l’Unità 10.9.12
La piccola sul palco
Il segretario Pd chiude davanti a una grande folla la Festa di Reggio Emilia
È Ambra, 4 anni, il simbolo del nuovo Paese
È Ambra il simbolo della nuova Italia che Pier Luigi Bersani ha disegnato dalla festa nazionale di Reggio Emilia. Quattro anni, nata a Reggio da genitori del Ghana, la piccola è salita sul palco e il segretario l’ha presa in braccio alla fine del suo discorso. Lei affatto turbata si è lasciata tranquillamente portare in giro in braccio al leader Pd. Verso Ambra e i tanti figli di stranieri nati in Italia il segretario ha rinnovato oggi l’impegno sulla cittadinanza: «Se tocca a me si comincia dal primo giorno col chiamare italiani i figli di immigrati che studiano qui».
l’Unità 10.9.12
Bersani: siamo pronti a guidare il governo
«Decide l’Italia, non le banche»
Bersani chiude la Festa. La sfida della cittadinanza delle unioni civili e della Costituente europea
di Simone Collini
Oggi leali con Monti. Domani toccherà non ai banchieri ma agli italiani decidere chi deve governare. E il Pd è pronto a farlo. Bersani chiude la Festa di Reggio Emilia con un discorso che di fatto apre la campagna elettorale in vista delle prossime politiche. Di primarie il leader democratico parla dopo cinquanta minuti abbondanti che ha iniziato, per dire che serviranno a discutere dell’Italia, non degli equilibri interni al partito perché per questo ci sarà l’anno prossimo un apposito congresso. C’è l’appello alle forze moderate per un impegno comune contro destra e populismi di vario genere e c’è la garanzia che in caso di vittoria una generazione nuova e sperimentata verrà portata al governo.
L’area centrale di Campovolo è invasa da militanti e simpatizzanti arrivati da tutta Italia. Il gruppo dirigente del partito è sotto il palco. Sopra, accanto al segretario, ci sono i volontari della Festa e i sindaci dei Comuni colpiti dal terremoto. C’è da ricostruire lì e c’è da ricostruire l’Italia, ed è di questo che Bersani vuole parlare. Renzi non viene mai citato, anche se è abbastanza chiaro il riferimento, quando il leader democratico dice che il rinnovamento si farà sulla base della qualità e del merito, delle capacità, delle competenze e anche della generosità, «che vuol dire una cosa semplice: prima c’è l’Italia, poi il Pd e il suo progetto per l’Italia, poi ci sono le ambizioni personali». Berlusconi, Bossi, Tremonti vengono liquidati con poche battute, giusto per ricordare di chi sono le responsabilità di un Paese economicamente stremato, perché i veri avversari con cui bisognerà fare i conti a questo giro sono altri, a cominciare da chi «comanda stando in un tabernacolo e non risponde a nessuno» (leggi Beppe Grillo) e ai tanti interessati a che nulla cambi. Avversari non sempre dichiarati, magari gli stessi che fino a un anno fa per opportunismo «hanno finto di prendere per buone le castronerie di imbonitori prepotenti e rozzi, sperando che i buchi nella nave facessero bagnare solo la terza classe». Avversari che, è già chiaro, nei prossimi mesi «non lasceranno nulla di intentato» pur di impedire la nascita di un governo a guida Pd. Per questo Bersani lancia dal palco della festa nazionale del suo partito un richiamo «alla responsabilità e all’unità». Perché l’impegno assunto dal centrosinistra questa volta «non potrà tollerare né incertezze né ambiguità né divisioni» e perché «tutti devono avere cura del bene comune e della speranza per l’Italia che è il Pd»: «A tentare di demolirci ci pensano gli altri. È il loro mestiere, non il nostro». Sventolano le bandiere, scattano gli applausi, ma a nessuno sfugge qui a Campovolo quanto sarà dura la sfida.
RIGORE MA CON PIÙ LAVORO
Bersani parla mentre sia da Cernobbio che dalla festa dell’Udc di Chianciano si invoca un Monti bis. Il leader del Pd ripete che il suo partito garantirà la stabilità dell’attuale esecutivo e però senza precludersi la possibilità di parlare della prospettiva delle elezioni: «Sempre naturalmente che Moody’s o Standard and Poors non ce le aboliscano sostituendole con una consultazione fra banchieri». Una frase provocatoria, ma visto il dibattito in corso, solo fino a un certo punto surreale. «Tocca agli italiani, solo agli italiani e a tutti gli italiani decidere chi governerà». Ancora applausi e sventolio di bandiere per un concetto che dovrebbe essere assodato e che invece evidentemente non è. Tutta la discussione sulla continuità con l’agenda del governo Monti, che agita le acque all’interno dello stesso partito, viene liquidata così da Bersani: «Noi consideriamo la credibilità e il rigore che Monti ha mostrato davanti al mondo un punto di non ritorno. Ma vogliamo metterci dentro più lavoro, più uguaglianza, più diritti».
Poche parole ma che significano una serie di profonde riforme che il Pd, assicura Bersani, realizzerà una volta al governo. A partire da questa: «Se tocca a me si comincia dal primo giorno col chiamare italiani i figli di immigrati che studiano qui e che oggi non sono né immigrati né italiani». E non è casuale la scelta di chiudere il discorso prendendo poi in braccio una bimba nata a Reggio Emilia da genitori del Ghana: Ambra, quattro anni, che fa ciao con la manina mentre il segretario sembra il più emozionato tra i due.
Ma ci sono anche altri diritti oggi negati che domani dovranno essere riconosciuti per sostanziare quell’aspirazione al cambiamento che promette Bersani («noi ci metteremo dal lato del cambiamento»). «Non c’è ragione che si neghi agli omosessuali italiani il diritto all’unione civile o a una legge contro l’omofobia», scandisce il leader del Pd dal palco mentre di nuovo parte forte l’applauso. Oggi sono ancora troppi i diritti negati, gli sfregi all’articolo tre della Costituzione, le discriminazioni nei confronti delle donne e anche di lavoratori che scelgono di farsi rappresentare da un sindacato piuttosto che da un altro (leggi Fiom e vicenda Fiat): «Non c’è ragione che vengano negati nei luoghi di lavoro diritti di partecipazione e diritti sindacali».
Il cambiamento dovrà passare però anche per una legge che riduca il numero dei parlamentari e una sui partiti («non è stato fatto perché la destra ha ribaltato il tavolo»), una legge elettorale costruita sull’interesse comune (e quindi no a leggi che paralizzano e non consentono agli elettori di scegliere i parlamentari) e anche interventi per la regolazione della finanza: «Deve pagare un po’ di quel che ha provocato, non deve più avere licenza di uccidere, deve mettersi a servizio e non a comando delle attività economiche e produttive».
È di questo che parlerà durante le prossime settimane Bersani, anche in vista delle primarie. E se la destra già va all’attacco, se i grillini sparano dal web, se il tentativo di inquinare il risultato non mancherà, il leader democratico avverte: «Chi ci dà lezioni di morale organizzi le primarie, anche i loro elettori hanno voglia di partecipare, o pensano di mandarli alle nostre? Noi faremo le nostre primarie, chi non le fa si riposi».
l’Unità 10.9.12
Pubblichiamo alcuni stralci del discorso pronunciato ieri a Reggio Emilia, a conclusione della Festa democratica
Faremo le primarie per parlare al Paese, non al nostro interno
Pier Luigi Bersani
Per la prima volta il Paese vive un processo di impoverimento, mentre la democrazia repubblicana soffre di un indebolimento pericoloso. Ecco allora la semplice e drammatica domanda. Siamo pronti noi, Partito democratico e noi democratici e progressisti italiani, con i nostri valori di uguaglianza, di civismo, di libertà? Siamo pronti a prenderci la responsabilità di governare l’Italia nel suo momento più difficile? È questo che vogliamo, con convinzione, proporre agli italiani? O invece vogliamo sottrarci, vogliamo scansare? O invece ci spaventa scalare la montagna? Ve lo dico col cuore: chiariamo bene questo prima di metterci in marcia. È una domanda vera, quella che faccio. Ci sono mille modi, anche dal lato delle culture democratiche, per sfuggire a questa responsabilità. Li conosciamo. Sono i modi dell’ambiguità e degli eterni distinguo, della divagazione, della testimonianza purista che non conosce mediazione, o sono i modi di quel massimalismo che salva la coscienza e allontana il calice amaro delle responsabilità e dei doveri. Io dico che se i riformisti italiani si sottraessero oggi all’appuntamento più difficile non avrebbero diritto ad averne altri.
Dunque, diremo al Paese che vogliamo prenderci le nostre responsabilità. Diremo al Paese che conosciamo il nostro compito: farlo uscire da un destino di arretramento e farlo uscire con meno disuguaglianza, con più lavoro e con una democrazia funzionante e pulita. E diremo al Paese che non sarà il compito di un giorno, che ci vorrà una riscossa collettiva che vada oltre la politica. Rimetteremo in cammino la fiducia, rimetteremo in cammino un’idea di futuro senza sbandierare favole o miracoli e mettendoci a muso duro contro gli imbonitori, i venditori di fumo che porterebbero il Paese alla catastrofe.
LA COSTITUENTE EUROPEA
Noi progressisti europei dobbiamo dire a piena voce quello che vogliamo, dire quale è il primo passo sulla nuova strada e dire anche dove deve portare la nuova strada. Il primo passo è rompere la spirale fra austerità e recessione (...). Noi proporremo che a compimento degli interventi contro la crisi e dell’impostazione del nuovo patto fiscale, all’appuntamento del prossimo Parlamento europeo, si lanci una fase costituente, una Convenzione per un nuovo Trattato che rafforzi il processo unitario europeo e il suo assetto democratico. I progressisti europei e il nuovo governo italiano dovranno farsi protagonisti di questa iniziativa e cioè di un rilancio coraggioso e ineludibile della prospettiva europea e proporre un nuovo patto costituzionale fra le grandi famiglie politiche e i paesi europei; e su questo combattere davvero e non lasciare più, davanti alle opinioni pubbliche l’iniziativa a chi lavora a rovescio verso la disgregazione.
DOPO IL VOTO SI CAMBIA
Il governo Monti ci ha ridato dignità nel mondo e ci ha tenuti fuori dal baratro (...). La nostra parola verso il governo Monti è stata, è e sarà: lealtà. Una parola che dice l’onestà del sostegno e dice anche della franchezza delle nostre idee e delle nostre posizioni, in quel che ci piace e non ci piace, in quel che faremmo o faremo diversamente.
Noi trucchi non ne facciamo, imboscate non ne facciamo, ricatti non ne facciamo. Siamo anzi a chiedere, con ogni forza, che Monti non ceda ai quotidiani ricatti altrui. Noi diciamo la nostra e diamo il nostro contributo fin dove i numeri ci consentono di arrivare. Noi diciamo da qui, all’Europa e al mondo, davanti a mesi cruciali, che garantiremo la stabilità del governo Monti. E tuttavia parliamo senza ambiguità della prospettiva delle elezioni, sempre naturalmente che Moody’s o Standard & Poors non ce le aboliscano sostituendole con una consultazione fra banchieri. E chiediamo: ma qualcuno pensa davvero che noi si possa stare dentro la moneta comune e fuori dalla comune democrazia europea? (...) Qui non si tratta di misurare il tasso di presenza tecnica in un governo. Qui si tratta di riconoscere o no le fondamenta basiche di una democrazia. Le elezioni, dunque. Tocca agli italiani, solo agli italiani e a tutti gli italiani decidere chi governerà. Noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità davanti all’Italia e al mondo. Con parole chiare. Noi consideriamo la credibilità e il rigore che Monti ha mostrato davanti al mondo un punto di non ritorno. Ma vogliamo metterci dentro più lavoro, più uguaglianza, più diritti. Questo è quello che vogliamo.
«SE TOCCA A ME...»
Da Reggio Emilia lanciamo la nostra sfida. Fin qui, dentro a questo rapporto di forze, si è vista chiara comunque la nostra responsabilità. Con il nuovo rapporto di forze che chiederemo, con la maggioranza al partito democratico e a un centro sinistra di governo si vedrà il cambiamento. Il cambiamento, a cominciare dalla politica, dalle istituzioni, dai diritti, dalla nostra democrazia. È difficile cambiare finché i numeri ce li hanno quelli che non vogliono cambiare. A cominciare dalla questione cruciale della sobrietà della politica. Si dica finalmente la verità. Quel che si è fatto fin qui, dall’abolizione dei vitalizi al dimezzamento del finanziamento ai partiti, lo si è fatto su proposta e iniziativa nostra. Quel che non si è potuto fare e si dovrà fare, a cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, non lo si è fatto perché gli altri hanno ribaltato il tavolo. Questa è la verità. E non accettiamo più, ad esempio, che parlando di legge elettorale si dica: la politica non riesce a cambiare. Non esiste «la politica!». Esistono le forze politiche, e ce n’è una, la nostra, che ha consegnato nel tempo la sua proposta e che ha reso trasparenti anche i punti di un possibile compromesso. I paletti che abbiamo messo a quel compromesso non riguardano i nostri interessi. Riguardano l’Italia. Che la sera delle elezioni si sappia chi può governare, interessa o no l’Italia? E che un cittadino possa aver voce nello scegliere il suo parlamentare, riguarda o no l’Italia? E che si affermi la parità di genere, o che non si possano inventare dalla sera alla mattina dei finti gruppi parlamentari, interessa o no l’Italia? Non si dica dunque: la politica! Non si metta tutti nel mucchio. E si riconosca finalmente, anche per il futuro, che la garanzia per le riforme può venire solo dalla presenza di una maggioranza riformatrice, univoca e determinata. È questo che ci manca! Noi chiederemo quella maggioranza agli italiani e ci impegneremo al cambiamento (...) Noi cominceremo dalla democrazia e dal civismo, perché senza democrazia e civismo nuovi non potrà esserci risposta economica e sociale. E cominceremo da cose che si capiscano. Se tocca a me si comincia dal primo giorno col chiamare italiani i figli di immigrati che studiano qui e che oggi non sono né immigrati né italiani; si comincia (se non ce lo fanno risolvere adesso come fermamente vogliamo) rendendo ineleggibili corrotti e corruttori e andandogli a prendere il maltolto, come per i mafiosi e introducendo e rafforzando il falso in bilancio; si comincia non accettando più che la Fiat o l’Eni possano prendere miliardi di finanziamenti dalle banche senza andare dal notaio mentre una famiglia che si fa il mutuo per la casa deve lasciare dal notaio qualche migliaio di euro, e si comincia decidendo che ogni euro ricavato dall’evasione fiscale andrà al lavoro, all’impresa che investe, al welfare. E così via, con cose che si capiscano e che parlino finalmente di un’Italia diversa, di un’Italia che cambia. Un cambiamento per la democrazia, dunque, e un cambiamento per l’economia e la società.
LE NOSTRE PRIMARIE
A proposito di chi è nuovo e di chi non lo è, provino a fare come noi: si mettano in gioco con una partecipazione vera, a viso aperto e a faccia a faccia con cittadini veri. E discutano finalmente di Italia con gli italiani in carne ed ossa. Questo saranno le nostre primarie per la scelta del candidato dei progressisti alla guida del governo. Si discuterà di Italia non di noi. Per discutere di noi ci sarà l’anno prossimo un libero congresso. Per discutere dei parlamentari del Pd ci saranno forme vere di partecipazione. Non ci sono qui, adesso, bilance, bilancini o tribunali da allestire. Qui si parla di Italia e di come portarla fuori dalle più gravi difficoltà da sessant’anni a questa parte. Di questo si discuterà stringendo un patto non ambiguo con le forze politiche progressiste disposte a costruire un centrosinistra di governo. Le stiamo incontrando in questi giorni. E si discuterà come abbiamo già largamente cominciato a fare con tutte quelle formazioni sociali, civiche, culturali che vorranno darci in piena autonomia il loro contributo davanti ad una politica, la nostra, che rivendica il suo ruolo, assume le sue responsabilità ma riconosce il suo limite. E vogliamo che il grande campo progressista si rivolga in modo aperto a tutte le forze moderate, costituzionali ed europeiste disposte a mettere un argine alle destre e alle tendenze regressive e populiste che minacciano l’Europa e l’Italia, disposte ad impegnarsi per la ricostruzione del Paese e per il rilancio del progetto europeo.
IL RINNOVAMENTO DEL PARTITO
Il rinnovamento del nostro partito è una necessità e una straordinaria opportunità (...). Nelle organizzazioni territoriali del partito e nelle esperienze di governo locale si è largamente messa in campo e si è sperimentata una generazione nuova (...). Detto questo, noi siamo adesso in condizione di spingere avanti questo rinnovamento e di portarlo a nuove responsabilità nella politica, nelle istituzioni, e, come tutti vogliamo, nel governo del Paese. Chiederò l’impegno e la generosità di tutti perché il processo cammini e io stesso mi faccio garante che dal prossimo anno le responsabilità verranno messe via via e ampiamente sulle spalle della nuova generazione. Siatene certi, questo avverrà. Rinnovare è un fatto generazionale e un fatto di genere, ovviamente, che va tuttavia collegato, altrettanto ovviamente, a criteri di qualità e di merito (...). Generosità vuol dire una cosa semplice. Prima c’è l’Italia, poi c’è il Pd e il suo progetto per l’Italia poi ci sono le ambizioni personali. Questo vale per tutti, a cominciare dal segretario, che anche per questo non ha voluto mettere se stesso al riparo di una regola. E con la stessa determinazione ripeto quel che ho già detto: la ruota girerà ma nel rispetto di tutti, di tutti quelli che ci hanno portati fin qui, di quelli che hanno avuto la forza di portarci in Europa e di immaginare e costruire quel nuovo partito dei riformisti che noi siamo oggi. I principi che ho richiamato e che riguardano il senso stesso della politica devono accomunarci tutti; tutti, comunque la pensiamo, se vogliamo che chi è lontano dalla politica o addirittura la disprezza abbia almeno il sospetto, il dubbio che una politica seria ed onesta possa esserci e che il Pd possa essere il barlume di speranza di quella politica.
La Stampa 10.9.12
Bersani , sfida per la premiership “Noi siamo pronti”
E avvisa Renzi: il garante dei giovani sono io
di Carlo Bertini
SUI GAY: «Nessuna ragione perché si neghi loro il diritto alle unioni civili»"
LA RIFORMA FISCALE. Il leader promette che la tassazione sarà spostata su evasione e rendite"
Finisce di parlare tutto sudato dopo aver detto chiaro e tondo che al Monti bis non si piegherà, «sono pronto a governare»; e prende in braccio Ambra, figlia di una ghanese ma nata in Italia; scende dal palco e i soli a cui stringe la mano sono i volontari della festa: i big non li ha fatti neanche sedere dietro di lui come da tradizione, rompendo così un tabù decennale. E se ne stanno lì un po’ imbarazzati dopo essere corsi da tutta Italia ad omaggiare il segretario. Se il linguaggio dei segni in politica ha valore, ecco le fotografie simbolo che Pierluigi Bersani, maniche di camicia e cravatta rosso fuoco, consegna alle tv. Per dare un senso ancora più compiuto al suo discorso di chiusura della festa del partito e di apertura della campagna per le primarie. Con un messaggio in controluce che suona così: se andrò al potere, il primo pensiero andrà ai più deboli, il secondo ai giovani. Da qui la road map dei primi cento giorni di un futuro governo e «i primi atti da premier: far diventare italiani i figli di immigrati che nascono e studiano qui, rendere ineleggibili corrotti e corruttori; destinare a lavoro, impresa e welfare ogni euro ripreso agli evasori».
Ma che non voglia lasciare a Renzi la palma del rinnovamento è evidente quando dice «mi faccio garante che una generazione nuova e sperimentata sarà la protagonista del governo del paese». Però subito dopo è costretto ad aggiungere quella postilla che sa di prezzo dovuto alle nomenklature che lo ascoltano attente: «La ruota girerà, ma nel rispetto di tutti quelli che ci hanno portato fin qui».
Con il suo sfidante, che non nomina mai, nemmeno una volta nelle venti pagine e nell’ora e mezzo del suo discorso, il dialogo è lo stesso serrato anche se a distanza: «Prima c’è l’Italia, poi c’è il Pd e il suo progetto per l’Italia e poi le ambizioni personali». E ancora: «Qualità e merito li misuri in esperienze vere, la politica è generosità per l’interesse collettivo». Ma con lui un’altra cosa sembra avere in comune. La determinazione a non lasciare a Monti la bandiera di un nuovo governo. Lo dice la sera prima il sindaco di Firenze, «se vinco certo non lascio a Monti» e lo ripete Bersani, anche se la paura di un bis del professore toglie il sonno al vertice del Pd.
I toni per questo sono fiammeggianti con chi potrebbe togliere ossigeno ai partiti obbligandoli poi a larghe intese; «a muso duro contro gli imbonitori e i venditori di fumo» e contro «le forze antiche travestite di nuovo che tenteranno di tagliarci la strada. L’atmosfera si farà pesante e le acque si faranno torbide e ne abbiamo già chiari i segni, addirittura attorno al presidio più alto delle istituzioni, Giorgio Napolitano». E prova a rassicurare, «non passeranno, state certi che non passeranno». Fin dalle prime battute, usa l’artificio retorico di «una semplice e drammatica domanda» ai militanti assiepati sotto il palco: «siamo pronti a governare l’Italia, con i nostri valori di uguaglianza e di civismo e a prenderci questa responsabilità? » E loro «sììì». «O vogliamo scansarle? Se i riformisti si sottraessero oggi all’appuntamento più difficile, non avrebbero diritto ad averne altri». E giù applauso di conforto.
Ma dopo le carezze all’orgoglio, tanto per rendere chiaro chi decide i destini del paese, arriva la stoccata: quando attacca «la finanza che deve pagare un po’ di quel che ha provocato, non deve avere più licenza di uccidere e deve mettersi al servizio dell’economia reale». E quando assicura «all’Europa e al mondo che davanti a mesi cruciali noi garantiremo la stabilità del governo Monti. E tuttavia parliamo senza ambiguità della prospettiva delle elezioni, sempre che Moody’s non ce le sostituisca con una consultazione tra banchieri. Tocca agli italiani decidere chi governerà, noi siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità». E se è assodato che «la credibilità e il rigore che Monti ha mostrato al mondo è un punto di non ritorno, noi vogliamo metterci dentro più lavoro, più uguaglianza, più diritti». Quindi strada sbarrata ai «mercati che vogliono forzarci a chiedere un aiuto di cui non conosciamo le condizioni» - e qui a molti devono esser fischiate le orecchie. Piuttosto si lanci «una fase costituente, una convenzione per un nuovo trattato europeo che rafforzi il processo unitario».
E pure se fa di tutto per parlare al paese, il messaggio ad un partito dilaniato da paure diffuse su cariche e poltrone, lo confina all’ultimo posto: quando spiega che le primarie devono servire «a discutere di Italia e non di noi, per quello ci sarà un congresso l’anno prossimo. E ora non ci sono bilancini, tribunali da allestire», insomma «a tentare di demolirci ci pensano gli altri, è il loro mestiere, non il nostro!».
Repubblica 10.9.12
Da D’Alema alla Bindi, tutti nel recinto ad ascoltare il segretario, manca solo Veltroni
I big finiscono sotto al palco né rottamati, né promossi nel limbo della nomenklatura
di Michele Smargiassi
REGGIO EMILIA — Anna Finocchiaro signorilmente si rinfresca con un ventaglio giallo e rosso. Beppe Fioroni non s’è tolto la cravatta ed è paonazzo. Livia Turco, giacca rossa sulle ginocchia, ha trovato uno strapuntino di fortuna dietro un traliccio. Rosi Bindi s’aggira con un sorriso ineffabile. Enrico Franceschini cerca un cono d’ombra. Piero Fassino segue il discorso immerso nel testo scritto.
Enrico Letta si appoggia alla transenna, tanto è alto e ci vede lo stesso. Massimo D’Alema sceglie di rimanere appartato in fondo, imperturbabile in pieno sole. E Walter Veltroni? Non c’è, non s’è visto, che l’abbia saputo in anticipo o meno è forse l’unico dirigente storico del Pd ad avere schivato l’imbarazzo di finire nel limbo della nomenklatura.
Il palco è tutto di Pierluigi Bersani. Non proprio tutto, veramente: ci sono una quarantina di sedie, ma sono stati ammessi ad occuparle solo i sindaci delle zone
terremotate e i volontari di questa Festa Democratica. Tutti gli altri, ex ministri, ex segretari, ex premier che siano, vengono fatti accomodare, muniti di un pass di serie B, nel varco che separa il palco dalle transenne del comizione finale. Un recinto, anzi un budello largo pochi metri, dove stanno in piedi, sotto il sole spietato dell’ultima vampa d’estate. Per la prima volta niente cremlini schierati dietro il segretario. Si fa fatica a non leggerci un simbolo. Sono tutti lì, non sono stati rottamati, ma neppure saliti all’altare: restano due ore in piedi, come tutti i mi-litanti, al loro livello, in una specie di limbo, appunto, che sembra lo specchio della condizione del ceto politico di questa Italia.
«Un partito senza padroni», lo qualifica Bersani al microfono. E senza casta, afferma la coreografia che ha scelto. Un partito, prima di tutto. «Bandiera? Cartello?», volontari distribuiscono, insistenti, centinaia di stendardi Pd. Il piazzale del campovolo ne è così saturo che uno speaker implora di lasciare almeno un corridoio visuale alle telecamere della diretta di YouDem.
Non è una dimostrazione di potenza. In realtà è uno dei comizi meno pre-organizzati della storia delle Feste del partito, i soldi per i pullman scarseggiano. È una affermazione di essenza. Significa che il Pd di Bersani si vuole mostrare come un partito che non si vergogna di esserlo, neanche sotto lo schiaffo dell’antipolitica. «Bersani, è passata la Lega, passerà anche Grillo», lo confortano. Partito, ma né proprietario né carismatico. Un partito di cui si definisce «garante», di cui vuole essere il candidato premier ma non il grande fratello. Infatti per cognome lo chiamano, come fra colleghi, anche se gli danno del tu, «ciao Bersani»: niente Beppe e neppure Matteo, anche i coretti sono «Ber-sa-ni Ber-sa-ni», forse Pier-lu-i-gi fa troppe sillabe, forse è un modo per dire che un partito è un progetto collettivo e non il fan-club di una star.
Eppure è la sua personale giornata, di Bersani. Chiaro come il sole che la sua corsa per le primarie comincia ora. «Bersani siamo di Firenze ma siamo qui», è detto tutto. Aleggia innominato lo sfidante Renzi che proprio qui a Reggio ha preso la sua buona dose di applausi. Ora è il turno degli altri. Volonterosi, decisi. Uno s’è dipinto la maglietta «Ragassi non siamo mica qui a pettinare le bambole», un gruppetto intona un coretto tifoso ad uso telecamere. Temono. «Con Bersani vinciamo tutti, con Renzi diventiamo il partito di una persona, come tutti gli altri». Ma rottamatori ce n’è pochi, in giro. «Bisogna rottamare le idee sbagliate, non le carte di identità», grida Angelo di Como. Gli dà manforte una da Ivrea: «Se quello là avesse rottamato Napolitano, ora stavamo come la Grecia». Jessica da Forlì scrive a spray il suo lenzuolo: «Bersani presidente lo vogliono la gggente», le frutterà un bacio del segretario.
Bersani day. Personalizzazione? Le primarie non possono evitarlo. Ma lui sembra aver capito che ai duelli politici, a differenza di quelli veri, si va senza padrini. Forse ha detto bene qualche ora prima Sergio Staino, il disegnatore papà di Bobo, che è il più identitario fra i simboli del Pd: «Guardate in faccia le persone prima di votarle». Bersani ieri ha promesso di cambiarle, le facce del Pd, intanto ha scelto di far salire sul palco solo la sua.
La Stampa 10.9.12
Lo sgambetto che allarma il Pd
di Federico Geremicca
Pier Luigi Bersani, dunque, teme che qualcuno immagini di poter sostituire le elezioni politiche di primavera con una qualche rapida «consultazione tra banchieri», suggerita - magari - da questa o quella agenzia di rating. Si tratta, naturalmente, di un iperbolico modo di dire per segnalare - però - una preoccupazione che, dal suo punto di vista, non può esser considerata infondata: e cioè, che le ripetute prese di posizione a favore della prosecuzione dell’esperienzaMonti, condizionino - o addirittura in qualche modo «falsino» - l’atteso pronunciamento popolare. Il leader Pd pensa, evidentemente, al sostegno che arriva al premier in carica da parte del mondo della finanza, di non poche cancellerie europee (e non solo europee) e - per ultimo - perfino da quel composito e rilevante spaccato di classe dirigente riunitosi per due giorni in quel di Cernobbio.
Si tratta, dicevamo, di una preoccupazione che - se si va alla sostanza di quel che Bersani intende dire non può esser liquidata con due battute: l’ipotesi di elezioni «inutili» - perché già deciso che a governare resterà comunque Mario Monti - non è un grande spot per la democrazia. Il punto, però, resta (e da mesi) sempre lo stesso: la via per spazzare il campo da simili timori è un recupero di credibilità, affidabilità e chiarezza progettuale da parte delle diverse forze politiche. Ora, dire che questo sia avvenuto - o stia avvenendo - è onestamente difficile. E, da questo punto di vista, la giornata di ieri è addirittura emblematica.
Infatti, a distanza di poche ore l’uno dall’altro, due dei tre leader della possibile alleanza data per favorita alle elezioni (e intendiamo Bersani, appunto, e Pier Ferdinando Casini) hanno illustrato ai propri elettori - e più in generale al Paese due prospettive di governo del tutto diverse: il leader Pd ha preannunciato (come fa da tempo) il ritorno della politica nella stanza dei bottoni; al contrario - fiutando in anticipo il vento e con una mossa un po’ a sorpresa Casini ha spiegato cosa vede dopo Monti: e cioè, di nuovo Monti. La novità - annunciata nel giorno in cui l’Udc si apre a una folta pattuglia di ministri del governo in carica - non è da poco: ed è foriera di fibrillazioni, naturalmente, soprattutto nel campo del centrosinistra.
Le ragioni sono evidenti. Intanto, va registrata un’accentuazione della già notevole - e perdurante - confusione: infatti, con chi governerebbero Bersani e Vendola (in caso di successo alle elezioni) se i moderati del nascente «listone centrista» annunciano fin da ora di essere in campo per un nuovo governo a guida Monti? L’interrogativo rischia di diventare cruciale. Non solo. Infatti, pur ammettendo che Casini cambi idea su quel che serve domani al Paese (e cioè un Monti bis) il nascente raggruppamento centrista - con adesioni che vanno dalla Marcegaglia alla Cisl, dalle Acli a Passera, Riccardi e un po’ di altri ministri - non sembra precisamente animato da «spirito gregario»: cioè pronto, dopo il voto, a far patti con la sinistra per incoronare Bersani presidente del Consiglio.
Dunque, mentre il leader Pd annuncia che «i riformisti sono pronti a governare», il più indispensabile e strategico dei suoi alleati (cioè Casini) fa sapere di vederla in altro modo: e questo alla fine di mesi durante i quali al Paese era parso che il patto riformisti-moderati fosse cosa fatta. Non è un bel segnale sul piano della chiarezza circa le cose da fare e le alleanze da stipulare, naturalmente. E non lo è nemmeno per quel «popolo di centrosinistra» incamminato verso primarie che rischiano - a questo punto - di incoronare un candidatopremier che premier potrebbe non diventarlo mai.
Forse è anche per questo che il leader Pd - ieri a Reggio Emilia - ha tenuto sostanzialmente sullo sfondo la vicenda che divide da settimane il partito (le primarie, appunto) limitando all’indispensabile la polemica con Matteo Renzi. Certo, ha chiesto al giovane sindaco di Firenze rispetto per i dirigenti più anziani, lealtà verso il partito e toni da forza che si candida a guidare il Paese: ma insomma, se il discorso di ieri era la sua apertura della campagna per le primarie, lo si può definire un discorso soft, e preoccupato soprattutto d’altro.
Del resto, Pier Luigi Bersani non ha mai nascosto di considerare le «secondarie» (cioè le elezioni) assai più importanti - come ovvio - delle primarie. Ecco: da ieri anche le «secondarie» si sono complicate, diventando più incerte e difficili. Non è una buona notizia, per i democratici. Soprattutto perché, al punto cui si era giunti, uno sgambetto così - da Pier Ferdinando Casini - forse non se l’aspettavano più...
La Stampa 10.9.12
Ma il Monti-bis agita Pd e Pdl
Bersani convinto che sia un tentativo per sbarrargli la strada verso Palazzo Chigi anche se vincerà le elezioni Il Cavaliere invece pensa che il leader Udc punti su Monti per avere maggiori possibilità di salire al Quirinale
di Amedeo La Mattina
Pd e Pdl, per motivi opposti, guardano con sospetto le mosse di Casini di volersi intestare la paternità della lista Italia per Monti. Bersani ci vede oggettivamente il tentativo di tagliargli la strada per Palazzo Chigi, relegando i Democratici senza Vendola al ruolo di ruota di scorta. In questo modo ribaltando l’accusa di Berlusconi che indica l’Udc al pubblico ludibrio dei moderati perchè si sarebbe «svenduto» al Pd, a cominciare dall’alleanza stretta in Sicilia. Ancora più velenoso il sospetto del Cavaliere (ma anche Bersani ci pensa) che Pier alla fine rivuole Monti premier per non farsi ostruire la strada che porta al Quirinale.
Veleni, interpretazioni che scorrono dentro una partita politica solo al fischio d’inizio e che ha al centro il tema di «Monti dopo Monti» posta con forza da Casini, oltre che da molti esponenti della finanza e dell’industria in Italia e in Europa. Per la verità a frenare molto su questa ipotesi (e nulla lascia credere che sia sincero) è lo stesso interessato, cioè il Professore della Bocconi, il quale ieri da Cernobbio al forum Ambrosetti, da dove il dibattito sul Monti-bis ha preso velocità, ha spiazzato tutti durante un dibattito a porte chiuse, raffreddando gli entusiasmi dei suoi fans. «Mi rifiuto di pensare che in un grande Paese democratico come l’Italia non si possa eleggere un leader che sia in grado di guidare il Paese». Messa così in effetti è un richiamo all’incapacità dei partiti di trovare una personalità in grado di svolgere con serietà ed efficacia la stessa azione dell’attuale governo. Soprattutto per quanto riguarda il rigore e gli impegni europei. Ovviamente il Pd risponde di sì, che c’è un leader e si chiama Bersani, e che deve essere scelto dagli italiani. E’ lo stesso leader dei Democratici ha ribadirlo con forza che «tocca agli italiani, solo agli italiani e a tutti gli italiani decidere chi governerà». Del resto, ricorda il sindaco di Torino Fassino, «per questo che si fanno le elezioni». Interviene pure Romano Prodi sull’argomento: la strada maestra è quella di un governo politico, mentre un nuovo governo presieduto da Monti può avere spazio solo in assenza di una vittoria elettorale tra le coalizioni in competizione.
Monti, del resto, si chiede come sia possibile che i partiti non abbiamo un leader da proporre al suo posto e considera il suo compito terminato nel 2013. Per la verità dice di più e si fa spigoloso quando ricorda che nel 2004, nonostante desiderasse rimanere a Bruxelles come commissario europeo, Berlusconi gli rispose che non poteva accontentarlo perchè l’Udc voleva mandare Buttiglione. Una stoccata che non fa demordere Casini: «Il Presidente del Consiglio ha detto che il suo orizzonte finisce nel 2013. Mi permetto di contraddirlo! ». Mentre più sfumata la posizione di Fini secondo il quale l’auspicio è che chiunque vinca le prossime elezioni non consideri il governo Monti una parentesi da archiviare, ma è «di solare verità che solo gli italiani decideranno con il voto chi dovrà governare e non c’é un altro momento per farlo».
Il Pdl coglie la palla al balzo. Osvaldo Napoli interpreta le parole del premier come l’indicazione della capacità degli italiani di eleggere il leader («Ora Casini faccia tesoro delle indicazioni di Monti»). Ma è il segretario del Popolo della libertà che mette il dito nella ferita, accusando Casini di voler aggiungere all’album dell’Udc nuove figure. Poi lo prende in contropiede: se qualcuno vuole ancora Monti alla guida del governo «dovrà trovarlo sulla scheda perché il sale della democrazia sta nel fatto che governa chi vince le elezioni». Altrimenti, aggiunge Alfano, «o si sospendono le prossime elezioni o dalle prossime elezioni non si potrà prescindere».
Corriere 10.9.12
E a sinistra si teme la Grande coalizione
di Maria Teresa Meli
Bersani non accetta l'aut aut «o agenda Monti o niente». È convinto che dall'azione del governo occorra partire, ma pensa che sia necessario «superarne i limiti sociali».
Nel partito la paura dell'«inciucio»: dietro il bis c'è l'idea di Grande coalizione
Il segretario: circoli imprenditoriali e finanziari contro il ritorno della politica
ROMA — Non è certo dell'attuale premier che Pier Luigi Bersani non si fida. «È un uomo leale», dice il segretario. Sono altre le sue preoccupazioni: «Ci sono circoli imprenditoriali e salotti finanziari che preferiscono che la politica sia screditata per fare quello che vogliono». È questo l'assillo del leader del Pd.
È questa, secondo lui, la strada che può portare al Monti bis. «Ma se le elezioni si dimostrassero inutili, per l'Italia sarebbe la paralisi», continua a ripetere ai suoi collaboratori. E Susanna Camusso gli dà manforte: «Non vorrei una sospensione della democrazia». Bersani non accetta l'aut aut «o agenda Monti o niente». È convinto che dall'azione del governo in carica occorra partire, ma pensa che sia necessario «superarne i limiti sociali». Ritiene di poterlo fare, anzi, ritiene che il Partito democratico possa farlo, perché i personalismi non gli piacciono, per questa ragione lancia questo monito al suo partito: «Nei momenti di crisi deve prevalere il nostro sforzo collettivo». Non è una chiamata alle armi, ma quasi.
Nel Pd sta prevalendo la convinzione che, anche se le elezioni consacrassero un vincitore, potrebbero esserci comunque molte — e diverse — pressioni per mandare l'attuale premier al ministero dell'Economia del governo che sarà. Bersani non dice di no. E nemmeno potrebbe. Ma per una fetta non indifferente del Pd questo potrebbe essere un problema. Basta sentire quello che dice Cesare Damiano per capirlo: «Il Pd deve correggere le riforme, come quella del mercato del lavoro e delle pensioni, che alla prova dei fatti hanno creato problemi sociali».
E Stefano Fassina è altrettanto determinato: «Noi cambieremo l'Agenda Monti perché così com'è non funziona». Che non vada bene nel Pd lo pensano in molti. Paola Concia, per esempio: «Monti dice che non dobbiamo ricorrere agli aiuti della Bce, però lui si fa aiutare a rimanere da mezzo mondo. Non va bene. Che questo sia da monito a tutti noi: facciamo proposte serie, all'altezza di quelle di Monti, e, se dio vuole, alternative».
A questo punto le primarie si legano inevitabilmente alla partita «Agenda Monti sì, agenda Monti no». Una parte del variegato arcipelago che sostiene il segretario ha paura del doppio turno. Teme che nella seconda tornata Bersani cerchi di prendere i voti del leader di Sel Nichi Vendola, spostandosi, inevitabilmente, a sinistra. Però tra chi sostiene il segretario ci sono personaggi come Piero Fassino: il sindaco di Torino è convinto che «chi governerà nella prossima legislatura dovrà dare continuità alla politica dell'attuale governo». Ma una simile posizione mal si concilia con il Vendola che per evitare le critiche della sua sinistra interna insegue Antonio Di Pietro sui referendum anti-Fornero. E in verità ha poco a che spartire anche con le posizioni di Damiano o Fassina.
Ma lasciando da parte questi problemi, nel Partito democratico si è insinuato un altro sospetto. Ovvero, che si dica Monti bis per dire un'altra cosa. Ecco cosa pensa, per esempio, Roberto Della Seta, senatore veltroniano: «Se il Monti bis vuol dire inciucio, grande coalizione, nessuna rottura con lo status quo, se, insomma, vuol dire Passera, no grazie».
Già, perché oltre le mosse di Monti, al Pd vengono monitorate quelle di Pier Ferdinando Casini. Che cosa vuole veramente il leader dell'Udc che dice di puntare a un Monti bis? Secondo alcuni vuole soltanto — grazie a una legge elettorale di stampo tedesco con un mini premio di maggioranza al primo partito — un «inciucio», che nulla ha a che fare con un governo affidato anche nella prossima legislatura all'attuale premier. Dice Beppe Fioroni: «Tutti parlano di Monti bis, soltanto per prendere voti che altrimenti non prenderebbero perché puntano a una grande coalizione anche nella prossima legislatura. Per cui il Monti bis vero c'è solo se il premier scende in campo».
Corriere 10.9.12
L'albo dei votanti (a pagamento) diventa un rebus
MILANO — (a. f. ) Il nodo più difficile da sciogliere resta soprattutto uno: fare o non fare l'Albo degli elettori del Pd. La proposta, avanzata da più parti come un modo per garantire la correttezza delle primarie, in realtà sta creando problemi alla dirigenza democratica. Perché non è poi così semplice riuscire a far registrare prima delle primarie (previste per il 25 novembre e eventualmente, in caso di ballottaggio, per il 2 dicembre) tutti gli elettori che vorranno esprimersi. L'Albo stile Usa, poi, prevederebbe anche il pagamento di una fee, una tassa di iscrizione... Nel Pd pensano che sia un meccanismo ancora troppo macchinoso da mettere in campo, visti anche i tempi stretti. E così prende sempre più corpo l'idea della tessera elettorale da acquisire all'atto del voto, registrandosi con il nome e cognome poco prima di esprimere la propria preferenza. Una soluzione che riuscirebbe a produrre anche una mailing list degli elettori del centrosinistra. E a evitare le «truppe cammellate». Per questo poi qualcuno avrebbe addirittura ventilato l'ipotesi di impedire a chi non si è espresso al primo turno di partecipare al ballottaggio. Cosa difficile da realizzare, ma sintomo dell'ansia che al ballottaggio non si esprimano i veri elettori del centrosinistra. E il tormento sulle «truppe cammellate» o su elettori «finti» affligge anche Bersani. Che ieri, nel suo discorso di chiusura della Festa democratica a Reggio Emilia, non a caso ha detto: «La destra faccia le sue primarie. O pensano di mandare i loro elettori alle nostre primarie?».
Repubblica 10.9.12
Con il segretario il 44% degli elettori di centrosinistra
Corsa alle primarie Bersani in testa Renzi è l’anti-casta
di roberto Biorcio e Fabio Bordignon
LE PRIMARIE annunciate dal Pd stanno assumendo un rilevanza molto superiore al passato: non è solo in gioco la leadership del centro-sinistra, ma anche il progetto di governo e la stessa identità del partito. Una gara sul cui esito pesano importanti incognite, anche se Bersani appare, per ora, in netto vantaggio sugli inseguitori. Sono d’altra parte significative le differenze rilevate dall’Atlante Politico di Demos nel profilo dei sostenitori dei tre principali candidati.
La disponibilità a votare per le primarie, dichiarata da metà degli intervistati, sale a due persone su tre se consideriamo l’area degli elettori del centro-sinistra (delimitata in base al perimetro dell’Unione del 2006). Tra questi, ben il 44% sceglie l’attuale segretario del Pd, seguito (da lontano) dall’avversario interno Matteo Renzi, al 28%. Nichi Vendola si ferma al 22%, mentre Bruno Tabacci, candidato dell’Api, raccoglie il 3%.
Bersani è nettamente in vantaggio tra gli attuali elettori del proprio partito (54%), ma il camper di Renzi cerca di attivare una mobilitazione sul territorio, “dal basso”, per raccogliere componenti diversificate (anche se, per certi versi, poco compatibili) di elettorato. Il sindaco di Firenze punta, da un lato, sull’insofferenza diffusa tra i cittadini, dall’altro sull’adesione alla cosiddetta “agenda Monti”. La retorica anti-casta gli permette di essere al primo posto nelle preferenze degli elettori dell’IdV, ma anche di ottenere molte simpatie nell’elettorato del M5S e tra i delusi del centro-sinistra (e del Pd) tentati dall’astensione oppure già passati ad altri partiti. Non a caso, tra gli intervistati disposti a votare per Renzi, è molto bassa la fiducia nei partiti, nel Parlamento e nell’Ue.
Il leader dei rottamatori si propone, al tempo stesso, come il più deciso sostenitore delle politiche di Monti, accentuando un approccio neoliberale in materia economica al fine di attrarre voti provenienti dal centro e persino da destra. Sebbene il consenso verso l’esperienza del governo tecnico sia trasversale, differenze importanti emergono, però, nelle valutazioni sui singoli provvedimenti dell’esecutivo. Gli elettori dei tre candidati concordano in ogni caso nel preferire, per la prossima legislatura, un governo (politico) della coalizione vincente.
Significative differenze emergono, poi, nel loro profilo sociale e culturale. Renzi e Vendola ottengono relativamente più consenso fra i giovani e tra gli uomini.
Un livello più elevato di istruzione favorisce il leader di Sel. Tra i sostenitori di Renzi, sono più numerosi i cattolici praticanti e le persone che si collocano a centro-sinistra, ma anche a destra oppure “fuori” rispetto al tradizionale asse ideologico. Gli elettori di Bersani si distribuiscono, invece, fra le posizioni di sinistra e centro-sinistra.
Anche se sono ancora in dubbio le “regole”, non solo delle primarie ma anche delle politiche 2013, la campagna che, di fatto, Renzi avvierà il 13 settembre sarà aspra e senza esclusione di colpi, con effetti molto importanti non solo sul Pd e sul centro-sinistra, ma sulla stessa trasformazione del sistema politico italiano.
l’Unità 10.9.12
Sondaggi
Il Pd stacca il Pdl Ma l’Italia è più frammentata
di Carlo Buttaroni
Bersani sembra riuscire a trattenere i possibili astensionisti, mentre Berlusconi va a caccia dei «disillusi»
Il Partito democratico consolida la sua posizione nei confronti del Pdl. Lo fa in termini politici prima ancora che elettorali, giocando il ruolo di playmaker rispetto alla configurazione delle prossime alleanze politiche. Che sia con il baricentro spostato a sinistra (con Sel e Idv) oppure orientato verso l’Udc e Casini, poco importa. Il Pd sta dimostrando di esserci. E di avere in questa fase molte carte da giocare. Le critiche, le divisioni, le polemiche interne, anche quando sono aspre, danno comunque l’idea di essere iscritte nello stesso perimetro, dove riescono a convivere posizioni anche molto distanti tra loro, qualche volta persino opposte. Il Partito democratico rappresenta, in questo momento, la principale polarità sulla scena politica. E, dopo molto tempo, nel centrosinistra si respira l’odore di avvicinamenti e confluenze anziché di scissioni o allontanamenti.
IL SOGGETTO RIFORMISTA
Più che come un partito tradizionale, in questo momento, il Pd è vissuto come una “scelta di campo”, rispetto alla quale le sole alternative sono rappresentate dalla galassia in dissolvenza del centrodestra, dall’astensionismo e dalla “grillo-ribellione”. L’immagine che Bersani ha dato al partito è quella di un’organizzazione distante da quella dei soci fondatori (ex Pci ed ex Dc) e assai vicina, nelle forme e nei modi, ai democratici americani. Il partito di Bersani non è un monolite da cui discendono le scelte, ma un luogo di confluenze, con una cifra politica di stampo riformista. L’incompiutezza di alcune scelte di fondo, che darebbero ai democratici italiani un’identità più definita e nitida, come quelle su temi etici, del lavoro e dello sviluppo, per adesso non costituiscono un limite. Sembrano soltanto rimandare a un’altra fase politica. Nel frattempo, il Pd ha comunque una sua atmosfera da offrire mentre, dall’altra parte, prevale la rarefazione.
Il prezzo che Bersani paga alla coabitazione forzata con il Pdl è ricompensato dal ruolo di crocevia di ciò che accadrà nei prossimi mesi. E l’appoggio a Monti non è visto come un allontanamento dalle aspirazioni fondanti, nonostante gli orientamenti, le scelte e le azioni del governo si collochino, spesso, assai lontano dai codici iscritti nel dna del Pd. Il sostegno al governo è visto, semmai, come una necessità contingente alla situazione specifica e Bersani è stato bravo nel contenere le inevitabili spinte cetrifughe rispetto alle scelte che ha dovuto compiere. Nell’opera di costruzione del nuovo Pd, Bersani è stato facilitato dal dissolvimento del centrodestra e dallo spegnimento della stella polare rappresentata da Silvio Berlusconi.
Per quasi vent’anni Berlusconi ha rappresentato l’unità di misura della politica italiana. Nel bene e nel male. Nel bene perché ha indubbiamente avviato una fase di trasformazione del sistema politico italiano dopo il terremoto tangentopoli. Nel male, perché la tessitura del nuovo è stata caratterizzata da una degenerazione che si è riflessa nelle forme espressive di un potere che ha trasferito la democrazia nel perimetro tecnologico dei media. Un regime spettacolare che ha cambiato il modo stesso di governare, mettendo, al posto della dialettica politica, nuovi apparati e procedure ispirate alle tecniche del marketing: alimentare i sogni trasformandoli in necessità e verità assolute, sostituire il ragionamento con le emozioni, sedurre anziché convincere. Un contagio che, in forme e modi diversi, ha infettato tutto e tutti, dando corpo a una rappresentazione pornografica della politica che si è via via popolata di personaggi improbabili, testimoni di un nuovo miracolo annunciato in maniera ipnotica dagli schermi televisivi. Oggi quel sogno si è rivelato un incubo: per i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici, che non hanno più la sicurezza del posto fisso; per gli studenti, che vivono l’ansia di un futuro incerto; per i disoccupati, la cui prospettiva di riscatto si è trasformata in rassegnazione. La delusione del sogno tradito non ha fatto, però, migrare masse di elettori da uno schieramento all’altro. Tant’è che la quota di quanti si collocano nel centrosinistra è di poco superiore a quella di coloro che si collocano nel campo opposto. Il dissolvimento del Pdl e l’eclissi della leadership di Berlusconi non hanno cambiato la collocazione politica degli italiani, ma soltanto modificato il rispecchiamento in termini elettorali.
L’AGO DELLA BILANCIA
Se si potesse tracciare una linea immaginaria che divida il Paese in due campi politici, la popolazione di una parte equivarrebbe all’incirca all’altra. È così, da moltissimi anni: tratto distintivo del nostro Paese. Ogni volta che ha vinto una coalizione sull’altra, le ragioni sono da rintracciare nella scelta delle alleanze e nella quota di astensione, elementi che hanno fatto spostare l’ago della bilancia quel tanto da cambiare il punto di ricaduta in termini istituzionali. Anche il vantaggio attuale del Pd sul Pdl, nelle intenzioni di voto, non nasce da un’espansione dei consensi vera e propria, quanto dalla capacità del partito di Bersani di offrire ragioni sufficienti ai sostenitori di centrosinistra per restare nel loro campo, e a non alimentare l’invaso degli incerti e dei potenziali astensionisti.
Intanto, proprio la riconquista degli elettori disillusi pare alla base della nuova strategia di Berlusconi. Lo si intuisce nella scelta di ricandidarsi come leader, rifondando il partito – e forse addirittura “liquidandolo” per dare corpo a un movimento leggero, senza una dirigenza politica vera e propria, ma con una leadership forte. Impossibile dire se questa possa essere la soluzione alla crisi del centrodestra. Non lo è sicuramente per il Paese, rinnovando soltanto l’incompiutezza di quelle riforme del sistema politico di cui si sente la necessità, e oltremodo necessarie per recuperare una good reputation da poter spendere in campo europeo.
L’anomalia di un sistema che, oggi, soffre l’assenza di alternative e di una reale dialettica politica, rappresenta, purtroppo, solo l’ennesima tappa della lunga transizione italiana verso una nuova normalità. E il rischio è che nemmeno le prossime elezioni rappresenteranno quel ritorno al futuro più volte annunciato.
Un pericolo, questo, che richiama i partiti all’urgenza di un rovesciamento di missione: far tornare la politica a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Perché anche quando parole come crisi e degenerazione, riferite al sistema politico, s’ispirano a un sentire collettivo, esse non segnano lo spartiacque di un abbandono, semmai il contrario, ossia la consapevolezza della necessità di un ritorno ai valori condivisi di un ethos civile.
Il tracciato di riforma del sistema politico non può che essere quello di dialogare con i mille rivoli in cui sono confluiti i grandi invasi politici del Novecento e che hanno dato corpo a nuove forme di partecipazione diffusa, dove il confronto delle idee e i processi di apprendimento collettivo ricoprono ancora un ruolo fondamentale nella costruzione
della rappresentanza sociale e una costante tessitura del loro significato politico.
Ciò che serve al Paese per uscire dall’infinita transizione politica non è un atto isolato, che conferisca un mandato al quale rispondere solo a tempo debito, ma l’attivazione di un processo in grado di attingere dalla ricchezza delle esperienze che vivono nei territori, capace di fecondare a sua volta, e immettere, in un circuito più ampio, saperi e pensieri condivisi.
La democrazia, oggi, ha ancora più bisogno dei partiti perché lacrisi impone di dare risposte forti alle domande che nascono dalle spinte inevitabilmente divergenti. E una democrazia che sceglie e decide può farlo solo se i partiti sono in grado di articolare, convogliare e orientare le istanze della società intorno a un progetto. Ma per farlo i partiti devono recuperare autorevolezza e credibilità, avere il coraggio di rompere i cerchi magici e rinnovarsi al loro interno, aprendosi a processi democratici reali. Il tempo sta per scadere e occorre che s’imponga la volontà e la determinazione di fare quelle scelte che il Paese non può più attendere.
Sondaggi Demos (per repubblica): qui
http://www.demos.it/a00753.php?ref=HREA-1
Repubblica 10.9.12
Il Paese sempre più indeciso promuove il Professore ma non il governo tecnico
Tre italiani su quattro si sentono più sicuri con l’euro
di Ilvo Diamanti
La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione per le scelte effettuate dall’esecutivo. Rispecchia la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali, e anche le preoccupazioni internazionali. C’è la convinzione che l’Europa abbia prodotto problemi
IL PRESIDENTE del Consiglio. Oltre metà dei cittadini (il 52%), infatti, valuta positivamente il governo. Una quota ancor più alta di elettori, il 55%, esprime fiducia personale nei suoi riguardi. Si tratta di un orientamento in evidente crescita, dopo un periodo di raffreddamento. Gli altri personaggi politici lo seguono a grande distanza. Soprattutto i leader di partito. Di maggioranza e di opposizione. Superati, non a caso, dai “tecnici” del governo Monti (Passera e Fornero). E da coloro che, come Montezemolo, non sono ancora “scesi in campo”, nonostante lo
promettano - oppure lo “minaccino” - da anni. Unica eccezione (insieme alla Bonino): il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di cui parleremo più avanti.
La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione verso le politiche del governo. Al contrario. Gran parte dei cittadini si dicono, infatti, contrari alle principali riforme avviate. Pensioni, IMU e mercato del lavoro, soprattutto. Si tratta, dunque, di un sentimento espresso “nonostante”. Rispecchia, cioè, la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali. Ma anche le preoccupazioni internazionali. Perché è convinzione diffusa che l’Unione Europea e l’Euro
abbiano prodotto molti problemi. Ma solo il 23% degli italiani pensa che fuori della UE le cose andrebbero meglio. Mentre una quota più ampia, ma comunque minoritaria, inferiore al 40%, ritiene che l’Euro comporti solo complicazioni. L’Euro e la UE, insomma, sollevano dubbi. Ma è largamente condivisa l’idea che “senza” l’Europa e la moneta europea i rischi per la tenuta del nostro sistema – economico e non solo – crescerebbero ancora. Monti appare il principale garante. Di fronte ai problemi europei. E alla debolezza della politica nazionale. La fiducia verso i partiti, d’altronde, resta al di sotto del 5%. Quella verso il Parlamento intorno al 10%. Le stime di voto riflettono questo clima di incertezza – e di “dipendenza” da Monti. Così si assiste alla tenuta e perfino a una certa ripresa dei partiti “montiani”: il PdL, il Pd e l’UdC. Il partito più “montiano” di tutti. Mentre il M5S scivola sotto al 15%. Un dato molto elevato. Ma la grande spinta conosciuta dopo le elezioni amministrative di maggio, per ora, sembra esaurita. Non solo per le polemiche di Favia (amplificate da “Piazzapulita”) contro la governance di Grillo e Casaleggio, che hanno avuto un impatto limitato sul sondaggio. Il fatto è che in questa fase di stagnazione politica l’unico polo condiviso è Monti. Che nega di volersi ricandidare, in futuro. Per cui mancano i bersagli contro cui rivolgere l’insoddisfazione. D’altronde, non frena solo il M5S: anche l’IdV, l’altra opposizione. Solo la Lega risale – di poco - la china, oltre il 5%. Così l’unico vero “orientamento” di voto che cresce veramente è, non a caso, il “dis-orientamento”. Che allarga i confini dell’area grigia del non-voto e dell’indecisione. Sopra il 45%. Quasi un elettore su due. La misura più ampia da quando viene realizzato l’Atlante Politico. Cioè, da quasi 10 anni.
D’altronde, non è chiaro quando e come si voterà. Con quale legge elettorale, con quali alleanze, con quali candidati. Se si riproponesse lo schema tradizionale, il centrosinistra prevarrebbe largamente. E, come ha sostenuto ieri Bersani a Reggio Emilia, “Deciderà il voto, non i banchieri”. Ma nel PD, come mostra l’Atlante Politico, c’è incertezza sulla coalizione con cui “andare al voto”. La maggioranza dei suoi elettori (51%) preferisce un’alleanza con le altre forze di Sinistra, a costo di sacrificare l’intesa con l’UdC. Al tempo stesso, però, (50%) rifiuta l’accordo con l’IdV. Le polemiche con Di Pietro, dunque, hanno lasciato un segno profondo. L’incertezza, nel PD, si estende alla leadership. Che gran parte degli elettori di centrosinistra – e ancor più del PD – vorrebbe scegliere attraverso le primarie. Il favorito - secondo il sondaggio di Demos - è Pier Luigi Bersani. Lo voterebbe oltre il 43% degli elettori di centrosinistra. Tuttavia, Matteo Renzi dispone di una base ampia. Quasi il 28%. Ma, soprattutto, ha un sostegno trasversale. Non a caso, dopo Monti, è il politico che attrae il maggior grado di simpatie. I suoi consensi, in caso di primarie, potrebbero crescere ulteriormente se la partecipazione andasse oltre i confini tradizionali dell’elettorato più vicino e convinto. Renzi, infatti, è particolarmente apprezzato dagli elettori “critici” e delusi del centrosinistra, oggi vicini al M5S, all’IdV oppure confluiti nell’area grigia dell’incertezza. A centrodestra c’è il problema opposto. Nel PdL, inventato da Berlusconi, non possono fare a meno di lui. Ma, al tempo stesso, non gli credono più come prima. Berlusconi. Oggi, fra gli italiani, ha toccato l’indice di fiducia più basso degli ultimi anni (meno del 20%). E solo 40 elettori del PdL su 100 (che scendono a 20 fra quelli di centrodestra) pensano che dovrebbe essere Lui il candidato premier alle prossime elezioni. Con lui o senza di lui, insomma: il centrodestra appare sperduto. Così gli italiani sembrano aver smarrito la fiducia nella politica. Ma anche nell’antipolitica. Tuttavia, non sono divenuti impolitici e indifferenti. Vorrebbero, anzi, che la politica riprendesse il ruolo che le spetta. Cioè: dare loro rappresentanza e governo. Esprimere una classe dirigente capace di guidarli - dentro e fuori il Paese. Non a caso la maggioranza degli italiani (52%) pensa che il prossimo governo dovrebbe essere espresso dalla “coalizione che ha vinto le elezioni” piuttosto che da “un nuovo governo tecnico” (39%) sostenuto dai principali partiti, come avviene ora.
Tuttavia, l’unico leader di cui gli italiani si fidino, oggi, è Monti. Comunque, diffidano molto più di Bersani e Berlusconi. Ma anche di Grillo e Di Pietro.
Così gli italiani – la maggioranza di essi, almeno - vuole un governo “politico”. A condizione che a guidarlo sia Monti. È come se la fiducia nella democrazia rappresentativa si scontrasse con la sfiducia nei confronti dei rappresentanti. Un corto circuito da cui sembra difficile uscire. A meno che Monti – contrariamente alle sue ripetute affermazioni – non decida, alla fine, di scendere in campo.
l’Unità 10.9.12
Lo spettro della «democrazia dispotica» tra di noi
I blocchi sociali e politici che hanno caratterizzato ampia parte del ‘900 sono venuti meno
Questi processi sono stati potenziati in Italia dal berlusconismo che è stato insieme effetto e concausa
di Michele Ciliberto
È molto importante l’iniziativa di Monti di promuovere un vertice europeo a Roma sul populismo.
Discutere di questo significa parlare sia del destino della democrazia, sia del futuro del nostro continente. È sbagliato infatti pensare che il populismo riguardi solo il nostro Paese, così come è stato un errore ritenere che il berlusconismo fosse un fatto solo italiano. Quella che è stata definita «democrazia dispotica» è infatti qualcosa che riguarda molti Paesi europei e una generale patologia della democrazia; non è, come qualcuno ha detto, la pura e semplice «autobiografia» della nazione italiana. Risiede qui il primo merito della iniziativa di Monti: spingere tutti ad uscire da una veduta provincialistica e a misurarsi con un fenomeno che sorge dal fondo della storia europea. Il secondo merito consiste nel costringere tutti a definire con precisione cosa si intenda per populismo. Le parole, infatti, quando vengono usate in modo generico e approssimativo perdono forza analitica, anzi servono a confondere le acque invece di
chiarirle. Da questo punto di vista ci sono alcuni elementi preliminari. Anzitutto è da tener presente che i blocchi sociali e politici che hanno caratterizzato ampia parte della storia del Novecento, compresa quella della cosiddetta prima Repubblica, sono venuti meno. Nel definire queste trasformazioni si sono impegnati sociologi (la società liquida) ma anche psicologi (la crisi della figura del padre, la caduta del principio di autorità), ma il «fatto» nella sua durezza è sotto gli occhi di tutti. Non esistono più blocchi sociali compatti che si esprimono, organicamente e in modo diretto, in partiti e in scelte politiche. Tanto meno vi sono organizzazioni politiche che siano nomenclature delle classi. Il che non significa che non esistano più classi o che non ci sia più lotta di classe. Ma come è cambiata la configurazione delle classi, così è mutato il rapporto tra economia e politica, e soprattutto è mutata la relazione tra dinamiche economico-sociali e rappresentanza politica. Questo credo sia il problema di fondo su cui occorre riflettere. Questi processi in Italia sono stati ampiamente rappresentati, e potenziati, dal berlusconismo, il quale è al tempo stesso un effetto e una concausa di questa situazione. Ma non si tratta di un fenomeno solo italiano; anche nelle periferie parigine, e in parti della classe operaia francese, ci sono state scomposizioni dei vecchi blocchi sociali, con forti spostamenti dei flussi elettorali da sinistra verso destra, evidenti nel successo del Fronte di Le Pen. In Italia questi processi si sono accompagnati alla fine della politica di massa, delle culture politiche dell’antifascismo, e all’imporsi sia di nuove modalità della lotta politica (il leaderismo) sia di nuovi e inediti modelli di relazioni con le parti sociali. Ciò ha comportato anche il consumarsi, nelle vecchie forme, del concetto di destra e di sinistra. È un fenomeno di vasta portata, anche sul piano strettamente ideologico e culturale . Alcuni giorni fa, Luigi Manconi in un articolo assai interessante, si è chiesto come sia possibile che un giornale che si proclama di sinistra diffonda una ideologia di destra. Credo che per capirlo sia necessario inserire questo singolare fenomeno nel contesto generale del populismo e delle molte configurazioni che esso è in grado di assumere. Se questo è infatti possibile è perché, oltre a coloro che fanno il giornale, sono cambiati soprattutto quelli che lo leggono. E questo cambiamento è stato possibile dal venire meno, e poi dal dissolversi anche a sinistra, dei criteri di un’analisi materiale della situazione e dei rapporti sociali e politici e dall’imporsi di un sistematico rovesciamento del rapporto tra apparenza e realtà. Si è persa la capacità di distinguere, cioè di capire. Sta qui una delle radici essenziali del populismo sul piano ideologico. Ne è conseguito un offuscamento nella capacità di comprendere, afferrare e contrastare la sostanza dei processi storici sia in Italia che a livello mondiale, con il diffondersi di un forte provincialismo sul piano politico e culturale. Soprattutto ne è conseguito, specie a sinistra, un progressivo ritirarsi verso impostazioni e prospettive di tipo moralistico, che, se da un lato possono garantire consenso, dall’altro sono del tutto impotenti come «strumenti» di trasformazione della realtà: si finisce, infatti, con il guardare alla realtà dal «buco della serratura». Esistono molte forme di populismo, ma esse hanno tutte alcuni elementi in comune: la critica, anzi il disprezzo, verso la democrazia rappresentativa e i suoi strumenti; il rigetto della mediazione e quindi della politica; l’identificazione dell’avversario con il nemico; la riduzione del lessico a puri insulti, su cui si è soffermato Carlo Galli in un recente articolo.
Per questo parlare del populismo significa affrontare il problema della democrazia e del suo destino; e per questo ha fatto bene Monti a proporre questo vertice. Se si vuole prospettare il futuro occorre sollevare lo sguardo ai grandi problemi e ricordarsi, ogni tanto, che c’è anche quella che si chiama «alta politica».
l’Unità 10.9.12
Razzismo e odii sociali minaccia per l’Europa
Estremisti in ascesa. L’Europa è bersaglio
Dopo l’appello di Monti viaggio nei populismi che agitano la Ue. E Alba Dorata cresce in Grecia
Dalla Francia all’Ungheria, dalla Romania alla Norvegia: il populismo aggressivo è in crescita elettorale
Come collante l’avversione all’Unione europea «colpevole di cancellare le tradizioni»
di Umberto De Giovannangeli
Monti aveva lanciato l’allarme: «Stiamo assistendo a un fenomeno di rigetto»
Presto a Roma un vertice per affrontare i problemi di questa allarmante ondata antieuropeista
Dall’Ungheria alla Norvegia fino alla Grecia: xenofobia e odio sociale minacciano l’Europa. Ad Atene Alba Dorata cresce nei sondaggi e dà la caccia agli immigrati. Intervista al leader socialista ungherese Mestherhàzi: c’è un furore nazionalista pericoloso.
Il loro collante politico è l’avversione all’«Europa dell’omologazione e degli affaristi». Il loro collante ideologico rispolvera ideologie e pratiche di un passato che non passa: l’odio verso gli immigrati, l’antisemitismo, la xenofobia. Cercano di cavalcare l’insicurezza sociale prodotta dalla crisi, indirizzandola contro i «palazzi del potere» che «affamano il popolo» e contro «gli scippatori di lavoro»: neri, asiatici, i «diversi» che vanno «rispediti a casa», con ogni mezzo. Il nemico viene individuato nelle classi politiche nazionali cosmopolite e liberiste «traditrici» dei valori tradizionali della nazione e l’Unione Europea, concepita come una creazione figlia della cultura che loro rifiutano.
Un populismo aggressivo, in crescita politica ed elettorale, che attraversa l’Europa da Nord a Sud, da Est a Ovest. In questo contesto, annota in un recente saggio Francesco Violi (Il Populismo in Europa e nell’Unione Europea), «l’Ue è un nemico da abbattere, il ladro della sovranità violata, colei che vuole annacquare, omologare o cancellare le tradizioni e le culture differenti, colei che vuole rubare ai popoli la loro sovranità col placet dei burocrati e delle classi dirigenti decadenti e corrotte, colei che fa l’interesse dei grandi multinazionali e delle grandi lobby finanziarie contro il benessere della gente comune...». L’euroscetticismo è il terreno su cui il populismo nazionalista e dichiaratamente di destra incontra quello di movimenti e partiti «nuovi», adeologici». A sottolinearne la pericolosità è stato recentemente Mario Monti.
In Europa si sta diffondendo un «pericoloso fenomeno» con «populismi che mirano alla disgregazione» nei diversi Stati membri. È l’allarme lanciato, l’altro ieri, dal premier italiano dopo il bilaterale con il presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy a Cernobbio. «Siamo in una fase pericolosa» perché «in Europa c’e molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare e sono molto lieto che il presidente Van Rompuy abbia colto la mia idea di un vertice ad hoc», in cui si parli del fenomeno di «rigetto a cui stiamo assitendo», ha aggiunto Monti. «Ho proposto al presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, che la riunione straordinaria» per affrontare i populismi e l’antieuropeismo «abbia luogo a Roma, in Campidoglio» dove fu firmato il Trattato europeo, ha concluso il Professore.
MAPPA
Per contrastare un fenomeno in preoccupante crescita, occorre analizzarlo, conoscerlo, radiografarlo. L’Unità ha dedicato a questo complesso tema un documentato articolo di Paolo Soldini. Ritornare sull’argomento è utile per comprenderne innazitutto il radicamento. Tra i pionieri dell’euroscetticismo, c’è il francese Front National (Fn) guidato da Marine Le Pen. Legato alla Destra sociale, nazionalista e con chiare derive xenofobe, il Fn negli anni si è liberato dalle sue tendenze più estremiste guadagnando terreno tra giovani e operai fino alle presidenziali dello scorso aprile, quando la Le Pen ha ottenuto il 18% dei voti, piazzandosi al terzo posto dopo Hollande e Sarkozy e facendo scattare l’allarme a Bruxelles, preoccupata dalla «minaccia populista» portata avanti in Francia e non solo. Una minaccia che, infatti, si estende a macchia di leopardo in tutta Europa e che in Ungheria è il segno distintivo del partito al governo, Fidesz, e del premier Viktor Orban. Nei suoi confronti l’Ue ha aperto una procedura di infrazione per leggi giudicate in contrasto con i trattati europei nel campo dell’indipendenza della Banca centrale, della giustizia e dei media, certificando la deriva autoritaria di un premier che più volte si è scagliato contro l’euro e l’Ue.
Tra i partiti populisti di destra estrema, attualmente presenrti al Parlamento europeo e nel proprio Parlamento nazionale che portano avanti questi «valori», ci sono: Diritto e Giustizia in Polonia, l’Ataka Attacco Unione Nazionale in Bulgaria, Jobbik Movimento per una Ungheria Migliore, il Partito della Grande Romania, il Partito Nazionale Britannico, Alba Dorata in Grecia, il Partito Nazionale Slovacco. A questi si uniscono movimenti europei che si muovono in una ottica antistatalista e antiomologazione europea, senza raggiungere l’estremismo ideologico della destra radicale: tra questi, il Partito della Libertà in Olanda, in Austria il Partito della Libertà e la Lega per il futuro dell’Austria entrambi creazione del defunto Jörg Haider. Si va dal partito irlandese Libertas, che ha guidato il voto contrario al referendum sul Trattato di Lisbona in Irlanda nel 2008, allo Ukip nel Regno Unito, un partito che ha al centro del suo programma politico l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Nella realtà scandinava troviamo il Partito del Popolo Danese, i Democratici Svedesi, i Veri Finlandesi e il Partito del Progresso in Norvegia, di cui è stato membro Breivik, l’autore del massacro di Utoya. «L’unica forma di europeismo che unisce alcune di queste forze riflette ancora Violi è l’europeismo alla Breivik. l’europeismo dell’odio, l’europeismo del “noi, società aperta e libera” contro loro, “chiusi e pericolosi”., l’europeismo del bene contro il male. Una visione inconciliabile contro una visione universalistica dell’umanità, come vuol essere la propsta federalista»
L’ESCALATION
Non siamo di fronte solo a movimenti marginali. Dal 2008 ad oggi gli anni della crisi più dirompente il Fn francese ha ottenuto il 18% alle presidenziali dell’aprile scorso. Nello stesso periodo in Belgio, nonostante il protrarsi della crisi di governo, l’Alleanza Libera Fiamminga continuava a mietere consensi nei sondaggi. In Svezia, per la prima volta i Democratici Svede\si riuscivano ad entrare in Parlamento, in Finlandia i Veri Finlandesi di Timo Soini ottenevano il 19% risultando il 3° partito più votato e scavalcando il Partito di centro. In Ungheria, lo Jobbik otteneva il 16,6% ed è il terzo partito. In Olanda, a 4 giorni dalle elezioni anticipate, sembra invece aver perso colpi l’euroscettico Partito per la libertà, guidato da quel Geert Wilders che nel 2010 conquistò gli olandesi con le sue crociate anti-immigrati. Dopo aver staccato la spina al governo conservatore di Mark Rutte, Wilders ora ha trasformato l’appuntamento al voto in un referendum sull’Europa, reclamando perfino il ritorno al fiorino.
l’Unità 10.9.12
Raid e crisi. L’alba «nera» della Grecia
Il partito di estrema destra cresce ancora nei sondaggi e i suoi deputati si rendono protagonisti di pestaggi contro gli immigrati
La situazione è esplosiva, tra disoccupazione e guerra tra i poveri
di Teodoro Andreadis
La tensione continua a crescere, con conseguenze che, purtroppo, nessuno è in grado di prevedere. «Alba Dorata» continua a mostrare il suo vero volto, fatto di odio e razzismo senza limite: a ventiquattro ore di distanza, si sono succedute due aggressioni contro venditori ambulanti, che cercavano di sbarcare il lunario, in una situazione sempre più difficile.
La prima, a Rafina, a circa trenta chilometri di distanza da Atene, nel corso di della festa organizzata dalla parrocchia locale, in onore della Madonna. Un militante del partito neonazista, ha da prima, fingendosi poliziotto chiesto i documenti a un immigrato proprietario di un piccolo stand. Subito dopo ha chiamato una decina di complici, sempre membri di Chrysi Avghì («Alba Dorata»), che hanno distrutto tutta la merce degli immigrati.
Al raid hanno preso parte anche due deputati del partito, Yorgos Ghermenìs e Panayotis Iliopoulos, che si sono affrettati a dichiarare: «Abbiamo fatto il nostro dovere». Stessa scena, a ventiquattrore di distanza, in un mercato per le vie di Missolungi, nella Grecia occidentale: con a capo un altro deputato, Kostas Varvarousis, militanti della stessa formazione politica di estrema destra, hanno preso di mira i banchi che a loro avviso «non erano in regola», appartenenti a piccoli commercianti stranieri. In una nuova esplosione di violenza, li hanno distrutti, buttando a terra tutta la merce. Le immagini delle aggressioni razziste hanno fatto il giro del mondo, portando di nuovo alla ribalta la fortissima tensione sociale che caratterizza la Grecia ai giorni della crisi, e le incredibili isterie neonaziste a cui può condurre. La polizia ha reso noto che è stata aperta un’ indagine, e alcuni commentatori riferiscono della possibilità che venga chiesta l’espulsione dal parlamento dei deputati che hanno preso parte ai raid. Una mossa che al momento, tuttavia, appare alquanto improbabile.
La disoccupazione prevista, per l’anno prossimo, in Grecia, sfiora il 35%. La recessione potrebbe superare il 12%, e il governo si prepara ad annunciare il nuovo pacchetto di tagli da almeno undici miliardi e mezzo di euro. In questa situazione mai vista prima in tempo di pace, il partito del generale in pensione Yorgos Michaloliakos, con un simbolo che ricorda moltissimo la croce uncinata cerca di avvantaggiarsi in ogni modo dalla crisi che attanaglia il paese. Gli iscritti distribuiscono viveri nelle piazze delle città, «ma solo per i greci», il portavoce, Ilias Kassidiaris, in piena campagna elettorale, ha aggredito la deputata comunista Liana Kanelli, altri parlamentari vanno nelle zone degradate di Atene, insistendo per accompagnare gli anziani a riscuotere la pensione. E ci si scaglia contro gli extracomunitari che capitano a tiro.
Un incubo, dovuto, in gran parte, alle feroci politiche di austerità, imposte dalla Troika, ed, in primis, dal Fondo Monetario Internazionale. Chrysì Avghì, pesca tra la disperazione della gente, parla di “patria”, “dignità”, “sicurezza”, a chi non ha più nulla in cui sperare, nulla da perdere. E nei sondaggi, continua a salire: secondo una delle ultime rilevazioni demoscopiche, dal 6,9% delle elezioni di giugno, questo partito xenofobo e violento, sarebbe riuscito ad arrivare al 9,5%, diventando, al momento, la terza forza politica del Paese. Alcuni analisti aggiungono che rilevazioni non ancora pubblicate, darebbero percentuali ancora più alte, vicine al 12%.
Il ministro degli interni, Nikos Dendias, ha ripetuto più volte che «non verranno tollerate ronde d’assalto e che qualunque fenomeno di questo tipo, sarà disintegrato». Ma il portavoce dei rondisti, Kassidiaris, sprezzante, gli ha risposto: «Ogni volta che il ministro prende la parola per occuparsi di noi, guadagniamo un punto percentuale nei sondaggi».
PERICOLO DI CORTO CIRCUITO
Gli eurocomunisti di Syriza -principale partito di opposizione denunciano “il tentativo di imporre un clima da terrorismo fascista” e chiedono al governo di intervenire con assoluta decisione. Ma il pericolo del corto circuito, è fortissimo: la polizia, che in una sua buona percentuale (forse anche del 40%) appena tre mesi fa, ha votato questo partito, rischia, ora, di essere neutralizzata dal mix esplosivo di populismo e violenza di «Alba Dorata». Gli aiuti in generi alimentari e medicine e la retorica contro «i politici ladri e corrotti», adottata da tutti i membri di questa formazione razzista, hanno creato una realtà non facile da contrastare. E più passa il tempo, peggio è.
Una delle possibili soluzioni, potrebbe essere ordinare lo scioglimento del partito, per incompatibilità coi principi costituzionali? Un interrogativo a cui la Grecia sta cercando, disperatamente, delle risposte. Per non permettere a questi individui, di dividere definitivamente il paese tra greci poveri e immigrati poverissimi. Anche perché, come osservano molti in Rete, i responsabili dei raid, si guardano bene dal prendersela con il racket della prostituzione e dei locali notturni, saldamente in mano alla mafia russa ed ai greci del Ponto. Si è violenti e arroganti, come sempre, solo con i deboli.
l’Unità 10.9.12
Attila Mestherhàzi
Ha 38 anni, leader del Mszp, il Partito socialista ungherese. Per la sua opposizione al regime di Viktor Orbàn è finito anche in carcere
Viene instillato un furore nazionalista. L’attacco principale è al concetto di Unione europea
Hanno cominciato l’opera di destrutturazione delle coscienze tagliando i fondi alla cultura e alla scuola
«Qui in Ungheria il populismo è diventato dittatura»
di U.D.G.
ROMA «Bene ha fatto il premier italiano Mario Monti a mettere in guardia sul rischio dei populismi in Europa. Da questo punto di vista, l’Ungheria rappresenta un osservatorio tristemente privilegiato. Perché nel mio Paese, il populismo si sta facendo dittatura. Una dittatura istituzionalizzata». A denunciarlo è Attila Mestherhàzi, 38 anni, leader del Partito socialista ungherese (Mszp). Per la sua opposizione al «governo-regime» di Viktor Orbàn, Mesterhazy ha conosciuto il carcere. A l’Unità, il segretario del Mszp racconta cosa sia un populismo che si fa regime: «Ogni misura presa da Orbàn dice è ispirata da una logica autarchica che non guarda al futuro ma trova radice e ispirazione in un passato oscuro, funesto, segnato da una politica liberticida, in ogni campo: dai diritti civili a quelli sociali». Quanto a l’idea di democrazia che ispira Orbàn, Mesterhazy ricorda le amicizie personali e i modelli a cui l’uomo forte dell’Ungheria si ispira: «Putin e Berlusconi».
Come definire il populismo di cui Orbàn e il suo partito Fidesz espressione? «Una dittatura istituzionalizzata. Per la quale le libertà, in campo politico, culturale, dell’informazione, sono concepite come una minaccia da neutralizzare. Non c’è un atto legislativo, non c’è provvedimento preso da Orbàn che non vada in questa direzione. I fondi alla cultura sono stati ridotti ai minimi termini, le università dimezzate. Quella ungherese è una situazione particolarmente unica, con una coalizione di centrodestra che ha più di due terzi del Parlamento. Non hanno bisogno di negoziare alcunché con l’opposizione. Possono cambiare la Costituzione, cancellare o stravolgere tutte le leggi precedenti. Non è solo una questione numerica. Il fatto è che la loro linea politica non prevede il dialogo. Non c’è alcun tipo di scambio, di confronto. Nulla. Solo l’imposizione.
È una pratica che riguarda solo il rapporto con le forze politiche e parlamentari di opposizione?
«No, la stessa cosa avviene nella società. Questo è un governo che non dialoga con le forze della società civile: l’associazionismo, i sindacati, le organizzazioni non governative. Non solo il loro populismo emerge sempre più minaccioso. Ciò che emerge è anche l’estremismo e la radicalizzazione delle opposizioni. Non c’è più una linea di demarcazione tra quello che è un partito di centrodestra quale tradizionalmente dovrebbe essere Fidesz (il partito di Orbàn, ndr) e quello che è l’estremismo di destra di un partito quale Jobbik, un partito che ha posizioni marcatamente fasciste».
In questo contesto, cosa rappresenta l’Europa per i populisti al potere in Ungheria?
«L’Europa è concepita, vissuta come una minaccia da combattere. L’Europa come nemica e non come opportunità di crescita. Cosa pensi dell’Europa, Orbàn lo ha chiarito in un recente discorso in Parlamento: “Noi non crediamo nell’Unione europea, crediamo nell’Ungheria...”, esaltando un deteriore populismo nazionalista. Un populismo che i progressisti europei devono contrastare con una strategia comune, facendo vivere una idea di Europa che offre un futuro alle giovani generazioni, che dimostra come sia possibile coniugare crescita e giustizia sociale. Una Europa inclusiva, laddove i populisti tendono ad escludere, emarginare. Guardo al mio Paese e dico che possiamo vincere il populismo che si fa dittatura solo se non saremo lasciati soli». Qual è l’ideologia che sottende le politiche dei populisti ungheresi?
«È una ideologia che ricorda, riprende la retorica fascista. Dio e Patria, l’orgoglio della nazione magiara, lo Stato definito nella sua essenza nazionale, etnica, non più come Repubblica, meno poteri alla Consulta, più poteri dell’esecutivo su magistratura e media. È un ritorno al passato. Inquietante, anche perché questo “modello” può divenire un punto di riferimento per i partiti e i movimenti populisti antieuropei che si stanno radicando nell’Est europeo ed oltre ad esso».
«Non crediamo all’Europa, crediamo all’Ungheria», insiste Orbàn.
«Se c’è una lezione che si deve trarre dalla crisi in Europa è che nessun Paese, neanche il più forte, può farcela da solo. Non può riuscirci la Germania, figuriamoci l’Ungheria...Orbàn lo sa bene, ma cinicamente preferisce cavalcare il più becero nazionalismo: gli ungheresi contro tutti. A pagarne il prezzo sono le classi lavoratrici, le fasce sociali più deboli, le giovani generazioni: i populisti evocano il popolo ma poi, nel concreto, finiscono per favorire ristrette oligarghie economiche».
Cosa contrappore a tutto ciò?
«I valori di solidarietà, giustizia, equità , inclusione che vanno tradotti in politiche europee. È questa la grande sfida dei progressisti europei. Una sfida di cui noi socialisti ungheresi ci sentiamo parte».
Corriere 10.9.12
«Ma se non si rilancia l'occupazione i populismi avranno gioco facile»
di Giuseppe Sarcina
CERNOBBIO — I pregiudizi, i luoghi comuni che riaffiorano in Europa (Paesi del Nord contro quelli del Sud, i nuovi arrivati dell'Est contro i fondatori e così via) «possono essere riassorbiti dai governi». Ma «se non si mette la disoccupazione al primo posto, il populismo guadagnerà sempre più spazio». Peter Diamond, 72 anni, nato a New York, ha vinto il premio Nobel per l'economia nel 2010 per i suoi studi sul mercato del lavoro. È professore al Mit di Boston. Invitato al seminario Ambrosetti di Cernobbio per parlare di pensioni e flessibilità, Diamond accetta di commentare il tema sollevato da Mario Monti: attenzione l'Europa è pericolosamente solcata da «fenomeni di rigetto».
Qual è la radice della nuova ondata di euroscetticismo? Gli effetti della crisi economica? L'incomunicabilità della politica?
«Non ho dubbi che il problema numero uno si chiami disoccupazione. Lo sappiamo tutti: le percentuali di senza lavoro sono spaventose, specie tra i giovani, perché in alcuni casi arrivano fino a un incredibile 50% e specie in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia. Le cifre, però, non dicono tutto. In Europa si sta vivendo in un clima di scoraggiamento, di depressione psicologica prima ancora che economica».
Depressione con manifestazioni piuttosto aggressive, visto che in Paesi come Olanda, Finlandia e Germania sono spuntati partiti politici che chiedono il voto riesumando luoghi comuni di quarta categoria: «i greci sono pigri», «gli spagnoli spendaccioni», «gli italiani inaffidabili» e così via.
«Sì ma i partiti di governo e le istituzioni comunitarie sarebbero nelle condizioni di riassorbire queste spinte. Ora il problema centrale è che l'Unione Europea deve essere in grado di preservare e, se è il caso, incentivare la mobilità dei lavoratori da un Paese all'altro. Negli Stati Uniti i cittadini si spostano senza ostacoli in cerca di un impiego. Nello stesso tempo voi europei dovreste abbandonare la strategia adottata quando è scoppiata la crisi del debito. Il caso della Grecia è esemplare. Non si aiuta un Paese gettandolo sul lastrico e nella disperazione. Che aiuto è?».
Conosce la risposta: gli investitori internazionali, e non solo la Germania, non sono più disposti a finanziare un debito abnorme e non rimborsabile.
«D'accordo, ma dobbiamo distinguere. Non è tutta l'Europa che sta danzando sulla crisi del debito pubblico, ma solo alcuni Paesi, tra i quali l'Italia. Penso che se vogliamo uscire da questa situazione non ci sia che l'arma fiscale, il fiscal gun. Voglio dire occorrono investimenti pubblici di tipo classico, cioè le infrastrutture, o più inediti, come l'innovazione. È chiaro che Grecia, Italia, Spagna e Portogallo devono seguire una politica di rigore. Ma non può essere solo di tagli, altrimenti il peso del debito continuerà a salire a fronte di una ricchezza in diminuzione. Bisogna trovare un punto di equilibrio diverso da quello attuale. Non contesto il rigore finanziario. Il problema è quanto deve essere ampio. Mi pare che il piano anti-spread di Mario Draghi (acquisto dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, ndr) possa essere visto come un'inversione di tendenza. È quella la direzione giusta».
Servirebbero anche le riforme, no?
«Certo. Due su tutte: mercato del lavoro e pensioni. Sul piano europeo è necessario un coordinamento tra i diversi sistemi, che non devono essere per forza uguali. Poi, certo, alcuni Paesi avrebbero bisogno di correzioni incisive. Se facciamo l'esempio dell'Italia osservo che ci sono ancora spazi di miglioramento sulla previdenza. Mentre sul mercato del lavoro il governo Monti si è mosso nella giusta direzione e non lo dico perché sono un buon amico di Elsa Fornero».
Corriere 10.9.12
Europa solidale con giovani e poveri per evitare il pericolo populista
di Maurizio Ferrera
Qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea organizzò un seminario a porte chiuse sulla dimensione sociale e la legittimità democratica dell'Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano un'allarmante crescita dell'insicurezza economica e del disagio sociale dei cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità dell'Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già iniziata. Nel mezzo della discussione, un esponente di primo piano della Commissione prese la parola e disse: conosciamo bene questi dati, siamo noi che finanziamo i sondaggi. Ma l'Ue sta facendo le cose giuste, «sono i cittadini che hanno torto».
Questo episodio la dice lunga sulla scarsa sensibilità (ma forse si tratta di una impreparazione culturale) delle tecnocrazie europee a misurarsi con il tema del consenso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la crisi dell'euro si è ormai trasformata in una crisi di legittimità dell'Unione Europea. Populismi di destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi storici: l'ondata non ha investito solo la «viziosa» Grecia, ma anche la «virtuosa» Olanda ed è pronta a colpire nelle prime elezioni utili molti altri Paesi, compreso il nostro.
I politici nazionali hanno anch'essi giocato un ruolo di primo piano nell'attizzare il fuoco populista. Per anni hanno scaricato il biasimo per le riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni) su Bruxelles e Francoforte. Quante volte abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l'Europa? Per un po' il gioco è riuscito, ha effettivamente attutito l'opposizione di elettorati recalcitranti al cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso un'Unione presentata sempre più come un «cane da guardia», quasi una maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad arrivare, ma il «cane da guardia» Ue continua a chiedere sacrifici ai «viziosi» e ora vorrebbe anche costringere i «virtuosi» a pagare di più. Come stupirci se in queste condizioni il mercato politico ha aperto nuovi spazi alla propaganda antieuropea, a Sud come a Nord? Se la tendenza continua, rischiano di venir meno le stesse condizioni di possibilità politico-sociale del progetto di integrazione.
Che a Cernobbio Monti e Van Rompuy abbiamo riconosciuto il problema e la necessità di reagire è, finalmente, un segnale positivo, un primo atto di etica della responsabilità (politica) esercitato a favore dell'Ue in quanto tale. L'importante è che il sassolino lanciato produca una svolta non solo sincera e condivisa da tutti i leader, ma anche concreta nelle sue proposte d'azione. Il messaggio da elaborare e comunicare non è quello «contro» i populismi, ma «per» una Ue più amica e sensibile ai bisogni dei cittadini.
Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un «sociale» che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca, servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali. Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce. Pensiamo alla Youth Guarantee, ossia l'obbligo da parte di ogni governo di offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola. Oppure all'idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche considerare la proposta di un vero e proprio Social Investment Pact: incentivi e penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via. Difendere l'euro e far ripartire la crescita restano, beninteso, obiettivi imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l'impegno su fronti che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli europei. L'iniziativa di Monti avrà successo nella misura in cui riuscirà a far emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano pratico.
PS. Anche su questo terreno, per essere credibili bisogna fare i compiti a casa. L'Italia ha un tasso di povertà (soprattutto fra i minori) molto elevato e il Programma nazionale di riforma 2012 non contiene nessuna misura seria per rispettare i target Ue. Sarebbe un vero peccato se il governo Monti non lasciasse in eredità un Piano per l'inclusione sociale degno del nome e articolato in base alle indicazioni europee, come hanno già fatto ventuno Paesi membri su ventisette.
Repubblica 10.9.12
La buona politica contro i populismi
di Carlo Galli
UNO spettro si aggira per l’Europa: i populismi. Che sembrano tanto più motivati quanto più l’euro, grazie soprattutto a Draghi, supera faticosamente le sue debolezze, con strumenti non automatici, ma certi e illimitati.
E tuttavia non gratuiti, ma anzi condizionati. Quelle condizioni, poste dalla Bce, non saranno più solo dolorosi tagli ai bilanci degli Stati, ma — lo ha spiegato ieri Scalfari — ci saranno, e saranno cogenti, in tutti i casi in cui si ricorra allo scudo anti-spread. Quindi o per auto-disciplina o per obbedienza alla troika, la linea per la ripresa, per lo sviluppo, dovrà passare attraverso politiche di riforma economica e sociale, e anche di mentalità. Politiche che hanno costi sociali oggi mal distribuiti, poiché gravano in gran parte sul lavoro dipendente.
Tutto ciò ha in sé una necessità non metafisica ma contingente, storica. Nel senso che non ci sono forze, interessi, energie, orizzonti, in grado di opporsi credibilmente al disegno dell’euro, e anche nel senso che l’euro, politicamente rafforzato e divenuto moneta politica di un’entità politica (l’Europa federale), è la migliore risposta, presente oggi sul campo, all’instabilità intrinseca dell’economia globalizzata. Insomma, l’euro non è una prospettiva solo tecnica, come è stata presentata finora da una politica che ha paura delle proprie responsabilità, al punto che ha affidato il lavoro duro a un tecnico come Monti, ma anzi è una risorsa politica, o politicizzabile. L’euro può permettere all’Europa — se la Germania cesserà di essere l’Amleto del continente, come è stata, a volte, anche in passato — di costituirsi come “differenza” sulla scena del mondo; di gestire l’economia con attenzione politica allo sviluppo sociale — di realizzare il “modello europeo”, appunto. L’errore che si fa spesso al riguardo è duplice: non solo di fare dell’euro un espediente tecnico-finanziario, ma anche di non valutare appieno le conseguenze dei suoi costi sociali attuali. Un costo che in Italia (per colpa di molti anni perduti nella fase berlusconiana della nostra politica) nessuno, per non dispiacere al proprio elettorato, si era mai premurato di spalmare nel tempo, e che è stato fatto pagare al sistema economico e ai cittadini quasi tutto a partire dal 2011 (negli ultimi mesi del governo Berlusconi e nel governo Monti). Quei due errori uniti hanno fatto sì che il disagio sociale reso acuto dalle inadempienze della politica, abbia preso, in parecchi Stati europei, la forma di una protesta politica del popolo contro i politici asserviti ai tecnici: una protesta, cioè, che ha le forme del populismo e dell’antipolitica, ma che è a tutti gli effetti politica. Cattiva politica, pessima politica. E non solo perché è estremistica, antisistema, e tendenzialmente violenta, almeno nelle sue espressioni verbali; ma perché è del tutto ineffettuale, perché non ha alcuna chance di essere “azione”, ma è solo protesta ipersemplificata — com’è tipico dei populismi —, e rivolta contro un nemico di volta in volta inventato ad hoc.
Monti ha visto bene il problema, invocando un vertice europeo contro le forze anti Ue. Se alla politica europea manca la grande decisione democratica — il che la fa essere timida, incerta, e la porta a nascondersi dietro la tecnica, e a non vedere che il disagio sociale è anch’esso una questione politica —, al populismo manca necessariamente la percezione della complessità del momento storico; anzi, contro la complessità si scaglia, e la semplifica mettendoci sopra un nome, una faccia del Nemico: prima l’immigrato (preferibilmente islamico), poi la Casta, poi il finanziere, poi il tecnocrate. Il populismo è spettrale, benché sia una forza politica reale, perché, violento e superficiale a un tempo, trasforma i problemi reali in immagini e in risentimento (prima di Grillo, lo facevano Bossi e Berlusconi), e così elude o cancella la comprensione del tempo storico. È una scelta facile, quella populista; ed è ancora più facile se si lascia che il conflitto fra posizioni pro-euro e posizioni anti-euro diventi il conflitto fra la tecnica (che asservisce a sé la politica) e la buona politica del popolo (nella forma del populismo presunto anti-politico). Se non si riesce a far diventare quel conflitto, nel discorso pubblico, ciò che è nella sostanza: il conflitto fra la buona politica e la cattiva politica.
C’è dunque l’esigenza urgente di una politica che non ha paura di sé, delle proprie responsabilità, delle proprie decisioni. Di una politica che riconosca e incorpori le necessità del momento — con il realismo che alla politica deve appartenere, perché la politica è il potere che vuole agire —, che non si conceda illusioni, ma che rivendichi il proprio primato nelle cose umane; ovvero rivendichi di potere orientare e governare, senza eluderla, la necessità, l’emergenza; di saperle dare un indirizzo, un ordine specifico. E che quindi non abdica ai propri compiti — che, nel nostro caso, sono di proseguire l’opera di bonifica, ancora lontanissima dalla fine, dell’organizzazione dello Stato e della vita sociale ed economica del Paese —, prospettando che l’esercizio dei diritti politici (le elezioni) sia ininfluente, dato che, comunque i cittadini votino, avranno sempre davanti a sé le stesse politiche e forse le stesse persone. E lasciando così praterie sterminate al populismo, che oltre alla bandiera della protesta potrebbe anche agitare quella della politica. Davanti a questo grave rischio, c’è davvero da augurarsi che la politica italiana sappia individuare nella democrazia — nella potenza delle sue passioni e dei suoi progetti — l’antidoto sia alla propria incertezza sia alle demagogiche certezze del populismo.
l’Unità 10.9.12
Severino: «Più 4% del Pil se battiamo la corruzione»
Perché la legge è urgente
Da mesi si fa un gran parlare del disegno di legge anticorruzione.
Lo stallo e i veti incrociati fanno male al Paese
L’illegalità strangola la nostra economia
La politica deve capire l’urgenza di queste misure
di Antonio Ingroia
Sappiamo che nel testo di legge ci sono disposizioni che necessitano di miglioramenti e che residuano importanti perplessità su alcune scelte. È legittimo chiedersi, ad esempio, quale sia l’impatto dell’estensione della punibilità del concusso nel caso della concussione per induzione. Insomma, non tutto è ottimale e tutto è perfettibile. Ma la sensazione è che i lavori parlamentari su questo terreno siano entrati, da mesi ormai, in una fase di stallo, dove prevalgono i veti incrociati che certamente non fanno bene. Non fanno bene alla materia da disciplinare che necessita di una normativa nuova, organica ed efficace. E non fanno bene soprattutto alla politica stessa, la prima a dover essere interessata a una rapida soluzione al problema, anche superando le resistenze al suo interno da parte di chi cerca di mantenere a tutti i costi le più ampie zone di impunità per quella corruzione sistemica che sta strangolando la nostra democrazia.
Il punto è proprio questo. Questa corruzione sta strangolando, innanzitutto, la nostra economia. Non solo per i costi diretti per la comunità che comporta ogni forma di corruzione, ma anche per i suoi costi indiretti. In fondo, è proprio la diffusa corruzione dei pubblici funzionari, percepita come un costo d’impresa supplementare e permanente, al pari del peso delle imposizioni del racket mafioso, che scoraggia gli investitori stranieri, ed impedisce la crescita della nostra economia. Sicché, nel momento in cui strangola la nostra economia e deprime i cittadini, la corruzione finisce per strangolare anche la nostra democrazia. Perché la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche va sempre più deperendo e l’istinto di ribellione cresce.
È questa la prima ragione che dovrebbe far comprendere ai settori più consapevoli del nostro ceto politico l’urgenza e la necessità di un intervento legislativo forte nella lotta alla corruzione. Tutti sanno che la credibilità della classe politica ha raggiunto negli ultimi anni la punta più bassa della storia della nostra Repubblica agli occhi dei propri elettori. E si sa pure che questo effetto dipende certamente dalla crisi finanziaria che ha esasperato la sfiducia del cittadino medio nel proprio futuro. Ma a questa crisi finanziaria non è affatto estraneo l’impatto del fenomeno corruttivo che ormai in Italia ha assunto una dimensione endemica. Il diffondersi della cultura della irresponsabilità, penale, politica ed etico-morale, ha avuto un peso rilevante. L’etica della responsabilità si è definitivamente dissolta.
Se si vuole recuperare un circuito di fiducia democratica, se si vuole salvare l’Italia, occorre allora uno spirito «patriottico». Uno spirito patriottico che tolga di mezzo gli interessi di parte e i tatticismi pre-elettorali. Perché tutti rischiano di perdere. Agli occhi della gente non sono sufficienti dichiarazioni di intenti e affermazioni di principio. I cittadini esigono fatti e provvedimenti concreti. Sotto questo profilo, una legge anticorruzione, purché efficace, può costituire per il Parlamento un’occasione storica e, nel contempo, l’ultima spiaggia. L’occasione di iniziare un percorso inverso rispetto a quello finora tracciato. Un’inversione di senso di marcia verso la cultura della responsabilità. Se si considera che questo Parlamento è lo stesso che, sotto il passato governo, ha approvato tante leggi ad personam e di privilegio, e che ha messo ulteriori tasselli a supporto della cultura dell’impunità, la sfida va raccolta e diventa una priorità assoluta. Importante quanto la riforma elettorale. Come lo è ogni provvedimento che dimostri una nuova eticità della politica. Solo questo può riavvicinare i cittadini alla politica di cui hanno visto troppo a lungo il «lato b», la parte peggiore.
Si tratta dunque di un’occasione storica. Occasione storica perché costituirebbe il primo mattone della costruzione di un nuovo itinerario, per fare crescere la cultura istituzionale della responsabilità e la fiducia dei cittadini. L’ultima spiaggia per riacquistare credibilità agli occhi dei propri elettori che tornerebbero a partecipare con maggiore convinzione alla politica. Ma anche l’ultima spiaggia per conquistare maggiore fiducia dagli investitori e così contribuire alla crescita della nostra economia. Non c’è alternativa e bisogna fare in fretta.
Corriere 10.9.12
Le tangenti e gli investimenti stranieri come una «tassa» del 20 per cento
Gli effetti del processo civile lento: meno credito e aziende in sofferenza
di Dino Martirano
ROMA — L'Italia non schioda dalla bassa classifica. Secondo il rapporto «Doing Business 2012» siamo ancora al 158° posto, su 183 economie esaminate, per quanto riguarda il tempo necessario alla giustizia civile per risolvere una controversia commerciale tra due imprese: in Italia, per concludere un processo e ottenere una sentenza definitiva, sono necessari 1.210 giorni, a fronte dei 331 impiegati in Francia e i 394 in Germania. In linea generale, «la durata media dei procedimenti in primo e secondo grado supera di due o tre volte quella degli altri Paesi dell'Unione Europea». Grecia compresa.
È questo il quadro di riferimento da cui parte il filo del ragionamento del ministro Paola Severino su «Giustizia e crescita economica». Ma prima di affondare il bisturi nel corpaccione malato del processo civile, l'analisi del Guardasigilli affronta l'emergenza corruzione che tanti investitori stranieri allontana dall'Italia e tante difficoltà provoca alla libera concorrenza tra le imprese. Nella percezione della corruzione (Trasparency international), infatti, siamo ultimi in Europa. Davanti solo alla Grecia.
E tanto per far comprendere le dimensioni del fenomeno, il ministro cita tre dati impressionanti: con una lotta efficace alla corruzione, il reddito potrebbe essere superiore del 2-4% (Banca mondiale); nelle regioni in cui la corruzione è più bassa, il settore delle imprese cresce fino al 3% annuo in più; la corruzione in Italia corrisponde a una «tassa» del 20% sugli investimenti stranieri. Ma c'è anche un «effetto domino» della corruzione che inquina tutti i pozzi dell'economia e del commercio: «La corruzione infatti altera il flusso del denaro in entrata (reato presupposto per creare i fondi) ed in uscita (il "nero" porta a spesa "illecita") generando una sorta di effetto domino».
Va da sé, insiste il ministro, che la nuova legge anticorruzione non è più rinviabile: per imporre una efficace disciplina di trasparenza nella Pubblica amministrazione e per rendere «effettive e credibili» le sanzioni comprese quelle nuove, previste dalla legge ora all'esame del Senato, contro la corruzione tra privati e contro il traffico di influenze illecite (il lobbismo fuori dalle regole).
Eppure, lo snodo di collegamento tra giustizia ed economia passa sempre e comunque dalla manutenzione ordinaria e straordinaria del processo civile. Perché una «giustizia affidabile promuove la concorrenza, favorisce lo sviluppo dei sistemi finanziari, riduce il costo del recupero dei crediti, fornisce maggiore tutela ai prestatori di fondi». Per comprendere quanto conti un processo civile che funziona, il ministro ricorda che nelle province nelle quali il processo civile è più lento, le banche chiudono con più vigore anche i rubinetti del credito alle imprese: «A parità di altre condizioni, un aumento del carico di 10 casi per 1000 abitanti genera una riduzione del rapporto tra prestiti e Pil del 1,5%».
In altre parole, le statistiche dimostrano che «nei distretti di Corte d'Appello più "inefficienti" le famiglie sono penalizzate sul mercato del credito». Ma una amministrazione pigra e inefficiente del processo civile «influenza anche la quota di ricchezza che le famiglie detengono sotto forma "statica" (contante e depositi) rispetto a quella detenuta in strumenti finanziari "dinamici" (azioni e obbligazioni)». Inoltre, una giustizia civile lenta «incrementa il ricorso delle imprese al debito commerciale (dilazioni di pagamento)» ed è associata anche a una minore natalità delle imprese e soprattutto a una loro minore dimensione media: «Una riduzione della durata delle procedure civili del 50% accrescerebbe del 20% le dimensioni medie delle imprese manifatturiere».
Tirando il filo di questa analisi, il ministro della Giustizia Severino propone la seguente diagnosi: i tribunali civili sono intasati per eccesso di litigiosità (domanda di giustizia) e per un'organizzazione inefficiente degli uffici (offerta di giustizia). Sul primo fronte, quello della eccessiva domanda, le priorità sono la riforma degli ordinamenti professionali (quella dell'avvocatura è in sede legislativa alla Camera) e il filtro per un accesso più regolato alla giustizia (già realizzato per quanto riguarda l'appello nel civile).
Sul secondo fronte, quello dell'offerta, in agenda ci sono la riorganizzazione degli uffici giudiziari (da attuare nei prossimi 12 mesi in base alla delega varata dal governo Berlusconi), l'informatizzazione degli uffici giudiziari (che procede assai a rilento), la specializzazione dei giudici (varati i tribunali delle imprese mentre manca ancora quello della famiglia). Rimane, infine, lo smaltimento dell'arretrato che però, in termini di possibilità di azzeramento, assomiglia tanto al debito pubblico accumulato dallo Stato.
Corriere 10.9.12
Piercamillo Davigo
«Chi va in giudizio sapendo di aver torto va punito»
di Giusi Fasano
La strada è obbligata: il rimedio al mal di giustizia italiano — «l'unico efficace», è convinto Piercamillo Davigo — è «una drastica riduzione del numero dei processi, sia in primo grado che nelle impugnazioni», per esempio «trasformando in illeciti amministrativi i reati per i quali il danno non giustifica il costo del processo».
Oggi consigliere della Corte di Cassazione, ex «dottor sottile» del pool di Mani Pulite, Davigo ha portato sul palco di Cernobbio punti deboli e possibili soluzioni nella questione Giustizia nel nostro Paese. Primo fra tutti, appunto, l'eccesso di cause, sia civili che penali. Va detto che nel tempo si è cercato di raggiungere i livelli più accettabili di altri Paesi europei come la Francia e la Germania, ma lo si è fatto sempre «in modo decisamente inefficace».
«È quarant'anni — spiega il magistrato — che la risposta alla situazione italiana si basa sull'aumento dell'offerta di giustizia. Sono stati raddoppiati gli organici dei magistrati di professione, si è fatto ampio ricorso alla magistratura onoraria, si è cercato di organizzare gli uffici...». Risultato? «Il grado di litigiosità è triplicato. È chiaro: se non hai il controllo sulla domanda di giustizia ogni incremento di efficienza viene immediatamente riassorbito da un numero crescente di contenziosi». Un circolo vizioso che potrebbe essere interrotto se si rendesse «non conveniente non osservare la legge. Chi agisce o resiste in giudizio sapendo di aver torto deve mettere in conto che subirà conseguenze serie dal suo comportamento».
Alla platea di Cernobbio Davigo ha parlato della necessità di modificare il sistema della prescrizione dei reati, dell'eccesso di impugnazioni nel processo penale e delle risorse «mal impiegate» nel sistema-Giustizia italiano. Già sciogliere questi tre nodi, è sicuro lui, risolverebbe un bel po' dei problemi di cui si discute da anni. «Facciamo un esempio per chiarire» propone, riguardo alla prescrizione. «Vieni condannato a un anno e non ti sta bene, volevi otto mesi. Va bene, fai ricorso. Nel frattempo però la prescrizione continua a maturare. Ma perché mai?». Veniamo alle impugnazioni: «In Italia nel processo penale impugnare conviene perché non si corrono rischi poiché esiste il divieto di peggiorare la posizione dell'imputato se è solo lui l'appellante. E perché l'imputato non dovrebbe appellare visto che se è detenuto può uscire per decorrenza termini e se è libero niente carcere fino alla sentenza definitiva?». La soluzione? «Introdurre rischi», consentendo la possibilità di peggiorare la condanna. Sul cattivo impiego delle risorse economiche per la Giustizia, Davigo cita le troppe sedi giudiziarie: «Il governo sta cercando di abolire quelle minori ma ci vorrà tempo e temo fortemente le resistenze locali, quando questo governo passerà e ce ne saranno altri».
Corriere 10.9.12
Accoglienza da star per i pm di Palermo «Su di noi silenzio assordante del Csm»
Di Matteo contro i vertici delle toghe. Ingroia: «Cambiate questo ceto politico»
di Marco Imarisio
MARINA DI PIETRASANTA (Lucca) — «Non so se mi conviene». Nella foto ricordo dietro al palco Giancarlo Caselli finge di avere qualche remora a lasciarsi immortalare con Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, i due colleghi palermitani negli ultimi mesi al centro di qualche leggerissima polemica.
Il procuratore capo di Torino scherza, naturalmente. Al teatro della Versiliana, casa della festa annuale de Il Fatto Quotidiano, il presunto partito dei magistrati gioca in casa, eufemismo altrettanto leggero. Quando i due pubblici ministeri della trattativa Stato-mafia fanno il loro ingresso ricevono dal pubblico un trattamento alla Jagger-Richards: tutti in piedi, e sei minuti di applausi, interrotti soltanto da un cenno della mano di Marco Travaglio, obbligato a tempi contingentati per via del concerto di Franco Battiato che incombe.
La presenza di Di Matteo e Ingroia all'evento organizzato dal quotidiano che più di ogni altro si è speso in loro favore raccogliendo 157 mila firme a sostegno dell'azione della Procura di Palermo presentava qualche problema di opportunità. Secondo una vulgata molto diffusa, giusta o sbagliata che sia, il giornale diretto da Antonio Padellaro è considerato uno dei vertici di un complotto politico-mediatico a danno del Quirinale, che ha sollevato un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale sulle intercettazioni telefoniche, contenute nell'indagine sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia al tempo delle stragi, in cui appare il presidente della Repubblica.
A domanda diretta i due diretti interessati hanno risposto in modo diverso, operando quasi un capovolgimento di ruoli. Molto deciso Di Matteo, che dovrebbe essere il più tranquillo della coppia: «Mi sono posto il problema e l'ho subito risolto: sono qui, e non vado spesso a dibattiti pubblici». Ecumenico, quasi pacato Ingroia: «Certo che ci ho pensato. Ma è mia convinzione che sia più importante cosa si dice, e non il dove. Per altro, la sera scorsa sono stato ospite a un dibattito del Pd a Padova: par condicio».
Dopo la consegna della chiavetta Usb con le 157 mila sottoscrizioni per mano di una emozionatissima signora di Collegno, Margherita Siciliano, che con una sua lettera l'aveva proposta per prima, lo scambio delle parti tra i due magistrati è stato rispettato anche sul palco. Dopo aver ringraziato i cittadini firmatari — «non cerchiamo il consenso popolare, ma per noi è importante sentire l'affetto della gente» — Di Matteo ha denunciato, pare sia una prima volta, «il silenzio assordante» del Consiglio superiore della magistratura, delle istituzioni e degli organi «centrali e romani» dell'Associazione nazionale magistrati rispetto alle «invettive e attacchi violentissimi di politici e giornalisti importanti» da loro ricevuti sulla vicenda delle intercettazioni al capo dello Stato. Ovazione.
Nel pubblico si percepiva una atmosfera diffusa da «siamo solo noi». Non poteva essere diversamente, data l'occasione. Ma 6.000 (seimila) persone tra platea e megaschermi ad ascoltare con devozione tre magistrati e due giornalisti — Marco Lillo e Travaglio — rappresentano un dato importante.
Quando è stata la volta di Ingroia, il magistrato più esposto e contestato d'Italia, in partenza per il Guatemala, l'ha presa da lontano con toni soffici, per arrivare verso la fine, rivolgendosi ai suoi sostenitori, ovvero a tutti i presenti, con una specie di bilancio conclusivo della sua esperienza a Palermo. «La posta in gioco è questa: le stragi del biennio 1992-93 sono il modo in cui la mafia contrattò un patto con il vecchio e il nuovo che avanzava. Abbiamo bisogno del vostro sostegno — ha detto rivolto al pubblico —, che i riflettori siano sempre accesi. In queste condizioni della politica, con il Parlamento delle leggi ad personam e del disastro legislativo, la nostra indagine è il massimo risultato realizzabile. Non è ancora emersa tutta la verità».
La conclusione è stata un appello che a voler essere maligni sembrava una discesa in campo, più che un commiato. «Tocca a voi — ha detto — non essere tifosi e spettatori. Dovete cambiare questa classe dirigente e questo ceto politico. Il futuro è nelle vostre mani». Titoli di coda sulla ricostruzione dello scontro con il Viminale fatta da Travaglio. Da registrare qualche «vergogna» dalla platea rivolto a Giorgio Napolitano, ogni volta, quindi quasi sempre, che il giornalista ci andava pesante con il presidente della Repubblica. Di Matteo e Ingroia assistevano impassibili.
La sintesi del dibattito e annesso bagno di folla è stata fatta con flemma piemontese da Caselli. «Con tutto il rispetto, ma trovo lecito nutrire dubbi legittimi di opportunità circa il conflitto di attribuzione sollevato dal Colle presso la Corte costituzionale». All'uscita dalla Versiliana i fedelissimi di Ingroia e Travaglio usavano espressioni parecchio più colorite. Ma il senso, insomma, era quello.
l’Unità 10.9.12
Costi della politica: il duello Pd-radicali
di Claudio Visani
BOLOGNA «Sui costi della politica non siamo all’anno zero. A luglio abbiamo riformato radicalmente il sistema. L’ammontare del finanziamento pubblico è stato dimezzato. Sono stati rafforzati i controlli, la trasparenza, le sanzioni e oggi abbiamo la disciplina più severa d’Europa. I vitalizi sono stati aboliti dal primo gennaio scorso. Si lavora per lasciare le scorte solo a chi ne ha effettivamente bisogno. Ma il vento dell’anti-politica cancella queste notizie. Non se n’è accorto nemmeno un autorevole esponente del mio partito che va in giro a raccogliere applausi proponendo misure che sono già state decise».
La frecciata a Matteo Renzi la manda Antonio Misiani, deputato e tesoriere del Partito democratico. L’occasione è l’incontro alla festa dell’Unità di Bologna, sabato sera, terzo appuntamento di Unitalia dedicato ai costi della politica. Misiani da una parte e il segretario dei radicali italiani, Marco Staderini, dall’altra. A moderare il dibattito ci sono il direttore de l’Unità, Claudio Sardo, e il direttore di left, Giommaria Monti. Al centro del confronto il finanziamento pubblico della politica e la riforma elettorale.
«I soldi dello Stato ai partiti alimentano la corruzione e penalizzano la democrazia interna sostiene il segretario radicale chi tiene i cordoni della borsa rafforza il potere dei gruppi dirigenti e non solo, come dimostrano i casi Lusi e Belsito. Chi dice che abolendo il finanziamento pubblico si lascia la politica solo ai ricchi, dimentica che in questi anni abbiamo avuto comunque Berlusconi e le lobbies all’opera». «Noi siamo per un sistema di finanziamento misto, come del resto avviene in gran parte dei Paesi europei ribatte il tesoriere del Pd -. Siamo per affiancare all’autofinanziamento e noi in gran parte ci finanziamo già con le feste dell’Unità, le tessere e le donazioni una quota ragionevole di contributo pubblico, con una gestione trasparente e verificabile. Negli Stati Uniti, dove il finanziamento è totalmente privato, tutti possiamo osservare come la politica sia condizionata dalle corporations, a cominciare dalla campagna presidenziale in corso».
Si passa alla riforma elettorale. «Il referendum del 1993 contro il proporzionale sostiene Staderini è stato sabotato dal Mattarellum. Oggi col tentativo di reintrodurre il proporzionale siamo tornati al punto di partenza». «Noi lavoriamo per una riforma elettorale che premi la governabilità e che dia la possibilità ai cittadini di scegliere i parlamentari, possibilmente nei collegi uninominali spiega invece Misiani ma dobbiamo fare i conti con un Parlamento ancora con una maggioranza di destra che non la vuole, o la vuole fare solo a suo tornaconto».
Infine il rapporto tra radicali e democratici. Dice Staderini: «Sono grato al Pd e alla festa di Bologna per questo invito. Altrove non è così. In generale i vertici del Pd mantengono verso di noi lo stesso trattamento di insofferenza che nella III Internazionale i comunisti avevano con i trotskisti». «Mi sembra un atteggiamento vittimistico ribatte Misiani non vedo nel Pd veti e chiusure nei confronti dei radicali. Io rispetto le loro posizioni, li considero portatori di una cultura compatibile con la nostra, tanto che ho firmato con loro alcune proposte di legge. Ma sui diritti civili loro non possono pensare di avere il monopolio. In campo ci siamo anche noi, eccome».
l’Unità 10.9.12
Dai cortei alle proteste: è l’autunno della scuola
Studenti, precari e insegnanti: l’anno comincia in salita
Parte l’autunno caldo della scuola italiana
Ieri l’assemblea degli insegnanti precari per fissare gli appuntamenti e le iniziative di lotta
Il 22 settembre a Roma una grande manifestazione
L’appello ai partiti contro il concorso, i tagli e i nuovi cda scolastici
di Luciana Cimino
ROMA Due settimane senza tregua per non lasciare nulla d’intentato. L’autunno caldo della scuola pubblica è già cominciato. Gli insegnanti precari che in questi giorni sono stati in presidio sotto al Miur per protestare contro il concorso previsto dal ministro Profumo e i tagli passati, si sono riuniti ieri in assemblea e hanno stilato documento e calendario delle mobilitazioni. L’appuntamento centrale è per il 22, giorno in cui hanno indetto una grande manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno chiamato a partecipare con un appello le organizzazioni sindacali e politiche. «Chiediamo appoggio fattivo al corteo e alle sue rivendicazioni», spiega Massimo, del Coordinamento precari scuola di Roma. Questi i punti: «chiediamo di convergere non solo sul “no” al concorso ma anche sulla contrarietà alla legge “ex –Aprea”, sul ritiro dei tagli, sull’assunzione dei precari».
Al corteo ci arriveranno dopo una serie di iniziative: domani saranno in presidio sotto Montecitorio con altre sigle del mondo scolastico e con il movimento degli studenti, per protestare «contro il ddl Aprea che prevede l’ingresso dei privati nei consigli d’istituto» (hanno già aderito Sel, Fds, Idv e Prc, si attende la risposta del Pd). Il 13 pomeriggio, primo giorno di scuola nel Lazio, torneranno a viale Trastevere sotto la sede del ministero dell’Istruzione con gli studenti medi in protesta; per il 15 settembre hanno invece pensato a piazze tematiche in tutto il Paese, e poi altre iniziative intermedie per il lancio della manifestazione del 22: volantinaggi e assemblee nelle scuole, banchetti nei territori, «e azioni eclatanti e visibili».
Durante l’assemblea è stato forte l’invito da parte dei professori a coinvolgere tutti: genitori, studenti e lavoratori. «Perché si capisca che non è solo un danno ai precari, è l’ennesimo scippo che viene fatto alla funzione fondamentale della scuola pubblica», dice Romolo da Latina. Carlo, professore di filosofia, rivolge il suo appello soprattutto al Pd: «si schieri senza tentennare con noi, tra i suoi militanti ci sono tantissimi insegnanti». Arianna spiega che a Napoli stanno volantinando pure nelle università, «perché va bene l’emergenza concorso ma dobbiamo unirci con gli studenti su dei punti condivisi per la riqualificazione della scuola e della ricerca: le radici della lotta in comune sono i tagli della Gelmini, l’introduzione di un modello “marchionesco” ai lavoratori della conoscenza».
Per Marco, insegnante di sostegno di 46 anni, che la situazione sia drammatica «è evidente soprattutto dal trattamento riservato agli studenti disabili che hanno perso le ore e questo è un tema che deve riguardare tutta la società». Marco ribadisce anche di credere «in questo tipo di mobilitazioni, ma a patto che siano unitarie, che si capisca che non siamo noi precari storici contro i neolaureati ma insieme, le cattedre ci sono per tutti».
IL NO AL CONCORSO
Poi c’è il fronte di chi ha già deciso che non farà il concorso: rinuncia alla professione come estremo atto di protesta. Tra di loro Manuel, insegnante veneto di 52 anni e quinto in graduatoria da 7 anni. «Non sono riuscito a entrare per i tagli, ma mi rifiuto di fare questa prova che è in realtà una tagliola, serve solo a far fare agli insegnanti la parte degli incompetenti», dice. E continua: «non ho un problema a farmi valutare, io sono un valutatore dei miei alunni, ma perché umiliare 250mila precari in questo modo? Siamo invecchiati dentro la scuola, senza neanche la possibilità di fare un mutuo, umanamente hanno ucciso una generazione di insegnanti che poi però in classe si mettono la maschera e fanno finta di essere tranquilli per insegnare ai ragazzi che esiste un mondo migliore, anche se loro hanno capito cosa sta succedendo in Italia e sono sempre più diffidenti verso la politica, lo Stato, sono sempre più cinici».
È d’accordo anche Maria, 39 anni, professoressa ad Aversa. Anche lei è una di quelle che rinunceranno al concorsetto. «Concorsetto perché rispetto alle qualifiche e agli studi dei professori italiani, la maggior parte plurititolati, è una retrocessione, una mortificazione». «Sono uscita dalla Siss spiega dove mi hanno insegnato che i programmi vanno tarati sulle esigenze della classe e del singolo alunno, per non lasciare nessuno indietro, per aiutare ogni studente a ragionare con la sua testa; adesso mi chiedono di dimenticare tutto e mi propongono un metodo di selezione e di insegnamento per nozioni e per crocette. Io rifiuto questo tipo di scuola, a costo di essere costretta a cercare un altro lavoro
SCIENZE DELLA FORMAZIONE
Quei 18mila esclusi dalle graduatorie
Sono 18 mila insegnanti, e sono esclusi dalle graduatorie ad esaurimento. Sono i laureati e gli iscritti alla facoltà di Scienze della Formazione di tutta Italia, istituite assieme alle Siss e anch’esse con valore abilitante. «Solo che le Siss nel 2006 sono state soppresse – spiega Paola Ricci, del Comitato nazionale esclusi dalle graduatorie –a Scienze della Formazione invece ogni anno continua a iscriversi gente, non sapendo la situazione in cui si mettono».
La maggior parte non sono semplici studenti, ma insegnanti alla seconda
laurea che speravano in un titolo con valore concorsuale. Sono invece rimasti bloccati fino al 2014, quando ci sarà il rinnovo delle graduatorie e a quel punto loro verranno immessi solo in quelle “d’istituto”, cioè in coda a tutti gli altri. Ma dicono un secco “no” al concorso. «Questa laurea può servire soltanto a insegnare, ci vogliono dire che stiamo sprecando 2500 euro l’anno di tasse? noi vogliamo essere immessi in graduatoria, del resto se ogni anno siamo chiamati per le supplenze vuol dire che i posti ci sono».
Corriere 10.9.12
Israele, il giornale dei laici in mano ai religiosi
di Cecilia Zecchinelli
GERUSALEMME — La crisi della carta stampata, dei media tradizionali non risparmia Israele. E a farne le spese è ora il quotidiano di centro Maariv, che in ebraico significa «sera» — pur uscendo ormai da decenni al mattino —, un'icona apprezzata o criticata, ma comunque rispettata come parte della storia di questo Paese. Fondato nel 1948, come lo Stato ebraico, è stato travolto dai debiti e dal calo di lettori, complici la stampa gratuita e la concorrenza di Internet. Uno scenario già visto in tutto il mondo. Maariv non chiuderà, ma passerà per l'equivalente di 21 milioni di dollari a un nuovo proprietario: il «falco» miliardario Shlomo Ben-Zvi, che già controlla il piccolo tabloid Makor Rishon («fonte primaria»), d'orientamento religioso e decisamente a destra, a destra cioè del partito Likud, prodotto in economia ma apprezzato soprattutto dai lettori meno sofisticati, in gran parte coloni.
La crisi di Maariv non è recente, né questo è il primo cambio di proprietà negli ultimi anni. Quotidiano più letto in Israele fino alla fine degli anni 70, le vendite poi erano calate e la concorrenza aumentata. A lungo aveva conteso il primo posto con Yedioth Aharonot («ultime notizie», pure di centro), perdendo infine la gara; entrambi però avevano fortemente subito l'arrivo nel 2007 di un giornale gratuito, Israel Hayom («Israele oggi») diventato in breve il quotidiano più diffuso grazie ai potenti mezzi del suo proprietario, un altro miliardario con la passione della stampa, ovvero l'americano-israeliano Sheldon Adelson, molto vicino al governo.
Al di là delle classifiche e delle preoccupazioni per gli oltre 2 mila dipendenti di Maariv (se andrà bene solo un quarto conserverà il posto), la notizia della cessione del «venerabile» quotidiano, come qualcuno qui lo definisce, fa discutere per le possibili conseguenze politiche.
«Già Israel Hayom è il giornale di Netanyahu, ora temiamo che anche Maariv si sposti a destra, sulle posizioni del governo», dice al Corriere Roni Shaked, giornalista di Yedioth Aharonot. «Maariv è un rivale del quotidiano in cui lavoro ma non posso certo essere soddisfatto per quanto sta accadendo. L'importante per me e il Paese è che ci siano molte voci critiche, o a farne le spese sarà la democrazia. Ho invece paura che da domani il pluralismo della stampa verrà fortemente ridotto». Su Internet, come negli altri Paesi, i siti di notizie coprono l'intero arco politico ma, aggiunge Shaked, «per quanto in crisi, i giornali di carta sono quelli che contano e formano l'opinione pubblica, alimentano il dibattito. Chi legge un sito di solito non ne guarda altri, è chiuso nel suo mondo, i quotidiani “veri” sono una ricchezza nazionale».
Ben-Zvi, nato a Londra 47 anni fa, un passato di studi religiosi e militari e un presente da colono (abita nell'insediamento di Efram), non ha scoperto le carte. Non si sa quali sinergie attuerà tra il quotidiano acquistato e il suo tabloid, nemmeno se li fonderà in un solo giornale, né soprattutto come si muoverà politicamente. Qualcuno ricorda che, pochi giorni prima dell'annuncio della vendita, Maariv aveva ventilato l'abbandono della carta per passare alla sola edizione online, cosa che non dovrebbe più succedere e questo è positivo. Ma come titolava ieri Haaretz («Il Paese», di sinistra), «questa operazione potrebbe scuotere l'intero mondo editoriale d'Israele e avere un forte impatto sui suoi equilibri politici».
Corriere 10.9.12
Ebrei e islamici insieme «Sì alla circoncisione»
BERLINO — Musulmani ed ebrei sulla piazza dell'opera di Berlino per difendere il diritto della circoncisione e per protestare contro il decreto del tribunale di Colonia che ha messo al bando la pratica religiosa tradizionale considerandola come «lesione volontaria» e dunque da perseguire legalmente. Oltre cinquecento persone hanno preso parte alla protesta sulla Bebelplatz, luogo storico in cui i nazisti bruciavano i libri. Alla manifestazione hanno aderito anche alcuni cattolici. Numerosi gli attivisti vestiti con la bandiera israeliana o con abiti ebraici tradizionali. A breve, il governo si esprimerà sulla questione che ha sollevato, a partire dal giugno scorso, un'ondata di polemiche. La comunità ebraica di Berlino di recente è insorta contro il nuovo regolamento sulle circoncisioni varato nella capitale tedesca, definito una «flagrante interferenza» nelle tradizioni religiose perché, tollerando l'intervento dei medici, di fatto impedisce al mohel, il «circoncisore», spesso un rabbino, di praticare personalmente l'atto.
Corriere 10.9.12
Così i guerriglieri siriani danno la caccia ai qaedisti «Sono solo dei fanatici»
Ucciso il capo dei miliziani venuti dall'estero
di Lorenzo Cremonesi
BAB EL AWA (Siria) — Laici contro religiosi: è il conflitto maggiore che lacera la rivoluzione in Siria, anche se presentato in questo modo appare molto riduttivo. E ciò perché i laici raramente lo sono e i religiosi a loro volta risultano divisi in mille fazioni. L'ultimo episodio di una lunga storia ancora tutta da raccontare è avvenuto poco più di una settimana fa, quando un gruppo scelto della brigata partigiana Al Faruq ha assassinato Abu Mohammad Al Absi, leader trentenne di oltre 180 volontari stranieri di Al Qaeda, che da circa due mesi si erano acquartierati nella zona collinosa in territorio siriano presso la linea di confine con la Turchia di fronte alla città di Antakia. Una vicenda di cui tutti parlano. Da allora i jihadisti sunniti stranieri si sono allontanati: molti si sono uniti alla guerriglia ad Aleppo, altri sarebbero scappati verso l'Iraq. Però una vicenda ancora confusa, che riassume in sé le forti tensioni cresciute tra brigate partigiane autoctone contrarie ad Al Qaeda e invece gruppi più fondamentalisti pronti a combattere al loro fianco.
A noi l'ha spiegata due giorni fa Taher Abu Ali, 33 anni, ex impiegato della compagnia elettrica statale nel villaggio di Sarmada, e da 14 mesi ufficiale della Al Faruq. Lo incontriamo mentre sta al comando di 200 uomini al vecchio terminale della dogana siriana posto a circa 6 chilometri dal passaggio di frontiera a Bab El Awa. La zona da inizio luglio è sotto controllo della rivoluzione per una profondità di circa 40 chilometri. A metà agosto le truppe corazzate di Bashar Assad hanno provato a riprenderla con l'appoggio dell'aviazione. Ma è stato un fallimento. I ribelli hanno distrutto una decina tra tank e mezzi blindati. Ora due carri armati catturati intatti sono nascosti sotto le pensiline del terminal pronti a fermare i contrattacchi lealisti.
«Sembra tutto tranquillo adesso. Ma solo 10 giorni fa non era così. Appena dietro quella collina sassosa erano accampati gli uomini di Al Qaeda. Quasi nessuno di loro parlava arabo. Penso fossero per lo più ceceni, afghani e pakistani. Proclamavano di voler fondare qui, in casa nostra, nelle terre liberate da noi, col nostro sangue, uno Stato Islamico Indipendente, lo chiamavano proprio così, dove dicevano avrebbero applicato integralmente la legge coranica contro gli sciiti. Non mi piacevano affatto. Io sono un musulmano credente, ma non concordo con gli eccessi, sunniti o sciiti che siano», racconta dunque indicando a poche decine di metri l'area dove stavano i qaedisti. Taher non nasconde il suo sollievo nello spiegare l'azione che ha messo fine alla presenza di Al Qaeda. «Al Absi era per loro ben più di un comandante. Parlava arabo, era originario di queste regioni. Siamo andati ad ucciderlo a casa sua, una decina di chilometri da qui, nel villaggio di Tall Qarameh. E per i volontari stranieri ai suoi ordini l'unica alternativa è stata unirsi a brigate più amichevoli che operano altrove».
A fianco delle sentinelle della Al Faruq, occupate per lo più a verificare che i camionisti di passaggio verso la Turchia non cerchino di contrabbandare il preziosissimo gasolio (in Siria costa la metà), resta un piccolo drappello di giovani locali che prima fiancheggiavano i qaedisti. Hanno le barbe molto più lunghe dei combattenti regolari, al posto delle mimetiche verdi vestono in scuro, la testa fasciata con bandane nere decorate in bianco con i versi del Corano. Perduti i camerati arrivati dall'estero, sembrano ora propendere per i ben più moderati Fratelli Musulmani. Un movimento che trova le simpatie di tanti tra i circa 15.000 uomini inquadrati nella Al Faruq, da Homs, Idlib, Aleppo e sino al confine. E ciò nonostante la loro sia considerata una delle brigate «laiche», o comunque meno religiose (certo meno della potente brigata Al Tawheed posizionata ad Aleppo), tra le più importanti in tutto il Paese. «Gloria ad Allah e al suo Profeta Maometto», è scritto sul loro vessillo.
Il conflitto tra le tante anime della rivoluzione si ingigantisce tra i quadri politici dell'opposizione nella diaspora. Ad Antakia venerdì Fatin Ajjan, ex presentatrice della tv di Stato a Damasco e adesso attivista per gli aiuti ai civili vittime dei lealisti, non nascondeva il risentimento verso i gruppi legati ai Fratelli musulmani che a suo dire si sarebbero impadroniti di oltre 450 tonnellate di cibo e medicinali inviati per nave dai leader della rivoluzione libica. «Non hanno detto nulla a nessuno. E segretamente si sono presi tutto. Ma questi aiuti dovevano essere divisi in modo equo. È il loro modo per conquistare simpatie e potere tra i poveri siriani», sostiene Fatin.
Una parola di sostegno per i Fratelli musulmani, e persino Al Qaeda, arriva invece da un laico inveterato come Hamze Gadban. «Sono fanatici. Ma bravissimi combattenti pronti a morire. Non è un segreto che le brigate partigiane sono riuscite a tenere le posizioni ad Aleppo grazie anche al sacrificio dei combattenti stranieri che hanno l'esperienza dell'Afghanistan e dell'Iraq», dice lui che beve alcool a Ramadan ed è il volto più noto della televisione siriana pro rivoluzione Barada basata a Londra e il cui fratello Najib (professore universitario in Usa) è tra gli elementi più laici del Consiglio nazionale Siriano. Il timore però tra numerosi esponenti del massimo organo politico dell'opposizione è che l'insistenza sull'elemento sunnita, a scapito degli alauiti-sciiti pro Assad, da parte dei gruppi religiosi possa alla fine condurre alla divisione in due del Paese e alla fine della Siria.
Corriere 10.9.12
Ghana, campi di concentramento per le streghe del Duemila
La tragedia di 800 donne esiliate dai villaggi
di Michele Farina
Asana, 27 anni, è arrivata al campo di concentramento di Gambaga accompagnata dal nuovo marito: «A casa non posso proteggerti», le ha detto. Ad accusarla («quella strega mi è apparsa in sogno e mi voleva uccidere») è stato l'ex compagno, quando ha scoperto che Asana era al quinto mese di gravidanza. Dopo averla picchiata l'ha trascinata davanti a un piccolo altare votivo «e mi ha versato addosso della plastica fusa». Allora il nuovo marito, anziché alla polizia, l'ha condotta a Gambaga, uno dei sei campi nel Nord del Ghana dove vengono «concentrate» le donne accusate di magia nera.
In ottocento vivono nelle capanne di fango di questi «witch camps» lontani dai centri abitati, secondo l'ultimo censimento dell'organizzazione umanitaria ActionAid che vi opera dal 2005. Sono carceri dalle mura invisibili, ghetti-rifugio vecchi di cent'anni. Niente sbarre o catene e questo a pensarci è ancora più spaventoso, quando l'unica libertà che ti resta è scegliere la prigionia, quando Asana che vive a Gambaga passa per fortunata in confronto alle «streghe» che devono affrontare ogni giorno lo stigma e la violenza di «fuori». Per le donne come Asana (gli uomini accusati di magia sono pochissimi) tornare nei villaggi vorrebbe dire rischiare di essere uccise, subire la sorte di quella povera 72enne che nel 2010 fu arsa viva dai vicini. E allora meglio rimanere per tutta la vita nei sicuri campi della vergogna come ha fatto Sano Kojo, 66 anni, che fu mandata al ghetto di Kukuo nel 1981, accusata di aver tolto il respiro a un cugino. «A nessuno importa di noi. Una volta che arrivi qui, si dimenticano di te».
In Ghana come in molte altre parti dell'Africa la stregoneria (lo juju) nel Terzo Millennio resta una cosa seria. A tutti i livelli sociali. La canadese Karen Palmer, autrice del libro Spellbound: Inside West Africa's Witch Camps (Sotto maleficio: dentro i campi per le streghe dell'Africa), l'ha sperimentato di persona frequentando anche i ghanesi «colti», molti dei quali fanno comunque ricorso a santoni o fattucchiere, amuleti e riti magici. È indicativo che nei campi delle esiliate, secondo il rapporto di ActionAid, ci siano quasi tutte donne anziane, al 70% vedove o non sposate, senza figli e in maggioranza prive di reddito al momento della cacciata dai villaggi. «I campi sono una drammatica manifestazione dello status delle donne in Ghana», sostiene il professor Dzodzi Tsikata. Sono le persone più vulnerabili a essere accusate di stregoneria nella regione più povera di un Paese che fu il primo territorio africano a veder approdare i colonizzatori europei. Una storia di successo (economico, civile e pure calcistico): oro, cacao (secondo produttore mondiale) e una bella Costituzione che garantisce sulla carta uguaglianza e diritti civili.
I «witch camps» intaccano la fedina internazionale di un Paese che ha ridotto la dipendenza agli aiuti stranieri dal 46% al 27%. Anche per questo il governo di Accra l'anno scorso ha promesso (con un po' di ipocrisia?) di chiudere i campi della vergogna entro il 2012. Ottimo, ma non subito: non sembri paradossale l'appello di ActionAid, che invita le autorità a uno smantellamento graduale dei ghetti per streghe. Una ricerca del 2008 ha dimostrato che il 40% di quante erano state reintegrate nei villaggi d'origine entro un anno hanno fatto ritorno ai campi di prigionia. Sono ghetti ma anche rifugi. Lì le «streghe» non vengono attaccate perché si ritiene che il territorio sacro neutralizzi i loro malefici. D'altra parte, dice Lamnatu Adam, la vita è dura e umiliante. Ristrettezze materiali (cibo, acqua) e «il senso di vergogna per essere state cacciate dalla comunità». Talvolta gli accusatori sono gli stessi familiari.
I campi sono governati da capi o santoni maschi detti Tindanas, ritenuti in possesso di poteri soprannaturali. Sono loro, a Gambaga, a svolgere le «cerimonie di purificazione» dopo aver giudicato se una nuova arrivata sia colpevole di magia nera. Il rituale (inutile) è equivalente al nostro lancio della monetina. Alle divinità viene sacrificato un pollo. Se il pennuto muore a testa in giù, il verdetto è: colpevole. Altrimenti in teoria la donna potrebbe tornare al villaggio (ma questo non succede per la paura e il clima di discriminazione).
Un destino peggiore tocca alle nipotine che vengono mandate (dalle famiglie) ad aiutare le streghe esiliate. Nei campi vivono anche 500 minori. Non vanno a scuola (compagni e insegnanti non li accettano). Anche loro si portano addosso lo stigma, il «contagio» del malocchio. E quando raggiungono la maggiore età, è difficile che oltrepassino quelle mura invisibili.
Repubblica 10.9.12
Dopo la vittoria a Venezia di “The master” viaggio alle origini di Scientology, la setta delle star hollywoodiane. Tra accuse di plagio e violenze
Scientology la setta padrona di Hollywood
I padroni dell’anima
di Vittorio Zucconi
Ron Hubbard, venditore di auto usate e scrittore di romanzetti di fantascienza, la fondò nel 1953.
“I soldi si fanno creando nuove religioni”, diceva.
Da allora il patrimonio finanziario è cresciuto enormemente grazie anche alle costose cerimonie di purificazione
Ora è un impero inseguito dalle celebrità. E dal Fisco
WASHINGTON Fu da quel torbido brodo primordiale che cominciò a bollire furiosamente negli anni ‘40 e ‘50, miscuglio fetido di terrori nucleari, di delusioni religiose, di paura, di minaccia rossa, di fantascienza grossolana, di psicoterapia da settimanali patinati, che il serpente di una strana setta chiamata “Scientology” sgusciò fuori per cominciare il suo viaggio nel mondo. Lo creò dal nulla, come un dio che desse anima al fango del proprio tempo, uno scrittore di «pulp sci-fi», di romanzetti di fantascienza, chiamato Lafayette Ron Hubbard, figlio delle Grandi Prateria del Nebraska, ex ufficiale di Marina, fuoricorso senza laurea, magnifico imbonitore. Una vita da venditore di auto usate, da commesso
viaggiatore o da scrittore di paperback da edicole delle stazioni si trasformò in un culto che 60 anni dopo avrebbe generato scontri diplomatici fra governi, cataste di querele e di azioni legali, conversioni di stelle del cinema.
E, soprattutto, miliardi. Fu la pubblicazione di un libro di “self help”, di fai da te nel 1950 intitolato “Dianetics”, dal greco “dia”, attraverso, e “nous”, intelletto a trasformare la sua vita e quelle di centinaia di migliaia di persone. Pasticcio di psicoanalisi, filosofie orientali, tecnologia, il saggio di Hubbard prometteva di purgare l’anima e la mente da ogni turbamento e di curare, come bonus, una lunga serie di malanni fisici, allergie, ulcere, difetti della vista, perversioni sessuali, emicranie, infertilità, ansie, disturbi gastrointestinali e patologie coronariche.
Erano, gli anni ‘50, l’epoca d’oro della spiritualità e dello “psychobabble”, le chiacchiere pseudofreudiane fatte in casa, ma Hubbard, che qualche tempo prima aveva intuito che «non si fanno soldi scrivendo libri per un centesimo a parola, ma creando nuove religioni » tentò invano di trovare qualche accreditamento scientifico alle sue teorie. Gli bastò poco tempo, due anni appena, per capire che il suo futuro non sarebbe stato nella pseudoscienza da ciarlatano, ma nella religione, dove la fede non richiede prove sperimentali, ma soltanto la disponibilità dei credenti. Si premurò di denunciare la prima moglie (ne avrà tre) come comunista e agente sovietica ai cacciatori di streghe rosse, la commissione McCarthy, per liberarsene acquisendo una patente di combattente per la libertà e insieme un divorzio. Nel 1953 creò la Church of Scientology, incorporando anche la croce cristiana nel proprio marchio e il riconoscimento di un generico “Essere Supremo”, per darsi qualche rispettabilità tradizionale. E per garantirsi che, attraverso la metamorfosi religiosa, l’Irs, il fisco americano che cominciava a mordergli le caviglie e avrebbe continuato da allora a farlo periodicamente, gli riconoscesse l’esenzione fiscale garantita a tutte le chiese, non importa quale dottrina o dio venerino.
Ma se l’evoluzione della CoS, come ora si chiama abbreviando il nome nel solito acronimo, da organizzazione creata attorno agli scritti del logorroico Hubbard — avrebbe lasciato alla morte nel 1986, 450 mila pagine di materiale vario — a setta religiosa è lineare e comprensibile, quando ci si addentra nel labirinto di credenze, pratiche, dogmi, gerarchie e tecniche si è assaliti dalla vertigine. Posto che a noi infedeli chiamati “pre clear”, quelli prima della chiarezza, e ai semplici “clear”, i catecumeni, i Misteri della Fede sono taciuti e soltanto a chi paga fortune come i Tom Cruise e i John Travolta avanza nel livello di iniziazione, quello che si conosce pubblicamente basta per dare brividi.
Noi umani siamo oppressi e tormentati da spiriti invisibili, i “tethans”, che arrivarono sul nostro Pianeta 75 milioni di anni or sono. Xenu, il dittatore dell’universo, trasportò tutti gli abitanti dei pianeti della Galassia, ormai sovrappopolata, proprio qui da noi, sulla Terra. Li raccolse attorno ai vulcani nei quali gettò bombe all’idrogeno, proprio quelle bombe che in quegli anni Usa e Urss avevano prodotto e fatto esplodere, sterminandoli nell’eruzione di lava, polvere e lapilli radioattivi. Ma le loro anime, i “thetans” sopravvissero, appiccicandosi agli umani e poi trasmigrando dall’uno all’altro, con la loro carica negativa e probabilmente un certo rancore per quella mostruosa Piedigrotta nucleare. Per liberarci dagli influssi negativi dei “thetans”, purificare i nostri pensieri, la nostra mente, la nostra vita, l’unica via sono gli “audit”, gli accertamenti condotti dai tecnici della setta con le confessioni. Interrogano a fondo l’impuro candidato alla “chiarezza”. Lo sottopongono a una rudimentale macchina della verità, un “lie detector” costituito da due cilindretti di metallo impugnati dal penitente che dovrebbero trasmettere impulsi elettrici registrati da un computer e rivelare quali sono le zone buie, i pensieri negativi, i traumi nascosti e quindi estirparli. Al costo di quattro mila dollari per “audit” (curiosamente, la stessa espressione usata dal Fisco quando va a spulciare nelle tasche dei contribuenti) comincia la purificazione che potrà raggiungere per gradi, versando molti altri soldi, in una crociera sulla grande nave bianca di Scientology, la “Freedom”, dove i convertiti cominceranno la scalata verso i misteri e le verità finali. La macchinetta rivelatrice, la E-Meter, è stata più volte testata da esperti dello Fbi, da psichiatri, psicologi, neurologi, e dichiarata completamente inutile.
Ma fu utile a Hubbard, che in quella astuta combinazione di tecnologia, di fantascienza, di analisi, offrì un cocktail gustoso e appetito soprattutto da alcune stelle del cinema e dello show business, persone deluse da decenni di psicoterapia, corrosi dall’ansia di non essere più nessuno, avidi di ogni promessa di serenità che Scientologia, dagli anni ‘90, cominciò a prendere di mira con il suo “Progetto Celebrità”. Avere un Tom Cruise, un John Travolta, uno Isaac Hayes, una Leah Remini, protagonista di famosi show televisivi, tra i convertiti ha garantito alla CoS notorietà e qualche alone di rispettabilità.
Molti governi, primo fra tutti il governo tedesco sotto la guida del democristiano e cattolicissimo Helmut Kohl, poi quello australiano, quello norvegese, hanno tentato invano di espellere e mettere fuori legge questo culto. Con volumi di testimonianza di ex “scientologi” usciti dal cerchio magico per raccontare lavaggi del cervello, punizioni brutali come quelle riportate dall’attrice anglo-iraniana che fu arruolata e sottoposta ad “audit” per convincerla a sposare Tom Cruise e dunque controllarlo sempre da vicino, le denunce e i processi si sono accumulati. Ma alla fine, e anche in Italia con una sentenza della Corte Costituzionale di dodici anni or sono, la CoS ha sempre vinto le proprie battaglie, riuscendo a farsi riconoscere come religione legittima quanto tutte le altre. Un’aggressività missionaria e legale che non ha mai esteso il gregge dei fedeli oltre numeri molto piccoli. Otto milioni nel mondo, secondo il successore di Hubbard, David Miscavige, non più di 25 mila secondo il censimento 2010 sulla identificazione religiosa degli americani. Ma la ristrettezza dei numeri non si traduce in ristrettezze finanziarie per “Scientology”, setacciata anche nel più lungo procedimento mai condotto dal fisco americano, che tentò invano di seguire il percorso dei 200 mila dollari versati da Tom Cruise per accedere al “Livello VIII” dei “Tethan”, il massimo, senza successo. Fu allora che si scoprì che il nuovo sommo pontefice, Miscavige, aveva ascoltato e preso in giro con i collaboratori le registrazioni delle “confessioni” dello stesso Cruise, il babbeo che pagava.
Poiché nessuno ha mai fatto bancarotta in America speculando sulla credulità del pubblico, come già insegnava P. T. Barnum, Scientology sopravviverà alle denunce degli apostati, ai processi intentati da genitori disperati di giovani plagiati, alle accuse di psichiatri e psicologi — i mortali nemici — che spesso devono raccogliere con il cucchiaio pazienti con la mente sconvolta dalle tecniche brutali di lavaggio del cervello. Qualcosa, in quelle macchinette per purificare lo spirito e il cervello non deve funzionare bene, se il primogenito del fondatore Hubbard si tolse la vita e il secondo figlio fuggì di casa cambiando nome per sfuggire al padre. Anche nel sangue di Hubbard, quando gli fu fatta l’autopsia, furono trovati psicofarmaci, del tipo ordinato proprio dai detestati psichiatri. Xenu, il crudele tiranno galattico, la versione termonucleare del demonio, è sempre in agguato.
Corriere 20.9.12
Cosa succede quando il cervello si imbatte in un'equazione
I calcoli attivano un'area cerebrale specifica È diversa da quella usata per il linguaggio
di Massimo Piattelli Palmarini
Tra qualche giorno, il 18 settembre per l'esattezza, si svolgerà alla Scuola Internazionale di Studi Superiori (SISSA) di Trieste un convegno specialistico organizzato sulla scia della visita di Noam Chomsky, l'insigne linguista del MIT (Massachusetts Institute of Technology). In tale augusto consesso, il noto neuroscienziato francese Stanislas Dehaene presenterà per la prima volta una sua scoperta su aree cerebrali che si attivano specificamente quando un soggetto esperto in matematica osserva una formula. Tali aree non si attivano, invece, quando una persona ignara di matematica osserva quella stessa formula. Dehaene, professore al Collège de France a Parigi, può fregiarsi di una lunga serie di scoperte, internazionalmente apprezzate, sui meccanismi cerebrali soggiacenti svariati fondamentali processi cognitivi, in special modo, ma non solo, la lettura dell'aritmetica. Anticipando la sua presentazione a Trieste, gli chiedo come questa scoperta si connette con gli studi linguistici di Chomsky. «Alcuni anni orsono, in un noto lavoro pubblicato in Science, Chomsky, Marc Hauser e Tecumseh Fitch suggerirono che un aspetto fondamentale dell'evoluzione del linguaggio è stata l'emergenza della nostra capacità ricorsiva, cioè il poter applicare ripetutamente un'operazione sintattica al prodotto di tale identica operazione già precedentemente effettuata. I simboli, in altre parole, sono incassati uno dentro l'altro e la nostra mente procede dall'interno verso l'esterno. Ebbene, aggiunge Dehaene, nelle formule matematiche abbiamo un processo molto simile, anzi identico. Le parentesi, nelle formule, sono incassate una dentro l'altra e racchiudono dei simboli matematici».
Gli chiedo un esempio molto semplice e mi fornisce il seguente, noto a molti di noi fino dalla scuola media. Moltiplicando (a+b) per (a-b) si ottiene a2-b2. In formula: (a+b)(a-b)= a²-b². Poi precisa che, mentre molti studi, compresi i suoi in anni recenti, hanno esaminato il funzionamento del cervello nel dominio del linguaggio, poche analisi sono, invece, state fatte su come il cervello analizza le formule matematiche. La lacuna viene adesso colmata da Dehaene e dai suoi colleghi Mariano Sigman, Masaki Maruyama e Christophe Pallier. In sostanza, hanno analizzato sia i movimenti oculari che le attivazioni cerebrali in soggetti che osservano formule molto semplici, come 4-((2+3)x5). Il metodo per calcolare questa formula consiste nel completare le operazioni entro la parentesi più incassata (ottenendo ovviamente 5), poi passare alla parentesi subito piu esterna, ottenendo 25, infine operare la sottrazione, ottenendo –21 (si noti il segno meno).
Prosegue: «I soggetti che hanno seguito almeno un corso universitario in matematica operano su tali formule in modo molto rapido. Il loro sguardo subito si fissa sulla parentesi (2+3), la più interna. Poi passa a quella più esterna e infine alla sottrazione. In meno di 200 millisecondi, le aree visive ventrali elaborano questa formula e passano il risultato alle aree parietali, già da noi individuate in passato come deputate al calcolo dell'aritmetica. Molto importante è sottolineare che le aree deputate al linguaggio non contribuiscono affatto all'elaborazione mentale delle formule matematiche. Si noti bene che una formula viene elaborata come fosse una singola parola, e quindi, come ben sappiamo, si attiva il giro (o circonvoluzione) fusiforme». Gli chiedo di spiegare di che si tratta.
«Abbiamo mostrato in lavori precedenti che il giro fusiforme si adatta in modo speciale alla lettura, è attivo in chi ora sta leggendo queste righe. Quando impariamo a leggere, una regione nella corteccia visiva ventrale sinistra, chiamata appunto "area visiva della forma delle parole", viene attivata, tanto più quanto più rapidamente sappiamo leggere. I lettori italiani possono trovare i dettagli in un mio libro intitolato I Neuroni della Lettura (Raffaello Cortina 2009). La sequenza di lettere che formano la parola viene identificata indipendentemente dalla taglia, carattere tipografico, maiuscolo o minuscolo di quelle lettere». In sostanza, conclude Dehaene, «questi nuovi risultati mostrano che, in soggetti matematicamente ben istruiti, un'area distinta ma vicina, appunto, il giro fusiforme, si attiva durante il riconoscimento visivo delle formule matematiche». Torniamo un momento all'ipotesi di Chomsky.
Cosa ci dice questa scoperta? Dehaene così risponde: «Non esiste un singola area di segmentazione dei simboli, di fusione sintattica delle parole, di ricorsività. In particolare ci si riferisce alla ben nota area cerebrale linguistica di Broca. La facoltà di ricorsività, il procedere dall'interno all'esterno quando elaboriamo dei simboli incassati uno dentro l'altro, è distribuita lungo molteplici aree cerebrali». Mi cita un passaggio di Einstein, nel quale il grande fisico dichiarava la totale estraneità del linguaggio, orale o scritto, nella formazione dei suoi pensieri. Simboli, immagini (alcune nette, altre inizialmente sfuocate) e la loro ricombinazione mentale erano la fonte delle idee di Einstein, non il linguaggio. Linguaggio e matematica sono tra loro dissociate, e qui Dehaene mi cita i lavori pionieristici dell'italiano Martin Monti, in collaborazione con l'americano Daniel Osherson. Gli chiedo se queste scoperte possono dirci qualcosa su come meglio insegnare la matematica e su come superare la tanto diffusa paura della matematica. Sorride ed evita di rispondere. Lascio ai lettori e ai professori di matematica trarre le loro conclusioni.
Sarà interessante sapere quali conclusioni trarrà Chomsky da questa scoperta.
Corriere 10.9.12
Il cortile dei Gentili a casa dei Nobel
di Armando Torno
Questa settimana il Cortile dei Gentili — lo spazio di incontri voluto da Bendetto XVI e organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura — riprende a Stoccolma. La capitale svedese ospiterà dibattiti sul tema «Il mondo con o senza Dio?». Sono stati chiamati «duetti», giacché sono dei faccia a faccia tra personalità contrastanti. O forse saranno scontri. E per la bisogna si è messo in campo un argomento chiave che da sempre fa riflettere filosofi e teologi.
Tutto comincerà giovedì 13 settembre all'Accademia reale svedese delle scienze , con i saluti del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e dello scrittore Georg Klein. Poi il primo duetto. Su «Cosa significa credere e non credere?» si contrapporranno Ulf Danielsson (professore di fisica all'Università di Uppsala) e Ingemar Ernberg (biologo, autore del libro Cos'è la vita?); sarà poi la volta dell'incontro «Esiste un mondo non materiale?»: il confronto avverrà tra Antje Jackelén (vescovo della Chiesa di Svezia, diocesi di Lund) e lo scrittore-medico Per Christian Jersild. Tra l'altro, venerdì 14, secondo e ultimo giorno del Cortile svedese, si discuterà «Cosa significa credere e non credere?». Anders Carlberg, scrittore e fondatore del Fryshuset, dibatterà con Linnea Jacobsson, vicepresidente dei Giovani cristiani di sinistra.
Le due giornate svedesi, oltre a evocare una questione sempre aperta, desiderano provocare per meglio far conoscere le ragioni della scienza e le speranze della fede. Inoltre, il Cortile si riunirà in due luoghi simbolo di Stoccolma: l'Accademia, che ha legato il suo nome al Premio Nobel, e il Fryshuset, centro leader di attività sociali, creato per accogliere e soccorrere ragazzi in difficoltà. E tutto questo nell'attesa di Assisi, il 5 e il 6 ottobre, con un Cortile sarà ricco di sorprese.
A Stoccolma non mancheranno scintille parlando di Dio. Ma è bene che sia così. Il cardinale Ravasi ci ha confidato: «A volte la tensione, forse la ferita impediscono la sonnolenza, l'indifferenza, il distacco». Si parla di «ferita» morale. Che, secondo il teologo Ratzinger, genera la bellezza nell'anima.
Repubblica 10.9.12
Le vittime del silenzio
Quei bambini che la Chiesa ha dimenticato
di Concita De Gregorio
ROMA Quel che Pedro Almodovar ha raccontato in forma di fiaba dolente nel più nitido e meno fortunato dei suoi film, La mala educaciòn, il newyorkese Alex Gibney, premio Oscar per Taxi to the dark side, documenta fino allo sfinimento di dettaglio, accumulando per quasi due ore testimonianze, carte, deposizioni, ritagli, filmati d’epoca e insomma prove incontrovertibili del più vergognoso delitto commesso tra le pareti di istituti religiosi cattolici, complice l’omertà delle gerarchie vaticane: la pedofilia seriale perpetrata nel corso di decenni da alti prelati nordamericani ed europei a danno di bambini, in prevalenza maschi, che i medesimi prelati avrebbero dovuto educare. Centinaia le vittime documentate, quattro i testimoni che — oggi adulti — hanno dato il via in America alla causa di risarcimento infine vinta e che ora per la prima volta vediamo e ascoltiamo sullo schermo.
Di Mea maxima culpa. Silenzio nella casa di Dio, presentato ieri in anteprima mondiale al festival di Toronto, si perdonano le pecche formali in virtù della sconvolgente forza dei fatti che, con grande fermezza, espone rompendo il segreto peggio custodito della storia della Chiesa. Per quanto risulti a tratti ripetitivo e nel complesso prolisso il documentario ha tuttavia il grande pregio di raccontare senza paura ciò che nessuno fino a oggi aveva osato. Dei più di duecento ragazzini sordomuti violentati da padre Lawrence Murphy tra le cupe mura della St. John’s school for the deaf, Wisconsin, quattro sono inquadrati fin dalle prime scene e raccontano con linguaggio dei segni — in molti casi assai più evocativo delle parole — la loro storia. A partire dagli anni Settanta i bambini che venivano consegnati dalle famiglie alle cure delle suore e dei preti di questo cupo immenso castello di mattoni scuri sono stati oggetto di molestie e di violenza carnale da parte del rettore, prete grassoccio e di incarnato roseo acclamato in vita come filantropo e morto libero nel 1998, colto da infarto mentre giocava alle slot machines. La storia inizia nel 1972 e si dipana nei quarant’anni successivi, fino a oggi: una costante e inascoltata catena di lettere, denunce, insabbiamenti.
Il Nunzio pontificio fin dal ’74 sapeva, l’arcivescovo Cousins scriveva («in fondo i testimoni sono muti»), un fiume di denaro copriva il rumore di fondo, donazioni per 80 milioni di dollari, altri casi analoghi emergevano in America e nel mondo, da Boston a Dublino a Verona. La congiura del silenzio trovava il suggello nell’ordine impartito nel 2001 dal cardinale Ratzinger: che ogni denuncia di questo tipo arrivasse sulla sua scrivania e solo su quella, in via riservata.
La telecamera di Gibney si sposta in Europa, racconta l’incredibile storia del pedofilo seriale padre Tony Walsh, il prete che imitava Elvis Presley e che adescava i ragazzini ai funerali. Documenta il caso dell’istituto per sordomuti di Verona, vicenda che meriterebbe da sola un film. In tutto simile al caso del Wisconsin, anche all’istituto Antonio Provolo di Verona le vittime sono state per decenni i bambini sordomuti. «Perché allora si considerava che i sordi fossero disturbati mentali», dice uno dei testimoni. Erano muti e per giunta poverissimi, le vittime ideali. Assai prima che esplodesse lo scandalo della Chiesa di Boston e che si giungesse, da ultimo, alle scuse pubbliche di Ratzinger nel frattempo eletto papa molto ci sarebbe stato da raccontare — mostra Gibney — sui Legionari di cristo di padre Maciel Marcial Degollado, che qui si indica come vicinissimo ad Angelo Sodano. Una vera e propria rete di pedofilia sulla quale il cardinale Ratzinger chiese e ottenne da Giovanni Paolo II, nel 2004, d’indagare. Furono gli stessi legionari, infine, ad ammettere che il fondatore aveva commesso abusi sessuali ripetuti sui seminaristi della congregazione. Degollado, però, nel frattempo era morto.
Difficile immaginare che Silenzio nella casa di Dio trovi un distributore per le sale italiane, e ancor meno che possa essere trasmesso in tv per quanto non si debba mai perdere la speranza nel coraggio degli uomini. Il Vaticano ha naturalmente negato ogni autorizzazione alle interviste che Gibney aveva richiesto. Il regista, tuttavia, si ostina sereno a ripetere che il suo lavoro è al servizio della vera fede e dello spirito autentico della chiesa «perché nulla — dice — è più sacro dell’innocenza. Coprire questo crimine e non denunciarlo equivale a commetterlo».
Corriere 10.9.12
Intervista a Marco Bellocchio
«Film troppo italiano? Idiozie Niente lezioni, mai più in gara»
di Giuseppina Manin
VENEZIA — E così anche stavolta l'Italia esce dalla Mostra del Cinema di Venezia a mani vuote, o quasi. L'atteso riconoscimento per la sua Bella addormentata non è arrivato. Di quello che realmente è successo in giuria nulla si sa. Ma da dietro le quinte trapelano voci. Si dice che i nostri film sarebbero poco capaci di varcare i confini, troppo autoreferenziali...
Cosa ne pensa, Marco Bellocchio?
«Mi sembra un giudizio idiota. Non vuol dire niente, di queste imbecillità ne ho piene le scatole. Da un giurato mi aspetterei altro, che faccia la fatica di spiegare le ragioni perché un film non gli è piaciuto. Il mio dubbio è che chi dice queste cose viene da una cultura che parla inglese, poco sensibile alle sfumature di altri linguaggi. A chi parla di autoreferenzialità vorrei chiedere: ma tu che cosa hai capito del mio film?».
Un film che parla di eutanasia, dei labili confini tra la vita, la morte, il risveglio. Argomento forti, coinvolgenti, laceranti. In Italia come altrove.
«Difatti il film è conteso da tutti i grandi festival internazionali. Tra pochi giorni lo porterò a Toronto, poi a New York, Rio, Mosca, Tokyo, Telluride... Se in così tanti sono interessati ci sarà pure una ragione. Inoltre anche la stampa straniera, da Variety a Le Monde, ne ha parlato benissimo. Non dico questo per elogiarlo, ma evidentemente anche all'estero è stato capito, e anche apprezzato».
Quando però lei fa dei film centrati su fatti italiani, da «Buongiorno, notte» sul caso Moro a «Vincere!» sul figlio illegittimo di Mussolini, i festival non rispondono come ci si aspetterebbe.
«Eppure proprio quei due film hanno avuto una grande accoglienza in tutto il mondo. Segno che toccavano temi comuni a tutti, vedi il terrorismo. Naturalmente ogni regista li racconta a seconda della sua sensibilità, della sua storia, della sua cultura. Io sono italiano, orgoglioso di esserlo, parlo di cose che conosco, che riguardano il mio Paese. Tra le frasi più stupide che si ripetono è quella di un cinema italiano che si guarda l'ombelico. Il problema è un altro...».
Cioè?
«Chi viene da Oltreoceano talora ha difficoltà a capire qualcosa dell'Italia, che cosa davvero succede da noi, quale siano le forze politiche in gioco, la nostra tradizione cattolica, il peso del Vaticano. O forse non gli interessa neanche. Per questo spara obiezioni superficiali con la supponenza di chi si considera padrone del mondo».
I precisi riferimenti del film al caso di Eluana Englaro, al clima che in quei giorni si respirava in Italia, alle facce dei politici che apparivano in tv, sono forse di non immediata comprensione per uno straniero...
«Può darsi. Ma erano giorni di grande tensione per l'Italia. La fretta di varare una legge in corsa con la morte di Eluana ha innescato una suspense tragicomica. Magari un americano fatica a capirlo, ma era proprio così. In ogni personaggio di Bella addormentata ho messo tratti riconoscibili di come io ho vissuto quella vicenda».
Il non essere un film a tesi, un film scandalo, non gli ha giovato.
«Non era mia intenzione. Non mi interessa la provocazione immediata che va di moda adesso. Ho letto di un film che mostrava una donna far sesso con un crocefisso... Quel tipo di scandalo non fa per me. Io ho affrontato con rispetto e in modo complesso un tema arduo e delicato come il fine vita, per questo il film ha bisogno di più tempo per essere capito fino in fondo. Il ritmo di un festival non lo permette, conto sul passaparola tra spettatori, su scambi di giudizi, meditazioni... E questo che fa crescere un film e gli garantisce lunga vita. È stato così per gli altri due, conto che succeda anche per quest'ultimo».
È già successo, il pubblico della Mostra lo ha accolto con entusiasmo.
«Di due cose sono certo. I sedici minuti di applausi dopo la proiezione, una reazione sincera, non di circostanza. La gente in sala era davvero emozionata. E poi c'è stato un altro applauso, in sala stampa. Anch'esso caldissimo, che però mi ha suscitato un ricordo e un presentimento. Anche l'altra volta, con Buongiorno, notte, era successo lo stesso. Grande consenso tra i giornalisti, ma poi disinteresse dei giurati».
Allora a guidare la giuria era Mario Monicelli, stavolta Michael Mann, il regista di «Collateral» e «Miami Vice». Che pensa del suo cinema?
«Che è impeccabile, ma non mi interessa. Sul cinema Mann e io abbiamo idee totalmente diverse».
E la giuria?
«Non dirò una parola in proposito. Ha giudicato secondo una sua idea di bellezza: i film premiati erano i più belli. Basta. Ma non ci vengano a dare lezioni su che cosa gli italiani dovrebbero raccontare al cinema».
Alla fine, le spiace aver partecipato al concorso?
«Vista la mia età, a Venezia sarei andato volentieri fuori concorso. Poi ho pensato che un film è un'opera collettiva e sarebbe stato ingiusto penalizzare gli altri. La verità? Ho partecipato alla competizione e sono stato sconfitto. Lamentarmi no. Come dice una canzone di Aznavour: "La dignità devi salvar malgrado il male che tu senti, devi partir senza tornar...". Ho comunque preso una decisione: non parteciperò mai più a un festival. Questo è stato l'ultimo della mia carriera».
Corriere 10.9.12
Garrone sulla giuria: non farò da capro espiatorio
di Stefania Ulivi
«Le scelte della giuria si accettano e non si discutono». Ci prova il direttore della Mostra Alberto Barbera a riportare serenità dopo le polemiche seguite al verdetto della giuria da lui scelta per Venezia 69. Ne elogia l'imparzialità. «È stata di una tranquillità eccezionale, democratica e rispettosa. Michael Mann non ha imposto nessun premio, tutt'al più ne ha subito qualcuno». Prova anche a chiudere la pratica Bellocchio. L'Italia a secco di premi, in fondo, è il tormentone che si replica ogni anno. «A me Bella addormentata è piaciuto, ma rispetto il giudizio dei nove giurati. E comunque, è inutile discutere del cinema italiano che non parla al pubblico internazionale. È un discorso vecchio. Ogni anno si dice questa stessa cosa».
Come può essere triste Venezia Matteo Garrone ce l'aveva stampato in faccia sabato sera alla conferenza stampa. Più tardi si è sfogato con un alcune croniste: «Non voglio fare il capro espiatorio e non voglio più fare il giurato, soprattutto in un festival italiano» ha detto il regista dei premiatissimi (a Cannes) Gomorra e Reality, evidentemente più a suo agio nell'interpretare i crudi codici di Scampia piuttosto che muoversi tra le insidie della laguna. Cerca di tenere insieme, come dire, il privato («Sono amico di Marco Bellocchio e lo ammiro») e il politico, ovvero l'operato della giuria di cui è stato parte integrante: «Intanto due premi su otto ci sono — ha ricordato —. La giuria è un lavoro complicato e non è niente di oggettivo: le decisioni sono di pancia, di gusti personali e io sono stato solo uno degli otto». Però è evidente che la situazione gli sta stretta. Essendo uno dei pochi, anzi dei due registi under 50 conosciuti e apprezzati all'estero (lui e Paolo Sorrentino) sottolinea l'atteggiamento «provinciale» di sempre, di chi gioca in casa e dà per scontata una vittoria. E sostiene Michael Mann e la combattiva Samantha Morton che in conferenza stampa gli hanno tolto la parola: «Macché, mi hanno difeso invece, hanno capito che si cercava di mettermi in mezzo sui premi».
Chi dalle polemiche si tiene lontano è Daniele Ciprì, premiato per la fotografia e il giovane interprete di È stato il figlio: «Non sono due premi contentini».
Corriere 10.9.12
La solita «guerra»
di Paolo Mereghetti
La dichiarazione di Michael Mann sul «provincialismo» del cinema italiano è solo l'ultimo atto di una guerra che si combatte da anni. Non solo nei festival, ma ahimè anche nell'immaginario cinematografico. L'unico metro di giudizio sul valore di un film rischia di diventare la sua «popolarità». Cioè l'accoglienza del pubblico. Cioè l'incasso al botteghino. Aver successo non è certo una colpa, ma perché dovrebbe esserlo non averne? Sarebbe facile ribaltare l'accusa e fargli notare che il film che ha prodotto per sua figlia Ami, Texas Killing Fields, è stato maltrattato al botteghino: anche lui «provinciale» allora? Forse sarebbe il caso di smetterla con queste uscite, che fanno il paio con quelle che ironizzavano sull'incomprensibilità dei film iraniani o coreani. Sono luoghi comuni che alimentano solo disprezzo verso il cinema meno corrivo, quello che si sforza di far ragionare il pubblico. Senza Bellocchio, come senza Vigo o Godard, senza Herzog o Kluge, senza Kramer o Cassavetes, senza Ozu o Naruse (tutti poco o niente popolari) il cinema non sarebbe diventato quello che è. E forse nemmeno Mann avrebbe fatto i film che l'hanno reso celebre.
Corriere 10.9.12
Negli incassi è dietro al nuovo «Bourne»
Nei primi tre giorni di programmazione nei cinema, dove è uscito giovedì scorso, Bella addormentata (foto) di Bellocchio si piazza al 7° posto dei film più visti della settimana (dati Cinetel) con circa 270 mila euro di incasso. Lo precedono due blockbuster: The Bourne Legacy (6°) e I mercenari 2 (5°).
La Stampa 10.9.12
Italia, la maledizione del Leone È polemica sui premi mancati
Garrone sbotta dopo la vittoria del film coreano: non farò mai più il giurato
Bellocchio: accetto la bocciatura ma non ditemi che sono provinciale
di Fulvia Caprara
IL REGISTA DI «BELLA ADDORMENTATA»: «Non ci vengano a dare lezioni su cosa gli italiani dovrebbero raccontare al cinema»
Il dopo-Mostra è ancora una volta bagarre. Il giurato italiano Matteo Garrone, temendo di finire nel mirino delle polemiche causa mancato premio alla cinematografia italiana, fa sapere che non accetterà mai più lo stesso incarico, almeno in un festival che si svolga entro i confini nazionali. E soprattutto spiega che il presidente Michael Mann non lo ha affatto zittito, piuttosto difeso in anticipo dalla tempesta che stava per arrivare: «Ha capito che si cercava di mettermi in mezzo sui premi». Quello della giuria, dice ancora il regista di Gomorra, è «un lavoro complesso, d’insieme, in cui niente è oggettivo. Con quegli stessi film e un’altra giuria avrebbero potuto vincere altri titoli, che so, per esempio quello di Brillante Mendoza Thy womb che noi invece non abbiamo premiato». Dal canto suo il grande escluso Marco Bellocchio tuona contro chi avrebbe fatto intendere che i nostri film non vincono, o vincono di rado, perché sono troppo autoreferenziali, incapaci di raccontare storie universali. Se Garrone che, secondo la compagna di giuria Laetitia Casta, avrebbe avuto invece un atteggiamento molto patriottico, rifiuta, giustamente, la responsabilità della bocciatura italiana, Marco Bellocchio incassa con eleganza e s’indigna contro chi vuole dare lezioni: «Ho partecipato alla competizione e sono stato sconfitto, questa è un’indubbia verità, però non ci vengano a dire che cosa deve raccontare il nostro cinema». E poi, con più veemenza, aggiunge: «Il cinema italiano sarebbe troppo autoreferenziale? Non si occuperebbe di temi universali? Beh, di questa imbecillità ho piene le scatole, l’eutanasia, il dramma della fine vita sarebbe un tema provinciale? Comunque, avendo accettato di partecipare al concorso, accetto la decisione della giuria, che ha premiato la sua idea di bellezza. I film premiati erano i più belli, basta».
Il direttore Barbera, nella colazione di commiato dalla stampa, cerca di gettare acqua sul fuoco: «Ogni volta si ripropone la questione del cinema italiano che non riesce, se non con alcune eccezioni, a vincere premi, e si discute della necessità di un linguaggio più universale. Non voglio entrare nel merito di scelte che rappresentano questa giuria. Il resto è discussione accademica, illazioni. Dedurre da un verdetto lo stato di salute della nostra cinematografia mi sembra un inutile esercizio di retorica. Questa giuria ha deciso così, fosse stata composta da altre persone, avremmo avuto un esito diverso».
Tutti comincia dopo la fine della premiazione, durante la festa che tradizionalmente chiude la rassegna. Alcuni ballano per dimenticare, altri festeggiano con i compagni di squadra, altri vanno a dormire presto sperando di farsi passare il cattivo umore. Ma c’è anche chi, come Olivier Assayas, ha la pazienza di mettersi in posa per le foto dei fan. È lo stile francese, il suo film autobiografico sui post-sessantottini è stato premiato per la sceneggiatura, secondo molti critici meritava molto di più, ma il regista non mette il broncio e si gode gli ultimi fuochi della Mostra. A Cannes è capitato che, per anni e anni, i francesi non abbiano toccato Palma, ma alla fine dei festival solo una piccola parte di stampa partigiana e spesso locale, ha gridato all’ingiustizia. Da noi, invece, la polemica post-premi è d’obbligo. Se gli italiani non portano a casa un trofeo di rilievo, apriti cielo. Si arrabbiano i produttori (stavolta è toccato a Paolo Del Brocco di Raicinema), s’incupiscono gli autori, e i giornalisti, a sorpresa, si scoprono dotati di grande amore per la patria. Se poi in giuria c’è un italiano, allora la crocifissione è assicurata, altro che Pietà di Kim Ki duk.
Per questo il povero Matteo Garrone, splendido quarantenne del nostro cinema, premiato a Cannes già due volte, ha trascorso, tra sabato e domenica, una notte da dimenticare. Prima di provare a dormire, ignorando i cenni gentili della moglie Nunzia, ha continuato a vagare tra i saloni dell’Excelsior, mare, spiaggia e sfoghi: «Ho incontrato Ermanno Olmi, mi ha detto che Pietà non gli è piaciuto, ecco, fosse stato lui il presidente, di certo Kim Ki duk non avrebbe avuto il Leone». In ogni caso, sottolinea il regista, «due premi gli italiani li hanno avuti», magari piccoli, ma significativi. La ferita aperta, però, riguarda Bella addormentata: «Ammiro Bellocchio - ripete - e sono suo amico». Quello che lo fa arrabbiare è il provincialismo con cui si accoglie un mancato premio all’Italia: «I film devono trovare, in giuria, più di un consenso. Non leggiamo le critiche e nemmeno le notizie sui minuti di applausi, le decisioni sono di pancia, riguardano i gusti personali, e io ero solo uno degli otto giurati». Garrone ricorda il caso Monicelli, presidente di giuria nell’anno in cui, sempre Bellocchio, non vinse nulla con Buongiorno notte. Insomma, vuole dire, le sconfitte fanno parte del percorso degli autori: «Per Gomorra ho preso un sacco di premi, ero stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar, poi è successo che non sono nemmeno entrato nella short list pre-cinquine. Che ho fatto? Niente. Mi avete sentito dire qualcosa? No».
A Cannes, invece, è sempre andata bene: «Sono stato fortunato, sia con Gomorra che con Reality mi è capitato di trovare in giuria gente sensibile al mio modo di esprimermi». Una cosa, al momento, è certa, anche se magari è dettata dalla stanchezza del momento: «Non voglio fare più il giurato, soprattutto in un festival italiano».Il dopo-Mostra è ancora una volta bagarre. Il giurato italiano Matteo Garrone, temendo di finire nel mirino delle polemiche causa mancato premio alla cinematografia italiana, fa sapere che non accetterà mai più lo stesso incarico, almeno in un festival che si svolga entro i confini nazionali. E soprattutto spiega che il presidente Michael Mann non lo ha affatto zittito, piuttosto difeso in anticipo dalla tempesta che stava per arrivare: «Ha capito che si cercava di mettermi in mezzo sui premi». Quello della giuria, dice ancora il regista di Gomorra, è «un lavoro complesso, d’insieme, in cui niente è oggettivo. Con quegli stessi film e un’altra giuria avrebbero potuto vincere altri titoli, che so, per esempio quello di Brillante Mendoza Thy womb che noi invece non abbiamo premiato». Dal canto suo il grande escluso Marco Bellocchio tuona contro chi avrebbe fatto intendere che i nostri film non vincono, o vincono di rado, perché sono troppo autoreferenziali, incapaci di raccontare storie universali. Se Garrone che, secondo la compagna di giuria Laetitia Casta, avrebbe avuto invece un atteggiamento molto patriottico, rifiuta, giustamente, la responsabilità della bocciatura italiana, Marco Bellocchio incassa con eleganza e s’indigna contro chi vuole dare lezioni: «Ho partecipato alla competizione e sono stato sconfitto, questa è un’indubbia verità, però non ci vengano a dire che cosa deve raccontare il nostro cinema». E poi, con più veemenza, aggiunge: «Il cinema italiano sarebbe troppo autoreferenziale? Non si occuperebbe di temi universali? Beh, di questa imbecillità ho piene le scatole, l’eutanasia, il dramma della fine vita sarebbe un tema provinciale? Comunque, avendo accettato di partecipare al concorso, accetto la decisione della giuria, che ha premiato la sua idea di bellezza. I film premiati erano i più belli, basta».
Il direttore Barbera, nella colazione di commiato dalla stampa, cerca di gettare acqua sul fuoco: «Ogni volta si ripropone la questione del cinema italiano che non riesce, se non con alcune eccezioni, a vincere premi, e si discute della necessità di un linguaggio più universale. Non voglio entrare nel merito di scelte che rappresentano questa giuria. Il resto è discussione accademica, illazioni. Dedurre da un verdetto lo stato di salute della nostra cinematografia mi sembra un inutile esercizio di retorica. Questa giuria ha deciso così, fosse stata composta da altre persone, avremmo avuto un esito diverso».
Tutti comincia dopo la fine della premiazione, durante la festa che tradizionalmente chiude la rassegna. Alcuni ballano per dimenticare, altri festeggiano con i compagni di squadra, altri vanno a dormire presto sperando di farsi passare il cattivo umore. Ma c’è anche chi, come Olivier Assayas, ha la pazienza di mettersi in posa per le foto dei fan. È lo stile francese, il suo film autobiografico sui post-sessantottini è stato premiato per la sceneggiatura, secondo molti critici meritava molto di più, ma il regista non mette il broncio e si gode gli ultimi fuochi della Mostra. A Cannes è capitato che, per anni e anni, i francesi non abbiano toccato Palma, ma alla fine dei festival solo una piccola parte di stampa partigiana e spesso locale, ha gridato all’ingiustizia. Da noi, invece, la polemica post-premi è d’obbligo. Se gli italiani non portano a casa un trofeo di rilievo, apriti cielo. Si arrabbiano i produttori (stavolta è toccato a Paolo Del Brocco di Raicinema), s’incupiscono gli autori, e i giornalisti, a sorpresa, si scoprono dotati di grande amore per la patria. Se poi in giuria c’è un italiano, allora la crocifissione è assicurata, altro che Pietà di Kim Ki duk.
Per questo il povero Matteo Garrone, splendido quarantenne del nostro cinema, premiato a Cannes già due volte, ha trascorso, tra sabato e domenica, una notte da dimenticare. Prima di provare a dormire, ignorando i cenni gentili della moglie Nunzia, ha continuato a vagare tra i saloni dell’Excelsior, mare, spiaggia e sfoghi: «Ho incontrato Ermanno Olmi, mi ha detto che Pietà non gli è piaciuto, ecco, fosse stato lui il presidente, di certo Kim Ki duk non avrebbe avuto il Leone». In ogni caso, sottolinea il regista, «due premi gli italiani li hanno avuti», magari piccoli, ma significativi. La ferita aperta, però, riguarda Bella addormentata: «Ammiro Bellocchio - ripete - e sono suo amico». Quello che lo fa arrabbiare è il provincialismo con cui si accoglie un mancato premio all’Italia: «I film devono trovare, in giuria, più di un consenso. Non leggiamo le critiche e nemmeno le notizie sui minuti di applausi, le decisioni sono di pancia, riguardano i gusti personali, e io ero solo uno degli otto giurati». Garrone ricorda il caso Monicelli, presidente di giuria nell’anno in cui, sempre Bellocchio, non vinse nulla con Buongiorno notte. Insomma, vuole dire, le sconfitte fanno parte del percorso degli autori: «Per Gomorra ho preso un sacco di premi, ero stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar, poi è successo che non sono nemmeno entrato nella short list pre-cinquine. Che ho fatto? Niente. Mi avete sentito dire qualcosa? No».
A Cannes, invece, è sempre andata bene: «Sono stato fortunato, sia con Gomorra che con Reality mi è capitato di trovare in giuria gente sensibile al mio modo di esprimermi». Una cosa, al momento, è certa, anche se magari è dettata dalla stanchezza del momento: «Non voglio fare più il giurato, soprattutto in un festival italiano».
La Stampa 10.9.12
Intervista
Barbera: le scelte della giuria non si discutono
Il direttore: Michael Mann è imparziale
di F. C.
Il verdetto della giuria guidata da Michael Mann fa discutere. Qualcuno dice che, dal modo con cui, l’altra sera, ha impedito a Garrone di rispondere alle domande sui film italiani non premiati, si capisce che dev’essere stato un presidente leader. Direttore Barbera, lei che impressione ha avuto?
«L’atteggiamento di Mann è stato assolutamente opposto. Non ha imposto nessun premio, anzi, al massimo ne ha subito qualcuno. La giuria mi è sembrata molto democratica, formata da persone rispettose dei pareri diversi, e anche molto appassionate, hanno passato intere nottate a discutere dei film in gara. L’unica cosa che Michael Mann ha sicuramente fatto è stato chiedere il rispetto di quella norma di comportamento che impedisce a chiunque di parlare del lavoro svolto dalla giuria. Le discussioni sono private e dovrebbero restare tali, quello che parla è solo il verdetto».
La delusione riguarda soprattutto Bellocchio. Il suo film è stato accolto molto bene al festival, si sperava in un premio e Raicinema, che lo produce, ha manifestato forte scontento.
«Questo è assolutamente legittimo, si può dire quello che si vuole. A me Bella addormentata è piaciuto moltissimo, altrimenti non l’avrei scelto, ma questo è un parere personale che va rispettato, ma da cui non bisogna dedurre niente. I giurati hanno visto 18 film e dovevano attribuire 8 premi».
Quasi tutti i film premiati, e anche molti altri, parlano di fede e di religiosità. È un filo rosso che ha attraversato l’intera rassegna, come mai?
«Credo che i film siano stati votati in base alla capacità di emozionare e di convincere. Se poi ci si accorge che trattano tutti grandi temi come la religiosità, nel senso di aspirazione ad andare oltre in un momento di forte crisi, significa forse che il cinema sta tornando ad essere lo specchio dei problemi che attraversano la società di oggi».
Per la prima volta una sezione della Mostra è stata in parte visibile on-line. Come è andato l’esperimento?
«La sala web ha funzionato, ma senza numeri straordinari. Era una iniziativa completamente nuova e siamo partiti tardissimo con la promozione. I fruitori sono stati soprattutto italiani, dall’estero c’è stata meno risonanza ma forse proprio perchè la novità è stata recepita in ritardo. Dobbiamo studiare la maniera per promuovere sul web un’innovazione dedicata al popolo del web».
L’altra novità riguardava il ripristino del mercato. Soddisfatto?
«Il mercato ha ottenuto i risultati che ci aspettavamo dalla prima edizione. Pensiamo che quelli che stavolta non sono venuti, verranno la prossima e che il mercato è destinato a crescere».
E le star? Ne avrebbe volute di più?
«Le star vengono se hanno film, e i film disponibili in un determinato periodo dell’anno non dipendono dalle scelte dei direttori di festival. È una questione di tempi. Se una pellicola è pronta in un certo periodo, tenderà ad andare nel festival di quel periodo, e così via».
In tanti si sono chiesti perchè il lodatissimo film di Leonardo Di Costanzo «L’intervallo» non sia stato selezionato per il concorso.
«Preferisco che sia andata così. L’intervallo ha preso sette premi collaterali e ha avuto un’ottima risonanza. La cosa più difficile della selezione è scegliere che cosa debba andare o non andare in gara, è inevitabile fare errori, mentre, a posteriori, è molto facile giudicare le decisioni prese. Ricorderei anche che, in tempi recenti, opere prime messe in competizione non hanno dato risultati all’altezza delle aspettative e questo le ha molto penalizzate».
La formula dei festival ha ancora un senso?
«Sì, i festival rimarranno luoghi di aggregazione importanti per il pubblico, serviranno ad aiutare le piccole produzioni, avranno ancora la loro funzione».
Repubblica 10.9.12
Lo sfogo di Bellocchio: non datemi lezioni di regia
di Maria Pia Fusco
Quando ha saputo che Bella addormentata non avrebbe avuto premi dalla giuria guidata da Michael Mann, la prima reazione di Marco Bellocchio è stata di nobile distacco: no comment, telefono staccato. Aveva presentato il film a Udine, aveva ricevuto una magnifica accoglienza.
E il giudizio del pubblico era un valore sufficiente a superare la delusione di Venezia. Ieri mattina ci ha ripensato, ha parlato con tono niente affatto distaccato. Comincia con un dato di fatto — «Ho partecipato alla competizione e sono stato sconfitto. Questa è un’indubbia verità. Era nel conto». E continua: «Lamentarsi, no. Ora mi viene in mente un po’ scherzosamente di Charles Aznavour nella versione italiana e quel passaggio “la dignità devi salvarla malgrado il male che tu senti, devi partir senza tornar...”».
Poi, e finalmente, recupera la vivacità dell’autore, maestro nel raccontare la ribellione contro la stupidità e l’ingiustizia: «La sola cosa che mi viene in mente è la critica,
pare di un membro della giuria, rivolta al cinema italiano che sarebbe troppo provinciale, autoreferenziale, non si occuperebbe di temi universali. Ora io di questa imbecillità ne ho piene le scatole. L’eutanasia, la tragedia o il dramma del fine vita sono forse un tema provinciale? Accetto la decisione della giuria (avendo accettato di partecipare al concorso) che ha giudicato secondo una sua idea di bellezza: i film premiati erano i più belli. Basta. Ma non ci vengano a dare lezioni su cosa gli italiani dovrebbero raccontare al cinema». E prosegue: «A rafforzare questo che sto dicendo mi pare che ci siano degli autorevoli giornali internazionali che hanno capito e apprezzato e riconosciuto la qualità del mio film, come ho affrontato dei temi che sono comprensibili e che sanno emozionare anche un pubblico che non è italiano. Sto per andare a Toronto, uno dei festival più importanti del mondo, dove la presenza dei film italiani è numerosa e dimostra quindi che essi vengono apprezzati nelle vetrine internazionali. E poi Busan, Mosca, Londra, Rio, sono già più di dieci i festival internazionali che hanno invitato il film....».
Del resto a smentire qualunque accusa di provincialismo basterebbe una scorsa alla stampa straniera. L’autorevole Time titola il resoconto finale della Mostra con “Viva Venezia! La celebrazione cinematografica più piacevole del mondo”, il Financial Timessottolinea il taglio eccentrico: “Dal super- trash psichedelico alla serissima esplorazione del tema dell’eutanasia, è tutto benvenuto alla Mostra”. Il tedesco Die Weltelogia il ritorno di Alberto Barbera “che ha messo in concorso alcuni veri gioielli” e la critica entusiasta di Le Monde a Bella addormentata, The Indipendent che definisce il festival “una cascata di qualità”. Sulle scelte della giuria si è espresso ieri anche Alberto Barbera, che con il presidente Baratta ha tenuto il tradizionale incontro di fine Mostra. «Anche dopo Casnnes i francesi hanno discusso un mese accusando la giuria di non aver premiato un loro film ma Garrone. Io posso solo dire che il film di Bellocchio è piaciuto tantissimo, altrimenti non lo avrei messo in concorso». Barbera difende anche l’atteggiamento di Michael Mann, che avrebbe “zittito” il giurato Matteo Garrone, un atteggiamento «che mi era stato annunciato da lui stesso prima della conferenza stampa: “Impedirò a chiunque di fare domande ai singoli giurati per tutelare la privacy delle decisioni”, aveva detto».
Anche Garrone respinge il rimprovero di non aver sostenuto il cinema italiano: «Intanto due premi su otto ci sono. E non c’è uno dei miei colleghi giurati che sia d’accordo su tutti i premi che abbiamo assegnato. La giuria è un lavoro complicato, di insieme, non c’è niente di oggettivo. Con gli stessi 18 film un’altra giuria avrebbe magari fatto vincere il film di Mendoza che noi non abbiamo premiato». Quanto a Bella addormentata, «chiariamo che sono amico di Bellocchio e lo ammiro. Nell’esprimere delusione per un mancato premio all’Italia, siamo provinciali, perché un film in una giuria deve trovare più di un consenso, e non che potevamo metterci a leggere le recensioni o farci influenzare dagli applausi. Un festival è un po’ una lotteria, le decisioni sono di pancia, di gusti personali. E io sono stato solo uno degli otto giurati».
Come Barbera, che ha definito Michael Mann un giudice imparziale — «Ho seguito la giuria, è stata di una tranquillità eccezionale, una giuria democratica e rispettosa. Mann non ha imposto nessun premio, anzi ne ha subito qualcuno » — anche Garrone parla di correttezza. Ma non deve avere vissuto un’atmosfera così tranquilla se la sua conclusione è «Non farò mai più il giurato soprattutto in un festival italiano». Quanto a Mann “sincero democratico”, chissà che ne pensa chi alla Mostra ha subito i suoi capricci: dalla furia contro l’autista che non gli piaceva all’indignazione perché la giuria non aveva a disposizione un ascensore riservato.