l’Unità 13.7.12
Nozze e crisi dei 15 anni In aumento le separazioni
di Pino Stoppon
La famiglia italiana è sempre più in crisi e aumenta la propensione alla rottura dell’unione coniugale anche tra gli ultrasessantenni: in base ai dati del 2010, censiti dall’Istat, infatti, ci sono state 307 separazioni e 182 divorzi ogni mille matrimoni confermando un trend in continua crescita a partire dal 1995 quando a non stare a galla erano 158 coppie su mille. In pratica, oggi, il 30% delle nozze, più o meno, naufraga al giro di boa del quindicesimo anno di matrimonio. Per fortuna, nell’85,5% dei casi rileva il report annuale dell’Istituto nazionale di statistica ci si dice addio in maniera consensuale. Il flop tra marito e moglie avviene più di frequente quando i mariti veleggiano attorno ai 45 anni e le mogli ai 42. Dieci anni fa, invece, il maggior numero di separazioni avveniva nella fascia di età 35-39.
Per quanto riguarda il boom di chi decide di separarsi sulle soglie dell’età anziana, i numeri dicono che negli ultimi dieci anni sono passati dal 5,9% al 9,9% gli uomini con più di 60 anni che optano per la separazione. Le donne sono un po’ di meno, ma anche loro in crescita con un valore più che raddoppiato (dal 3,6% al 6,4%) nel periodo 2000-2010. Scoppiano anche le coppie miste e «in più di sette casi su dieci, la tipologia che arriva a separarsi è quella con marito italiano e moglie straniera spiega l’Istat questo risultato appare strettamente connesso con la maggiore propensione degli uomini italiani a sposare una cittadina straniera». A conti fatti, nel 2010 le separazioni delle coppie miste sono state 7.173 , pari all'8,1% di tutte le separazioni contro il 9,2% del 2000 e la cifra record del 76,7% registrata nel 2005 con 7.536 rotture.
In generale, il 68,7% delle separazioni e il 58,5% dei divorzi ha riguardato coppie con figli in affido condiviso nel 90% dei casi. Solo nel 9% dei casi i figli sono affidati solo alla madre mentre «la quota di affidamenti concessi al padre continua a rimanere su livelli molto bassi». L’affidamento dei minori a terzi, «è una categoria residuale che interessa meno dell’1% dei bambini». La mappatura geografica delle coppie che si lasciano evidenzia una litigiosità più alta al Sud dove le separazioni giudiziali (in media 14,5%) raggiungono il 21,5%.
La Stampa 13.7.12
Il matrimonio? Dura 15 anni Si separa una coppia su tre
L’Istat diffonde i dati sulla famiglia: la crisi arriva a 45 anni Boom di addii anche tra ultrasessantenni e coppie miste
L’85,5% delle separazioni e il 72,4% dei divorzi nel 2010 sono stati consensuali
di Sara Ricotta Voza
Doccia fredda sulla famiglia italiana, l’ennesima. Questa volta arriva non dal fisco o dalla cronaca nera ma dal rapporto Istat 2010 su separazioni e divorzi. I dati parlano duro e non tengono conto di tensioni, sofferenze e sfumature nelle storie che ci sono dietro, semplicemente fotografano: ci si separa sempre di più (quasi una coppia su tre) e non bastano i figli o «durare» negli anni per avere la certezza di invecchiare insieme e onorare il promesso «per sempre».
Il matrimonio italiano medio, infatti, ha mostrato di riuscire a superare il famigerato settimo anno ma s’incaglia definitivamente sul quindicesimo. Così l’età media della separazione non è più, come dieci anni fa, fra i 35 e i 39 anni ma molto più tardi, quando qualcuno forse ha anche pensato di «avercela fatta». Le nuove cifre dicono che è 45 anni per l’uomo e 42 per la donna, poco di più, quindi, per i divorzi. Il che si spiega, ovviamente, anche col fatto che gli «sposi-bambini» sotto i trent’anni sono sempre di meno.
Le coppie che hanno messo fine al loro matrimonio sono aumentate di poco ma costantemente, così se tra il 2009 e il 2010 l’incremento è stato «solo» del 2,6% per le separazioni e addirittura negativo per i divorzi (- 0,5%), il confronto con il 1995 è invece spietato: 158 separazioni (e 80 divorzi) su 1000 matrimoni nel ’95 contro le 307 (e 182 divorzi) del 2010. Uno dei dati più nuovi venuti fuori dall’indagine Istat, però, riguarda i coniugi ultrasessantenni. Nemmeno a loro sembra troppo tardi per dirsi addio e così è «boom» di separati coi capelli bianchi: negli ultimi dieci anni sono addirittura raddoppiati, dal 5,9% al 9,9% gli uomini e dal 3,6 al 6,4% le donne.
L’unica nota positiva in questo scenario - sempre nella logica fredda dei numeri, che comunque nulla dicono delle tensioni e dei compromessi attraverso cui si arriva alla scelta - è che l’85,5% delle separazioni (e il 72,4% dei divorzi) è consensuale mentre la quota delle giudiziali si ferma al 14,5%, con picchi di diffusione al Sud.
Non resta che l’argomento più delicato: i figli. Il 68,7% delle separazioni ha riguardato coppie con figli avuti durante il matrimonio che nell’89,8% dei casi hanno scelto l’affido condiviso. I figli affidati alla sola madre si sono ridotti al 9% e quelli al solo padre non sono mai stati alti.
Ma ci sono ancora due dati interessanti. Uno riguarda i matrimoni misti, anch’essi messi a dura prova e sempre più vicini a finire in separazione e divorzio specie se lui è italiano e lei straniera. L’altro dato è denunciato dall’Ami, Associazione Avvocati Matrimonialisti, che invita a vigilare sul fenomeno delle sempre più frequenti guerre giudiziarie tra le mogli vedove di un marito defunto: 11 mila procedure all’anno, per stabilire chi (la prima moglie? la seconda?) ha diritto non a un ricco «patrimonio», ma alla pensione di reversibilità.
Corriere 13.7.12
I matrimoni durano quindici anni Più separazioni tra i sessantenni
Il rapporto dell'Istat: ci si lascia quando lui ha 45 e lei 42 anni
di Valentina Santarpia
ROMA — Le coppie italiane continuano a «scoppiare»: il 30% delle nozze naufraga al giro di boa dei 15 anni ed è sempre più frequente l'addio tra sessantenni.
A confermarlo è il rapporto dell'Istat «Separazioni e divorzi in Italia» secondo cui nel 2010 ci sono state 307 separazioni (+2,6% rispetto all'anno precedente) e 182 divorzi (-0,5%) ogni mille matrimoni, un trend in continua crescita. Nel '95, a non stare a galla erano 158 coppie su mille. Non c'è un'età «giusta» per rompere il patto d'amore, ma il flop avviene più frequentemente quando i mariti veleggiano intorno ai 45 e le mogli intorno ai 42, mentre fino a dieci anni fa ci si separava tra i 35 e i 39 anni.
Coppie più resistenti? Niente affatto: «L'innalzamento dell'età della separazione — spiega l'Istat — è il risultato sia della maggiore propensione allo scioglimento di unioni di lunga durata, sia di un processo di invecchiamento complessivo della popolazione dei coniugati». Insomma, ci si sposa più tardi (meno di un matrimonio su quattro vede attualmente entrambi gli sposi sotto i 30 anni) e comunque si hanno meno scrupoli, rispetto a un tempo, a chiudere un matrimonio anche se si sta insieme da tempo. Tanto è vero che negli ultimi dieci anni sono passati dal 5,9% al 9,9% gli uomini con più di sessant'anni che optano per la separazione. Le donne sono un po' meno, ma anche loro in crescita, con un valore raddoppiato (dal 3,6% al 6,4%) nel periodo 2000-2010. E rispetto al 1995 le separazioni che arrivano dopo aver festeggiato le nozze d'argento (25 anni di matrimonio) sono più che raddoppiate.
C'è una categoria a rischio? Forse sì, visto che laureati e specializzati si lasciano con più disinvoltura di chi ha trascorso meno anni sui banchi di scuola, contrariamente a quanto accade nel resto d'Europa: sono più propense a separarsi — sottolinea l'Istat — le coppie con un titolo di studio più elevato e «prevalentemente se marito e moglie hanno lo stesso livello di istruzione». Numeri alla mano, nel 2010 ci sono state 4,4 separazioni ogni mille uomini laureati e solo 1,3 per chi aveva solo la licenza elementare.
Il 20,7% delle separazioni giudiziali avviene tra coniugi con basso livello di istruzione e il 14,5% nel Mezzogiorno. Mentre per fortuna generalmente ci si toglie la fede senza farsi guerra: nell'85,5% dei casi — rileva il report dell'Istituto di statistica — la separazione è consensuale.
Scoppiano anche le coppie miste, «e in più di sette casi su dieci, la tipologia che arriva a separarsi è quella con marito italiano e moglie straniera». Nel 2010 sono state oltre 7.000 le separazioni delle coppie miste, pari all'8,1% di tutte le separazioni contro il 9,2% del 2000. E non ci sono figli che tengano: il 68,7% delle separazioni e il 68,5% dei divorzi hanno riguardato coppie con prole. Che viene «gestita» in maniera condivisa nel 90% dei casi: nel 9% dei casi i figli sono affidati solo alla madre, mentre «la quota di affidamenti concessi al padre continua a rimanere su livelli molto bassi». Nel 20,6% delle separazioni uno dei due coniugi (nel 98% dei casi è il marito) deve versare un assegno di mantenimento all'altro: l'importo medio è più alto al Sud (520 euro) che nel resto del Paese (447,4).
Eppure c'è chi ci riprova. «Nell'ultimo anno — sottolinea l'Associazione avvocati matrimonialisti italiani — i secondi matrimoni sono stati il 14% del totale».
Corriere 13.7.12
Napolitano e il Pontefice: abbiamo scoperto una grande affinità
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO — Che ci fosse sintonia tra i due Colli era evidente, ma mai Giorgio Napolitano aveva parlato così della «schietta amicizia» nata con il Papa: «Sono trascorsi sei anni dall'inizio del mio mandato, a maggio è iniziato l'ultimo. E non esito a confessare che una delle componenti più belle che hanno caratterizzato la mia esperienza è stato proprio il rapporto con Benedetto XVI», spiega il presidente della Repubblica a Mario Ponzi, sull'Osservatore Romano di oggi. Un'intervista, dopo il concerto diretto mercoledì da Daniel Barenboim a Castel Gandolfo, che il quotidiano della Santa Sede inizia così: «Benedetto XVI lo accoglie e lo saluta con il calore che si ha nei confronti di un vecchio e caro amico». Certo hanno avuto una vita assai diversa, l'antico dirigente del Pci divenuto capo dello Stato e il teologo già prefetto del Sant'Uffizio eletto Papa. Però sono della stessa generazione — Napolitano ha compiuto da poco 87 anni, Ratzinger 85 —, hanno patito da ragazzi la dittatura e poi la guerra, attraversato le temperie del «secolo breve» fino ad assumere nel nuovo millennio e in età avanzata la più grande responsabilità della loro vita. «Abbiamo scoperto insieme una grande affinità, vissuto un sentimento di grande e reciproco rispetto», dice Napolitano. «Ma c'è di più, qualcosa che ha toccato le nostre corde umane. E io per questo gli sono molto grato». Con la moglie Clio, è rimasto a cena dal pontefice. «Abbiamo trascorso insieme un momento caratterizzato da tanta semplice umanità. Abbiamo passeggiato, parlato come persone che hanno un rapporto di schietta amicizia, con tutta la deferenza che io ho per lui e per il suo altissimo ministero, la sua altissima missione. Ci sentiamo in un certo senso vicini, anche perché chiamati a governare delle realtà complesse». Vite parallele: «Il Papa naturalmente, oltre a essere un "capo di Stato", è anche e soprattutto guida della Chiesa universale. Io mi trovo al vertice delle istituzioni della Repubblica italiana in un momento molto, molto difficile». Serenità, pace. «Sento molto la mia missione di moderatore: e cosa dire della analoga missione che spetta al Pontefice?». Napolitano ricorda le parole del Papa per i 15o anni dell'Unità d'Italia: «Dimostra come lo Stato e la Chiesa, il popolo della Repubblica e il popolo della Chiesa, siano profondamente e intimamente uniti».
l’Unità 13.7.12
Rilevanza e irrilevanza dei cattolici
Sarebbe di aiuto anche una chiesa capace di rinnovarsi e non regressiva rispetto alla realtà
di Eugenio Mazzarella
SUL CORRIERE DELLA SERA, SUSCITANDO UN VIVACE DIBATTIO, INTERROGANDO IL VUOTO TRA SOCIETÀ E POLITICA CHE AGGRAVA LE DIFFICOLTÀ DEL PAESE, Ernesto Galli della Loggia ha posto il tema della necessità che i cattolici quel vuoto contribuiscano a colmare. Archiviando una buona volta l’idea del «partito cattolico», e concentrandosi piuttosto sul più generale bisogno, innanzi tutto culturale e ideale, in questa stagione di crisi, di «una voce cristiana, e dunque anche cattolica, di un’iniziativa politica alta che rechi il segno di quell’ispirazione». La «difficile via modellata su un abito nuovo di serietà e sobrietà, fatta anche di rinunce a traguardi che sembravano ormai acquisiti, di spirito di sacrificio», sarà il vero «patriottismo» richiesto agli italiani, e «sarebbe davvero singolare che l’ethos cristiano, che a dispetto di ogni secolarizzazione permea ancora di sé vaste masse di italiani, restasse estraneo proprio rispetto a questa sfida».
È ben detto, e ben vero. Se i cattolici vogliono presidiare i valori di cui sono testimoni, non possono farne più un «tesoro geloso», riparato in enclaves politiche, dalla cui funzione di custodi staccare cedole di remunerazione politica. Quei valori devono piuttosto con generosità «seminarli» perché ne germogli un umanesimo condiviso, uno spazio comune di valori a laici e cattolici mai come oggi necessario. A sostegno di questo rinnovato impegno di «cattolici nuovi», innanzi tutto nel loro modo di porsi, sarebbe di aiuto anche una Chiesa “nuova”, sempre cioè capace di rinnovarsi e purificarsi, la cui riserva di trascendenza fecondi fuori da facili compromessi un approccio non regressivo al contemporaneo, capace di affrontarlo con il coraggio della speranza da cui è nata tutta la sua storia.
È positivo, in questo senso, che si sia fatta strada la convinzione che al di là dell’occhio “terreno” agli equilibri politici contingenti in politica non ci può essere una tutela dei “valori cattolici” che non abbia a suo sostegno la testimonianza delle “virtù” che ai cattolici sono richieste, l’irreprensibilità di una vita, pubblica e privata, che non dia scandalo. Con meno di questo il cattolicesimo in politica si riduce a patina convenzionale di un abito pubblico, magari indossato solo in pubblico; niente che abbia sostanza di credibilità, e in definitiva speranza di successo in un mondo dove i valori sono sempre più in competizione. Ma neanche questo basterà, se allo stesso tempo i cattolici non accedano all’idea che i valori certo possono essere non negoziabili, ma sempre se ne deve cercare, negoziare la convivenza.
La nuova, sperabile, rilevanza dei cattolici passerà anche dalla loro capacità di ricordare una lezione del 1981 di Papa Ratzinger ai politici tedeschi, ripresa in un libro del 1987 Chiesa ecumenismo e politica: «Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo: limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra pragmatismo da meschini.
Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica».
l’Unità 13.7.12
L’ateismo non è più trendy
Il filosofo francese ex ateo Philippe Nemo sostiene che il vero ateismo è in crisi e la negazione di Dio non è più cosi “trendy” come si pensava un tempo, il Cristianesimo torna ad essere la grande posta in gioco della nostra epoca. Il suddetto filosofo non pensa che non credere sia una colpa. È solo una sfortuna, perché impedisce di capire la vera dignità dell’uomo. Colui che non ha un senso della trascendenza conduce una vita priva di senso e che non viene orientata da nessuna speranza.
Ivan Devilno
l’Unità 13.7.12
Le due sinistre nella casa del Pd
di Franco Marini
SE CONSIDERASSIMO LA RIFLESSIONE AVVIATA SU QUESTE PAGINE DA MARIO TRONTI sul superamento delle due sinistre come qualcosa che riguarda solo un pezzo del Pd sanciremmo il fallimento del partito nuovo che abbiamo tenuto a battesimo cinque anni fa con l’ambizione della vocazione maggioritaria. Lo stesso accadrebbe se un’altra questione tornata recentemente in auge, il peso dei cattolici nella vita pubblica, venisse consegnata all’esclusiva discussione di coloro che motivano con la fede l’impegno politico.
Questa partizione “territoriale” negherebbe l’assunto che ci ha fatto incontrare in un esperimento senza precedenti nella storia italiana, aprendo le porte a chi non aveva da vantare militanze precedenti, di centro, di sinistra, cattoliche, socialiste o laiche che fossero.
Discuterne non è un omaggio alla prassi di buon vicinato tra le diverse famiglie ritrovatesi nell’unica casa ma l’esercizio, dovuto, di una circolarità di analisi e di pensiero che sta nel genoma del Partito democratico in quanto evoluzione di culture e storie in nome di un’offerta politica per un tempo che non è «un’epoca di mutamenti ma un mutamento d’epoca».
Per me dunque è il Pd l’orizzonte entro cui collocare questo dibattito anche perché esistono pure all’interno del partito personalità ed aree che non avvertono estranea quella «radicalizzazione movimentista no-global e new-global» che Tronti assegna ad una delle due sinistre. Detto questo, e per chiarire meglio, escludo che vadano alzati muri per impedire ad altri, fuori dal Pd, la partecipazione alla discussione tant’è che ho trovato di grande interesse il contributo di Nichi Vendola. Le considerazioni del leader di Sel restituire dignità al lavoro, puntare all’unità politica dell’Europa, combattere la crisi morale figlia della sbornia liberista possono essere foriere di positivi approfondimenti e sviluppi a patto che assumiamo uno dei caveat suggeriti da Tronti, cioè non farci condizionare dall’ansia di prestazione.
«Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai»: tutti, o quasi, conoscono questo passaggio, centrale, del discorso di Aldo Moro al Consiglio nazionale Dc del novembre 1968. Che più avanti aggiungeva: «Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia».
Penso che noi siamo in una situazione non dissimile da quella che con tanta lucidità ed efficacia riusciva a leggere il fresco ex presidente del Consiglio Aldo Moro. Averne piena e convinta consapevolezza è condizione ineludibile per pensare strategie di rinvigorimento della democrazia e di uscita dalla crisi. Perché di questo si tratta, due volti della stessa medaglia, come del resto è provato sia dalle vicende di casa nostra, di questo quasi ventennio berlusconiano segnato da un incredibile immobilismo delle scelte sia dalla più grande vicenda mondiale dove il predominio del capitalismo finanziario ha generato un inaridimento della democrazia non attraverso lo scontro frontale ma seguendo la strada del ridimensionamento della sfera d’azione.
Se pensassimo di vivere una stagione di “normale” congiuntura negativa del ciclo economico, al più speziata da un eccezionale protagonismo dei mercati finanziari, commetteremmo un duplice esiziale errore: non riconosceremmo che quel che accade, ed è accaduto anche prima dell’esplosione della crisi, ha un padre ed una madre certi, il liberismo e la destra politica, e mancheremmo di cogliere quel «moto irresistibile della storia» che chiede a noi, forze del cambiamento, di proporre nuove visioni e nuovi paradigmi.
Portiamo tutti la responsabilità, ovunque collocati nel campo del centrosinistra, di non aver saputo opporre alla strategia egemonica del liberismo che guidava la mano dei governi di destra di qua e di là dell’Atlantico, un disegno che in qualche modo non ne subisse la subalternità, ma l’ubriacatura individualista, dagli anni Ottanta in poi, aveva travolto troppe barriere andando ad insediarsi nel senso comune, in questo agevolato da uno straordinario mutamento sociale e del lavoro che ha disarticolato legami e appartenenze e smantellato l’universo valoriale precedente.
L’evidente fallimento del binomio destra/liberismo chiama in causa qui ed ora le culture riformiste. Noi non ci accostiamo a questa impresa privi di parole. Non siamo all’anno zero come a volte certi venti nuovisti, per darsi ragione di vita, vorrebbero far intendere. Abbiamo disponibile un grande patrimonio da investire e far fruttificare, che si chiama Carta Costituzionale nei cui principi, dalla centralità della persona all’impegno dello Stato contro ogni discriminazione fino al riconoscimento del ruolo dei corpi intermedi, è trasparente la griglia dei tratti costitutivi del Partito democratico. Forti di questo bagaglio possiamo lavorare sul piano internazionale con l’americano Obama, il francese Hollande e tutto l’arco dei protagonisti e dei soggetti collocati nel nostro stesso campo per ricostruire condizioni di equilibrio tra politica ed economia e soprattutto per combattere quelle situazioni che hanno determinato la cancellazione di milioni di posti di lavoro.
E, noi del Pd, possiamo anche vantare qualche risultato. Penso agli esiti delle amministrative degli ultimi due anni. Tutti i partiti sono crollati, tranne il nostro. L’astensione e l’erosione del grillismo ci ha toccato in maniera insignificante se rapportata agli altri soggetti in campo. Perché? Perché il Pd, ha saputo comprendere che la mitologia della personalizzazione, del ghe pensi mi declinato anche oltre il perimetro forzista aveva stufato e che c’era un bisogno di collettivo, di squadra, di collaborazione, di condivisione. Il Pd è riuscito a trasmettere il messaggio di aver capito questa novità e di essere seriamente incamminato sulla strada di un partito strutturato, non annullato dal culto di una personalità, ispirato al «metodo democratico» richiamato dall’articolo 49 della Costituzione.
In conclusione, come si concilia un obiettivo strategico tanto impegnativo e di lungo respiro qual è quello che ho provato ad accennare con la scadenza elettorale del 2013? Prima di tutto pensando che non troveremo ogni risposta entro dieci mesi e poi lavorando ad un’alleanza che abbia al centro della propria missione: rendere più forte la democrazia, rimettere al centro parole come solidarietà e bene comune, aggredire le diseguaglianze, contrastare la recessione, rilanciare il sentimento di unità del Paese.
il Fatto 13.7.12
Chi vuole ammazzare il Papa?
di Angelo d’Orsi
Le ultime vicende d’Oltre Tevere – tra scandali di varia natura, furiose faide, banchieri, pedofili e criminali comuni – possono aver indotto qualcuno a riprender e l’antico adagio: “Non c’è più religione! ”. Ma sbaglierebbe, quel qualcuno. La religione istituzionale, con dogmi e gerarchie, implica lotte di potere, che si manifestano in vario modo, non esclusi quelli cruenti. Così è stato sovente per la religione cattolica apostolica romana, nel grumo di interessi da sempre costituito intorno al “trono di Pietro”. Papi detronizzati, antipapi, papi corrottissimi, papi ammazzati, papi sfuggiti per poco alla morte violenta: chi non ricorda Ali Agca e l’attentato a Giovanni Paolo II? E la morte del suo predecessore, rimasto in carica pochi giorni, è più che sospetta.
SE GETTIAMO lo sguardo più indietro la situazione non cambia. Le congiure sono una costante, e un libro recente (Elena Bonora, Roma 1564. La congiura contro il papa, Laterza), gustoso come un romanzo, ma rigoroso e documentato, ce ne racconta una, nel pieno dello scontro tra Riforma e Controriforma. Un gruppo di gentiluomini romani, per due volte consecutive, riuscì ad avvicinare Pio IV con l’intento di trafiggerlo a colpi di stiletto. Com’era possibile che congiurati armati, giungessero nelle stanze vaticane? Era possibile proprio perché la corte pontificia era al centro di una complessa rete di corti satelliti: alti prelati, diplomatici, nobiluomini, funzionari pubblici, cappellani, artisti e letterati in busca di commissioni, maestri, avvocati e magistrati, ma anche personaggi di più basso rango quali stallieri, segretari, auditori, letterati, camerieri, guardarobieri, maniscalchi, trincianti, scudieri, palafrenieri e quant’altro offriva il variopinto parco di coloro che cercavano di procurarsi vantaggi personali o impieghi per sé o per altri, e di far giungere suppliche alle orecchie del “santo padre”; o, alla peggio, almeno di guadagnare un pasto in quegli ambienti dove sempre si mangiava (e si mangia) in modo abbondante e raffinato.
Ma, come in ogni congiura che si rispetti, fra i cospiratori v’era un traditore, che impedì il compimento del progetto. Nel nostro caso, il “giuda” era un poco di buono, tale cavalier Pelliccione, trafficante di anticaglie, millantatore di nobili natali, ma che in realtà frequentava ambienti popolareschi trasteverini, e aveva al suo attivo conio di monete false, e una notevole pratica d’armi. Ma la figura più interessante è il capo della congiura, Benedetto Accolti: figlio illegittimo di un cardinale, è il leader carismatico, sufficientemente invasato e altrettanto persuasivo sui complici, nel suo discorrere di un papa vero da sostituire a Pio IV, giudicato un falso pontefice, e nelle sue visioni di regni divini da realizzarsi in terra, sotto il proprio comando. Un oratore dialettico, capace di irretire gli ascoltatori, ma uomo di non disprezzabile cultura teologica.
NON RIUSCÌ, il buon Accolti, a sedare i suoi giudici romani, i quali, secondo i metodi dell’Inquisizione non andarono per le spicce ricorrendo alla tortura di tutti i congiurati, per scovare eventuali altri complici diretti, che non
furono trovati. Con Accolti, e il traditore Pelliccione, i protagonisti della congiura meriterebbero altrettanti ritratti a tutto tondo. Accanto al conte Antonio Canossa, di nobilissima schiatta, si segnala il giovane Taddeo Manfredi, che aveva dei contenziosi proprio con lo Stato pontificio, su terre e castelli tra Emilia e Lombardia. Si era rivolto, per dirimere le controversie, al cardinale Stampa, che in realtà era in palese conflitto di interesse, in relazione al castello di Cusago, che infatti passò proprio al cardinale: ultimi suoi eredi, i Casati-Stampa, travolti nel 1970 da un fatto di sangue: l’assassinio della contessa da parte del marito e il successivo suicidio di costui. Rimasta orfana, l’erede, minorenne, ebbe non miglior fortuna del conte Taddeo, avendo avuto assegnato come tutore un certo avvocato Cesare Previti. E si sa come è finita, con un altro cavaliere, degno di Pelliccione, che si pappò la proprietà, compresa una strepitosa collezione d’arte, per un piatto di lenticchie.
DIETRO le lotte di potere, affiorava, per influsso della Riforma, l’esigenza di una chiesa che fosse in grado di riavvicinarsi al messaggio di Cristo, al di fuori di logiche di mercato e di potere. I tempi lo richiedevano, ma Roma fu sorda, anche se in fondo lo stesso papa Pio IV, bersaglio della congiura, a suo modo cercò di limitare quanto meno i poteri dell’Inquisizione. Del capo cospiratore, Accolti, giustiziato in modo barbarico, dopo atroci torture, suo nipote Giulio, torturato a sua volta ma scampato al patibolo, così sintetizzò il pensiero: “Lui diceva che quando un papa era homo da bene, haveva authorità, ma quando non era da bene non haveva autorità”. Una banalità, che allora come oggi, in Vaticano, suona come una pericolosa bestemmia.
Repubblica 13.7.12
Vaticano, il maggiordomo resta dentro interrogate anche le suore del Papa
Prolungato il termine delle indagini, il processo previsto a ottobre
Sarà celebrato a ottobre il processo a Paolo Gabriele, il maggiordomo arrestato in Vaticano con l’accusa di aver trafugato dall'appartamento del Papa documenti riservati. Ieri scadevano i cinquanta giorni di custodia cautelare: custodia – ha annunciato il portavoce papale padre Federico Lombardi – «prorogata di una decina di giorni». Paolo Gabriele resta ancora agli arresti nella Gendarmeria vaticana, da dove quasi certamente andrà ai domiciliari, in Vaticano, in attesa del processo. «Si stanno ancora raccogliendo testimonianze e gli interrogatori formali con Gabriele concluderanno questa fase» ha spiegato Lombardi. Secondo l'avvocato Carlo Fusco, ha aggiunto, il maggiordomo «è sereno e trova conforto nella preghiera. E non ci sono preoccupazioni per la sua salute fisica e psicologica». Il giudice istruttore Piero Bonnet, titolare delle indagini, «potrebbe prendersi qualche giorno in più per scrivere la sentenza e per un eventuale rinvio a giudizio si andrebbe all’inizio di agosto». Padre Lombardi ha confermato che «ci sono altre persone interrogate», smentito che sia stato ascoltato anche un giornalista e che il Vaticano abbia chiesto una rogatoria all’Italia. Tra le testimonianze raccolte, anche quelle delle Memores Domini, le suore laiche di Cl che accudiscono l'appartamento papale.
(o.l.r.)
l’Unità 13.7.12
Bersani a Monti: «Noi preferiamo la concertazione»
Al leader Pd non sono piaciute le esternazioni del premier «Le riforme migliori le ho fatte sempre col dialogo»
Intervista al Financial Times che lo definisce un leader responsabile «in grado di vincere le elezioni»
All’Assemblea nazionale di domani i punti cardine della Carta di intenti da sottoporre ai futuri alleati
di Maria Zegarelli
Quelle parole pronunciate l’altro ieri dal presidente del Consiglio Mario Monti «esercizi profondi di concertazione in passato con le parti sociali hanno generato i mali contro cui noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro» non sono piaciute affatto in Largo del Nazareno. E ieri il segretario Pd lo ha esplicitato calibrando le parole ma con determinazione. Il dialogo e la concertazione «fanno bene a tutti», dice Pier Luigi Bersani arrivando nella sede Pd dopo l’incontro al Quirinale con Giorgio Napolitano con il quale ha discusso di legge elettorale.
LA CONCERTAZIONE
«Ognuno ha la sua esperienza, e io rispetto le esperienze di tutti. La mia commenta , di esperienza, mi dice che a me è capitato di fare riforme anche piuttosto notevoli, sempre con la discussione e il confronto. Certo, senza che qualcuno assumesse un diritto di veto, ma anche senza pensare che fosse inutile discutere».
Evidente il riferimento alle sue famose «lenzuolate» e al braccio di ferro con commercianti, banche, assicurazioni e farmacie. Non furono momenti facili con le forti resistenze di lobbies e poteri forti, ma proprio quell’esperienza, tra le altre dei governi di centrosinistra, ricordano al Nazareno, dimostrano che «le riforme si possono fare anche con il dialogo».
E se non è certo un mistero che Monti non abbia mai «digerito» troppo la concertazione è pur vero che se lo ribadisce in qualità di premier le sue parole assumono un valore molto diverso. Parole che non sono piaciute affatto a Susanna Camusso la Cgil ha annunciato uno sciopero generale contro la mannaia su pubblica amministrazione e lavoro e che sono state lette come una sorta di monito alle forze politiche che come il Pd su alcuni temi sono più vicini al sindacato che non alle misure individuate dal governo su sanità, tagli agli enti pubblici e la famosa questione degli esodati. È pur vero che nello stesso Pd c’è chi proprio in questi giorni, alla luce delle tensioni tra forze sociali e governo, chiede maggiore coerenza tra quanto si fa in Parlamento sostegno leale a ogni provvedimento dell’esecutivo e alcune dichiarazioni di dirigenti molto critiche.
VERSO L’ASSEMBLEA
Il segretario sa bene quanto alta sia la tensione nel suo partito. Chi preme per la data delle primarie; chi accusa mal di pancia dovendo votare alcune misure del governo e chi sostiene «senza se e senza ma» l’attuale esecutivo e non ne può più dei «distinguo» di alcuni dirigenti. In una intervista al Financial Time che lo ha definito un politico «responsabile», in grado di vincere le elezioni, niente a che vedere con lo stile «sgargiante e sguaiato ma incisivo» di Beppe Grillo Bersani pur ribadendo alcune critiche è tornato a difendere il premier e il suo operato. Intanto, nell’intervista, sembra rispondere indirettamente sia a Pier Ferdinando Casini sia ai quindici parlamentari Pd, che chiedono continuità con l’operato di Monti anche dopo il 2013, assicurando che soltanto il suo partito può garantire la stagione di riforme avviata dall’attuale governo, cosa di cui si dice grato al presidente del Consiglio.
Poi, puntualizza: «Ci sono cose che Monti ha fatto e non mi sono piaciute? Certo, ne posso elencare molte. Ma non sento di poter rimproverare Monti, che ringrazio per essersi assunto la responsabilità del Paese, bene e con credibilità». Dunque par di capire che il leader democratico non giocherà la sua campagna elettorale sulla discontinuità tout cour come invece ha fatto il neopresidente francese Francois Hollande perché le politiche del governo tecnico lasceranno «un’impronta, un’eredità. Non è solo un momento di transizione ma anche di responsabilità dopo gli anni delle favole di Berlusconi».
Tuttavia Bersani, che all’Assemblea nazionale di domani annuncerà quali saranno i punti cardine della Carta di intenti da sottoporre ai futuri alleati, intende dare un tratto di profondo riformismo alla prossima legislatura senza per questo rinunciare al confronto con le parti sociali e a percorsi che pur garantendo i «saldi» stabiliti per tener fede agli impegni europei non è affatto detto siano quelli individuati dall’attuale governo. All’appuntamento di sabato guarda con grande attenzione Nichi Vendola che nei giorni scorsi ha avuto un lungo colloquio con il segretario dei democratici. Vendola si aspetta proposte incisive soprattutto su lavoro, innovazione, diritti civili, sviluppo, ambiente ed energie rinnovabili. Come sulle alleanze, d’altra parte, perché da Sel guardano con grande preoccupazione a quanti nel Pd lavorano per una coalizione con dentro l’Udc di Casini. «Ci aspettiamo molto dall’Assemblea di sabato perché può essere il momento di chiarire definitivamente il percorso dice uno stretto collaboratore del governatore pugliese che il Pd vuole fare e se ci sono le condizioni per Sel per stringere un patto di alleanza oppure regolarsi di conseguenza».
Repubblica 13.7.12
Il Pd presenta un emendamento contro gli aerei militari. No anche di Vendola e Verdi
“Cancellare la spesa per gli F35”
di Gabriele Isman
Guerra agli F-35. Contro la spesa da 12 miliardi per i 131 velivoli si sono mossi sei senatori pd, preannunciando emendamenti a Palazzo Madama, i Verdi e Nichi Vendola, oltre alle 75 mila firme consegnate in Senato per la campagna “Taglia le ali alle armi”, promossa da Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci! e Tavola della Pace. Un accerchiamento contro l’acquisto dei Joint Strike fighter già bocciati dai commentatori Usa di Foreign Politics e che, anche secondo il Pentagono, potrebbero essere senza difese in una guerra digitale. Per l’Italia quegli F-35 nella versione a decollo corto sono ideali per la portaerei Cavour, e così si sono salvati dalla scure della spending review. «Condividiamo la necessità di rivedere questa spesa» hanno spiegato i senatori democratici Francesco Ferrante, Roberto Della Seta, Roberto Di Giovan Paolo, Manuela Granaiola, Vincenzo Vita e Silvana Amati. La richiesta dei parlamentari è spostare i fondi su iniziative di carattere sociale. Duro anche Felice Belisario, capogruppo dell’Idv: «Soprattutto in questo particolare momento, l’inutile corsa allo shopping degli F35 è un vezzo che proprio non possiamo permetterci». Vendola ha parlato via Twitter: «Monti non ha coraggio di tagliare la spesa per gli F35 e per la schifezza delle spese per armamenti». Ma è Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, a fare i conti su tutta la spesa militare in Italia, valutata 40 miliardi: «Perché invece degli ospedali il governo non deciso di ha tagliare i programmi per l’acquisto caccia bombardieri F-35 (12 miliardi) ; l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi) ; l’acquisto di 100 elicotteri Nh-90 (4 miliardi) ; l’acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi) ; 2 sommergibili militari (1 miliardo) ; il programma per i sistemi digitali dell’esercito che costerà alla fine oltre 16 miliardi di euro? Ognuno di questi aerei da guerra costa più di 120 milioni, la cifra necessaria per costruire e far funzionare 83 asili nido». Il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, stima invece in 791,5 milioni la somma che già nel 2012 si potrebbe recuperare tagliando i fondi militari, e per Roberto Messina, presidente di Federanziani, quei 20 miliardi sono «l’ennesimo sperpero di denaro».
l’Unità 13.7.12
Il segretario al Colle ribadisce: dalle urne esca una maggioranza chiara. Al via il comitato degli sherpa in Senato: fumata nera. Si rischia il rinvio all’autunno
Legge elettorale, il Pd tiene duro sui collegi
di Andrea Carugati
Un’altra fumata nera sulla legge elettorale. Nonostante i ripetuti appelli del Quirinale, i principali partiti non trovano un’intesa su come cambiare il famigerato Porcellum. Ieri in Senato la riunione degli otto esperti di tutte le forze politiche (Zanda per il Pd, Quagliariello per il Pdl, e rispunta Calderoli per la Lega, più i due relatori Enzo Bianco e Lucio Malan). Solo un primo giro di tavolo, posizioni assai distanti, tutto rinviato a martedì 17.
Una scelta che fa capire come l’obiettivo di arrivare a un’intesa «entro dieci giorni» sia praticamente impossibile (si parla già di un rinvio a dopo la pausa estiva). Anche perché proprio il 17 luglio il Senato voterà la proposta Pdl sul presidenzialismo, su cui i berluscones hanno già in tasca l’intesa con la Lega. E questo ennesimo strappo produrrà un ulteriore irrigidimento delle posizioni.
Ieri il leader democratico Bersani è stato ricevuto al Quirinale dal presidente Napolitano e al centro dell’incontro c’è stata soprattutto la legge elettorale. Bersani ha ribadito la disponibilità del Pd al confronto, ma anche ricordato i paletti democratici, soprattutto l’idea checome nei principali paesi europei si sappia chi ha vinto «la sera stessa del voto». No dunque alle tante ipotesi di proporzionale senza premio di coalizione, che lascerebbero poi al confronto parlamentare la formazione della maggioranza. No quindi anche all’idea di un premio al primo partito, che visti i numeri dei sondaggi renderebbe assai difficile l’individuazione di una chiara maggioranza per il vincitore.
C’è un altro tema che agita i democratici: il ritorno delle preferenze. Le vogliono l’Udc, ma anche il Pdl e la Lega ci stanno pensando seriamente. Nel Pd ci si prepara a fare muro. A farsi paladino di questa battaglia è Walter Veltroni, che ieri ha spiegato che «c’è una sola cosa peggiore del “porcellum”, ovvero il “porcellum” con le preferenze». «Queste possono essere il colpo finale al sistema politico italiano già così fragile. Sarebbe inevitabile un vertiginoso aumento dei costi delle campagne elettorali e il rischio che la politica sia condizionata
da soggetti e poteri estranei». Non tutti però sono così irremovibili: nel Pd c’è chi comincia a ragionare sulle preferenze come “ultima spiaggia” per restituire ai cittadini la scelta dei parlamentari.
Per ora il Pd insiste sui collegi uninominali, sempre apprezzati dagli elettori. E sulla proposta di doppio turno presentata oltre un anno fa, «l’unico testo di riforma presentato ufficialmente da un partito fino a questo momento», come fanno notare gli uomini di Bersani. Il leader Pd è chiaro: «Noi andiamo in Parlamento con la nostra proposta, poi si vedrà». I democratici sarebbero disponili anche a un sistema ispano tedesco con premio di coalizione, ma ora attendono le mosse del Cavaliere. Nel Pdl infatti la confusione regna sovrana (come conferma anche il leghista Dozzo), tanto che Cicchitto presenta un ventaglio di ipotesi, dalla Spagna alla Francia alle preferenze. Con un unico obiettivo, identico a quello del 2005 (quando nacque il Porcellum): impedire al Pd di avere una maggioranza netta nella prossima legislatura.
Corriere 13.7.12
«Con lui governo a rischio, ma il Pdl è meglio di Grillo»
Enrico Letta: «Vorrei un'alleanza Pd-Vendola-Udc e poi un esecutivo politico in continuità con Monti»
di Alessandro Trocino
ROMA — L'eterno ritorno di Silvio Berlusconi gli ricorda un po' quello dei pugili suonati, «che si fanno convincere da laute borse a patetici ritorni sul ring, a età improponibili, e finiscono tra i fischi degli spettatori». Il vicesegretario del Pd Enrico Letta considera molto negativamente l'annuncio del Cavaliere.
Quali effetti produce?
«Il primo riguarda il centrodestra. Blocca la trasformazione del Pdl da movimento carismatico a moderno partito conservatore europeo. Il Pdl tornerà a essere il partito di Palazzo Grazioli, del Predellino, di Arcore».
Avrà effetti anche sulla maggioranza?
«Molto negativi. Il governo si regge su un patto politico chiaro: il Pd si è assunto una responsabilità che ci è costata moltissimo, stare in una maggioranza con chi ci ha ridotto così. Lo abbiamo fatto a patto che l'interlocutore non fosse Berlusconi».
Ma Berlusconi guarda alle elezioni.
«Con le sue parole mette in moto una dinamica che terremota la maggioranza. Il governo, come ha riconosciuto lo stesso Monti, si regge su un patto tra gentiluomini. Alfano si è rivelato un interlocutore affidabile e credibile. Il ritorno di Berlusconi è una mina».
Mette a rischio il governo?
«Rende molto più complesso il suo lavoro. Nulla sarà più come prima. Chi è ora il nostro interlocutore, Alfano o Berlusconi?».
E la legge elettorale?
«Ha ragione il capo dello Stato: ci sono le condizioni per arrivare al momento della verità. Il pericolo, ora, è che si blocchi tutto».
Il Pd dice no alle preferenze e al premio di maggioranza al partito.
«Sabato ne parleremo all'assemblea. Io sono a favore dei collegi, ma dico che si deve andare in Aula e accettare gli esiti del voto. Il Pd non deve fare barricate su questi due punti. Il male assoluto è il Porcellum. Votare con questo, vorrebbe dire prolungare l'agonia della Seconda Repubblica e aprire la strada a Grillo».
Non le piace nulla di Grillo?
«I grillini sono una spinta utile per la trasparenza e la riduzione dei costi della politica. Bisogna far di più. Ora possiamo ridurre il numero dei parlamentari. Ma in termini di programma di governo ho sentito tre cose da Grillo: non ripagare i debiti, uscire dall'euro, non dare la cittadinanza ai bambini nati da immigrati in Italia. Parole che ho sentito in bocca solo a Bossi. Io sono all'opposto di queste idee. Preferisco che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo».
Il ritorno di Berlusconi spingerebbe Casini verso il Pd, in un asse che lei ha sempre caldeggiato.
«La notizia è buona solo fino a un certo punto. Non vorrei che si tornasse alla logica dell'antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere».
Lei che maggioranza vorrebbe?
«Un'alleanza guidata dal segretario del Pd, con ai lati Casini e Vendola».
I due non si amano.
«Dobbiamo lavorare in questa direzione, per mettere insieme i moderati con la fatica sociale».
E la grande coalizione?
«Non è l'opzione principale. Lavoriamo per un governo politico competente, che sia in continuità con Monti, come contenuti e come uomini».
Monti, però, si è tirato fuori.
«Sono i giornali che lo avevano messo dentro. Io dico che tra i 50 che sono al governo, in diversi potrebbero essere ancora utili».
Lei è uno dei più filomontiani nel Pd. Le piace proprio tutto?
«È difficile lavorare con una maggioranza del genere, molte riforme sono incomplete, dalla giustizia alla comunicazione. Ma Monti sta lottando bene in una situazione complicata. Lo sta facendo con i gomiti alti dei cestisti e le scarpette chiodate dei calciatori».
Stanno facendo male agli italiani, le scarpette chiodate.
«La politica deve mostrare la luce in fondo al tunnel. Se tutto è cupo, i voti si sposteranno verso Grillo. Le scarpe chiodate e la grinta alla Gattuso comunque sono utili per far capire a parti dell'establishment italiano quanto è dura e decisiva la partita».
I sondaggi attribuiscono a Berlusconi un bel pacchetto di voti.
«Non credo a numeri miracolistici. Gli italiani hanno visto il film e i titoli di coda, impietosi. E mai come questa volta l'Europa ci guarda».
Corriere 13.7.12
Tabacci (Api) verso le primarie del Pd
Via libera alla candidatura di Bruno Tabacci alle primarie del Pd da parte del direttivo nazionale dell'Api. Un passo che il leader del partito, Francesco Rutelli, ha accolto con entusiasmo: «La sua candidatura — ha detto Rutelli — indica che c'è un centro che si allea con la sinistra, senza rinunciare ai propri valori, e che si allea con le forze civiche».
l’Unità 13.7.12
Giacomo Portas
«Sosterremo il leader del Pd: è la scelta migliore tanto più dopo il ritorno sulla scena
di Berlusconi. L’alleanza? Centrosinistra più Udc»
«Noi Moderati con i Democratici»
di Tullia Fabiani
«Il nostro candidato premier è Pier Luigi Bersani, abbiamo deciso di appoggiare il Pd e costruire insieme un’alternativa di governo». Giacomo Portas, leader de “I Moderati” si definisce «un indipendente, un po’ come i radicali»; ricorda che il suo movimento è «il secondo partito del centrosinistra in Piemonte»; che la sua lista civica ha sostenuto Piero Fassino “portando il 10% dei voti”. Ed è convinto che a fronte dell’ennesima «discesa in campo di Berlusconi», adesso la scelta migliore sia quella di sostenere Bersani come leader e come premier.
Lei crede che Berlusconi sarà di nuovo il candidato premier del centrodestra? «Penso sia un’ipotesi credibile. Silvio Berlusconi è l’uomo che ha governato per più di 3000 giorni in Italia, il periodo più lungo in tutta la storia repubblicana. Dopo di lui solo Andreotti. Perciò sono convinto che ritornerà in campo. Anzi a dire il vero penso non sia mai andato via. Anche in quest’ottica penso che sostenere Bersani sia molto importante».
Perché tale convinzione?
«Lo considero la persona più adatta a governare questo Paese: per prima cosa ha vinto le primarie, poi avrebbe potuto andare a votare nel 2011 invece ha scelto un governo tecnico per il bene dell’Italia. Inoltre, e lo dico da imprenditore, è capace di rappresentare bene il nostro mondo, è una politico competente che capisce di imprese e di lavoro. Quello da cui bisogna ripartire».
Che ne pensa della riforma del lavoro, va bene così o necessita di correzioni? «Va sicuramente migliorata, ma prima ancora va risolto soprattutto il problema degli esodati. È stato fatto un grave errore ed è stata commessa una vera ingiustizia. Poi c’è il problema della crescita...l’Italia deve puntare alla qualità, uscire dalla crisi. C’è molto da fare».
Oltre al Pd, il suo orizzonte di alleanze?
«Sembrerà strano ma sono per un bipolarismo puro. Penso a un’alleanza tra l’attuale centrosinistra più l’Udc».
Con quale legge elettorale?
«Qualsiasi legge ha pregi e difetti. Bisogna saperle interpretare. Le leggi possono essere tutte buone o tutte negative. Per noi non è questo il punto. Ci possono essere le preferenze, i collegi, o il porcellum, ma ripeto l’importante è come vengano interpretate». E l’ipotesi di un Monti bis come la giudica?
«Da parte mia preferirei un politico che abbia nel proprio Dna rigore, autorevolezza e coerenza».
Deluso dal governo?
«Non deluso, ma nemmeno affascinato. Del resto come pretendere che i tecnici riescano ad appassionare i cittadini, con i tagli? Detto questo penso che non abbiano potuto e non possono fare altro, considerato il lascito precedente. Perciò per l’Italia auspico che ci sia la politica a governare». Può essere più difficile vincere contro Berlusconi o più semplice?
«Vincere non è mai facile, non bisogna dare nulla per scontato. Ma penso che il centrosinistra abbia le carte in regola per governare il Paese».
l’Unità 13.7.12
La strana maggioranza si fa sempre più strana
di Francesco Cundari
NON STUPISCE LA STIZZA CON CUI PIER LUIGI BERSANI HA COMMENTATO LA NOTIZIA DELL’INCONTRO tra Mario Monti e una folta delegazione del Pdl, prontamente ricevuta a Palazzo Chigi per discutere «pesi e misure» all’interno della Rai. Poco dopo avere attribuito agli effetti della concertazione l’origine storica dei mali da cui oggi il governo tenterebbe faticosamente di guarirci, e nel pieno della pesante manovra di tagli ai servizi sociali chiamata «spending review» (tagli tutt’altro che concertati con sindacati ed enti locali), il presidente del Consiglio, evidentemente, trova il tempo di concertare proprio in quell’unico campo in cui davvero, da quarant’anni, si è concertato anche troppo: la tv.
Dalla «strana maggioranza», per usare l’efficace definizione con cui Monti ha battezzato l’eterogenea coalizione parlamentare che lo sostiene, era obiettivamente difficile aspettarsi luminose prove di coerenza, compattezza e coesione. E certo non può sorprendere che la televisione resti il «core business» del Pdl, l’unico argomento su cui non possa accettare mediazioni o concessioni di sorta, il solo tema dell’agenda di governo che stia davvero a cuore al partito del Cavaliere. Sorprende però che le pretese berlusconiane trovino così facilmente udienza presso Palazzo Chigi, e presso un presidente del Consiglio che della tutela del mercato e della concorrenza dalle interferenze della politica ha fatto forse uno dei principali impegni della sua carriera, sia come professore di economia sia come commissario europeo. Ma soprattutto colpisce la sequenza, dall’attacco alla migliore storia del centrosinistra la collaborazione tra forze politiche e parti sociali con cui negli anni Novanta si salvò il Paese dalla bancarotta alla reiterazione delle pagine peggiori delle cronache del centrodestra berlusconiano, con un intero partito ancora e sempre schierato a difesa degli interessi personali di un solo uomo, una sola azienda, un solo giro d’affari.
Non si può al tempo stesso condannare con tanta durezza le concessioni dei governi del passato alle parti sociali e accogliere con tutti gli onori a Palazzo Chigi la delegazione del partito-Mediaset che vuol discutere urgentemente degli equilibri ai vertici della Rai. Ma soprattutto, se si vuole evitare che la «strana maggioranza» diventi addirittura surreale, occorre da parte di tutti grande senso di responsabilità e grande rispetto, innanzi tutto per la storia di questi anni e per la verità. Carlo Azeglio Ciampi è stato protagonista di uno sforzo collettivo e solidale del Paese per uscire dalla crisi dei primi anni Novanta che avrebbe ancora molto da insegnare, anche ai professori di oggi. I governi tecnici di quella fase, con tutti i loro limiti ed errori, si trovarono a fronteggiare difficoltà non minori di quelle di oggi. La riforma delle pensioni, tanto per fare un esempio, varata nel 1995 con la concertazione, fu un passaggio fondamentale nel percorso che permise all’Italia di avviare il risanamento ed entrare in Europa. La riforma delle pensioni della ministra Fornero, senza concertazione, vedremo quali risultati darà. Per ora ci ha dato un numero imprecisato di esodati rimasti scoperti, senza lavoro e senza pensione, abbandonati nell’angoscia. Con un po’ più di dialogo, se non proprio di concertazione, forse lo si sarebbe potuto evitare: le voci che avevano segnalato il problema per tempo, dai sindacati al Pd, non erano mancate. Ma il dogma ideologico secondo cui dar retta a partiti e sindacati è sempre un cedimento e una sconfitta delle riforme spiega forse più di ogni altra analisi perché quei semplici richiami al buon senso non siano stati ascoltati. C’è da augurarsi che prima o poi anche i professori più autorevoli possano imparare dai propri errori.
l’Unità 13.7.12
Enrico Rossi, il presidente della Regione Toscana:
«Il nostro giudizio resta negativo Qui da sempre pratichiamo la concertazione, è la stessa strada di Hollande»
«Tagli e scelte unilaterali Non si salva così il Paese»
di Francesco Sangermano
FIRENZE Presidente Rossi, il premier Mario Monti ha detto che la concertazione è uno dei mali che ha causato gli attuali problemi dell’Italia. Come risponde?
«Che in Toscana la concertazione è più viva che mai ed è stato, è e sarà lo strumento principale attraverso il quale cercare le soluzioni alla crisi e riavviare lo sviluppo. È un valore, testimoniato anche dall’articolo 48 dello Statuto regionale: alle istituzioni spetta il compito di decidere, ma attraverso il confronto con le rappresentanze sociali».
Come si traduce in concreto questo modello?
«La Toscana pratica la concertazione da sempre e ai massimi livelli possibili ma il nostro tasso di riformismo e innovazione non è certo inferiore alle altre Regioni. Anzi. Alcune riforme che ha fatto il Governo Monti rappresentano addirittura un arretramento rispetto alla nostra realtà. Abbiamo in corso una gara unica per il trasporto pubblico regionale, abbiamo fatto tre Ato per i rifiuti, uno unico per l’acqua, sciolto le 14 Apt e razionalizzato la politica di promozione turistica e riformato la sanità. Tutto questo d’accordo con sindacati e forze sociali perché quando gli obiettivi sono difficili e impegnativi, si raggiungono meglio attraverso il confronto». È un percorso che si può ripetere anche in futuro?
«Abbiamo appena siglato con Cgil, Cisl e Uil un nuovo accordo, basato su 9 punti, col quale contiamo di arrivare entro la fine di settembre a un patto per lo sviluppo che permetta alla Toscana di uscire dalla crisi e riprendere a crescere. Siamo convinti che il contributo di chi conosce i problemi e le questioni concrete sia fondamentale per individuare soluzioni condivise ed efficaci».
Sembra un progetto ambizioso...
«Noi proviamo a farlo nel nostro piccolo, ma Hollande, in Francia, sta andando in questa direzione e lo stesso ha fatto anche la Germania. Evidentemente non stiamo inventando niente se anche grandi leader nazionali hanno fatto appello al Paese e alle forze migliori. Piuttosto trovo singolare procedere in senso opposto».
Un messaggio al governo e al metodo di attuazione della spending review?
«Se ci avesse consultato prima anziché agire unilateralmente avrebbe avuto dei consigli utili. Sono convinto anch’io che abbiamo davanti un “percorso di guerra”, però proprio per questo si devono coinvolgere le migliori energie, responsabilizzarle e cercare di chiedere a tutti quello che possono dare, secondo le proprie possibilità. Monti invece sem-
bra andare da solo in altra direzione e così rischia di sbattere o di andare tutto a destra. In ogni caso niente di positivo per i ceti popolari e la parte più debole della società».
In quale altro modo avrebbe potuto agire?
«Si poteva fare una manovra differente, magari rinunciando a qualche F35, pensando almeno a una piccola patrimoniale, tornando sopra ai capitali scudati. È ingiusto che le aziende, i dipendenti o le partite Iva paghinodal33al45%ditasseechièandato a ripulire i suoi soldi all’estero se la sia cavata col 5%».
Il confronto delle regioni con il governo prosegue. Ci sono passi avanti? «Abbiamo ricevuto il materiale, ora lo affronteremo e vedremo meglio cosa c’è nel dettaglio. Ma l’opinione che si tratti di tagli è confermata». Sembra complicato trovare una via d’uscita per voi soddisfacente...
«Noi non vogliamo sottrarci al confronto di merito e vogliamo andare fino in fondo. Ma al momento la realtà è che, ad esempio in sanità, siamo di fronte a un taglio lineare di 557 milioni di euro. Il materiale fornito può sicuramente essere un utile spunto per fare verifiche sulle nostre aziende ma in queste condizioni è pressoché impossibile riuscire a garantire gli stessi livelli di servizi».
Il suo giudizio resta dunque negativo?
«Sì, negativo nell’immediato e anche per il futuro. la realtà ci dice che il decreto c’è e noi ne siamo stati informati dopo seppure sia, oltre tutto, una materia costituzionalmente convergente. Noi non vogliamo metterci dietro agli aspetti giuridici ma compartecipare allo sforzo di risanamento. Ma salvare il paese senza punti intermedi è un’impresa davvero ardua».
l’Unità 13.7.12
Editoria, nuove regole per il finanziamento pubblico
Convertito il decreto Peluffo. Vota contro solo l’Idv
Fondi pubblici secondo le regole di rigore e trasparenza
di Roberto Monteforte
Sono legge i nuovi criteri per l’assegnazione dei fondi pubblici per l’editoria alla stampa no profit, di idee, politica, cooperativa e delle minoranze linguistiche. Ieri la Camera ha convertito in legge il decreto del governo predisposto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Peluffo. A favore hanno votato 454 parlamentari, i contrari sono stati 22 (idv e minoranze linguistiche) e 15 gli astenuti.
Tra le principali innovazioni introdotte dal decreto vi è la correlazione tra contributi e vendite effettive delle testate. Passa al 25% (attualmente è al 15%) la percentuale relativa al rapporto tra le copie vendute e quelle distribuite necessaria per accedere ai contributi. Per le testate locali la quota è del 35%. Vengono considerate testate nazionali quelle che vengono distribuite in almeno tre regioni. Il 50% del contributo alle testate è calcolato in base ai costi per il personale dipendente, per l'acquisto della carta, della stampa e per gli abbonamenti ai notiziari delle agenzie di stampa. Tra i criteri per accedere al contributo vi è l’occupazione: il numero dei dipendenti, in prevalenza giornalisti, assunti a tempo indeterminato.
«La legge rende finalmente chiaro che l'editoria è un settore che merita sostegno pubblico soltanto sulla base di criteri di trasparenza e di qualificazione professionale espressa e misurata attraverso il lavoro giornalistico regolarmente inquadrato secondo contratto collettivo, diritto del lavoro e obblighi previdenziali» commenta il segretario generale della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Franco Siddi. «Contributi sì, ma a giornali veri, fatti da giornalisti e solo se espressione di idee politiche, culturali, cooperative vere, minoranze linguistiche o destinati alle comunità italiane all'estero» osserva e mette il dito nella piaga: quella del finanziamento. «Tale legge sarebbe sprecata e inutile se resterà senza adeguata copertura di fondi, visto che per l'esercizio in corso, sinora, sono previsti solo 57milioni di euro». Chiede al governo di dare seguito all’ordine del giorno presentato dall’onorevole Giulietti e approvato, che prevede un’adeguata copertura finanziaria alla legge. Siddi chiede anche di dare esecuzione all’ordine del giorno sull’«equo compenso» del lavoro dei giornalisti autonomi e precari, presentato dagli onorevoli Moffa e Carra.
Non nasconde la sua soddisfazione anche il senatore Pd, Vincenzo Vita. Parla di «una piccola luce nel cielo plumbeo della concentrazione e dell'omologazione dei media». «Naturalmente si tratta del primo atto aggiunge che si completerà attraverso l'approvazione della più complessiva riforma del settore. Sono state introdotte novità assai significative, volte a moralizzare i criteri di erogazione del vecchio Fondo per l'editoria. Essi, d'ora in poi, si baseranno sui fondamentali criteri dell'occupazione e delle copie effettivamente vendute. Inoltre, viene garantita la modalità on-line di diffusione dei giornali permettendo continuità nei finanziamenti. Si delegificano i blog di piccole e medie dimensioni e si tutelano le testate per gli italiani all'estero». Vita, che ringrazia il sottosegretario Peluffo «per il suo impegno e la sua determinazione», sottolinea che ora l’obiettivo oltre alla riforma, è quello di «rimpinguare il fondo dell'editoria, ridotto e non adeguato alle necessità minime di sopravvivenza delle tante testate interessate».
Il prossimo passaggio sarà l’esame del provvedimento che conferisce al Governo una delega, da esercitare entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, per la definizione di nuove forme di sostegno all'editoria e per lo sviluppo del mercato editoriale.
il Fatto 13.7.12
Contributi all’editoria: cronaca di un lento addio
di Chiara Paolin
Al Dipartimento per l’Editoria, presso la Presidenza del Consiglio, lo dicono chiaro e tondo: “L’unica cosa certa è che quest’anno i fondi non li prenderà Valter Lavitola”.
PAROLA di Ferruccio Sepe, fresco capo dipartimento che ha lavorato di cesello alla norma approvata ieri in via definitiva dalla Camera. “In sintesi - spiega Sepe -, ci sono a disposizione 120 milioni per l’anno 2011, da dividere tra tutte le testate che faranno domanda entro il prossimo settembre (e che hanno i requisiti). Più o meno le stesse dell’anno precedente, quando però c’erano 150 milioni”.
Insomma dovranno stringere la cinghia quelli dell’Unità (6 milioni scarsi), Avvenire e Italia Oggi (sui 5 milioni), e via a scendere (neanche 3 milioni per Manifesto, Liberazione, Foglio, Secolo e affini). Al momento si tratta di stime: calcoli veri ed erogazioni si faranno solo a fine anno, anche perché potrebbe esserci il ritorno di Libero a ridurre le fette della torta.
In realtà l’incasso sarà un semplice giroconto per molte di queste testate che hanno da tempo promesso alle banche il loro obolo di Stato. “Abbiamo raggiunto un buon risultato, ma è già ora di guardare oltre - si fa avanti il segretario della Fnsi, Franco Siddi -. Cioè all’anno 2012, in pagamento nel 2013: lì abbiamo 57 milioni stanziati. Non bastano”.
Soldi che verranno distribuiti secondo le nuove regole approvate ieri: premiato chi vende di più, chi assume con contratti regolari, chi recupera tramite cooperative di giornalisti testate in difficoltà. Facilitazioni anche per l’editoria on line: “Poca roba - lamenta il deputato Pd Andrea Sarubbi -. Ci vuole più coraggio per cambiare davvero il sistema: va bene semplificare la burocrazia per chi investe sul web, eliminando l’obbligo di registrazione per le mini testate, però serve un vero scarto verso il futuro. Non lo vedo”.
ALL’ORIZZONTE per ora c’è la legge delega che dovrà fissare norme innovative per l’intero comparto a partire dal 2013 (con distribuzione materiale nel 2014). “La legge è stata incardinata - spiega Ricardo Levi, relatore alla Camera -. Contiamo di farla approvare entro la legislatura”. L’idea base è di eliminare i contributi a pioggia aiutando le aziende con strumenti light (esenzioni fiscali, incentivi all’innovazione, tutela del pluralismo ma con predominanza delle leggi di mercato).
Dunque il bottino 2011, appena impiattato, andrà subito in archivio. Per il 2012 la dieta sarà severa. Dal 2013 in poi, pochi santi in paradiso e soprattutto basta trucchetti nel distribuire - gratis - copie e prebende. Anche se c’è chi boccia anzitutto la spartizione approvata ieri: “Nessuna novità” sentenzia Antonio Borghesi dell’Idv, partito che ha votato contro in aula. “Zitti, zitti, ci sono da proteggere i giornali della famiglia Berlusconi - sussurra Borghesi -. Zitti anche nel Pd, perché pure lì ci sono soldi da incassare. Zitti nella Lega, c'è la Padania da salvare. Persino tra i Radicali tutti zitti, c'è la radio da salvaguardare”. L’Idv s’è accontentato di un altro no contro Monti.
l’Unità 13.7.12
La lotta dei ricercatori «Ci vogliono cancellare»
di Mariagrazia Gerina
Stralciare dalla «revisione della spesa» pubblica almeno i tagli agli enti pubblici di ricerca. Il ministro Francesco Profumo, che ieri ha ricevuto i presidenti degli enti controllati dal Miur, assicura che proverà a correggere il tiro. Quei numeri, decisi a Palazzo Chigi, hanno fatto fare un salto anche a lui. «Ma sanno che la corrente che ci vogliono tagliare ci serve per gli acceleratori di particelle?», si inalbera Barbara, 42 anni, ricercatrice ex precaria dell'Infn, assunta da due anni. Una delle ultime “fortunate”. Si fa per dire. Se le cifre della spending review non saranno corrette, come dice il presidente dell’Istat, si fermerà tutto. E anche gli enti più “virtuosi” si trasformeranno in enti inutili, avvertono a voci alterne i presidenti, convocati dal ministro (già prima della spending review) per discutere come ristrutturare (altrimenti) la spesa, i sindacati, Flc Cgil, Cisl e Uil, che ieri sono stati ricevuti a viale Trastevere, e i ricercatori che fin dal mattino si sono dati
appuntamento davanti al ministero. Sulla scalinata, sotto il sole abbacinante.
Flavio e Roberto, precari dell’Infn (24 milioni di tagli su 241 di finanziamenti), non hanno ancora trent'anni. E sognano di poter fare per il resto della vita quello che fanno adesso: ricercare le prove della «particella di dio». Roberto ha partecipato a uno dei progetti che ha portato alla scoperta del «bosone di Higgs». Flavio studia gli effetti della nuova fisica attraverso i «decadimenti rari». Quando parlano dell’anno appena trascorso al Cern di Ginevra, grazie all’Infn, si illuminano. «Lì sono tutti giovani, l’età media dei ricercatori è più o meno la nostra». In Italia, invece, essere giovani è quasi una colpa. Il lavoro flessibile andrebbe pure bene. «Ma in Svizzera venivamo pagati 3 volte e mezzo di più». Qui, guadagnano 1400 euro al mese. Come assegnisti di ricerca. E rischiano tra qualche mese, di dover seguire i loro colleghi già fuggiti all’estero: «Che altro puoi fare quando sai che non entrerai mai, che non ci saranno più concorsi?». L'ultimo è stato due anni fa. Loro non avevano ancora i i titoli per partecipare. «Sono entrati in trenta, il più giovane aveva 34 anni».
Raffaele, sismologo, all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ci è entrato 12 anni fa: adesso ne ha 41 ed è sempre precario. Uno dei 400 precari che reggono sulle spalle ricerca, rete di monitoraggio sismico, controllo dell’attività vulcanica. Invece di un allargamento della pianta organica, che ora è di 584 posti per 1000 dipendenti, come tutti gli enti di ricerca all’Ingv si ritrovano a fare i conti con il taglio del 10% e con un turn over, che non potrà superare il 20% per altri due anni. «Il Pdl ha persino fatto una interrogazione: a che servono tante persone se i terremoti non si possono prevedere?». Per i precari: tutti a casa? «Ma il ministro Profumo che rimprovera alla ricerca di non essere competitiva sui fondi europei lo sa che molti di noi hanno procacciato milioni di fondi Ue?».
Qualche metro più in là, i ricercatori dell’Isfol (5 milioni di tagli su 35 di trasferimenti) discutono con il segretario del Pd di Roma, che si dice pronto a sostenerli: «Se non vi opporrete a questi numeri, nessuno vi voterà più», avvertono loro. «E poi basta con questa storia che siamo giovani», sbotta una senior del precariato: «Ho 40 anni, lavoro da più di dieci all’Isfol: per il mercato del lavoro se dovrò ricominciare da capo sono già vecchia».
il Fatto 13.7.12
Tav, l’Italia resta sola
“Le Figaro”: la Francia riesaminerà il progetto In autunno incontro bilaterale tra i due governi
di Ferruccio Sansa e Carlo Tecce
Non possiamo dire di no al Tav perché abbiamo preso impegni con la Francia”. In tanti, sul versante italiano, spiegavano così la decisione del governo Monti di andare avanti con la grande opera. Ma ieri ecco la sorpresa: Le Figaro annuncia che la Francia si prepara a riesaminare dieci progetti di linee ad alta velocità. “Lo Stato – scrive il quotidiano – ha previsto una serie di progetti senza averne fissato i finanziamenti. Il governo non avrà altra scelta che rinunciare ad alcune opzioni”. Non una voce di corridoio, ma parole del ministro del Bilancio, Jerome Cahuzac. Secondo Le Figaro, sotto esame ci sarebbero la Nizza-Marsiglia, la Rennes-Brest e la Torino-Lione. Certo, quest’ultima creerebbe qualche problema, per via degli impegni con l’Italia, ma sarebbe “squalificata per il suo costo (12 miliardi di euro) ”. Non solo: c’è anche il calo su quella tratta nel “trasporto merci, sceso a 4 milioni di tonnellate contro gli 11 di vent’anni fa”.
Una notizia che, ovviamente, in Italia ha creato un terremoto. Dopo anni di battaglie. E dopo che il governo Monti a marzo ha risposto a muso duro che l’opera è indispensabile e ci sono impegni presi con la Francia.
FONTI del governo italiano cancellano i dubbi e cerchiano di rosso un appuntamento fondamentale, dopo che palazzo Chigi ha chiesto un chiarimento all’ambasciatore francese che ha cercato di tranquillizzare Roma: “In autunno ci sarà un bilaterale Francia-Italia sul Tav, proprio a Lione. Sarà un incontro molto importante”. Dalla Francia, però, arrivano solo mezze smentite: sull’eventuale stop del “progetto della Torino-Lione non bisogna trarre conclusioni affrettate”, dicono dal ministero del Bilancio francese. Precisano: non c’è ancora nessuna rinuncia, ma soltanto “una missione che sta valutando la correttezza degli investimenti pubblici”. E aggiungono: “C’è ancora tempo. Molti progetti di linee ad alta velocità sono previsti oltre il 2017”. Difficile capire se la Torino-Lione ne faccia parte. Il punto è che, fanno notare al ministero del Bilancio, “numerosi progetti annunciati dallo scorso governo (il centrodestra di Sarkozy, ndr) non sono stati sufficientemente preparati e i costi sono stati sottovalutati”. Un minimo più rassicurante per i fan della Torino-Lione è Bernard Soulage, responsabile Trasporti dei socialisti francesi: “La linea non sarà rimessa in questione per via degli accordi presi a livello internazionale e degli impegni del presidente Francois Hollande”. Strana storia: italiani e francesi sostengono di dover proseguire l’opera anche per via degli impegni reciprocamente assunti. Ma forse la verità non è tutta nelle dichiarazioni ufficiali. A Parigi, nei corridoi della politica, più d’uno sostiene che il Tav non scaldi il cuore di Hollande.
SECONDO qualcuno, però, l’eventuale retromarcia dei francesi potrebbe essere una tattica per ottenere un aiuto da Bruxelles. Questa settimana si discute l’aumento di bilancio europeo che tanti paesi aspettano. Poi a ottobre dovrebbe arrivare l’approvazione dei project bond per le grandi infrastrutture. A palazzo Chigi non sono eccessivamente preoccupati, ma fanno sapere che il progetto è valido soltanto se svolto insieme: “Rispettiamo i pensieri e anche i ripensamenti di un altro Stato, ma noi continuamo a credere che l’opera sia necessaria e non ci debba essere alcun passo indietro perché altrimenti perderemmo fondi europei già stanziati. É ovvio che qualora la Francia dovesse lasciarci soli, ma non ci sembra questa la circostanza, il Tav non sarebbe più possibile. E ci comporteremo di conseguenza”. Al ministero per lo Sviluppo economico di Corrado Passera, che segue da diretto interessato la vicenda, raccontano la genesi dei movimenti francesi: “Il nuovo governo ha nominato una commissione per analizzare i vari progetti infrastrutturali per capire le disponibilità finanziarie, ma non hanno preso alcuna decisione. Sanno che è impossibile fermare un'opera del genere, e noi continueremo a fare la nostra parte”. Mario Virano, il Commissario straordinario per il Tav, giura e spergiura: “É una tempesta in un bicchier d’acqua. Le autorità francesi mi hanno assicurato che si va avanti”. Forse non è tutto così semplice. Come ha raccontato mesi fa il Fatto, l’Agenzia Nazionale per l’Ambiente francese (un soggetto pubblico, quindi) sostiene che “il dossier” sulla Lione-Torino “ha un carattere incompleto… il suo grado di coerenza e di precisione è spesso inferiore a quello che ci si potrebbe attendere da uno studio di impatto riferito a un’opera di questa portata”. Non una bocciatura, ma tanti rimandi, questo sì.
il Fatto 13.7.12
Da Monti a Fassino: tutti insieme appassionatamente
Di seguito una selezione delle dichiarazioni offerte dalla politica riguardo al Tav. Piero Fassino (Pd): “È un’opera necessaria”. Sergio Chiamparino (Pd): “Qui il centrosinistra si gioca la sua credibilità. Silvio Berlusconi (Pdl): “Si farà, siamo tutti d’accordo”. Pierferdinando Casini (Udc): “La paralisi delle grandi opere non è concessa al nostro Paese, che rischia di venir tagliato fuori dall’Europa se quest’opera non si fa”. Roberto Cota (Lega): “Intervenire in tempi rapidi per realizzarla”. Mario Monti (premier): “È un progetto europeo, si va avanti”. Corrado Passera (ministro): “È un progetto importante, manterremo gli impegni”. Renato Schifani (presidente del Senato): “Questa protesta è anacronistica, non sta al passo con i tempi”
La Stampa 13.7.12
I dubbi della Francia mettono a rischio la Tav
La Torino-Lione sotto esame, Parigi chiede più fondi all’Europa
di Paolo Levi
Parigi. Gli espropri La zona di Chiomonte del primo cantiere 12 miliardi di euro Il costo della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, che ora il governo francese sta mettendo in discussione. Gran parte del costo riguarda il tunnel di base di 57 chilometri (per tre quarti in territorio francese), in parte finanziato dall’Ue. Il costo rimanente è per la maggior parte a carico dell’Italia
Torino-Lione a rischio. Il nuovo governo francese del presidente François Hollande, intende riesaminare - ed eventualmente rinunciare - a diversi progetti di linee ferroviarie ad alta velocità e - data la gravità della crisi e la necessità di ridurre la spesa pubblica - vincola il progetto all’ottenimento di nuove risorse da parte dell’Unione europea.
La Torino-Lione, spiega il governo di Parigi, è un progetto di «maggiore importanza, con dimensioni europee e un notevole interesse ambientale». Ma per poter passare alla sua concreta realizzazione servono «nuovi finanziamenti» da parte della Ue. Finanziamenti, spiegano a Parigi, che potrebbero superare i dieci miliardi di euro e che devono passare attraverso un nuovo accordo tra le parti. Un fulmine a ciel sereno, quello arrivato dalla Francia, che suscita l’entusiasta reazione dei No Tav, che tornano a ribadire l’inutilità dell’opera.
Mentre l’Osservatorio tecnico italiano minimizza: «Una tempesta in un bicchiere d’acqua», la definisce il commissario straordinario per la Tav, Mario Virano, spiegando che il governo Hollande sta solo studiando il fasaggio degli interventi sulla propria tratta nazionale della Torino-Lione per selezionare gli interventi indispensabili da quelli differibili nel tempo, come ha già fatto l’Italia. E il tunnel della tratta transfrontaliera - sancito da un trattato firmato dai due Paesi lo scorso 30 gennaio - non è in discussione. Secondo «Le Figaro», uno dei quotidiani che ieri mattina ha rivelato per primo i dubbi delle autorità transalpine, la Francia intende riesaminare dieci progetti. Fra questi, spiega il giornale, la Tav Torino-Lione sarebbe nella hit parade dei cantieri a rischio, a causa del costo elevato (12 miliardi) e il calo del traffico merci.
A Parigi, prima che arrivasse il siluro del governo sulla necessità di un nuovo accordo e di nuovi finanziamenti Ue, il ministero del Bilancio aveva spiegato che «non bisogna trarre conclusioni affrettate» su un eventuale stop della Torino-Lione. Per il momento, c’è solo l’intenzione di costituire una missione di parlamentari e di esperti per valutare, entro la fine dell’anno, «la correttezza degli investimenti pubblici» annunciati a suo tempo da Sarkozy ed ordinarli in modo «prioritario».
L’altro ieri, il ministro francese del Bilancio, Jerome Cahuzac, ha lanciato una dura bordata contro alcune infrastrutture annunciate a suo tempo dal precedente governo di Nicolas Sarkozy: «Lo Stato ha previsto una serie di progetti senza averne fissato i finanziamenti. Il governo non avrà altra scelta che rinunciare ad alcune opzioni». «Ridaremo un senso alle politica dei trasporti», gli ha fatto eco ieri sera il ministro dei Trasporti, Frédéric Guvillier, bollando gli annunci di Sarkozy come «promesse elettorali». Intervenendo in tv, il ministro ha quindi precisato che «bisogna avviare una valutazione costibenefici, sull’utilità e sull’efficacia» di queste infrastrutture insistendo sull’opportunità di migliorare anzitutto le linee esistenti, prima di crearne di nuove. La Torino-Lione fu confermata il 22 giugno 2012 a Roma da Hollande come opera prioritaria da farsi.
l’Unità 13.7.12
Svendita Acea, il Consiglio di Stato blocca Alemanno
Sospeso il voto finale per la cessione del 21% della holding dell’acqua
Tutto rimandato l’opposizione guadagna tempo. Protesta dei comitati in Campidoglio
Anche Storace bacchetta: «È stata una figuraccia colossale»
di Jolanda Bufalini
Arriva al fotofinish, mancano pochi minuti alle 16, quando è convocata l’Aula per il voto finale sulla vendita dell’acqua pubblica di Roma, il decreto del Consiglio di Stato che sospende a mezzo telefax ogni decisione. A quel punto l’assemblea capitolina si convoca con tanto di inno a Mameli per chiudersi immediatamente dopo. È finita in tribunale la battaglia campale del Campidoglio sull’Acea e a sugello, anche se il sindaco minimizza, c’è il lapidario commento di Francesco Storace: «Alemanno ha fatto una figuraccia mondiale». Il decreto del Consiglio di Stato arriva in piazza del Campidoglio quando il parapiglia è in pieno svolgimento: i manifestanti dei comitati per l’acqua pubblica hanno occupato la scala d’ingresso, vigili e forze di polizia li hanno presi di peso e portati via, si sono formati cordoni delle forze dell’ordine. Arriva con il testo della sospensiva la consigliera Monica Cirinnà che legge la motivazione: «Sussiste danno grave e irreparabile». Applausi: «Abbiamo vinto!», in mezzo alla piccola folla ci sono molti e diversi protagonisti di una vicenda che da 3 mesi impegna il consiglio comunale della capitale, senza che mai il sindaco abbia sentito il dovere di presentarsi in Aula. C’è il segretario del Pd romano Marco Miccoli, il consigliere di Action Andrea Alzetta. Lo stop è temporaneo, il decreto fissa la discussione nel merito per il 24 luglio, dimezzando i tempi processuali.
Il ricorso che ha bloccato quella che il capogruppo Pd Umberto Marroni definisce «la svendita di Acea contro la volontà di un milione e 227mila romani espressa nel referendum per l’ acqua pubblica», è stato firmato da Gemma Azuni (Sel), Gianluca Quadrana (Civica) e Francesco Smedile(Udc). E ha origine nella decisione del presidente Marco Pomarici di posporre l’approvazione degli ordini del giorno al voto sulla delibera 32. «È una ferita inferta alle regole basilari di funzionamento delle assemblee elettive», spiega l’avvocato Gianluigi Pellegrino, «in danno a tutti i consiglieri di opposizione e di maggioranza, poiché la decisione sul voto finale si forma anche in base agli indirizzi indicati dagli ordini del giorno».
La battaglia contro la vendita del 21 per cento delle azioni Acea ha caratteristiche ostruzionistiche, come mostra la montagna di scatoloni che fa barriera nell’Aula Giulio Cesare: contengono gli emendamenti residui perché, nella seduta di mercoledì, un maxiemendamento ne ha falciati 45.000 fra le proteste dell’opposizione, che è riuscita a tirare fino alle 19. Tempistica provvidenziale, perché la maggioranza, a quel punto, ha deciso di rinviare il voto bloccato, ieri, dal Consiglio di Stato. Spiega ancora l’avvocato Pellegrino, «l’attività ostruzionistica è legittima e la maggioranza ha gli strumenti per contrastarla senza ledere diritti democratici». Inoltre, in ordini del giorno ed emendamenti, ci sono argomenti molto seri: nel mentre a Roma si sviluppava fra occupazioni dell’aula e proteste che hanno visto anche i consiglieri venire alle mani, «il decreto sulla spending review spiega Marco Causi, deputato Pd stabilisce la fine delle società strumentali dei comuni, la holding che Alemanno sta creando dovrà fra pochi mesi essere chiusa». Oggi alle 15 c’è la capigruppo e, avverte Umberto Marroni, «Noi siamo intenzionati ad andare fino in fondo, fino al referendum, perciò è meglio che il sindaco Alemanno desista adesso». Anche perché, al momento, alla vicenda Acea è agganciato il voto sul bilancio di previsione. «Una follia continua Marroni di solito dopo sette mesi si vota l’assestamento e noi non abbiamo ancora votato le previsioni». In questi mesi di proteste, racconta Marco Miccoli, abbiamo «visto di tutto, la militarizzazione del Campidoglio e lavoratori che venivano a protestare, a chiedere al comune di occuparsi di loro, perché la città è in ginocchio, mentre il Consiglio è stato paralizzato sulla vendita di Acea».
Repubblica 13.7.12
I consiglieri d’oro della Regione Lazio indennità e super rimborsi per i trasporti
I costi dell’assemblea sono lievitati toccando i 115 milioni di euro. E ogni eletto costa come un appartamento
Gli eletti sono 71 e occupano 79 poltrone e le spese continuano ad aumentare di anno in anno
Le spese per gli enti locali
di Carlo Picozza
NEL Lazio, con la metà degli abitanti della Lombardia (5 milioni contro 10), i consiglieri regionali percepiscono uno stipendio doppio dei loro colleghi del «Pirellone»: 10mila euro contro 5. Ognuno dei 71 consiglieri regionali costa ogni anno ai cittadini del Lazio quanto un appartamento, 335mila euro, il 20% in più di quanto “valeva” nel 2009. E per 71 eletti ci sono 79 poltrone. Nessuno è consigliere semplice, insomma. Sono tutti «graduati». E di cariche in molti ne cumulano più d’una, con emolumenti e prebende al seguito: 4 segretari del Consiglio, 17 capigruppo (8 gruppi sono costituiti da un solo consigliere), 19 presidenti e 57 vice per le 19 commissioni (la Lombardia ne ha 8 e sono 15 quelle di Camera e Senato). Erano 20 a fine maggio quando fu abolita la commissione Giochi Olimpici che però ha resistito quattro mesi dal ritiro della candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020. Tutti i consiglieri, oltre a diaria e indennità di ruolo (4.252 più 4.003 euro al mese), godono di un’altra indennità, quella di funzione, che va dai 2.311 euro per il presidente del Consiglio ai 594 euro dei vicepresidenti di commissione. Appelli e annunci, ma stipendi, vitalizi e indennità sono rimasti gli stessi. Per credere basta sfogliare il bilancio consuntivo del Consiglio regionale, approvato a fine giugno. I rimborsi spese, ritoccati all’insù per gli spostamenti con auto propria (40 centesimi al chilometro), vengono elargiti senza pezze d’appoggio. Basta una autocertificazione. Così, è sufficiente dichiarare di aver cambiato domicilio, trasferendosi ai confini del Lazio settentrionale o nei lembi estremi di quello meridionale, per lucrare quotidianamente su carburante e usura veicolo. Ma c’è un ma: sul certificato dei redditi, neppure la metà dei consiglieri dichiara di possedere una macchina e c’è chi non ha neanche la patente. I costi dell’assemblea regionale sono lievitati di 5 milioni e 300mila euro, passando dai 109 milioni 700mila ai 115 milioni. Preventivo alla mano, sarebbero dovuti scendere a 103. Nove milioni di scarto. A concorrere all’ascesa ecco le consulenze esterne. Il Consiglio, al contrario degli anni passati, nel consuntivo non ha messo in chiaro le singole voci di spesa. Certo è che con una delibera approvata da tutti, destra, sinistra e centro, è stata autorizzata, per i primi sei mesi del 2011 (lo spiega il Bollettino ufficiale della Regione Lazio), un’uscita di un milione e 60mila euro (già liquidata) per affidare a 45 esperti «bipartisan », ex assessori ed ex consiglieri, amici e amici degli amici, «studi dei regolamenti regionali», «progetti di finanza attiva», «cura della comunicazione per il garante dei detenuti» e via elencando. «Si tratta di consulenze inutili se si guarda alle professionalità interne che restano con le mani in mano », commenta il segretario regionale della Cisl, Tommaso Ausili. «Scelta tanto più grave», continua, «perché compiuta da maggioranza e opposizione consociate». La Regione, con debito e deficit sanitari più alti, è tra le più spendaccione. «I privilegi della politica sono uno schiaffo alla povertà che cresce», commenta il segretario regionale della Cisl Lazio, Tommaso Ausili, «Da anni si sarebbero dovuti abbattere i costi e i privilegi della casta che sono tanto più iniqui se misurati con i livelli bassissimi della produzione legislativa del Consiglio regionale: sette leggi in questi primi sette mesi del 2012 e di queste cinque di emanazione della giunta e nel 2011 non è andata meglio: su 21 leggi una quindicina sono state approvate su impulso dell’esecutivo del Lazio».
l’Unità 13.7.12
A Roma con Zingaretti per tornare a vincere
di Michele Meta
LA CRISI CHE INVESTE IL NOSTRO PAESE A ROMA E NEL LAZIO È ADDIRITTURA PIÙ DURA. Gli ultimi anni del governo Berlusconi-Bossi, uniti alle politiche di Alemanno e della Polverini, hanno divelto e meridionalizzato il sistema locale. La fotografia di questi giorni vede un comparto industriale tra i più solidi d’Italia al collasso: Videocon, Fiat di Cassino, industrie della Tiburtina, di Pomezia e dell’Agro pontino sono i fotogrammi di un film agghiacciante. Il centrodestra ha fatto saltare quel patto sociale che qui aveva rappresentato un modello di compromesso nobile inclusivo e solidale. Sono provocatori i tentativi della Polverini e di Alemanno di prendere a pretesto le misure della spending review per coprire le loro responsabilità.
Invece di tagliare i posti letto nella sanità pubblica e i servizi, a partire dai trasporti, si cambi repentinamente rotta con azioni autonome e credibili che azzerino sprechi, sperperi. Si difendano, invece, le prestazioni sociali. Quelle della governatrice e del sindaco di Roma sono lacrime di coccodrillo. Si sciolgano enti, carrozzoni e società inutili snellendo il sistema del “gruppo Lazio” e tutelando i lavoratori. La proliferazione di centinaia di società comunali, agenzie, consorzi, e il loro uso distorto e clientelare, ha infettato e foraggiato migliaia di consiglieri di amministrazione ed eserciti di consulenti. La vergognosa situazione degli assetti in consiglio regionale con il primato di venti commissioni e del vitalizio agli assessori tecnici sono paragonabili, forse, solo ai governi delle giunte siciliane di Cuffaro e Lombardo. La riforma della governance delle aziende pubbliche è tema non più eludibile. Ho posto anche al Pd locale la questione e giace in Parlamento una proposta di legge presentata dal collega Morassut, di cui sono cofirmatario, per riformare i meccanismi di governance delle aziende pubbliche.
Il metodo proposto da Bersani per la selezione delle nostre candidature in Rai è quello da seguire. Il 2013 è alle porte. Unità e lealtà devono essere le parole chiave che ci dovranno contraddistinguere. È falsa e bugiarda l’immagine che, al momento, vede un centrodestra comatoso presentarsi alle elezioni di Roma con un solo candidato. Il Pd ha, per usare un eufemismo calcistico, un fuoriclasse che va ben assistito da tutta la squadra. C’è in campo, da quattro anni nella Provincia di Roma, una figura capace di costruire la riscossa e l’alternativa. Il gruppo dirigente del Pd deve investire con rigore, trasparenza, lealtà e chiarezza su Nicola Zingaretti.
La partita è decisiva, non siamo a “Giochi senza frontiere”. Il Pd e le forze dell’alternativa traggano dalla straordinaria battaglia contro la privatizzazione di Acea forza e coraggio per bloccare la vergognosa colata di cemento di 20 milioni di metri cubi nell’Agro romano che Alemanno e Polverini, dopo i doni del piano casa, regala ai signori della rendita urbana. Si è aperta una fase per vincere nella Capitale e in Italia. Un’avventura capace di restituire a Roma il diritto a correggere questo triste presente e a progettare il proprio futuro.
La Stampa 13.7.12
“Diffamò i Radicali condannate Formigoni”
di Paolo Colonnello
Un anno di reclusione per aver diffamato il partito radicale durante una conferenza stampa. E’ quanto ha chiesto ieri mattina il pm Mauro Clerici, nel processo che vede imputato il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, accusato di avere attribuito ai Radicali Marco Cappato e Lorenzo Lipparini che avevano denunciato l’esistenza di firme false, una manipolazione in Tribunale e una macchinazione finalizzata ad escludere il centro destra dalla elezioni regionali lombarde del 2010.
Questa, in particolare. la frase incriminata riportata da tutti i quotidiani nazionali: «Ho la dimostrazione - disse Formigoni in conferenza stampa - che c’è stata una macchinazione a più soggetti per escludere in maniera fraudolenta, cioè con comportamenti illegittimi, il centrodestra dalla competizione lombarda... hanno più volte violato la legge ai nostri danni e in maniera inoppugnabile... ». Talmente inoppugnabile che poi le 926 firme a sostegno della lista di Formigoni sono risultate senza ombra di dubbio false, costando recentemente il rinvio a giudizio del coordinatore Pdl dell’epoca Guido Podestà.
«E’ una cosa scandalosa e ridicola nello stesso tempo» protesta Formigoni. «Ma i Radicali non fanno politica? Bene, le polemiche tra i politici sono sempre state giudicate insindacabili». Ma, visto il tenore delle frasi prese in esame, più che una polemica quella di Formigoni sembrò una precisa attribuzione di reati: «Ai Radicali disse - sono state consegnate le nostre liste e hanno potuto manipolarle, correggere, spostare i documenti come volevano... I Radicali hanno potuto compiere qualsiasi atto manipolativo, compreso la sottrazione di documenti». Il pm ha ritenuto che l’imputato non fosse meritevole delle attenuanti generiche mentre i due radicali, costituitisi parte civile, hanno chiesto al tribunale che Formigoni venga condannato anche a un risarcimento di 250 mila euro. Il processo si chiuderà ad ottobre.
l’Unità 13.7.12
Intervista a Nawaf al-Fares
Parla, per la prima volta, l’ambasciatore siriano che ha «disertato» due giorni fa. «Esorto tutti a unirsi alla rivoluzione, soprattutto l’esercito»
«Ho tradito Assad per non tradire la Siria»
«È ancora possibile l’uscita di scena del rais: ed è l’unico modo
per fermare la strage»
di Umberto De Giovannangeli
Parla per la prima volta l’ambasciatore siriano che due giorni fa ha voltato le spalle al regime. In questa intervista esclusiva a l’Unità, Nawaf al-faref, ora ex ambasciatore in Iraq, spiega le ragioni del suo gesto. «La Comunità internazionale ha rivolto ripetuti appelli al presidente Assad perché ponesse fine alla repressione. Questi appelli sono rimasti inascoltati. Non potevo più restare al mio posto». Ancora: «Il mio non è un tradimento. Tradire il popolo siriano sarebbe stato continuare a rappresentare chi ha scelto la strada della repressione. Altri seguiranno la mia strada».
«Sono stato il primo ma non sarò il solo a defezionare. Così come nell’esercito, nel corpo diplomatico sono sempre di più le persone che non identificano più il loro essere al servizio dello Stato con restare dalla parte di un regime che ha risposto con brutalità alle richieste di apertura, di democrazia. Alla fine, la scelta è individuale: ed io ho scelto di unirmi alla rivoluzione». A parlare è Nawaf al-Fares , ambasciatore in Iraq, il primo diplomatico siriano ad aver defezionato. Grazie ad Abdulbaset Sieda, presidente del Consiglio nazionale siriano (Cns) che raggruppa i principali movimenti di opposizione, l’Unità è riuscita a entrare in contatto con al-Fares. «Assad – rimarca l’ex ambasciatore – è sempre più isolato, anche nella ristretta cerchia dei suoi fedelissimi si è aperta una crepa. È il momento che la Comunità internazionale unisca i suoi sforzi per costringerlo ad uscire di scena: sul tavolo c’è la soluzione “yemenita”, so che c’è chi spinge perché la Russia dia asilo ad Assad e alla sua famiglia... Di certo la riconciliazione nazionale non potrà mai avvenire con Assad ancora al potere». Al-Fares rivolge poi un appello, in particolare ai militari: «Esorto tutte le persone libere e rispettabili in Siria, in particolare l’esercito, a unirsi alla rivoluzione. Volgete i vostri cannoni e i vostri carri armati verso i criminali del regime che stanno assassinando il nostro popolo». La sua defezione avviene pochi giorni dopo quella di uno dei principali collaboratori di Assad, il generale Munaf Tlass.
Per la sua defezione e per le motivazioni addotte, il ministero degli Esteri di Damasco ha emesso un comunicato in cui si afferma che lei «verrà perseguito in sede penale e sottoposto ad azione disciplinare». «Quando ho compiuto questa scelta, sapevo bene a cosa sarei andato incontro. Ma non potevo più restare al mio posto e difendere ciò che da tempo è indifendibile. Nel corso di questi terribili mesi, la Comunità internazionale ha rivolto ripetuti appelli al presidente Assad perché ponesse fine alla repressione. Questi appelli sono rimasti inascoltati. Ho fatto i conti con la mia coscienza e con le ragioni che mi hanno spinto a servire lo Stato. La mia, mi creda, è stata una scelta ponderata, per niente di comodo».
Una scelta che rimarrà isolata?
«Non credo. Ho buone ragioni per ritenere che altri seguiranno questa strada.
Il mio non è un tradimento. Tradire il popolo siriano sarebbe stato continuare a rappresentare chi ha deciso di rispondere con la più brutale repressione a una domanda di cambiamento che avrebbe dovuto avere risposte politiche, di apertura. All’inizio della sua presidenza, Bashar aveva manifestato una volontà riformatrice, parlava di modernizzazione della Siria. Non ho remore nel dire che sono stato tra quelli che hanno dato credito a queste affermazioni. Ma alla prova dei fatti, non ha avuto la forza, e forse neanche la volontà, di realizzare quanto promesso. Ora fa conto solo sulla forza militare, ma anche tra le fila dell’esercito, anche tra coloro che venivano considerati suoi fedelissimi, sono in molti da aver preso le distanze, e alcuni sono passati con l’opposizione: mi riferisco, in particolare, al generale Munaf Tlass: una defezione pesantissima per Assad, per il ruolo che Tlass ricopriva e per la storia della sua famiglia».
C’è chi sostiene che l’opposizione siriana sia eterodiretta, e che dietro le defezioni «eccellenti» vi siano Paesi arabi, come il Qatar, o altre potenze regionali, come la Turchia, interessate a destabilizzare la Siria.
«Si tratta di accuse infamanti, che ho messo nel conto. Assad ha fallito perché non ha permesso alla Siria di crescere, di aprirsi, di scommettere sulla democrazia, e non per complotti internazionali».
È pensabile ancora un’uscita di scena negoziata di Assad?
«Me lo auguro, perché ciò significherebbe porre finalmente fine ad un bagno di sangue che dura ormai da oltre un anno. Ma perché ciò possa avvenire, c’è bisogno che la comunità internazionale trovi una vera unità d’intenti nel premere
su Assad: la sua forza è anche nella divisione che si continua a registrare nelle sedi internazionali, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’unità d’intenti è fondamentale se si vuole, ad esempio, praticare una soluzione “yemenita” per Assad, quale quella indicata non molto tempo fa dal presidente Obama».
C’è chi invoca un intervento militare internazionale, «modello Libia».
«In generale, ritengo che l’intervento militare debba essere l’ultima carta. Ma al tempo stesso ritengo che di fronte ai massacri quotidiani compiuti dalle forze lealiste, sia necessario, in sede Onu, menzionare, in termini vincolanti, il capitolo VII della Carta Onu (quello che contempla il possibile ricorso ad un’azione militare, ndr), in una Risoluzione che intenda corrispondere nel suo dispositivo sanzionatorio alla drammaticità degli eventi».
Secondo la Casa Bianca, la sua defezione è «un altro segno della disperazione di Assad» e il suo entourage «sta cominciando a valutare le possibilità che il presidente ha di rimanere al potere».
«Non parlerei di disperazione, quanto di una presa di distanza fortemente motivata e, mi lasci dire, anche coraggiosa. Quanto alle possibilità che Bashar ha ancora di mantenere il potere, spero che siano sempre più scarse. Lo spero per la Siria ma anche per la stabilità del Medio Oriente».
La Stampa 13.7.12
I consumi in Cina non compensano il calo dell’export
di Wei Gu
Ci si aspettava che i consumatori cinesi avrebbero fatto la propria parte quando l’export della Cina ha iniziato a frenare. Tuttavia, i risultati di alcune aziende cinesi dalle bibite Master Kong alle calzature sportive DongXiang suggeriscono che ciò non sta accadendo. Un conto è quando a perdere colpi sono i brand del lusso, destinati a consumatori di alto livello, cosa che già succede da un po’ di tempo. Per esempio, Burberry China, l’11 luglio, ha dichiarato che la crescita delle vendite rispetto all’anno precedente è calata a cifre attorno al 15% nel primo semestre di quest’anno. Tutt’altra cosa è quando a frenare sono i prodotti di largo consumo, come calzature sportive o cellulari.
Secondo Gartner, le vendite di telefonini cinesi hanno subito un calo del 6% su base annua nel primo trimestre, risultato nettamente peggiore rispetto alla diminuzione del 2% registrata a livello mondiale. Le vendite di cellulari Nokia in Cina hanno subito un crollo di 62 punti percentuali nello stesso periodo. Ma i consumatori hanno chiuso il portafoglio anche per prodotti ben più basilari come le calzature. Il gruppo China DongXiang ha dichiarato che i proventi della vendita di calzature sportive sono diminuiti del 29% nei primi sei mesi dell’anno corrente. Persino i beni di primissima necessità arrancano. Tingyi Holdings, azienda produttrice delle bevande e dei noodles istantanei Master Kong, ha riportato un calo pari al 5% su base annua nel fatturato del primo trimestre. Alcune di queste voci, non confermate, potrebbero tuttavia essere il risultato di strategie inavvedute o relative a uno specifico marchio. Alcuni tipi di beni di consumo hanno subito netti aumenti di prezzo l’anno scorso. Inoltre, gli incentivi concessi per l’acquisto di automobili ed elettrodomestici nel 2009 potrebbero aver determinato un accentramento della domanda. Tuttavia, i fatti suggeriscono che i consumi cinesi sono ancora strettamente legato al benessere del settore dell’export. Se uno rallenta, l’altro lo segue, e ciò non fa altro che rendere l’idea di una conversione dell’economia cinese sempre più difficile da realizzare.
l’Unità 13.7.12
No tedesco alla circoncisione. I rabbini: «Come la Shoah»
di Roberto Monteforte
«Non ubbidite!». È questo l’invito rivolto alle comunità ebraiche tedesche dalla conferenza dei rabbini d’Europa riuniti in questi giorni a Berlino.
Sotto accusa è la sentenza del tribunale di Colonia che equipara ad un delitto la pratica della circoncisione maschile seguita dal mondo ebraico, la definisce «mutilazione fisica arbitraria», perché «contraria all'interesse del bambino che dovrà decidere più tardi e consapevolmente della sua appartenenza religiosa». Se quella sentenza dovesse essere «trasformata in legge» o «accettata da altri organismi», la comunità ebraica «non avrebbe più nessun futuro in Germania» ha commentato rav Pinchas Goldschmidt, il presidente della conferenza dei rabbini d’Europa. Da qui la sua esortazione rivolta al mondo ebraico tedesco: «Continuare a praticare la circoncisione rituale senza aspettarsi un dietrofront» della magistratura tedesca. Il giudizio sulla sentenza emessa dal tribunale di Colonia è severo e molto preoccupato. La ritiene come «il più grave attacco alla comunità dalla Shoah».
Per la Germania questa affermazione ha un peso particolare. Il punto spiega Goldschmidt è che la circoncisione è una legge fondamentale che la Torah prescrive per l'ottavo giorno dalla nascita di ogni bambino. Quell’asportazione di un pezzetto del prepurzio è il segno del legame profondo che lega ogni ebreo a Dio. «Il nuovo linguaggio dell'antisemitismo è il linguaggio dei diritti umani», ha aggiunto Goldschmidt. Quello che sconvolge è che gran parte della cittadinanza, secondo un sondaggio, si sia espressa favorevolmente alla sentenza. In Israele quel divieto è considerato come una limitazione significativa alla libertà di culto ebraico e crea sconcerto che venga proprio dalla Germania.
L’ULTIMA PAROLA
In un’intervista alla radio statale il presidente della Knesset (parlamento) Reuven Rivlin (Likud) ha osservato che ora sta al Bundestag salvaguardare la libertà religiosa. «La Corte di Colonia è libera di esprimere le proprie convinzioni, ma in una democrazia parlamentare ad avere l'ultima parola è chi fa le leggi». «L'affermazione che una persona non possa osservare la propria fede religiosa viola ogni Costituzione» ha osservato Rivlin. Si teme che quella sentenza finisca per fare scuola in Europa la sentenza di Colonia. Si osserva come sia sempre più difficile essere ebreo in Europa. Dopo la iniziativa (respinta a stento) di impedire in Olanda la macellazione Kosher di carne, e dopo che in Francia l'antisemitismo militante torna a sollevare la testa, dalla Germania arriva ora la sentenza della Corte d'appello di Colonia. Reagisce allarmata la stampa israeliana e in un'Europa ritenuta sempre più rigida, con gli ebrei in difficoltà, si ipotizza un asse con le ben più numerose e potenti comunità islamiche.
Secondo stime del Rabbinato di Gerusalemme, ogni anno in Israele vengono circoncisi 60 mila neonati: le complicazioni mediche, nel 2011, sono state 73.
Perfino i laici più convinti si piegano in massa alla tradizione: solo il 2% dei genitori ebrei preferiscono non intervenire. E su questo fronte rischiano di trovarsi in difficoltà anche le comunità islamiche che pure predicano la circoncisione, anche se essa può avere luogo nella pubertà. L'anno scorso, fa notare Haaretz, le comunità ebraiche e musulmane in Olanda si sono coalizzate contro una iniziativa che intendeva vietare la macellazione di carne secondo le regole ebraiche (Kosher) e islamiche (Hallal), per evitare, spiegavano, sofferenze superflue agli animali. Adesso, ha anticipato al giornale un esponente del rabbinato europeo, si cercherà di ripetere anche in Germania quella esperienza per impedire che le circoncisioni siano messe definitivamente fuori legge.
Corriere 13.7.12
Berlino, un verdetto e l'ombra del passato
di Paolo Lepri
La Germania è un Paese tollerante dove la libertà religiosa è totalmente riconosciuta e tradizioni religiose come la circoncisione sono considerate un'espressione di pluralismo religioso». Queste parole, pronunciate dal ministro degli Esteri Guido Westerwelle pochi giorni dopo la sentenza della Corte d'Appello di Colonia in cui si definisce la pratica che unisce ebrei e musulmani «un reato da perseguire penalmente», non sono servite a placare le polemiche. Anzi, la tempesta aumenta di forza. Tanto che il presidente della conferenza dei rabbini europei, Pinchas Goldschmidt, ha affermato ieri che un divieto della circoncisione mette in discussione «il futuro degli ebrei in Germania» e ha giudicato la decisione dei magistrati di Colonia il «più grave attacco alla vita degli ebrei dall'Olocausto».
In Germania vivono 120.000 ebrei e quattro milioni di musulmani. Il quindici per cento degli uomini vengono circoncisi e si praticano 50.000 interventi all'anno. Basterebbero solo queste cifre, al di là delle prese di posizione giunte dalle comunità religiose e da Israele, a fare capire le dimensioni di una questione che a Berlino si vuole risolvere. E in fretta, come hanno chiarito al ministero della Giustizia. Anche dall'opposizione, la verde Renate Künast ha auspicato che il problema venga affrontato «in maniera legale, e in modo da garantire i diritti legali di ebrei e musulmani».
La volontà politica, quindi, esiste. Certo, nonostante questo, sono sicuramente comprensibili le reazioni negative ad una sentenza che mette in discussione le convinzioni di così tante persone. «Il diritto di praticare liberamente la religione è un aspetto fondamentale della democrazia», ha detto Abraham Foxman, il responsabile della Lega anti-Diffamazione. Gli ha risposto, sempre sul New York Times, il giurista tedesco Holm Putzke, secondo cui «operazioni mediche non necessarie dovrebbero essere rinviate fino a quando il paziente non è in grado di decidere da solo». Di diritti religiosi e democrazia ha parlato con forza anche Goldschmidt. Il presidente della conferenza dei rabbini europei ha ragione. Meno, forse, a evocare, in questo caso, lo spettro dell'antisemitismo. Un pericolo da non sottovalutare mai, oggi in Europa. Ma che sembra lontano, almeno, dalle preoccupazioni dei giudici di Colonia.
La Stampa 13.7.12
Il verdetto del tribunale
«La circoncisione rituale è una lesione personale contraria all’interesse del bambino»
Musulmani e cristiani protestano: «È un affronto ai diritti fondamentali»
“Se si vieta la circoncisione più nessun ebreo in Germania”
Il capo dei rabbini europei: la sentenza di Colonia è l’attacco più grave dall’Olocausto
di Alessandro Alviani
La circoncisione per motivi religiosi è un reato. Questa sentenza, diffusa a fine giugno da un tribunale di Colonia, sta scatenando da giorni forti proteste nella comunità ebraica e in quella musulmana in Germania. Nessuno finora si era però spinto tanto in là quanto il rabbino di Mosca e presidente della Conferenza dei rabbini europei, Pinchas Goldschmidt. Se quel pronunciamento dovesse essere accolto anche da altri organismi e trasformarsi in legge, ha detto ieri a Berlino al termine della conferenza dei rabbini europei, «per gran parte della comunità ebraica non ci sarà nessun futuro qui in Germania». Fin qui nulla di radicalmente nuovo, se è vero che pochi giorni fa il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Dieter Graumann, aveva espresso sul quotidiano Kölner StadtAnzeiger una preoccupazione simile: se la circoncisione «venisse proibita gli ebrei verrebbero spinti nell’illegalità e alla fine la vita ebraica qui non sarebbe più possibile».
Ad alzare il livello della polemica è stata ora un’altra frase del rabbino moscovita Goldschmidt. La sentenza, ha tuonato, rappresenta il più grave attacco alla vita ebraica in Germania «dai tempi dell’Olocausto». Parole durissime, che acuiscono una polemica scoppiata il 26 giugno, giorno in cui sono state pubblicate le motivazioni della sentenza in cui il tribunale regionale di Colonia giudica la circoncisione per motivi religiosi «una lesione personale», punibile per legge in quanto «contraria all’interesse del bambino di poter decidere da solo, in seguito, sulla sua appartenenza religiosa», si legge nel testo. In concreto i giudici si sono occupati del caso di un bambino di 4 anni che era stato circonciso per volere dei genitori, di religione musulmana. Due giorni dopo l’operazione il bambino era finito al pronto soccorso a causa di complicazioni.
La sentenza non è vincolante per gli altri tribunali tedeschi. Tuttavia ha già avuto conseguenze: il presidente dell’Ordine dei medici, Frank Ulrich Montgomery, ha consigliato a tutti i dottori di non praticare la circoncisione a causa dell’incerto quadro giuridico. L’unico ospedale ebraico in Germania, che si trova a Berlino, ha deciso di bloccare le circoncisioni finché non saranno trovate norme chiare.
La comunità ebraica ha protestato duramente, ricordando come la circoncisione sia un elemento costitutivo della propria religione; quella musulmana sta pensando di far ricorso alla Corte costituzionale. Insieme, ebrei e musulmani tedeschi ed europei hanno lanciato un appello congiunto in cui attaccano «l’affronto ai nostri fondamentali diritti umani e religiosi» e chiedono ai deputati tedeschi di intervenire. Rischiamo di tornare indietro di 500-600 anni, alle circoncisioni fatte in segreto, ha detto il rabbino capo askenazita di Israele, Yona Metzger. Critiche sono giunte anche dalla Chiesa cattolica e da quella evangelica tedesche, nonché dal ministro degli Esteri, Guido Westerwelle. In un sondaggio la maggioranza dei tedeschi (56%) ritiene invece giusta la sentenza.
La politica ha iniziato a muoversi. Spd e Verdi vogliono trovare una soluzione legislativa per consentire la circoncisione rituale. Intanto la conferenza dei rabbini europei ha annunciato che creerà una propria associazione di circoncisori ebrei.
Repubblica 13.7.12
Germania, i rabbini contro la sentenza anti-circoncisione: “Così nessun futuro per noi qui”
“Il peggior attacco agli ebrei dopo l’Olocausto”
di Giampaolo Cadalanu
La circoncisione è «la base dell’appartenenza alla comunità ebraica»: dunque il divieto, legato alla sentenza del mese scorso del tribunale di Colonia, è un attacco all’ebraismo. Pinchas Goldschmidt, rabbino capo di Mosca, non ha paura nemmeno di paragoni sopra le righe: «È il peggior attacco agli ebrei dai tempi dell’Olocausto», ha detto ai religiosi israeliti europei, riuniti a Berlino per un vertice d’emergenza. Come presidente della Conferenza dei rabbini, Goldschmidt ha già tracciato la strategia: un’alleanza con esponenti musulmani e cristiani, attraverso incontri già concordati per la prossima settimana a Stoccarda. Nel frattempo, le indicazioni alla comunità ebraica sono chiare: «Bisogna continuare a circoncidere i bambini, senza aspettare un cambiamento nella legge». La decisione dei giudici di Colonia, il 26 giugno scorso, seguiva la legge che impone la tutela dell’integrità fisica dei minori. A suscitare la sentenza è stata la denuncia di un medico, intervenuto d’urgenza per curare un ragazzo musulmano che era stato circonciso in maniera scorretta e perdeva sangue. I giudici hanno voluto sottolineare che la decisione non vieta la circoncisione, ma impone alle famiglie di aspettare la maggior età dei ragazzi. Per il momento il precedente è vincolante solo nell’area di giurisdizione del tribunale della Renania, ma ha suscitato una reazione durissima da tutte le comunità religiose. Per Goldschmidt, il divieto è un segno del pregiudizio strisciante che si presenta nelle leggi europee contro i non cristiani, dopo il bando della Svizzera alla costruzione di minareti, il divieto di Francia e Belgio all’uso del velo islamico e il tentativo olandese di mettere fuori legge la carne halal, quella di animali macellati secondo la tradizione islamica. «Il nuovo linguaggio dell’antisemitismo è il linguaggio dei diritti umani», ha detto Goldschmidt, per poi aggiungere: «Se il divieto rimane, non vedo futuro per gli ebrei in Germania», paragonando così la sentenza dei giudici renani alla decisione dei nazionalsocialisti di mettere fuori legge la macellazione rituale di mammiferi e uccelli secondo le regole dietetiche ebraiche. All’epoca del Terzo Reich, quel provvedimento era stato un segnale esplicito che «era ora di lasciare la Germania». Ma il bando della circoncisione, vista l’importanza della cerimonia per le tradizioni ebraiche, è un segno persino più forte. Le dichiarazioni del religioso sono ancora più “forti” se si considera che l’Olocausto e in genere l’antisemitismo sono tuttora punti dolentissimi della cultura tedesca. Le sue parole vanno di pari passo con l’offensiva di lobbying lanciata in questi giorni dalla comunità ebraica sui parlamentari, per ottenere dal Bundestag una legge che stabilisca per le tradizioni religiose l’eccezione alla regola. Sia i Verdi che i liberali della FDP si sono detti favorevoli, così come il ministro dell’Istruzione Annette Schavan, cristiano- democratica. Ma secondo i sondaggi, l’opinione pubblica tedesca è in maggioranza favorevole al bando della circoncisione: una tendenza che Goldschmidt considera allarmante.
Corriere 13.7.12
Arafat avvelenato con il Polonio? Quei documenti che restano nascosti
di Davide Frattini
Nasser al Kidwa ha reso pubblica la cartella clinica redatta dai medici francesi dell'ospedale militare Percy, dove lo zio Yasser Arafat è morto. Gli ci sono voluti quasi otto anni. I documenti erano stati ottenuti dal quotidiano israeliano Haaretz e dall'americano New York Times nel 2005, ma i familiari — al Kidwa e la moglie del leader palestinese — si sono sempre rifiutati di divulgarli. Adesso invocano la trasparenza, dopo che l'emittente araba Al Jazeera ha ricevuto dalla vedova Suha gli effetti personali di Arafat e li ha fatti analizzare ai ricercatori dell'ospedale universitario di Losanna.
I resti biologici sullo spazzolino, il pettine, le mutande hanno rivelato la presenza di Polonio 210, lo stesso isotopo radioattivo trovato nel sangue di Alexander Litvinenko, l'ex colonnello dei servizi segreti russi che aveva denunciato le trame cecene ed era morto avvelenato a Londra nel 2006. Nasser al Kidwa accusa gli israeliani di aver ucciso lo zio (e loro smentiscono), eppure i nuovi capi palestinesi non sembrano aver fretta di riesumare il cadavere e cercare quelle prove che trasformerebbero ancor più Abu Ammar, il suo appellativo di battaglia, in un mito da celebrare. Ieri hanno annunciato che la decisione non è stata presa, di voler prima analizzare il dossier stilato dagli scienziati svizzeri.
La comparsa in scena del Polonio — con quel nome scespiriano — trasforma la fine di Arafat anche in un complotto di palazzo. Il presidente della commissione palestinese che ha indagato sulla morte sostiene di poter dimostrare l'avvelenamento e ripete: è avvenuto con l'aiuto di qualcuno vicino al leader. Sembra che dentro alla Muqata e attorno al mausoleo dove giace Arafat si stia giocando una partita di potere che ritorna all'11 novembre 2004. Se è possibile trovare dei riscontri, è il momento di lasciar tentare i medici di Losanna. Se ci sono documenti ancora segreti, è il momento di tirarli fuori. Altrimenti i dubbi invecchieranno e moriranno di morte naturale.
Repubblica 13.7.12
Marx in banca i clienti tedeschi lo promuovono
di Giampaolo Cadalanu
Se fino a pochi mesi fa la strategia era quella di acquistare solo titoli di stato tedeschi o Usa per acquistare titoli sicuri pur con rendimenti bassi ora la scelta è solo per i Treasury
BERLINO — Sono passati quasi 23 anni dalla caduta del Muro, eppure molti tedeschi del-l’Est continuano a portare nel portafoglio l’immagine di Karl Marx. Ma non è solo l’ennesima ondata di rimpianto per la Repubblica operaia e contadina. Stavolta è solo la Cassa di risparmio di Chemnitz, città natale del filosofo, che ha stampato le proprie carte di credito con l’immagine del padre del socialismo. Nella cittadina dell’ex Germania est, che una volta si chiamava proprio Karl-Marx-Stadt, la banca ha deciso di far votare ai clienti l’immagine più gradita. Il faccione barbuto era ripreso dal busto alto 7 metri esposto in centro, fra Brückenstrasse e la strada delle Nazioni. Ha vinto senza difficoltà sulle altre immagini, tutte di monumenti cittadini: il castello di Waldeburg o quello di Forderglauchau, la torre rossa o il vecchio municipio, l’autodromo Sachsenring o il museo dell’Industria. Insomma, più che una rivincita storica dell’economia capitalistica sull’autore del Capitale, sembra la rivendicazione di una gloria cittadina, che prescinde del tutto dall’attualità o meno delle teorie marxiane. Un’altra spiegazione, magari, potrebbe legarsi al fatto che la faccia di Marx è ancora familiare, visto che compariva anche sulle banconote da 100 marchi. Ma anche l’ipotesi nostalgia sembra giustificata: ancora nel 2008 un sondaggio indicava che a Est un cittadino su due rimpiangeva il socialismo reale e considerava l’economia capitalistica «impraticabile». Se da una parte è decollata la Ostalgie, nostalgia dell’Est, dall’altra, ovviamente, è fiorita l’ironia su quella che è stata subito ribattezzata Marxtercard. E c’è chi dice che se uno spettro si aggira oggi per l’Europa, è quello dei conti ancora da pagare.
Repubblica 13.7.12
Obama un socialista? Non sanno quello che dicono
di Milos Forman
Il padre di mia cognata, Jan Kunasek, è sempre vissuto in Cecoslovacchia. Apparteneva al ceto medio e gestiva una minuscola locanda in un piccolo villaggio. Una sera d’inverno del 1972, durante una bufera di neve, un uomo inzuppato fino al midollo, che aveva tutta l’aria di un poveraccio, lo svegliò alle due del mattino. Mentre chiedeva un riparo non smise mai di maledire il comunismo. Mosso da compassione, l’anziano Kunasek gli offrì un letto per la notte; ma qualche ora dopo fu nuovamente svegliato, stavolta da tre poliziotti in borghese. Arrestato, fu accusato di aver dato alloggio a un terrorista, e condannato a vari anni di lavori forzati nelle miniere di uranio. Nel frattempo lo Stato confiscò i suoi averi. Infine fu rilasciato, malato e senza un soldo, e morì nel giro di poche settimane. Anni dopo abbiamo appreso che il visitatore notturno era un collaboratore della polizia. Per i comunisti, Kunasek era un nemico di classe, e meritava di essere punito.
Dal canto mio mi sono trovato in una situazione meno deprimente ma altrettanto assurda. Nei primi anni 1950 avevo trovato un secondo lavoro come moderatore presso la tv ceca, dove curavo la presentazione dei film. Dato che le trasmissioni erano in diretta, ogni commento politicamente indesiderato sarebbe stato comunque impossibile: anche nei casi di sedicenti interviste spontanee, non poteva essere pronunciata una sola parola che non fosse preventivamente scritta per essere sottoposta alla censura e quindi mandata a memoria e ripetuta alla lettera in trasmissione.
Mi ero preparato a intervistare un grosso esponente del partito, un certo compagno Homola; gli avevo mandato un elenco di domande, ma non avevo ricevuto risposta. Il mio capo, lui pure un membro influente del partito, mi spiegò che Homola era pigro: «Scrivile tu, le risposte – mi disse – E ricordagli di impararle a memoria». Eseguii fedelmente.
Homola arrivò all’ultimo momento. La luce rossa era già accesa quando iniziai con la prima domanda. Lui si cavò di tasca un foglietto con le mie risposte e incominciò a leggerle pedestremente, ripetendo persino gli errori di grammatica che mi erano sfuggiti. Andò avanti così, con mia costernazione, per tutta la durata dell’intervista. Il mio capo incominciò a battere colpi contro il soffitto della cabina di regia. Il giorno dopo fui licenziato con l’accusa di aver messo in ridicolo un rappresentante dello Stato.
Tornando a Barack Obama, quali che siano i suoi errori, non riesco a vedere in lui nulla di simile al socialismo; e grazie a Dio, non ravviso in questa grande nazione alcun segno che ricordi quel regime. Il presidente Obama è stato accusato di aver voluto estendere i campi di competenza governativa alla sanità, alla regolamentazione del settore finanziario, all’industria automobilistica e così via. È giusto chiedersi se sia il caso di espandere i poteri dello Stato federale: agli Stati Uniti d’America va riconosciuto il merito di aver sempre favorito il dibattito, fin dal giorno della loro fondazione. Ma bisogna avere ben chiaro ciò che nel socialismo può fare veramente paura. Marx aveva creduto nella possibilità di cancellare le sperequazioni sociali, e Lenin sperimentò queste idee nell’Unione Sovietica. Il suo sogno era creare una società senza classi; ma come sempre avviene, questo sogno si scontrò con la realtà, con risultati devastanti. Le strade della Russia furono inondate di sangue. L’élite sovietica usurpò tutti i privilegi; ai sicofanti ne fu concesso qualcuno, mentre le plebi non ebbero nulla. E tutto il blocco dei Paesi dell’Est, Cecoslovacchia compresa, seguì quell’esempio nel modo più abbietto.
Non so fino a che punto gli americani di oggi si rendano conto di quanto il socialismo fosse predatorio. Non era, come vorrebbero i detrattori di Obama, semplicemente un governo centralizzato, tronfio e vessatorio nei confronti delle imprese private; era uno spoils system, un sistema di saccheggio che ha distrutto tutto in nome della “giustizia sociale”.
Lo scopo per cui dovremmo impegnarci non è una giustizia sociale perfetta, che non è mai esistita né mai esisterà. Il nostro fine dovrebbe essere l’armonia sociale. Per sua natura, in musica l’armonia è pace e letizia. In un’orchestra, i vari strumenti suonano insieme concorrendo a esprimere una melodia che li coinvolge tutti.
Oggi quest’insieme miracoloso di voci diverse che è la nostra democrazia ha un disperato bisogno di unità. Se tutti gli orchestrali partecipano suonando al meglio la loro parte e si impegnano per il bene comune, possiamo raggiungere quell’armonia che i progetti dottrinari del comunismo non tenevano in alcun conto. Ma se una sola sezione, o anche un solo strumento sbaglia l’intonazione, la musica degenera in cacofonia. Io non chiedo né a Obama, né ai leader repubblicani di smettere di suonare gli strumenti di loro scelta. Vorrei solo che ognuno degli esecutori abbia sempre in mente la nobile melodia del nostro Paese. Altrimenti le dissonanze rischiano di diventare tanto rumorose da risvegliare un altro Marx, o magari qualcosa di peggio.
© The New York Times distribuito da the New York Times Syndicate. Traduzione di Elisabetta Horvat
Corriere 13.7.12
L'Italia senza una legge sulla tortura tradisce la convenzione europea
di GIian Antonio Stella
Cesare Beccaria non avrebbe mai immaginato che due secoli e mezzo dopo il suo Dei delitti e delle pene l'Italia sarebbe stata ancora priva di una legge contro la tortura. E la lettera che Amnesty International ha inviato al governo ricordandogli l'impegno a introdurre il reato, impegno violato da 25 lunghissimi anni, è un atto d'accusa che ci umilia.
Era il 1987, quando l'Europa invitò gli Stati membri a ratificare la convenzione contro la tortura. Alla Casa Bianca c'era Ronald Reagan, al Cremlino Michail Gorbaciov, la Dc aveva il 34% dei voti, Napoli era in delirio per lo scudetto vinto grazie a Maradona, mezza Italia era innamorata di una Whitney Houston apparsa bellissima a Sanremo e i membri di un gruppo di ricerca di Pisa giravano gli atenei per spiegare come avevano fatto a collegarsi per la prima volta a Internet, di cui quasi tutti ignoravano l'esistenza.
Insomma, era tantissimo tempo fa. Già il 7 marzo 1988 l'Ansa segnalava che il governo maltese aveva provveduto a ratificare la convenzione europea e spiegava che «il governo italiano l'ha firmata ma non ha ancora proceduto alla sua ratifica». Quattro anni dopo, la stessa agenzia titolava «Onu: Italia assolta con riserva» e raccontava lo stupore del giurista svizzero Jospeh Voyame, presidente del comitato internazionale: «Siamo stati molto sorpresi nell'apprendere che lo Stato italiano non è responsabile degli atti illegali eventualmente compiuti dai suoi agenti». Altri sette anni e nel 1999 ecco un altro flash: «Diritti umani: Italia sotto esame al comitato contro la tortura». La cronaca: «I giuristi del Comitato da anni premono perché nei codici penali italiani sia inserito il reato di "tortura"».
In quello stesso anno Silvio Berlusconi, all'opposizione contro una sinistra assai distratta sul tema, firmava un'interrogazione parlamentare: «Perché nell'ordinamento italiano non è stato ancora introdotto il reato di tortura?». Indignatissimo, sosteneva: «Severe critiche sono state mosse all'Italia, nell'ultimo rapporto del Comitato per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, a causa di tale mancanza...». Due anni dopo andava al potere, salvo la parentesi prodiana, per un decennio. E il reato di tortura? Ciao.
Peggio, il 6 febbraio 2009 il Consiglio italiano per i rifugiati registrava amaro: «Ieri il Senato, durante le votazioni riguardanti il cd "Pacchetto sicurezza 2" ha respinto per appena 6 voti (123 sì, 129 no, 15 astenuti su 268 votanti) l'emendamento sostenuto dalla sen. Poretti e dal sen. Perduca insieme ad altri 70 senatori di opposizione e maggioranza per l'introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale...». La risposta del governo fu indimenticabile: la definizione del reato era «troppo vaga». Si trattava della traduzione letterale della Convenzione Onu. Già adottata da tutti i Paesi civili.
È una lunga storia proprio brutta, quella della legge sulla tortura italiana. Che ha gettato sale sulle ferite di uomini come Luciano Rapotez, che a 93 anni ancora aspetta che qualcuno gli chieda scusa (anche il Quirinale potrebbe ben battere un colpo...) per le torture subite, con danni permanenti, nel lontano 1955. O come i ragazzi vittime delle violenze nella caserma di Bolzaneto e nell'irruzione alla scuola Diaz durante il G8 genovese del 2001, ragazzi che secondo i giudici furono trattati in modo «inumano e degradante ma non esistendo una norma penale, l'accusa è stata costretta a contestare agli imputati l'abuso d'ufficio». Per non dire di altri casi come quello di Federico Aldrovandi alla cui madre nei giorni scorsi il capo della polizia Antonio Manganelli ha inviato quella lettera così importante: «È giunto il momento di farvi avere le nostre scuse».
Per questo, dopo tanti anni, sarebbe importante se Paola Severino rispondesse con atti concreti alla lettera ricevuta dalla direttrice italiana di Amnesty International Carlotta Sami, che invita il ministro della Giustizia a «esercitare un ruolo fondamentale nell'assicurare che l'Italia introduca finalmente nel codice penale il reato di tortura» e in particolare ad «assicurare l'attuazione della Convenzione in tutte le sue parti, inclusa quella fondamentale di introdurre il reato di tortura nel codice penale, un preciso obbligo del governo italiano, sinora disatteso, con effetti pratici molto negativi che non hanno mancato di farsi sentire in processi in cui le responsabilità di funzionari e agenti dello Stato erano soggette ad accertamento». Come, appunto, i casi genovesi già citati per i quali, ha scritto su La Stampa Vladimiro Zagrebelsky, a lungo giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo, «se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo».
C'è chi dirà che «in fondo cosa sarà mai, tanto non c'è più la ferocia di una volta». Quella che ne Le rane Aristofane elenca con amaro sarcasmo: «Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l'aceto nel naso...». Quella esercitata contro i due poveretti giustiziati come «untori» durante la peste del 1630 la cui sorte è ricordata in Storia della colonna infame da Alessandro Manzoni: «A) Il Barbiero Gio. Giacomo Mora et il Commissario Guglielmo Piazza posti sopra un carro sono ferragliati nelli luoghi più pubblici della città. B) Nel corso detto il Carrobbio è loro tagliata la mano destra. C) Nel luogo della giustizia sono spogliati nudi. D) Con la rota se gli rompeno le ossa delle gambe, delle coscie, delle braccia. E) Si alza sopra un palo la rota, nella quale sono intrecciati, e vi stanno vivi per lo spazio di sei hore. F) Sono scannati. G) Abbruggiati...». È vero, fino a quegli abissi di malvagità non si spinge più nessuno. Ma vivere in un Paese in cui non è previsto quel reato è diventato, 234 anni dopo la pubblicazione delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, insopportabile.
Corriere 13.7.12
I medici devono chiedere perdono
L'oncologo premio Pulitzer: «Serve più umiltà, perché la cura è sempre incerta»
di Paolo Beltramin
Medici e pazienti. Leader politici e star di Hollywood. Anziani e bambini. All'epoca delle guerre persiane e dopo la codifica del genoma. Attraversando le oltre 700 pagine del libro di Siddhartha Mukherjee, si incontrano persone lontanissime nel tempo e nello spazio. In comune hanno solo una cosa, che in un modo o nell'altro li lega anche a ogni lettore: tutti hanno dovuto imparare cos'è il cancro. Molti ne sono rimasti uccisi, altri hanno visto morire i loro cari, altri ancora hanno dedicato la vita a combatterlo. Alcuni, sempre di più, sono guariti. La testimonianza più antica risale a un papiro egizio datato attorno al 2600 avanti Cristo: lo scriba Imothep descrive nei dettagli un malato colpito da un «rigonfiamento sul petto grosso, diffuso e duro». Nel paragrafo intitolato «Terapia» si legge una sola parola: «Nessuna».
Oggi Mukherjee, oncologo alla Columbia University, elabora ogni giorno nuove terapie. «Perché ogni tumore è diverso dagli altri, e richiede una cura specifica. Una risposta valida per tutti oggi non c'è, e forse non può esserci». Nato a Nuova Delhi nel 1970, laureato a Stanford e specializzato a Harvard, con L'imperatore del male (Neri Pozza) l'anno scorso ha vinto il Pulitzer per la saggistica. Sottotitolo: «Una biografia del cancro». Non è un libro scientifico né di storia della medicina, ma un grande racconto collettivo. «Un racconto semplice, onesto, veritiero. Senza false speranze. Perché la conoscenza è il modo migliore per superare la paura». Enorme, in questa lunga storia, è stato il merito di due «geniali pionieri italiani», Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi, capaci di «combinare le due armi che oggi abbiamo a disposizione nella battaglia: la chirurgia e la chemioterapia», prima considerate alternative inconciliabili.
Il suo libro però non è dedicato a un luminare, ma a un bambino. «A Robert Sandler (1945-1948), e a quelli che sono venuti prima e dopo di lui». Chi era Robert Sandler?
«Fu uno dei primi malati di leucemia ad essere curato con l'aminopterina, un farmaco chemioterapico allora rivoluzionario. Nei primi mesi di trattamento il piccolo ebbe una reazione straordinaria, sembrava davvero sulla via della guarigione definitiva. All'improvviso, nel giro di poche settimane si aggravò in modo fulminante, fino alla morte. La sua storia mi ha insegnato molte cose. La vita di Robert è stata così breve, apparentemente segnata soltanto dal dolore, eppure in qualche modo penso sia stata una vita straordinaria, davvero degna di essere vissuta. Lo studio della sua vicenda clinica, inoltre, segnò una tappa fondamentale per lo sviluppo della medicina: era la prima volta che contro la leucemia si usava una sostanza chimica; oggi è la cura più diffusa. Inoltre ho scoperto che Robert aveva un fratello gemello, perfettamente sano. Due gemelli omozigoti hanno geni identici: eppure il caso, attraverso un semplice errore genetico, può decidere tra la vita e la morte».
Oggi Robert Sandler avrebbe 67 anni. Ha mai pensato a cosa sarà successo a suo fratello?
«Poche settimane dopo l'uscita del mio libro, ero di turno in ospedale, ho ricevuto una telefonata. Era Elliot Sandler, il gemello di Robert. Qualche tempo dopo ci siamo dati appuntamento a New York, vicino a Times Square. Appena l'ho visto avvicinarsi, l'ho riconosciuto: in realtà, io quel volto rotondo e brillante la conoscevo benissimo».
La storia del cancro spesso è una storia di donne. Una donna è la prima malata di cui ci è stato tramandato il nome: Atossa, regina di Persia e moglie di Dario il Grande. Racconta Erodoto che quando scoprì di avere un «onkos», una massa compatta nel suo seno, Atossa decise di abbandonare per sempre la corte, e di restare sola. Erodoto non si preoccupa nemmeno di raccontarci come morì.
«È un episodio che riassume perfettamente uno dei sintomi più violenti di questa malattia: la vergogna. Oltre 2500 anni dopo, negli Stati Uniti dei primi anni Cinquanta, il "New York Times" rifiutò di pubblicare l'annuncio a pagamento di un gruppo di supporto per malate di cancro al seno. Sia la parola "cancro" sia "seno" furono giudicate impubblicabili: un giornalista propose di sostituirle con l'espressione "disturbi alla cassa toracica". Se oggi le cose sono radicalmente migliorate, il merito è proprio delle donne».
Il suo libro è pieno di donne eroiche. Come Mary Lasker, l'attivista che convinse il presidente Nixon a quadruplicare i fondi per la ricerca. O Rachel Carson, la biologa malata di cancro che ebbe il coraggio di rifiutare la mastectomia radicale, aprendo la strada a una chirurgia meno invasiva.
«Mary Lasker non era un medico, ma ha salvato più vite lei della maggioranza di noi. Rachel Carson — insieme alle giornaliste Betty Rollin e Rose Kushner, che condivisero e amplificarono la sua battaglia — diede una grande lezione di dignità e coraggio a una generazione di medici, che allora consideravano la chirurgia come l'unica possibilità, senza nemmeno considerare le implicazioni psicologiche. In generale, se si considera l'impegno civile speso negli ultimi decenni per combattere questa malattia — dalle raccolte fondi alle campagne di stampa — il contributo delle donne è stato nettamente superiore a quello degli uomini».
Negli ultimi decenni la lotta al cancro si è evoluta nelle terapie, ma anche nella prevenzione. Dopo il fumo, sono stati individuati molti altri fattori di rischio: l'alcol, un'alimentazione troppo ricca di grassi o di carne, l'abbronzatura. C'è chi mette in guardia perfino dall'uso del telefonino. Nelle librerie italiane è appena uscito un libro illustrato intitolato «La vera dieta anticancro in 100 ricette golose». Non si rischia una banalizzazione del male, e insieme una psicosi collettiva?
«Sì, questo è un grave effetto collaterale della prevenzione, che pure è un'arma fondamentale. Compito della medicina è quello di fornire ai cittadini un "reality check", cioè uno strumento per distinguere i fattori davvero scatenanti dalle bufale, dalle notizie pseudoscientifiche, dalle autoconvinzioni. Per inciso: possiamo continuare a usare il cellulare senza timori».
Quali sono i suoi primi tre consigli per ridurre il rischio di cancro?
«Smettere di fumare, smettere di fumare, smettere di fumare».
Quanto è importante la motivazione psicologica di un paziente per la sua guarigione?
«Nel mio libro, per definire cos'è il cancro, l'ho paragonato ai campi di concentramento descritti da Primo Levi: la cosa peggiore non è il male in sé, e nemmeno la morte, che in fondo è la conclusione comune a tutti gli uomini. La cosa peggiore del cancro è che ti priva del futuro, come un lager. Da quando viene diagnosticato, la vita del paziente si identifica totalmente con il tumore, diventa un labirinto di specchi. Penso che il medico abbia il dovere di aiutare il malato a uscire dal labirinto, a lottare comunque per un futuro. Ma se mi chiede se la tristezza o lo stress provocano il cancro, le rispondo che è una sciocchezza. Inoltre, conosco centinaia di pazienti coraggiosi, energici, motivati, che hanno perso la loro battaglia; e altrettanti più deboli, insicuri, pessimisti, che hanno reagito nel modo migliore alle terapie».
Percorrendo nel libro l'evoluzione delle terapie anticancro, colpisce un atteggiamento diffuso tra i medici: ognuno sembra convinto di poter arrivare alla cura perfetta, alla soluzione definitiva. Chirurghi e chemioterapisti per tutto il '900 si sono scontrati, come avversari di partiti ideologicamente opposti. A volte, forse, fino a scordarsi dei pazienti.
«Ecco, questa è l'unica lezione che il mio libro vorrebbe dare ai medici: siate più umili. La medicina non è una scienza esatta ma umanistica, perché ha il compito di curare gli esseri umani, che sono ognuno diverso dall'altro. Di fronte al paziente, il medico avrebbe sempre il dovere di ammettere l'incertezza. Perché l'incertezza è la vera base della medicina».
In un film di Ingmar Bergman, «Il posto delle fragole», un grande medico a fine carriera sogna di rifare l'esame di Stato. Gli viene chiesto: qual è il primo dovere di un medico? Lui non sa rispondere. Eppure, insistono i commissari, è semplice: il primo dovere di un medico è chiedere perdono.
«Il mio libro è anche un modo per chiedere perdono, per quello che è accaduto in oltre quattromila anni di storia».
Corriere 13.7.12
Quando la vita salva la filosofia
Simmel riscoprì Goethe per contrastare il pensiero puro
di Mario Andrea Rigoni
Sono molte le ragioni che avrebbero dovuto, e dovrebbero ancora, garantire a Georg Simmel (Berlino 1858-Strasburgo 1918), un'alta e indiscussa considerazione universale. Simmel è stato, senza contestazione, il fondatore della sociologia tedesca, in particolare della sociologia della cultura, quale sarebbe stata in seguito praticata da Max Weber e tanti altri. Allontanandosi dalla visione trascendentale della conoscenza di tipo kantiano in favore di un orientamento pragmatico, prospettico e pluralistico, ha elevato al rango della dignità speculativa una varietà di oggetti dell'esperienza abitualmente esclusi dall'interesse filosofico: la metropoli, la donna, la moda, soprattutto il denaro, fenomeno centrale, significativo sia dell'universale relativismo della vita moderna sia di una più generale condizione del mondo, al quale ha dedicato la sua opera forse più originale e rilevante (Filosofia del denaro, Utet, 1984). In ognuno degli ambiti che ha attraversato (filosofia, religione, arte), aveva il dono di estrarre dal minimo particolare l'elemento della riflessione intemporale. Infine è stato il promotore di una «metafisica della vita» e un maestro dello stile frammentario, citato e discusso dalle più cospicue e diverse figure della cultura novecentesca, da Lukács a Benjamin, da Ortega y Gasset a Cioran (e, da noi, Giuseppe Rensi, che nel 1925 tradusse e presentò Il conflitto della civiltà moderna, ripubblicato da SE nel 1999).
Eppure la fama di Simmel non è lontanamente paragonabile con quella di altri filosofi o sociologi del Novecento, come Heidegger o anche Adorno. Egli stesso sapeva, e accettava, che sarebbe morto senza eredi spirituali. Lukács osservò che Simmel (di cui, con Ernst Bloch, era stato allievo) rappresenta «il più importante e interessante fenomeno di transizione in tutta la filosofia moderna» e che proprio per essere stato il filosofo dell'impressionismo, incurante della compiutezza sistematica del suo pensiero, non aveva veri e propri discepoli. Ma forse, più ancora dell'intelligente quanto ambiguo elogio di Lukács, illumina questa osservazione di carattere generale fatta una volta da C. S. Peirce: «È solo quando un filosofo ha qualcosa di banale da dire che cerca il grande pubblico o il grande pubblico cerca lui».
In Italia è stato soprattutto per iniziativa di piccole o marginali case editrici se molti scritti di Simmel sono stati tradotti nel corso degli ultimi decenni. Recentemente Massimo Cacciari ha riedito la scelta delle limpide e suggestive pagine aforistiche del Diario postumo (Aragno, 2011) che aveva meritoriamente pubblicato per la Liviana di Padova già nel 1970. Esce adesso, tradotto e presentato per la prima volta in italiano da Michele Gardini, in un'edizione anche filologicamente accurata, il saggio su Goethe (Quodlibet, pp. 288, 28). Esso risale al 1913, ma era stato preceduto, nel 1906, da un breve scritto, che si connette strettamente con questo e che dimostra quanto Goethe fosse importante per lui (Kant e Goethe, tradotto da Ibis edizioni, 2008): tra le figure che hanno sollecitato l'interesse filosofico di Simmel (Michelangelo, Rembrandt, Kant, Stefan George, Rodin), quella di Goethe spicca infatti per un rilievo assoluto.
Non si tratta naturalmente di una monografia di stampo tradizionale, dedicata all'illustrazione della vita e dell'opera di Goethe, ma di un denso e serrato saggio sull'immagine spirituale dell'una e dell'altra in senso generale, perseguìta attraverso una formidabile conoscenza delle fonti e un'analisi non meno compatta che minutamente articolata.
Il problema dal quale anche Simmel muove è quello del secolare dualismo metafisico che separa e contrappone soggetto e oggetto, forma e idea, realtà e valore. È la caratteristica non solo del pensiero occidentale, da Platone al Cristianesimo, ma di ogni concezione (compresa quella indiana) che ponga il senso e il fine della vita al di fuori della vita stessa. Ora Goethe è colui che, giungendo al punto di dichiarare: «È manifesto che, nella vita, ciò che conta è la vita, e non un suo risultato», ha saputo in virtù di una prodigiosa disposizione artistica riunire gli elementi separati dell'esperienza e ricreare in sé l'immagine dell'unità organica del mondo. È da questo centro, dominato dall'attività della natura come essenza del reale e dalla creazione estetica come sua articolazione, che si irradiano le caratteristiche dell'agire e del pensare goethiano: la diffidenza o la ripugnanza verso la teoresi filosofica («Il pensiero non è mai stato l'oggetto del mio pensiero»), il procedimento intuitivo e sintetico della conoscenza come funzione organica della vita, la condanna dello spirito analitico, il disprezzo dell'effetto e il godimento della bellezza in sé, la convinzione dell'intrascendibilità dei fenomeni («Non si cerchi dietro i fenomeni: essi stessi sono la dottrina») e dell'impossibilità di distinguervi l'interno dall'esterno, la celebrazione dell'universalmente umano, il carattere simbolico della sua opera («La mia opera è un unico essere collettivo, e porta il nome di Goethe»).
Può sorprendere che il «relativista» Simmel sia stato tanto attirato da una figura come quella di Goethe, anti-tragica e anti-scettica per eccellenza; nondimeno egli non solo condivide il capitale e rivoluzionario presupposto, comune anche a Schopenhauer e a Nietzsche, che «il fine della vita è la vita stessa», ma anche ammira senza riserve il più grandioso e felice tentativo che forse sia mai stato fatto, nella storia dell'esperienza umana, di «oggettivare il soggetto», di conciliare l'inconciliabile.
Corriere 13.7.12
L'uomo che per primo guardò Olindo negli occhi
Il maresciallo a Erba: il suo viso mi perseguita ancora
di Giusi Fasano
Due e mezzo della notte fra l'11 e il 12 dicembre 2006. Nella caserma dei carabinieri di Erba (Como) si sfogliano vecchi fascicoli. Gli occhi del luogotenente Luciano Gallorini leggono nomi, scorrono racconti su beghe di cortile. Litigi furenti per i rumori, dispetti, scambi di insulti... Roba che tutt'al più merita l'intervento di una pattuglia per placare gli animi. Ma stavolta è diverso e per quanto possa sembrare tutto inverosimile, perfino assurdo, l'intuizione trova la sua strada: «Che sia in quelle liti il movente?». Il maresciallo Gallorini lo chiede a se stesso prima di farne parola con i suoi uomini. «Mi sembrava una cosa così grossa...».
Quattro morti e un ferito in fin di vita, ferocia, sangue ovunque, fra i cadaveri un bambino di due anni con la gola tagliata abbandonato sul divano mentre la casa bruciava. Negli annali della cronaca nera sarà «la strage di Erba», quella di Azouz Marzouk (marito e padre di due delle vittime) accusato ingiustamente del massacro mentre era a casa sua, in Tunisia. Ma adesso è notte fonda e siamo ancora a Erba, in caserma. Gallorini decide di mandare il suo vice, Luca Nesti, a casa di quei due delle denunce: il netturbino Olindo Romano e sua moglie Rosa Bazzi, professione domestica. «Perché non valutare anche questa?» sono d'accordo i due carabinieri.
Il giorno dopo i giornali avranno titoli tutti per il sospettato Azouz, ma gli accertamenti fra l'ora della strage (poco dopo le 20) e la notte fonda hanno già stabilito che il tunisino non c'entra nulla, quantomeno non con l'esecuzione della mattanza. Quindi le ipotesi sono ancora tutte possibili. Chi può essere stato così crudele da ammazzare a sprangate e coltellate la moglie di Azouz, Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef, sua madre Paola Galli e la vicina del piano di sopra, Valeria Cherubini? Chi può aver abbandonato sul pianerottolo il marito di Valeria, Mario Frigerio, credendolo morto dopo averlo sgozzato?
La via dei ricordi riporta alla scena del delitto. Il luogotenente Gallorini stava cenando, il tg stava finendo. Dieci minuti dopo era in via Diaz, fra i suoi uomini, i vigili del fuoco, le luci delle ambulanze. «Se l'inferno esiste deve assomigliare molto a ciò che ho visto quella sera. Non riesco a immaginare cosa peggiore: pochissima luce, l'acqua che scendeva a fiumi dalle scale, la fuliggine che si appiccicava addosso, l'odore di fumo e della carne bruciata...Ricordo ogni dettaglio. Un team di psicologi ha poi tenuto dei corsi per aiutare chi è intervenuto a superare i traumi di quella barbarie». Li hanno seguiti tutti, esclusi i carabinieri. Eppure ripensandoci adesso Gallorini dice che «forse dovevamo seguirli anche noi» perché «ci sono storie e immagini che segnano per sempre e sarei bugiardo se dicessi che per me non è stato così».
Il processo a Olindo e Rosa (prima hanno confessato, poi ritrattato) si è chiuso con la condanna definitiva all'ergastolo. L'intuizione di quella notte si è rivelata giusta e Mario Frigerio, scampato alla morte per una malformazione congenita alla carotide, ha riconosciuto il suo mancato assassino: Olindo. Una delle giornate che Gallorini non scorderà mai è quella del suo colloquio con Frigerio in ospedale, quel filo di voce che pronuncia il nome di Olindo. «Io ho sospeso tutto e ho chiamato il magistrato. Il resto è tutto scritto nel processo, checché ne dicano quelli che mi hanno accusato ingiustamente di averlo spinto a fare quel nome».
Gallorini ha 58 anni, 40 passati con la divisa addosso e ancora un paio da vivere dietro la sua scrivania prima di lasciare. «Quando gli avvocati mi hanno attaccato, in aula, ho detto che io vengo da genitori modesti e onesti che nella vita hanno sempre lavorato. Ho spiegato che vengo dai loro buoni insegnamenti e non potrei mai accusare qualcuno sapendolo innocente. Sarebbe la débâcle della coscienza, come potrei guardare in faccia i miei figli? Ancora oggi ogni giorno penso e ripenso mille volte a quello che faccio durante il mio lavoro: avrò sbagliato qualcosa? Ho fatto la cosa giusta? A Erba abbiamo fatto quello che andava fatto, e siamo stati bravi».
Ogni tanto capita di riaprire lo scrigno dei ricordi peggiori: «Quel bambino sembrava un angioletto, si vedeva appena con quella poca luce, buttato lì sul divano... Quella serata mi ha cambiato, inutile negarlo. Non sono più io, da allora sono più taciturno, più pensieroso. E credo che sia così per tutti noi qui in caserma. Il superiore lo sa: dopo Erba abbiamo avuto difficoltà a tornare alla normalità. C'è stato un suicidio dopo circa un anno ed era la prima volta che davanti agli occhi ricompariva una scena cruenta, il sangue... è stato tremendo». È stato impossibile non rivedere Youssef, Raffaella, Paola, Valeria. E gli occhi di Olindo la notte del massacro: «Stralunati, impressionanti, pazzeschi. So bene che gli occhi non sono un indizio ma so anche che soltanto chi li ha visti può capirmi».
Repubblica 13.7.12
Creare un’Europa dei cittadini
di Ulrich Beck
Poco tempo dopo essere diventato cancelliere federale tedesco, Gerhard Schröder radunò un piccolo circolo di intellettuali ed esperti, con lo scopo di discutere se il concetto di “società civile” potesse diventare un’idea-guida applicabile ad ambiti politici diversi, per coniugare la libertà politica e la coesione sociale in tempi di globalizzazione. I colloqui furono molto vivaci e furono seguiti da Schröder con grande attenzione. Ad esempio, essi ruotarono attorno alla questione di come poteva essere contrastata la nascita di una nuova sotto-classe di esclusi, cioè di persone che non trovano accesso né al mercato del lavoro, né alla società civile e alle sue istituzioni politiche.
Questo tentativo di tracciare un orizzonte programmatico per il governo rosso-verde di Schröder morì nel giorno in cui un sondaggio commissionato dallo stesso Schröder dimostrò che i tedeschi non erano in grado di distinguere tra società civile e servizio civile.
Che le cose stiano ancora così, e non solo per la Germania, risulta evidente dal dibattito attuale suscitato dal manifesto “L’Europa siamo noi”. Il progetto Europa – trasformare i nemici in vicini – rischia di fallire. Molti europei la pensano come l’ex cancelliere Helmut Kohl, che riferendosi all’attuale cancelliera ha detto: “La ragazza mi rompe l’Europa!”. Essi non sopportano più l’egemonia culturale degli euroscettici e chiedono di smetterla con le lamentele. In questa situazione decisiva, Helmut Schmidt, Jürgen Habermas, Herta Mül-ler, Senta Berger, Martin Schulz, Jacques Delors, Richard von Weizsäcker, Zygmunt Bauman, Adam Krzemiñski, Javier Solana, Constanza Macras, Mircea Cãrtãrescu, Iván Fischer, Dunja Hayali, Petr Pithart, Imre Kertész e molti altri esortano a superare l’Europa della domenica, l’Europa senza europei, e a fondare un’Europa di tutti i giorni, un’Europa dei cittadini, un’Europa dal basso; e non a parole, ma con i fatti, con il “doing Europe”. Un anno di volontariato europeo consentirebbe non solo alle generazioni più giovani e alle élite intellettuali, ma a tutti, anche ai pensionati, a chi ha un lavoro, ai disoccupati, di realizzare in un altro Paese, in un’altra area linguistica, un pezzo di società civile europea, come l’aveva intesa programmaticamente Hannah Arendt nella sua concezione della “vita activa”. La società civile non è creata dal lavoro, immediatamente rivolto ad assicurare l’esistenza, ma da un agire che mira alla partecipazione e alla progettualità politica.
Edo Reents nota l’assenza “del ‘sociale’ nell’anno di volontariato” e ritiene che “i promotori lo abbiano deliberatamente omesso, poiché altrimenti avrebbe fatto pensare troppo facilmente a quei lavoracci come pulire il sedere o qualcosa del genere”. E Günther Lottes cade nella stessa trappola, di scambiare la società civile con il sevizio civile: “Vogliamo ospitarci a vicenda nelle nostre case di riposo per anziani? O i disoccupati tedeschi devono trasferirsi dai loro casermoni di periferia nei quartieri-dormitorio francesi?”
Chi incorre in questi fraintendimenti, è cieco di fronte alla proposta del manifesto “L’Europa siamo noi”: il nucleo della crisi europea non sta nelle banche o nei greci e nei deficit dell’Unione fiscale – ciò che manca è una società civile europea intesa nel senso di Hannah Arendt, una società civile che può essere costruita a partire da progetti come quello di un anno di volontariato europeo. Qualche esempio al riguardo.
Immaginiamo che l’anno di volontariato europeo sia già realtà. Frank Schuster, 44 anni, impiegato di banca a Lüneburg, ha collaborato per un anno a un progetto ambientale ad Atene e in questo tempo ha fatto conoscenze e stretto amicizie. Ha visto che alla madre di un suo amico greco era stata più volte ridotta la pensione, ha visto i suoi vicini traslocare perché non potevano più pagare l’affitto, ha visto i negozi della sua via costretti a chiudere e ha visto come le persone si sentissero profondamente ferite nella loro dignità dal diktat del risparmio. Tornato in Germania, non riesce a capacitarsi di come nei media, nella politica e nella vita quotidiana si continui a dare addosso a “quei falliti dei greci”. Mentre qui da noi è diventato popolare il rimprovero secondo cui i greci vivrebbero al di sopra dei propri mezzi, egli ha visto proprio il contrario: che sempre più persone sprofondano nella povertà.
Brigitte Reimann di Passau, 28 anni, insegnante disoccupata, collabora a Varsavia a un progetto per la pubblicazione di un manuale di storia tedesco-polacco. È accolta molto cordialmente. Tuttavia, di quando in quando si accorge che il diktat del risparmio suscita ricordi dell’imperialismo militante tedesco. Un bel giorno un vicino pensionato non si trattiene dal domandarle: “Cos’ha fatto tuo nonno a quei tempi?” Lei lo guarda e risponde: “Mio nonno aveva quattordici anni quando la guerra è finita.” Allora il vicino si blocca un attimo, sorpreso, e dice sottovoce: “Scusa”.
Questi esempi mostrano chiaramente a quale genere di “sociale” miri l’anno di volontariato europeo per tutti. Non si tratta né di servizio sociale, né di assistenza sociale nel senso corrente del termine, ma dell’immedesimarsi nella situazione degli altri – nelle loro paure, speranze, delusioni, nei loro sentimenti di umiliazione, nella loro rabbia – attraverso la convivenza, l’incontro, l’agire in comune, il dialogo, l’osservazione, la condivisione di esperienze. Nel momento in cui la prospettiva degli altri diventa componente della propria immagine di sé e del mondo nascono un dialogo quotidiano, un agire quotidiano al di là delle frontiere. In altri termini, si forma uno “sguardo cosmopolitico”, una “immaginazione dialogica” come forma mentis di una società civile europea.
La crisi dell’euro non è soltanto una crisi economica, ma anche una crisi sociale. Essa minaccia la coesione dell’Europa. Il fatto che i contribuenti dell’eurozona siano chiamati a sostenere in comune i costi della crisi di bilancio degli stati membri sottopone il legame allentato della solidarietà europea a un test di trazione. A ciò si aggiungono le tensioni e le spaccature provocate dai flussi di migranti e di esuli – oggi provenienti soprattutto dai paesi della “primavera araba” – . Essi gravano in particolare sugli stati meridionali dell’Unione Europea, già minacciati dalla bancarotta. Entrambi questi drammi – quello monetario e quello umanitario, risultato di doveri disuguali per i richiedenti asilo – approfondiscono la frattura tra Nord e Sud, che attraversa l’Europa. Il declino di interi paesi offre un alibi per la discriminazione e per la xenofobia spinta fino alla violenza aperta. Dunque, si tratta di impedire non soltanto il crollo dell’euro, ma anche quello della società civile europea – dei valori europei, dell’apertura al mondo, della libertà politica e della tolleranza. Corrispondentemente, occorre rafforzare e moltiplicare, contro la xenofobia e per l’integrazione dei migranti, le reti comunali e le iniziative civiche già esistenti.
Per superare la crisi dell’Europa non è sufficiente una ristrutturazione delle istituzioni europee (governo dell’economia, Unione fiscale, muro spartifuoco, eurobond). L’Europa non si può salvare soltanto con “ombrelli protettivi”. Il malessere ha le sue radici nel fatto che abbiamo un’Europa senza europei. Ciò che manca, un’Europa di cittadini, può crescere solo dal basso, dalla società civile stessa. Per questo c’è bisogno di un anno di volontariato europeo per tutti.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Corriere 13.7.12
I fondi non salvano Pompei Aperte solo quattro domus
Anche la scritta «Cave canem» non si legge più
di Alessandra Arachi
POMPEI (Napoli) — Stamattina gli scavi di Pompei rimarranno chiusi. Anche mercoledì mattina sono rimasti chiusi. E i sindacati, la Cisl in prima linea, giurano che continueranno così, a tenerli sbarrati un giorno sì e un giorno no, fino a quando non avranno quello che vogliono. Competenze accessorie non pagate da due anni. Ma pure un piano di riorganizzazione del personale. Sembra la ciliegina su una torta avvelenata.
Anche stamattina i turisti che da ogni parte del mondo arrivano qui per ammirare le rovine della città antica soffocata dal Vesuvio troveranno i cancelli serrati e faticheranno a capire perché un patrimonio dell'umanità possa essere gestito come il cortile di un condominio di periferia. Non sembra cambiato nulla, neanche adesso che sono arrivati 105 milioni di euro dall'Europa, tutti per gli scavi più invidiati del mondo.
Ieri, giovedì 12 luglio 2012, a chiedere all'ingresso quante domus era possibile visitare la risposta era secca: quattro. Nella cartina della Soprintendenza a disposizione per la visita (aggiornata, dicono) sono segnalate (con la possibilità dell'audioguida) una quarantina di domus aperte al pubblico. In realtà la casa dei Vettii, per esempio, è chiusa da almeno tredici anni, proprio come la casa degli Amorini dorati.
Forse basterebbe fare un salto nell'unica toilette presente negli scavi, lì all'interno del punto di ristoro, per capire. O per non capire affatto. Due mesi fa quei bagni si intasarono, i liquami fuoriuscirono, scivolarono giù e raggiunsero le pareti del Tempio di Giove. Non sono ancora stati riparati, i bagni. Difficile stupirsi. Girando per gli scavi si scopre che nessuno si è ancora premurato di proteggere affreschi che svaniscono giorno dopo giorno e mosaici che si sgretolano gonfiati dall'acqua e seccati dal caldo.
Un mosaico per tutti? Il più simbolico, forse. Il Cave canem, attenti al cane, con la bestiola che vi accoglie all'ingresso della domus del Poeta tragico: quell'avvertimento è finito in tutti i testi di storia e di latino e almeno lì avrà la dignità della memoria. Nel suo originale di Pompei la scritta non si legge praticamente più.
«Hanno a disposizione 105 milioni di euro ma non si preoccupano di fare una semplice manutenzione ordinaria. E decidono invece di partire con i restauri di case praticamente sconosciute». Antonio Irlando, direttore dell'Osservatorio del patrimonio culturale regionale, guarda e riguarda la lista dei primi cinque appalti commissionati con i fondi europei e non capisce: «La casa del Marinaio? Neanche le guide qui a Pompei sanno dov'è. E quella delle Pareti rosse o del Sirico o del Criptoportico: perché andare a scegliere queste che non sono nemmeno segnalate sulle piante della Soprintendenza?». La quinta casa scelta per il restauro è la casa dei Dioscuri, una delle più importanti, che ieri era aperta al pubblico insieme alla casa del Fauno e a guardarle tutte e due veniva un senso di tristezza per tanto splendore lasciato allo sbaraglio.
Dalla casa del Fauno a vicolo Storto è una passeggiata piccola: non ci sono case importanti in questi vicoli che sono a pochi metri da via Vesuvio e da via Stabiana, il cuore della città antica, ma lo spettacolo del civico 37 basta da solo. È crollato un muro e non soltanto le macerie sono lì indisturbate, ma nessuno si è nemmeno premurato di denunciarlo.
«A Pompei ci sono soltanto 138 custodi divisi in cinque turni per 730 mila metri quadrati e quasi 3 milioni di visitatori l'anno», lamenta Antonio Pepe, il leader della Cisl locale. E aggiunge: «Questo a fronte dei 125 custodi che ci sono soltanto per i 9 mila metri quadrati e i 285 mila visitatori l'anno del Museo archeologico di Napoli. Non ha senso». Giusto. Però ieri, giovedì 12 luglio 2012, a girare di pomeriggio per le rovine di Pompei di custodi se ne poteva vedere uno, forse due. Tre, se qualcuno ci è sfuggito. Ma non di più.
Repubblica 13.7.12
Rita Paris, archeologa e soprintendente, racconta come, dal 1996 a oggi, tutelare l’area della strada romana da abusi e condoni sia un’impresa quotidiana
“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”
di Francesco Erbani
Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che tutela l’Appia Antica, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un venti per cento del suo tempo. L’ottanta lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio di stupefacente bellezza, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. L’Appia Antica è un’area di verde e di archeologia grande 3.800 ettari. L’antica strada romana scorre fiancheggiata di pini a ombrello in un lembo di campagna che arriva nel cuore di Roma. Rita Paris la custodisce dal 1996, quando gliel’affidò l’allora soprintendente Adriano La Regina. Dal 2004 dirige anche il Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, che al pregio dei capolavori, alla qualità delle mostre, affianca un’affabilità dell’accoglienza altrove ignota. Lavora alla Soprintendenza dal 1980. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dal monumento simbolo dell’Appia, la tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti sull’Appia: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Antonio Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi. Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato. E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo. «Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che La Regina e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa». Perché? «Né la Soprintendenza né il ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà». Per esempio? «Ci è stato offerto il Sepolcro degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo». Sono monumenti visitabili? «Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchina, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata». Tranne la strada, Capo di Bove e altre particelle, l’Appia è tutta privata. «Sì, nonostante il vecchio Piano regolatore di Roma la destinasse a parco pubblico. Questa prospettiva è smarrita. Ma è smarrita ogni certezza sulla tutela di questo patrimonio. Solo lo scorso anno ho ottenuto che l’ufficio legislativo del ministero producesse una circolare in cui si stabilisce che il nostro parere è obbligatorio e vincolante su tutto ciò che si vuol fare sull’Appia». Un piccolo passo avanti. «È una circolare, non una legge. Pensi che appena qualche giorno fa il Demanio ci ha consegnato la via Appia dichiarandola monumento nazionale e non strada comunale come tutte le altre». Sbaglio o questo avviene con un po’ di ritardo? «Non sbaglia. Ma è comunque merito degli attuali dirigenti del Demanio. Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, la strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento. Ma il mio più grave cruccio resta intatto: io sono costretta a rincorrere gli altri per esercitare la tutela». Che vuol dire? «Se qualcuno, poniamo, vuol ampliare un capannone, fa una richiesta al Municipio. Sempre che io lo venga a sapere, prendo carta e penna, scrivo a quel qualcuno e gli dico: guardi che lei deve sottoporre anche a noi il suo progetto». Non c’è la consapevolezza di quanto l’Appia sia un luogo speciale. «Manca l’idea che questo sia un territorio unitario. Tutto il contesto paesaggistico è di interesse, non solo i monumenti, lo documentano secoli di indagini. Eppure quando proponiamo un vincolo, chi fa ricorso trova un giudice del Tar per il quale se non ci sono reperti e se la strada romana dista venti metri dalla proprietà, il vincolo è illegittimo. Ma sui vincoli ho incontrato resistenze anche dentro il ministero ». Quando? «Dietro la tomba di Cecilia Metella c’è il Castrum Caetani. Lì i proprietari hanno commesso degli abusi a ridosso di una torretta medievale per i quali hanno avviato il condono. Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano. Alcuni anni fa ho messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo è sempre lo stesso: occorre vincolare solo il monumento. Io sono convinta del contrario e appena possibile il vincolo lo rimetteremo ». Quali abusi si commettono sull’Appia? «Qualche giorno fa ci hanno segnalato lo sbancamento di una collina di lava proprio qui, dietro Capo di Bove. Non so a cosa mirassero, forse a costruire un deposito. Noi denunciamo. Ma in tutti questi anni nessuna delle denunce ha avuto effetti. Si fanno gli abusi e non si torna indietro. Chi aveva un annesso agricolo lo ha trasformato in una villa. Poi ha costruito la piscina, chiedendo l’autorizzazione per un bacino di riserva idrica. La roba sta tutta lì: stabilimenti, concessionarie di auto, impianti sportivi, ristoranti. Persino i vivai usano il cemento». E voi? «Nel mio ufficio siamo tre donne a controllare questo territorio. Appena vediamo una recinzione ci mettiamo in allarme. Sulla mia scrivania giace una montagna di pratiche di condono che neanche si dovevano accettare, ma che una volta presentate bloccano la demolizione. E aggiungo che per respingere le domande tocca a me l’onere di giustificare il rilievo archeologico ». La sua è una condizione esemplare della grave sofferenza in cui versa la tutela dei beni culturali in Italia. «Siamo sempre meno, sempre più stanchi e le nostre fatiche sono spesso frustrate». La sua fatica più grande? «Far capire anche al ministero quanto è grave questa situazione. Un anno fa, all’inaugurazione di una mostra, venne il ministro Galan. Il suo consigliere Franco Miracco mi aprì le porte dell’ufficio legislativo, che ha prodotto la circolare che le dicevo. Andrea Carandini ha fatto approvare un documento sull’Appia dal Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma poi non è successo nulla. Mi preoccupa non essere riuscita a fissare nessun punto fermo. Tutto è affidato all’impegno dei singoli. E i singoli si sentono soli». L’attuale ministro? «Mai visto». Quanto guadagna? «1.700 euro al mese, quando ci sono anche le maggiorazioni».
Repubblica 13.7.12
“Paesaggio e opere d’arte, beni comuni come l’acqua”
Parla Francesco De Sanctis, appena nominato presidente del Consiglio superiore del Mibac
di Dario Pappalardo
«Lo sosteneva già Marx: la natura così come era uscita dalla mano del creatore non esiste più. Dobbiamo ritrovare lo spirito del luogo, imparare a rileggere e a valorizzare il paesaggio». Francesco De Sanctis, appena designato dal ministro Ornaghi presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali, ama citare l’autore del Capitale: «L’ho sempre fatto leggere ai miei studenti: l’analisi della forma sociale moderna non può prescindere da lui».
Napoletano, classe 1944, filosofo del diritto, rettore per diciotto anni dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, De Sanctis, che vanta una omonimia ma nessuna parentela con il primo grande storico della letteratura italiana, sta per insediarsi al vertice del maggiore organo consultivo del Mibac. Occuperà lo stesso posto che ha visto dimettersi prima Salvatore Settis e poi Andrea Carandini. «Mi interessa essere al servizio di questa causa in maniera gratuita e libera; mi porrò in linea di continuità con i miei predecessori – spiega – condivido molte idee con Settis. La mia formazione viene dalla filosofia del diritto, forse per questo sarò meno insofferente verso le ristrettezze del momento. Ma è inutile dire che questo è un ministero sacrificato».
Sacrificato dai tagli e da decisioni mancate, alle prese con un patrimonio artistico alla deriva – dai disastri di Pompei ai furti nella Biblioteca dei Girolamini – e con i musei pubblici vittime di budget annullati e commissariamenti: «Penso alla crisi del Madre di Napoli, che è stato un punto di riferimento per la città e che ora deve rinascere – dice De Sanctis –. Ecco, per un’impresa del genere mi impegnerei.
I miei venti anni al Suor Orsola, che è diventato esso stesso un museo e un punto di riferimento per la conservazione dei beni culturali possono essere utili per questo. Se già riuscissi a creare un rapporto di migliore collaborazione tra il ministero dell’Università e quello dei Beni culturali, sarebbe un buon risultato. Il bene culturale deve essere un luogo dove si incrociano la formazione e la conservazione ». Un bene pubblico, si spera.
«Sì, come l’acqua – ribatte il professore –. In questo senso, bisogna responsabilizzare i cittadini di fronte a questa ricchezza che non si può intendere in senso capitalistico. I profitti dei beni culturali si calcolano dopo secoli».
Sui prestiti dei capolavori all’estero, spesso sotto accusa – in questi giorni molti maestri del Rinascimento, Michelangelo compreso sono a Pechino – il neopresidente del Consiglio superiore per i Beni culturali non ha un’opinione negativa: «Purché la salvaguardia delle opere sia garantita, ben vengano operazioni di questo tipo. Possono essere tramiti di comunicazione con culture diverse e occasioni per chiedere ai Paesi riceventi contributi per il restauro e la conservazione ». De Sanctis vuole essere cauto: «Dopo Settis e Carandini bisogna entrare in questo ruolo con umiltà, senza avere in mente di poter cambiare il mondo. Nel settore viviamo una crisi trentennale. Oggi non si assume più, non c’è più rinnovo. I laureati che hanno studiato nell’ambito dei beni culturali sono dappertutto tranne che qui. Ma la battaglia non è persa».
Repubblica 13.7.12
Artisti in campo per la Discoteca di Stato “Se chiude muore la memoria musicale”
di Carlo Moretti
ROMA «L’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi è soppresso ». Una riga di testo secca, nascosta tra i 25 articoli del decreto legge che stabilisce le misure per la revisione della spesa così come stabilite dal governo Monti. Leggendole, il presidente di quella che fino a qualche anno fa si chiamava Discoteca di Stato, è quasi caduto dalla sedia. «Non avrei mai immaginato di trovare nella Gazzetta Ufficiale il mio nome», dice Massimo Pistacchi facendo un evidente lapsus tra il suo nome e quello dell’Istituto che presiede. Un’identificazione completa con la funzione che svolge, e l’impossibilità finora di capire i criteri di quanto è stato deciso: «Avremo un incontro con il ministro della Cultura e cercherò di capire meglio, anche perché il finanziamento che riceviamo è di 300 mila euro l’anno, i 36 dipendenti verranno riassorbiti alla direzione generali dei beni librari, non disponiamo di auto blu o benefit particolari: il risparmio è dunque irrisorio ma il danno sarà enorme perché il decreto non stabilisce che fine faranno i 500 mila supporti archiviati, dai cilindri di cera inventati da Edison a fine 800, ai dischi, ai nastri, ai video, fino ai supporti digitali di oggi». Il patrimonio raccolto dalla Discoteca di Stato in 80 anni è prezioso, non ci sono soltanto tutte le pubblicazioni che dal 2007 devono avere qui per legge una copia legale, c’è archiviata la memoria sonora del nostro Paese. Quando venne fondata nel 1925, la Discoteca acquisì le registrazioni effettuate da Rodolfo De Angelis, artista e cantautore, intellettuale futurista, che aveva messo nelle lacche a 78 giri le voci di generali mentre leggevano bollettini di guerra, di poeti che declamavano le loro poesie. «È un patrimonio unico» dice il presidente Pistacchi, «questa decisione non prende minimamente in considerazione ciò che facciamo qui, tagliano finanziamenti a sussistenza». Tra le chicche assolute c’è la collezione di 400 mila supporti e macchine, esempio degli albori della fonografia e della guerra dei brevetti che si combatté nella riproduzione del suono, prima che si imponesse il modello a 78 giri: ci sono i fonografi a tromba di cristallo per i dischi a 100 giri, pezzi unici e di grande valore. E poi i 78 giri che partendo dall’America si diffusero anche nelle case degli italiani. Esperti, studiosi e artisti sono tutti allertati e preoccupati dalla possibile perdita di questo patrimonio: ieri in poche ore la petizione dedicata all’Istituto ha raccolto 500 adesioni, dal Maestro Bruno Cagli, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, a Renzo Arbore.
Corriere 13.7.12
Messalina, una morte da eroina romantica
di Eva Cantarella
Valeria Messalina (sopra, in un dipinto di Toulouse-Lautrec) nacque nel 25 d.C. da una famiglia della miglior nobiltà romana e morì nel 48 d.C., a soli ventitré anni. A quattordici anni era stata data in moglie a Claudio, zio dell'imperatore Caligola: ultracinquantenne, zoppo e balbuziente. Ma nel 41, del tutto inopinatamente, Claudio venne acclamato imperatore dai pretoriani che avevano assassinato suo nipote. E Messalina si trovò a essere imperatrice. Probabilmente, giovane e inesperta com'era, commise degli errori, e sul suo conto presero a girare dicerie e calunnie (di notte usciva dalla reggia per prostituirsi nei bordelli). Ma è la sua morte che getta una luce del tutto inaspettata sul suo personaggio. Un giorno, Messalina si innamorò di Gaio Silio: l'uomo più bello di Roma, e — scrive Tacito — cominciò a non tollerare di vivere una storia segreta. Accecata dall'amore arrivò al punto, durante un'assenza di Claudio, di sposarlo pubblicamente. Appena ne fu informato Claudio fece mettere a morte Silio. Messalina, contando sul fascino che ancora esercitava sul marito, cercò di incontrarlo, ma le fu impedito. La notizia della sua uccisone venne portata a Claudio mentre era a banchetto: senza fare alcun commento, scrive Tacito, «chiese una coppa e continuò il convito, come al solito». Così morì Messalina: per amore, come un'eroina romantica.
l’Unità 13.7.12
A Sarzana ritorna il Festival della Mente
PIÙ DI 85 EVENTI TRA FILOSOFIA, ANTROPOLGIA E TEATRO ANIMERANNO A SARZANA DAL 31 AGOSTO AL 2 SETTEMBRE il nono Festival della Mente,l'unico in Europa dedicato alla creatività. Presentato a Genova, si aprirà con una «lectio magistralis» di Gustavo Zagrebelsky. Prevede serate con il filosofo Giacomo Marramao, l'antropologo Marc Augè, gli attori Ascanio Celestini, Marco Paolini, Giulia Lazzarini. Per la direttrice, Giulia Cogoli,«in un momento di crisi è centrale ripartire dalla cultura». Il Festival della Mente ha visto circa cinquecento eventi realizzati nelle precedenti edizioni, quasi quattrocento relatori e oltre quarantamila presenze lo scorso anno.
Corriere 13.7.12
Al Festival della Mente giuristi e psicologi sui processi creativi
di Ida Bozzi
Una delle questioni aperte in un tempo in cui i saperi (tecnologici, ma non solo) avanzano a grande velocità e richiedono una preparazione sempre più specifica, è proprio quella della fragilità della conoscenza. Di un sapere, cioè, avanzato ma diviso in mille rivoli, oppure poco attingibile per i più, nonostante le promesse del mondo globale o della Rete. A queste problematiche e a temi affini sarà dedicata la nona edizione del Festival della Mente di Sarzana (La Spezia), presentata ieri all'Acquario di Genova, che si svolgerà dal 31 agosto al 2 settembre. «Beninteso — spiega Giulia Cògoli, direttrice della rassegna — il tema di fondo dell'edizione 2012 come degli anni precedenti resta la creatività e i processi creativi; tuttavia ogni anno mi piace trovare sottotraccia i fili che uniscono tutti gli interventi, poiché gli intellettuali, nel momento in cui parlano del loro lavoro, inevitabilmente riflettono la realtà, e così danno modo di capire dove soffia il vento, che cosa sta succedendo. Ebbene, gli interventi di giuristi, filosofi, psicologi, sembrano convergere in gran parte proprio intorno alla questione della conoscenza».
A lanciare l'argomento, aprendo il Festival, sarà venerdì 31 agosto la lezione del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky su «Il diritto alla cultura, la responsabilità del sapere», ma è soprattutto la giornata di sabato che vedrà numerosi gli interventi sul tema: la conferenza del giurista Franco Cordero si occuperà di «Fobia del pensiero», sull'atrofia indotta dall'eccesso di intrattenimento e di emozioni facili della tv, mentre il filosofo Giacomo Marramao sposterà il fuoco su «Potere, creatività, metamorfosi» e sul legame tra emancipazione umana e sapere. Un sapere che, però, spiegherà lo scrittore Erri De Luca all'incontro «La parola come utensile», non è astratto ma strumentale, e spesso è un saper fare. Mentre la massa crescente di chi «non sa» e l'idea di una rivoluzione del sapere sono i temi della lezione «La priorità della conoscenza» con cui l'antropologo Marc Augé chiuderà la giornata.
Fino a domenica, moltissimi ospiti (il programma completo è sul sito www.festivaldellamente.it), da Haim Baharier a Marco Belpoliti, da Tullio Pericoli a Ruggero Pierantoni, e 85 incontri, con incursioni nella filosofia, nella psicoanalisi, nella linguistica, nella scrittura, ma soprattutto, e ci pare un elemento saliente dell'edizione di quest'anno, nel teatro. «Pubblichiamo il libro di Luca Ronconi sul suo fare teatro — spiega la Cògoli, alludendo al libro Teatro della conoscenza di Ronconi e di Gianfranco Capitta, edito da Laterza per la collana dei Libri del festival della mente -, ma in effetti in questi anni sono aumentate le proposte dedicate al teatro, anche perché in una rassegna sui processi creativi ci piace presentare nuovi spettacoli e work in progress».
Così, oltre a incontri e lezioni con ospiti come Ronconi o Ascanio Celestini (1° settembre), o il drammaturgo argentino Rafael Spregelburd (domenica 2), la rassegna propone quest'anno anche molti spettacoli serali, come «Muri» di Renato Sarti con Giulia Lazzarini (il 31 agosto) oppure il recital «Toledo Suite» con Enzo Moscato (il 1° settembre), per finire con il nuovo spettacolo di Marco Paolini. L'autore del recente Ausmerzen (Einaudi) chiuderà infatti il festival domenica sera con il suo «Uomini e cani. Dedicato a Jack London».