paletti” del Pdl. La preoccupazione di Casini, che tifa per un Monti bis e per il proporzionale, è che «qualcuno alzi l’asticella per tenersi il Porcellum». Concretamente. Martedì la conferenza dei capigruppo fisserà quando la riforma va in aula a Palazzo Madama. Siamo davvero allo showdown.

Repubblica 14.9.12
Il bersaniano Fassina: “In bocca al lupo, ma non convince”
“Sotto gli slogan niente idee e la smetta di sparare sul Pd”


«Vengo da una settimana di incontri, anche difficili, con i lavoratori di Alcoa e Carbosulcis, con i precari dei call center in bilico, con i piccoli imprenditori assediati in Val di Susa. Nessuno mi ha chiesto quanti dirigenti del Pd rottamiamo. Mi hanno chiesto cosa facciamo per il loro lavoro e le loro imprese». Stefano Fassina risponde così al lancio della candidatura di Matteo Renzi. Ne apprezza l’energia, gli augura innanzi tutto «in bocca a lupo», ma il bersaniano responsabile economico del Pd pensa che i bersagli del sindaco di Firenze siano sbagliati. Che manchi un’analisi adeguata della crisi. Che vincere sia uno strumento, non il fine.
«Ho visto tanti slogan, effetti speciali, fuochi d’artificio. Poche idee. Veniamo da una stagione lunga e piuttosto infelice di slogan ed effetti speciali».
Entrare col diserbante dentro la pubblica amministrazione, abbassare le tasse, far sì che questo non sia più il Paese dei capi di gabinetto, non sono idee condivisibili?
«Sì, ma sono punti acquisiti da tempo nel nostro programma. Mi colpisce invece che non ci siano state indicazioni di prospettiva rispetto all’Europa. Dobbiamo continuare su una rotta che fa morire migliaia di imprese, determina centinaia di migliaia di disoccupati, aumenta il debito pubblico? O dobbiamo cambiarla attraverso l’unione fiscale, l’allentamento concordato dell’austerità autodistruttiva?».
Le lenzuolate di Bersani avevano come obiettivo fondamentale la valorizzazione del merito e dei talenti. Da uno che disse “Sto con Marchionne senza se e senza ma”, ci si aspetterebbe qualche parola sui diritti dei lavoratori, soprattutto nel giorno in cui il suo eroe accantona il mitico programma Fabbrica Italia».
E però, quando attacca i dinosauri del partito, giù applausi.
«Per un candidato progressista il bersaglio principale non dovrebbe essere il proprio partito. Dovrebbe misurarsi con la destra, con i danni che la destra berlusconiana ha fatto all’Italia. Renzi è stato ingeneroso sulla nascita del governo Monti. Abbiamo il merito storico di aver contribuito a chiudere una stagione che portava il Paese alla deriva. Se fossimo anche noi andati ad Arcore, probabilmente Berlusconi
Per vincere bisogna pescare nel centrodestra, oppure no?
«Bisogna stare attenti, che per raccogliere i voti del centrodestra non si finisca nell’altro campo. La priorità è oggi riportare a votare in modo convinto i nostri, raccogliere le domande di cambiamento che arrivano dal vasto mondo del centrosinistra».
Se fossimo andati ad Arcore come lui, probabilmente Berlusconi sarebbe ancora a palazzo Chigi

Corriere 14.9.12
I 740 mila euro per i manifesti del Pd Le follie del Lazio
di Sergio Rizzo


ROMA — La targa sopra il portone dice: «Carlo Goldoni, padre immortale della italiana commedia, dimorò in questa casa». Se avesse saputo cosa sarebbe accaduto fra quelle mura due secoli e mezzo dopo, il celebre drammaturgo veneziano vi avrebbe magari ambientato un atto unico. Protagonista: il solito Pantalone. Perché chi paga la ristrutturazione di un appartamento signorile della Regione Lazio nello stabile di largo Goldoni 47 all'angolo con via dei Condotti, a Roma, è sempre lui. Cioè noi. I condomini, dopo aver sventato il tentativo di piazzare tappeto rosso e palmizi stile Sanremo all'ingresso dopo l'avvenuta trasformazione in elegante «ufficio del centro» dell'ex ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo di un secondo alloggio regionale nel palazzo, paventano che i lavori siano il preludio per l'apertura di un'altra sede di rappresentanza ancora. Stavolta, della governatrice Renata Polverini.
Fosse così, saremmo davvero alla commedia. Non soltanto perché quell'appartamento proviene da un antico lascito per opere di bene al Santo Spirito. Soprattutto perché a poca distanza, in via Poli, c'era già un ufficio «di rappresentanza» del consiglio regionale. Era stato affittato da Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato, al tempo della giunta di Francesco Storace e due anni fa si era deciso di rescindere il contratto: 320 mila euro l'anno. Una spesa demenziale, visto che il consiglio regionale del Lazio, come del resto la giunta, ha una più che confortevole sede a Roma. Chiudere quell'ufficio era il minimo. Peccato soltanto, lamenta Scarpellini nella causa civile intentata contro la decisione, che la rescissione sia avvenuta oltre i termini. E se il tribunale dovesse accogliere la tesi sarebbero dolori: 700 mila euro. Più la parcella del legale. Un avvocato esterno, ovvio.
Ma ce ne fossero di rogne così, con l'aria che tira oggi dalle parti della Pisana. La storia incredibile dei finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari innescata dai Radicali con la meritoria pubblicazione sul loro sito internet del bilancio 2011, è ormai una palla sempre più grossa che rotola a valle. Inarrestabile e minacciosa, come dimostra l'inchiesta per peculato che si è abbattuta sull'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito. Ma non servivano certo le cravatte di Marinella, le cene a base di ostriche, le bottiglie di champagne, i servizi fotografici, i Suv, né le altre spese sfrontate che hanno inghiottito i lauti contributi al partito di Silvio Berlusconi e sulle quali ora indaga la magistratura, per capire che si era passato il segno. E non era nemmeno necessario guardare, come molti fanno oggi con ipocrita stupore, quella cifra rivelata dai radicali, il cui gruppo composto da due persone, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha incassato nel solo 2011 ben 422 mila euro. Il quadruplo, in proporzione, dei soldi che la Camera dei deputati stanzia per i gruppi parlamentari.
Era sufficiente, diciamo la verità, controllare i bonifici che arrivavano di volta in volta sul conto corrente. Per questo fanno sorridere oggi tanto il decalogo sui tagli dei costi della politica proposto dal consigliere udc Rodolfo Gigli quanto dichiarazioni come quelle del capogruppo del Pd Esterino Montino, che annuncia un tour de force per «ridurre le spese della giunta e del consiglio». Mentre alcune misure che avrebbero introdotto l'unico antidoto valido alla dissipazione di denaro pubblico, vale a dire la trasparenza, sono finite su un binario morto. È il caso della legge sull'anagrafe degli eletti e dei nominati, proposta sempre dai Radicali nel 2010 e arenata in qualche cassetto di qualche commissione.
Ai gruppi finiscono cifre inimmaginabili. Tanti soldi che non si sa nemmeno come spenderli. Basta dare un'occhiata ai due bilanci dei gruppi finora resi noti: oltre a quello dei Radicali, quello del Partito democratico. Il gruppo del Pd ha incassato nel 2011 la bellezza di 2 milioni 17.946 euro. Che divisi per i 14 componenti fa oltre 144 mila euro pro capite: quasi il triplo dei contribuiti erogati da Montecitorio. Inutile allora stupirsi che i democratici spendano 210.207 euro (!) per «riunioni, convegni, conferenze, incontri», 622.083 euro (!!) per i collaboratori e 738.863 euro (!!!) per «diffusione attività del gruppo, stampa manifesti». E nonostante questo ci sono ancora in cassa 304 mila euro. Invece ai Radicali, che con i contributi al gruppo ci hanno pagato anche un convegno sui diritti civili a Tirana oltre ai congressi del partito a Chianciano e a Roma, sono avanzati 270 mila euro. Così da pensare che si possa ripetere la scena del ferragosto 1997, quando Marco Pannella in piazza del Campidoglio restituì i denari del finanziamento pubblico regalando 50 mila lire a chi mostrava un documento.
Tanti soldi, che contribuiscono ad alimentare una macchina completamente impazzita. Basta dire che nessuno sa dire con esattezza quanta gente gira intorno al consiglio regionale. Lo scorso anno i dipendenti ufficialmente presenti in quella struttura erano 786. I collaboratori dei gruppi, 180. Le persone addette alle segreterie dell'ufficio di presidenza, 87. Quelle delle segreterie delle commissioni, 71. Ma è niente in confronto alle poltrone che danno diritto a chi le occupa di incassare un'indennità aggiuntiva rispetto a una retribuzione base minima di 7.211 euro netti al mese. Sono un'ottantina, decisamente più numerose dei 70 consiglieri. Ci sono 17 gruppi consiliari, otto dei quali composti da una sola persona. Fra commissioni e giunte se ne contano 21. Le sole commissioni permanenti sono sedici: due più della Camera, che ha però 630 deputati. Alcune, a dir poco stravaganti. C'è per esempio la commissione Affari comunitari e internazionali, presieduta da Gilberto Casciani della Lista Polverini: nel 2012 si è riunita quattro volte. E poi la commissione Piccola impresa che fa il paio con la commissione Sviluppo economico. Oppure la commissione Lavori pubblici, più la commissione Urbanistica, più la commissione Ambiente. Quest'ultima, però, si occupa pure, chissà in base a quale criterio, della «cooperazione tra i popoli». Avete letto bene: «cooperazione tra i popoli».
Non rammentiamo più quante volte hanno promesso che le avrebbero ridotte. Ricordiamo invece bene le affermazioni rese dal presidente del consiglio Mario Abbruzzese il 22 dicembre 2011: «Quest'anno chiudiamo il bilancio con circa sei milioni di risparmi rispetto al 2010. Dà il senso della strada che abbiamo intrapreso». Il consuntivo dell'anno scorso, ancora non approvato, parla di impegni di spesa per 103 milioni 529.311 euro. Mezzo milione oltre le previsioni iniziali e ben sei milioni 772.701 euro in più nei confronti del 2010. L'aumento è del 7 per cento. Se questa è la strada...

Corriere 14.9.12
Immigrati senza rappresentanza: quel deficit politico da superare
di Stefano Jesurum


Un futuro segretario del Partito socialista al potere, un presidente che siede alla Casa Bianca, e un formidabile attaccante della Nazionale di calcio. Francia, Stati Uniti, Italia. Le differenze (di modernità, di civiltà, di cultura) si misurano anche così, mettendo in fila i nomi di Harlem Désir, Barack Obama e Mario Balotelli. Di Obama e Balotelli sappiamo ciò che ci basta, del 52enne Désir è sufficiente dire che ha un padre originario della Martinica, una madre alsaziana, che è eurodeputato e che è stato presidente di Sos Racisme.
Il risultato del confronto è presto detto: manca ancora davvero parecchio prima che gli stranieri e soprattutto i figli di stranieri entrino a pieno titolo nell'immaginario della politica italiana, senza eccezione di schieramenti. Insomma, non esiste alcuna cultura della rappresentanza che tenga conto del multiculturalismo. La stragrande maggioranza dei «nostri» immigrati non vota anche se, per esempio, è proprio da quel mondo che arrivano migliaia di titolari di nuove aziende. È vero che negli anni qualche nome esotico è stato infilato qua e là nelle liste di quasi tutti i partiti, è vero che qualcuno è perfino stato eletto (salvo poi, come l'ex Pd Khaled Fouad Allam, non essere ricandidato tra mille polemiche), però la realtà è che da noi — diciamolo — l'idea di affrontare il tema dell'integrazione e dell'immigrazione, in particolare quella islamica, è considerata dai politici un grave atto di autolesionismo elettorale dal momento che «la gente» è o viene considerata provinciale e un pochino razzista. Il che, a studiare analisi e sondaggi, magari un po' vero lo è. Alcuni volonterosi, in qualche amministrazione locale, si sono inventati i «consiglieri aggiunti immigrati», ovviamente senza diritto di voto. E il nodo è proprio questo: finché gli «extracomunitari» non possono votare come si pensa possano essere «candidati» ad alcunché?
Altro che rappresentanza. Secondo i dati Istat, nel 2009 in Italia si sono celebrati circa 32 mila matrimoni con almeno uno straniero, il 14% del totale. Quelle spose e quegli sposi, almeno, alle urne ci potranno andare. Bella consolazione.

Repubblica 14.9.12
Stasera su RaiUno si parla di pedofilia in famiglia
Conduce Cecilia Dazzi: “Sono le storie di chi ha affrontato l’uomo nero”
“La vita contro”, piccole vittime si raccontano
di Alessandra Vitali


ROMA «Mio padre aveva rapporti sessuali con me e con mia sorella. Poi lasciava una monetina sul comodino». Andrea Coffari era bambino nel 1969, in Sicilia. Di quell’esperienza mai cancellata ha fatto una missione: «Difendere i ragazzini dall’indifferenza e dall’egoismo degli adulti». Maria Halilovic ha 29 anni. Figlia di genitori bosniaci, nata a Torino, tredici tra fratelli e sorelle, la vita in un campo rom, un padre alcolista che «picchiava tutta la famiglia e violentava noi ragazzine». Andrea e Maria si raccontano a La vita contro, la docufiction che debutta questa sera su RaiUno, in seconda serata, condotta da Cecilia Dazzi. Un progetto coraggioso per l’ammiraglia Rai, quello di affrontare un tema di forte impatto emotivo: la pedofilia in famiglia, con le testimonianze delle vittime che hanno lottato per risanare la ferita. Racconti senza filtro, lucidi. Dettagli che restituiscono la portata del dramma. Interviste alternate alla fiction che ricostruisce le vicende. Una produzione Vela-Film, la regia è di Tommaso Agnese, l’autrice è Carlotta Ercolino.
«Il filo conduttore è il coraggio di vivere — spiega Cecilia Dazzi — persone normali che hanno affrontato l’uomo nero e sono diventate uomini e donne liberi e più forti».
Andrea deve molto a sua madre. «Ha avuto il coraggio di denunciare mio padre, si è messa contro un tabù millenario. Ne è uscita con le ossa rotte. Si rifugiò dalle suore di clausura, non a pregare ma a litigare con Dio». «Una madre — dice Cecilia Dazzi — lo sente che dietro ai silenzi dei suoi figli c’è un’ombra. A volte il male dorme al tuo fianco».
La prima volta Maria aveva tre anni. La fuga a otto anni, l’incontro con un poliziotto, la denuncia, «ma nessuno è mai intervenuto». Il collegio a Napoli, la casa famiglia alle porte di Roma, gestita da suore. Lì Maria frequenta la scuola fino alla terza media. Un giorno ci riprova: «Ho saputo dove vivevano i miei, ci sono andata, mia madre mi ha cacciata, ha detto che non mi volevano più. Li ho cancellati. Spero che mio padre muoia, e con dolore». Dice che l’ha aiutata Il piccolo principe: «Le suore, per punizione, me lo fecero copiare tutto. Ricordo una frase, “i grandi non capiscono mai niente da soli, e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta”. Mi ha insegnato tanto».

l’Unità 14.9.12
Troppi nomi per un regista I misteri del video-trash
La prima volta di Morsi in Europa «Il Profeta è una linea rossa»
di Marina Mastroluca


Il generale Dempsey ha provato a convincere il reverendo Terry Jones che non è il caso di insistere. E che continuare a far circolare il film in cui Maometto è un donnaiolo, truffatore e anche pedofilo non rientra nell’interesse nazionale. Il pastore anti-islamico della Florida, divenuto celebre per i suoi ripetuti roghi del Corano, si è preso del tempo per pensarci, in nome della libertà di parola. Jones in queste ore era stato indicato come co-produttore del film che sta infiammando l’islam. Lui si ritaglia una parte minore in commedia, sarebbe stato contattato solo qualche giorno fa e martedì scorso, l’11 settembre, avrebbe postato il trailer di «Innocence of muslims». Regista, produttore e sceneggiatore sarebbe un Sam Bacile, che si è lasciato intervistare dal Wall Street Journal al telefono, ma che richiamato al numero è risultato inesistente: ha risposto un giovane, da poco insediato nell’appartamento, dove precedentemente viveva un tal Nakoula Basseley. Sam Basseley e Nakoula sono anche i nomi usati per il casting del film (60 attori, tre mesi di riprese, costo 5 milioni di dollari).
Negli Usa non risulta nessuna persona con il nome di Sam Bacile, mentre un Nakoula sembra sia stato in carcere fino al giugno del 2011 per truffa. Singolarmente, per i suoi affari, il tipo in questione usava nomi come Mark Basseley Youssef e Youssef Basseley.
Sam Bacile (un cognome che suona nella pronuncia americana assai simile a Basseley) ha tutta l’aria di uno pseudonimo. Più difficile dire chi nasconda. Un piccolo truffatore, un Nakoula che la stampa Usa indica come cristiano copto di origini egiziane? Non è chiaro che ruolo abbia avuto, se sia solo una facciata. Dietro in ogni caso, stando ai giornali del Cairo, sembra che ci siano almeno i soldi di Morris Sadek, americano di origine egiziane, anche lui copto, notoriamente anti-islamico. Al Wall Street Journal, Nakoula-Sam si era descritto invece come un ebreo israeliano, di professione promotore immobiliare, che si era prestato per fare un film «politico» grazie ai finanziamenti ottenuti ha detto da un centinaio di donatori «ebrei».
Sam o Nakoula che sia, al momento preferisce far perdere le proprie tracce per ragioni di sicurezza. Preoccupati anche gli attori, che hanno detto di aver recitato un’altra storia, dal titolo «Desert warriors». Maometto non figurava tra i personaggi. Il protagonista era un certo dr Matthews, leader di un gruppo di guerrieri. «Siamo scioccati», dicono gli attori. Le loro voci sono state doppiate. E adesso hanno paura.

Repubblica 14.9.12
Hillary: “Ripugnante quel film su Maometto”
Il regista avrebbe ingannato la troupe e gli attori. Giallo sui suoi finanziatori
di Angelo Aquaro


NEW YORK — Il regista anti-Islam che diceva di essere l’ebreo Sam Bacile in realtà è un cristiano di tradizione copta, Nakoula Basseley Nakoula, 55 anni, che adesso si nasconde con moglie e tre figli nella casetta a due piani di Cerritos, Los Angeles, vigilata giorno e notte da sei auto della polizia nel timore della vendetta dei fanatici musulmani, la porta protetta da una statua di mezzo metro della Vergine col Bambino.
È il suo film «ripugnante e riprovevole » ad aver provocato le proteste e le violenze in tutto il mondo arabo: lo dice Hillary Clinton nel disperato tentativo di placare la rabbia che ha ucciso a Bengasi e forse anche a Sana’a e che da tre giorni assedia l’ambasciata americana al Cairo. Il Medio Oriente brucia e invitando alla calma i paesi arabi il segretario di Stato ripetere quelle “scuse” che Mitt Romney rimprovera all’amministrazione. «Gli Stati Uniti non hanno nulla a che fare col video» dice Hillary. Ma è difficile far capire al resto del mondo — aggiunge — che non l’avremmo bloccato anche se avessimo potuto: noi non impediamo l’espressione delle opinioni «per quanto ripugnanti».
Quelle idee ripugnanti, il cristiano Nakoula le ha condensate in “L’Innocenza dei Musulmani”, il film prodotto con il figlio, Abanob Basseley, 21 anni, e girato in 12 giorni in una chiesa di Los Angeles proiettando sui teloni lo sfondo del Medio Oriente. Aveva reclutato la troupe per un film che, diceva, doveva chiamarsi “Il Guerriero del Deserto”. «Ci hanno ingannati e adesso ho paura» piange con la Cnn una delle attrici, Cindy Lee Garcia, che turbata dai morti e dalle proteste teme per le ritorsioni e mostra sconsolata la sceneggiatura nel quale il personaggio che nel doppiaggio sarebbe diventato Maometto era indicato con l’insospettabile nome di George.
Nakoula alias Bacile ha alle spalle una lunga storia di truffe finanziarie, è finito nei guai anche per contraffazione di medicinali e oltre al rimborso di 790mila dollari è stato condannato a 21 mesi di prigione a Lompoc, dove ha concepito e scritto il film per denunciare “il cancro dell’Islam”. Con quali soldi? Invece dei 5 milioni di finanziamento di “sostenitori ebraici” — come fin qui aveva sbandierato — il film sarebbe costato tra i 50 e 60 mila dollari: che l’improvvido regista ora dice di essersi procurato grazie alla famiglia egiziana della moglie.
Il suo socio sarebbe Steve Klein, un agente assicurativo di Hemet, California, autoproclamatosi “consulente del film”, che vanta di essersi “insanguinato le mani” in Vietnam durante la guerra ma oggi è noto alla polizia per la frequentazione di gruppi estremisti cristiani e anti-islamici come i Christian Guardians e i Courageous Christians United. È lui che avrebbe appunto consigliato a Nakoula di arruolare Terry Jones: chi meglio del reverendo del rogo del Corano per incendiare ancora il mondo arabo?

Sette del Corsera 14.9.12
Israele «Non siamo mai stati così pronti»
Bomba o non bomba soffiano venti di guerra
di Francesco Battistini

qui
Repubblica 14.9.12
Il tempo lungo delle primavere
di Bernado Valli


ASTRA (SIRIA) ERO in una valle della Siria del Nord, chiamata Astra, frequentata da contrabbandieri e da ribelli, e trascurata dalle carte geografiche. È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale», uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.
Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ». Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati. Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere, non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano. Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi. L’interrogativo li ha lasciati perplessi.
Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra, ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti. Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così, a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia, non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il sangue a Bengasi e ad Aleppo.
Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo. Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.
Insomma l’impegno iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini. E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.
A poche settimane dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le condoglianze di un alleato.

Repubblica 14.9.12
“Via chi ha difeso la strage di Breivik” Gallimard punisce l’editor xenofobo
Parigi, la casa editrice lo ha allontanato dal vertice
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Richard Millet abbandona il comitato di lettura di Gallimard, continuerà a seguire come editor i suoi autori, ma è invitato a defilarsi, a tenersi a distanza. Non è stato licenziato, la soluzione trovata sembra un compromesso tra l’autore dell’elogio di Anders Breivik e Antoine Gallimard. Quest’ultimo, dopo le proteste di decine e decine di scrittori, fra cui il Nobel J. M. G. Le Clézio, non poteva far altro che abbandonare al proprio destino il sostenitore di tesi razziste. Ha solo cercato di evitare lo scontro diretto e magari un conflitto legale: l’editor non è stato cacciato, ma è stato costretto ad allontanarsi «volontariamente ». Lunedì scorso, il colloquio tra Millet e Antoine Gallimard, a quel che si dice, era stato tempestoso. E l’autodifesa pubblicata da Millet su L’Express — che conteneva ancora bordate contro la minaccia alla cultura europea, incarnata, secondo lui, dall’immigrazione extracomunitaria — non ha fatto altro che aggravare la sua posizione.
Tutto era cominciato a fine agosto con la pubblicazione di un “Elogio letterario di Anders Breivik” dall’editore Pierre — Guillaume de Roux. Appena arrivano le prime anticipazioni, le tesi di Millet suscitano una valanga di proteste, anche perché l’autore è stato l’editor di Jonathan Littel e di Alexis Jenni, vincitori del Goncourt nel 2006 e 2011. Ma se Millet ha fiuto letterario, le sue posizioni politiche sono vicine alle tesi dell’estrema destra: «Breivik è senza dubbio quel che meritava la Norvegia. È figlio della rovina familiare come della frattura ideologico-razziale che l’immigrazione extracomunitaria ha introdotto in Europa da una ventina d’anni». La decadenza del Vecchio Continente, in particolare quella culturale, sostiene Millet, sarebbe insomma dovuta all’immigrazione e al trionfo del multiculturalismo. Poteva restare il libro di uno scrittore che flirta con le idee di un Jean-Marie Le Pen, ma Millet non è un personaggio qualunque, è membro del comitato di lettura di Gallimard, cioè della più blasonata casa editrice francese. Non è in discussione la libertà di espressione, gli ha scritto Antoine Gallimard, ma il suo nome coinvolge inevitabilmente anche le edizioni per cui lavora: «Appartenere alla casa implica una forma di solidarietà, un membro del comitato di lettura la rappresenta. Non posso approvare nessuna delle sue tesi politiche. Questa non è la mia posizione personale, ma è da sempre quella della casa editrice».
La coabitazione, insomma, non era più possibile. Invitandolo ad abbandonare «volontariamente » il comitato di lettura, Antoine Gallimard dovrebbe aver messo fine alle polemiche che agitavano la sua azienda e scongiurato il rischio di vedere qualche autore di primissimo piano sbattere la porta. Certo, Millet continuerà a seguire i “suoi” autori, ma è evidente che il passo di ieri è una rottura. Del resto, l’editor non ha intenzione di rimangiarsi le sue tesi. Continuerà a sostenerle e a considerarsi anche lui, come la letteratura europea, una vittima del multiculturalismo: «Perché mi uccidete?» era il titolo della sua autodifesa uscita appena due giorni fa su L’Express.

Corriere 14.9.12
Il mistero di Alessandro Magno: un santo o il re del male?
La sua leggenda, ponte tra Occidente e Oriente
di Pietro Citati


Alcuni grandi libri di storia furono dedicati alla figura di Alessandro. Ricordo in special modo la soave e delicata Vita di Plutarco (Bur, a cura di Domenico Magnino), le grandiosamente romanzesche Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo (Fondazione Lorenzo Valla, a cura di John E. Atkinson e Tristano Gargiulo), la precisa eleganza dell'Anabasi di Alessandro di Arriano (Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, a cura di Francesco Sisti e Andrea Zambrini). Sono tutte opere scritte tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, che si propongono, in modi diversi, e secondo tradizioni diverse, di rappresentare le vere vicende storiche di Alessandro.
I testi di Plutarco, di Curzio Rufo e di Arriano non sono le prime opere su Alessandro. Tre o quattro secoli prima, autori di cui non conosciamo il nome scrissero una serie di storie fantastiche intorno a lui. La cosa straordinaria è appunto questa: mentre i libri scritti nel I e nel II secolo dopo Cristo cercano di possedere un carattere storico, i testi composti, o iniziati, pochi decenni dopo la morte di Alessandro, in un'epoca prossima alla sua esistenza, sono liberamente fantastici, chimerici, inverosimili: segno che il fantastico faceva parte della natura stessa di Alessandro, e dell'alone che lo avvolgeva.
Si tratta del cosiddetto Romanzo di Alessandro, di cui Richard Stoneman e Tristano Gargiulo hanno curato una scelta eccellente (il primo volume è uscito nel 2007; il secondo arriva in libreria il 18 settembre; un terzo seguirà; Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori). I due curatori hanno pubblicato tre redazioni greche e una latina, che costituiscono una parte delle molte versioni, scritte in siriaco, in armeno, in etiopico, in malese, in islandese, e numerose altre lingue. Questi testi hanno avuto, nel Medioevo, un'immensa fortuna: l'immagine di Alessandro, e le sue molteplici interpretazioni, hanno toccato talmente i cuori e le fantasie, che soltanto i Vangeli hanno conosciuto un numero maggiore di lettori. Alle edizioni del Romanzo di Alessandro vanno aggiunti i rifacimenti e le variazioni, che anch'essi hanno percorso l'Occidente e il mondo mediorientale. Una vasta scelta di questi testo occidentali è compresa in Alessandro nel Medioevo occidentale, con introduzione di Peter Dronke e cura di Mariantonia Liborio (Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori).
Nei libri storici, sia Plutarco, sia Curzio Rufo sia Arriano, il carattere di Alessandro è segnato dal desiderio dell'insaziabile: egli vuole conquistare il mondo, andare oltre i limiti, raggiungere l'immortalità, sfiorare l'impossibile. Nel Romanzo, il carattere di Alessandro è molto diverso, e addirittura si rovescia nel suo opposto. Il grandioso eroe della storia diventa spesso una specie di Ulisse: una figura astuta ed ingegnosa, che inventa macchinazioni e si maschera in ogni forma. Oppure diventa una figura patetica: Dario gli muore tra le braccia, e lui lo bacia, lo conforta, lo carezza, lo consola, lo copre col suo mantello. Infine, incarna il desiderio del sacro. Lasciandosi dietro le spalle gli dèi greci ed egiziani, esalta il Dio degli ebrei: «Spregiò tutti gli dèi della terra, e proclamò solamente unico vero Dio quello inintelligibile, invisibile, inattingibile, portato dai Serafini e glorificato con l'attributo di tre volte santo». Nessuno di noi potrà dire quale sia stato il vero Alessandro: ma certo i grandi storici, da Plutarco ad Arriano, devono aver visto con una specie di ribrezzo l'eroe ulissiaco o religioso, che il Romanzo offriva ai suoi lettori.
Il Romanzo è una strepitosa enciclopedia del fantastico, di cui il primo eroe è Alessandro. La terra non gli basta mai. Scende nelle profondità del mare, per mezzo di una gabbia di ferro e di una campana di vetro; sale negli abissi del cielo, legandosi a due uccelli affamati che volano verso l'alto; raggiunge luoghi senza sole, in fondo alla terra della tenebra, dove c'è una sorgente limpidissima, con l'acqua che brilla come un lampo. E poi vede tutto il possibile e l'impossibile: immensi granchi marini, che contengono sette perle; uomini che misurano ventiquattro cubiti, con mani e gomiti simili a seghe; uomini senza testa, che parlano con voce umana; uomini con sei mani e sei piedi; uomini con la testa di cane e voce umano-canina; uccelli con occhi umani, che gracchiano in lingua greca; pietre nere che colmano i fiumi, e tingono di nero chi le tocca; alberi che col sorgere del sole crescono fino all'ora sesta, e dalla settima deperiscono sino a scomparire, secernendo stille simili alla mirra persiana.
La parte più bella del Romanzo è strappata dal bellissimo testo di uno scrittore del terzo - quarto secolo dopo Cristo: La Vita dei Brahmani di Palladio. Nei Brahmani culmina la vena utopica del Romanzo. Vivono ascoltando il canto degli uccelli e il grido delle aquile; dormono su letti di foglie e all'aria aperta; mangiano frutti e bevono acqua; cantano inni agli dèì; non amano l'oro né temono la morte. Quando incontrano Alessandro, gli dicono: «Perché, se sei mortale, fai tante guerre, per prendere tutto? E dove lo porterai? Non lo dovrai lasciare anche tu, a tua volta, ad altri?... Quello che cerchi, noi non l'abbiamo; quello che abbiamo, tu non lo desideri. Noi onoriamo dio, amiamo gli uomini, ci disinteressiamo dell'oro, disprezziamo la morte, non ci curiamo dei piaceri; tu temi la morte, ami l'oro, agogni i piaceri, odi gli uomini, disprezzi dio…». In apparenza, Alessandro prova profonda ammirazione per il maestro dei Brahmani. In realtà, qui il libro si capovolge: l'esaltazione del sommo tra i condottieri diventa una feroce polemica contro di lui, sovrano del male.

Corriere 14.9.12
Michele Ciliberto è il direttore scientifico
Il pensiero d’Italia in 80 medaglioni
di Arturo Colombo


Come titolo, Il contributo italiano alla storia del pensiero, è molto impegnativo; spicca sul frontespizio di un volume (oltre 800 pagine, più illustrazioni) pubblicato dall'Istituto dell'Enciclopedia Treccani. Giuliano Amato nella presentazione spiega che intende offrire «uno sguardo lungo sulla relazione della cultura e della scienza fiorite in Italia, sguardo lungo che muove da un punto di partenza fissato in un'Europa che era ancora una, latina e cristiana, ma in eccezionale, per quanto non di rado aspro e turbolento, confronto con ebraismo e islam, e con l'Oriente greco».
Michele Ciliberto è il direttore scientifico di questa iniziativa meritoria dedicata alla filosofia (seguiranno altri cinque volumi su altrettanti settori specifici), e non esita a spiegare che «è la vocazione "civile" il tratto specifico dell'Italia, sul piano filosofico». Anzi, precisa che «il nesso tra filosofia, storiografia e politica è un tratto strutturale della tradizione italiana», portando esempi assai significativi, poi ripresi e approfonditi attraverso «medaglioni» affidati a specialisti: ecco Machiavelli, su cui si sofferma Giulio Ferroni, ecco Giordano Bruno, che ambisce farsi «capitano di popoli» (secondo lo stesso Ciliberto), ecco Botero, riproposto da Robertino Ghiringhelli...
Tentare, attraverso un articolo giornalistico, di offrire una sintesi della vasta panoramica di questo libro a più voci, non è difficile; è semplicemente impossibile, appena si prende atto che sono più di un'ottantina i personaggi, che animano queste pagine, partendo dal «medioevo plurale» (l'immagine è ancora di Ciliberto), dove accanto a Tommaso d'Aquino e a Marsilio da Padova, spicca, soprattutto per il suo progetto di utopia sociale, Dante, ben delineato da Cesare Vasoli, che attraverso l'opera «Monarchia» auspicava l'affermarsi di un'autorità sovrana «unica e universale» in grado di unificare il mondo «nel riposo e nella tranquillità della pace».
I collaboratori, coinvolti nel riproporre le figure leader, riescono così a comporre un simbolico mosaico in grado di coprire addirittura un millennio di storia — anzi, «di storia del pensiero italiano» — anche soffermandosi su personaggi che, almeno a prima vista, sembrerebbero meglio qualificati in altri spazi: penso a Leonardo da Vinci e all'importanza della sua «opera intellettuale testimoniata esclusivamente dai suoi manoscritti», su cui si soffermano Fabio Frosini e Carlo Vecce; oppure a Galileo, che Mariano Giaquinta descrive non solo come scienziato ma altresì per i suoi contributi in filosofia della natura.
Naturalmente, in base agli interessi e alle curiosità di ciascuno, ci soffermeremo su periodi diversi, scegliendo il contributo di singole personalità. Così il XX secolo, che tanti, troppi pretendono di esaurire sbrigativamente con la «dittatura del neoidealismo» (un «mito storiografico senza fondamento», taglia corto Ciliberto), non esclude certo l'opera di Croce e di Gentile, su cui intervengono Michele Maggi e Biagio De Giovanni. Ma lascia emergere, attraverso appositi profili, scienziati come Federico Enriques, o sociologi e politologi come Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca (che è stato anche una firma del nostro «Corriere»), oppure delinea il ruolo «fra divulgazione filosofica e giornalismo culturale» di Giuseppe Prezzolini (ben descritto da Emma Giammattei).
Né basta. Perché l'ultima parte — dalla seconda metà del '900 a oggi — riserva, oltre a specifici approfondimenti (è il caso del marxismo), non poche sorprese, che chiamano in causa il neoilluminismo italiano (di cui scrive Massimo Mori), le «filosofie cristiane» (affidate a Michele Lenoci) e perfino il «pensiero debole» (preso in esame da Costantino Esposito). Insomma, un'ottima bussola di orientamento, da tenere a portata di mano.

Corriere 14.9.12
Pound, il dissenso vale anche quando si ha torto
di Giulio Giorello


Amo ergo sum, ovvero «amo, dunque sono». Parlando d'amore invece che di pensiero, così il poeta Ezra Pound nel 1942 rovesciava il razionalismo di Cartesio. Vale anche l'inverso: chi non ha sentimenti forti non sa amare e forse «nemmeno esiste».
Nel suo Guida alla cultura (1938) aveva scritto: «Nessun uomo decente tortura i prigionieri, nessun uomo pulito tollererebbe le atrocità pubblicitarie che si vedono tra qui e Genova. Nessun uomo libero da parassiti mentali tollererebbe la camorra delle banche o del sistema fiscale». Quattro anni dopo, dava voce direttamente in italiano a questi sentimenti in Carta da Visita, presso Edizioni di Lettere d'Oggi. Ripubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1974, questo testo viene ora ripresentato a cura e con un saggio introduttivo da Luca Gallesi che sottolinea l'impegno del poeta come patriota americano, pur «innamorato» della vecchia Europa. Si era battuto perché gli Stati Uniti non entrassero in guerra; era stato incriminato per alto tradimento, e nel 1945 era finito in un campo di prigionia presso Pisa e poi in un manicomio criminale a Washington (sempre senza processo). Liberato nel 1958, fino alla morte (1962) resterà privo della personalità giuridica. Sarebbe ora che gli Stati Uniti rimediassero a questa ingiustizia.
Carta da visita è un impasto di aforismi graffianti, battute sarcastiche, tirate polemiche in una lingua che riecheggia Dante e Cavalcanti. Che si tratti della critica letteraria, del destino della poesia, dei labirinti della filosofia o della stessa astrazione scientifica, il filo rosso è l'ossessione di Pound per l'economia. I grandi finanzieri abitualmente praticano «il trucco di far aumentare il valore dell'unità monetaria manovrandolo per mezzo del monopolio d'una sostanza qualunque, e quindi facendo pagare dai debitori l'equivalente di due volte la merce e i beni avuti al tempo d'un prestito». Per quanto possa suonare semplicistica, è difficile non sentire vicina l'invettiva di Pound. Le bolle finanziarie a livello globale non sono che l'altra faccia dell'oppressione fiscale, della violenza repressiva e del saccheggio dell'ambiente (e non solo tra Rapallo e Genova!). Sono l'amore per la natura, l'arte e la scienza a scatenare l'indignazione di Pound il libertario. Gallesi non nasconde il vizio dell'antisemitismo poundiano, di cui il poeta fece ammenda fin dal 1945, e ne sottolinea le simpatie per il fascismo. «Mille candele insieme fanno splendore. La luce di nessuna candela danneggia la luce di un'altra». È l'inizio di Carta da Visita. Pound aggiunge: «Così è la libertà dell'individuo nello Stato ideale e fascista». Proporrei di rovesciare la battuta: tale dovrebbe essere la libertà dell'individuo in ogni democrazia che non tema, ma ami, i propri dissenzienti.
Il libro: Ezra Pound, «Carta da Visita», a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 103, 14

Sette del Corsera 14.9.12
Come Picasso fece di se stesso un monumento
di Francesco Pini

qui
il Fatto 14.9.12
Aspettando la mostra milanese
Fo: Ve lo do io Picasso
Un recital scritto dal premio Nobel per raccontare il genio simbolo del ’900
di Antonio Armano


Tutto iniziò con “Otello il bidello”. Racconta Da-rio Fo che a Brera c'era un tale che faceva i calchi di gesso ed era lui stesso un calco di Picasso, gli assomigliava come una goccia d'acqua: “Noi studenti dell'accademia – ricorda il premio Nobel – mettemmo in giro la voce che Picasso sarebbe venuto a Milano. Organizzammo una festa al teatro dei Filodrammatici col falso Picasso come ospite per prendere per i fondelli l'ambiente culturale, gli snob... La festa degenerò e finì quando buttammo dei petardi tra le gambe di Otello che si mise a imprecare in milanese... ”.
Si parla di “grande ritorno” in occasione della mostra milanese di Palazzo Reale dal 20 settembre al 13 febbraio ( mo  strapicasso.it  ), dove saranno esposte 250 opere del Musée National Picasso di Parigi: molte mai uscite da quelle sale. Otello il bidello, il finto Picasso, non c'è più ma ci saranno i falsi picassiani. Dario Fo definisce “gigantesca” la mostra. In fondo è solo grazie all'avarizia di Picasso (non per niente il bisnonno, Tommaso, era di Sori, Liguria) che dobbiamo questa grande opportunità. “Sono il più grande collezionista di me stesso” diceva. Accumulò una quantità enorme di opere, anche altrui, e dopo la morte, anche per questioni legate alle tasse di successione, sono passate allo Stato francese. Eccezionalmente, per lavori di restauro della sede, usciranno dal museo parigino.
“L'assessore Stefano Boeri – dice Fo – mi ha chiamato chiedendomi se mi andava di fare uno spettacolo per raccontare Picasso, io ho accettato subito. Durante lo spettacolo, Picasso desnudo, che si andrà in scena al Dal Verme, il 17 e il 19 settembre, proiettiamo diverse opere di Picasso. e per evitare che ci chiedano i diritti siamo passati dalle proiezioni degli originali a quelle dei falsi”.
E come ha fatto a realizzare i falsi?
Con la mia équipe, montando e smontando le immagini degli originali, la tecnica è collaudata.
Come si è documentato per fare lo spettacolo?
La vita di Picasso è piena di pochade, commedia, tragico e grottesco, anche perché il grottesco è il contrappunto del tragico. Inoltre Picasso ha lavorato per il teatro.
Fu durante la collaborazione con Djagilev che conobbe la prima moglie, Olga Chochlova...
Ha avuto molte donne, ritratte in molti quadri. La passione per le donne lo ha portato anche a situazioni molto pesanti, come quando si lasciò con la Chochlova e lei gli disse che era senza denaro, lui ripose qualcosa tipo ‘va’ a c... ’, e lei per vendetta cominciò a scrivere le sue memorie, a puntate sui giornali, come feuilleton, lui diventò pazzo... da questo nasce il rifiuto di riconoscere il figlio Paulo.
Tra le opere in mostra, anche il ritratto di Olga del '18.
Non solo quello, ce ne saranno quattro in tutto. E si potrà vedere anche Massacro in Corea, che insieme a Guernica fu esposta nel '53 nella sala delle Cariatidi mezza distrutta dai bombardamenti. Picasso disse che per ricordare quello che era successo la sala andava lasciata così. L'hanno accontentato.
Perché quella volta Picasso venne davvero a Milano...
Era uno che presenziava raramente alle sue mostre ma alla fine venne. Ci piace pensare che abbia sentito del casino che avevamo fatto...
Che Milano trovò?
Restò impressionato. Era una città dove si faceva cinema, c'erano grandi scrittori, il Piccolo Teatro, primo esperi-mento nel suo genere, le fabbriche di automobili che la Fiat ha chiuso.
Una città molto diversa da quella attuale, ma il paragone sarebbe impietoso. Piuttosto, in un anno circa di giunta Pisapia s'è visto qualche cambiamento?
Quello che si sta facendo per la cultura è dieci volte maggiore che in passato, certo il contesto generale è di crisi, l'arte soffre... ma le cose sono cambiate, prima quando parlavi di arte agli amministratori gli veniva da vomitare.
Quanto si sente la spending review?
I tecnici tagliano tutto, e la cultura di più, anche se sono professori, perché vengono dall'area cattolica, Monti è del mio paese, sul Lago Maggiore. È un mondo che conosco bene, sono lombardo anch'io: della cultura non gliene frega niente.

Repubblica 14.9.12
Facciamo economia
Come costruire una nuova società dell’abbondanza
di Serge Latouche


Anticipiamo una parte dell’intervento che Serge Latouche farà al “Festival/Filosofia” Così lo studioso torna sulle sue tesi più celebri come quella della “decrescita felice”

Viviamo in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un’economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l’esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni – e dunque di prodotti superflui e rifiuti – e nell’emissione di scorie e inquinamento (dell’aria, della terra e dell’acqua).
Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema e dall’altra con uno strumento privilegiato della colonizzazione dell’immaginario, la pubblicità. E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio. Per usare una metafora siamo diventati dei «tossicodipendenti » della crescita. Che ha molte forme, visto che alla bulimia dell’acquisto – siamo tutti «turboconsumatori » – corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro.
Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. Senza poter trovare il «significante perduto», si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o l’amore, tutte cose la cui sete non conosce limiti. (...)
Anche per questo ci serve immaginare un nuovo modello. Economico ed esistenziale. Così la ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l’egoismo risultante da un individualismo di massa.
Uscire dalla società del consumo è dunque una necessità, ma il progetto iconoclasta di costruire una società di «frugale abbondanza» non può che suscitare obiezioni e scontrarsi con delle forme di resistenza, qualunque siano i corsi e i percorsi della decrescita. Innanzitutto, ci si chiederà, l’espressione stessa abbondanza frugale non è forse un ossimoro peggiore di quello giustamente denunciato dello
sviluppo sostenibile?
Si può al massimo concepire ed accettare una «prosperità senza crescita», secondo la proposta dell’ex consigliere per l’ambiente del governo laburista, Tim Jackson, ma un’abbondanza nella frugalità è davvero eccessivo! In effetti, fintanto che si rimane chiusi nell’immaginario della crescita, non si può che vedervi un’insopportabile provocazione. Diversamente invece, se usciamo da certe logiche, può risultare evidente che la frugalità è una condizione preliminare rispetto ad ogni forma di abbondanza. L’abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest’ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all’immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all’opposto di questa logica, la società della descrescita si propone di fare la felicità dell’umanità attraverso l’autolimitazione per poter raggiungere l’“abbondanza frugale”.
Come ogni società umana, una società della decrescita dovrà sicuramente organizzare la produzione della sua vita, cioè utilizzare in modo ragionevole le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà un po’ come quelle «società dell’abbondanza » descritte dall’antropologo Marshall Salhins, che ignorano la logica viziosa della rarità, dei bisogni, del calcolo economico. Questi fondamenti immaginari dell’istituzione dell’economia devono essere rimessi in discussione.
Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che «una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una depauperizzazione psicologica », uno stato d’insoddisfazione generalizzata, che definisce, egli afferma, «la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza». La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell’autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: «Essere dipendentisignifica essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi». Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La ritrovata frugalità permette precisamente di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava «sussistenza moderna». Ovvero «il modo di vivere in un’economia post-industriale, all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato, e ci sono arrivate proteggendo – attraverso strumenti politici – un’infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare valori d’uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti di bisogni professionisti ». La crescita del benessere è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio.
Molte di queste opzioni implicano un cambiamento della nostra attitudine anche rispetto alla natura. Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d’estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell’ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile di sviluppare un’attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un’obsolescenza programmata dell’umanità.
(traduzione di Tessa Marzotto Caotorta)

Repubblica 14.9.12
Eugenio Scalfari "Giornali, libri e amori: la mia vita di Narciso consapevole"
Intervista al fondatore di "Repubblica" in occasione dell'uscita del "Meridiano" in cui sono raccolti una serie di articoli e le sue opere più importanti
di Antonio Gnoli

qui

Repubblica 14.9.12
Dalle pratiche d’ufficio a quelle orientali
di Umberto Galimberti


Dopo che la tecnica ci ha ridotti a semplici funzionari dei suoi apparati e quotidianamente ci misura secondo i suoi criteri che sono la produttività e l’efficienza, ci si accorge che anche la produttività anche l’efficienza si riducono se si eliminano quelle componenti, proprie dell’uomo, che la razionalità della tecnica non contempla.
Si tratta di tutte quelle figure dell’irrazionale che si chiamano sentimento, fantasia, passione, sogno, che fanno dell’uomo, qualcosa di diverso (e se vogliamo anche di più inadeguato) rispetto alla macchina, che per la tecnica è l’ideale a cui anche l’uomo dovrebbe conformarsi. Le macchine infatti non si ammalano, non cadono in depressione, non sono turbate da pensieri negativi o esaltanti, non sono attraversate dal dubbio, e neppure stressate dalla necessità di scegliere e di decidere.
Lo stress, che in ambito lavorativo nasce quando le esigenze delle organizzazioni mettono alla prova le risposte del soggetto, il cui costo, in termini psicologici o somatici, può essere superiore alle sue risorse, deve essere, se non eliminato, almeno ridotto per non abbassare il livello di efficienza e di produttività. Vengono allora introdotte quelle tecniche di rilassamento mentale che vanno dalla meditazione allo yoga, dallo svuotamento della mente alle pratiche riflessive denominate “consulting and coaching”, dove si prendono in considerazione le fonti potenziali di stress rappresentate dalla struttura dell’organizzazione, dalla compatibilità delle forme organizzative con le esigenze di libertà e di autonomia di coloro che vi operano, dal ruolo del soggetto nell’apparato, dagli obbiettivi che deve raggiungere, dalle pressioni che riceve, dalle sue ansie in senso carrieristico.
A parte il “consulting and coaching” che si propone di ricostruire la “persona” a chi è ormai ridotto a “funzionario di apparato”, incapace di vedere altro mondo che non sia il mondo del lavoro, con un’identità appiattita sul proprio ruolo e un’atrofia dei sentimenti frequente soprattutto nelle leadership, le altre forme di rilassamento mentale finalizzate a rendere i soggetti più produttivi ed efficienti, destano in me qualche perplessità. Dubito che la struttura mentale di noi occidentali, che funziona più per concetti che per immagini, e quindi ha una natura prensile e acquisitiva (“concetto”derivada cum-capioche significa“prendere”, così come il corrispondente tedesco Be-griff deriva da greifenche significa “afferrare”), sia in grado di ospitare il modo orientale di pensare che un aforisma del Sutra così descrive: “Il Buddha dice: la mia dottrina sta nel pensare il pensiero del non pensiero, nel parlare il linguaggio del non parlare, nell’esercitare la disciplina dell’indisciplina”.
Come fa la nostra mente organizzata secondo il principio di non contraddizione a “pensare il pensiero del non pensiero”? Ne siamo capaci? O traspare anche qui, sotto sotto, la volontà di potenza che caratterizza il modo di pensare e di agire di noi occidentali, che vogliamo impossessarci anche delle pratiche orientali, pur non avendo la struttura mentale idonea a questa acquisizione?
E ancora, questa acquisizione avviene allo scopo di rispondere meglio alle esigenze di produttività ed efficienza, quando invece le pratiche orientali sono ispirate non dalla “volontà” di fare, produrre, raggiungere obbiettivi, ma dalla “non-volontà”, che Schopenhauer chiamava “noluntas”, la quale è l’esatto contrario della volontà di potenza, tipica di noi occidentali. Un altro aforisma del Sutra recita infatti: “Il mondo va lasciato qual è. Il Buddha lo attraversa senza pensare ad alcuna riforma. Egli insegna a liberarsi del mondo non a trasformarlo”. La tecnica, come universo di mezzi, senz’altro scopo che non sia il suo autopotenziamento, è disposta ad accogliere anche quelle pratiche orientali che sono la sua massima antitesi, purché siano a loro volta un “mezzo” per migliorare efficienza e produttività. E in questo uso “strumentale” della filosofia e della religione orientale io vedo, oltre che una mancanza di rispetto per una cultura davvero “altra” rispetto alla nostra, un semplice fagocitare tutto quello che riteniamo possa “servirci”.