Nichi Vendola: «Mi candido alle primarie. Dopo il voto, partito unico»
«Dovremo affrontare il tema del soggetto politico del futuro, di quale sarà il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista»
«Niente personalism. Il punto è la sinistra del futuro, dobbiamo unire passioni e idee»
intervista di Simone Coillini
Non solo è intenzionato a lavorare col Pd per un «centrosinistra di governo» che rispetti anche determinati vincoli e preveda una cessione di sovranità da parte delle forze politiche che ne fanno parte. Non solo è pronto a candidarsi alle primarie annunciate da Pier Luigi Bersani, che andranno concepite «come uno straordinario processo di ripoliticizzazione della società». Ma Nichi Vendola dice anche che dopo le prossime elezioni «si potrà affrontare con scelte coraggiose, fuori e dentro le istituzioni, il tema del soggetto politico del futuro».
Partiamo dal convegno organizzato dalla Fiom, a cui avete partecipato lei, Di Pietro e Bersani: lo scontro tra il leader Idv e quello del Pd fa compiere un passo indietro rispetto a Vasto?
«No, anzi io considero questo appuntamento un passo in avanti, perché dopo tanto tempo le sinistre sono tornate a parlarsi. Sono così disabituate a farlo che sono ricorse ai toni incandescenti, e vorrei invitare tutti a non rimanere prigionieri della diffidenza, della propaganda di partito, delle bandierine personali. Ora dobbiamo lavorare insieme per mettere in campo un’alternativa vincente che rompa il muro dell’antipolitica, dobbiamo unire le nostre passioni e idee su come rilanciare l’Italia in un’Europa che ha un drammatico bisogno di sinistra». Lei parla di sinistra ma Di Pietro dice che in Parlamento non c’è un centrosinistra contro un centrodestra, che per lui non è questione di ideologie ma di coerenza.
«Lo stile di Di Pietro è rude e talvolta propagandistico, tuttavia continuo a pensare che il mondo che rappresenta sia un valore aggiunto per il centrosinistra. Gli elementi che ha sottolineato con un certo grido di indignazione vanno tenuti in considerazione».
Come le nomine Agcom?
«Ad esempio, scandalose. Per non parlare del degrado culturale rappresentato dal fatto, come abbiamo visto da ultimo sulla Rai, che l’unico deposito di competenze a cui attingere si chiami banca. A cosa allude il fatto che si ricorra a simili figure per ruoli dirigenziali nelle reti pubbliche? Monti ha detto di non sapere neanche se le persone nominate abbiano la tv in casa. E allora qual è l’unica chiave razionale di una scelta così dissennata? La prospettiva è quella di privatizzare la Rai?».
Le si potrebbe obiettare che è un retropensiero pregiudiziale da parte di chi è contrario al governo Monti, non crede?
«No, è un retropensiero lecito vedendo come si sta muovendo questo governo, che costituisce un problema per il Paese. E mi dispiace che Bersani appaia ancora prigioniero di troppe contraddizioni. Una sopra tutte: non si può evocare una nuova civiltà del lavoro e restare inerti mentre i tecnocrati smantellano i diritti sociali e l’idea stessa del lavoro come diritto. Per rendere credibile lo sforzo di costruire l’alleanza per il futuro, per poter fare appello al mondo del lavoro, bisogna evitare oscillazioni ed ambiguità. Altrimenti si rischia soltanto di alimentare l’onda nera dell’antipolitica». Sta dicendo che per lavorare a un’alleanza di centrosinistra è necessario che il Pd rompa con Monti?
«Sto dicendo che se vogliamo ricostruire la credibilità e la forza del centrosinistra di governo bisogna dare una risposta credibile e immediata al maturarsi della crisi sociale e democratica. Bisogna prendere atto del fatto che il tentativo, generosissimo, del Pd di condizionare un governo di tipo tecnocratico con scelte più marcatamente orientate nella direzione della crescita e della tutela del welfare è fallito».
Bersani ha annunciato entro la fine dell’anno primarie aperte per la premiership: lei si candiderà?
«Io sono a disposizione. Non sono nato candidato delle primarie a vita. Né sono roso da ambizioni personali. Qualora per rendere credibili le primarie, per dar vita a una contesa vera, e qualora servisse per mettere in relazione una piattaforma programmatica con le istanze della sinistra, io non mi sottrarrò. Le primarie possono essere l’occasione per un ascolto, per una contaminazione, per una forte messa in relazione tra politica e società».
Bersani, parlando del centrosinistra di governo, ha proposto una cessione di sovranità e decisioni a maggioranza dei gruppi parlamentari: la sua opinione? «Concordo con Bersani sull’idea che non bisogna replicare gli spettacoli molto tristi del passato governo, di un centrosinistra permanentemente rissoso e incapace di esprimersi come classe dirigente con un progetto forte. Il primo vincolo, allora, è rappresentato dal responso delle primarie, con la piattaforma legata al candidato premier. La prima cessione di sovranità è nei confronti degli elettori delle primarie, che non sono un concorso di bellezza. Poi dovremmo avere il coraggio di uscire dalla logica autoconservativa dei partiti così come sono, e all’indomani delle elezioni dovremo affrontare il tema del soggetto politico del futuro, di quale sarà il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista. E potremo affrontarlo con scelte coraggiose, dentro e fuori le istituzioni». A cosa pensa, concretamente?
«Se le cose andranno bene, nessuno ci impedisce di sperimentare in Parlamento un’unità più compiuta, delle forti sinergie tra gruppi parlamentari».
E fuori dalle istituzioni? Pensa in prospettiva a una fusione tra Pd e Sel?
«Il problema non è la fusione di Pd e Sel. Il punto è la sinistra del futuro. Dovremo lavorare a una grande ricostruzione dei luoghi della sinistra».
Repubblica 10.6.12
Vendola lancia il listone della sinistra “Sciogliere Sel? A me interessa la partita”
“Vasto non basta, ma Tonino non uscirà dalla coalizione”
intervista di Giovanna Casadio
Vendola, sottoscrive le parole di Di Pietro contro Bersani? «Non le sottoscrivo, la mia specialità del resto non sono le intemperanze né l’irascibilità». Ma lei con chi sta: con Bersani o con Di Pietro? «Intanto voglio dire che è positivo che tante anime del centrosinistra riprendano a parlarsi sia pure in modo frizzante, e soprattutto che lo facciano davanti a una platea inquieta e esigente come quella della Fiom. È una finta ingenuità stupirsi delle asprezze e dei toni rudi. Conosciamo le divaricazioni e i contrasti. Non avremmo avuto il ventennio berlusconiano se la sinistra non si fosse così accuratamente divisa». Questa è la malattia antica. Ma lei quali idee ha per il futuro? «Il fatto nuovo è che ci sia una ripresa di parola davanti alla questione sociale. Io non vorrei neanche sovraccaricare di significati i toni usati da Di Pietro, che si è posizionato con forza, ma dubito molto che la sua sia un’uscita dalla coalizione del centrosinistra». Sta cercando di tenersi in equilibrio, Vendola? «No, sto cercando di mettere tutti davanti alle responsabilità che abbiamo di costruire unitariamente l’agenda del cambiamento poiché siamo collocati sull’orlo di un cratere e il vulcano della crisi sociale, della disoccupazione di massa, della recessione, della povertà può eruttare da un momento all’altro. Essere responsabili non significa cercare il minimo comune denominatore, bensì costruire un patto con il mondo del lavoro e le giovani generazioni. O il centrosinistra è questo oppure non c’è, è un artificio elettorale». La “foto di Vasto”, quell’alleanza Vendola, Di Pietro, Bersani è strappata, rotta? «Per me la foto di Vasto è sempre stata solo l’evocazione di una possibilità: quella di un’uscita a sinistra dalla crisi del berlusconismo. I protagonisti di quell’immagine sono forse necessari, ma non sufficienti, per incarnare una grande e credibile alternativa. Comunque io scelgo la piattaforma della Fiom “senza se e senza ma”». Si presenta alle primarie del Pd? «Sono a disposizione». Cioè, si presenta o no? «Di mestiere non faccio il candidato alle primarie, non sono divorato dalle ambizioni personali ». Ma fu lei a lanciare la sfida. «Oggi siamo in un evo differente rispetto al luglio 2010. È una scelta che si compie collettivamente, non sono un ragazzo in carriera». Sarebbe disposto a sciogliere Sel, il suo partito? «Ho detto, nel congresso di fondazione, che più che il partito mi interessa la partita per uscire dall’egemonia della destra». Pensa forse a un “listone” della sinistra? «Siamo impegnati nella costruzione di un nuovo soggetto plurale, popolare, della sinistra del futuro così come lo evocano gli intellettuali di ALBA e i sindaci, da Pisapia a Emiliano, De Magistris, Zedda, Orlando... ». Ci sarà una lista Fiom alle elezioni? «Penso di no, la Fiom sta facendo bene il sindacato ed è un compito politico». Andrebbe al voto “divorziato” dal Pd? «Non andrei mai diviso dalle ragioni del mondo del lavoro». Bersani e l’impegno per i gay: a lei, omosessuale, quale effetto fa? «Bene, ora però la battaglia in Parlamento. Mi sono sentito troppe volte preso in giro dal piccolo cabotaggio, dall’ipocrisia, dal “vorrei ma non posso”. L’impegno è il minimo che la decenza impone a qualunque forza democratica, visto che l’Italia vive dentro una tenebra oscurantista».
l’Unità 10.6.12
Unioni civili
Il gay pride a Bologna Bersani: legge urgente
Il corteo: siamo senza diritti. Il leader Pd: stop al «Far west»
Bersani: «Contro il far west, una legge per unioni stabili»
Messaggio del segretario al Gay Pride. Scalfarotto (Pd): Lavoriamoci. Arcigay: i Dico? Non bastano
di Mariagrazia Gerina
È il giorno del Gay Pride. E Pier Luigi Bersani cerca parole chiare per parlare a un popolo meno variopinto del solito, che, senza carri per solidarietà con le popolazioni terremotate, sfilava ieri sotto le Due Torri. «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico», scandisce il messaggio di adesione del segretario Democratico alla manifestazione nazionale del movimento Lgbt. Un messaggio programmatico, che mette in fila i nodi irrisolti in tema di diritti civili che tengono l’Italia fuori dal novero dei «principali paesi occidentali»: unioni omosessuali, appunto, legge contro l’omofobia e la transofobia («è intollerabile che questo parlamento non sia riuscito a vararne una») e poi diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia, divorzio breve, testamento biologico. «Anche su questi temi, nei mesi che verranno da qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese», scandisce Bersani, schierando in modo deciso il Pd con le «forze progressiste che in tutto il mondo, da Obama al neo-eletto Hollande, sono impegnate a costruire un nuovo civismo», fatto di «pari diritti e pari opportunità, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e identità di genere».
«Una lettera bellissima», lo ringrazia la deputata Paola Concia, firmataria di varie proposte di legge che vanno sotto la rubrica “diritti civili” e giacciono da tempo in parlamento. «Era ora», chiosa il leader di SeL Nichi Vendola. E mentre il portavoce dell’Arcigay, Paolo Patané, avverte: «Passo interessante ma non sufficiente, ci vuole il matrimonio civile», il vicepresidente del Pd Scalfarotto indica «le unioni civili sperimentate in Nord Europa» come un modello non ideale ma possibile su cui lavorare «insieme» e in calza i Democratici: «Adesso dobbiamo giungere a una proposta chiara con il Comitato diritti, presieduto da Rosy Bindi».
Intanto dal Pdl, parte il coro dei censori. Gasparri grida già a «Bersani come Zapatero». Qualgliariello mette in guardia Casini, sconsigliando al leader centrista «innaturali cartelli elettorali». Eugenia Roccella corre a tracciare attorno a Bersani il «perimetro delle alleanze possibili», che ovviamente, a suo avviso, esclude i cattolici. Mentre l’Udc Buttiglione scandisce il suo adagio: «Se Bersani intende parlare al Paese delle unioni omosessuali, noi continueremo a parlare in difesa della famiglia».
La Stampa 10.6.12
La mossa del segretario. Una legge per le coppie gay
E con le primarie parte il toto-successore alla guida del partito
Se Bersani sarà a Palazzo Chigi Letta lo seguirà; nel partito gara tra Bindi, Franceschini e Renzi
di Carlo Bertini
ROMA Non sono passate neanche 24 ore e la campagna per le primarie già si surriscalda: con un occhio di riguardo verso la vasta comunità gay che vota a sinistra, la prima mossa che fa Bersani, dopo aver annunciato la sua candidatura, è di stampo «zapaterista», per dirla con il ciellino Maurizio Lupi. «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico», dice testuale il segretario del Pd in un messaggio ai promotori del Gay pride 2012 di Bologna. E non c’è da stupirsi se il leader Pd, insieme alla voglia di sbarazzarsi di Di Pietro ormai equiparato al «peggior Grillo», cerchi al contempo di posizionarsi al meglio per le primarie: nella convinzione che «gira la caricatura di un Pd fermo e quindi dobbiamo muoverci e prendere delle iniziative». E si può immaginare come le reazioni a questa uscita del leader Pd scaldino anime e cuori a sinistra. Ignazio Marino subito tira fuori il suo disegno di legge sulle unioni civili, Vendola quasi non crede alle sue orecchie e sfida il Pd a passare dalle parole ai fatti in Parlamento. La Concia in prima fila a Bologna se la sente di promettere che quando il suo partito tornerà a governare, saranno approvate quelle leggi a tutela dei diritti dei gay. E il Pdl, preoccupato dal disegno di Bersani di mollare Di Pietro per stringere un patto di governo con Casini, subito prova a stanare l’Udc. Che se la cava con una voce autorevole come Buttiglione: convinto che non sia necessario esser d’accordo proprio su tutto «per un programma politico di salvezza dell’Italia» e che per l’Udc un valore «non negoziabile» resterà la difesa della famiglia.
E’ solo il primo effetto di una campagna che andrà avanti per tutta l’estate: il secondo è più interno al Pd. Dove la previsione di una vittoria di Bersani su Vendola e Renzi (che non mollerà la poltrona di sindaco durante la sfida) mette già in moto le fantasie sul successore per la guida del partito; visto che il vincitore delle primarie dei progressisti in base ai sondaggi è dato pure in planata verso Palazzo Chigi. Meccanismi fisiologici nei partiti e in tutte le organizzazioni verticistiche, ma che nell’era del web subiscono un’accelerazione più marcata. Non a caso il sito nato da poco Retroscena.It, sempre ben informato su tutto ciò che si muove al Nazareno, ieri mattina già riportava scenari suggestivi; che una fonte ben addentro alla stanza dei bottoni, definiva «perfino verosimile, ad oggi». E cioè che se Bersani guiderà l’esecutivo, il suo vice Letta lo potrebbe seguire al governo in un incarico di rilievo, con la Bindi e Franceschini in pole position per la poltrona di segretario, ma alle prese con un peso (diventato a quel punto massimo) come Renzi. Che nel caso ottenesse il 30-35% dei voti alle primarie, oltre a prenotare la successione a Bersani, anche da Firenze potrà gestire un tesoretto di consensi che gli varrà l’ultima voce in capitolo su nomine e cadreghe varie. Tutte fantasie premature di sicuro, ma certamente vive nella testa dei plenipotenziari, che prima di rinunciare a candidarsi alle primarie per aiutare sul campo la vittoria di Bersani, si faranno i loro conti.
E se è vero che spesso il web anticipa i tempi, anche nel caso di Di Pietro basta scorrere il coro di voci dei suoi elettori sui siti Idv per capire come la voglia di mollare il Pd per «allearsi con Grillo» sia più che una richiesta, ma quasi un’ingiunzione. Che spiega la vis polemica dell’ex pm, così come la presa d’atto del Pd che «ormai Tonino ha preso un altro abbrivio».
Corriere 10.6.12
«Legge sulle coppie gay» Diventa un caso l'apertura di Bersani
A Los Angeles Fioroni frena: non è il tempo giusto
di Maria Teresa Meli
ROMA — «Basta con il far west, serve una legge per le unioni civili»: Pier Luigi Bersani invia il suo messaggio al Gay Pride nazionale di Bologna, scegliendo di rompere gli indugi e di usare quelle parole chiare che finora non aveva mai pronunciato.
L'altro giorno la mossa a sorpresa sulle primarie, ora questa uscita sugli omosessuali: il segretario sembra aver innestato la quarta. Ed effettivamente è così. Con i compagni di partito il leader non ha nascosto la propria insofferenza nei confronti di come viene dipinto il Pd: «Fanno la nostra caricatura, descrivendoci come un partito fermo, immobile. Adesso basta, è il tempo di muoverci e di prendere delle iniziative». Detto, fatto. Bersani ha parlato con due importanti esponenti Pd del mondo gay, Aurelio Mancuso, presidente di Equality, e Andrea Benedino, e dopo essersi consultato con loro ha mandato quel messaggio: «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico».
Per Bersani è anche «intollerabile che questo Parlamento non sia riuscito a varare una legge contro l'omofobia e la transfobia: sarà anche su questi temi — sottolinea il segretario del Pd — tra cui mi permetto di aggiungere il divorzio breve, l'introduzione del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia e il testamento biologico, che nei mesi che verranno di qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese».
Come era ovvio, le parole di Bersani hanno suscitato un dibattito dentro e fuori il Pd. Scontati i «no» dei pdl Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello, che approfittano dell'occasione per seminare zizzania tra Casini e Bersani. E altrettanto ovvio anche il «no» dell'Udc Rocco Buttiglione. Ma è all'interno del partito che il segretario rischia di trovare le resistenze maggiori. Come dimostrano le critiche che gli rivolge Beppe Fioroni: «Io faccio mie le parole che Benedetto XVI ha pronunciato nel corso di un incontro con un milione di persone a Milano: la politica non prometta cose che non può mantenere. E oggi con le famiglie che non riescono ad andare avanti, con la povertà e la disoccupazione, il nostro programma deve essere quello di tentare di risolvere la crisi. Sbagliare i tempi in politica è come fare cose sbagliate». Per un Fioroni che prende le distanze dal segretario, c'è una Paola Concia entusiasta: «Ottimo Bersani, andiamo avanti così». Del resto, la deputata del Pd e Aurelio Mancuso sono tra coloro che più si stanno muovendo per ottenere che il Partito democratico imbocchi la strada dei diritti civili. Possibilmente, senza tornare indietro.
E Matteo Renzi? Qual è la posizione del più importante competitor di Bersani? Il sindaco di Firenze spiega di essere favorevole alle unioni civili per i gay: «Del resto, questa richiesta era già nei cento punti della Leopolda. Purtroppo per Bersani, la campagna elettorale non sarà su quello». Ma quella per le primarie sì. Almeno questo è quello che teme il cattolicissimo Fioroni e che al contrario sperano Mancuso e Concia.
il Fatto 10.6.12
La Fiom fischia l’inizio
Il segretario del Pd contestato sull’articolo 18, ma Landini detta la linea a chi vuol vincere le primarie
di Giorgio Meletti
Pier Luigi Bersani va a prendersi i fischi della platea con piena consapevolezza. E qui sta il successo di Maurizio Landini. La sua Fiom è messa alle corde dalla Fiat, cacciata dalle fabbriche in cui ha detto no, isolata da Fim-Cisl e Uilm che per conto loro preparano la piattaforma del prossimo, ennesimo, contratto separato dei metalmeccanici. La Fiom è insomma un sindacato che, nelle grandi partite nazionali, non riesce a fare il sindacato. Eppure mette a segno un risultato impensabile per la stessa sorella maggiore, la Cgil di Susanna Camusso. Convoca all’hotel Parco dei Principi, nella sala passata alla storia per i convegni cripto-golpisti degli anni 60, tutti i leader del centrosinistra. E loro arrivano.
Non è il solito convegno del sabato mattina dove il politico arriva sull’auto blu sgommante, fa il suo discorsetto e se ne va senza curarsi di quel che si dice prima e dopo la sua epifania. No, stavolta arrivano tutti puntuali, da Bersani (Pd) a Oliviero Diliberto (Pdci), da Paolo Ferrero (Prc) a Antonio Di Pietro (Idv), fino a Nichi Vendola (Sel). E rispettosi ascoltano in attesa del proprio turno.
C’È IN BALLO una cosa molto seria. Per isolata e sbrindellata che la si voglia considerare, la Fiom è oggi l’unico vero avamposto della sinistra nei territori sociali della crisi. Nella sua disperazione, che si tradisce in una clamorosa excusatio non petita (“i lavoratori non ci stanno abbandonando”), Landini rischia di diventare l’arbitro delle primarie del centro-sinistra.
Se dentro l’organizzazione c’è chi, come l’uomo dell’auto Giorgio Airaudo, pensa che la capacità di pressione sulla politica si moltiplichi facendo balenare addiritturalaremotaipotesidilisteFiom, Landini preferisce limitarsi alla forza di un messaggio formulato come il grido di dolore dei pezzi di società più esposti alla crisi. Un grido che suona più o meno così: sul terreno sindacale puro non ce la facciamo più a reggere l’urto, stiamo arretrando sul piano delle condizioni di vita e anche delle libertà sindacali, il problema che vi rappresentiamo va affrontato sul piano politico. Un appello vero, che viene dalla pancia profonda del popolo Fiom, alla ricerca di risposte e non di leader o nuovismi. Come dimostra l’autentica ovazione rivolta dalla platea alla lucidità d’analisi del quasi ottantenne giurista Stefano Rodotà, di gran lunga l’oratore più applaudito del giorno, molto più dello stesso Vendola, per la precisione.
L’appello di Landini è chiaro, nel suo mescolare formule antiche e invenzioni sorprendenti. A un “noi vi incalzeremo”, vagamente démodé, affianca un paio di fendenti da fare invidia a Beppe Grillo per efficacia. Il migliore è questo: “Ho letto che il premier ha detto a Marchionne che la Fiat è libera di investire dove le pare. Monti, ma solo noi dobbiamo farci carico dell’interesse generale quando paghiamo le tasse? ”.
Landini non è tenero con gli ospiti. A Bersani, implicitamente, mette in conto le nequizie attribuite al governo Monti. A Vendola che evoca lo spettro dell’antipolitica come “invenzione della borghesia, come la parola casta”, ricorda che la Fiom si prende la libertà di criticare tutto respingendo il ricatto della “etichetta dell’antipolitica”.
E quindi di qui si passa. Ferrero e Diliberto hanno gioco facile a dire che il programma di Landini è il loro programma, come faceva Silvio Berlusconi ai convegni della Confindustria. Di Pietro, sebbene scortato dall’ex Fiom Maurizio Zipponi che oggi è il responsabile del lavoro per Idv, va completamente fuori tema e si infila nella rissa politica con il Pd.
PER BERSANI la cosa è più complicata, perché fuori tema non può permettersi di andarci. Sa su quale terreno è venuto a prendersi i fischi, e se li va a prendere come una medicina amara ma inevitabile. Prima inforca sulla nascita del governo Monti, con toni da solidarietà nazionale anni 70, o se si preferisce riproponendo lo stile autunno-inverno 1998 (modello “c’era la Serbia da bombardare”): “A novembre era in discussione il pagamento degli stipendi pubblici. Non c’erano i voti per andare a votare. L’alternativa non era tra governo Monti ed elezioni, ma tra governo Monti e continuare con Berlusconi”. Fischi. Si replica molto più rumorosamente sull’articolo 18. Dopo che Di Pietro gli ha rinfacciato il voto di fiducia alla riforma che rende più facile il licenziamento, Bersani abbozza un poco convinto “ritengo che si sia fatto argine”, e i fischi coprono il sussurro che segue, “in una situazione difficile”. Eppure Bersani è qui per giocarsela. Sottoscrive qualche punto del decalogo di Landini, abolizione dell’articolo 18, promette un tentativo di rivincita anche sul 18, riparla della patrimoniale. Ma la sua parola d’ordine, detta sul palco e rilanciata poi nelle dichiarazioni a margine è quella di un programma di governo “cha faccia cardine sul lavoro”.
La carta laburista se la giocò già nella campagna per la segreteria del Pd contro l’ex democristiano Dario Franceschini. Adesso deve aspettare l’estate, quando il governo Monti sarà criticabile senza timore di farlo cadere, per riproporre lo schema di gioco alle primarie per la candidatura a premier. Avrà di fronte Vendola e il sindaco di Firenze Matteo Renzi. Ieri Landini gli ha proposto una ricetta per non restare schiacciato tra i due avversari. E Bersani, solo con il fatto di presentarsi, ha dimostrato di gradire.
il Fatto 10.5.12
Decalogo. Le tute blu chiedono di fare così
Questo il decalogo dei punti di programma che il segretario generale della Fiom-Cgil Maurizio Landini ha proposto ai partiti del centro-sinistra. 1. Legge sulla rappresentanza. Modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che limita l’agibilità sindacale alle organizzazioni “firmatarie di contratti”. 2. Abolizione dell’articolo 8, che consente ad accordi sindacali di derogare le leggi sul lavoro. 3. Lotta al precariato. Norme più restrittive sui contratti atipici di quelle della riforma Fornero. 4. Reddito di cittadinanza. 5. Articolo 18. Ripristino della garanzia, abolita dalla Fornero, del reintegro per il licenziamento ingiusto. 6. Età pensionabile. Abbassarla per i lavori usuranti, diversificarla a seconda del mestiere svolto. 7. Fondi pensione. Investire le quote dei lavoratori nei fondi negoziali sulle attività produttive italiane. 8. Riduzione orario di lavoro, con la detassazione. 9. Piano per la mobilità. Nuovo modello ecologico per l’industria dei trasporti. 10. Finmeccanica. Bloccare la vendita delle industrie civili (energia e ferro
il Fatto 10.6.12
Divorzio fra Bersani e Di Pietro. Sinistra verso la doppia coppia
Vendola cerca la mediazione impossibile
Ferrero esulta e si schiera con l’Idv
di Wanda Marra
Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista, ha un sorriso larghissimo. “Ci sono due schieramenti. Finalmente. Da una parte noi con Di Pietro, dall’altra Vendola con Bersani”. All’assemblea della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, il segretario Pd ha appena detto senza mezzi termini che “Di Pietro conosce il diritto e dovrebbe sapere che sta commettendo un reato: la diffamazione del Partito democratico”. Dopo mesi di strappetti e una settimana in crescendo, questo sembra lo strappo definitivo. Peraltro condiviso: “Bersani fugge il confronto”, dice il leader Idv. È netta l’analisi di Ferrero. E in effetti, l’impressione che si ricava all’ Hotel Parco dei Principi a Roma è proprio questa. La sinistra-sinistra, riunita da Maurizio Landini e Giorgio Airaudo, è rappresentata un po’ tutta: non solo i leader di Pd, Idv e Sel, ma, oltre a Ferrero, il leader del Pdci, Oliviero Diliberto (i due sono insieme nella Federazione della Sinistra), il sindaco di Bari, Michele Emiliano. Dice tutto il posiziona-mento nello spazio. A destra (guardando il palco) è seduto Bersani. Vicino a lui il responsabile economico, Stefano Fassina, l’ala più sinistra dei Democratici, miglior biglietto da visita per la Fiom. Dall’altra parte, Nichi Vendola. A sinistra (guardando il palco) ci sono Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto.
A sferrare l’attacco frontale è Di Pietro: “Non ce l’ha ordinato il medico di stare insieme. La politica in questo momento è offesa da chi fa le spartizioni sull'Agcom, su chi vota la fiducia sull'articolo 18, su chi va in piazza e poi sta con il governo Monti”, dice dal palco. Poi il de profundis finale della foto di Vasto: “Gli elettori non hanno bisogno di una foto ma di una proposta concreta, come ha detto Romano Prodi, non vogliamo fare scelte suicide ma scelte di campo ”, dice tra gli applausi. Dal palco Bersani non risponde. Fa un intervento in cui cerca di agganciare i metalmeccanici, salvando capra e cavoli. Mentre promette che sull’età pensionabile “ci metteremo una pezza”, dice che così “il piano Finmeccanica non va bene”; mentre tra fischi sonori cerca di giustificarsi sull’articolo 18 (“abbiamo fatto da argine” e “non era minimamente nelle mie intenzioni discuterlo”), riscrive la storia degli ultimi mesi di B. dicendo che “l’alternativa non era tra Monti e le elezioni, ma tra Berlusconi e Monti”. Platea fredda, contestazioni, applausi striminziti alla fine.
IL LEADER democratico poi si siede e ascolta l’intervento di Vendola. Mentre questi mette in campo tutta la sua abilità affabulatoria, il segretario democratico si lascia scappare qualche segno di insofferenza. Sfoglia Le Monde, si sofferma sull’Unità, manda messaggi, chiacchiera con Fassina. Vendola, d’altra parte, cerca di conciliare quello che sembra inconciliabile. “Non servono bandierine di partito”, ma “abbiamo bisogno di unità”, dice. E si lancia in affermazioni tipo “l’antipolitica è una trovata della borghesia italiana”. Fino agli appelli: “Facciamo una coalizione sul lavoro”. Tiene la platea, ma non frena la veemenza di Bersani che esce e dà del “diffamatore” a Di Pietro: “Darci degli inciucisti è diffamatorio”. È la rottura. D’altra parte, la strategia del Pd (o almeno del segretario) è chiara. A spiegarla, Fassina: “Adesso faremo una carta che tutti potranno sottoscrivere e poi partecipare alle primarie”. E dunque, tutti da Airaudo, se vuole, a Renzi, a Vendo-la. Di Pietro? “Se sottoscrive il patto anche lui”, dice Fassina, con un’aria scettica di chi sa che non andrà così. Dopo il voto, spiega ancora il responsabile economico “proporremo un patto di governo con i moderati”. Strana concessione da un uomo di sinistra. Spiega lui: “La prossima sarà una legislatura costituente, per fare le riforme”, riecheggiando le parole di Enrico Letta (esattamente ai suoi antipodi nel partito) in direzione venerdì. Di Pietro, fuori. Dentro, Casini. E Vendola? Dentro, ma se si adegua. Il leader Idv, dal canto suo ha una strategia speculare: da qui a un anno, i partiti saranno morti, il ragionamento. E dunque, tanto vale cercare di conquistarsi uno spazio a sinistra della sinistra. Tirando dentro la Fiom, se è possibile. E magari Grillo. “Hanno fatto come due maschi che si misurano”, banalizza Vendola. Ma se dovesse scegliere? “Non si può rinunciare né all’uno nè all’altro”, (non) risponde, criticando l’appoggio a Monti, ma rendendosi disponibile per le primarie. La scelta è solo rimandata.
l’Unità 10.6.12
De Luna: «I gazebo, una scossa salutare per il centrosinistra»
Per lo storico «le primarie sono una scelta coraggiosa ma non vanno intese in maniera narcisistica. Non si batte Grillo copiandolo»
di Bruno Gravagnuolo
Fa bene Bersani a lanciarsi nelle primarie. Anche se non mi nascondo le contro-indicazioni dello strumento, per come è fatto nel Pd. Importante era sparigliare, per rilanciare la forza mobilitante del partito».
È d’accordo col segretario Pd, Giovanni De Luna, storico contemporaneista a Torino, attento a media e storiografia, studioso di azionismo, Lega e antifascismo. Insomma professore, tutto bene? La sfida di Bersani non è in contrasto con la critica dei partiti personali e le sue stesse idee anti-carismatiche? «No, è un’opzione coraggiosa. Non coltivo il mito delle primarie, né ignoro i loro limiti. Ma ora c’è un grande vantaggio da cogliere: rompere la stasi e moltiplicare la mobilitazione rispetto al fatalismo prevalente. Anche in passato le primarie qualcosa lo hanno dato. Hanno accresciuto il potenziale di partecipazione, prolungando l’onda oltre l’occasione elettorale per la quale erano state indette». Già, ma non sempre sono state un affare per il Pd, anzi... «È l’energia che sprigionano a contare. E non vanno intese in maniera narcisistica e “personalistica”, ma come occasione di confronto. Il che spesso è accaduto, malgrado gli incidenti...».
Dunque, nessun contrasto tra partito strutturato, come quello che propugna Bersani, e primarie? «Le primarie non sono alternative al partito, né sinonimo di partito liquido. Anzi possono rinvigorirlo. Fidelizzare militanti ed elettori. Smuovere la passività. Semmai ora il problema è un altro: quale programma e quale legge elettorale?». Giusto, però con il Porcellum che impone premio e coalizione, le primarie hanno un senso. Con un sistema a doppio turno forse no, non le pare? «Il Porcellum va cambiato, ma hanno comunque un senso, tonificante. Nonché politico, nel senso “machiavelliano” della decisione. Purché non siano un tappabuchi, un espediente per dominare la marea antipolitica. Attenzione, Grillo passa. I partiti, quale che sia la forma partito, no. E non si batte Grillo copiandolo, ma con un’idea strategica. Non puramente localistica e leaderistica, come è stato nel caso della Lega, sul cui radicamento ci si è riempita la bocca, per poi vedere come è andata a finire. Quello era un partito personale, arroccato attorno alla segreteria nazionale. È quello che il Pd non deve assolutamente fare».
D’accordo e però quelle di Bersani saranno primarie aperte e di coalizione. Ma che succede in caso di polverizzazione, con tanti «secondi» votati, e un segretario-premier indebolito? Non sarebbe un autogol? «Guardi, i vantaggi superano gli svantaggi. Prima di tutto perché si è trattato di una iniziativa coraggiosa da parte di Bersani. E poi perché è una scossa salutare al corpo del partito, che può prolungarsi ben oltre il momento attuale. Ovviamente, e lo ripeto, non mi nascondo gli aspetti anche “folli” delle primarie, per come sono concepite nello statuto del Pd. Sono aspetti che vanno modificati. Ma ora l’importante è capitalizzare la rottura, e fare il pieno degli aspetti positivi già sperimentati».
Bene, visto che siamo in tema americano, faccia il «political consultant». Se lei se fosse il gosth-writer di Bersani, che cosa gli suggerirebbe? «Se la cava bene da solo. Ma gli direi di insistere su un punto: basta con la passività e il fatalismo. Con l’essere spettatori. L’Italia può tornare a essere protagonista, dopo venti anni di berlusconismo e nel pieno di una crisi devastante. Ecco quel che va trasmesso agli elettori: la concretezza di un obiettivo praticabile. Ma a tal fine è necessario riprendere la mobilitazione. Con orgoglio, proposte e dignità. In Italia e in Europa. Contro inefficienze e iniquità. E tecnici o non tecnici contro l’assurdità del mercato come il migliore dei mondi possibili».
Repubblica 10.6.12
Draghi, Bersani, varie ed eventuali
di Eugenio Scalfari
IL CANTIERE per la costruzione dell’Europa e per la messa in sicurezza dell’euro è stato finalmente aperto e registra alcune novità di notevole importanza. Per comprendere che cosa stia accadendo occorre anzitutto distinguere due diversi livelli operativi: quello dell’emergenza, con obiettivi di breve e brevissimo termine, e quello a più lungo raggio della nascita di un’Unione europea molto più integrata e con maggiore sovranità politica.
I protagonisti che operano su entrambi i campi di gioco sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande, il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Cinque leader di diverso peso divisi in due schiere: la Merkel da un lato, gli altri quattro dall’altro. Ma le novità verificatesi negli ultimissimi giorni è la cancelliera tedesca ad averle messe in campo: la Germania esce dall’angolo in cui era stata chiusa dai fautori d’una politica europea di sviluppo e propone l’obiettivo di costruire lo Stato federale europeo attraverso la necessaria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali per quanto riguarda i bilanci, il fisco, il ruolo della Banca centrale.
Viceversa la Merkel concede pochissimo spazio ai provvedimenti dettati dall’emergenza: nessuna federalizzazione dei debiti sovrani, nessun mutamento nel ruolo della Banca centrale, limitatissime concessioni sui bond a progetto e sul finanziamento degli investimenti transfrontalieri.
Nessun allentamento del rigore, approvazione immediata del “fiscal compact” e della riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.
Su un solo punto importante tra quelli imposti dall’emergenza anche Berlino sembra d’accordo: il Fondo europeo di stabilità è pronto a finanziare le banche spagnole purché il governo di quel Paese dia garanzie di adottare in tempi rapidi i provvedimenti di riforma già concordati con le autorità europee ma non ancora resi esecutivi. La risposta positiva di Madrid renderà possibile l’intervento che finanzierebbe le banche spagnole fino a cento miliardi di euro. A fronte di quest’operazione la “proprietà” di quelle banche passerà temporaneamente al Fondo europeo separando il debito sovrano spagnolo dal debito del suo sistema bancario e interrompendo così il perverso circuito che rappresenta una minaccia diretta contro l’intera architettura finanziaria dell’eurozona.
* * *
La strategia della Merkel può essere letta da due diversi punti di vista: la manifestazione di una decisa volontà della Germania di mettersi finalmente alla guida della costruzione d’un vero Stato federale europeo con tutte le implicazioni che riguardano il rafforzamento delle istituzioni dell’Unione, dal Parlamento ai poteri della Commissione e a quelli del presidente del Consiglio europeo dei ministri. Oppure lo si può guardare come un bluff utilizzato per coprire l’ennesimo “niet” sui provvedimenti di emergenza e di rilancio dello sviluppo. La costruzione dello Stato federale europeo richiederà almeno cinque anni; la Merkel avrebbe perciò lanciato la palla in tribuna solo per guadagnar tempo fino alle elezioni politiche che avverranno nel suo Paese nell’autunno del 2013. Poi si vedrà.
Gli altri quattro protagonisti del quintetto europeo hanno a questo punto una sola strada da battere: prendere la Merkel in parola per quanto riguarda l’obiettivo di lungo termine e ottenere il massimo possibile per fronteggiare l’emergenza e salvare l’euro e le banche europee. Draghi ha guadagnato all’Europa sette mesi di tempo iniettando fino al 15 ottobre del 2013 (con scadenza finale nel gennaio 2014) liquidità illimitata nel sistema bancario dell’eurozona. Ha evitato in questo modo che i depositanti facciano ressa agli sportelli delle banche per trasferire i loro capitali verso i titoli pubblici tedeschi. Sette mesi e una capsula d’ossigeno dentro la quale custodire i depositi bancari facendo migliorare lo “spread” e l’andamento delle Borse. Sempre che le elezioni greche del 17 prossimo non portino all’uscita di quel Paese dall’euro con le devastanti conseguenze che ne seguirebbero. Non credo che ciò avverrà sicché continuo a restare ottimista per quanto riguarda la tenuta dell’euro e – spero – la costruzione dell’Europa federale. Talvolta dal male nasce il bene e dopo la
tempesta arriva la quiete.
* * *
Vale la pena di ricordare che nel quintetto europeo ci sono due italiani: Mario Draghi, che opera a tutto campo e con strumenti che gli consentono interventi immediati e concreti, e Mario Monti (con Giorgio Napolitano alle spalle) che rappresenta nel concerto europeo uno dei Paesi fondatori dell’Unione, dell’euro e della Comunità che ebbe inizio nel 1957 e da cui tutto cominciò.
Monti è alla guida d’un governo sorretto dalla “strana maggioranza” di tre partiti. Uno di essi, quello fondato a suo tempo da Berlusconi, è in una fase di implosione confusionale e in calo verticale dei consensi. Gli altri due – Udc e Pd – sono il vero appoggio su cui si regge questo governo. Il Pd in particolare, che è tuttora stimato attorno al 25-30 per cento dei consensi degli elettori decisi a votare, che a loro volta però rappresentano soltanto uno scarso 50 per cento del corpo elettorale.
In questa situazione una parte del Pd, alla vigilia dei vertici europei dei quali abbiamo già sottolineato l’importanza, ha dichiarato la sua propensione ad accorciare la vita del governo andando al voto nell’autunno prossimo anziché nel maggio del 2013. Il segretario Bersani ha ribadito che l’appoggio dei democratici al governo durerà, come stabilito, fino alla scadenza naturale della legislatura, ma i fautori delle elezioni anticipate hanno proseguito la loro azione in raccordo con Vendola e Di Pietro. Questa situazione non è sostenibile soprattutto perché i “guastatori” fanno parte della segreteria del partito. La logica vorrebbe che, acclarato il loro contrasto con il segretario, si fossero dimessi dalla segreteria.
In mancanza di questa doverosa decisione, spetterebbe al segretario stesso di sollecitare quelle dimissioni o alla direzione costringerli a darle ma il tema non è stato neppure accennato nella riunione dell’altro ieri della direzione, come si trattasse d’una questione di secondaria importanza.
È presumibile perciò che continueranno a svolgere il loro ruolo di guastatori con la conseguenza di indebolire il governo in carica.
La stessa coltre di silenzio è caduta sul caso Penati di cui è imminente il rinvio a giudizio. Questa era l’ultima occasione utile per separare le responsabilità del partito dal gruppo dirigente del Pd in Lombardia. Non si invochi la presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva: è una giusta garanzia che non si applica però al giudizio politico che un partito ha l’obbligo di emettere: o fa corpo con l’imputato fino in fondo o lo espelle fin dall’inizio dai propri ranghi.
Ma c’era un terzo tema di cui il Pd avrebbe dovuto discutere e che ha anch’esso sepolto invece sotto un silenzio tombale ed era quello dell’elezione dei membri dell’Agcom e della Privacy, due importanti Autorità pubbliche che hanno il compito di esercitare il controllo sui rispettivi e importantissimi settori di competenza.
Si sperava che i partiti avrebbero scelto – secondo quanto prescrive la legge istitutiva di quelle agenzie – persone di provata indipendenza e di specifica competenza nei settori sottoposti alla vigilanza. Ma non è stato così. C’è stato tra i tre partiti in questione un ignobile pateracchio di stampo tipicamente partitocratico. Veltroni ha sollevato la questione in direzione e Bersani si è doluto di quanto era accaduto impegnandosi a riscrivere la legge. Ma in realtà la legge sulla nomina di quelle agenzie è chiarissima ed è stata violata dalle scelte dei partiti. Le nomine hanno la durata di sette anni e quindi se ne riparlerà soltanto nel 2019.
Sulle altre questioni, programma, legge elettorale, rinnovamento del gruppo dirigente, eventuali liste civiche collegate al partito e infine elezioni primarie per l’elezione del capo del partito, Bersani è stato chiaro e determinato riscuotendo a buon diritto l’unanimità dei
consensi.
* * *
Il governo Monti, come ripetiamo ormai da tempo, ha fatto molto per evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi mondiale in corso ormai da cinque anni, alla quale il governo del suo predecessore non aveva opposto alcun rimedio negandone anzitutto l’esistenza e praticando poi una politica economica di totale immobilismo.
Negli ultimi tempi tuttavia è sembrato che Monti abbia perso smalto, in parte per l’ovvia impopolarità dei sacrifici che ha dovuto imporre e in parte per alcuni errori compiuti, anche ed anzi soprattutto sul piano della comunicazione.
A questo riguardo gli rivolgiamo qui due domande che ci riserviamo di ripetergli quando lo incontreremo al “meeting” di Repubblica sabato 16 a Bologna dove ha cortesemente accettato di intervenire.
1. Esiste in Italia una questione morale? La domanda non riguarda, o non soltanto, i casi di disonestà di singoli uomini politici. Purtroppo ce ne sono stati e ce ne sono molti in tutti i partiti. La domanda riguarda soprattutto le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici che sono state da gran tempo occupate dai partiti e che debbono essere liberate da quell’occupazione e restituite alla loro autonomia istituzionale. Il caso delle autorità è tipico di quest’occupazione, la Rai è un altro esempio desolante (alla quale Monti ha posto parziale rimedio proprio ieri). E così le Asl e ogni sorta di enti della Pubblica amministrazione. È stupefacente che l’Unità di venerdì scorso pubblichi un articolo in cui si difende l’intervento politico dei partiti nelle nomine dei componenti dell’Agcom e della Privacy. Stupefacente che si teorizzi il criterio della supremazia partitocratica anche sugli enti “terzi” chiamati a garantire il controllo e l’efficienza della Pubblica amministrazione. Questo quadro non configura una questione morale da affrontare da un governo che giustamente vorrebbe cambiare i comportamenti degli italiani?
2. L’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco formulò qualche anno fa un progetto di grande interesse che prevedeva il conferimento ad un Fondo europeo di quella parte dei debiti sovrani eccedenti il rapporto del 60 per cento con il Pil di quel Paese. Il Fondo avrebbe applicato un interesse ottenuto dalla media ponderata degli interessi vigenti nei singoli Paesi i quali sarebbero comunque rimasti titolari dei propri debiti. Piacerebbe sapere dal nostro presidente del Consiglio se un progetto del genere rientri tra le proposte per la costruzione dell’Europa federale. Sembrerebbe infatti molto strana un’Unione federale senza una messa in comune anche se parziale del debito degli Stati membri della federazione.
* * *
Concludiamo richiamando quanto detto da Monti l’altro giorno a Palermo al convegno delle Casse di risparmio a proposito dei “poteri forti” che avrebbero abbandonato il suo governo schierandoglisi contro. Non sappiamo quanto sia pertinente questa denuncia con la politica del governo, ma una cosa è certa: alcuni “poteri forti” sono insediati fin dall’inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica.
Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano. Forse il presidente Monti dovrebbe risolvere questo problema. Spesso la paralisi governativa viene perfino da quegli uffici.
l’Unità 10.6.12
L’editoriale
Il testimone di Berlinguer
di Claudio Sardo
L’11 giugno di 28 anni fa moriva a Padova Enrico Berlinguer. Il suo tratto umano, la sua passione politica, il suo impegno rigoroso sono ancora nel cuore di tanti italiani. Anche di giovani che lo hanno conosciuto solo attraverso letture e racconti. Anche di cittadini delusi che oggi guardano alla politica con distacco e sfiducia.
Il mondo, l’Italia sono profondamente cambiati da allora. Ma le idee di Berlinguer e la sua eredità conservano un grande valore. Politico, non solo etico. È vero che Berlinguer era comunista e che, entro quell’orizzonte ideale ha combattuto la battaglia della vita prima della caduta del Muro, ma era un comunista italiano. E di questa storia originale, di questa cultura fondativa della nostra vicenda costituzionale, di questo affluente che ha innervato e contribuito ad ampliare il circuito democratico del Paese, Berlinguer ha espresso le punte più avanzate. Ne è stato un traino. Ha raccolto un testimone e lo ha portato avanti, molto avanti.
La memoria, la storia sono parti costitutive della politica. Non sono mai separate dalla battaglia dell’oggi. Le stesse idee di rinnovamento, proprio perché propongono e preparano un cambiamento, non possono non contenere una lettura della storia. Altrimenti cosa vorrebbe dire innovare? Cancellare il passato e far finta che il mondo possa ricominciare da zero? Questa semplificazione «nuovista», purtroppo, è stata più volte riproposta nella cosiddetta seconda Repubblica. L’oblio della storia, il taglio delle radici costituzionali, la condanna implicita dei partiti popolari sono stati indicati come la catarsi necessaria per approdare nella modernità. Il nuovismo è diventato parte dell’ideologia di questi anni. E in questo penoso epilogo di seconda Repubblica si torna alla carica.
Non a caso la polemica tra gli storici si sta facendo più intensa. Non a caso tanta attenzione viene oggi riservata ad Antonio Gramsci (l’autore italiano più letto nel mondo dopo Dante Alighieri): si vuole separare Gramsci dal nucleo originario e vitale del comunismo italiano e far apparire Palmiro Togliatti come un passivo esecutore dei diktat staliniani, in questo modo togliendo al Pci la caratura e la dignità di soggetto promotore della ricostruzione democratica, e soprattutto tagliando ogni radice che possa arrivare fino a noi. Per fortuna Giuseppe Vacca ha da poco dato alle stampe un bellissimo libro su Gramsci, che contiene importanti risposte con le quali l’intera comunità scientifica dovrà confrontarsi.
Ma a ben guardare anche la memoria di Aldo Moro continua ad essere sottoposta a un trattamento spietato: la polemica sulla prigionia e sulla trattativa ha quasi oscurato agli occhi dei contemporanei la lezione politica e civile dello statista, che più di ogni altro ha guidato l’allargamento delle basi democratiche e incarnato la peculiarità del cattolicesimo politico italiano. In questo caso le mode nuoviste si sono mescolate con un’indulgenza culturale delle nostre élite verso i terroristi, come ha coraggiosamente scritto Miguel Gotor.
Berlinguer, è vero, è stato in parte risparmiato da tanto aggressivo revisionismo. Era comunista, tuttavia era troppo dentro la modernità per poter subire un trattamento come quello di Togliatti o di Moro. Si è cercato però di depotenziare il suo messaggio, estraendo solo la «questione morale» e cercando di piegarla ad una invettiva contro i partiti. Quasi che lui, comunista, fosse un precursore dell’antipolitica. Berlinguer invece va riletto per intero. È un segno di rispetto, ma è anche il modo per ricevere di più dalla sua testimonianza. Il Berlinguer dell’austerità come leva di un nuovo sviluppo. Il Berlinguer della democrazia come valore universale (discorso pronunciato a Mosca, nel 60esimo della Rivoluzione d’ottobre). Il Berlinguer della laicità e del dialogo con i cattolici nella lettera a monsignor Bettazzi. Il Berlinguer del compromesso storico. Il Berlinguer del movimento di liberazione delle donne. Il Berlinguer dei nuovi bisogni e dell’emergenza ecologica. Il Berlinguer della diversità.
La questione morale fu la grande intuizione e il grande assillo degli ultimi anni della sua vita. Il blocco del sistema politico, seguito alla fine tragica della solidarietà nazionale, aveva iniziato a produrre quei fenomeni corrosivi che avrebbero poi portato al collasso della prima Repubblica. Berlinguer li comprese in anticipo. Ma la sua fu sempre, innanzitutto, una denuncia politica finalizzata a produrre un cambiamento reale. Del resto, il blocco del sistema era stato la risposta al progetto nel quale lui e Moro, muovendo da sponde diverse, avevano creduto.
Ricordare Berlinguer oggi non è, dunque, solo un atto di omaggio che ci consente di alzare la testa dall’affanno quotidiano. È parte della battaglia politica per il centrosinistra di domani. Perché la polemica sulla storia riguarda anzitutto il Pd, la sua natura, la sua identità. Il Pd è davanti a un bivio: cedere ad un nuovismo senza radici oppure progettare il futuro sentendosi parte viva della migliore storia nazionale. Rassegnarsi ad una società di individui, senza autonomia dei corpi intermedi e senza vere battaglie sociali, oppure essere ancora il «partito della Costituzione» e del cambiamento.
l’Unità 10.6.12
Caro Enrico, tra parole e pittura
parte da Roma l’omaggio itinerante alla storia del Pci
di Graziella Falconi
Domani al cinema Farnese per l’anniversario della morte la manifestazione voluta dal Cespe In mostra opere dedicate a Berlinguer da Guarienti a Calabria
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò». Quasi un leit motiv alla Lucio Dalla, la manifestazione «Caro Enrico» organizzata dalla Fondazione Cespe al Cinema Farnese di Roma (domani dalle 17,30 alle 19,30) per l’anniversario della scomparsa del segretario più amato nella lunga storia del Pci, un caduto sul lavoro, i cui funerali registrarono una eccezionale partecipazione, che secondo Vittorio Foa poteva essere spiegata soltanto perché Berlinguer era considerato dal popolo «un modello umano e politico». Per dirla alla Bertholt Brecht un italiano imprescindibile, che portava nel proprio dna la necessità di un secondo Risorgimento, l’aspirazione a una riforma morale e intellettuale, e che in un periodo particolarmente travagliato si è dedicato alla salvezza dell’Italia e della sua democrazia.
Mentre veniva eletto segretario del Pci, nel 1972, l’editore Gian Giacomo Feltrinelli saltava in aria collocando esplosivo su un traliccio a Segrate; l’economia mondiale era entrata in una crisi che portò alla convertibilità dell’oro in dollaro (1973 a Bretton Woods). Secondo alcuni storici nel 1975 la crisi era così acuta che le autorità avevano quasi perso il controllo della situazione: il terrorismo procurava quotidianamente morti e feriti, la bilancia italiana dei pagamenti era sempre più in rosso, con le principali aziende tutte indebitate, una crisi produttiva enorme, l’inflazione quasi al 20%. Pur in un quadro così drammatico, il Paese conosce una stabilizzazione democratica e finanziaria e riesce a impiantare lo stato sociale. Alcuni dati lo testimoniano.
Insieme al compromesso storico, al programma economico a medio termine, si lavorava all’approvazione da parte del Parlamento di riforme importanti: divorzio, aborto, diritto di famiglia, voto a 18 anni, statuto dei lavoratori, riforma delle pensioni, equo canone e legge dei suoli, riforma dei manicomi, occupazione giovanile, riconversione industriale, riforma sanitaria. Riforme di struttura ed elementi di socialismo, leggi relative all’ordine pubblico, alla finanza e al fisco, al decentramento degli enti locali. Leggi che incontrarono ostacoli e difficoltà di vario genere e che contenevano esse stesse incongruenze ed errori, ma testimoniano di una volontà di modernizzazione del Paese, tenendo insieme rinnovamento e risanamento, austerità e sviluppo.
«Da quando sei partito c’è una grossa novità, l’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va».
Crisi organica e permanente, con immancabile presenza di terremoto. Berlinguer in tutto questo rappresentava, pur con tutti i suoi limiti tra cui l’illusione sulla riformabilità del sistema sovietico e la sottovalutazione della capacità di riorganizzarsi del capitalismo la speranza e la ricerca, la capacità di cogliere il senso dei grandi processi e dei mutamenti della struttura del mondo. Ha denunciato il mutamento antropologico derivante dal consumismo, ma soprattutto si poneva il problema delle grandi questioni planetarie come le innovazioni tecnologiche, la fame, il divario tra nord e sud del mondo, l’ambiente, i limiti dello sviluppo, le nuove responsabilità dell’uomo verso le generazioni future. Egli fu in tutto un intellettuale e un politico, secondo la lezione di Antonio Gramsci, dal quale aveva mutuato i concetti di consenso e di forza declinati accanto e dentro a quelli della democrazia progressiva. Sono molte le suggestioni che egli ci ha consegnato e che l’iniziativa della Fondazione Cespe intende rievocare nel pomeriggio di lunedì. Una iniziativa politico culturale in cui domina la voce di Enrico, le sue parole, la sua immagine. Verranno presentate, come omaggio, rievocazione, commento o riflessione, le opere dei pittori Goberti, Guarienti, de Luca, Pupillo Falconi, Galli, Alexander, Calabria, e altri ancora, che daranno vita a una mostra itinerante nelle fondazioni ex Ds.
La Fondazione Cespe ha inteso ricordarlo anche alla luce di una preziosa eredità del Pci per la parte che ha fatto tesoro dell’insegnamento di Gramsci quando ammonisce: «Una generazione può essere giudicata sulla base dello stesso giudizio che essa dà della precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa... Una generazione vitale e forte che si propone di lavorare e affermarsi, tende invece a sopravvalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre».
Caro Enrico, questa è una lettera di ringraziamento per gli stimoli che possiamo trarre dalla storia e dall’esperienza.
l’Unità 10.6.12
Gotti Tedeschi a Napoli. Il memoriale mette paura
L’ex presidente Ior dai pm che indagano su Finmeccanica
Si attendono novità dai 47 faldoni sigillati
di Massimiliano Amato
NAPOLI Quarantasette faldoni di documenti, la memoria di un pc che non potrà essere aperta se non nel corso di un «contraddittorio tra le parti», come impone il Codice di rito, ma soprattutto un memoriale nel quale Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, non esita a fare nomi e cognomi dei suoi «nemici». Il materiale a disposizione di due procure, Roma e Napoli, sulle attività dell’istituto di credito del Vaticano è tanto. E minaccia di rendere infuocata l’estate all’interno delle mura leonine, già scosse dal caso del «corvo».
Tutto è partito da una serie di intercettazioni telefoniche disposte dai pm napoletani Henry John Woodcock, Francesco Curcio e Vincenzo Piscitelli nell’ambito delle indagini sugli appalti Finmeccanica. I tre magistrati napoletani, che hanno «spremuto» nel corso di tre interrogatori il faccendiere Valter Lavitola sui presunti casi di corruzione internazionale sull’asse Italia Panama, si sono imbattuti quasi per caso nel superbanchiere di Dio giubilato meno di un mese fa.
La casa e lo studio privato di Gotti Tedeschi, che allo stato non è indagato, sono stati oggetto di una lunga perquisizione martedì mattina. Nel pomeriggio, il banchiere si è presentato in Procura, a Napoli, per sostenere un lungo interrogatorio, interrotto solo a tarda sera, quando Gotti Tedeschi, stremato, ha chiesto un’interruzione. I pm e il banchiere si sono dati appuntamento la prossima settimana, quando l’audizione, come persona informata dei fatti, proseguirà, e dagli appalti Finmeccanica si passerà alle attività della banca del Vaticano. Ma, al di là della deposizione di Gotti Tedeschi, la procura di Napoli punta sul contenuto dei 47 faldoni, ancora sigillati, e sull’hard disk del pc dell’ex presidente dello Ior. I tre pm, e lo stesso procuratore reggente Sandro Pennasilico, non hanno commentato
la nota con cui la Santa Sede, nella serata di venerdì, ha richiamato la magistratura italiana al rispetto delle prerogative dello Stato Vaticano. Ma gli inquirenti fanno filtrare la determinazione ad andare fino in fondo nelle indagini. Allo stato l’unica insidia che si profila all’orizzonte è quella dell’incompetenza territoriale, ma è ancora presto si fa notare per determinare l’autorità giudiziaria competente a proseguire le indagini, soprattutto perché le rivelazioni di Gotti Tedeschi rientrerebbero a pieno titolo nell’indagine sugli appalti Finmeccanica, la cui titolarità finora non è mai stata messa in discussione.
Ieri, intanto, è stata la giornata delle smentite: il legale di Gotti Tedeschi, l’avvocato Fabio Palazzo, ha fatto sapere che il suo assistito «non è a conoscenza dei conti Ior e dei suoi intestatari e come tale non è neppure informato di personaggi politici eventualmente intestatari dei conti Ior». E la procura di Roma ha smentito di aver acquisito i faldoni di documenti in possesso di Gotti Tedeschi: una precisazione doverosa e scontata, dal momento che quei faldoni sono in possesso della procura di Napoli. La nota del legale di Gotti Tedeschi, però, entra con decisione in quello che è considerato un punto rovente delle due inchieste in corso. Vale a dire il racconto, riportato nel memoriale in possesso della procura della Capitale, delle resistenze che il banchiere avrebbe incontrato nella sua opera di trasparenza, soprattutto in materia di normativa antiriciclaggio, che tante inimicizie gli avrebbe procurato all’interno delle alte gerarchie vaticane. Il memoriale, che fa accenno a conti cifrati eventualmente riconducibili perfino alla criminalità organizzata, doveva essere recapitato al Pontefice, per il tramite di monsignor Georg Gaenswein.
Sullo sfondo, la guerra che sarebbe divampata all’interno del Vaticano tra chi, come lo stesso Gotti Tedeschi, premeva affinché anche lo Ior si adeguasse alle normative Ue in materia di antiriclaggio, e chi invece avrebbe opposto resistenze fortissime, sottolineando la «specificità» dell’istituto di credito vaticano.
La Stampa 10.6.12
Corvi e veleni Oltretevere
Tra Santa Sede e Trapani è scontro sulle rogatorie
Il Vaticano chiede collaborazione, ma non risponde alla procura siciliana
di Guido Ruotolo
L’indagine. La procura di Trapani ha smentito l’esistenza di un’inchiesta su conti dello Ior riconducibili a Matteo Messina Denaro
I timori. L’avvocato di Gotti ha precisato che il professore non ha ricevuto minacce di morte dirette
Chiede il rispetto della «sovranità riconosciuta alla Santa Sede», aspettandosi che quanto prima l’autorità giudiziaria italiana restituisca il «maltolto», la documentazione Ior sequestrata nella casa piacentina o nell’ufficio milanese dell’ex numero uno della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi. Ma intanto il Vaticano nega la rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Trapani (mentre si appresta a inoltrare la sua rogatoria all’Italia per il «Vatileaks»).
Ieri il procuratore di Trapani Marcello Viola ha precisato che la pista di conti occulti di Cosa nostra, del boss latitante Matteo Messina Denaro, transitati nei conti Ior non è una ipotesi coltivata dalla Procura di Trapani. Che invece sta aspettando di conoscere l’esistenza di conti Ior riconducibili a don Ninni Treppiedi, il sacerdote indagato dalla Procura di Trapani per furto, truffa, frode informatica, stalking, diffamazione e calunnia con altre 12 persone. Centinaia di migliaia di euro della Curia, beni immobili venduti all’insaputa delle autorità religiose.
Un «affaire», il caso Trapani. Che ha portato la Santa Sede a prendere una decisione clamorosa: trasferire il vescovo Miccichè dopo una istruttoria interna condotta dal vescovo di Mazara del Vallo, Mogavero. Il sospetto avanzato nelle Sacre Stanze è che don Ninni Treppiedi possa aver veicolato capitali mafiosi.
Ma proprio perché il Vaticano sta per consegnare alle autorità italiane una richiesta di collaborazione alle indagini - attraverso una rogatoria internazionale - il rifiuto di accogliere la richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dalla Procura di Trapani potrebbe creare qualche motivo di ripensamento.
Ieri, il legale del professore Ettore Gotti Tedeschi è intervenuto per rettificare alcune imprecisioni: «Il professore non è a conoscenza dei titolari dei conti Ior e come tale non è informato neppure di eventuali personaggi politici intestatari di conti Ior». In realtà ai magistrati di Roma e Napoli l’ex presidente dello Ior aveva precisato che quando ha iniziato a chiedere notizie sui conti correnti laici si è scatenata la guerra interna contro di lui. L’avvocato Fabio Palazzo, conferma, invece, che il professor Gotti Tedeschi ha avuto diversi incontri con esponenti politici italiani.
Due pagine con centinaia di allegati, lettere, documenti, mail. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha affidato al Valutario della Finanza il compito di analizzare questo materiale per individuare eventualmente profili investigativi da approfondire mentre la Procura di Napoli ha sigillato un armadio con 47 faldoni di documentazione nello studio milanese del professore ex numero uno della banca vaticana.
Napoli va avanti sul fronte degli approfondimenti del fascicolo sulla corruzione e riciclaggio internazionale di Finmeccanica. E gli uomini del Noe dei carabinieri stanno analizzando la documentazione trovata nella disponibilità di Gotti Tedeschi - che è amico dell’amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi - e che riguardano pratiche di finanziamento del Banco di Santander (di cui lui è rappresentante in Italia) a diverse società della holding del settore Difesa.
Nelle carte sequestrate oltre al memoriale con il quale Gotti Tedeschi replica punto su punto alle obiezioni e alle contestazioni del «tribunale» dello Ior che lo ha defenestrato, ci sarebbe anche una lettera drammatica nella quale dice di temere per la sua vita. Una lettera da recapitare a un avvocato, a un giornalista amico, alla sua segretaria. Ieri il suo legale prova a ridimensionare questi timori: «Non esistono minacce specifiche nè il professore è scortato». «Suggestioni» e «stress», insomma, avrebbero indotto il professore a temere per la sua vita.
La Stampa 10.6.12
I cardinali premono per risolvere la successione a Gotti Tedeschi
Restano le divisioni sulla trasparenza, ma serve una guida
di Giacomo Galeazzi
Rogatorie, ispezioni per l’ingresso nella «white list» dell’Ocse, memorandum di Gotti Tedeschi nelle mani dei pm. Mai come stavolta sulla scelta del presidente dello Ior incidono «fattori esterni». Il Vaticano cerca il suo banchiere, l’«interim» a Ronaldo Hermann Schmitz non ha normalizzato una situazione di forti tensioni interne all’Istituto ed entro breve verrà ufficializzata l’investitura del nuovo «numero uno».
In Curia hanno fatto rumore le parole all’Osservatore Romano del cardinale decano Angelo Sodano: «Quante volte ho votato in riunioni di cardinali, senza mai stupirmi che un confratello votasse a favore e l’altro contro. Amici eravamo e amici rimanevano». Molti vi hanno letto un chiaro riferimento alla divisione tra porporati all’interno della commissione di vigilanza Ior sulla cacciata di Gotti Tedeschi. «Bisogna fare in fretta e bene- spiega uno stretto collaboratore di Bertone-. Insediare un nuovo presidente stabile è anche d’aiuto all’istituto per aderire alle normative internazionali ed entrare nella “white list” dei paesi conformi agli standard anti-riciclaggio». La commissione è composta dai cardinali Bertone, Nicora, Tauran, Toppo e Scherer. E non sono mancati dissidi, ad esempio sulla normativa anti-riciclaggio, tra Bertone e Nicora. Il portavoce vaticano padre Federico Lombardi precisa che «non risulta in calendario» la prossima riunione del direttorio, che però «prima o poi» avrà luogo per stabilire i «passi ulteriori di ridefinizione dell’assetto dello Ior e della sua governance». Per la successione a Gotti Tedeschi non ci sono ancora decisioni. Un possibile candidato di fama internazionale, cattolico «doc», tedesco come il Papa, è l’ex presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, volto noto in Vaticano, ma molto anziano e da tempo fuori dai giochi. Pare improbabile l’ascesa dell’ex gran capo delle Generali Cesare Geronzi. È gradito a Bertone (segretario di Stato e presidente della commissione di vigilanza) Antonio Maria Marocco, subentrato nel 2011 a Giovanni De Censi del Credito Valtellinese, dopo la vicenda che portò la procura di Roma a sequestrare un fondo dello Ior depositato presso il Credito Agricolo e all’iscrizione nel registro degli indagati di Gotti Tedeschi e del direttore generale dello Ior Paolo Cipriani. Una lista ufficiale di candidati non c’è. La partita è più che aperta. E senza esclusione di colpi. Con un occhio agli equilibri interni e l’altro alle conseguenze d’immagine della bufera giudiziaria scoppiata attorno alla banca del Papa. «Occorre voltare pagina e allineare le finanze vaticane alla purificazione attuata da Benedetto XVI nella gestione della Curia romana», assicurano nei Sacri Palazzi. Dalla nomina del successore di Gotti Tedeschi si capirà quanto le fronde e i corvi abbiano davvero indebolito Bertone.
La Stampa 10.6.12
Intervista
Umberto Eco: “Il Papa da sempre al centro di trame per il potere”
L’analisi: la differenza è che ora vengono rese pubbliche
di Mario Baudino
ASTI Lo Stato Pontificio, sostiene Eco, è da sempre teatro di lotte e scontri di potere Intrighi storici Nel suo «Cimitero di Praga» Umberto Eco racconta gli intrighi che portarono alla creazione del falso dei «Protocolli dei Savi di Sion»
Umberto Eco, nel Cimitero di Praga, ha scritto la storia nera di un «corvo» ottocentesco, anche se non vaticano. Un intrigo di documenti falsi, rivelazioni, ricatti, delitti, fino alla stesura e al lancio mondiale di quel clamoroso falso antisemita che furono i «Protocolli dei Savi di Sion». L’ambiguità del documento è uno dei suoi temi preferiti. Non è che sta pensando a un romanzo Vaticanleaks, con banchieri, cardinali, ombre mafiose? «No - risponde divertito lo studioso narratore, oggi ad Asti per il Festival Passepartout -. Però, per risolvere la cosa alla buona, dato che l’inchiesta vaticana è talmente complicata, l’unica cosa che si può dire è che non sta succedendo niente di nuovo».
In che senso?
«Nel senso che basta una buona storia della Chiesa, anche scritta da un cattolico, per rendersene conto. C’è evidentemente da fare un distinzione tra la Chiesa come istituzione, chiamiamola divina, e lo Stato Pontificio come appunto Stato. Dove succedono tante cose. Sono quasi duemila anni che il Vaticano è al centro di lotte di potere. E di leggende, come ad esempio quella della Papessa Giovanna, secondo cui a un certo punto salì al soglio pontificale un donna. Ma pensi, che so, al processo postumo contro Papa Formoso».
Il cui cadavere fu dissotterrato, ripulito, posto sul trono è condannato per sacrilegio. Era l’897.
«Ci sono storie incredibili. Certo non erano rese pubbliche, ma diventavano oggetto di mormorazioni, anche pettegolezzi, e per il resto stavano chiuse nelle mura del Palazzo. La novità è che la globalizzazione dell’informazione ha rotto questo tabù. Un personaggio, non sappiamo mosso da chi e per quali ragioni, ha consegnato del materiale a un giornalista, che l’ha pubblicato. Una volta questo non succedeva».
Il rischio di fare una brutta fine, in effetti, era piuttosto alto. Non che sia svanito del tutto, a giudicare dal memoriale di Gotti-Tedeschi.
«C’è però anche un’altra differenza importante, ed è l’incontrollabilità dell’informazione. L’impossibilità della censura. Ai giorni nostri - è un argomento che toccherò nella mia conferenza di oggi - c’è un solo modo di praticare la censura: non costringendo a tacere, ma realizzando una massa di rumore».
La prospettiva si è rovesciata.
«Prima una maggiore quantità di informazioni era in ogni caso un bene; oggi l’abbondanza rischia di diventare, in certi casi, un male. Su Internet mi può arrivare una massa tale di informazioni da impedirmi di capire che cosa è vero e che cosa è falso»
Confusione per abbondanza?
«Non vale solo per Internet. Prenda un quotidiano di oggi, sessanta pagine. È già abbastanza difficile leggerlo tutto, e isolare le notizia che contano. C’è stato per lungo tempo un tg in Italia che non diceva le cose importanti ma raccontava continuamente che è nato un cane con due teste o uno ha spaccato la testa a un altro. In quell’insieme enorme di notizie scompariva o veniva taciuta quella importante. O pensi a quanta gente non sa più come è scomparsa, che so, Emanuela Orlandi o qualsiasi altra povera ragazza: ci sono ottanta trasmissioni che ogni giorno propongono informazioni nuove, poco utili perché altrimenti sarebbero state usate dalla polizia. Il chiacchiericcio continuo non ci fa capire come sono andate le cose».
Vede la stessa prospettiva per i corvi del Vaticano?
«Se fossi un funzionario interno che vuole tenere coperte le informazioni - e premetto che non mi pare ciò stia avvenendo -, le moltiplicherei. La censura del silenzio era per qualche aspetto più permeabile. Permetteva la mormorazione e le notizie più imbarazzanti circolavano. Tutti durante il fascismo sapevano che Claretta Petacci era l’amante di Mussolini. Oggi provi a dire chi è l’amante di Berlusconi».
Forse non lo sa....
«Neppure lui. Forse è proprio così» Professore, sta delineando un quadro assai fosco.
«Fosco? È il quadro di una celebre maledizione cinese».
Quale?
«Quella che dice: ti auguro di vivere in un’epoca interessante».
Corriere 10.6.12
«Ior, portai i conti a Gotti Disse: meglio non sapere»
Il direttore: chiesi di difenderci, non guardò le carte
di M. Antonietta Calabrò
ROMA — «Lei si sente come l'uomo nero che voleva fare male a Ettore Gotti Tedeschi?».
A ben vederlo, maglietta Lacoste a mezze maniche, mocassino fuori ordinanza, capelli cortissimi, l'aspetto dell'uomo nero non ce l'ha neppure un po'. Si scusa subito per aver violato il dress code del dirigente di banca. «Vengo da casa, sa, è sabato pomeriggio». Eccolo qui, quello che Gotti avrebbe descritto nel suo memorandum come il suo nemico numero uno, quello che avrebbe tramato per cacciarlo dalla banca. L'appuntamento è alle 18 a Porta Sant'Anna, i piazzali sono vuoti, senza una macchina parcheggiata, si sale su, al Cortile di San Damaso, poi un piccolo portoncino con un campanello che sembra quello di una casa. È Paolo Cipriani, direttore generale dello Ior dal giugno 2007, dopo aver avuto un'esperienza internazionale per banche italiane in Lussemburgo, a New York e a Londra. Un protagonista centrale del caso che ha portato il 24 maggio all'uscita traumatica di Gotti dall'Istituto. Parla per la prima volta.
Allora, come si spiega il j'accuse di Gotti? «Può non credermi, ma sinceramente non lo so», risponde allargando le braccia. «Eppure non riesco a volergliene». Più diversi non potrebbero essere. Cipriani gioca a basket, un gioco di squadra, ruolo di playmaker. Gotti è un esperto di judo, più che uno sport, un'arte marziale.
Insomma, Cipriani racconta tutta un'altra storia rispetto a Gotti che nel suo memorandum avrebbe detto che i suoi guai sono iniziati quando ha chiesto i nomi dei politici. Lì sono iniziate le incomprensioni. «Cose che, diceva Gotti, aveva "sentito in Italia"». I ricordi del direttore generale sono precisi: «Le domande le fanno sempre in Italia, ma qui ci sono le risposte, e conti cifrati e conti di politici non ci sono. Noi abbiamo fin dall'inizio voluto fargli capire e vedere, ma anche quando gli abbiamo portato tutti i tabulati, chiedendogli di guardare, di farci domande, di fare chiarezza, Gotti non ha mai voluto neanche visionarli. Ma ripeteva lo stesso "non voglio sapere, meglio non sapere". Poi un giorno, era lo scorso febbraio, quando già uscivano sui giornali notizie false che c'era qualcosa di oscuro da noi, perdemmo la pazienza e gli dissi: "Lei è il legale rappresentante, ma l'Istituto non lo conosce e non lo vuole difendere"». Poi, nota, «L'Istituto non è solo un Istituto. Sono più di cento persone oneste che lavorano qui e non è giusto che veniamo attaccati per cose che noi non abbiamo fatto».
Il direttore generale a riprova delle procedure interne trasparenti, aggiunge: «Noi abbiamo lavorato sui sistemi Aml, anche con consulenze esterne, molto prima che entrasse in vigore la legge 127. Siamo noi che vogliamo la trasparenza. Qui siamo guidati anche da un board di esperti e siamo obbligati a consegnare tutti i materiali a loro. Non c'è nessun segreto, nessun mistero. Noi abbiamo chiesto ripetutamente al presidente di interessarsi dell'Istituto, ma non prendeva in mano le cose. Era come se fosse assente anche quando era presente. A volte veniva in presidenza, che è distaccato dal resto dell'Istituto, e non ci diceva nulla. Poi, partiva».
Domando di nuovo: ci sono conti, non dico, anonimi, ma cifrati? «No, non ci sono, né ci potrebbero essere perché tutte i conti, che chiamiamo "posizioni" sono correlate ad un'anagrafica dell'intestatario, molto più dettagliato di quello usato in Italia, per esempio ed il sistema elettronico non può funzionare se non è completo di tutto». Ci sono nomi di politici italiani? «No, gli italiani (non religiosi) come persone fisiche sono solo i dipendenti o i pensionati della Santa Sede». C'è il nome di Luigi Bisignani? «Non ha un conto qui né lui né la moglie, nessuno». C'è il nome dell'ex capo del Sismi Pollari? «No». Abbiamo sentito che Gotti ha pure nominato Bill Clinton? «Una pura fantasia». E i soldi, come la mettiamo con i soldi? «Noi non forniamo prestiti, tutto ciò che esce e cioè bonifici e assegni e persino il contante è tutto tracciato, anche in modo più dettagliato che in Italia. Addirittura con uso di documenti doganali, che vengono consegnati alla nostra Autorità di controllo. I flussi sono sotto il controllo del sistema elettronico Ibis».
E i soldi in entrata? «Noi non abbiamo filiali, quindi ciò che entra ci viene mandato da banche estere, anche italiane. Spetta anche a loro, e anche per primi, fare i controlli, ma li facciamo anche noi, anche utilizzando sistemi come Ofac, che è una lista internazionale aggiornata costantemente i nomi delle persone sospette di riciclare: per intenderci qualsiasi persona sospetta viene subito bloccata». Quanto alla trasparenza, sottolinea che in tanti anni «all'estero non c'è mai stato un problema, e neanche in Italia per tanti anni. Poi, curiosamente, ad un certo punto trovano sempre problemi. Bisogna andare in Italia a chiedere perché».
Corriere 10.6.12
Bagnasco: addolorati ma mai smarriti
«Dobbiamo essere addolorati per i nostri peccati, ma mai spaventati o smarriti» e anche se «a volte le onde e le ombre sembrano preponderanti, il Papa ci ricorda che il Signore è presente e ci ripete le sue parole: "Non temete"». Anche se non direttamente, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, interviene sulle inchieste e polemiche che stanno interessando il Vaticano. «In questo momento pensiamo al Santo Padre - ha detto ancora Bagnasco -: stringiamoci a lui come a roccia solida che conferma la fede e come nocchiero che guida la barca».
Intanto il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, in una nota, definisce «completamente destituita di qualsiasi fondamento la notizia che la procura abbia sequestrato o comunque acquisito "cinquanta faldoni di documenti" nel confronti del prof. Ettore Gotti Tedeschi». Faldoni posti sotto sequestro, invece, dai pm della Procura di Napoli e al momento sigillati negli uffici dell'ex presidente dello Ior.
il Fatto 10.6.12
Gotti Tedeschi, i legali: non sa di politici. I pm di Roma: mai presi faldoni
Una mole di documenti all’attenzione dei magistrati e l’affare Gotti Tedeschi si complica: carte di natura diversa su cui gli stessi inquirenti hanno differenti competenze. Ci sono i 47 faldoni sequestrati dalla Procura di Napoli, che indaga sugli appalti Finmeccanica, il backup del computer del banchiere effettuato sempre su richiesta della procura partenopea. E poi c’è il memoriale difensivo sullo Ior, acquisito invece dalla Procura di Roma, titolare di due inchieste su ipotesi di riciclaggio e operazioni sospette che coinvolgono l’istituto di opere religiose. Infine, un appunto acquisito dalla procura romana in cui il banchiere sottolineava la paura per la propria incolumità. Materiali sequestrati da procure diverse che spiegano il motivo per cui il pm di Roma, Giuseppe Pignatone, abbia smentito l’acquisizione dei 47 faldoni (sotto sequestro dalla Procura di Napoli). Altra cosa è il fronte Ior e qui bisognerà vedere cosa emergerà dagli scritti di Gotti Tedeschi: ovvero dal memoriale difensivo per il quale il banchiere stava valutando quale potesse essere l’interlocutore più opportuno in Vaticano (e tra i destinatari possibili avrebbe pensato al Papa stesso). Fabio Palazzo, avvocato del banchiere, ha difeso il suo cliente sottolineando due aspetti: Gotti Tedeschi non si occupava di conti Ior e quindi non poteva essere a conoscenza dei nomi a cui i conti fossero intestati. Ammette che nel memoriale potrebbero esserci nomi di politici, ma, assicura l’avvocato, Gotti Tedeschi non aveva elementi per associare i nomi a conti titolari. “Il memoriale si concentra su meccanismi, modus operandi e sulla legge anti-riciclaggio vaticana, la cui interpretazione è stata oggetto di scontri Oltretevere, specie sulla retroattività, cioè la possibilità di estendersi a casi precedenti l’aprile 2011”, ha spiegato l’avvocato Palazzo. Carte che potrebbero innescare un braccio di ferro tra la Santa Sede e l’Italia, ma il Vaticano ha rimarcato che ripone “massima fiducia” nel fatto che “le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall’ordinamento internazionale siano rispettate”.
l’Unità 10.6.12
La chiesa americana approfitta del caos della Curia romana e si butta a destra
di Massimo Faggioli
Dopo la elezioni del 2008 Obama venne ricevuto con tutti gli onori in Vaticano ...
Ora i vescovi Usa sono tutti schierati con il candidato repubblicano
UNA VOLTA IN CURIA ROMANA SI DICEVA DEI CATTOLICI DELLE CHIESE MEDIORIENTALI CHE ERANO «POCHI, COSTOSI E LITIGIOSI». La stessa cosa sta dicendo oggi il cattolicesimo mondiale a proposito della Curia romana e dei collaboratori del Papa.
La guerra per bande che si svolge in Vaticano da qualche mese a questa parte viene seguita stancamente nel resto dell’orbe cattolico, eccettuata l’Europa, che nel pontificato del Papa tedesco ha il ruolo di un modello storico-culturale non suscettibile di aggiornamenti rispetto all’epoca premoderna. Ma in tutti i continenti le vicende vaticane hanno l’effetto di ridimensionare se non la potestas, certamente la auctoritas della Santa Sede tanto sulle questioni ecclesiali quanto su quelle politiche. Dall’elezione di Benedetto XVI in poi era chiaro che il pontificato non era né interessato né in grado a mantenere l’alto profilo politico dei Papi del secolo XX. Ma la promessa di un basso profilo si è trasformata in una serie di disastri grandi e piccoli (il discorso di Regensburg sull’Islam del 2006, il Papa che proclama “God Bless America” sul prato della Casa Bianca a fianco di George W. Bush nel 2008, il vescovo negazionista lefebvriano nel 2009, etc.) per i quali il Segretario di Stato, cardinale Bertone, è responsabile almeno dal punto di vista funzionale.
Questa lunga serie di incidenti prima e il caos interno alla Curia poi hanno indebolito drammaticamente la credibilità dell’istituzione, con degli effetti di prima grandezza sulla chiesa mondiale, e specialmente nella chiesa cattolica politicamente più importante al mondo oggi, quella statunitense. I vescovi americani, sempre più allineati al Partito repubblicano, non hanno dimenticato la calda accoglienza riservata dalla Curia romana al neoeletto presidente Obama nel luglio 2009. Non stupisce che l’arcivescovo Viganò, che nel 2011 aveva denunciato lo stato di caos della Curia e per questo fu «rimosso-promosso» a nunzio apostolico a Washington, sia oggi tenuto in alta stima dalla gerarchia americana, a cominciare dal leader della chiesa americana oggi, il cardinale di New York Timothy Dolan.
La mancanza di leadership del Vaticano sulla politica globale del cattolicesimo, ma ancor prima sullo “stile politico” proprio della chiesa cattolica, ha lasciato liberi i vescovi americani di lanciare la più aggressiva iniziativa politica contro la Casa Bianca che si ricordi: una serie di marce, referendum locali, proteste e veglie contro l’amministrazione Obama tra luglio e ottobre 2012, cioè nei mesi centrali della campagna elettorale per le presidenziali di novembre. Tutto questo ha provocato non solo profonde spaccature ecclesiali a livello locale, ma anche un indebolimento dell’autorità del magistero della chiesa su questioni cruciali (lavoro, finanza, diritti sindacali, giustizia sociale e internazionale) per il contributo dei cattolici alla crisi sociale in corso.
La crisi di VatiLeaks dà conferma che il pontificato di Benedetto XVI ha sommato gli elementi di debolezza tipici di un Papa non italiano (tra cui l’incapacità di tenere a distanza politicanti speculatori dell’autorità papale) a quelli di una Curia ancora profondamente legata al peggio del sottobosco politico italiano. Sono mancati gli elementi di forza che potevano venire da un Papa non italiano (la percezione della globalità del cattolicesimo non solo dal punto di vista sociologico ma anche teologico) e da una Curia romana ancora molto italiana ma fornita di quelle qualità di alta amministrazione che la caratterizzava fino a non molto tempo fa (tra cui l’orgoglio, tipico degli ecclesiastici di scuola diplomatica, di servire l’istituzione e la comunità dei fedeli in modo nascosto e silenzioso). La chiesa cattolica globale si può comprendere molto meglio da Roma che da New York o da Berlino: a patto che si accetti la responsabilità di concepire la Curia romana non come una reliquia del passato, o peggio, un parco a tema, la Disneyworld del cattolicesimo, ma come uno di quegli elementi tipici del genio istituzionale del cattolicesimo che oggi deve rinnovarsi e riformarsi alla luce della nuova geografia culturale e spirituale della chiesa.
La Stampa 10.6.12
Francia, primo turno per eleggere l’Assemblée Nationale
Ballottaggi tra una settimana
Hollande a caccia di una maggioranza
Ps favorito, il rischio è di doversi alleare con i comunisti
di Alberto Mattioli
577 deputati. L’Assemblée nationale è la Camera Bassa del Parlamento
I candidati sono 6603 Gli elettori 46 milioni 12,5%
Lo sbarramento per passare al secondo turno è piutto.sto alto: il Front National di Marine Le Pen dovrebbe farcela in più di 100 circoscrizioni
François Hollande e il suo primo ministro, Jean-Marc Ayrault, l’hanno detto e ripetuto: se i francesi vogliono davvero «il cambiamento» promesso dal nuovo Presidente e promosso dal Partito socialista, devono dare all’uno e all’altro la forza per realizzarlo. Tradotto: dal rinnovo dell’Assemblée nationale, due turni oggi e domenica prossima, deve uscire una maggioranza assoluta per la gauche e possibilmente per il solo Ps. Certo, di tutti i capi di Stato democraticamente eletti del mondo, quello francese versione Quinta Repubblica dispone dei poteri più estesi. Ma è chiaro che una maggioranza risicata o, peggio ancora, una «coabitazione» con una maggioranza e un premier di destra renderebbero molto più difficile fare le riforme annunciate.
Il punto di questa tornata elettorale è tutto qui. I sondaggi danno per scontato che la Camera andrà a sinistra (il Senato, eletto da assemblee di notabili locali, lo è già, per la prima volta nella storia della Quinta): da 297 a 368 deputati, a seconda dei sondaggi, dove la maggioranza assoluta è di 289. Ma per Hollande sarebbe meglio che il Ps fosse autosufficiente. Andrebbe bene anche arrivare alla soglia fatidica con i Radicali di sinistra e i Verdi, entrambi già rappresentati al governo; un po’ meno dover fare i conti con i comunisti nemmeno ex del Front de gauche, cosa che obbligherebbe a concessioni sul programma.
La destra strepita contro il rischio di un monopolio socialista del potere. Ma l’Ump, il partito di Sarkozy, dà per scontato di perdere e pensa già al dopo, quando bisognerà decidere se il suo candidato in vista delle presidenziali del 2017 sarà il segretario, Jean-François Copé, o l’ex primo ministro François Fillon, nemici neanche tanto cordiali. C’è poi il rebus dell’atteggiamento da tenere al secondo turno nelle circoscrizioni in cui il ballottaggio sarà fra un socialista e un candidato del Front national. Ufficialmente, l’ordine di scuderia è «né con uno né con l’altro», ma molti notabili del partito, specie al Sud, sono tentati di fare accordi con il Fn per salvare le poltrone locali.
Il Front, appunto. Marine Le Pen ha fatto il botto alle presidenziali: 17,9%, meglio di suo padre. Sulla base di questi risultati, il Fn, ribattezzato per l’occasione «Rassemblement bleue Marine», dovrebbe piazzarsi primo o secondo in 116 circoscrizioni. Ma c’è l’inconveniente del maggioritario, che finora gli ha sempre impedito di eleggere dei deputati, tranne quando Mitterrand impose la proporzionale appunto per mettere il bastone dell’estrema destra fra le ruote di quella «repubblicana». La grande attesa è quindi se il Fn riuscirà ad avere almeno un deputato. Uno sarebbe già un avvenimento. Nella migliore delle ipotesi, saranno otto, troppo pochi per costituire un gruppo, abbastanza per sdoganare definitivamente l’estrema destra.
In tutto questo, ci sono alcune sfide che focalizzano l’attenzione. Il centrista François Bayrou, eterna promessa mai realizzata della politica francese, rischia di essere battuto nel suo feudo di Pau, dove sia il Ps che l’Ump gli hanno piazzato contro un candidato. Ségolène Royal vuole la poltronissima di presidente dell’Assemblée, ma rischia di non entrarci perché il cacicco socialista di La Rochelle, dov’è candidata, le sta facendo la fronda. C’è la curiosità di vedere come andrà a Carpentras la ventiduenne Marion Le Pen, pimpante nipotina di Jean-Marie e Marine e terza generazione politica della famiglia. E poi, naturalmente, c’è la madre di tutte le battaglie, quella di Hénin-Beaumont, dove l’ultrasinistro JeanLuc Mélenchon sfida l’ultradestra Marine Le Pen con contorno di polemiche, insulti e querele. In vantaggio la primo turno c’è Marine, ma prenderà meno voti del Ps e del Front de gauche sommati, e rischia di perdere al secondo. E perciò già tuona: «Ma è democrazia, questa? »
il Fatto 10.6.12
Sinistra, destra e Front National. Un ballottaggio per tre
Le legislative francesi sotto il segno dei candidati di Le Pen
di Gianni Marsilli
Parigi. E se la destra francese vincesse le legislative? Sarebbe coabitazione tra un presidente di sinistra e un primo ministro di destra, come fu tra Mitterrand e Chirac, e viceversa tra Chirac e Jospin. Tutti sopravvissero alla prova, uomini e istituzioni, ma in questi tempi di grande burrasca François Hollande, sovrano prigioniero nel suo palazzo, non avrebbe più i mezzi per condurre la sua politica, la Francia subirebbe un arresto cardiocircolatorio, il tavolo europeo verrebbe bruscamente rovesciato.
Può accadere? In teoria sì, in pratica è quasi fantapolitica. Le legislative dopo le presidenziali sono sempre un gioco stanco, quasi inerziale dopo la grande battaglia per l’Eliseo. Nessuno crede al ribaltone, men che meno i sondaggi. Vediamo gli ultimi di Ipsos per Le Monde: il blocco di sinistra dovrebbe avere tra i 292 e i 346 seggi, la destra parlamentare (Ump) tra 231 e 285, il Fronte nazionale tra 0 e 3.
LA MAGGIORANZA assoluta è di 289 seggi, Hollande può respirare tranquillo. L’interrogativo è un altro: se il Ps avrà da solo quella maggioranza o se avrà bisogno dei voti del Front de Gauche di Jean Luc Melénchon per governare.
La risposta verrà solo tra una settimana, dopo il secondo turno, ma il trend rilevato finora dice che i socialisti da soli non ce la faranno. Il tonitruante Melénchon, con i suoi probabili 20/30 deputati, sarà dunque decisivo in sede assembleare. In termini percentuali, la sinistra tutta insieme (PS, verdi, frontisti e altri) avrebbe circa il 44 per cento dei voti, la destra il 34, il Fronte nazionale il 15. Percentuali rassicuranti, fino a che le destre saranno due. Se saranno confermate tra una settimana, la sinistra avrà vinto ma non stravinto. Sul piano delle idee, le destre rimangono maggioritarie nel Paese.
Tra oggi e domenica prossima si gioca anche il destino parlamentare del Front national di Marine Le Pen, ancora privo di rappresentanza. Il doppio turno alla francese consente la presenza al secondo di più di due candidati all’elezione, a condizione che abbiano ricevuto il consenso di più del 12,5 per cento degli aventi diritto. Nella grande maggioranza dei casi al duello finale sopravvivono soltanto due contendenti, ma capita che ve ne sia un terzo.
La triangolazione quest’anno sarà possibile in una novantina di collegi, e in alcuni di questi (soprattutto nel sud est) il Front National è ben piazzato, a condizione che il riporto di voti sul suo candidato si faccia in maniera massiccia. In ogni caso i deputati marinisti saranno una sparuta pattuglia. Però quel partito avrà uno scranno che non ha mai avuto, e una inedita visibilità e possibilità di proposta legislativa. Se rimanesse fuori, la destra parlamentare per prima tirerebbe un respiro di sollievo.
Alle legislative, più che mai localizzate, c’è parecchia gente che gioca il suo futuro. Innanzitutto i ministri in carica. Hollande è stato chiaro, coloro che non risulteranno eletti dovranno dare le dimissioni: non si governa senza la legittimazione popolare. I ministri eletti, a loro volta, lasceranno il posto ai supplenti. I riflettori sono puntati su alcune battaglie particolarmente mediatiche, visti i personaggi in causa.
SULLA NIPOTINA di Jean Marie Le Pen, che a 22 anni tenta l’avventura a Carpentras, nel sud-est. Sul duello tra Marine Le Pen e Jean Luc Melénchon, che è andato a sfidarla proprio sulle sue terre di predilezione, nel nord che fu industriale. Su Ségolène Royal, che ha sloggiato il candidato socialista a La Rochelle per trovare lì, in riva all’Atlantico, il seggio parlamentare che le consenta di accedere alla presidenza dell’Assemblea. Battaglie assai sanguinose, ma molto locali. Di dibattiti che volano alto, i francesi in questi mesi ne hanno avuto a sufficienza.
l’Unità 10.6.12
Truppe Usa. Più suicidi che morti sul campo
di Virginia Lori
È un bilancio peggiore di quello della guerra in Afghanistan, uno dei fronti più impegnativi per le truppe Usa. Uccisi sul campo, ma non dal nemico. Dal primo gennaio 2012, ogni giorno, un militare americano si è tolto la vita: tra le truppe in servizio attivo, si sono registrati 154 suicidi in 155 giorni, almeno fino al 3 giugno scorso.
Una strage silenziosa, senza funerali d’onore, con mille ragioni e nessuna tale da arrivare alla ribalta della cronaca. Se non il numero da brivido: i suicidi sono stati quest’anno il 50 per cento in più dei militari uccisi nello stesso periodo in combattimento in Afghanistan. E la cosa preoccupa in particolare perchè la tendenza è in aumento. Anzi, si è impennata: più 18% rispetto al 2011, più 25% in riferimento al 2010, e del 16% nel confronto con il 2009, sinora considerato l’«annus horribilis» per il numero di suicidi tra le truppe.
«PROBLEMA URGENTE»
Il tragico fenomeno è preso molto sul serio dal Pentagono e dai servizi per i veterani, che stanno tentando una serie di interventi di aiuto psicologico e medico per i militari che tornano dai luoghi di combattimento. Lo stesso segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, ha di recente inviato un memorandum ai dirigenti militari e civili del ministero in cui definisce i suicidi «uno dei problemi più urgenti e complessi», e sottolinea la necessità di «continuare a lavorare per l’eliminazione di qualsiasi giudizio o discriminazione nei confronti di chi soffre di stress post-traumatico e altri problemi mentali».
Tra i più colpiti dai suicidi sono i soldati dell’esercito, seguiti da quelli dell’Air Force e della Marina, mentre una diminuzione dei casi seppure parziale si è registrata tra i marines. Gli stessi esperti faticano a capire il perchè dell’incremento generale della tendenza. Tra le varie motivazioni, lo stress prolungato a causa di più di un dislocamento al fronte, problemi post-traumatici, uso errato di farmaci, problemi economici al ritorno in patria. Eppure le cifre riflettono solo i suicidi tra i militari in servizio attivo e non riguardano i reduci, tra cui pure si rilevano elevatissimi tassi di suicidio.
l’Unità 10.6.12
La primavera delle donne arabe
di Silvia Costa
A Bruxelles abbiamo avviato un percorso sulle condizioni delle maghrebine
In autunno avremo un quadro chiaro sull’andamento dei processi democratici
LE DONNE IN TUNISIA, EGITTO, LIBIA E MAROCCO SONO STATE PROTAGONISTE ATTIVE DELLA PRIMAVERA ARABA. UN PROCESSO A CUI GUARDARE CON SPERANZA ma anche con preoccupazione, alla luce delle drammatiche notizie dalla Siria.
Per questo a Bruxelles, con un incontro della commissione Donne del Parlamento europeo con le rappresentanti delle donne maghrebine abbiamo avviato un percorso che da qui al prossimo autunno ci darà un quadro chiaro sull’andamento dei processi democratici a partire dalla condizione delle donne, in una fase promettente ma anche delicata.
A questo primo confronto, avvenuto con rappresentanti di Ong come la libica Souad Wheidi, impegnata nell’assistenza e denuncia della violenza sessuale usata come arma impropria contro donne e giovani dissidenti, e di giornaliste come la tunisina Sondès Ben Khalifa, seguirà a ottobre un incontro a Tunisi. Sulla base di queste audizioni, in qualità di relatrice, costruirò la relazione che sarà portata in Aula a Strasburgo.
L’Ue ha assunto l’impegno a rafforzare i partenariati e i processi democratici e di sviluppo, ma senza l’attiva partecipazione delle donne non ci saranno né democrazia né sviluppo durevoli. È quindi indispensabile capire come e dove le donne saranno coinvolte in questa nuova fase politica.
Sono varie le misure di cui l’Ue si sta dotando, tra cui nuovi strumenti di vicinato e una serie di specifici protocolli e task force bilaterali. È in questo orizzonte che vogliamo aprire una nuova stagione della cooperazione politica e istituzionale tra le donne al di qua e al di là dal Mediterraneo, a partire dal rispetto dell’autonomia delle scelte istituzionali e politiche nonché del pluralismo religioso e culturale.
Il 2011e i primi mesi di quest’anno hanno segnato alcune importanti tappe: la grande partecipazione delle donne alle prime elezioni libere, l’avvio di processi di riforma costituzionali, il crescente ruolo delle Ong. Vi sono però anche punti d’ombra: la scarsa presenza di donne nei parlamenti e nei governi, il riferimento alla sharia nelle costituzioni di alcuni paesi, la differenza tra la condizione delle donne in aree urbane e rurali sotto il profilo dell’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari e sociali, al lavoro e al credito.
Iniziative come l’appello delle donne arabe dello scorso 8 marzo segnalano una forte volontà di partecipazione per ottenere parità di diritti, segnalare i tentativi di esclusione, denunciare le forme di violenza pubblica e privata, nonché di chiedere un cambiamento delle leggi discriminatorie soprattutto in ambito civile e familiare. Nei prossimi mesi dal Parlamento europeo ascolteremo, ci confronteremo, tenteremo di capire come rafforzare queste aspirazioni. Dal sostegno ai processi democratici in Nord Africa può venire nuova linfa anche per le nostre democrazie in crisi di leadership e di consenso, ma non c’è democrazia senza un pieno ed equo coinvolgimento delle donne. Per questo, in un mondo sempre più globalizzato, sostenere i processi in atto in Nord Africa equivale in parte a sostenere noi stessi.
Corriere 10.6.12
Piazza Tahrir pericolosa per le donne, così vacilla il simbolo della rivoluzione
di Cecilia Zecchinelli
Che cosa è successo a piazza Tahrir, il simbolo del Risveglio arabo, l'icona della Rivoluzione egiziana, il luogo franco dove nei 18 giorni gloriosi che portarono al crollo del regime, oltre un anno fa, donne e uomini, cristiani e musulmani, religiosi e laici lottarono insieme, poi celebrarono uniti la loro vittoria? Da mesi quella brutta spianata nel centro del Cairo che voleva diventare un modello per il Nuovo Egitto è usata solo saltuariamente dai manifestanti, di solito è invasa da venditori ambulanti, balordi, trafficanti. E da settimane, in un continuo e brutto crescendo, è diventata off limits per le donne. Assalti e tentativi di stupro sono frequenti, il passaparola è ormai per tutte, velate o meno: «evitate Tahrir soprattutto se è buio».
Due sere fa, dopo l'ennesimo attacco a una ragazza da parte di 200 uomini non identificati, c'è stata una manifestazione per dire basta a quella vergogna. Ma le 50 manifestanti, nonostante il servizio d'ordine di qualche decina di maschi, sono state nuovamente aggredite. Fuggi fuggi tra le auto e le strade vicine, panico, urla, poi le donne si sono salvate in un edificio. Furiose e stravolte. La gente e i media locali si chiedono perché questa orrenda violenza, soprattutto chi ci sia dietro. Nel caos dell'Egitto che tra pochi giorni sceglierà il suo nuovo raìs, le teorie si moltiplicano: residui del vecchio ordine che vogliono dimostrare il bisogno di «ordine», delinquenti comuni, integralisti sessuofobi.
L'unica certezza è che la scomparsa della polizia dalle strade seguita alla fine dell'era Mubarak ha lasciato che il peggio emergesse in questo Paese una volta sicuro anche per le donne, almeno nei luoghi pubblici. La speranza è che se la mitica Tahrir di quei 18 giorni non era l'Egitto, se l'illusione che i giovani di Facebook avessero preso la leadership della società s'è rivelata infondata, anche ora la piazza non rappresenti l'intero Paese. Che le violenze sessuali si concentrino proprio lì per il valore simbolico del luogo e che gli assalti sessuali seguano una regia politica anti-rivoluzionaria, piuttosto che i nuovi sviluppi della società egiziana. Ma questa è appunto una speranza. E non tutti la condividono.
La Stampa 10.6.12
Tra i giovani tunisini in partenza per il Jihad in Siria
Delusi dalla rivoluzione, hanno un solo credo: l’Islam
di Domenico Quirico
L’uomo è tagliente. Dietro l’apparente cortesia delle sue frasi, nel timbro della voce, dietro la sue risatine false si sente lo stesso disprezzo che ho visto negli occhi dei giovani che entrano nelle moschee radicali, sulla via della seta come nel deserto: disprezzo per l’occidentale, per il bianco, il kufar, il miscredente. E insieme l’orgoglio per il rifiuto di tutto ciò che io, noi siamo. Che per loro è già una vittoria. Il quartiere Balancine è un labirinto che non finisce mai. Mi rendo conto, nel buio, che potrei non uscirne mai, se solo la mia guida lo decidesse: anche se il centro di Tunisi gli alberghi i ristoranti i ministeri sono a due passi. Nella strada orribili cani dalle orecchie da pipistrello frugano, con la prudenza di chi aspetta la sassata, nei mucchi di rifiuti.
Ecco la casa, siamo giunti. Barbagli di bianco, logoro e frusto, lo sporco pudicamente coperto dal buio. Di fronte un caffè. Ragazzi bivaccano avvolti nella pigrizia come grossi insetti in una ragnatela. Alcuni sono ubriachi, schiamazzo, un dirugginio di risa squarciate e di strida. La nostra guida li guarda, come se fossero semi caduti in una terra secca, che prima o poi bisognerà gettar via: c’è molto lavoro ancora da fare per arrivare alla santità. Non c’è luce, la scala si arrampica scivolosa, con gradini ripidi, un tanfo di zoo, un misto di segatura, urina, ammoniaca. Per quanto lavassero, quell’odore sempre ristagnerebbe, se lo portano addosso i muri i gradini come l’odore del fumo di sigaretta. Zaffate di caldo ti assalgono, malgrado la sera; il calore sembra impregnato, custodito nei muri e nelle stanze. La guida si arrampica svelto, sicuro nonostante il buio, al terzo piano; dagli appartamenti arrivano vampate di voci improvvise come un’invasione di insetti. Un motore si accende con un battito irregolare, sembra un animale rimasto senza fiato.
Anche nella stanza c’è solo la luce fioca di una lampadina che pende dal soffitto, una luce da cripta. Una tenda nasconde, male, una toilette arrugginita e sporca. È quasi tutta occupata, la camera, da un divano grande e basso che serve evidentemente anche da letto. Yusef, il ragazzo che siamo venuti a incontrare, seduto con le gambe incrociate, sembra in ascolto di qualcosa, uno scoppio, uno scricchiolio, un bisbiglio. Pare più giovane dei suoi 22 anni, ma qui l’adolescenza tramonta di colpo, come il sole. Vent’anni bastano a plasmarti la faccia, la dolcezza svanisce subito con l’esperienza. E la colpa.
Yusef sta per partire: per il Jihad, in Siria. Ha dentro la febbre, come alla soglia di una nuova vita, come prima di dichiararsi a una donna, o commettere il primo delitto. È salafita, come l’uomo che mi ha portato da lui. Sono venuto in Tunisia per cercare di capire questo lato estremo dell’Islam.
Nella piccola Tunisia: che ha inventato tutto, sperimentato tutto, la primavera rivoluzionaria e l’Islam al potere, dove i laici, gli increduli, sanno ancora scambiare con gli islamisti colpo su colpo. Dove sta già salendo, verso l’ebollizione, l’alambicco di un nuovo passaggio.
Bisogna, per questo, lasciarsi dietro gli orizzonti dell’islamismo «pragmatico», desacralizzato dal dio Potere, la socialdemocrazia islamista dei Fratelli Musulmani, di Ennahda, che spesso, dopo le rivoluzioni arabe, ci siamo inventati per non avere paura. Bisogna camminare su tracce che non comprendiamo più, che abbiamo dimenticato, quelle dell’Assoluto, il vasto territorio del Pentimento e del Desiderio struggente.
Yusef che andrà in Siria per combattere un altro regime empio, quello di Assad, non è solo. Altri ragazzi tunisini sono già partiti. Il reclutamento in alcune moschee radicali della città, poi un biglietto aereo per la Turchia e l’armata dei ribelli «dove ci sono altri fratelli, tanti, egiziani libici algerini». Ancora le brigate internazionali islamiche, come in Afghanistan, come in Iraq, come in Bosnia. Yusef sembra adagiarsi sulla sua fragilità come su un cuscino, parla senza guardare, come se i ricordi li evocasse per se stesso, per tenerli ancor caldi col suo fiato un’ora, un minuto, prima che cominci il gelo: la miseria senza scampo né remissione, la scuola, la piccola delinquenza per tirare avanti, la rivoluzione. Era uno di quei «teppisti» dei quartieri poveri che l’hanno tenuta dritta, la rivoluzione, nelle strade, sotto i colpi dei manganelli, nel fumo assassino dei lacrimogeni. Noi non li abbiamo citati, preferivamo i ragazzi di Internet, i figli della borghesia arricchita dai traffici del presidente Ben Ali, che la rivoluzione l’hanno gustata a parole, per noia e per snobismo.
Mai, nell’ora in cui siamo stati con lui, abbiamo avvertito una punta di amore che sempre si prova per ciò che si è perduto o si sta per perdere, una casa, una donna, un dolore perfino. Non sembra che l’Islam radicale renda la vita un circolo vizioso, un enorme movimento di antitesi e di negazioni. Ci vuole coraggio per questo morire nei cuori, cancellarsi nella memoria. La polvere non è ancora il nulla e deve essere dispersa. Ma non hai paura di precipitare in una guerra crudele, che in fondo non è tua, spietata, senza addestramento? Di punto in bianco, senza preavviso, il ragazzo si anima come se, pronunciando inavvertitamente una parola magica, avessimo aperto la porta della grotta. «Tu non sai niente: paura, coraggio... la mia forza non è nelle armi, è dentro. Io sono uno strumento. Noi musulmani eravamo diventati come un’erba che non può vivere senza arrampicarsi su qualcos’altro, dipendevamo dalle cose che ci date voi, che ci insegnate voi. Ora è la nuova rinascita. Aver paura dell’esercito di un tiranno? Non vedi che Dio sta già provvedendo? Dio ha confuso la mente degli americani, sì, gli americani ci aiutano, armano, finanziano, sono diventati lo strumento della santa causa».
Chissà se sa che due tunisini, ragazzi come lui, sono stati catturati con armi e esplosivi qualche giorno fa dai siriani e esibiti in televisione? Forse sì. Ma poco importa. L’uncino della sicurezza è sceso in fondo a lui, si è agganciato e ora non si stacca più. Non lascia che abbia paura. La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana, ovunque, sarà sempre la ricerca della santità.
I salafiti si sono riuniti il 20 maggio a Kairouan, neri stendardi, esibizioni di lotta e cavalcate selvagge, una dimostrazione di forza. Non sono molti, venti, trentamila, ma incombono. Voci, rumori leggende ne moltiplicano la forza: che, ad esempio, vicino a Gafsa, dove la rivoluzione è sbocciata, si addestrino alla guerra, intoccabili per soldati e gendarmi. Fantasie, quasi certamente. Sono veri, invece, i salafiti in tuta mimetica che pattugliano il parco dell’amore. È un luogo di Tunisi che tutti i ragazzi conoscono, dietro l’orribile albergo che uno dei figli di Gheddafi stava ristrutturando nel lusso e che resterà maceria di cemento. Qui i giovani della capitale, al riparo degli alberi, si scambiavano i timidi segni di un erotismo pudico anche ai tempi laici e sguaiati di Ben Ali. Ora la polizia della virtù salafita fa incursioni fragorose, ronde di voyeurs «benedetti» disturbano gli amanti impuri.
A Jendouba, a Sidi Bouzid, hanno fatto peggio, assaltato e bruciato i bar dove si vendeva alcol. Ennahda, al potere ma già indebolita dalla delusione, finge di non vedere. Un po’ perché non ha la forza di affrontarli a viso aperto, un po’ perché gioca a servirsene: vedete, dice ai laici, ai liberali, all’Occidente, o noi o loro.
Piccoli calcoli, tattica di politicanti. Parlando di Dio con questi pragmatici che tanto ci piacciono, ti pervade l’atroce languore dell’abitudine che ben conosciamo. Come in Occidente subito ti sfiora il pensiero che il loro è un Dio troppo accessibile, troppo facile da accostare. Non illudiamoci, il futuro è dei salafiti, gente che pensa che un solo gesto di audacia basti a modificare l’idea stessa del possibile, che vive una guerra per scelta e non per necessità e quindi una guerra che può sempre ricominciare, è sempre alle porte.
Anche Ihmed Zouhari è giovane, ha occhi chiari, di acciaio, tanto fermi e risoluti che ti pare di sentirti passare due mani sulle spalle. È uno dei capi del Partito della rinascita, che ha sede nel malfamato quartiere della Porta verde. Hezb el Tahrir, dicono, ha struttura di setta, evita la luce, pratica una selezione ossessiva e l’entrismo nei gangli del potere e della forza, odia i Fratelli Musulmani e chi mescola l’Islam con la democrazia
«Abbiamo sperimentato tutto, liberalismo dittature nazionalismo socialismo. Cosa abbiamo ottenuto? Solo povertà e corruzione. Resta l’Islam, totale integro puro. Ecco dove i partiti come i Fratelli Musulmani sbagliano: a mescolare l’Islam con altro, un po’ di democrazia, un po’ di nazionalismo, magari un po’ di comunismo. Dipendono da alleati che strappano concessioni sulla costituzione, la vita sociale, le leggi civili. Su tutto. Invece occorre un cambiamento radicale, creare un sistema unico, uno Stato retto dalla dottrina islamica, dal Corano, e poi riunire tutti i Paesi arabi e musulmani sotto un’unica bandiera.
«Era così prima del complotto franco-inglese. Non è un sogno, è realtà: di più, è un dovere, come la preghiera ogni giorno. Avremo un califfo assistito da un consiglio, ci saranno delegati che si occuperanno dei vari settori dello Stato, che controlleranno che il califfo rispetti il mandato divino. Governare con l’Islam ed estenderlo al mondo. E poi giudici che il califfo non potrà revocare».
Gli opponiamo una diga che sembra solida, il dubbio cioè che una dottrina nata secoli fa possa affrontare la modernità. «Voi non capite, la vostra democrazia va bene per voi, un mondo dove la gente non può mettersi d’accordo su un modo di governare, dove l’ideologia serve solo a prendere il potere e varia a seconda dell’utile. Qui ci possono essere partiti ma solo nell’Islam. Dite che è Medioevo? Vi chiedo: forse che l’uomo nel frattempo è cambiato?».
l’Unità 10.6.12
«Israele, il popolo dei lager non può costruire dei lager»
Tel Aviv dà il via libera ai centri di detenzione per stranieri irregolari. Parlano Shulamit Aloni, Yael Dayan, Zeev Sternhell, Yaariv Oppenheimer...
di Umberto De Giovannangeli
Un popolo che ha conosciuto l’orrore della deportazione forzata, un popolo che sa cosa significhi guardare il mondo da dietro il filo spinato, questo popolo non può, non deve smarrire la sua memoria collettiva e fondare la propria sicurezza sui Muri e i campi di detenzione». Le parole di Shulamit Aloni figura storica del pacifismo israeliano, più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres danno conto di una vicenda drammatica che va oltre la dimensione politica e tocca le corde, sensibili, della memoria e dei sentimenti. Decine di migliaia di immigrati irregolari presenti oggi a Tel Aviv e in altre città israeliane saranno trasferiti presto in campi di detenzione in costruzione e in «città di tende». Ad annunciarlo, nei giorni scorsi, è stato il ministro dell’Interno israeliano, all’indomani della sentenza del Tribunale distrettuale di Gerusalemme che ha autorizzato l’espulsione di circa 1.500 sud-sudanesi. Interpellato dalla radio pubblica, il ministro Eli Yishai ha dichiarato che «ci sono ancora circa 15 mila persone provenienti dal Sudan del nord e circa 35 mila dall’Eritrea». «Sono prossimi all’espulsione, che avvenga con il loro consenso o meno ha aggiunto questo numero rappresenta una minaccia per l’identità ebraica». Il governo ha quindi deciso di trasferire gli immigrati privi di permesso di soggiorno in centri di detenzione in costruzione nel sud del Paese, mentre nel frattempo, «abbiamo intenzione di creare città di tende».
Stando ai dati del ministero, sono circa 60 mila gli africani irregolari presenti nel Paese, per lo più provenienti da Sudan ed Eritrea. «Spero che nei prossimi mesi riusciremo a trasferire tutti gli infiltrati nei centri di detenzione e consentire ai cittadini israeliani nel sud di Tel Aviv e altrove di vivere in modo appropriato... in tranquillità e sicurezza», ha concluso. Yishai, denuncia il leader di Peace Now (la storica organizzazione pacifista israeliana) Yaariv Oppenheimer, alimenta la xenofobia, strumentalizzando il malessere della gente di quartieri periferici nei quali il governo «ha ammassato e abbandonato» il grosso degli irregolari o evocando singoli episodi criminali per additare un’intera comunità. Israele sta anche costruendo un muro di sicurezza lungo i 240 chilometri di frontiera con l’Egitto; il progetto dovrebbe essere completato entro la fine dell’anno. La pronuncia del tribunale israeliano allarma i tanti sudsudanesi presenti nel territorio. «Io davvero non so cosa fare», dice Khaled, uno di loro, che vive con i suoi due figli in Israele dal 2007. «Ci vogliono far tornare in luogo pericoloso. Ho paura di tornare nel mio Paese con i bambini: come faccio a garantire loro un futuro lì?». Anche le Ong che avevano presentato ricorso opponendosi al provvedimento si sono dette «rammaricate per la sentenza» e «preoccupate per la sicurezza di coloro – soprattutto i bambini – che sono costretti a rientrare in luoghi pericolosissimi». Secondo fonti governative ogni mese entrerebbero illegalmente in Israele circa 1200 migranti africani, quasi sempre con l’aiuto prima di beduini egiziani e poi di quelli israeliani. Gli africani che riescono a penetrare peraltro sono quelli che sopravvivono al fuoco della guardia di frontiera egiziana. Solo nel 2007-08 sul lato egiziano del confine sono stati uccisi una quarantina di africani. Lo scorso anno una trentina. «Il numero delle vittime è molto più alto dice Sigal Rosen, portavoce della Ong Hotline for Migrant Workers sono convinta che tanti altri migranti siano stati colpiti a morte ma non riusciamo a saperlo perché le autorità egiziane non lo dicono. E non dimentichiamo quelli che vengono feriti o arrestati».
I migranti catturati poi in Israele tranne un numero limitato di quelli provenienti dal Darfur vengono rispediti in Egitto dove, dopo un processo sommario e una detenzione durissima sono obbligati a tornare nei loro Paesi d’origine, nella migliore delle ipotesi. «Campi di detenzione, espulsioni di massa, aggressioni agli immigrati: tutto ciò è indice di un imbarbarimento sociale e culturale che non può essere in alcun modo giustificato adducendo la crescente insicurezza nei sobborghi di Tel Aviv o laddove più si concentrano le comunità di immigrati», dice a l’Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle minoranze, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. Le preoccupate considerazioni dell’ex parlamentare laburista trovano concorde Zeev Sternhell, uno dei più autorevoli storici israeliani: «È come se per trovare una coesione interna Israele debba individuare una minaccia esterna, contro cui fare fronte: lo sono i palestinesi, ed ora anche i sudanesi. Ma questo viversi in una sorta di trincea permanente, una trincea mentale oltre che materiale, finisce per alimentare un’aggressività collettiva che rischia di minare i principi stessi della nostra democrazia».
l’Unità 10.6.12
Israeliani, ebrei, razzisti e i raid anti-immigrati
di Moni Ovadia
UN PAIO DI SETTIMANE FA UMBERTO DE GIOVANNANGELI DAVA CONTO SU QUESTO GIORNALE DI ATTACCHI RAZZISTI SCATENATI IN ISRAELE CONTRO IMMIGRANTI AFRICANI. Gli attacchi ai limiti del pogrom hanno avuto luogo, incredibile a udirsi, nei sobborghi di Tel Aviv, la laicissima città della Israele più colta e moderna, città della movida, del buon vivere all’occidentale.
La teppaglia che ha scatenato i raid contro esseri umani, colpevoli solo di essere quello che sono, era composta da oltranzisti della destra israeliana, laica e religiosa. Anche i leader della odiosa campagna xenofoba sono israeliani, non arabi, quindi ebrei. La domanda che si impone con urgenza è: «Si può essere israeliani, ebrei e razzisti?» La risposta è: «Ma certo! Eccome!». Qualche lustro fa una simile domanda e una simile risposta sarebbero state scandalose in quanto tali, si sarebbero trovati esponenti autorevoli delle comunità ebraiche della diaspora (e si trovano ancora) pronti a lanciare anatemi contro chi avesse osato porre simili domande e dare simili risposte. Il malcapitato sarebbe stato immediatamente marchiato con l’infamante epiteto di antisemita, magari con un surplus di infamia: «Schifoso antisemita!». In tempi più recenti qualche anima bella, di fronte a manifestazioni di razzismo da parte di ebrei, con accenti addolorati e incredulo stupore diceva (e ancora dice ): «Ma come??? Proprio loro??? Con quello che hanno passato???».
Ebbene sì proprio noi, con quello che abbiamo passato, abbiamo i nostri razzisti, i nostri xenofobi, i nostri fascisti e se andiamo avanti di questo passo avremo anche di peggio, ( mi astengo dalla definizione per il rispetto che devo a quelli fra i nostri che furono annientati e ridotti in cenere). Come è potuto accadere? È facile capirlo. Gli ebrei sono solo esseri umani come tutti gli altri, con le loro miserie e le loro glorie. Pertanto è bastato lasciarsi andare con cupidigia all’idolatria della terra perché sorgessero fra gli ebrei i nazionalisti fanatici e religiosi e dunque razzisti, e xenofobi.
L’eccellenza ebraica nel corso di 30 secoli non è mai stata dovuta ad un supposto ed equivocato talento dell’ebreo in quanto tale, ma è nata da condizioni socio esistenziali, da scelte culturali e dal fatto di essere un popolo di meticci avventizi che seppero colonizzare il cielo con il Dio universale che a sua volta li elesse perché erano schiavi e stranieri, sbandati e «poco raccomandabili». Gli ebrei ebbero la folgorante intuizione di aggregarsi intorno ad una patria mobile, la Torah. E tutte le volte che hanno tradito questa vocazione sono cominciati i guai. Non quelli che vengono dall’esterno, ma dall’interno. E quelli sono i più insidiosi.
Corriere 10.6.12
Una terra due popoli
Quello Stato «ineguale» fra il Giordano e il Mare
A Ramallah si attenua la fiducia nel futuro di una Palestina indipendente
di Sergio Romano
Negli ultimi decenni dell'Ottocento, quando i primi coloni ebrei cominciarono ad arrivare in Palestina, Ramallah era spesso l'ultima tappa del loro viaggio, il luogo in cui avrebbero trascorso la notte per ripartire all'alba e alzare infine lo sguardo sulle mura di Gerusalemme accese di rosa nella luce del tramonto. La piccola città era allora un fiorente centro agricolo e aveva una importante comunità cristiana. Oggi i cristiani sono pressoché scomparsi, Ramallah conta 25 mila abitanti, ha un grappolo di piccoli grattacieli, un elegante albergo costruito da una società svizzera e un palazzo presidenziale (la Mukata), lungamente occupato da Yasser Arafat, costruito e ricostruito sulla vecchia sede di un edificio ottomano e di un carcere britannico. È il centro politico-amministrativo dell'Anp (Autorità nazionale palestinese) e sarebbe a un tiro di schioppo da Gerusalemme se due varchi di frontiera — il primo israeliano, il secondo palestinese — non rendessero il viaggio un po' più lungo del necessario.
Da qui il governo presieduto da Salam Fayyad amministra una parte dei territori occupati con un corpo di pubblici dipendenti composto da circa 150 mila persone. I risultati della sua politica economica sono stati positivi. Ha ridotto le spese, ha gestito con prudenza e precisione il bilancio dello Stato, ha favorito la nascita di nuove imprese, ha risvegliato gli «spiriti animali» di una società che ha il bernoccolo degli affari. La disoccupazione si aggira intorno al 18%, ma sale mediamente al 20% quando è sommata a quella molto più alta della Striscia di Gaza (27%). Potrebbe andare molto meglio, mi dicono i miei interlocutori, se Israele non si fosse impadronito dell'acqua, se non avesse di fatto il monopolio del turismo e non avesse riservato ai suoi coloni le terre più fertili della valle del Giordano.
Parlo anzitutto con Ghassan Khatib, direttore del Centro governativo per i mezzi d'informazione e condirettore delle attività editoriali di «bitterlemons», un'associazione israelo-palestinese che promuove «un civile scambio di vedute sul conflitto arabo-israeliano e su altre questioni medio-orientali». Khatib rifiuta la violenza, crede nella soluzione dei due Stati, ma attribuisce al governo di Benjamin Netanyahu lo stallo dei negoziati e non vede per l'Anp altra possibilità fuor che quella di bussare ancora una volta alla porta dell'Onu per ottenere un seggio, come Stato osservatore, nell'Assemblea generale. Non avrebbe il diritto di voto, ma potrebbe accedere ai tribunali internazionali e se ne servirebbe per denunciare i pregiudizi inflitti ai palestinesi dall'occupazione israeliana. Dopo il fallimento dell'ultimo tentativo, bloccato dal veto americano in Consiglio di sicurezza nel settembre dell'anno scorso, il governo sta lavorando a un progetto di risoluzione e spera di ottenere questa volta un sostegno «qualitativo», vale a dire le firme di tutti i membri dell'Unione europea.
Domando a Khatib se l'iniziativa verrà avviata nella sessione di settembre e mi risponde che Abu Mazen e i suoi consiglieri non hanno ancora deciso i tempi dell'operazione. Suppongo che si chiedano se convenga agire prima o dopo il risultato delle elezioni americane. Se il vincitore fosse Obama, il secondo mandato gli consentirebbe forse di fare ciò che non era elettoralmente opportuno un anno prima. Nella conversazione raccontata in un articolo precedente, un promotore israeliano del dialogo, Daniel Seidemann, mi ha ricordato che Netanyahu, in materia d'insediamenti, ha pubblicamente umiliato Obama costringendolo a un indecoroso passo indietro. Confermato alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti sarebbe forse tentato di regolare un vecchio conto.
Come ingannare il tempo in attesa delle elezioni americane e di altre vicende internazionali, fra cui la politica del Cairo dopo il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane? La risposta che ho più frequentemente ascoltato nelle mie conversazioni di Ramallah è: resistenza non violenta. In una intervista a una pubblicazione economica giordana (Jordan Venture del maggio 2012), Munib al-Masri, un ricco finanziere e uomo politico palestinese, ha detto che occorrono manifestazioni non violente e forme di disobbedienza civile. Vi sono state alcune manifestazioni, in effetti, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, ma hanno avuto luogo sulla scia delle rivolte arabe. Quelle di Gaza, particolarmente numerose (fra 10 mila e 20 mila dimostranti), erano dirette contro la dirigenza politica e sono state duramente represse; mentre quelle di Ramallah e altri centri cisgiordani sono state trattate dall'Anp con una certa benevolenza. Ma Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (un istituto specializzato in sondaggi) ritiene che le rivolte arabe non abbiano giovato alla causa palestinese. Preoccupato dall'instabilità delle regione, il governo israeliano preferisce lo status quo mentre quello palestinese dice di volere tornare all'Onu, ma non dà prova di grande intraprendenza. Gli avvenimenti degli scorsi anni hanno avuto l'effetto positivo di rendere inutile e indesiderabile il ricorso alla violenza, ma la «non violenza» e la disobbedienza civile sembrano essere soltanto artifici retorici, più proclamati che praticati. Il risultato, secondo Shikaki, è una generale apatia, una sorta di navigazione senza rotta verso l'inevitabile approdo dello Stato unico. L'Anp dichiara di volere la riconciliazione con i fratelli separati di Gaza, ma il gruppo dirigente di Hamas, se le elezioni presidenziali egiziane fossero vinte dal candidato della Fratellanza musulmana, sarebbe probabilmente attratto da un rapporto speciale con l'Egitto. Abu Mazen dichiara che occorre tentare ancora una volta la strada dell'Onu, ma con programmi non ancora precisati e con esiti incerti. Come abbiamo constatato altre volte in passato, il provvisorio, nelle vicende palestinesi, rischia di durare molto a lungo. Quello che sta nascendo di fatto, fra il Giordano e il mare, è uno Stato sui generis in cui israeliani e palestinesi vivono in zone separate, con status differenti, all'interno delle stesse frontiere e hanno relazioni simili per certi aspetti ai rapporti ineguali che si erano stabiliti nell'Impero russo fra gli ebrei del «recinto» (la zona d'insediamento fra Ucraina, Bielorussia, Polonia) e il resto della popolazione russa nell'impero zarista. Le parti naturalmente si sono rovesciate: gli ebrei vestono i panni dei russi, i palestinesi quelli degli ebrei.
2-continua la prima puntata è stata pubblicata il 7 giugno (è disponibile su “spogli” nella data della sua uscita)
Internazionale n.952 e Ha’aretz 8.6.12
Israele è razzista con gli immigrati neri
di Gideon Levy
qui
http://www.scribd.com/doc/96579010
Internazionale n.952 e Der Spiegel 8.6.12
Armi segrete per Israele
qui
http://www.scribd.com/doc/96579133/Armi-segrete-per-Israele
Corriere La Lettura 10.6.12
I populisti che arruolano Dio
Cresce in Europa l'uso politico della religione da parte di leader che sfruttano il disorientamento di fronte alla crisi delle nazioni
di Marco Ventura
Nella nostra età secolare, la fonte della sovranità ha smesso di essere in Dio; Dio non è più sovrano. Chi ne ha preso il posto? Il popolo. Il popolo sovrano. Nei Paesi in cui l'avvento della sovranità popolare ha coinciso con la liberaldemocrazia, il rapporto tra popolo e Dio si è riscritto in termini di libertà religiosa e di separazione tra Stato e Chiese. Per le Chiese la separazione è la miglior garanzia contro l'ingerenza statale; per gli Stati la separazione è la miglior garanzia contro l'ingerenza clericale. Alcuni Paesi, come la Francia e gli Stati Uniti, hanno introdotto la separazione chiamandola col suo nome; altri hanno teso ad essa riducendo le Chiese di Stato ad un ruolo simbolico, come nel Regno Unito e in Scandinavia, o moderando i privilegi delle Chiese forti, come in Germania e in Spagna.
In un Occidente spaventato dal mondo globale, la crisi del modello laico-separatista ha coinciso con quella della liberaldemocrazia. Nuove forme di alleanza tra Dio e popolo si sono delineate. Il cambiamento di paradigma si è avvertito particolarmente nei partiti e movimenti politici che hanno costruito sul populismo la loro affermazione. Nell'ambito del progetto «Religio West», diretto dal politologo Olivier Roy, un seminario internazionale presso l'Istituto universitario europeo di Firenze ha indagato il fenomeno attraverso l'analisi di alcuni casi nazionali.
L'affacciarsi di partiti populisti nell'Europa degli anni Ottanta fu una risposta al ridimensionamento della sovranità statuale, all'indebolimento delle nazioni, all'insicurezza delle Chiese. Alcuni leader intuirono che si apriva un nuovo spazio a chi avesse il coraggio di parlare al popolo. Il populismo, precisa il sociologo francese Jean-Louis Schlegel, non è una dottrina, ma una strategia degli attori politici in tempi di crisi. Le Pen in Francia e Haider in Austria vi ricorsero con abilità. Solleticarono le frustrazioni, ricrearono un popolo e additarono un nemico: le élite e gli immigrati. Dio rimase ai margini del populismo tra anni Ottanta e Novanta. Quando vi entrò, come nel caso della Lega, fu per rafforzare l'identità di un popolo padano tradito da una Chiesa di Roma non meno ladrona della politica romana; oppure, come in Turchia, per risvegliare una nazione islamica stanca di una laicità governativa e militare.
Soltanto dopo l'attentato alle Torri gemelle, i leader populisti arruolarono Dio alla loro demagogia. Prese forma una religione del popolo fatta di identità e simboli, di valori e tradizione. Il Dio del popolo presuppone «civiltà» e «culture» contrapposte, demarca il «noi» e il «loro». Siamo cristiani perché loro sono musulmani. Siamo cristiani perché lo siamo sempre stati. Questo Dio, osserva il politologo israeliano Dani Filc, funziona perché esclude e perché include: unisce il popolo escludendo il nemico e il diverso, ma al contempo promette inclusione a chi sia disposto ad entrare nel recinto, a riconoscersi nella nazione; persino a chi non pratica, persino a chi non crede. Il Dio del popolo ha nostalgia di un passato felice, della religiosità tradizionale, di un paesaggio rurale e di una società arcaica. Odia la riforma teologica e politica, la finanza e gli intellettuali.
È alle sorgenti di questo Dio che si è abbeverato l'odio dell'Europa. Pur nel contesto peculiare del «nazionalismo» padano, la parabola della Lega è significativa. Duncan McDonnell ricorda il Bossi degli anni Novanta, che inveisce contro gli scandali finanziari vaticani e rimprovera alla Chiesa di aver perso «ogni credibilità», tanto da dover riempire i seminari vuoti con preti dal Terzo Mondo. Lo studioso irlandese analizza il populismo leghista fatto di missione, sacrificio, terra promessa, riti e soprattutto di auto-assoluzione: perché la colpa non è mai mia, è sempre dell'altro. Fino alla conversione religiosa dopo le Torri gemelle. Dal 2001 la Lega accentua la propria battaglia per l'identità cristiana contro l'Europa secolarizzata e l'invasione musulmana. È forte la tensione con settori cattolici antagonisti, ma il Dio popolare leghista è astuto: «Un tempo attaccavamo i potenti, il Vaticano e la Chiesa», dichiara un militante a McDonnell, «poi i rapporti con la Chiesa sono molto migliorati» perché abbiamo criticato la Convenzione europea dei diritti umani; perché abbracciamo le radici cristiane. Il Dio leghista, secondo McDonnell, è attivamente anti-islamico e passivamente cristiano. La formula vale anche al di là dell'Italia. Per funzionare, il cristianesimo dei populisti deve ridursi ad una generica poltiglia di valori, simboli e nostalgie. Un amalgama passivo, cui costa poco aderire. È invece attivissima la retorica del nemico, anzitutto musulmano, come mostrano per l'Austria Sieglinde Rosenberger e Leila Hadj-Abdou.
Per Olivier Roy il populismo lacera Chiese e religioni perché ne spezza il monopolio su Dio. Roy ha ragione, ma per molti pezzi di Chiese e di religioni, il Dio populista è l'occasione del riscatto, l'illusione di un ritorno al monopolio, la seduzione del successo, come mostrano i vescovi abbagliati da Bossi e Berlusconi. Susi Meret, politologa italiana all'Università di Aalborg, racconta come Søren Krarup, pastore protestante e deputato, abbia plasmato l'ideologia xenofoba del Partito danese del popolo, per cui l'identità, la religione e la cultura sono qualcosa che si assimila «col latte della mamma». Pantelis Kalaitzidis, dell'accademia teologica di Volos, denuncia la deriva di un'ortodossia greca sempre più nazionalista, antiecumenica ed antioccidentale. La politologa turca Mine Eder fonda il successo del partito di Erdogan, l'Akp, sul populismo egemonico dell'Islam nazionalista turco. Tim Peace, dell'Università di Edimburgo, racconta la lotta della Chiesa d'Inghilterra, delle altre fedi e dei gruppi interreligiosi britannici contro la demagogia del British national party e della English defence league.
Schlegel nota come il cattolicesimo populista sia quello meno in sintonia con il Vaticano II, in particolare con l'ecclesiologia del popolo di Dio. In realtà, segnalano Dani Filc e Olivier Roy, il Dio populista è onnivoro e contraddittorio: opposto alla modernità, ma dalla parte dell'Occidente secolarizzato contro il sikh e il musulmano. Interessi e tattiche ricompongono gli opposti. È così nel Tea Party americano illustrato da Nadia Marzouki, nella laicità repubblicana di Marine Le Pen e ancor più nel populismo del Nord e Centro Europa, dove libertà sessuale, ateismo, tutela delle minoranze e diritti umani si tramutano in alleati della religione popolare e delle tradizioni. Lo ha mostrato lo studioso svizzero Oscar Mazzoleni, collegando il leader antiminareti elvetico Oskar Freysinger al libertario olandese Geert Wilders.
Nell'età secolare il popolo non appartiene più a Dio. I populisti cercano consenso e potere rovesciando i termini: il loro Dio appartiene al popolo; vale perché serve al popolo. Li inseguono le Chiese e le religioni quando strillano «no, Dio è mio». E se invece Dio non fosse di nessuno?
Corriere La Lettura 10.6.12La mia America, divisa e razzista
ia America, Divisa e Razzista
di Martin Amis
Lo scrittore inglese racconta il suo difficile rapporto con gli Usa. Sbarcò nel 1958, a 9 anni. Subito affascinato dal Nuovo Mondo, presto scoprì la segregazione. E ricorda ancora le parole di un professore: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il massimo dei voti»
Andai in America per la prima volta nel 1958. Avevo nove anni, e mi piacque talmente che vi restai quasi un anno. Prima di imbarcarci sulla Queen Elizabeth, io e mio fratello Philip (di dieci anni) prendemmo la saggia precauzione di cambiare i nostri nomi. Io feci una scelta piuttosto ovvia: negli States sarei stato Marty. Philip, più fantasioso, modificò uno dei suoi secondi nomi in Nick Junior — ignorando bellamente che non c'era un Nick Senior. Mi resi conto in seguito che sarebbe stato perfetto se avessi usato il mio secondo nome, Louis (i miei genitori erano ammiratori di Louis Armstrong). A ogni modo, quando il transatlantico si avvicinò alla scintillante immensità di New York, Nick Junior e Marty erano assolutamente pronti.
Venivamo da Swansea, nel Galles meridionale. Era una città di tale omogeneità etnica che giunsi all'età di rubacchiare gli spiccioli e fumare le prime sigarette prima di conoscere — o vedere — una persona con la pelle nera. Il mio battesimo del fuoco avvenne nel 1956, quando andai con mio padre a trovare un professore che veniva dalla Rhodesia (oggi Zimbabwe). Lungo la strada, mentre eravamo sul bus rosso a due piani, mio padre mi tenne con pazienza un discorsetto — che mi parve piuttosto ripetitivo — su quel che mi aspettava. «Ha la faccia nera», mi ripeteva. «È nero». Appena entrai nel piccolo appartamento scoppiai in lacrime. Senza trattenermi, dissi: «Hai la faccia nera!». «Certo», rispose il visiting professor, quando finì di ridere. «Sono nero!».
Nel 1958 anche mio padre era un visiting professor — era andato a insegnare scrittura creativa a Princeton. Quando iniziammo la scuola a Valley Road, Nick Junior si fece comprare da mia madre il suo primo paio di pantaloni lunghi, mentre Marty si trovò a essere l'unica persona dell'intera scuola ad avere i calzoni corti (oltre a un paio di sandali Clark e a flosce calze grigie). A Valley Road c'erano molti scolari neri, ma, se ricordo bene, nessun insegnante nero. A casa allacciai subito ottimi rapporti con la donna delle pulizie, May, che arrivava da Trenton due o tre volte alla settimana con la sua sensazionale Cadillac rosa.
In quarta elementare feci amicizia dapprima con Connie, poi con Marshal, poi con Dickie. In seguito un ragazzino nero che si chiamava Marty divenne il mio amico del cuore. Marty portava il suo nome con un certo stile (nel mio caso, Marty era tornato a essere Mart, come Nick Junior era tornato Phil). Un giorno, usando la tipica frase con cui i bambini britannici si invitano a casa, dissi a Marty:
«Vuoi venire da me per il tè?».
«Mmm, preferisco il caffè».
«Voglio dire per la merenda con il tè, i pasticcini e le brioche. Tu puoi bere il caffè».
«No. Non piacerei a tua mamma».
«Perché?».
«Perché sono nero».
«Mia madre non ci farebbe neanche caso».
Marty venne a prendere il tè, e fu un successo, pensai. Poi andai a casa di Marty. Viveva nel quartiere nero di Princeton (che ora mi sembra sia in gran parte ispanico). Mentre mangiavo il pasto serale con la grande famiglia di Marty, e giocavo a basket nel vicolo sul retro con i suoi fratelli e i suoi amici, mi resi conto di essere bianco con un'intensità fisica che non dimenticherò mai. L'unico ragazzino della scuola con i pantaloni corti: considerate la vergogna di quell'esperienza e moltiplicatela per mille. Ora si trattava della mia pelle. Per tre ore fui preda di un attacco di imbarazzo così violento che temetti di svenire. In seguito mi chiesi se anche Marty avesse provato la stessa cosa a casa mia. Era così che si sentiva in Main Street?
Nel 1967 mio padre accettò un altro incarico di insegnamento in America, alla «Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee», come riportano le sue memorie, «un'istituzione conosciuta — suppongo senza che molti lo trovino ironico — come l'Atene del Sud». Princeton aveva iniziato ad accettare studenti neri a metà degli anni Quaranta. Due decenni più tardi, mio padre chiese se ci fossero studenti «di colore» a Vanderbilt. «Certo», gli risposero senza scomporsi. «Si chiama Mr. Moore». Il corpo insegnante delle facoltà umanistiche non esprimeva «valori» diversi da quelli della società circostante, che consistevano nei pregiudizi più beceri. Il protagonista dell'aneddoto che segue era un romanziere e docente di letteratura di nome Walter Sullivan.
Quando racconto questa storia, cosa che faccio spesso, attribuisco a Sullivan un pesante accento del Sud per farlo sembrare ancor più orribile, ma di fatto parlava un normale inglese americano con una cadenza meridionale piuttosto piacevole. Ad ogni modo le sue parole furono, letteralmente, le seguenti: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il voto massimo, una A».
La grande probabilità di sentire a ogni evento sociale commenti di questo genere — che non solo non erano mai criticati, ma di solito erano largamente applauditi — spinse mio padre a scrivere che considerava il periodo passato a Nashville come «secondo solo al servizio militare nell'elenco delle esperienze che non vorrei mai ripetere».
Tutto questo accadde molto tempo fa, e ve ne do la prova. Nell'anno trascorso a Princeton, la famiglia Amis — tutti e sei noi — andò a fare una gita a New York per un giorno. Fu un evento gioioso e meraviglioso, e spendemmo tanto che ne parlammo, incredibilmente, per settimane, mesi, anni. Perché tra biglietti del treno, taxi e giri in traghetto, il lauto pranzo, la cena sontuosa, gli innumerevoli snack e merendine, gli Amis riuscirono a spendere non meno di 100 dollari.
Nel 1967, quando tornò in Gran Bretagna, mio padre scrisse una poesia piuttosto lunga su Nashville, che si conclude con questi versi: «Ma nel sud, nulla c'è né ci sarà / Per bianchi e neri nessun futuro / Nessuno. Non qui». La sua disperazione, a quanto pare, era eccessiva. Una delle tendenze demografiche più evidenti dell'America contemporanea è l'esodo delle famiglie nere dagli Stati del Nord a quelli del Sud. Ciononostante, quelli di noi che credono nell'uguaglianza civile sentono di aver bisogno di essere rassicurati. Mi riferisco ovviamente al caso dell'uccisione di Trayvon Martin. Lasciamo da parte, per ora, quel capolavoro di giurisprudenza che è lo «Stand Your Ground Act» (la legge sulla legittima difesa che oppone la parola di un assassino a quella della sua vittima che non potrà più replicare), e rispondete a questa domanda: è possibile, nel 2012, confessare di aver inseguito e ucciso un diciassettenne bianco non armato senza essere neanche arrestati? Tranquillizzatemi, ditemi di sì.
© Martin Amis, 2012
Corriere 10.6.12
Germania Anni 30 e baratro europeo: la lezione dimenticata da Berlino
Tedeschi ossessionati dall'iperinflazione. E ignorano la storia del XX secolo
di Niall Ferguson e Nouriel Roubini
Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?
Nutriamo seri timori che la scelta del governo tedesco di «fare troppo poco e troppo tardi» provochi il ripetersi della crisi della metà del XX secolo, che la nascita dell'integrazione europea aveva voluto scongiurare.
Appare sconcertante che proprio la Germania, di tutti i Paesi europei, abbia dimenticato la lezione della storia. Ossessionati dall'inesistente minaccia dell'inflazione, si direbbe che i tedeschi di oggi attribuiscano maggior importanza al 1923 (l'anno dell'iperinflazione) che al 1933 (l'anno che segnò la morte della democrazia). Farebbero meglio a ricordarsi come una crisi bancaria europea, due anni prima del 1933, contribuì direttamente allo smantellamento della democrazia, non soltanto nel loro Paese, ma da un capo all'altro dell'Europa.
Sono più di tre anni che lanciamo allarmi, invitando l'Europa continentale a fare ordine nei bilanci. Ma non è stato fatto quasi nulla. Nel frattempo, è da due anni che si assiste a una corsa agli sportelli delle banche alla periferia dell'eurozona: i finanziamenti transfrontalieri e interbancari vengono sostituiti da quelli della Bce; e i grossi investitori privati hanno già abbandonato le sponde della Grecia e le altre banche dell'area mediterranea.
Ma adesso il pubblico ha perso la fiducia e la corsa agli sportelli potrebbe prosciugare anche i piccoli depositi assicurati. Se la Grecia uscisse dall'unione monetaria, verrebbero congelati i depositi bancari per essere convertiti in nuove dracme: un euro in una banca greca non sarà più pari a un euro in una banca tedesca. Lo scorso mese i greci hanno ritirato più di 700 milioni di euro dalle loro banche.
Ancor più preoccupante è il fatto che un fenomeno simile si sia verificato anche presso alcune banche spagnole il mese scorso. Il goffo salvataggio di Bankia non ha fatto altro che rinfocolare le preoccupazioni degli spagnoli. Durante una recente visita a Barcellona, ci è stato chiesto con insistenza se era sicuro lasciare i propri risparmi in una banca spagnola. Questo genere di processo è potenzialmente esplosivo. Ciò che oggi appare una disinvolta passeggiata in banca potrebbe trasformarsi in uno scatto precipitoso verso l'uscita. La gente ragiona con la testa e si chiede: a chi tocca adesso?
Come abbiamo discusso nell'incontro del Nicolas Berggruen Institute una decina di giorni fa a Roma, la ricetta per uscire dalla crisi sembra ovvia.
Innanzitutto, occorre avviare un programma di ricapitalizzazione diretta — tramite azioni privilegiate senza diritto di voto — delle banche dell'eurozona, sia quelle centrali che quelle periferiche, ricorrendo all'Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) e al suo successore, l'Esm (Meccanismo europeo di stabilità).
Il sistema attuale per ricapitalizzare le banche con prestiti sovrani dai mercati obbligazionari nazionali — e/o l'Efsf — si è rivelato un disastro in Irlanda e in Grecia, facendo schizzare verso l'alto il debito pubblico, aggravando l'insolvenza del prestito sovrano e il rischio delle banche, per il crescente travaso del debito nelle loro mani.
Secondo, per evitare la corsa agli sportelli nelle banche europee — una certezza nel caso dell'uscita della Grecia e molto probabile comunque — occorre creare un sistema europeo di assicurazione dei depositi bancari.
Per ridurre il rischio morale (e il rischio ipotecario e creditizio che si accollano i contribuenti europei) sarà necessario introdurre misure addizionali.
Primo, il programma di assicurazione dei depositi deve essere finanziato da adeguati prelievi bancari: potrebbe trattarsi di una tassa di transazione o, meglio, di un prelievo su tutti i passivi bancari.
Secondo, è necessario impostare uno schema bancario grazie al quale i creditori non assicurati delle banche — sia junior sia senior — vengano penalizzati prima che si faccia ricorso ai soldi dei contribuenti per ripianare le perdite bancarie.
Terzo, occorre varare misure idonee a limitare le dimensioni delle banche, per evitare la sindrome del «troppo grande per fallire».
Quarto, occorre adottare un sistema europeo di vigilanza e regolamentazione comune a tutta l'area europea.
È anche vero che l'assicurazione sui depositi, a livello europeo, non potrà funzionare se persiste il rischio di estromissione di un Paese membro dall'eurozona. Sarebbe molto dispendioso garantire i depositi in euro, perché il Paese in uscita dovrebbe convertire tutti i fondi in euro nella nuova valuta nazionale, che si svaluterebbe rapidamente nei confronti dell'euro. D'altro canto, se l'assicurazione dei depositi è valida solo a condizione che il Paese in difficoltà resti comunque nell'eurozona, ciò non basterà a impedire la corsa agli sportelli. Occorre pertanto mettere in atto politiche adeguate per minimizzare il rischio di uscita.
Occorre accelerare l'introduzione di riforme strutturali atte a stimolare l'aumento di produttività. E la crescita dovrà ripartire con nuovi impulsi. Le politiche per raggiungere questo scopo comprendono l'intervento monetario della Bce, un euro più debole, stimoli fiscali al nocciolo dell'economia, riduzione della spesa e investimento nelle infrastrutture alla periferia (possibilmente con una «golden rule» per gli investimenti pubblici), e aumenti salariali in base alla produttività per sostenere il reddito e rilanciare i consumi.
E infine, vista l'insostenibilità di un elevato debito pubblico e di costosi interessi sui prestiti in alcuni Paesi membri, non vediamo alternative all'introduzione di qualche forma di mutualizzazione del debito.
Sono emerse di recente diverse proposte per gli eurobond. Tra di esse, è da preferire la proposta emanata dal Consiglio economico tedesco a favore di un European redemption fund (Erf) — non perché sia la soluzione ottimale, quanto piuttosto perché appare l'unica in grado di placare le preoccupazioni tedesche all'idea di accollarsi un rischio eccessivo.
L'Erf rappresenta uno strumento transitorio che non conduce all'emissione di eurobond permanenti, è sostenuto da adeguate garanzie collaterali ed è sottoposto a condizioni stringenti. Il rischio principale è che una simile proposta, se accettabile per la Germania, comporti tuttavia una perdita di sovranità in materia di politica fiscale nazionale da apparire improponibile per gli altri Paesi dell'eurozona, in particolare Italia e Spagna.
Se sarà inevitabile rinunciare a una fetta di sovranità, esiste tuttavia una differenza tra federalismo e «neocolonialismo» — nelle parole di un leader politico intervenuto all'incontro di Roma.
Finora la posizione tedesca si è dimostrata implacabilmente negativa su tutte queste proposte. Le preoccupazioni tedesche riguardo i pericoli dell'operazione sono tuttavia comprensibili: mettere a rischio i soldi dei contribuenti tedeschi sarà difficile da giustificare se non verranno introdotte riforme incisive nei Paesi periferici. Ma ci vorrà del tempo per renderle effettive. Ricordiamo che la riforma strutturale del mercato del lavoro tedesco non è stata realizzata dalla sera alla mattina, mentre invece l'attuale crisi bancaria europea rappresenta un rischio finanziario che potrebbe esplodere da un giorno all'altro.
La Germania dovrà capire che la ricapitalizzazione delle banche, l'assicurazione europea sui depositi e la mutualizzazione del debito non rappresentano più scelte facoltative, bensì i passi essenziali per evitare la disintegrazione irreversibile dell'Unione monetaria europea. Se non è ancora convinta, dovrà capire che il costo dello smantellamento dell'eurozona sarà di proporzioni astronomiche — per i tedeschi, come per tutti gli altri.
Dopo tutto, l'attuale prosperità economica della Germania deriva in larga misura dall'unione monetaria. L'euro ha dato all'esportazione tedesca un tasso di scambio molto più vantaggioso rispetto al vecchio marco. E il resto dell'eurozona rappresenta la destinazione finale del 42 percento delle esportazioni tedesche. Sprofondare metà di quel mercato in una nuova recessione non rappresenta certo una saggia decisione per la Germania.
In ultima analisi, come la cancelliera Merkel ha riconosciuto la settimana scorsa, l'unione monetaria da sempre lasciava presagire una più stretta integrazione verso l'unione fiscale e politica dei Paesi dell'area euro.
Ma ancor prima di intraprendere questo passo storico, l'Europa dovrà dimostrare di aver appreso gli insegnamenti del passato. L'Unione Europea è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta. Oggi è venuto il momento in cui tutti i Paesi europei — ma specialmente la Germania — devono rendersi conto di quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori.
(traduzione di Rita Baldassarre)
Corriere 10.6.12
Le ricette monetarie di Voltaire economista (e industriale) illuminato
di Armando Torno
Voltaire, ancora Voltaire. Ritorna improvvisamente d'attualità ed è citato sempre di più in questi tempi di crisi. Ora per il suo spirito critico, ora per la capacità unica di cogliere l'aria che tira. Il Financial Times l'8 giugno intitolava un commento «Lezioni di Voltaire, l'economista europeo illuminato». Addirittura Patrick Neiertz e Nicholas Cronk, gli autori dell'articolo, chiudevano scrivendo: «Voltaire, we miss you», ovvero: «Voltaire, ci manchi». Parole sante, anche se non stavano esaminandone la produzione letteraria. Perché sono scomparse figure di grande sintesi come la sua. Autorevole, temuto dai principi e venerato dai più semplici, anche se la Chiesa lo avrebbe volentieri arrostito. Del resto, Voltaire poteva parlare con Federico di Prussia stando seduto, scambiare lettere con la zarina Caterina II, offendersi perché Giuseppe II d'Austria, pur passando accanto alla sua dimora di Ferney, non gli rese omaggio. Era il filosofo che discuteva di economia, e magari di inflazione, ma anche il vero industriale capace di pensare. Dal suo soggiorno in Inghilterra capì il ruolo della classe media e imparò a non spaventarsi dinanzi al debito pubblico. Frasi come: «Incoraggiare l'industria»; o sentenze quali: «Qualsiasi Stato che prende soldi in prestito dal suo popolo non è più povero per questo» si trovano nelle sue opere e nelle innumerevoli lettere. Inducono ancora oggi a riflettere. Non era sprovveduto in alcuna materia. Basti anche un sommario elenco delle sue attività economiche per stupirci. Aveva ventisei poderi e fu il primo proprietario in Europa a concedere ai contadini anziché l'affitto il riscatto (Maria Teresa ne fu colpita e fece studiare questa mossa). Capì che occorreva diversificare gli investimenti. Non solo agricoltura e immobili quindi, ma concia, ceramica, mulini, persino orologi. Investì anche sulle navi negriere, che allora rendevano cifre simili a quelle che oggi guadagnano gli speculatori che collassano le borse. E poi i suoi introiti si sommavano alle rendite intellettuali. Caterina II di Russia, per fare un esempio, gli pagò consulenze stratosferiche; è comunque vero che Voltaire seppe consigliarle persino l'utilizzo di nuove innovazioni militari, soprattutto per debellare i turchi. Ma, al di là dell'imprenditore e del filosofo, del poeta e del drammaturgo, quel che manca completamente ai nostri giorni è la sua autorevolezza. L'economia ha bisogno di persone credibili, ché si intraprende spinti dalla fiducia più che dalle certezze. Certo, non mancano manipoli di bravi economisti: ma non riescono a essere amati dai contribuenti perché sembrano esprimere pensieri limitati. E ci sono infiniti filosofi: ma i più li tengono lontani dal cuore perché sanno bene che, se fossero posti alle leve del potere, causerebbero danni notevoli. Più grandi di quelli recati dagli economisti.
il Fatto 10.6.12
Carlo Galli
L’ora delle élite riluttanti
di Furio Colombo
Una nuova febbrile apatia” attraversa l'Italia. La frase bella e poetica riassume, a pagina 109, il senso del libro I riluttanti di Carlo Galli, appena pubblicato da Laterza. I riluttanti, secondo Galli, sono coloro che potrebbero dare e non danno, che potrebbero partecipare e si astengono, che hanno gli strumenti o la conoscenza per fare e non fanno. Al momento cruciale si tirano indietro e fanno sapere che non sono disponibili. In questo modo l’autore del saggio dà un volto alla zona grigia di cui si è molto parlato e capito poco.
IL PERCORSO di indagine parte da Machiavelli, che rimprovera i principi italiani di badare all'immagine, restando alla larga dall’attraversare la linea della responsabilità, chiama a testimone Petrarca, che vede in questa assenza una mancanza di virtù morale, ascolta Manzoni che in Adelchi denuncia “una élite votata alla ripetizione coatta della violenza”. E cita Leopardi quando constata che l'Italia ha “le classi dirigenti più ciniche di ogni altra regione”. Ecco, dunque, il pezzo mancante di un gioco che sembra consistere sempre nello scontro fra due estremismi, quello di un residuo potere e quello di una residua opposizione. Essere riluttante è un’opzione di élite. Non esiste un operaio riluttante, ma può esserlo il suo capo-azienda quando sta bene attento a restare allineato e coperto su ciò che “le giuste fonti” fanno sapere e vogliono che si dica sul lavoro come costo e come ingombro. Il riluttante ha un suo modo accorto di astenersi: lo fa con l'adesione immediata (forte istinto e buona informazione) alla decisione “giusta”. Il riluttante non è un solitario che vaga fuori dal “quadrato” in cui sono accampate le forze che contano. Il riluttante è dentro il campo e non riuscirai a farlo uscire a nessuna condizione, tanto più ostinato nel rifiutare di fare un passo diverso dal percorso segnato, quanto più è deciso a contare senza decidere. Altrimenti, ad esempio, come avrebbero fatto le “forze politiche” presenti in Parlamento a ottenere il voto massiccio che hanno ottenuto per nominare e votare persone senza rapporto con la realtà nelle “Autorità indipendenti” delle Comunicazioni e della Privacy, che sono diventate in tal modo totalmente dipendenti, visto che persino le mogli hanno trovato posto nelle altissime posizioni in questione? Forse, con la mia interpretazione, mi sto scostando dal rigoroso saggio di Carlo Galli che ho citato e che è destinato a diventare un breviario sul ceto dirigente italiano dei nostri giorni. Forse mi sto scostando quando dico che “il riluttante” il più delle volte è un militante, e che “apatia” significa totale disinteresse per l'opinione pubblica o anche solo il buon senso e il rifiuto (riluttanza) a uscire dalle fila, ad assumersi una responsabilità personale e aperta. Tutto ciò avviene con tale continuità e costanza, ed enormità di eventi, da spingere i cittadini alla rivolta. Ma il riluttante persevera. E i partiti credono di potersi valere di una buona scorta di riluttanti (i sinonimi sono ovviamente “conformista”, “opportunista”, “carrierista”) che esibiscono come prova di compattezza. Diventa più facile, adesso, capire il furore così diffuso, fino a poco fa, fra le classi dirigenti (soprattutto dei partiti e soprattutto a sinistra) per il fenomeno detto “antiberlusconismo”, visto come una intollerabile manifestazione di estremismo. Infatti turbava soprattutto la “apatia febbrile” dei militanti (dove militante significa ordinato partecipante a strategie sconosciute decise da altri che il più delle volte sono in contatto con altri ancora, e tengono conto di fatti e pericoli e convenienze che tu e io non conosciamo). Gli antiberlusconiani, i girotondini, i popoli viola, gli autoconvocati di ogni tipo che hanno a lungo riempito le piazze italiane ancora e ancora, dal Palavobis di Milano a Piazza Navona in Roma, prima di indignarsi, erano da respingere in quanto intransigenti. Nella vita politica dei riluttanti l’intransigenza è infatti intollerabile perchè interrompe il gioco della riluttanza militante. E per questo, per farne sentire il suono anarchico e stridente, l’antiberlusconismo veniva chiamato “estremismo”. E si evocava drammaticamente il pericolo di “dire sempre no”, il che implicava la necessità di trovare consonanze e accordi, e recava i una tabella di cose da fare, inevitabilmente, “insieme”. Per esempio approvare, assieme al ministro della Gioventù, una sua legge sulla eleggibilità attiva e passiva al Senato dei giovani di 18 anni, come se fosse una cosa utile e sensata in quel quadro politico, come se non fosse la legittimazione pubblica di un ministero totalmente inutile e truffaldino, visto lo stato di abbandono dei giovani.
MA IL CODICE del riluttante è già scritto molto prima della sua presunta militanza. È il misterioso talismano della “moderazione” ovvero una ideale “dose giusta” che mette in guardia da pericolosi e impetuosi abbracci di impegni o ideali, in situazioni imprudenti che possano intaccare la tua reputazione di moderato, indispensabile per i possibili incarichi di domani. Per questo scrive Corrado Staiano (Corriere della Sera, 7 giugno): “Per farcela a superare i momenti gravi della vita, anche della vita di una comunità, è indispensabile la passione. È stata ben presente in alcuni momenti della Storia nazionale”. E oggi? Stajano li conosce, li vede, li sente. Passano i riluttanti.
Il Fatto 10.6.12
Amnesie presidenziali
di Angelo d’Orsi
Nel dialogo con il dissidente Adam Michnik apparso ieri su Repubblica, Giorgio Napolitano rivisita il passato del partito che fu il suo e di milioni di italiani e giudica severamente le scelte del Pci, in particolare in relazione al 1956, l’anno spartiacque, come è stato chiamato. Fu drammatico, quell’anno, per la concomitanza tra le “rivelazioni” di Kruscev al XX Congresso del Pcus, le sommosse in Polonia, la sanguinosa repressione dei moti d’Ungheria da parte delle truppe sovietiche. In Italia, sede del maggior Partito comunista d’Occidente, i contraccolpi provocarono lacerazioni interne al partito, rotture a sinistra, con il Psi di Nenni e la fine dell’idillio tra intellettuali e Pci che, a partire dalla pubblicazione delle opere di Gramsci era stato intenso, avviando la cosiddetta egemonia culturale della sinistra.
MA NEL ’56 il Partito, pur con aspre crisi interne, rimase ancorato all’Unione Sovietica, giustificando l’invasione dell’Ungheria: fu una scelta all’insegna del realismo politico che oggi Napolitano giudica “un tragico errore”. Togliatti era uomo troppo intelligente per non accorgersi che i moti ungheresi non erano tutti fomentati dalle “potenze imperialistiche”: eppure il timore di “fare un favore all’imperialismo” era troppo forte e i tempi non gli parvero maturi per consentire al partito italiano una piena autonomia rispetto a Mosca. Certo, tutto ciò avvenne non senza contrasti interni alla Direzione del partito (si ricorda in particolare il gesto di rottura di Giuseppe Di Vittorio), e soprattutto le fibrillazioni di molti intellettuali che firmarono il famoso Manifesto dei 101, in cui si smarcavano dall’Unità che aveva salutato entusiasta l’ingresso dell’Armata Rossa a Budapest, (salvo poi, nell’arco di poche ore, sotto le pressioni dei dirigenti, ritrattare). Un illuminante scambio di lettere fra Togliatti e Giulio Einaudi (l’editore che stava pubblicando Gramsci) ci mostra il contrasto fra la posizione privata (anche Togliatti giudicava negativamente l’intervento sovietico) e quella pubblica: “Si sta con la propria parte anche quando essa sbaglia”.
OGGI NAPOLITANO parla, a ragione, del rapporto con l’Urss come di “una prigione”; ma forse dimentica il contesto storico in cui quel rapporto fra disuguali si dispiegò: la Guerra fredda, il maccartismo negli Usa, i Comitati civici, lo strapotere democristiano e la Celere in Italia. Il presidente non indulge alle grottesche sentenze di tanti ex che non soltanto rinnegano il proprio passato, ma gettano fra le nefandezze della storia la vicenda dell’intero movimento comunista, si esprime sobriamente nella sua rivisitazione critica di quel passato. Nel ’56 egli non ebbe certo la forza o la volontà di differenziarsi dalla linea togliattiana, la quale stava in realtà cambiando proprio in relazione agli eventi di quell’anno.
Tuttavia Napolitano faceva parte del Comitato centrale e nell’VIII Congresso del Pci che chiuse l’anno, pare abbia redarguito Antonio Giolitti che era invece stato critico, vantando la democrazia interna al partito, che aveva appunto consentito posizioni come quella giolittiana. Togliatti, dal canto suo, rivendicò l’importanza del rapporto con l’Urss, ma sottolineò con forza che non c’era (più) “né Stato guida, né partito guida”. La guida “sono i nostri princìpi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano... i doveri della solidarietà internazionale”. E invitò il partito a seguire, “nella nostra marcia verso il socialismo, una via italiana”.
Fu in fondo anche grazie a quel “tragico errore” che il Pci intraprese una strada diversa, che lo condusse nelle istituzioni e, con Giorgio Napolitano, al loro vertice.
Repubblica 10.6.12
La logica di Port-Royal quella sfida creativa per costruire un’opera
di Piergiorgio Odifreddi
Fu pubblicata, come sintesi di un metodo, da Arnauld e Nicole E diventò, dal Seicento, il testo base delle scuole gianseniste Se c’era un luogo, nel Seicento, dove la logica sicuramente non stava di casa, e anzi sembrava essere stata rigorosamente e ufficialmente bandita, quello era il monastero di Port-Royal. A confermarlo basterebbero le vicende personali e le opere letterarie legate al nome di Pascal, che di quel luogo fu il più noto frequentatore, e il più illustre fiancheggiatore. È dunque singolare che, nel campo scientifico, il monastero sia passato alla storia per quella che viene comunemente chiamata la Logica di Port-Royal, anche se in origine si intitolava La logica, o l’arte di pensare. La pubblicarono anonima nel 1662, esattamente trecentocinquant’anni fa, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, due degli intellettuali più in vista del convento. E rappresenta una sorta di lavoro “collettivo” che servì alle generazioni future. Tanto Arnauld era focoso e impulsivo (nel 1643 aveva scritto il primo pamphlet giansenista, La comunione frequentefatto di serrate dimostrazioni logiche in stile quasi matematico) quanto Nicole era pacato e riflessivo. Del giansenismo, pensava che fosse un’eresia immaginaria, su cui si era fatto troppo rumore per nulla. Tornando alla Logica di Port-Royal, le storie personali dei loro autori lasciano prevedere che il suo stile sia un po’ pretesco, ma il suo approccio non è scolastico. Anzi, nelle intenzioni teoriche, l’opera si schiera dalla parte dei moderni. Anche se, nello sviluppo pratico, si tiene alla larga dall’induzione, e dunque dal metodo scientifico e sperimentale, concentrandosi completamente sulla deduzione, e in particolare sul metodo geometrico e cartesiano. L’influsso di Cartesio è evidente, nel bene e nel male. Il bene, sta nell’aver capito che i sillogismi erano solo una parte della logica: la più arida, sterile e scolastica. Il male, nell’aver sottovalutato l’importanza e la fecondità del formalismo, a favore dell’intuizione e delle “idee chiare e distinte”. La Logica di Port-Royal si situa dunque a metà del guado che dalla logica filosofica di Aristotele condurrà a quella matematica di Leibniz, Boole, Frege e Russell. Ispirandosi alle anticipazioni di Pascal, e dei suoi due misconosciuti trattati Lo spirito geometrico e L’arte di persuadere, Arnauld e Nicole enunciano otto regole metodologiche, che mantengono ancor oggi inalterato il loro valore. Esse mostrano come il metodo logico consista nel «definire chiaramente i termini di cui ci si deve servire, postulare assiomi evidenti per provare le affermazioni, e sostituire mentalmente nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei termini definiti». Come già il titolo originario lasciava presagire, lo scopo della Logica di Port-Royalè ambizioso: si propone infatti di studiare non le regole della grammatica, o gli stratagemmi della dialettica, ma nientemeno che Le leggi del pensiero. Si tratta, cioè, dello stesso programma che intraprenderà George Boole nel 1854, fin dal titolo del suo omonimo capolavoro, ma con un approccio algebrico che gli permetterà di aprire le porte alla logica moderna. Arnauld e Nicole si fermarono fuori della soglia, invece, e nelle quattro parti della loro opera si limitarono a discutere le «quattro operazioni principali dello spirito: concepire, giudicare, ragionare e ordinare». Più che forzare a rigorose dimostrazioni di tipo algebrico o geometrico, le loro ricette permettevano dunque ancora di cucinare pseudodimostrazioni filosofiche: come quelle scodellate da Spinoza nella sua Ethica, che rimase « ordine geometrico demonstrata » solo nelle pie intenzioni dell’autore. Un elemento di vera novità, comunque, la Logica di Port-Royal riuscì a introdurlo, ed è la distinzione fra le “intensioni” e le “estensioni” dei concetti: cioè, fra comeessi sono enunciati, e ciò che essi esprimono. Si tratta della stessa distinzione fra “senso” e “significato” che Gottlob Frege riprenderà nel 1892, nel suo omonimo e classico articolo Senso e denotazione. Effettivamente, Port-Royal era il luogo più adatto per scoprire questa distinzione. Infatti, il monastero fu l’epicentro di un’interminabile disputa sulla grazia che non aveva nessun significato oggettivo, benché avesse molto senso soggettivo per i gesuiti e i giansenisti. Essa generò innumerevoli discussioni, piene forse di buone intenzioni, e certo di cattive “intensioni”, ma tutte prive di qualunque “estensione”. Era anche per educare a queste vuote dispute, oltre che per divertire il giovane duca di Chevreuse, che la Logica di Port-Royal fu scritta. Essa venne adottata come testo nelle “piccole scuole” gianseniste, che costituirono comunque un interessante esperimento d’avanguardia educativa. Le classi erano ridotte a una mezza dozzina di studenti, l’emulazione fra di essi era bandita, il silenzio veniva privilegiato al gioco, gli indisciplinati erano espulsi senza punizioni e il ragionamento era esaltato. Il fatto che, dopo tre secoli e mezzo, queste proposte allora avveniristiche suonino oggi anacronistiche, la dice lunga sulla direzione in cui sono rotolate l’educazione e la scuola, dalle vette di Pascal a oggi.
Corriere La Lettura 10.6.12
Elogio della ragion politica
Il bisogno d'essere governati è reale, non emotivo o irrazionale
Solo il coraggio di cambiare forma e volti
può (e quindi deve) rinnovare i partiti
di Francesco Piccolo
Qualche sera fa guardavo un dibattito politico in tv. O almeno, così era stato presentato. I contendenti stavano parlando da più di mezz'ora degli stipendi dei parlamentari. Cioè, di quanto guadagnavano, di quanto avevano dichiarato al Fisco; se era tanto, se era troppo, quanto avrebbero dovuto guadagnare, quanto avevano guadagnato altri. Guardavo molto annoiato. Non era la prima volta. E mi sono chiesto: ma la politica, ora, è questo? Cioè, più precisamente: ma cosa mi interessa sapere di un politico, quanto guadagna, oppure cosa fa di concreto in Parlamento o come sindaco di una città? Ero convinto — sono ancora convinto — che la politica riguardi di più, molto di più, la seconda questione.
Però, accanto alla politica concreta, come effetto collaterale non trascurabile, c'è la questione morale: come ci si comporta, quanto si guadagna, se si ha un conflitto d'interessi. In ogni carriera politica, questo aspetto è importante, bisogna porvi attenzione: ma soltanto in seconda battuta, quando si è apprezzata la concretezza del fare politica. Il moralismo potrebbe essere una formula matematica: la questione morale meno la politica reale. Se la questione morale prende il sopravvento su tutto, ecco che si diventa moralisti.
Perché si è arrivati a questo punto? Senz'altro, la prima risposta istintiva e anche sensata, è quella che diamo tutti: perché la politica in questi anni, i partiti e il sistema, è stata deludente, insufficiente e spesso corrotta.
Il dilemma a questo punto è: bisogna buttare via tutto quello che c'è?
La politica dovrebbe avere più o meno questa funzione in una società: ascoltare la gente, e riformulare in proposte, e poi in leggi, i desideri e le istanze. Perfino le insofferenze e gli sfoghi. Il rapporto degli italiani con la politica è da sempre profondamente emotivo, irrazionale. Si esprime rabbia, estremismo, si ha voglia che tutti vadano a zappare la terra. Se si chiede a un passante che cosa vorrebbe succedesse ai politici, spesso risponde: che vadano tutti in galera. O, se è particolarmente buono: che vadano tutti a casa.
Queste frasi raccontano la temperatura di un Paese. Poi ci sono altre richieste più o meno folli, poi altre più o meno sensate. Ma sempre un discorso politico fatto per strada ha un'emotività fortissima, una irrazionalità più o meno comprensibile. Che cosa fa allora di solito la politica, buona o cattiva che sia? Cerca di interpretare gli umori, soprattutto quelli emotivi e irrazionali, e incanalarli in una ragionevolezza, in una strategia. Da qui (certo, per semplificare) nascono i programmi politici, i progetti economici e culturali, la lotta all'evasione fiscale o l'organizzazione della società. La politica è — dovrebbe essere — la parte pacata e riflessiva del Paese, che però tende l'orecchio ai tumulti emotivi della sua gente. La democrazia consiste nell'incanalamento razionale dell'irrazionalità.
Non sta accadendo questo. Da molto tempo, ma in questi ultimi mesi in modo ancora più netto, visibile.
Se la democrazia è un canale razionale per le richieste anche irrazionali, il populismo consiste nel rinvigorire con intenzione quell'emotività, attraverso altra emotività. La democrazia consiste, per chi è addetto al fuoco, nel tenerlo a bada: cioè, tenere il fuoco sempre acceso ma basso, in modo che serva, ma non faccia danni; il populismo consiste nel soffiare di continuo su quel fuoco. Come si soffia sul fuoco? Si accusa il mondo politico di avere in dispregio la Costituzione e la democrazia, e poi si sostiene con disinvoltura che un presidente della Repubblica debba firmare o non firmare le leggi proposte a seconda di motivazioni politiche (e non può farlo); si dice con altrettanta disinvoltura che un presidente del Consiglio non è legittimato a governare se non si è sottoposto a una prova elettorale (ed è assolutamente legittimato). Queste affermazioni alimentano l'indignazione e la rabbia, perché lavorano sul desiderio di migliorare il mondo, programma vastissimo della gente perbene. Ma non usano il linguaggio della politica.
La politica è razionalità. L'irrazionalità allora si può definire, a ragione, antipolitica. Se uno come Beppe Grillo porta la gente in piazza per gridare vaffanculo a tutti, se urla che destra e sinistra sono uguali e che tutti devono andare a casa e il presidente della Repubblica con loro, non si può dire che lavori sulla razionalità, ma decisamente sulla emotività. E trova terreno fertile. È come se la nazionale di calcio avesse come commissario tecnico uno più facinoroso di quelli che discutono al bar. Il risultato sarebbe che finalmente vedremmo quella squadra che si vagheggia nelle discussioni tra avventori, con quattro punte e tre fantasisti. E forse ci divertiremmo anche un po'. Ma dubito che funzionerebbe.
E allora, l'antipolitica è da considerare la rivoluzione che sta arrivando? In poche parole, l'atmosfera dentro la quale siamo porterà a qualcosa di buono? Grillo e il Movimento 5 stelle sono una novità assoluta?
È una questione importante e seria, la presenza di un nuovo movimento e i consensi che ha e che avrà. Ma arriva da più lontano. Grillo e il suo metodo emotivo non sono una novità. In più, l'antipolitica ha una funzione distruttiva e non costruttiva, e infatti appena ha a che fare con la questione della governabilità, il concetto di pulizia assoluta diventa molto problematico da mettere in atto.
Quando è cominciato tutto questo? Lasciamo perdere «l'Uomo Qualunque», restiamo agli ultimi anni. C'è una linea politica emotiva molto forte che ha attraversato il Paese, dagli ultimi anni della prima Repubblica (che ha contribuito a distruggere, appunto, ma non è stata capace di ricostruire). Comincia con la comparsa di Umberto Bossi e della sua Lega. Il suo linguaggio estremo e sprezzante, antipolitico, appunto; che è riuscito addirittura a mantenere con perseveranza nella sua funzione di ministro. Prosegue con Silvio Berlusconi e lo sprezzo del Parlamento; ma è soprattutto la prima campagna elettorale, quella vincente del 1994, che lo propone come antipolitico per eccellenza: l'opposizione a quello che c'era, l'idea che basti non essere dei politici professionisti per portare cose buone. Infine, attraversa una sinistra minoritaria e urlante come quella di Antonio Di Pietro, che è un grande demolitore e un grande moralizzatore, attraversa anche i rottamatori all'interno del Partito democratico (rottamare vuol dire buttare il vecchio per accogliere il nuovo, ma in qualche modo la parola e le intenzioni sono tutte concentrate sulla voglia e la soddisfazione di buttare il vecchio, e basta) e arriva dritto dritto a Grillo, interprete definitivo e assoluto.
Però: può la politica diventare un oggetto soltanto emotivo e irrazionale? Se pensiamo al passato, vengono in mente Moro, Berlinguer, Craxi, La Malfa, Andreatta, Andreotti — cito in ordine sparso e non esaustivo, buoni e cattivi. Erano tutti lavoratori razionali che cercavano di interpretare gli umori — lo facevano bene o male, in favore del Paese o a proprio favore, ma non si poteva concepire la politica in altro modo.
L'avvento di Grillo sancisce definitivamente che la politica è diventata una formula emotiva esponenziale. Se la gente è insoddisfatta, può esprimere la sua irrazionalità ed emotività attraverso un movimento che accoglie e autorizza lo sfogo, lo rende attivo. Tutti quelli che sono arrabbiati hanno molte ragioni, ma gli arrabbiati devono avere rappresentanti politici meno arrabbiati che rappresentino le loro istanze. Adesso invece hanno rappresentanti politici più arrabbiati di loro. È questo il paradosso che alla fine ha cambiato e sta cambiando il linguaggio, la forma e il contenuto della politica.
Ad esempio, Grillo propone il metodo dei referendum a raffica: è un altro fraintendimento della democrazia; si dovrebbe ricorrere ai referendum soltanto per questioni epocali (il sistema proporzionale o maggioritario?), soprattutto etiche (l'aborto, il divorzio). Per il resto esiste il Parlamento (e con ciò si intende un Parlamento i cui rappresentanti siano votati direttamente dagli elettori; altro concetto elementare e fondante di una democrazia, che è stato tralasciato con disinvoltura). Ma in Italia ormai — e non solo per colpa dell'emotività della gente, sia chiaro — il Parlamento sembra essere il luogo della colpa assoluta, e due sono le cose che ci interessano: quanto guadagnano, e quando andranno tutti a casa (o, alcuni, in galera).
Tra la politica razionale e la politica emotiva (l'antipolitica), la seconda vince sempre. In Italia vince ancora più facilmente, considerato che la politica razionale è scarsa e senza grandi progetti. Eppure non c'è altro modo, per un Paese, che governare con raziocinio. E infatti mentre altri urlano in piazza, alcuni «tecnici» tentano (a volte bene, a volte male) di tenere a bada la crisi e tenere in vita lo Stato.
Cosa può fare la politica contro l'antipolitica? C'è una Costituzione, un sistema democratico che si definisce rappresentativo, e delle leggi. Da tutto ciò si può derogare? Cioè: il fatto che i rappresentanti politici non facciano funzionare bene, non sfruttino a dovere questo sistema, rende davvero distruggibile con disinvoltura il sistema? È questo il bivio davanti al quale si trova il Paese: lavorare per rinnovare e migliorare la vita politica all'interno della forma data, oppure seguire le demolizioni dell'antipolitica.
Bisogna considerare che rimane in Italia una larga fascia di elettori (ancora la maggioranza?) che alla politica razionale crede ancora. Crede ancora nel presidente della Repubblica, nella governabilità, nella democrazia rappresentativa e quindi crede ancora nella composizione diversificata del Parlamento. Sono anch'essi insoddisfatti, o delusi dell'andamento della politica di questi anni, ma non hanno smesso di credere in un miglioramento di fatto della vita politica italiana, e di conseguenza del Paese.
I partiti che aspirano a governare (di sinistra, di centro o di destra — saranno gli elettori a scegliere) non possono e non devono giocare la partita dell'emotività: non è nel loro dna, anzi in qualche modo costituirebbe un paradosso, la politica che si traveste da antipolitica. Un paradosso per nulla convincente e quindi perdente, oltretutto.
Quindi, devono scegliere l'unica strada alternativa possibile, quella del riformismo. Devono scegliere un punto preciso di posizionamento per essere messi a fuoco dall'elettorato italiano. Si posizionino in quel punto di mezzo tra il loro stesso fallimento e l'antipolitica. Chi ne ha il coraggio prenda su di sé la battaglia del grande cambiamento della forma e dei volti della politica italiana, a cominciare dalle proprie file e dai propri programmi. Ma allo stesso tempo — è questo il punto — sfidi Grillo con coraggio: prenda le distanze dal suo estremismo dialettico, dal suo qualunquismo politico. Lo sfidi con eleganza, ma con determinazione: si presenti al Paese come la forza razionale e costruttiva in opposizione all'onda emotiva che in questo momento Grillo rappresenta. Abbia il coraggio, un partito politico che voglia rappresentare gli italiani, di esprimere dissenso verso chi vuole destituire le fondamenta su cui questo Paese è stato costruito — fondamenta malate e piene di umido—, ma che vanno rivitalizzate e non abbattute. Combatta la battaglia della riforma elettorale, politica, istituzionale.
Sia chiaro: gli elettori potrebbero aver voglia di seguire (eseguire) la pulizia totale che chiede il Movimento 5 stelle. Oppure, chissà, potrebbero esprimere insofferenza giustificata per i modelli politici a cui hanno assistito in questi anni, ma poi fidarsi di uno spirito riformistico, se lo giudicano moderato ma preciso, attivo, realmente propositivo; e con rappresentanti di chiaro valore. I partiti accolgano senza timore la sfida più affascinante dei prossimi mesi: la politica contro l'antipolitica — ognuno dalla sua parte (ovviamente). E chissà che il risultato non sia affatto scontato. Chissà che in questo Paese si possa tornare a fare politica — si possa continuare a fare politica — nel modo e con i mezzi che i grandi fondatori della Repubblica avevano, con intenzioni buone e concrete, immaginato per noi.
Corriere La Lettura 10.6.12
Noir, falsa biografia d'Italia
Il giallo politicheggiante alla Massimo Carlotto vive di mitologie e coltiva un ottimismo puerile
di Guido Vitiello
Un bel noir di provincia, ecco cosa ci vuole per un esordiente in cerca di fortuna. D'altro canto, lo diceva Fabrizio De André, non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male: qualche delitto senza pretese lo abbiamo anche noi in paese. Un noir di provincia, ma anche di denuncia: si tratta di escogitare una trama ingarbugliata che da un qualunque fattaccio di cronaca o d'invenzione — l'omicidio di un tecnico informatico del Bellunese, la defenestrazione di una casalinga di Frattamaggiore — conduca a diramazioni sempre più oscure, a reti di complicità sempre più eccellenti: congiure internazionali, misteri d'Italia, zone d'ombra tra affari e malaffare. Serve poi lo stile adatto: scoppiettante, tutto mozziconi di frasi al presente indicativo e additamenti da narratore behaviourista. Per i dialoghi, rifarsi al tono di certe serie tv americane, anzi direttamente al doppiaggio italiano, creando uno slang-patacca su cui si avrà cura di innestare, qua e là, un po' di crudezze dialettali, tanto per far capire che abbiamo letto Gadda e Pasolini e che sappiamo accostarci al cuore nero della realtà, alle viscere di un Paese irredimibile, come d'altronde reciteranno diligentemente la quarta di copertina e, al traino, i recensori pigri. A quel punto, manca solo il critico pronto a giurare che il noir è il nuovo «racconto della realtà». È un equivoco che va avanti da una sessantina d'anni, da quel 1944 in cui Raymond Chandler, padre nobile del giallo hard-boiled, pubblicò il saggio The Simple Art of Murder. Chandler elogiava Dashiell Hammett per avere strappato il delitto al «giardino di rose del vicario», dove lo teneva ostaggio Agatha Christie, e averlo restituito ai vicoli, in «un mondo in cui i gangster possono dominare le nazioni e poco manca che governino le città». Da allora, la vulgata vuole che il torbido giallo-noir all'americana parli del mondo reale, laddove il vecchio giallo all'inglese si attardava in un salottino lezioso frequentato da baronesse e colonnelli in pensione. Era falso allora, lo è ancor oggi: Chandler e i suoi molti eredi e imitatori, tanto nel néo-polar francese quanto nel nuovo giallo italiano, hanno spacciato per realismo crudo un manierismo stracotto, solo di segno diverso: gangster al posto dei colonnelli, prostitute al posto delle baronesse, detective che invece di impomatarsi i baffi o coltivare orchidee si ubriacano di whisky nel loro ufficio-stamberga, solitari e sconfitti. E già, perché il giallo «realista», oltre che manierista, è anche mitologico: «Sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, né un vigliacco», scriveva Chandler, delineando il ritratto di un cavaliere errante dalla triste figura, un ruvido eroe da western trapiantato nella metropoli, un uomo in lotta con un mondo marcio che mena quasi vanto della propria sconfitta. Il fraintendimento è duro a morire. Il nume tutelare del noir politicheggiante post-sessantottino, Jean-Patrick Manchette, ripeteva a ogni occasione il ritornello del «realismo», che risuona oggi nel libro-conversazione di Marco Amici con lo scrittore Massimo Carlotto, The Black Album. Il noir tra cronaca e romanzo (Carocci): «Il noir non è altro che letteratura della realtà». Qui l'equivoco si complica con l'idea che il genere abbia onerosi compiti extraletterari. Non deve solo interpretare il mondo, deve trasformarlo (la vecchia storia di Marx che capovolge Hegel). È una prosecuzione della lotta politica con altri mezzi, una «contro-narrazione» sovversiva: «Quello che mi interessava, infatti, era maneggiare la realtà (…) si trattava di una scelta letteraria che mi offriva la possibilità di continuare a fare politica attraverso il racconto del Paese». Strumento di lotta o mero succedaneo, a beneficio di quei militanti degli anni Settanta (Carlotto viene da Lotta continua) immersi nella retorica della «generazione» incarcerata e sconfitta: «Io ho ancora un forte legame con gente del mio passato e spesso ci troviamo a ripetere che avevamo ragione. (…) Eppure non siamo in grado di incidere sulla realtà». Il noir antagonista diventa così uno strumento per «maneggiare» il mondo con la magia nera delle parole.
E però questo tipo di letteratura, che si vorrebbe immersa nella fornace della realtà, è intrappolata in una stanza degli specchi. Sorvoliamo pure sui giallisti da dottrina Mitterrand, o su quel porto franco dove il noir commercia in vario modo con l'autobiografia romanzata, la retorica reducistica, il feuilleton con pretese antagoniste e vari pasticci postmoderni (in senso gastronomico) riscattati in nome dell'ideologia. Certo è che la figura letteraria dell'eroe sconfitto, che soccombe al Sistema o racimola trionfi derisori, sembra fatta apposta per sovrapporsi alle mitobiografie dei vecchi insorti e alle mistificazioni del romanticismo ribellistico, creando un vertiginoso gioco di illusioni ottiche. Ma non il solo. Dice ancora Carlotto che la fonte del crimine è tutta sociale e politica: «Alla malvagità dell'essere umano, svincolata da questi aspetti, ci credo poco». Ernest Mandel, dirigente trotzkista e studioso del giallo, sosteneva che i detective classici sono dei reazionari, e che Maigret, convinto che «l'uomo non cambia», è un emissario dell'ideologia borghese. Anche il marxista libertario Manchette disprezzava gli investigatori alla Poirot perché «non risolvono mai il delitto generale di questo mondo». In fin dei conti il noir impegnato, che deride l'ingenuità dei vecchi polizieschi a lieto fine dall'alto del proprio disincanto, coltiva un ottimismo antropologico quasi puerile, anche se riporta il delitto nei vicoli o attinge alle cronache e agli atti giudiziari. Il vecchio giallo era irrealistico in tutto ma serbava, per così dire, il realismo del peccato originale, la coscienza di un male che sopravvive a tutte le rivoluzioni: era figlio del pessimismo vero, quello dei moralisti classici. Soprattutto, non s'illudeva di «maneggiare la realtà». Sapeva di maneggiare un giocattolo, e anche in questo era più realista.
Corriere La Lettura 10.6.12
Dalla fantaeconomia alla neurofantascienza
Genetica, super-cervelli, bio capsule, staminali Uno psicobiologo esplora le nuove frontiere
di Anna Meldolesi
Il presidente americano è furioso: il Giappone ha appena annunciato l'imminente nascita della prima super-bambina. Yoko avrà una corteccia cerebrale ultra-spessa grazie al trasferimento del gene Cog e iper-connessa grazie al fattore di crescita scoperto da Rita Levi Montalcini. «Se continua così quei musi gialli ci battono anche nel baseball». «Non possiamo permetterci di fallire un lancio spaziale su due e allo stesso tempo fotterci il mercato dei computer e quello dell'ingegneria genetica». «Mi faccia quei gemelli, professor Furtwängler, me li scodelli coi fiocchi. A far suonare la banda ci pensiamo noi: e vedrà che musica!».
La scena si svolge nella stanza Ovale, tra le pagine del primo romanzo firmato dallo psicobiologo della Sapienza Alberto Oliverio (Per puro caso, Dedalo). Per la fantascienza dei giorni nostri il pianeta da conquistare non è Marte, ma il cervello. Neuroscienziati e genetisti hanno preso il posto degli astronauti. Al professor Furtwängler, Oliverio ha dato la chioma di Antonino Zichichi e l'ego di Craig Venter, un occhio iperattivo e uno guercio, metafora perfetta del suo sguardo sul mondo. I due embrioni transgenici del progetto «super-twins» sono pronti per essere trasferiti nell'utero di una donna dell'Us Air Force. Si chiameranno Link e Wash, in onore di Lincoln e Washington. La Pontificia accademia nel frattempo ha già discusso e approvato l'ingegneria genetica migliorista. Il Santo Padre è miracolosamente guarito da una malattia neurodegenerativa (grazie a una segretissima terapia con cellule staminali, secondo quanto sostiene un gesuita dissidente) e ha apposto il suo sigillo sulle innovazioni: «Non alterano in verun modo i rapporti tra l'io spirituale e l'io materiale». I teologi confermano: «Mai la sfera dello spirito è stata o sarà valutata attraverso i parametri della neurobiologia, cioè in base a concezioni scientifiche che verranno inevitabilmente sorpassate. Lo spirito esisteva anche quando gli uomini e i sapienti ritenevano, con Aristotele, che il cuore fosse la sede dell'anima».
Il passo di Oliverio è diverso da quello anglosassone cui siamo abituati, il suo libro è ironico e colto come un pamphlet, eppure non rinuncia a caricare la molla della suspence. Il Vaticano avrebbe fatto meglio a mettersi di traverso? L'umanità si affaccia su una nuova era di felicità o corre dritta verso la catastrofe? Tertium datur, forse, ma non saremo noi a svelare il finale.
C'è chi leggendo certe storie si preoccupa, pensando ai rischi dell'impresa scientifica. C'è chi si arrabbia perché la scienza, quella vera, non è un vaso di Pandora e bisognerebbe smettere di rappresentarla così. Ma science-fiction e techno-thriller sono generi fatti soprattutto per sorprendere e divertire. Prima di andarsene, Michael Crichton ha disseminato per il globo nano-robot fuori controllo, sgherri del biotech, velociraptor clonati, ma amava la scienza e ne era riamato. Tra coloro che stanno provando a colmare il suo vuoto c'è Douglas E. Richards, con l'accoppiata Wired e Amped. I due romanzi usciranno su carta a settembre, dopo il successo in ebook, e leggendoli sembra già di stare al cinema.
Anche qui il protagonista è il cervello. «Il suo potenziale è quasi illimitato. Ma è plasmato per la sopravvivenza anziché per l'intelligenza pura. Gli idioti sapienti aprono solo un piccolo squarcio sulle sue possibilità. Possono imparare a memoria gli elenchi telefonici con una sola lettura e moltiplicare numeri a dieci cifre più velocemente di un calcolatore. Cosa accadrebbe se potessimo liberare capacità anche superiori in tutte le aree del pensiero e della creatività?». L'upgrade cerebrale immaginato da Richards è un big bang neuronale transiente: si ingoia una capsula contenente virus transgenici e ci si spara un'ora di genialità psichedelica. I neuroni si riorganizzano come un domino di cento miliardi di pezzi che collassano. Il quoziente intellettivo schizza fuori scala e la soluzione ai problemi scientifici più ostici si rivela nel modo più sfacciato, come un esibizionista che apre l'impermeabile. Al primo strabiliante livello di potenziamento appare lampante l'inesistenza di Dio, al secondo livello — inimmaginabile per chi abbia provato solo il primo — l'immortalità è quantistica e l'universo diventa multiverso. «Lo scopo dell'umanità non è scoprire se esiste Dio ma diventare Dio». Quel che accade al terzo stadio, probabilmente, non lo sapremo mai. Spingendo le capacità cognitive oltre i limiti umani, il corpo consuma tutte le proprie risorse, fino al coma, e questo non è il solo effetto collaterale.
La morte per esaurimento sfiora anche la giovane genetista che ha inventato la bio-capsula, ingerendola per prima. Kira Miller è bellissima, coraggiosa e fidata, o almeno lo è il suo «io normale». Lo sarà anche l'alter ego potenziato? Wired e il suo sequel hanno più strati e connessioni di un super-cervello, con buoni e cattivi che si confondono, e una rete di scienziati che si sottopongono al rischioso trattamento per lavorare in segreto al bene comune. Obiettivo fusione fredda? Viaggi superluminari? Immortalità? Prima del visionario Ray Bradbury, appena scomparso, la fantascienza era dominata da «pistole a raggi e pin-up da salvare», ci ha detto Richards. «A preparare la strada alla fantascienza seria è stato Ray», proprio lui che si vantava di non essere una persona seria. Ma negli stessi anni delle sue Cronache marziane, hanno visto la luce anche altri capolavori a cui i libri di Richards rendono omaggio. La fine dell'eternità di Isaac Asimov, e soprattutto Fiori per Algernon di Daniel Keyes, un classico in cui sintassi e ortografia seguono la parabola intellettiva del protagonista, in salita e poi in picchiata. Charlie è un uomo sottodotato, che si ritrova improvvisamente con un Qi einsteniano e poi regredisce. Il suo ultimo sgrammaticato pensiero prima di scomparire è per il topo che ha fatto da cavia: «Pps. Perfavore mettere gentilmente allorquando possibile dei fiori sulla tomba di Algernon dentro il cortile di dietro...». Non c'è la fine del mondo e neppure l'happy end, ma anche questa è (grande) fantascienza.
Corriere La Lettura 10.6.12
Kandinsky, astratto sinfonico
Studi, improvvisazioni, composizioni coloratissime e dal ritmo quasi musicale:
ritratto di un artista «dissonante» in bilico tra la cultura francese e quella italiana
di Sebastiano Grasso
«Tutto ciò che era inerte, fremeva; tutto quello che era morto, riviveva», scrive Wassily Kandinsky (1866-1944), ex docente di Diritto romano all'Università di Dorpat, in Sguardi sul passato (1913). «Non soltanto le stelle, la luna, le foreste, i fiori tanto cantati dai poeti, ma anche il mozzicone nel portacenere, il bottone di madreperla che vi fissa dal ruscello, bianco e paziente, il filo di corteccia che la formica stringe con tutte le sue forze e trascina fra l'erba alta, verso mete indeterminate e importanti (...). Tutto mi mostra il suo volto, il suo essere profondo, la sua anima segreta che tace più spesso invece di parlare. Fu così che ogni punto, ogni linea immota o animata per me diventavano vive e mi offrivano la loro anima. Questo bastò a farmi scoprire, con tutto il mio essere e tutti i miei sensi, le possibilità dell'esistenza di un'arte da determinare e che oggi, in contrasto con l'arte figurativa, è chiamata "arte astratta"».
Dopo Kandinsky e Monaco, Kandinsky e i suoi contemporanei, Kandinsky e la Russia, Kandinsky e i suoi vicini di casa, poteva mancare Kandinsky e l'arte astratta fra Italia e Francia? Certo che no. Ci ha pensato Aosta, che, al Museo archeologico, espone 30 fra olî e disegni del padre dell'astrattismo, un lavoro di Francis Picabia; due di Joan Miró, Gianni Monnet e Mauro Reggiani; tre di Jean Arp, César Domela, Atanasio Soldati, Ettore Sottsass e Sophie Taüber-Arp; cinque di Alberto Magnelli, Piero Dorazio, Luigi Veronesi e Alessandro Mendini; sei di Gillo Dorfles.
In rassegna, anche cinque ritratti di Kandinsky, tutti del 1934, di Florence Henri. Ricostruita la Sala da musica che, nel 1931, all'Esposizione internazionale di architettura a Berlino, aveva delle decorazioni murali in ceramica, disegnate dall'artista russo. Mostra curata da Alberto Fiz.
Rapporti con la Francia. Chiusa dai nazionalsocialisti la Bauhaus di Berlino (l'anno prima era toccato a quella di Dessau), nel 1933, Wassily e la moglie Nina vanno a Parigi prima e poi, su indicazione di Marcel Duchamp, si spostano a Neuilly-sur-Seine, a qualche chilometro dalla Ville Lumiére. Negli undici anni di permanenza — durante i quali va in Usa, Inghilterra, Norvegia, Messico e Italia — Kandinsky incontra Miró, Mondrian, Magnelli, Man Ray, Ernst, i Delaunay, Léger, Brancusi, Arp.
Ed ecco, nella mostra aostana, alcune testimonianze sull'influenza esercitata dal pittore russo su Arp (Il figlio dell'ombelico, Torso-anfora), Domela (Studio, Composizione), Magnelli (Grande viaggio, Coalizione sorprendente), Miró (Uccelli nella notte), sulla Taüber (Sei spazi con croce, Composizione in un cerchio) che, nel '38, ottiene la cittadinanza francese.
Rapporti con l'Italia. Già nel 2007, a Palazzo Reale di Milano, Luciano Caramel aveva curata la mostra Kandinsky e l'astrattismo in Italia 1930-1950. A parte le vacanze a Genova, Firenze, Pisa e Forte dei Marmi, Kandinsky nell'aprile-maggio 1933 espone alla Galleria del Milione a Milano.
Dopo la morte, la Biennale di Venezia gli dedicherà una sala personale (1950). Sono proprio queste presenze a stimolare interessi e confronti degli artisti di casa nostra, soprattutto di quelli di Forma 1 e del Mac (Movimento arte concreta). Valga per tutti, ad Aosta, l'esempio di Trenta (1948) di Atanasio Soldati, che riprende, persino con lo stesso titolo, un'opera di Kandinsky del '37. O, ancora, Sviluppo orizzontale di una cornamusa dolcissima, Il ponte di Carlo, Prometeo, La comunicazione di Dorazio. E che dire delle Metamorfosi di Monnet, della Composizione con più figure e del Giardino di Dorfles, delle Composizioni di Reggiani, dei Motivi astratti di Sottsass? E, su un altro piano, dell'«arte applicata» di Mendini? Si vedano Kandissi, Kandissa e Kandissone, rispettivamente divano, specchio e arazzo.
Un discorso a parte meritano le Composizioni di Veronesi. Come Kandinsky, Veronesi considera pittura e musica un tutt'uno. L'artista russo lo aveva scoperto ascoltando il Lohengrin di Wagner. «I violini, i profondi toni dei bassi e, soprattutto di quell'epoca, gli strumenti a fiato, rendevano per me tutta la forza di quell'ora pre-notturna — ricorderà nel suo Ruckblike —. Vidi nella mente tutti i miei colori; erano lì davanti ai miei occhi: linee selvagge, quasi pazze. Non mi permettevo di credere che Wagner avesse descritto musicalmente "il mio momento". Mi divenne comunque chiaro che i dipinti potevano sviluppare la stessa forza che aveva la musica».
E, volendo Kandinsky la «presa diretta», optava maggiormente per l'acquerello, perché riusciva a realizzare quel «ritmo pittorico» che per lui difficilmente l'olio era in grado di dare con altrettanta rapidità. Wagner, ma anche Stravinsky, Prokof'ev e, soprattutto, Schönberg.
Da qui una serie di opere, soprattutto dedicate alla natura, da lui stesso definite «sinfoniche»: Studi, Impressioni, Improvvisazioni, Composizioni. Che, per Will Gromann, si potrebbero paragonare all'oratorio Le stagioni di Haydn. Armonia e ritmo portano Kandinsky verso una concezione del colore come suono, in cui dominano, gradualmente, l'azzurro, il rosso, il giallo.
Musicalmente dissonanti, piuttosto che armonici, sono i poli fra i quali, d'ora innanzi, andrà la sua pittura: «Mi sembrava che l'anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale quando l'inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita. Sentivo, a volte, il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano».
L'angelico poeta di cieli astratti Veronesi non poteva che sottoscrivere.
La Stampa TuttoLibri 9.6.12
Tullio Regge: “Come Borges sento il brivido dell’infinito”
di Piero Bianucci
Dal mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel al Cern di Ginevra, dal Parlamento europeo agli Stati Uniti: una vita piacevolissima
«L’ autobiografia di un curioso» esce da Einaudi: «Primi libri? La Bibbia, la comprò mio padre sulle bancarelle» «L’Ariosto? Che fumettone, meglio la Matematica dilettevole e curiosa di Ghersi da Hoepli» «Pinocchio, no, ma tanto Salgari. E Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico» «La fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov»
Vent’anni al mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel, varie stagioni al Cern di Ginevra, una legislatura al Parlamento europeo, soggiorni di ricerca negli Stati Uniti, Russia, Giappone. Sempre con uno sguardo geniale e matematico puntato a indagare l’estremamente piccolo dell’atomo e l’estremamente grande delle galassie. Questo è Tullio Regge. L’universo è stato la sua casa, e ora la sua vita, 81 anni, è consegnata a una piacevolissima autobiografia scritta con Stefano Sandrelli, astronomo dell’Osservatorio di Brera ma anche narratore e abile comunicatore della scienza. Titolo, L’infinito cercare .
«Non è il titolo che avrei voluto», dice Regge sfogliando distrattamente il volume che Einaudi sta per mandare in libreria. «Con Rosanna, mia moglie, avevamo pensato a L’orizzonte degli eventi: sa, quel posto strano intorno a un buco nero, dove il tempo si ferma sull’orlo del pozzo gravitazionale».
L’orizzonte degli eventi di Regge ora è la vetrata che inquadra il verde della collina di Torino: un salone con pianoforte, libreria, un telescopio di ottone firmato da una storica azienda ottica torinese che non esiste più. Comunque sia, perfetto è il sottotitolo, «Autobiografia di un curioso». Curioso è anche il Regge lettore, che infatti un giorno sentì il bisogno di penetrare nel libro dei libri, la Bibbia, e per farlo imparò l’ebraico, divertendosi poi a rilevare le discrepanze tra il testo originale e la sua vulgata, per esempio nell’episodio delle due spie di Josuha che vanno a Gerico e vengono ospitate da una prostituta, parola di solito occultata in un eufemismo. «Ho letto la Bibbia – racconta – per stupire gli amici con qualche parola in ebraico antico. E’ un’opera che contiene tutto e il contrario di tutto. Probabilmente la portò in casa mio padre, che comprava un sacco di libri usati sulle bancarelle di piazza Carlo Felice e del Balon. Era geometra. A Torino ci sono cinque case che ha progettato, sono in corso Casale e in corso Quintino Sella. Anche lui era curioso e si interessava alla scienza. Purtroppo non aveva avuto maestri, e quindi la sua testa era piena di concetti sbagliati». Che fine hanno fatto i libri che suo padre acquistava sulle bancarelle? «Molti li ho ancora, sono in soffitta. Altri li vede lì in quella libreria, lassù in alto: l’Ariosto (un fumettone, ma divertente), la Divina Commedia, L’astronomie populaire eLes étoiles di Camille Flammarion. Sui libri divulgativi di Flammarion ho incominciato a conoscere l’astronomia. Ma per me il testo più importante fu la Matematica dilettevole e curiosa di Italo Ghersi, un manuale pubblicato da Hoepli. L’ho letto quando ero alle elementari. Ho saltato quarta e quinta grazie a un esame che mi ha permesso di iscrivermi al primo anno delle medie in una scuola privata di via delle Rosine. All’orale di matematica, come risultato di un problema, saltò fuori il numero 47. Toh, guarda, è un numero primo, esclamai. Il professore che mi esaminava si stupì. E come lo sai, mi domandò. Semplice, dissi: ho letto il Ghersi». Altri libri dell’infanzia e dell’adolescenza? «Non Pinocchio, ma tanto Salgari. Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico: in fisica si chiama Gruppo di Carroll la descrizione di un mondo fittizio in cui la velocità della luce è nulla, qualcosa di simile al coniglio di Alice, che corre sempre e resta nello stesso posto. A scuola I promessi sposi mi lasciarono indifferente. Non mi dispiaceva Leopardi. Niente Carducci, che invece mia moglie apprezza. Al liceo ho avuto un professore di italiano che si chiamava Vanara. Un bravo professore, ma allora io amavo solo la matematica e odiavo i temi di critica letteraria. Mi bocciò. Poi mi sono preso la soddisfazione di scrivere centinaia di articoli di divulgazione scientifica per i giornali, a quanto pare decenti. Il fatto è che per scrivere bene servono due cose: conoscere l’argomento ed esserne appassionati. Detestavo gli autori latini. Forse li avrei amati se invece di Virgilio mi avessero fatto conoscere Lucrezio o Plinio. L’unico libro in latino che mi ha conquistato è del matematico Gauss, le Disquisitiones Arithmeticae, lo scrisse nel 1798, quando aveva appena 21 anni, fu il primo testo sistematico di teoria dei numeri».
Romanzi? «Negli Anni 90 mi fecero questa domanda in un programma radio di Rai Tre. Parlai di Ippolito Nievo, Le confessioni di un ottuagenario: mia moglie ne fu commossa perché citai Colloredo, il paese friulano dove è nata. E poi Thomas Mann, specialmente il Doctor Faustus: mi piacque perché parla di un musicista, e la musica classica è una mia passione. E Robert Musil, che era un ingegnere meccanico, L’uomo senza qualità .... ».
Fantascienza? «Sì, i romanzetti di Urania, ma anche Isaac Asimov e Fred Hoyle, autore della Nuvola Nera. Però la fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov, che era biologo, e Hoyle, che è stato un brillante fisico teorico. Pure lui tira fuori cose senza senso, come astronavi più veloci della luce. La scienza vera è più sorprendente di qualsiasi fantascienza. Quando pubblicai una raccolta di miei articoli divulgativi la intitolai Le meraviglie del reale in contrapposizione a Le meraviglie del possibile, antologia di racconti di fantascienza che Fruttero e Lucentini curarono per Einaudi nel 1959».
Scrittori che ammira? «Primo Levi, naturalmente. La sua chiarezza, che gli viene dall’essere chimico, l’ironia, la nitidissima testimonianza sui lager nazisti. Ho potuto conoscerlo bene, da un nostro dialogo è venuto fuori un libretto. Non ho mai capito perché si sia ucciso. Ma il più vicino a me è Borges, specie quello di Finzioni: Funès o della memoria, La biblioteca di Babele. Vorrei essere Funès, ora che i miei ricordi evaporano! Di Borges mi piacciono i giochi di specchi, i labirinti, il brivido dell’infinito. Proprio per Tuttolibri nel 1981 mi divertii a calcolare le conseguenze fisiche di una biblioteca come quella immaginata da Borges: il numero di libri possibili è uguale a 25 elevato alla 656 mila, per scriverlo occorrono poco più di novecentomila cifre. Ma il volume dell’universo osservabile in centimetri cubi è un numero di appena 85 cifre. La Biblioteca di Babele non starebbe nell’universo... ». Lei ha dato alla fisica contributi importanti. Quando le assegnarono il Premio Einstein o la Medaglia Dirac le motivazioni ricordarono i Poli di Regge, applicati in meccanica quantistica, il Regge Calculus, primo tentativo di quantizzare lo spaziotempo, ricerche sui buchi neri. Per anni ha tenuto la cattedra di relatività all’Università di Torino. Se dovesse consigliare a un lettore comune un libro per capire le teorie di Einstein sceglierebbe la biografia che ne ha scritto Abraham Pais o l’esposizione divulgativa della relatività dello stesso Einstein? «Entrambe». Dire Tullio Regge significa tante cose: l’illimitata voglia di capire il mondo, la lotta civile per le pari opportunità di un uomo che da tanti anni una malattia costringe su una carrozzella, l’interesse per la musica, il gusto di costruire al computer disegni satirici. Ma un’attenzione speciale merita l’attività di divulgatore: un campo nel quale Regge è stato pioniere con conferenze, libri, Cd-Rom, mostre (Experimenta), iniziative come GiovedìScienza, tutte cose che stanno sotto il cappello dell’Associazione CentroScienza, dove tuttora è presente accanto a Danilo Mainardi, Aldo Fasolo, Piero Angela. L’infinito cercare rappresenta bene tutte queste sfaccettature e colpisce per la leggerezza con cui Regge tratta le cose importanti che ha fatto e la serietà che talvolta riserva a cose leggere. Nel congedarmi, scorro gli scaffali. Vedo L’ Orlando furioso nell’edizione dei Fratelli Treves del 1894 illustrata con 517 incisioni di Gustavo Doré, Borges nei Meridiani Mondadori, i due volumi delle Opere di Levi, la Fisica di Feynman (Zanichelli), La nuova fisica di Davis (Bollati Boringhieri), libri di genetica di Watson e Crick, gli scopritori della doppia elica del Dna. Ogni tanto un titolo di Odifreddi inquina sacri testi di matematica. In un angolo, un libretto in giapponese. Gli autori sono Tullio Regge e Vittorio De Alfaro. Tratta dei «poli di Regge», il lavoro giovanile che lo lanciò nel mondo della fisica.
La Stampa TuttoLibri 9.6.12
Sul lettino di Musatti anche il dialetto smaschera l’inconscio
di Augusto Romano
Psicoanalisi Racconti autobiografici storie di pazienti, tranches de vie, apologhi
Cesare Musatti (1897 – 1989) fondatore della psicoanalisi italiana
Cesare Musatti SULLA PSICOANALISI a cura di A. Ferruta e M. MonguzziBollati Boringhieri, pp. 342, 29
Una mia collega, che aveva fatto un’analisi con Cesare Musatti, mi raccontò che ben presto l’analista prese a darle del tu e, poiché erano entrambi di origine veneta, cominciò a usare il dialetto durante le sedute. A un certo punto, le suggerì anche di prendere marito. L’aneddoto si potrebbe tranquillamente aggiungere ai tanti contenuti in questa godibile antologia di scritti di Musatti intitolata Sulla psicoanalisi. Titolo invero un po’ improprio, giacché non si tratta di contributi teorici ma piuttosto di racconti autobiografici, storie di pazienti, tranches de vie, apologhi, narrati tutti con la stessa cordiale familiarità che Musatti aveva usato con la mia collega. Giacché Musatti era dotato di una personalità estrovertita ed era tendenzialmente interventista; si trovava bene quando era al centro dell’attenzione e provava piacere a incarnare ruoli diversi (si ricorderà che in vecchiaia posò anche per la pubblicità di una linea di abbigliamento maschile). Il tutto però agito con bonaria ironia e un forte senso del concreto, dietro cui si intravede quell’amore per la razionalità e la chiarezza, che lo rendeva refrattario a intuizioni e fantasie. Di conseguenza, egli si rivela in questi testi un eccellente narratore della vita quotidiana, capace di evocare con pochi tratti sia casi clinici complessi, sia i costumi della borghesia italiana nella prima metà del secolo scorso. Dunque, un gradevole contributo alle letture estive, colto e a un tempo affabile e chiaro.
Potremmo fermarci qui. Ma rinunceremmo a darci ragione della strana impressione che colpisce chi svolge la stessa professione di Musatti nel leggere i suoi amabili sketch. L’impressione è quella di una distanza temporale superiore a quella cronologica, come se Musatti in qualche modo appartenesse ancora a quella stagione - la Belle Epoque! - che precedette lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Impressione inizialmente incomprensibile, dato che Musatti - pur dichiarandosi fedele all’insegnamento freudiano - accoglie numerose e importanti innovazioni rispetto alla teoria del Maestro: relativismo epistemologico (le teorie psicologiche sono soltanto modelli interpretativi, non verità accertate) ; importanza fondamentale attribuita all’empatia nella relazione analitica; necessità di utilizzare le proprie esperienze per la comprensione dell’altro; riconoscimento della identità di natura nel paziente e nel terapeuta (entrambi più o meno nevrotici) ; modellamento del setting (cioè delle regole su cui si fonda l’incontro) a seconda della necessità. Tra l’altro, queste novità riprendono alcune delle più feconde anticipazioni di Carl G. Jung.
E allora? Allora il problema è un altro e riguarda le visioni del mondo. La psicoanalisi di cui parla Musatti è una psicoanalisi rassicurante. I suoi pazienti hanno dei sintomi, generalmente ben definiti; egli li sdraia sul lettino, connette ingegnosamente le libere associazioni fornite dal paziente con il linguaggio dei sintomi, e per lo più il paziente almeno in parte «guarisce». Una psicoanalisi ottimistica, che si fonda su processi lineari di causa-effetto e nutre una grande fiducia nella ragione strumentale e in quella che Paul Ricoeur chiamava l’«ermeneutica del sospetto»: attraverso una operazione poliziesca di smascheramento l’inconscio e le sue trame vengono riportate alla ragione. Ma come? Non era l’inconscio «selvatichezza indomita»?
Ho l’impressione che l’ottimismo positivistico abbia giocato un brutto scherzo a Musatti, o almeno al Musatti scrittore: gli ha sottratto la dimensione del tragico e lo ha condannato al lieto fine. I nostri pazienti sono oggi meno pittoreschi dei suoi e in genere presentano meno sintomi. Sempre meno la loro sofferenza è annidata in un punto specifico e perciò sempre meno è addomesticabile. Essa è pervasiva, ed è una malattia - come si diceva una volta - dell’anima, che si potrebbe chiamare assenza di significato. Perciò il problema si sposta: far scomparire i sintomi non significa guarire. Lo stesso concetto di guarigione si fa più equivoco, indefinito e fuorviante. Il compito è un altro: familiarizzarsi con l’insensatezza; non pretendere che essa sia altro da quello che è; lasciarla parlare; contemplare le immagini attraverso cui essa si esprime; a nostra volta parlarle, per quel che l’Io può.
Ma al mare, sotto l’ombrellone, sarà bene tenersi stretto il libro di Musatti e la sua simpatica leggerezza. "Un eccellente narratore capace di evocare sia casi clinici complessi sia i costumi della borghesia italiana Una psicoanalisi ottimistica rassicurante, che si fonda su processi lineari di causa-effetto"
l’Unità 10.6.12
Il mercato grigio dei farmaci
Medicinali introvabili? C’è una ragione
Sostanze salvavita che smettono di essere prodotte all’improvviso e che ritornano sul mercato con nuovi nomi e a prezzi altissimi
di Cristiana Pulcinelli
ALCUNI FARMACI STANNO SPARENDO DAL MERCATO. SONO FARMACI IMPORTANTI, COSIDDETTI SALVAVITA: antibiotici, anestetici, antiipertensivi, antitumorali, ma anche soluzioni elettrolitiche per fleboclisi e vitamine. Sembra che nessuno voglia produrli, eppure la loro unica colpa è di essere «vecch»i. Non che non funzionino più, al contrario spesso sono ancora gli unici efficaci contro alcune malattie. Il problema è che, in quanto vecchi, costano poco. Il loro brevetto è scaduto e possono essere prodotti come farmaci generici, ma chi se la sente di accollarsi una produzione complessa per un guadagno minimo?
Negli Stati Uniti il problema esiste già da un po’ di tempo. Un sondaggio condotto nel 2011 su 820 ospedali ha mostrato che quasi tutte le strutture avevano dovuto gestire la carenza di almeno un farmaco nei sei mesi precedenti l’inchiesta e il 24% lamentava la carenza addirittura di 21 o più farmaci. E la Fda, l’ente americano che si occupa della regolamentazione dei farmaci, riporta che nel 2011 i prodotti carenti sono stati 220.
Un problema tanto più grave, dicono i medici, perché spesso si tratta di farmaci che non sono sostituibili con degli equivalenti. Un esempio di quello che sta accadendo è stato fornito dal presidente della Società americana di oncologia clinica (Asco), Michael Link, durante il congresso che si è svolto da poco a Chicago: «Il metotrexate – ha detto è al momento l’unica terapia per la leucemia linfoblastica acuta. Gli oncologi Usa hanno lanciato l’allarme di recente affermando di avere una scorta di tale farmaco sufficiente solo per due settimane, e ciò ha portato all’intervento della Fda per una soluzione almeno temporanea».
Il metotrexate è un farmaco che viene usato da cinquant’anni: ormai è passato tra i generici e costa pochi centesimi a pillola. Ma all’appello mancano anche altri antitumorali di vecchia generazione: bleomicina, cisplatino, citarubicina, daunorubicina, liposomiale, doxorubicina leucovorin, vincristina.... Le case farmaceutiche dicono che manca la materia prima, ma secondo un articolo uscito recentemente sul New England Journal of Medicine, l’origine del problema risiede nel fatto che la produzione dei generici si sta concentrando nelle mani di poche fabbriche che si trovano a dover affrontare contemporaneamente problemi di produzione e un aumento della domanda.
I problemi di produzione nascono perché i generici, che garantiscono un margine di profitto basso, sono fatti nel modo più economico possibile, usando macchinari vecchi e poco efficienti (che fanno aumentare il rischio di incidenti) e lasciando meno scorte possibile. D’altro canto, la domanda di antitumorali cresce perché in Asia, Sud America e Africa si espande l’accesso al trattamento.
C’è chi dice che più che di questioni tecniche, si tratti di un problema economico: le industrie farmaceutiche non producono farmaci vecchi e a basso costo per favorire la vendita dei nuovi farmaci i cui costi sono invece astronomici, dell’ordine delle centinaia di migliaia di euro a paziente. Un esempio? Il leucovorin è un farmaco antitumorale disponibile dal 1952, nel 2008 è stato approvato il levoleucovorin, un farmaco simile al primo, efficace come il primo, ma 58 volte più costoso. Otto mesi dopo il leucovorin cominciava a scarseggiare.
E in Italia? Anche da noi il problema comincia a farsi sentire. Un articolo pubblicato dal gruppo di Umberto Tirelli dell’Istituto nazionale tumori di Aviano riporta come a maggio dell’anno scorso un ordine di 100 fiale di carmustina, un farmaco richiesto nel trapianto di cellule staminali, non è arrivato lasciando 9 pazienti affetti da linfoma senza la possibilità di completare il trapianto nei tempi stabiliti. «La situazione non è drammatica come quella degli Usa, ma il trend è lo stesso», spiega Tirelli. Moltissimi pazienti si trovano a dover affrontare la mancanza del farmaco di cui hanno bisogno. Quali sono le conseguenze? Se il paziente non può aspettare che il medicinale torni ad essere disponibile, i medici dovranno utilizzare nuove combinazioni di farmaci con sostanze simili a quelle mancanti. Ma spesso queste nuove combinazioni non sono state sperimentate e quindi possono risultare poco efficaci o addirittura tossiche.
Secondo un altro sondaggio condotto dall’Istituto per la pratica medica sicura degli Stati Uniti, il 25% dei clinici dichiara che nel luogo in cui lavora è stato commesso un errore a causa della mancanza di esperienza nella gestione di farmaci alternativi a quelli normalmente utilizzati ma che non si trovano più. Non manca chi approfitta della situazione: ecco dunque svilupparsi un “mercato grigio”, non del tutto illegale (ma quasi) in cui alcuni produttori immettono sul mercato i farmaci mancanti a costi più alti di 20, 30 volte. «Piccole aziende private fanno incetta di farmaci carenti – spiega Tirelli e poi li rivendono agli ospedali a un prezzo molto più alto. In questo modo accelerano il fenomeno, presentandosi nello stesso tempo come benefattori dell’umanità».
Anche Roberto Labianca, presidente del Collegio italiano primari oncologi medici ospedalieri, è preoccupato: «Quando un farmaco sparisce ci sono pazienti che non sanno cosa fare. Tutti si devono prendere le proprie responsabilità: i medici ma anche le autorità. In Italia poi il problema è aggravato dalla frammentazione del sistema sanitario: ogni regione ha il suo sistema». . Cosa rimediare? La Fda dice esplicitamente di non poter «chiedere a un’azienda di continuare a produrre un farmaco se questa vuole sospenderlo». Si potrebbe pensare, allora, a degli incentivi fiscali per le aziende che producano questi farmaci, oppure, propone Tirelli, «mettere sotto pressione le case farmaceutiche che non vogliono produrre i vecchi farmaci non approvando le loro nuove, costosissime terapie».
Corriere Salute 10.6.12
L'ormone dell'altruismo (e forse del razzismo)
Il ruolo controverso dell'ossitocina
di Danilo di Diodoro
Se da adulti si è depressi, potrebbe dipendere da esperienze negative e stressanti fatte quando si era bambini. Ma che legame c'è tra lo stress infantile e la depressione adulta? L'ossitocina. Ancora: se una persona non è ipnotizzabile e quindi non può ricorrere a questa tecnica psicologica per condizioni mediche che potrebbero beneficiarsene, c'è un farmaco capace di renderla ipnotizzabile? Sì, sempre l'ossitocina. E si può indurre le persone a essere più generose, ad esempio nel fare donazioni in denaro ad associazioni benefiche? Anche in questo caso la risposta è positiva: merito dell'ossitocina.
Si potrebbe proseguire con un lungo elenco di azioni diverse, visto che l'ossitocina è l'ormone dei legami sociali, può modificare positivamente le capacità empatiche degli individui e la loro modalità di rapportarsi con gli altri. Il legame tra carenza di ossitocina e depressione adulta è stato individuato da una ricerca, pubblicata sulla rivista Stress da Jolanta Opacka-Juffry e Changiz Mohiyeddini dell'Università di Londra, mentre l'azione pro-ipnotizzabilità di questo potente neuropeptide è stata scoperta da alcuni ricercatori dell'Università del South Wales di Sidney, in Australia, guidati da Richard Bryant, e pubblicata in un articolo uscito sulla rivista Psychoneuroendocrinology.
L'ossitocina è prodotta dall'ipotalamo e viene immagazzinata nella parte posteriore dell'ipofisi. Da lì, questo neuropeptide, composto da nove aminoacidi, parte per distribuirsi in tutto l'organismo per via nervosa o con la circolazione del sangue. All'inizio del secolo scorso, quando fu scoperta, si sapeva che era in grado di far contrarre l'utero (il termine "ossitocina" viene dal greco antico e vuol dire "nascita veloce"), poi si scoprì che serviva anche per facilitare l'allattamento al seno. Negli ultimi anni ad ogni azione di questa molecola se ne è aggiunta un'altra, con un progressivo spostamento verso l'area psicologica e sociale. Oggi è indicata come la molecola del benessere, perché aumenta il senso di fiducia in se stessi, migliora la capacità di stringere legami sociali e di comportarsi in maniera corretta e altruista.
«L'ossitocina gioca un ruolo centrale nella modulazione dell'ansia» dicono Waguih William IsHak della Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles e i suoi collaboratori, autori di una revisione su questa straordinaria molecola, pubblicata sul Journal of affective disorders. «Esercita quest'azione attraverso specifici recettori per l'ossitocina che sono stati trovati nell'amigdala, struttura fondamentale nel percorso neurologico che media la paura, la fiducia e il riconoscimento sociale».
L'ossitocina è capace di tenere a freno l'attività dell'amigdala, piccola struttura cerebrale che risulta troppo "eccitata" negli stati ansiosi e depressivi. Il livello circolante nel sangue di questa sostanza aumenta dopo stimoli positivi e piacevoli, come il calore, il tocco di un altro essere umano, l'esposizione a odori gradevoli e alla musica. L'ossitocina inoltre è più elevata nel sangue delle persone che sono inserite in una buona rete sociale, rispetto a chi è invece isolato. È responsabile del senso di quieto benessere che si prova dopo l'orgasmo sessuale, e rappresenta una fondamentale base biochimica dell'attaccamento tra madri e figli.
La somministrazione di questo ormone come farmaco ha una serie di azioni favorevoli, come la riduzione del livello di pressione arteriosa, che prosegue per giorni anche dopo una sola somministrazione, la riduzione del desiderio di assumere sale, l'abbassamento del tono simpatico-adrenergico, che è aumentato invece dallo stress.
Ma come tutti i farmaci molto attivi, anche l'ossitocina può avere sia importanti effetti collaterali, sia effetti inaspettati e negativi, a seconda della disposizione delle persone che la assumono (si vedano gli altri articoli in questa pagina).
Corriere Salute 10.6.12
È stata chiamata anche l'ormone "dell'amore"
Relazioni complesse con droga e alcol
di D. d. D.
È stata chiamata anche l'ormone "dell'amore", e in effetti il livello di ossitocina tende ad aumentare nel plasma delle coppie che stanno insieme da poco. Lo dice uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Bar-Ilan (Israele) e della Yale University di New Have (Stati Uniti) coordinati da Inna Schneiderman, e pubblicata sulla rivista Psychoneuroendocrinology. «Si tratta del primo studio che ha esplorato in maniera longitudinale l'attaccamento romantico da un punto di vista biochimico» dicono gli autori della ricerca. Selezionate 30 coppie, formatesi da non più di tre mesi, i ricercatori le hanno paragonate a un gruppo costituito da 43 single, e hanno rilevato che in questi ultimi i livelli di ossitocina erano significativamente inferiori a quelli delle coppie di innamorati. E in questi ultimi l'alto livello di ossitocina si è mantenuto fino all'osservazione ripetuta al nono mese.
Altre ricerche hanno trovato una correlazione anche tra ossitocina e attività sessuale; non c'è quindi da meravigliarsi se, a un certo punto, l'ormone è comparso su Internet come farmaco proposto per l'aumento della fiducia in se stessi e il miglioramento delle prestazioni sessuali.
«Attualmente l'ossitocina è autorizzata in Italia solo per l'induzione del parto — spiega la professoressa Donatella Marazziti, del Dipartimento di psichiatria, neurobiologia, farmacologia e biotecnologie dell'Università di Pisa —. Acquistare ossitocina su Internet è un'attività che implica tutti i rischi legati al commercio online di farmaci: non ci sono garanzie né sulla qualità, né sulla precisione dei dosaggi. Inoltre, va detto che lo spray nasale di ossitocina ha un'emivita - termine che indica il tempo di dimezzamento di un farmaco dopo la sua somministrazione - di pochi minuti e, quindi, viene eliminata velocemente dall'organismo». Un aspetto che contribuisce a renderne aleatoria l'efficacia.
«Al momento ci sono veramente pochi dati per dire che l'ossitocina sia in grado di svolgere questo tipo di azione — continua l'esperta — . Teoricamente, sarebbe possibile un suo ruolo nel miglioramento della funzionalità sessuale, per la sua capacità di aumentare la libido, indurre l'orgasmo e anche l'erezione. Ma ho usato il condizionale: infatti, da qui a dire che questo neuropeptide possa diventare una valida alternativa al Viagra, la strada è molto lunga».
In virtù delle sue potenzialità socializzanti, l'ossitocina è stata proposta anche per il trattamento di disturbi psichici incentrati su una "difettosa" relazione con il mondo circostante, come l'autismo e la schizofrenia. È un ambito di esplorazione recente e attualmente sono in corso circa 40 trial clinici, che stanno sollevando speranze, anche se non ci sono ancora conclusioni scientificamente affidabili.
«Queste potenzialità sono legate a una duplice azione dell'ossitocina, che, da un lato, riduce l'attività dei sistemi biologici che regolano lo stress e, dall'altro, attiva quelli di gratificazione o reward. Questo secondo effetto ne fa intravedere un possibile ruolo anche nel trattamento delle dipendenze» dice ancora Marazziti. In effetti, l'ossitocina ha interazioni complesse con alcol e droghe. Interazioni studiate da Nadine Striepens dell'Università di Bonn. Una sua revisione, pubblicata sulla rivista Frontiers in neuroendocrinology, indica che l'effetto antisociale dell'abuso di alcol potrebbe essere mediato proprio dalla carenza di ossitocina presente negli alcolisti cronici, conseguenza della distruzione tossica dei neuroni ipotalamici specializzati nella produzione di questa sostanza. Poi c'è l'ectasy, sostanza illegale con effetti ansiolitici e socializzanti, raggiunti anche attraverso lo stimolo alla secrezione di ossitocina; un effetto simile lo provoca la cocaina, ma solo nel momento dell'assunzione. L'abuso cronico, infatti, riduce i livelli di ossitocina, così che le madri cocainomani spesso non sviluppano un adeguato legame affettivo con la prole, né un adeguato comportamento protettivo.
l’Unità 10.6.12
Nichi Vendola: «Mi candido alle primarie. Dopo il voto, partito unico»
«Dovremo affrontare il tema del soggetto politico del futuro, di quale sarà il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista»
«Niente personalism. Il punto è la sinistra del futuro, dobbiamo unire passioni e idee»
intervista di Simone Coillini
Non solo è intenzionato a lavorare col Pd per un «centrosinistra di governo» che rispetti anche determinati vincoli e preveda una cessione di sovranità da parte delle forze politiche che ne fanno parte. Non solo è pronto a candidarsi alle primarie annunciate da Pier Luigi Bersani, che andranno concepite «come uno straordinario processo di ripoliticizzazione della società». Ma Nichi Vendola dice anche che dopo le prossime elezioni «si potrà affrontare con scelte coraggiose, fuori e dentro le istituzioni, il tema del soggetto politico del futuro».
Partiamo dal convegno organizzato dalla Fiom, a cui avete partecipato lei, Di Pietro e Bersani: lo scontro tra il leader Idv e quello del Pd fa compiere un passo indietro rispetto a Vasto?
«No, anzi io considero questo appuntamento un passo in avanti, perché dopo tanto tempo le sinistre sono tornate a parlarsi. Sono così disabituate a farlo che sono ricorse ai toni incandescenti, e vorrei invitare tutti a non rimanere prigionieri della diffidenza, della propaganda di partito, delle bandierine personali. Ora dobbiamo lavorare insieme per mettere in campo un’alternativa vincente che rompa il muro dell’antipolitica, dobbiamo unire le nostre passioni e idee su come rilanciare l’Italia in un’Europa che ha un drammatico bisogno di sinistra». Lei parla di sinistra ma Di Pietro dice che in Parlamento non c’è un centrosinistra contro un centrodestra, che per lui non è questione di ideologie ma di coerenza.
«Lo stile di Di Pietro è rude e talvolta propagandistico, tuttavia continuo a pensare che il mondo che rappresenta sia un valore aggiunto per il centrosinistra. Gli elementi che ha sottolineato con un certo grido di indignazione vanno tenuti in considerazione».
Come le nomine Agcom?
«Ad esempio, scandalose. Per non parlare del degrado culturale rappresentato dal fatto, come abbiamo visto da ultimo sulla Rai, che l’unico deposito di competenze a cui attingere si chiami banca. A cosa allude il fatto che si ricorra a simili figure per ruoli dirigenziali nelle reti pubbliche? Monti ha detto di non sapere neanche se le persone nominate abbiano la tv in casa. E allora qual è l’unica chiave razionale di una scelta così dissennata? La prospettiva è quella di privatizzare la Rai?».
Le si potrebbe obiettare che è un retropensiero pregiudiziale da parte di chi è contrario al governo Monti, non crede?
«No, è un retropensiero lecito vedendo come si sta muovendo questo governo, che costituisce un problema per il Paese. E mi dispiace che Bersani appaia ancora prigioniero di troppe contraddizioni. Una sopra tutte: non si può evocare una nuova civiltà del lavoro e restare inerti mentre i tecnocrati smantellano i diritti sociali e l’idea stessa del lavoro come diritto. Per rendere credibile lo sforzo di costruire l’alleanza per il futuro, per poter fare appello al mondo del lavoro, bisogna evitare oscillazioni ed ambiguità. Altrimenti si rischia soltanto di alimentare l’onda nera dell’antipolitica». Sta dicendo che per lavorare a un’alleanza di centrosinistra è necessario che il Pd rompa con Monti?
«Sto dicendo che se vogliamo ricostruire la credibilità e la forza del centrosinistra di governo bisogna dare una risposta credibile e immediata al maturarsi della crisi sociale e democratica. Bisogna prendere atto del fatto che il tentativo, generosissimo, del Pd di condizionare un governo di tipo tecnocratico con scelte più marcatamente orientate nella direzione della crescita e della tutela del welfare è fallito».
Bersani ha annunciato entro la fine dell’anno primarie aperte per la premiership: lei si candiderà?
«Io sono a disposizione. Non sono nato candidato delle primarie a vita. Né sono roso da ambizioni personali. Qualora per rendere credibili le primarie, per dar vita a una contesa vera, e qualora servisse per mettere in relazione una piattaforma programmatica con le istanze della sinistra, io non mi sottrarrò. Le primarie possono essere l’occasione per un ascolto, per una contaminazione, per una forte messa in relazione tra politica e società».
Bersani, parlando del centrosinistra di governo, ha proposto una cessione di sovranità e decisioni a maggioranza dei gruppi parlamentari: la sua opinione? «Concordo con Bersani sull’idea che non bisogna replicare gli spettacoli molto tristi del passato governo, di un centrosinistra permanentemente rissoso e incapace di esprimersi come classe dirigente con un progetto forte. Il primo vincolo, allora, è rappresentato dal responso delle primarie, con la piattaforma legata al candidato premier. La prima cessione di sovranità è nei confronti degli elettori delle primarie, che non sono un concorso di bellezza. Poi dovremmo avere il coraggio di uscire dalla logica autoconservativa dei partiti così come sono, e all’indomani delle elezioni dovremo affrontare il tema del soggetto politico del futuro, di quale sarà il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista. E potremo affrontarlo con scelte coraggiose, dentro e fuori le istituzioni». A cosa pensa, concretamente?
«Se le cose andranno bene, nessuno ci impedisce di sperimentare in Parlamento un’unità più compiuta, delle forti sinergie tra gruppi parlamentari».
E fuori dalle istituzioni? Pensa in prospettiva a una fusione tra Pd e Sel?
«Il problema non è la fusione di Pd e Sel. Il punto è la sinistra del futuro. Dovremo lavorare a una grande ricostruzione dei luoghi della sinistra».
Repubblica 10.6.12
Vendola lancia il listone della sinistra “Sciogliere Sel? A me interessa la partita”
“Vasto non basta, ma Tonino non uscirà dalla coalizione”
intervista di Giovanna Casadio
Vendola, sottoscrive le parole di Di Pietro contro Bersani? «Non le sottoscrivo, la mia specialità del resto non sono le intemperanze né l’irascibilità». Ma lei con chi sta: con Bersani o con Di Pietro? «Intanto voglio dire che è positivo che tante anime del centrosinistra riprendano a parlarsi sia pure in modo frizzante, e soprattutto che lo facciano davanti a una platea inquieta e esigente come quella della Fiom. È una finta ingenuità stupirsi delle asprezze e dei toni rudi. Conosciamo le divaricazioni e i contrasti. Non avremmo avuto il ventennio berlusconiano se la sinistra non si fosse così accuratamente divisa». Questa è la malattia antica. Ma lei quali idee ha per il futuro? «Il fatto nuovo è che ci sia una ripresa di parola davanti alla questione sociale. Io non vorrei neanche sovraccaricare di significati i toni usati da Di Pietro, che si è posizionato con forza, ma dubito molto che la sua sia un’uscita dalla coalizione del centrosinistra». Sta cercando di tenersi in equilibrio, Vendola? «No, sto cercando di mettere tutti davanti alle responsabilità che abbiamo di costruire unitariamente l’agenda del cambiamento poiché siamo collocati sull’orlo di un cratere e il vulcano della crisi sociale, della disoccupazione di massa, della recessione, della povertà può eruttare da un momento all’altro. Essere responsabili non significa cercare il minimo comune denominatore, bensì costruire un patto con il mondo del lavoro e le giovani generazioni. O il centrosinistra è questo oppure non c’è, è un artificio elettorale». La “foto di Vasto”, quell’alleanza Vendola, Di Pietro, Bersani è strappata, rotta? «Per me la foto di Vasto è sempre stata solo l’evocazione di una possibilità: quella di un’uscita a sinistra dalla crisi del berlusconismo. I protagonisti di quell’immagine sono forse necessari, ma non sufficienti, per incarnare una grande e credibile alternativa. Comunque io scelgo la piattaforma della Fiom “senza se e senza ma”». Si presenta alle primarie del Pd? «Sono a disposizione». Cioè, si presenta o no? «Di mestiere non faccio il candidato alle primarie, non sono divorato dalle ambizioni personali ». Ma fu lei a lanciare la sfida. «Oggi siamo in un evo differente rispetto al luglio 2010. È una scelta che si compie collettivamente, non sono un ragazzo in carriera». Sarebbe disposto a sciogliere Sel, il suo partito? «Ho detto, nel congresso di fondazione, che più che il partito mi interessa la partita per uscire dall’egemonia della destra». Pensa forse a un “listone” della sinistra? «Siamo impegnati nella costruzione di un nuovo soggetto plurale, popolare, della sinistra del futuro così come lo evocano gli intellettuali di ALBA e i sindaci, da Pisapia a Emiliano, De Magistris, Zedda, Orlando... ». Ci sarà una lista Fiom alle elezioni? «Penso di no, la Fiom sta facendo bene il sindacato ed è un compito politico». Andrebbe al voto “divorziato” dal Pd? «Non andrei mai diviso dalle ragioni del mondo del lavoro». Bersani e l’impegno per i gay: a lei, omosessuale, quale effetto fa? «Bene, ora però la battaglia in Parlamento. Mi sono sentito troppe volte preso in giro dal piccolo cabotaggio, dall’ipocrisia, dal “vorrei ma non posso”. L’impegno è il minimo che la decenza impone a qualunque forza democratica, visto che l’Italia vive dentro una tenebra oscurantista».
l’Unità 10.6.12
Unioni civili
Il gay pride a Bologna Bersani: legge urgente
Il corteo: siamo senza diritti. Il leader Pd: stop al «Far west»
Bersani: «Contro il far west, una legge per unioni stabili»
Messaggio del segretario al Gay Pride. Scalfarotto (Pd): Lavoriamoci. Arcigay: i Dico? Non bastano
di Mariagrazia Gerina
È il giorno del Gay Pride. E Pier Luigi Bersani cerca parole chiare per parlare a un popolo meno variopinto del solito, che, senza carri per solidarietà con le popolazioni terremotate, sfilava ieri sotto le Due Torri. «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico», scandisce il messaggio di adesione del segretario Democratico alla manifestazione nazionale del movimento Lgbt. Un messaggio programmatico, che mette in fila i nodi irrisolti in tema di diritti civili che tengono l’Italia fuori dal novero dei «principali paesi occidentali»: unioni omosessuali, appunto, legge contro l’omofobia e la transofobia («è intollerabile che questo parlamento non sia riuscito a vararne una») e poi diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia, divorzio breve, testamento biologico. «Anche su questi temi, nei mesi che verranno da qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese», scandisce Bersani, schierando in modo deciso il Pd con le «forze progressiste che in tutto il mondo, da Obama al neo-eletto Hollande, sono impegnate a costruire un nuovo civismo», fatto di «pari diritti e pari opportunità, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e identità di genere».
«Una lettera bellissima», lo ringrazia la deputata Paola Concia, firmataria di varie proposte di legge che vanno sotto la rubrica “diritti civili” e giacciono da tempo in parlamento. «Era ora», chiosa il leader di SeL Nichi Vendola. E mentre il portavoce dell’Arcigay, Paolo Patané, avverte: «Passo interessante ma non sufficiente, ci vuole il matrimonio civile», il vicepresidente del Pd Scalfarotto indica «le unioni civili sperimentate in Nord Europa» come un modello non ideale ma possibile su cui lavorare «insieme» e in calza i Democratici: «Adesso dobbiamo giungere a una proposta chiara con il Comitato diritti, presieduto da Rosy Bindi».
Intanto dal Pdl, parte il coro dei censori. Gasparri grida già a «Bersani come Zapatero». Qualgliariello mette in guardia Casini, sconsigliando al leader centrista «innaturali cartelli elettorali». Eugenia Roccella corre a tracciare attorno a Bersani il «perimetro delle alleanze possibili», che ovviamente, a suo avviso, esclude i cattolici. Mentre l’Udc Buttiglione scandisce il suo adagio: «Se Bersani intende parlare al Paese delle unioni omosessuali, noi continueremo a parlare in difesa della famiglia».
La Stampa 10.6.12
La mossa del segretario. Una legge per le coppie gay
E con le primarie parte il toto-successore alla guida del partito
Se Bersani sarà a Palazzo Chigi Letta lo seguirà; nel partito gara tra Bindi, Franceschini e Renzi
di Carlo Bertini
ROMA Non sono passate neanche 24 ore e la campagna per le primarie già si surriscalda: con un occhio di riguardo verso la vasta comunità gay che vota a sinistra, la prima mossa che fa Bersani, dopo aver annunciato la sua candidatura, è di stampo «zapaterista», per dirla con il ciellino Maurizio Lupi. «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico», dice testuale il segretario del Pd in un messaggio ai promotori del Gay pride 2012 di Bologna. E non c’è da stupirsi se il leader Pd, insieme alla voglia di sbarazzarsi di Di Pietro ormai equiparato al «peggior Grillo», cerchi al contempo di posizionarsi al meglio per le primarie: nella convinzione che «gira la caricatura di un Pd fermo e quindi dobbiamo muoverci e prendere delle iniziative». E si può immaginare come le reazioni a questa uscita del leader Pd scaldino anime e cuori a sinistra. Ignazio Marino subito tira fuori il suo disegno di legge sulle unioni civili, Vendola quasi non crede alle sue orecchie e sfida il Pd a passare dalle parole ai fatti in Parlamento. La Concia in prima fila a Bologna se la sente di promettere che quando il suo partito tornerà a governare, saranno approvate quelle leggi a tutela dei diritti dei gay. E il Pdl, preoccupato dal disegno di Bersani di mollare Di Pietro per stringere un patto di governo con Casini, subito prova a stanare l’Udc. Che se la cava con una voce autorevole come Buttiglione: convinto che non sia necessario esser d’accordo proprio su tutto «per un programma politico di salvezza dell’Italia» e che per l’Udc un valore «non negoziabile» resterà la difesa della famiglia.
E’ solo il primo effetto di una campagna che andrà avanti per tutta l’estate: il secondo è più interno al Pd. Dove la previsione di una vittoria di Bersani su Vendola e Renzi (che non mollerà la poltrona di sindaco durante la sfida) mette già in moto le fantasie sul successore per la guida del partito; visto che il vincitore delle primarie dei progressisti in base ai sondaggi è dato pure in planata verso Palazzo Chigi. Meccanismi fisiologici nei partiti e in tutte le organizzazioni verticistiche, ma che nell’era del web subiscono un’accelerazione più marcata. Non a caso il sito nato da poco Retroscena.It, sempre ben informato su tutto ciò che si muove al Nazareno, ieri mattina già riportava scenari suggestivi; che una fonte ben addentro alla stanza dei bottoni, definiva «perfino verosimile, ad oggi». E cioè che se Bersani guiderà l’esecutivo, il suo vice Letta lo potrebbe seguire al governo in un incarico di rilievo, con la Bindi e Franceschini in pole position per la poltrona di segretario, ma alle prese con un peso (diventato a quel punto massimo) come Renzi. Che nel caso ottenesse il 30-35% dei voti alle primarie, oltre a prenotare la successione a Bersani, anche da Firenze potrà gestire un tesoretto di consensi che gli varrà l’ultima voce in capitolo su nomine e cadreghe varie. Tutte fantasie premature di sicuro, ma certamente vive nella testa dei plenipotenziari, che prima di rinunciare a candidarsi alle primarie per aiutare sul campo la vittoria di Bersani, si faranno i loro conti.
E se è vero che spesso il web anticipa i tempi, anche nel caso di Di Pietro basta scorrere il coro di voci dei suoi elettori sui siti Idv per capire come la voglia di mollare il Pd per «allearsi con Grillo» sia più che una richiesta, ma quasi un’ingiunzione. Che spiega la vis polemica dell’ex pm, così come la presa d’atto del Pd che «ormai Tonino ha preso un altro abbrivio».
Corriere 10.6.12
«Legge sulle coppie gay» Diventa un caso l'apertura di Bersani
A Los Angeles Fioroni frena: non è il tempo giusto
di Maria Teresa Meli
ROMA — «Basta con il far west, serve una legge per le unioni civili»: Pier Luigi Bersani invia il suo messaggio al Gay Pride nazionale di Bologna, scegliendo di rompere gli indugi e di usare quelle parole chiare che finora non aveva mai pronunciato.
L'altro giorno la mossa a sorpresa sulle primarie, ora questa uscita sugli omosessuali: il segretario sembra aver innestato la quarta. Ed effettivamente è così. Con i compagni di partito il leader non ha nascosto la propria insofferenza nei confronti di come viene dipinto il Pd: «Fanno la nostra caricatura, descrivendoci come un partito fermo, immobile. Adesso basta, è il tempo di muoverci e di prendere delle iniziative». Detto, fatto. Bersani ha parlato con due importanti esponenti Pd del mondo gay, Aurelio Mancuso, presidente di Equality, e Andrea Benedino, e dopo essersi consultato con loro ha mandato quel messaggio: «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico».
Per Bersani è anche «intollerabile che questo Parlamento non sia riuscito a varare una legge contro l'omofobia e la transfobia: sarà anche su questi temi — sottolinea il segretario del Pd — tra cui mi permetto di aggiungere il divorzio breve, l'introduzione del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia e il testamento biologico, che nei mesi che verranno di qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese».
Come era ovvio, le parole di Bersani hanno suscitato un dibattito dentro e fuori il Pd. Scontati i «no» dei pdl Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello, che approfittano dell'occasione per seminare zizzania tra Casini e Bersani. E altrettanto ovvio anche il «no» dell'Udc Rocco Buttiglione. Ma è all'interno del partito che il segretario rischia di trovare le resistenze maggiori. Come dimostrano le critiche che gli rivolge Beppe Fioroni: «Io faccio mie le parole che Benedetto XVI ha pronunciato nel corso di un incontro con un milione di persone a Milano: la politica non prometta cose che non può mantenere. E oggi con le famiglie che non riescono ad andare avanti, con la povertà e la disoccupazione, il nostro programma deve essere quello di tentare di risolvere la crisi. Sbagliare i tempi in politica è come fare cose sbagliate». Per un Fioroni che prende le distanze dal segretario, c'è una Paola Concia entusiasta: «Ottimo Bersani, andiamo avanti così». Del resto, la deputata del Pd e Aurelio Mancuso sono tra coloro che più si stanno muovendo per ottenere che il Partito democratico imbocchi la strada dei diritti civili. Possibilmente, senza tornare indietro.
E Matteo Renzi? Qual è la posizione del più importante competitor di Bersani? Il sindaco di Firenze spiega di essere favorevole alle unioni civili per i gay: «Del resto, questa richiesta era già nei cento punti della Leopolda. Purtroppo per Bersani, la campagna elettorale non sarà su quello». Ma quella per le primarie sì. Almeno questo è quello che teme il cattolicissimo Fioroni e che al contrario sperano Mancuso e Concia.
il Fatto 10.6.12
La Fiom fischia l’inizio
Il segretario del Pd contestato sull’articolo 18, ma Landini detta la linea a chi vuol vincere le primarie
di Giorgio Meletti
Pier Luigi Bersani va a prendersi i fischi della platea con piena consapevolezza. E qui sta il successo di Maurizio Landini. La sua Fiom è messa alle corde dalla Fiat, cacciata dalle fabbriche in cui ha detto no, isolata da Fim-Cisl e Uilm che per conto loro preparano la piattaforma del prossimo, ennesimo, contratto separato dei metalmeccanici. La Fiom è insomma un sindacato che, nelle grandi partite nazionali, non riesce a fare il sindacato. Eppure mette a segno un risultato impensabile per la stessa sorella maggiore, la Cgil di Susanna Camusso. Convoca all’hotel Parco dei Principi, nella sala passata alla storia per i convegni cripto-golpisti degli anni 60, tutti i leader del centrosinistra. E loro arrivano.
Non è il solito convegno del sabato mattina dove il politico arriva sull’auto blu sgommante, fa il suo discorsetto e se ne va senza curarsi di quel che si dice prima e dopo la sua epifania. No, stavolta arrivano tutti puntuali, da Bersani (Pd) a Oliviero Diliberto (Pdci), da Paolo Ferrero (Prc) a Antonio Di Pietro (Idv), fino a Nichi Vendola (Sel). E rispettosi ascoltano in attesa del proprio turno.
C’È IN BALLO una cosa molto seria. Per isolata e sbrindellata che la si voglia considerare, la Fiom è oggi l’unico vero avamposto della sinistra nei territori sociali della crisi. Nella sua disperazione, che si tradisce in una clamorosa excusatio non petita (“i lavoratori non ci stanno abbandonando”), Landini rischia di diventare l’arbitro delle primarie del centro-sinistra.
Se dentro l’organizzazione c’è chi, come l’uomo dell’auto Giorgio Airaudo, pensa che la capacità di pressione sulla politica si moltiplichi facendo balenare addiritturalaremotaipotesidilisteFiom, Landini preferisce limitarsi alla forza di un messaggio formulato come il grido di dolore dei pezzi di società più esposti alla crisi. Un grido che suona più o meno così: sul terreno sindacale puro non ce la facciamo più a reggere l’urto, stiamo arretrando sul piano delle condizioni di vita e anche delle libertà sindacali, il problema che vi rappresentiamo va affrontato sul piano politico. Un appello vero, che viene dalla pancia profonda del popolo Fiom, alla ricerca di risposte e non di leader o nuovismi. Come dimostra l’autentica ovazione rivolta dalla platea alla lucidità d’analisi del quasi ottantenne giurista Stefano Rodotà, di gran lunga l’oratore più applaudito del giorno, molto più dello stesso Vendola, per la precisione.
L’appello di Landini è chiaro, nel suo mescolare formule antiche e invenzioni sorprendenti. A un “noi vi incalzeremo”, vagamente démodé, affianca un paio di fendenti da fare invidia a Beppe Grillo per efficacia. Il migliore è questo: “Ho letto che il premier ha detto a Marchionne che la Fiat è libera di investire dove le pare. Monti, ma solo noi dobbiamo farci carico dell’interesse generale quando paghiamo le tasse? ”.
Landini non è tenero con gli ospiti. A Bersani, implicitamente, mette in conto le nequizie attribuite al governo Monti. A Vendola che evoca lo spettro dell’antipolitica come “invenzione della borghesia, come la parola casta”, ricorda che la Fiom si prende la libertà di criticare tutto respingendo il ricatto della “etichetta dell’antipolitica”.
E quindi di qui si passa. Ferrero e Diliberto hanno gioco facile a dire che il programma di Landini è il loro programma, come faceva Silvio Berlusconi ai convegni della Confindustria. Di Pietro, sebbene scortato dall’ex Fiom Maurizio Zipponi che oggi è il responsabile del lavoro per Idv, va completamente fuori tema e si infila nella rissa politica con il Pd.
PER BERSANI la cosa è più complicata, perché fuori tema non può permettersi di andarci. Sa su quale terreno è venuto a prendersi i fischi, e se li va a prendere come una medicina amara ma inevitabile. Prima inforca sulla nascita del governo Monti, con toni da solidarietà nazionale anni 70, o se si preferisce riproponendo lo stile autunno-inverno 1998 (modello “c’era la Serbia da bombardare”): “A novembre era in discussione il pagamento degli stipendi pubblici. Non c’erano i voti per andare a votare. L’alternativa non era tra governo Monti ed elezioni, ma tra governo Monti e continuare con Berlusconi”. Fischi. Si replica molto più rumorosamente sull’articolo 18. Dopo che Di Pietro gli ha rinfacciato il voto di fiducia alla riforma che rende più facile il licenziamento, Bersani abbozza un poco convinto “ritengo che si sia fatto argine”, e i fischi coprono il sussurro che segue, “in una situazione difficile”. Eppure Bersani è qui per giocarsela. Sottoscrive qualche punto del decalogo di Landini, abolizione dell’articolo 18, promette un tentativo di rivincita anche sul 18, riparla della patrimoniale. Ma la sua parola d’ordine, detta sul palco e rilanciata poi nelle dichiarazioni a margine è quella di un programma di governo “cha faccia cardine sul lavoro”.
La carta laburista se la giocò già nella campagna per la segreteria del Pd contro l’ex democristiano Dario Franceschini. Adesso deve aspettare l’estate, quando il governo Monti sarà criticabile senza timore di farlo cadere, per riproporre lo schema di gioco alle primarie per la candidatura a premier. Avrà di fronte Vendola e il sindaco di Firenze Matteo Renzi. Ieri Landini gli ha proposto una ricetta per non restare schiacciato tra i due avversari. E Bersani, solo con il fatto di presentarsi, ha dimostrato di gradire.
il Fatto 10.5.12
Decalogo. Le tute blu chiedono di fare così
Questo il decalogo dei punti di programma che il segretario generale della Fiom-Cgil Maurizio Landini ha proposto ai partiti del centro-sinistra. 1. Legge sulla rappresentanza. Modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che limita l’agibilità sindacale alle organizzazioni “firmatarie di contratti”. 2. Abolizione dell’articolo 8, che consente ad accordi sindacali di derogare le leggi sul lavoro. 3. Lotta al precariato. Norme più restrittive sui contratti atipici di quelle della riforma Fornero. 4. Reddito di cittadinanza. 5. Articolo 18. Ripristino della garanzia, abolita dalla Fornero, del reintegro per il licenziamento ingiusto. 6. Età pensionabile. Abbassarla per i lavori usuranti, diversificarla a seconda del mestiere svolto. 7. Fondi pensione. Investire le quote dei lavoratori nei fondi negoziali sulle attività produttive italiane. 8. Riduzione orario di lavoro, con la detassazione. 9. Piano per la mobilità. Nuovo modello ecologico per l’industria dei trasporti. 10. Finmeccanica. Bloccare la vendita delle industrie civili (energia e ferro
il Fatto 10.6.12
Divorzio fra Bersani e Di Pietro. Sinistra verso la doppia coppia
Vendola cerca la mediazione impossibile
Ferrero esulta e si schiera con l’Idv
di Wanda Marra
Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista, ha un sorriso larghissimo. “Ci sono due schieramenti. Finalmente. Da una parte noi con Di Pietro, dall’altra Vendola con Bersani”. All’assemblea della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, il segretario Pd ha appena detto senza mezzi termini che “Di Pietro conosce il diritto e dovrebbe sapere che sta commettendo un reato: la diffamazione del Partito democratico”. Dopo mesi di strappetti e una settimana in crescendo, questo sembra lo strappo definitivo. Peraltro condiviso: “Bersani fugge il confronto”, dice il leader Idv. È netta l’analisi di Ferrero. E in effetti, l’impressione che si ricava all’ Hotel Parco dei Principi a Roma è proprio questa. La sinistra-sinistra, riunita da Maurizio Landini e Giorgio Airaudo, è rappresentata un po’ tutta: non solo i leader di Pd, Idv e Sel, ma, oltre a Ferrero, il leader del Pdci, Oliviero Diliberto (i due sono insieme nella Federazione della Sinistra), il sindaco di Bari, Michele Emiliano. Dice tutto il posiziona-mento nello spazio. A destra (guardando il palco) è seduto Bersani. Vicino a lui il responsabile economico, Stefano Fassina, l’ala più sinistra dei Democratici, miglior biglietto da visita per la Fiom. Dall’altra parte, Nichi Vendola. A sinistra (guardando il palco) ci sono Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto.
A sferrare l’attacco frontale è Di Pietro: “Non ce l’ha ordinato il medico di stare insieme. La politica in questo momento è offesa da chi fa le spartizioni sull'Agcom, su chi vota la fiducia sull'articolo 18, su chi va in piazza e poi sta con il governo Monti”, dice dal palco. Poi il de profundis finale della foto di Vasto: “Gli elettori non hanno bisogno di una foto ma di una proposta concreta, come ha detto Romano Prodi, non vogliamo fare scelte suicide ma scelte di campo ”, dice tra gli applausi. Dal palco Bersani non risponde. Fa un intervento in cui cerca di agganciare i metalmeccanici, salvando capra e cavoli. Mentre promette che sull’età pensionabile “ci metteremo una pezza”, dice che così “il piano Finmeccanica non va bene”; mentre tra fischi sonori cerca di giustificarsi sull’articolo 18 (“abbiamo fatto da argine” e “non era minimamente nelle mie intenzioni discuterlo”), riscrive la storia degli ultimi mesi di B. dicendo che “l’alternativa non era tra Monti e le elezioni, ma tra Berlusconi e Monti”. Platea fredda, contestazioni, applausi striminziti alla fine.
IL LEADER democratico poi si siede e ascolta l’intervento di Vendola. Mentre questi mette in campo tutta la sua abilità affabulatoria, il segretario democratico si lascia scappare qualche segno di insofferenza. Sfoglia Le Monde, si sofferma sull’Unità, manda messaggi, chiacchiera con Fassina. Vendola, d’altra parte, cerca di conciliare quello che sembra inconciliabile. “Non servono bandierine di partito”, ma “abbiamo bisogno di unità”, dice. E si lancia in affermazioni tipo “l’antipolitica è una trovata della borghesia italiana”. Fino agli appelli: “Facciamo una coalizione sul lavoro”. Tiene la platea, ma non frena la veemenza di Bersani che esce e dà del “diffamatore” a Di Pietro: “Darci degli inciucisti è diffamatorio”. È la rottura. D’altra parte, la strategia del Pd (o almeno del segretario) è chiara. A spiegarla, Fassina: “Adesso faremo una carta che tutti potranno sottoscrivere e poi partecipare alle primarie”. E dunque, tutti da Airaudo, se vuole, a Renzi, a Vendo-la. Di Pietro? “Se sottoscrive il patto anche lui”, dice Fassina, con un’aria scettica di chi sa che non andrà così. Dopo il voto, spiega ancora il responsabile economico “proporremo un patto di governo con i moderati”. Strana concessione da un uomo di sinistra. Spiega lui: “La prossima sarà una legislatura costituente, per fare le riforme”, riecheggiando le parole di Enrico Letta (esattamente ai suoi antipodi nel partito) in direzione venerdì. Di Pietro, fuori. Dentro, Casini. E Vendola? Dentro, ma se si adegua. Il leader Idv, dal canto suo ha una strategia speculare: da qui a un anno, i partiti saranno morti, il ragionamento. E dunque, tanto vale cercare di conquistarsi uno spazio a sinistra della sinistra. Tirando dentro la Fiom, se è possibile. E magari Grillo. “Hanno fatto come due maschi che si misurano”, banalizza Vendola. Ma se dovesse scegliere? “Non si può rinunciare né all’uno nè all’altro”, (non) risponde, criticando l’appoggio a Monti, ma rendendosi disponibile per le primarie. La scelta è solo rimandata.
l’Unità 10.6.12
De Luna: «I gazebo, una scossa salutare per il centrosinistra»
Per lo storico «le primarie sono una scelta coraggiosa ma non vanno intese in maniera narcisistica. Non si batte Grillo copiandolo»
di Bruno Gravagnuolo
Fa bene Bersani a lanciarsi nelle primarie. Anche se non mi nascondo le contro-indicazioni dello strumento, per come è fatto nel Pd. Importante era sparigliare, per rilanciare la forza mobilitante del partito».
È d’accordo col segretario Pd, Giovanni De Luna, storico contemporaneista a Torino, attento a media e storiografia, studioso di azionismo, Lega e antifascismo. Insomma professore, tutto bene? La sfida di Bersani non è in contrasto con la critica dei partiti personali e le sue stesse idee anti-carismatiche? «No, è un’opzione coraggiosa. Non coltivo il mito delle primarie, né ignoro i loro limiti. Ma ora c’è un grande vantaggio da cogliere: rompere la stasi e moltiplicare la mobilitazione rispetto al fatalismo prevalente. Anche in passato le primarie qualcosa lo hanno dato. Hanno accresciuto il potenziale di partecipazione, prolungando l’onda oltre l’occasione elettorale per la quale erano state indette». Già, ma non sempre sono state un affare per il Pd, anzi... «È l’energia che sprigionano a contare. E non vanno intese in maniera narcisistica e “personalistica”, ma come occasione di confronto. Il che spesso è accaduto, malgrado gli incidenti...».
Dunque, nessun contrasto tra partito strutturato, come quello che propugna Bersani, e primarie? «Le primarie non sono alternative al partito, né sinonimo di partito liquido. Anzi possono rinvigorirlo. Fidelizzare militanti ed elettori. Smuovere la passività. Semmai ora il problema è un altro: quale programma e quale legge elettorale?». Giusto, però con il Porcellum che impone premio e coalizione, le primarie hanno un senso. Con un sistema a doppio turno forse no, non le pare? «Il Porcellum va cambiato, ma hanno comunque un senso, tonificante. Nonché politico, nel senso “machiavelliano” della decisione. Purché non siano un tappabuchi, un espediente per dominare la marea antipolitica. Attenzione, Grillo passa. I partiti, quale che sia la forma partito, no. E non si batte Grillo copiandolo, ma con un’idea strategica. Non puramente localistica e leaderistica, come è stato nel caso della Lega, sul cui radicamento ci si è riempita la bocca, per poi vedere come è andata a finire. Quello era un partito personale, arroccato attorno alla segreteria nazionale. È quello che il Pd non deve assolutamente fare».
D’accordo e però quelle di Bersani saranno primarie aperte e di coalizione. Ma che succede in caso di polverizzazione, con tanti «secondi» votati, e un segretario-premier indebolito? Non sarebbe un autogol? «Guardi, i vantaggi superano gli svantaggi. Prima di tutto perché si è trattato di una iniziativa coraggiosa da parte di Bersani. E poi perché è una scossa salutare al corpo del partito, che può prolungarsi ben oltre il momento attuale. Ovviamente, e lo ripeto, non mi nascondo gli aspetti anche “folli” delle primarie, per come sono concepite nello statuto del Pd. Sono aspetti che vanno modificati. Ma ora l’importante è capitalizzare la rottura, e fare il pieno degli aspetti positivi già sperimentati».
Bene, visto che siamo in tema americano, faccia il «political consultant». Se lei se fosse il gosth-writer di Bersani, che cosa gli suggerirebbe? «Se la cava bene da solo. Ma gli direi di insistere su un punto: basta con la passività e il fatalismo. Con l’essere spettatori. L’Italia può tornare a essere protagonista, dopo venti anni di berlusconismo e nel pieno di una crisi devastante. Ecco quel che va trasmesso agli elettori: la concretezza di un obiettivo praticabile. Ma a tal fine è necessario riprendere la mobilitazione. Con orgoglio, proposte e dignità. In Italia e in Europa. Contro inefficienze e iniquità. E tecnici o non tecnici contro l’assurdità del mercato come il migliore dei mondi possibili».
Repubblica 10.6.12
Draghi, Bersani, varie ed eventuali
di Eugenio Scalfari
IL CANTIERE per la costruzione dell’Europa e per la messa in sicurezza dell’euro è stato finalmente aperto e registra alcune novità di notevole importanza. Per comprendere che cosa stia accadendo occorre anzitutto distinguere due diversi livelli operativi: quello dell’emergenza, con obiettivi di breve e brevissimo termine, e quello a più lungo raggio della nascita di un’Unione europea molto più integrata e con maggiore sovranità politica.
I protagonisti che operano su entrambi i campi di gioco sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande, il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Cinque leader di diverso peso divisi in due schiere: la Merkel da un lato, gli altri quattro dall’altro. Ma le novità verificatesi negli ultimissimi giorni è la cancelliera tedesca ad averle messe in campo: la Germania esce dall’angolo in cui era stata chiusa dai fautori d’una politica europea di sviluppo e propone l’obiettivo di costruire lo Stato federale europeo attraverso la necessaria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali per quanto riguarda i bilanci, il fisco, il ruolo della Banca centrale.
Viceversa la Merkel concede pochissimo spazio ai provvedimenti dettati dall’emergenza: nessuna federalizzazione dei debiti sovrani, nessun mutamento nel ruolo della Banca centrale, limitatissime concessioni sui bond a progetto e sul finanziamento degli investimenti transfrontalieri.
Nessun allentamento del rigore, approvazione immediata del “fiscal compact” e della riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.
Su un solo punto importante tra quelli imposti dall’emergenza anche Berlino sembra d’accordo: il Fondo europeo di stabilità è pronto a finanziare le banche spagnole purché il governo di quel Paese dia garanzie di adottare in tempi rapidi i provvedimenti di riforma già concordati con le autorità europee ma non ancora resi esecutivi. La risposta positiva di Madrid renderà possibile l’intervento che finanzierebbe le banche spagnole fino a cento miliardi di euro. A fronte di quest’operazione la “proprietà” di quelle banche passerà temporaneamente al Fondo europeo separando il debito sovrano spagnolo dal debito del suo sistema bancario e interrompendo così il perverso circuito che rappresenta una minaccia diretta contro l’intera architettura finanziaria dell’eurozona.
* * *
La strategia della Merkel può essere letta da due diversi punti di vista: la manifestazione di una decisa volontà della Germania di mettersi finalmente alla guida della costruzione d’un vero Stato federale europeo con tutte le implicazioni che riguardano il rafforzamento delle istituzioni dell’Unione, dal Parlamento ai poteri della Commissione e a quelli del presidente del Consiglio europeo dei ministri. Oppure lo si può guardare come un bluff utilizzato per coprire l’ennesimo “niet” sui provvedimenti di emergenza e di rilancio dello sviluppo. La costruzione dello Stato federale europeo richiederà almeno cinque anni; la Merkel avrebbe perciò lanciato la palla in tribuna solo per guadagnar tempo fino alle elezioni politiche che avverranno nel suo Paese nell’autunno del 2013. Poi si vedrà.
Gli altri quattro protagonisti del quintetto europeo hanno a questo punto una sola strada da battere: prendere la Merkel in parola per quanto riguarda l’obiettivo di lungo termine e ottenere il massimo possibile per fronteggiare l’emergenza e salvare l’euro e le banche europee. Draghi ha guadagnato all’Europa sette mesi di tempo iniettando fino al 15 ottobre del 2013 (con scadenza finale nel gennaio 2014) liquidità illimitata nel sistema bancario dell’eurozona. Ha evitato in questo modo che i depositanti facciano ressa agli sportelli delle banche per trasferire i loro capitali verso i titoli pubblici tedeschi. Sette mesi e una capsula d’ossigeno dentro la quale custodire i depositi bancari facendo migliorare lo “spread” e l’andamento delle Borse. Sempre che le elezioni greche del 17 prossimo non portino all’uscita di quel Paese dall’euro con le devastanti conseguenze che ne seguirebbero. Non credo che ciò avverrà sicché continuo a restare ottimista per quanto riguarda la tenuta dell’euro e – spero – la costruzione dell’Europa federale. Talvolta dal male nasce il bene e dopo la
tempesta arriva la quiete.
* * *
Vale la pena di ricordare che nel quintetto europeo ci sono due italiani: Mario Draghi, che opera a tutto campo e con strumenti che gli consentono interventi immediati e concreti, e Mario Monti (con Giorgio Napolitano alle spalle) che rappresenta nel concerto europeo uno dei Paesi fondatori dell’Unione, dell’euro e della Comunità che ebbe inizio nel 1957 e da cui tutto cominciò.
Monti è alla guida d’un governo sorretto dalla “strana maggioranza” di tre partiti. Uno di essi, quello fondato a suo tempo da Berlusconi, è in una fase di implosione confusionale e in calo verticale dei consensi. Gli altri due – Udc e Pd – sono il vero appoggio su cui si regge questo governo. Il Pd in particolare, che è tuttora stimato attorno al 25-30 per cento dei consensi degli elettori decisi a votare, che a loro volta però rappresentano soltanto uno scarso 50 per cento del corpo elettorale.
In questa situazione una parte del Pd, alla vigilia dei vertici europei dei quali abbiamo già sottolineato l’importanza, ha dichiarato la sua propensione ad accorciare la vita del governo andando al voto nell’autunno prossimo anziché nel maggio del 2013. Il segretario Bersani ha ribadito che l’appoggio dei democratici al governo durerà, come stabilito, fino alla scadenza naturale della legislatura, ma i fautori delle elezioni anticipate hanno proseguito la loro azione in raccordo con Vendola e Di Pietro. Questa situazione non è sostenibile soprattutto perché i “guastatori” fanno parte della segreteria del partito. La logica vorrebbe che, acclarato il loro contrasto con il segretario, si fossero dimessi dalla segreteria.
In mancanza di questa doverosa decisione, spetterebbe al segretario stesso di sollecitare quelle dimissioni o alla direzione costringerli a darle ma il tema non è stato neppure accennato nella riunione dell’altro ieri della direzione, come si trattasse d’una questione di secondaria importanza.
È presumibile perciò che continueranno a svolgere il loro ruolo di guastatori con la conseguenza di indebolire il governo in carica.
La stessa coltre di silenzio è caduta sul caso Penati di cui è imminente il rinvio a giudizio. Questa era l’ultima occasione utile per separare le responsabilità del partito dal gruppo dirigente del Pd in Lombardia. Non si invochi la presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva: è una giusta garanzia che non si applica però al giudizio politico che un partito ha l’obbligo di emettere: o fa corpo con l’imputato fino in fondo o lo espelle fin dall’inizio dai propri ranghi.
Ma c’era un terzo tema di cui il Pd avrebbe dovuto discutere e che ha anch’esso sepolto invece sotto un silenzio tombale ed era quello dell’elezione dei membri dell’Agcom e della Privacy, due importanti Autorità pubbliche che hanno il compito di esercitare il controllo sui rispettivi e importantissimi settori di competenza.
Si sperava che i partiti avrebbero scelto – secondo quanto prescrive la legge istitutiva di quelle agenzie – persone di provata indipendenza e di specifica competenza nei settori sottoposti alla vigilanza. Ma non è stato così. C’è stato tra i tre partiti in questione un ignobile pateracchio di stampo tipicamente partitocratico. Veltroni ha sollevato la questione in direzione e Bersani si è doluto di quanto era accaduto impegnandosi a riscrivere la legge. Ma in realtà la legge sulla nomina di quelle agenzie è chiarissima ed è stata violata dalle scelte dei partiti. Le nomine hanno la durata di sette anni e quindi se ne riparlerà soltanto nel 2019.
Sulle altre questioni, programma, legge elettorale, rinnovamento del gruppo dirigente, eventuali liste civiche collegate al partito e infine elezioni primarie per l’elezione del capo del partito, Bersani è stato chiaro e determinato riscuotendo a buon diritto l’unanimità dei
consensi.
* * *
Il governo Monti, come ripetiamo ormai da tempo, ha fatto molto per evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi mondiale in corso ormai da cinque anni, alla quale il governo del suo predecessore non aveva opposto alcun rimedio negandone anzitutto l’esistenza e praticando poi una politica economica di totale immobilismo.
Negli ultimi tempi tuttavia è sembrato che Monti abbia perso smalto, in parte per l’ovvia impopolarità dei sacrifici che ha dovuto imporre e in parte per alcuni errori compiuti, anche ed anzi soprattutto sul piano della comunicazione.
A questo riguardo gli rivolgiamo qui due domande che ci riserviamo di ripetergli quando lo incontreremo al “meeting” di Repubblica sabato 16 a Bologna dove ha cortesemente accettato di intervenire.
1. Esiste in Italia una questione morale? La domanda non riguarda, o non soltanto, i casi di disonestà di singoli uomini politici. Purtroppo ce ne sono stati e ce ne sono molti in tutti i partiti. La domanda riguarda soprattutto le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici che sono state da gran tempo occupate dai partiti e che debbono essere liberate da quell’occupazione e restituite alla loro autonomia istituzionale. Il caso delle autorità è tipico di quest’occupazione, la Rai è un altro esempio desolante (alla quale Monti ha posto parziale rimedio proprio ieri). E così le Asl e ogni sorta di enti della Pubblica amministrazione. È stupefacente che l’Unità di venerdì scorso pubblichi un articolo in cui si difende l’intervento politico dei partiti nelle nomine dei componenti dell’Agcom e della Privacy. Stupefacente che si teorizzi il criterio della supremazia partitocratica anche sugli enti “terzi” chiamati a garantire il controllo e l’efficienza della Pubblica amministrazione. Questo quadro non configura una questione morale da affrontare da un governo che giustamente vorrebbe cambiare i comportamenti degli italiani?
2. L’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco formulò qualche anno fa un progetto di grande interesse che prevedeva il conferimento ad un Fondo europeo di quella parte dei debiti sovrani eccedenti il rapporto del 60 per cento con il Pil di quel Paese. Il Fondo avrebbe applicato un interesse ottenuto dalla media ponderata degli interessi vigenti nei singoli Paesi i quali sarebbero comunque rimasti titolari dei propri debiti. Piacerebbe sapere dal nostro presidente del Consiglio se un progetto del genere rientri tra le proposte per la costruzione dell’Europa federale. Sembrerebbe infatti molto strana un’Unione federale senza una messa in comune anche se parziale del debito degli Stati membri della federazione.
* * *
Concludiamo richiamando quanto detto da Monti l’altro giorno a Palermo al convegno delle Casse di risparmio a proposito dei “poteri forti” che avrebbero abbandonato il suo governo schierandoglisi contro. Non sappiamo quanto sia pertinente questa denuncia con la politica del governo, ma una cosa è certa: alcuni “poteri forti” sono insediati fin dall’inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica.
Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano. Forse il presidente Monti dovrebbe risolvere questo problema. Spesso la paralisi governativa viene perfino da quegli uffici.
l’Unità 10.6.12
L’editoriale
Il testimone di Berlinguer
di Claudio Sardo
L’11 giugno di 28 anni fa moriva a Padova Enrico Berlinguer. Il suo tratto umano, la sua passione politica, il suo impegno rigoroso sono ancora nel cuore di tanti italiani. Anche di giovani che lo hanno conosciuto solo attraverso letture e racconti. Anche di cittadini delusi che oggi guardano alla politica con distacco e sfiducia.
Il mondo, l’Italia sono profondamente cambiati da allora. Ma le idee di Berlinguer e la sua eredità conservano un grande valore. Politico, non solo etico. È vero che Berlinguer era comunista e che, entro quell’orizzonte ideale ha combattuto la battaglia della vita prima della caduta del Muro, ma era un comunista italiano. E di questa storia originale, di questa cultura fondativa della nostra vicenda costituzionale, di questo affluente che ha innervato e contribuito ad ampliare il circuito democratico del Paese, Berlinguer ha espresso le punte più avanzate. Ne è stato un traino. Ha raccolto un testimone e lo ha portato avanti, molto avanti.
La memoria, la storia sono parti costitutive della politica. Non sono mai separate dalla battaglia dell’oggi. Le stesse idee di rinnovamento, proprio perché propongono e preparano un cambiamento, non possono non contenere una lettura della storia. Altrimenti cosa vorrebbe dire innovare? Cancellare il passato e far finta che il mondo possa ricominciare da zero? Questa semplificazione «nuovista», purtroppo, è stata più volte riproposta nella cosiddetta seconda Repubblica. L’oblio della storia, il taglio delle radici costituzionali, la condanna implicita dei partiti popolari sono stati indicati come la catarsi necessaria per approdare nella modernità. Il nuovismo è diventato parte dell’ideologia di questi anni. E in questo penoso epilogo di seconda Repubblica si torna alla carica.
Non a caso la polemica tra gli storici si sta facendo più intensa. Non a caso tanta attenzione viene oggi riservata ad Antonio Gramsci (l’autore italiano più letto nel mondo dopo Dante Alighieri): si vuole separare Gramsci dal nucleo originario e vitale del comunismo italiano e far apparire Palmiro Togliatti come un passivo esecutore dei diktat staliniani, in questo modo togliendo al Pci la caratura e la dignità di soggetto promotore della ricostruzione democratica, e soprattutto tagliando ogni radice che possa arrivare fino a noi. Per fortuna Giuseppe Vacca ha da poco dato alle stampe un bellissimo libro su Gramsci, che contiene importanti risposte con le quali l’intera comunità scientifica dovrà confrontarsi.
Ma a ben guardare anche la memoria di Aldo Moro continua ad essere sottoposta a un trattamento spietato: la polemica sulla prigionia e sulla trattativa ha quasi oscurato agli occhi dei contemporanei la lezione politica e civile dello statista, che più di ogni altro ha guidato l’allargamento delle basi democratiche e incarnato la peculiarità del cattolicesimo politico italiano. In questo caso le mode nuoviste si sono mescolate con un’indulgenza culturale delle nostre élite verso i terroristi, come ha coraggiosamente scritto Miguel Gotor.
Berlinguer, è vero, è stato in parte risparmiato da tanto aggressivo revisionismo. Era comunista, tuttavia era troppo dentro la modernità per poter subire un trattamento come quello di Togliatti o di Moro. Si è cercato però di depotenziare il suo messaggio, estraendo solo la «questione morale» e cercando di piegarla ad una invettiva contro i partiti. Quasi che lui, comunista, fosse un precursore dell’antipolitica. Berlinguer invece va riletto per intero. È un segno di rispetto, ma è anche il modo per ricevere di più dalla sua testimonianza. Il Berlinguer dell’austerità come leva di un nuovo sviluppo. Il Berlinguer della democrazia come valore universale (discorso pronunciato a Mosca, nel 60esimo della Rivoluzione d’ottobre). Il Berlinguer della laicità e del dialogo con i cattolici nella lettera a monsignor Bettazzi. Il Berlinguer del compromesso storico. Il Berlinguer del movimento di liberazione delle donne. Il Berlinguer dei nuovi bisogni e dell’emergenza ecologica. Il Berlinguer della diversità.
La questione morale fu la grande intuizione e il grande assillo degli ultimi anni della sua vita. Il blocco del sistema politico, seguito alla fine tragica della solidarietà nazionale, aveva iniziato a produrre quei fenomeni corrosivi che avrebbero poi portato al collasso della prima Repubblica. Berlinguer li comprese in anticipo. Ma la sua fu sempre, innanzitutto, una denuncia politica finalizzata a produrre un cambiamento reale. Del resto, il blocco del sistema era stato la risposta al progetto nel quale lui e Moro, muovendo da sponde diverse, avevano creduto.
Ricordare Berlinguer oggi non è, dunque, solo un atto di omaggio che ci consente di alzare la testa dall’affanno quotidiano. È parte della battaglia politica per il centrosinistra di domani. Perché la polemica sulla storia riguarda anzitutto il Pd, la sua natura, la sua identità. Il Pd è davanti a un bivio: cedere ad un nuovismo senza radici oppure progettare il futuro sentendosi parte viva della migliore storia nazionale. Rassegnarsi ad una società di individui, senza autonomia dei corpi intermedi e senza vere battaglie sociali, oppure essere ancora il «partito della Costituzione» e del cambiamento.
l’Unità 10.6.12
Caro Enrico, tra parole e pittura
parte da Roma l’omaggio itinerante alla storia del Pci
di Graziella Falconi
Domani al cinema Farnese per l’anniversario della morte la manifestazione voluta dal Cespe In mostra opere dedicate a Berlinguer da Guarienti a Calabria
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò». Quasi un leit motiv alla Lucio Dalla, la manifestazione «Caro Enrico» organizzata dalla Fondazione Cespe al Cinema Farnese di Roma (domani dalle 17,30 alle 19,30) per l’anniversario della scomparsa del segretario più amato nella lunga storia del Pci, un caduto sul lavoro, i cui funerali registrarono una eccezionale partecipazione, che secondo Vittorio Foa poteva essere spiegata soltanto perché Berlinguer era considerato dal popolo «un modello umano e politico». Per dirla alla Bertholt Brecht un italiano imprescindibile, che portava nel proprio dna la necessità di un secondo Risorgimento, l’aspirazione a una riforma morale e intellettuale, e che in un periodo particolarmente travagliato si è dedicato alla salvezza dell’Italia e della sua democrazia.
Mentre veniva eletto segretario del Pci, nel 1972, l’editore Gian Giacomo Feltrinelli saltava in aria collocando esplosivo su un traliccio a Segrate; l’economia mondiale era entrata in una crisi che portò alla convertibilità dell’oro in dollaro (1973 a Bretton Woods). Secondo alcuni storici nel 1975 la crisi era così acuta che le autorità avevano quasi perso il controllo della situazione: il terrorismo procurava quotidianamente morti e feriti, la bilancia italiana dei pagamenti era sempre più in rosso, con le principali aziende tutte indebitate, una crisi produttiva enorme, l’inflazione quasi al 20%. Pur in un quadro così drammatico, il Paese conosce una stabilizzazione democratica e finanziaria e riesce a impiantare lo stato sociale. Alcuni dati lo testimoniano.
Insieme al compromesso storico, al programma economico a medio termine, si lavorava all’approvazione da parte del Parlamento di riforme importanti: divorzio, aborto, diritto di famiglia, voto a 18 anni, statuto dei lavoratori, riforma delle pensioni, equo canone e legge dei suoli, riforma dei manicomi, occupazione giovanile, riconversione industriale, riforma sanitaria. Riforme di struttura ed elementi di socialismo, leggi relative all’ordine pubblico, alla finanza e al fisco, al decentramento degli enti locali. Leggi che incontrarono ostacoli e difficoltà di vario genere e che contenevano esse stesse incongruenze ed errori, ma testimoniano di una volontà di modernizzazione del Paese, tenendo insieme rinnovamento e risanamento, austerità e sviluppo.
«Da quando sei partito c’è una grossa novità, l’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va».
Crisi organica e permanente, con immancabile presenza di terremoto. Berlinguer in tutto questo rappresentava, pur con tutti i suoi limiti tra cui l’illusione sulla riformabilità del sistema sovietico e la sottovalutazione della capacità di riorganizzarsi del capitalismo la speranza e la ricerca, la capacità di cogliere il senso dei grandi processi e dei mutamenti della struttura del mondo. Ha denunciato il mutamento antropologico derivante dal consumismo, ma soprattutto si poneva il problema delle grandi questioni planetarie come le innovazioni tecnologiche, la fame, il divario tra nord e sud del mondo, l’ambiente, i limiti dello sviluppo, le nuove responsabilità dell’uomo verso le generazioni future. Egli fu in tutto un intellettuale e un politico, secondo la lezione di Antonio Gramsci, dal quale aveva mutuato i concetti di consenso e di forza declinati accanto e dentro a quelli della democrazia progressiva. Sono molte le suggestioni che egli ci ha consegnato e che l’iniziativa della Fondazione Cespe intende rievocare nel pomeriggio di lunedì. Una iniziativa politico culturale in cui domina la voce di Enrico, le sue parole, la sua immagine. Verranno presentate, come omaggio, rievocazione, commento o riflessione, le opere dei pittori Goberti, Guarienti, de Luca, Pupillo Falconi, Galli, Alexander, Calabria, e altri ancora, che daranno vita a una mostra itinerante nelle fondazioni ex Ds.
La Fondazione Cespe ha inteso ricordarlo anche alla luce di una preziosa eredità del Pci per la parte che ha fatto tesoro dell’insegnamento di Gramsci quando ammonisce: «Una generazione può essere giudicata sulla base dello stesso giudizio che essa dà della precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa... Una generazione vitale e forte che si propone di lavorare e affermarsi, tende invece a sopravvalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre».
Caro Enrico, questa è una lettera di ringraziamento per gli stimoli che possiamo trarre dalla storia e dall’esperienza.
l’Unità 10.6.12
Gotti Tedeschi a Napoli. Il memoriale mette paura
L’ex presidente Ior dai pm che indagano su Finmeccanica
Si attendono novità dai 47 faldoni sigillati
di Massimiliano Amato
NAPOLI Quarantasette faldoni di documenti, la memoria di un pc che non potrà essere aperta se non nel corso di un «contraddittorio tra le parti», come impone il Codice di rito, ma soprattutto un memoriale nel quale Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, non esita a fare nomi e cognomi dei suoi «nemici». Il materiale a disposizione di due procure, Roma e Napoli, sulle attività dell’istituto di credito del Vaticano è tanto. E minaccia di rendere infuocata l’estate all’interno delle mura leonine, già scosse dal caso del «corvo».
Tutto è partito da una serie di intercettazioni telefoniche disposte dai pm napoletani Henry John Woodcock, Francesco Curcio e Vincenzo Piscitelli nell’ambito delle indagini sugli appalti Finmeccanica. I tre magistrati napoletani, che hanno «spremuto» nel corso di tre interrogatori il faccendiere Valter Lavitola sui presunti casi di corruzione internazionale sull’asse Italia Panama, si sono imbattuti quasi per caso nel superbanchiere di Dio giubilato meno di un mese fa.
La casa e lo studio privato di Gotti Tedeschi, che allo stato non è indagato, sono stati oggetto di una lunga perquisizione martedì mattina. Nel pomeriggio, il banchiere si è presentato in Procura, a Napoli, per sostenere un lungo interrogatorio, interrotto solo a tarda sera, quando Gotti Tedeschi, stremato, ha chiesto un’interruzione. I pm e il banchiere si sono dati appuntamento la prossima settimana, quando l’audizione, come persona informata dei fatti, proseguirà, e dagli appalti Finmeccanica si passerà alle attività della banca del Vaticano. Ma, al di là della deposizione di Gotti Tedeschi, la procura di Napoli punta sul contenuto dei 47 faldoni, ancora sigillati, e sull’hard disk del pc dell’ex presidente dello Ior. I tre pm, e lo stesso procuratore reggente Sandro Pennasilico, non hanno commentato
la nota con cui la Santa Sede, nella serata di venerdì, ha richiamato la magistratura italiana al rispetto delle prerogative dello Stato Vaticano. Ma gli inquirenti fanno filtrare la determinazione ad andare fino in fondo nelle indagini. Allo stato l’unica insidia che si profila all’orizzonte è quella dell’incompetenza territoriale, ma è ancora presto si fa notare per determinare l’autorità giudiziaria competente a proseguire le indagini, soprattutto perché le rivelazioni di Gotti Tedeschi rientrerebbero a pieno titolo nell’indagine sugli appalti Finmeccanica, la cui titolarità finora non è mai stata messa in discussione.
Ieri, intanto, è stata la giornata delle smentite: il legale di Gotti Tedeschi, l’avvocato Fabio Palazzo, ha fatto sapere che il suo assistito «non è a conoscenza dei conti Ior e dei suoi intestatari e come tale non è neppure informato di personaggi politici eventualmente intestatari dei conti Ior». E la procura di Roma ha smentito di aver acquisito i faldoni di documenti in possesso di Gotti Tedeschi: una precisazione doverosa e scontata, dal momento che quei faldoni sono in possesso della procura di Napoli. La nota del legale di Gotti Tedeschi, però, entra con decisione in quello che è considerato un punto rovente delle due inchieste in corso. Vale a dire il racconto, riportato nel memoriale in possesso della procura della Capitale, delle resistenze che il banchiere avrebbe incontrato nella sua opera di trasparenza, soprattutto in materia di normativa antiriciclaggio, che tante inimicizie gli avrebbe procurato all’interno delle alte gerarchie vaticane. Il memoriale, che fa accenno a conti cifrati eventualmente riconducibili perfino alla criminalità organizzata, doveva essere recapitato al Pontefice, per il tramite di monsignor Georg Gaenswein.
Sullo sfondo, la guerra che sarebbe divampata all’interno del Vaticano tra chi, come lo stesso Gotti Tedeschi, premeva affinché anche lo Ior si adeguasse alle normative Ue in materia di antiriclaggio, e chi invece avrebbe opposto resistenze fortissime, sottolineando la «specificità» dell’istituto di credito vaticano.
La Stampa 10.6.12
Corvi e veleni Oltretevere
Tra Santa Sede e Trapani è scontro sulle rogatorie
Il Vaticano chiede collaborazione, ma non risponde alla procura siciliana
di Guido Ruotolo
L’indagine. La procura di Trapani ha smentito l’esistenza di un’inchiesta su conti dello Ior riconducibili a Matteo Messina Denaro
I timori. L’avvocato di Gotti ha precisato che il professore non ha ricevuto minacce di morte dirette
Chiede il rispetto della «sovranità riconosciuta alla Santa Sede», aspettandosi che quanto prima l’autorità giudiziaria italiana restituisca il «maltolto», la documentazione Ior sequestrata nella casa piacentina o nell’ufficio milanese dell’ex numero uno della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi. Ma intanto il Vaticano nega la rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Trapani (mentre si appresta a inoltrare la sua rogatoria all’Italia per il «Vatileaks»).
Ieri il procuratore di Trapani Marcello Viola ha precisato che la pista di conti occulti di Cosa nostra, del boss latitante Matteo Messina Denaro, transitati nei conti Ior non è una ipotesi coltivata dalla Procura di Trapani. Che invece sta aspettando di conoscere l’esistenza di conti Ior riconducibili a don Ninni Treppiedi, il sacerdote indagato dalla Procura di Trapani per furto, truffa, frode informatica, stalking, diffamazione e calunnia con altre 12 persone. Centinaia di migliaia di euro della Curia, beni immobili venduti all’insaputa delle autorità religiose.
Un «affaire», il caso Trapani. Che ha portato la Santa Sede a prendere una decisione clamorosa: trasferire il vescovo Miccichè dopo una istruttoria interna condotta dal vescovo di Mazara del Vallo, Mogavero. Il sospetto avanzato nelle Sacre Stanze è che don Ninni Treppiedi possa aver veicolato capitali mafiosi.
Ma proprio perché il Vaticano sta per consegnare alle autorità italiane una richiesta di collaborazione alle indagini - attraverso una rogatoria internazionale - il rifiuto di accogliere la richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dalla Procura di Trapani potrebbe creare qualche motivo di ripensamento.
Ieri, il legale del professore Ettore Gotti Tedeschi è intervenuto per rettificare alcune imprecisioni: «Il professore non è a conoscenza dei titolari dei conti Ior e come tale non è informato neppure di eventuali personaggi politici intestatari di conti Ior». In realtà ai magistrati di Roma e Napoli l’ex presidente dello Ior aveva precisato che quando ha iniziato a chiedere notizie sui conti correnti laici si è scatenata la guerra interna contro di lui. L’avvocato Fabio Palazzo, conferma, invece, che il professor Gotti Tedeschi ha avuto diversi incontri con esponenti politici italiani.
Due pagine con centinaia di allegati, lettere, documenti, mail. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha affidato al Valutario della Finanza il compito di analizzare questo materiale per individuare eventualmente profili investigativi da approfondire mentre la Procura di Napoli ha sigillato un armadio con 47 faldoni di documentazione nello studio milanese del professore ex numero uno della banca vaticana.
Napoli va avanti sul fronte degli approfondimenti del fascicolo sulla corruzione e riciclaggio internazionale di Finmeccanica. E gli uomini del Noe dei carabinieri stanno analizzando la documentazione trovata nella disponibilità di Gotti Tedeschi - che è amico dell’amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi - e che riguardano pratiche di finanziamento del Banco di Santander (di cui lui è rappresentante in Italia) a diverse società della holding del settore Difesa.
Nelle carte sequestrate oltre al memoriale con il quale Gotti Tedeschi replica punto su punto alle obiezioni e alle contestazioni del «tribunale» dello Ior che lo ha defenestrato, ci sarebbe anche una lettera drammatica nella quale dice di temere per la sua vita. Una lettera da recapitare a un avvocato, a un giornalista amico, alla sua segretaria. Ieri il suo legale prova a ridimensionare questi timori: «Non esistono minacce specifiche nè il professore è scortato». «Suggestioni» e «stress», insomma, avrebbero indotto il professore a temere per la sua vita.
La Stampa 10.6.12
I cardinali premono per risolvere la successione a Gotti Tedeschi
Restano le divisioni sulla trasparenza, ma serve una guida
di Giacomo Galeazzi
Rogatorie, ispezioni per l’ingresso nella «white list» dell’Ocse, memorandum di Gotti Tedeschi nelle mani dei pm. Mai come stavolta sulla scelta del presidente dello Ior incidono «fattori esterni». Il Vaticano cerca il suo banchiere, l’«interim» a Ronaldo Hermann Schmitz non ha normalizzato una situazione di forti tensioni interne all’Istituto ed entro breve verrà ufficializzata l’investitura del nuovo «numero uno».
In Curia hanno fatto rumore le parole all’Osservatore Romano del cardinale decano Angelo Sodano: «Quante volte ho votato in riunioni di cardinali, senza mai stupirmi che un confratello votasse a favore e l’altro contro. Amici eravamo e amici rimanevano». Molti vi hanno letto un chiaro riferimento alla divisione tra porporati all’interno della commissione di vigilanza Ior sulla cacciata di Gotti Tedeschi. «Bisogna fare in fretta e bene- spiega uno stretto collaboratore di Bertone-. Insediare un nuovo presidente stabile è anche d’aiuto all’istituto per aderire alle normative internazionali ed entrare nella “white list” dei paesi conformi agli standard anti-riciclaggio». La commissione è composta dai cardinali Bertone, Nicora, Tauran, Toppo e Scherer. E non sono mancati dissidi, ad esempio sulla normativa anti-riciclaggio, tra Bertone e Nicora. Il portavoce vaticano padre Federico Lombardi precisa che «non risulta in calendario» la prossima riunione del direttorio, che però «prima o poi» avrà luogo per stabilire i «passi ulteriori di ridefinizione dell’assetto dello Ior e della sua governance». Per la successione a Gotti Tedeschi non ci sono ancora decisioni. Un possibile candidato di fama internazionale, cattolico «doc», tedesco come il Papa, è l’ex presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, volto noto in Vaticano, ma molto anziano e da tempo fuori dai giochi. Pare improbabile l’ascesa dell’ex gran capo delle Generali Cesare Geronzi. È gradito a Bertone (segretario di Stato e presidente della commissione di vigilanza) Antonio Maria Marocco, subentrato nel 2011 a Giovanni De Censi del Credito Valtellinese, dopo la vicenda che portò la procura di Roma a sequestrare un fondo dello Ior depositato presso il Credito Agricolo e all’iscrizione nel registro degli indagati di Gotti Tedeschi e del direttore generale dello Ior Paolo Cipriani. Una lista ufficiale di candidati non c’è. La partita è più che aperta. E senza esclusione di colpi. Con un occhio agli equilibri interni e l’altro alle conseguenze d’immagine della bufera giudiziaria scoppiata attorno alla banca del Papa. «Occorre voltare pagina e allineare le finanze vaticane alla purificazione attuata da Benedetto XVI nella gestione della Curia romana», assicurano nei Sacri Palazzi. Dalla nomina del successore di Gotti Tedeschi si capirà quanto le fronde e i corvi abbiano davvero indebolito Bertone.
La Stampa 10.6.12
Intervista
Umberto Eco: “Il Papa da sempre al centro di trame per il potere”
L’analisi: la differenza è che ora vengono rese pubbliche
di Mario Baudino
ASTI Lo Stato Pontificio, sostiene Eco, è da sempre teatro di lotte e scontri di potere Intrighi storici Nel suo «Cimitero di Praga» Umberto Eco racconta gli intrighi che portarono alla creazione del falso dei «Protocolli dei Savi di Sion»
Umberto Eco, nel Cimitero di Praga, ha scritto la storia nera di un «corvo» ottocentesco, anche se non vaticano. Un intrigo di documenti falsi, rivelazioni, ricatti, delitti, fino alla stesura e al lancio mondiale di quel clamoroso falso antisemita che furono i «Protocolli dei Savi di Sion». L’ambiguità del documento è uno dei suoi temi preferiti. Non è che sta pensando a un romanzo Vaticanleaks, con banchieri, cardinali, ombre mafiose? «No - risponde divertito lo studioso narratore, oggi ad Asti per il Festival Passepartout -. Però, per risolvere la cosa alla buona, dato che l’inchiesta vaticana è talmente complicata, l’unica cosa che si può dire è che non sta succedendo niente di nuovo».
In che senso?
«Nel senso che basta una buona storia della Chiesa, anche scritta da un cattolico, per rendersene conto. C’è evidentemente da fare un distinzione tra la Chiesa come istituzione, chiamiamola divina, e lo Stato Pontificio come appunto Stato. Dove succedono tante cose. Sono quasi duemila anni che il Vaticano è al centro di lotte di potere. E di leggende, come ad esempio quella della Papessa Giovanna, secondo cui a un certo punto salì al soglio pontificale un donna. Ma pensi, che so, al processo postumo contro Papa Formoso».
Il cui cadavere fu dissotterrato, ripulito, posto sul trono è condannato per sacrilegio. Era l’897.
«Ci sono storie incredibili. Certo non erano rese pubbliche, ma diventavano oggetto di mormorazioni, anche pettegolezzi, e per il resto stavano chiuse nelle mura del Palazzo. La novità è che la globalizzazione dell’informazione ha rotto questo tabù. Un personaggio, non sappiamo mosso da chi e per quali ragioni, ha consegnato del materiale a un giornalista, che l’ha pubblicato. Una volta questo non succedeva».
Il rischio di fare una brutta fine, in effetti, era piuttosto alto. Non che sia svanito del tutto, a giudicare dal memoriale di Gotti-Tedeschi.
«C’è però anche un’altra differenza importante, ed è l’incontrollabilità dell’informazione. L’impossibilità della censura. Ai giorni nostri - è un argomento che toccherò nella mia conferenza di oggi - c’è un solo modo di praticare la censura: non costringendo a tacere, ma realizzando una massa di rumore».
La prospettiva si è rovesciata.
«Prima una maggiore quantità di informazioni era in ogni caso un bene; oggi l’abbondanza rischia di diventare, in certi casi, un male. Su Internet mi può arrivare una massa tale di informazioni da impedirmi di capire che cosa è vero e che cosa è falso»
Confusione per abbondanza?
«Non vale solo per Internet. Prenda un quotidiano di oggi, sessanta pagine. È già abbastanza difficile leggerlo tutto, e isolare le notizia che contano. C’è stato per lungo tempo un tg in Italia che non diceva le cose importanti ma raccontava continuamente che è nato un cane con due teste o uno ha spaccato la testa a un altro. In quell’insieme enorme di notizie scompariva o veniva taciuta quella importante. O pensi a quanta gente non sa più come è scomparsa, che so, Emanuela Orlandi o qualsiasi altra povera ragazza: ci sono ottanta trasmissioni che ogni giorno propongono informazioni nuove, poco utili perché altrimenti sarebbero state usate dalla polizia. Il chiacchiericcio continuo non ci fa capire come sono andate le cose».
Vede la stessa prospettiva per i corvi del Vaticano?
«Se fossi un funzionario interno che vuole tenere coperte le informazioni - e premetto che non mi pare ciò stia avvenendo -, le moltiplicherei. La censura del silenzio era per qualche aspetto più permeabile. Permetteva la mormorazione e le notizie più imbarazzanti circolavano. Tutti durante il fascismo sapevano che Claretta Petacci era l’amante di Mussolini. Oggi provi a dire chi è l’amante di Berlusconi».
Forse non lo sa....
«Neppure lui. Forse è proprio così» Professore, sta delineando un quadro assai fosco.
«Fosco? È il quadro di una celebre maledizione cinese».
Quale?
«Quella che dice: ti auguro di vivere in un’epoca interessante».
Corriere 10.6.12
«Ior, portai i conti a Gotti Disse: meglio non sapere»
Il direttore: chiesi di difenderci, non guardò le carte
di M. Antonietta Calabrò
ROMA — «Lei si sente come l'uomo nero che voleva fare male a Ettore Gotti Tedeschi?».
A ben vederlo, maglietta Lacoste a mezze maniche, mocassino fuori ordinanza, capelli cortissimi, l'aspetto dell'uomo nero non ce l'ha neppure un po'. Si scusa subito per aver violato il dress code del dirigente di banca. «Vengo da casa, sa, è sabato pomeriggio». Eccolo qui, quello che Gotti avrebbe descritto nel suo memorandum come il suo nemico numero uno, quello che avrebbe tramato per cacciarlo dalla banca. L'appuntamento è alle 18 a Porta Sant'Anna, i piazzali sono vuoti, senza una macchina parcheggiata, si sale su, al Cortile di San Damaso, poi un piccolo portoncino con un campanello che sembra quello di una casa. È Paolo Cipriani, direttore generale dello Ior dal giugno 2007, dopo aver avuto un'esperienza internazionale per banche italiane in Lussemburgo, a New York e a Londra. Un protagonista centrale del caso che ha portato il 24 maggio all'uscita traumatica di Gotti dall'Istituto. Parla per la prima volta.
Allora, come si spiega il j'accuse di Gotti? «Può non credermi, ma sinceramente non lo so», risponde allargando le braccia. «Eppure non riesco a volergliene». Più diversi non potrebbero essere. Cipriani gioca a basket, un gioco di squadra, ruolo di playmaker. Gotti è un esperto di judo, più che uno sport, un'arte marziale.
Insomma, Cipriani racconta tutta un'altra storia rispetto a Gotti che nel suo memorandum avrebbe detto che i suoi guai sono iniziati quando ha chiesto i nomi dei politici. Lì sono iniziate le incomprensioni. «Cose che, diceva Gotti, aveva "sentito in Italia"». I ricordi del direttore generale sono precisi: «Le domande le fanno sempre in Italia, ma qui ci sono le risposte, e conti cifrati e conti di politici non ci sono. Noi abbiamo fin dall'inizio voluto fargli capire e vedere, ma anche quando gli abbiamo portato tutti i tabulati, chiedendogli di guardare, di farci domande, di fare chiarezza, Gotti non ha mai voluto neanche visionarli. Ma ripeteva lo stesso "non voglio sapere, meglio non sapere". Poi un giorno, era lo scorso febbraio, quando già uscivano sui giornali notizie false che c'era qualcosa di oscuro da noi, perdemmo la pazienza e gli dissi: "Lei è il legale rappresentante, ma l'Istituto non lo conosce e non lo vuole difendere"». Poi, nota, «L'Istituto non è solo un Istituto. Sono più di cento persone oneste che lavorano qui e non è giusto che veniamo attaccati per cose che noi non abbiamo fatto».
Il direttore generale a riprova delle procedure interne trasparenti, aggiunge: «Noi abbiamo lavorato sui sistemi Aml, anche con consulenze esterne, molto prima che entrasse in vigore la legge 127. Siamo noi che vogliamo la trasparenza. Qui siamo guidati anche da un board di esperti e siamo obbligati a consegnare tutti i materiali a loro. Non c'è nessun segreto, nessun mistero. Noi abbiamo chiesto ripetutamente al presidente di interessarsi dell'Istituto, ma non prendeva in mano le cose. Era come se fosse assente anche quando era presente. A volte veniva in presidenza, che è distaccato dal resto dell'Istituto, e non ci diceva nulla. Poi, partiva».
Domando di nuovo: ci sono conti, non dico, anonimi, ma cifrati? «No, non ci sono, né ci potrebbero essere perché tutte i conti, che chiamiamo "posizioni" sono correlate ad un'anagrafica dell'intestatario, molto più dettagliato di quello usato in Italia, per esempio ed il sistema elettronico non può funzionare se non è completo di tutto». Ci sono nomi di politici italiani? «No, gli italiani (non religiosi) come persone fisiche sono solo i dipendenti o i pensionati della Santa Sede». C'è il nome di Luigi Bisignani? «Non ha un conto qui né lui né la moglie, nessuno». C'è il nome dell'ex capo del Sismi Pollari? «No». Abbiamo sentito che Gotti ha pure nominato Bill Clinton? «Una pura fantasia». E i soldi, come la mettiamo con i soldi? «Noi non forniamo prestiti, tutto ciò che esce e cioè bonifici e assegni e persino il contante è tutto tracciato, anche in modo più dettagliato che in Italia. Addirittura con uso di documenti doganali, che vengono consegnati alla nostra Autorità di controllo. I flussi sono sotto il controllo del sistema elettronico Ibis».
E i soldi in entrata? «Noi non abbiamo filiali, quindi ciò che entra ci viene mandato da banche estere, anche italiane. Spetta anche a loro, e anche per primi, fare i controlli, ma li facciamo anche noi, anche utilizzando sistemi come Ofac, che è una lista internazionale aggiornata costantemente i nomi delle persone sospette di riciclare: per intenderci qualsiasi persona sospetta viene subito bloccata». Quanto alla trasparenza, sottolinea che in tanti anni «all'estero non c'è mai stato un problema, e neanche in Italia per tanti anni. Poi, curiosamente, ad un certo punto trovano sempre problemi. Bisogna andare in Italia a chiedere perché».
Corriere 10.6.12
Bagnasco: addolorati ma mai smarriti
«Dobbiamo essere addolorati per i nostri peccati, ma mai spaventati o smarriti» e anche se «a volte le onde e le ombre sembrano preponderanti, il Papa ci ricorda che il Signore è presente e ci ripete le sue parole: "Non temete"». Anche se non direttamente, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, interviene sulle inchieste e polemiche che stanno interessando il Vaticano. «In questo momento pensiamo al Santo Padre - ha detto ancora Bagnasco -: stringiamoci a lui come a roccia solida che conferma la fede e come nocchiero che guida la barca».
Intanto il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, in una nota, definisce «completamente destituita di qualsiasi fondamento la notizia che la procura abbia sequestrato o comunque acquisito "cinquanta faldoni di documenti" nel confronti del prof. Ettore Gotti Tedeschi». Faldoni posti sotto sequestro, invece, dai pm della Procura di Napoli e al momento sigillati negli uffici dell'ex presidente dello Ior.
il Fatto 10.6.12
Gotti Tedeschi, i legali: non sa di politici. I pm di Roma: mai presi faldoni
Una mole di documenti all’attenzione dei magistrati e l’affare Gotti Tedeschi si complica: carte di natura diversa su cui gli stessi inquirenti hanno differenti competenze. Ci sono i 47 faldoni sequestrati dalla Procura di Napoli, che indaga sugli appalti Finmeccanica, il backup del computer del banchiere effettuato sempre su richiesta della procura partenopea. E poi c’è il memoriale difensivo sullo Ior, acquisito invece dalla Procura di Roma, titolare di due inchieste su ipotesi di riciclaggio e operazioni sospette che coinvolgono l’istituto di opere religiose. Infine, un appunto acquisito dalla procura romana in cui il banchiere sottolineava la paura per la propria incolumità. Materiali sequestrati da procure diverse che spiegano il motivo per cui il pm di Roma, Giuseppe Pignatone, abbia smentito l’acquisizione dei 47 faldoni (sotto sequestro dalla Procura di Napoli). Altra cosa è il fronte Ior e qui bisognerà vedere cosa emergerà dagli scritti di Gotti Tedeschi: ovvero dal memoriale difensivo per il quale il banchiere stava valutando quale potesse essere l’interlocutore più opportuno in Vaticano (e tra i destinatari possibili avrebbe pensato al Papa stesso). Fabio Palazzo, avvocato del banchiere, ha difeso il suo cliente sottolineando due aspetti: Gotti Tedeschi non si occupava di conti Ior e quindi non poteva essere a conoscenza dei nomi a cui i conti fossero intestati. Ammette che nel memoriale potrebbero esserci nomi di politici, ma, assicura l’avvocato, Gotti Tedeschi non aveva elementi per associare i nomi a conti titolari. “Il memoriale si concentra su meccanismi, modus operandi e sulla legge anti-riciclaggio vaticana, la cui interpretazione è stata oggetto di scontri Oltretevere, specie sulla retroattività, cioè la possibilità di estendersi a casi precedenti l’aprile 2011”, ha spiegato l’avvocato Palazzo. Carte che potrebbero innescare un braccio di ferro tra la Santa Sede e l’Italia, ma il Vaticano ha rimarcato che ripone “massima fiducia” nel fatto che “le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall’ordinamento internazionale siano rispettate”.
l’Unità 10.6.12
La chiesa americana approfitta del caos della Curia romana e si butta a destra
di Massimo Faggioli
Dopo la elezioni del 2008 Obama venne ricevuto con tutti gli onori in Vaticano ...
Ora i vescovi Usa sono tutti schierati con il candidato repubblicano
UNA VOLTA IN CURIA ROMANA SI DICEVA DEI CATTOLICI DELLE CHIESE MEDIORIENTALI CHE ERANO «POCHI, COSTOSI E LITIGIOSI». La stessa cosa sta dicendo oggi il cattolicesimo mondiale a proposito della Curia romana e dei collaboratori del Papa.
La guerra per bande che si svolge in Vaticano da qualche mese a questa parte viene seguita stancamente nel resto dell’orbe cattolico, eccettuata l’Europa, che nel pontificato del Papa tedesco ha il ruolo di un modello storico-culturale non suscettibile di aggiornamenti rispetto all’epoca premoderna. Ma in tutti i continenti le vicende vaticane hanno l’effetto di ridimensionare se non la potestas, certamente la auctoritas della Santa Sede tanto sulle questioni ecclesiali quanto su quelle politiche. Dall’elezione di Benedetto XVI in poi era chiaro che il pontificato non era né interessato né in grado a mantenere l’alto profilo politico dei Papi del secolo XX. Ma la promessa di un basso profilo si è trasformata in una serie di disastri grandi e piccoli (il discorso di Regensburg sull’Islam del 2006, il Papa che proclama “God Bless America” sul prato della Casa Bianca a fianco di George W. Bush nel 2008, il vescovo negazionista lefebvriano nel 2009, etc.) per i quali il Segretario di Stato, cardinale Bertone, è responsabile almeno dal punto di vista funzionale.
Questa lunga serie di incidenti prima e il caos interno alla Curia poi hanno indebolito drammaticamente la credibilità dell’istituzione, con degli effetti di prima grandezza sulla chiesa mondiale, e specialmente nella chiesa cattolica politicamente più importante al mondo oggi, quella statunitense. I vescovi americani, sempre più allineati al Partito repubblicano, non hanno dimenticato la calda accoglienza riservata dalla Curia romana al neoeletto presidente Obama nel luglio 2009. Non stupisce che l’arcivescovo Viganò, che nel 2011 aveva denunciato lo stato di caos della Curia e per questo fu «rimosso-promosso» a nunzio apostolico a Washington, sia oggi tenuto in alta stima dalla gerarchia americana, a cominciare dal leader della chiesa americana oggi, il cardinale di New York Timothy Dolan.
La mancanza di leadership del Vaticano sulla politica globale del cattolicesimo, ma ancor prima sullo “stile politico” proprio della chiesa cattolica, ha lasciato liberi i vescovi americani di lanciare la più aggressiva iniziativa politica contro la Casa Bianca che si ricordi: una serie di marce, referendum locali, proteste e veglie contro l’amministrazione Obama tra luglio e ottobre 2012, cioè nei mesi centrali della campagna elettorale per le presidenziali di novembre. Tutto questo ha provocato non solo profonde spaccature ecclesiali a livello locale, ma anche un indebolimento dell’autorità del magistero della chiesa su questioni cruciali (lavoro, finanza, diritti sindacali, giustizia sociale e internazionale) per il contributo dei cattolici alla crisi sociale in corso.
La crisi di VatiLeaks dà conferma che il pontificato di Benedetto XVI ha sommato gli elementi di debolezza tipici di un Papa non italiano (tra cui l’incapacità di tenere a distanza politicanti speculatori dell’autorità papale) a quelli di una Curia ancora profondamente legata al peggio del sottobosco politico italiano. Sono mancati gli elementi di forza che potevano venire da un Papa non italiano (la percezione della globalità del cattolicesimo non solo dal punto di vista sociologico ma anche teologico) e da una Curia romana ancora molto italiana ma fornita di quelle qualità di alta amministrazione che la caratterizzava fino a non molto tempo fa (tra cui l’orgoglio, tipico degli ecclesiastici di scuola diplomatica, di servire l’istituzione e la comunità dei fedeli in modo nascosto e silenzioso). La chiesa cattolica globale si può comprendere molto meglio da Roma che da New York o da Berlino: a patto che si accetti la responsabilità di concepire la Curia romana non come una reliquia del passato, o peggio, un parco a tema, la Disneyworld del cattolicesimo, ma come uno di quegli elementi tipici del genio istituzionale del cattolicesimo che oggi deve rinnovarsi e riformarsi alla luce della nuova geografia culturale e spirituale della chiesa.
La Stampa 10.6.12
Francia, primo turno per eleggere l’Assemblée Nationale
Ballottaggi tra una settimana
Hollande a caccia di una maggioranza
Ps favorito, il rischio è di doversi alleare con i comunisti
di Alberto Mattioli
577 deputati. L’Assemblée nationale è la Camera Bassa del Parlamento
I candidati sono 6603 Gli elettori 46 milioni 12,5%
Lo sbarramento per passare al secondo turno è piutto.sto alto: il Front National di Marine Le Pen dovrebbe farcela in più di 100 circoscrizioni
François Hollande e il suo primo ministro, Jean-Marc Ayrault, l’hanno detto e ripetuto: se i francesi vogliono davvero «il cambiamento» promesso dal nuovo Presidente e promosso dal Partito socialista, devono dare all’uno e all’altro la forza per realizzarlo. Tradotto: dal rinnovo dell’Assemblée nationale, due turni oggi e domenica prossima, deve uscire una maggioranza assoluta per la gauche e possibilmente per il solo Ps. Certo, di tutti i capi di Stato democraticamente eletti del mondo, quello francese versione Quinta Repubblica dispone dei poteri più estesi. Ma è chiaro che una maggioranza risicata o, peggio ancora, una «coabitazione» con una maggioranza e un premier di destra renderebbero molto più difficile fare le riforme annunciate.
Il punto di questa tornata elettorale è tutto qui. I sondaggi danno per scontato che la Camera andrà a sinistra (il Senato, eletto da assemblee di notabili locali, lo è già, per la prima volta nella storia della Quinta): da 297 a 368 deputati, a seconda dei sondaggi, dove la maggioranza assoluta è di 289. Ma per Hollande sarebbe meglio che il Ps fosse autosufficiente. Andrebbe bene anche arrivare alla soglia fatidica con i Radicali di sinistra e i Verdi, entrambi già rappresentati al governo; un po’ meno dover fare i conti con i comunisti nemmeno ex del Front de gauche, cosa che obbligherebbe a concessioni sul programma.
La destra strepita contro il rischio di un monopolio socialista del potere. Ma l’Ump, il partito di Sarkozy, dà per scontato di perdere e pensa già al dopo, quando bisognerà decidere se il suo candidato in vista delle presidenziali del 2017 sarà il segretario, Jean-François Copé, o l’ex primo ministro François Fillon, nemici neanche tanto cordiali. C’è poi il rebus dell’atteggiamento da tenere al secondo turno nelle circoscrizioni in cui il ballottaggio sarà fra un socialista e un candidato del Front national. Ufficialmente, l’ordine di scuderia è «né con uno né con l’altro», ma molti notabili del partito, specie al Sud, sono tentati di fare accordi con il Fn per salvare le poltrone locali.
Il Front, appunto. Marine Le Pen ha fatto il botto alle presidenziali: 17,9%, meglio di suo padre. Sulla base di questi risultati, il Fn, ribattezzato per l’occasione «Rassemblement bleue Marine», dovrebbe piazzarsi primo o secondo in 116 circoscrizioni. Ma c’è l’inconveniente del maggioritario, che finora gli ha sempre impedito di eleggere dei deputati, tranne quando Mitterrand impose la proporzionale appunto per mettere il bastone dell’estrema destra fra le ruote di quella «repubblicana». La grande attesa è quindi se il Fn riuscirà ad avere almeno un deputato. Uno sarebbe già un avvenimento. Nella migliore delle ipotesi, saranno otto, troppo pochi per costituire un gruppo, abbastanza per sdoganare definitivamente l’estrema destra.
In tutto questo, ci sono alcune sfide che focalizzano l’attenzione. Il centrista François Bayrou, eterna promessa mai realizzata della politica francese, rischia di essere battuto nel suo feudo di Pau, dove sia il Ps che l’Ump gli hanno piazzato contro un candidato. Ségolène Royal vuole la poltronissima di presidente dell’Assemblée, ma rischia di non entrarci perché il cacicco socialista di La Rochelle, dov’è candidata, le sta facendo la fronda. C’è la curiosità di vedere come andrà a Carpentras la ventiduenne Marion Le Pen, pimpante nipotina di Jean-Marie e Marine e terza generazione politica della famiglia. E poi, naturalmente, c’è la madre di tutte le battaglie, quella di Hénin-Beaumont, dove l’ultrasinistro JeanLuc Mélenchon sfida l’ultradestra Marine Le Pen con contorno di polemiche, insulti e querele. In vantaggio la primo turno c’è Marine, ma prenderà meno voti del Ps e del Front de gauche sommati, e rischia di perdere al secondo. E perciò già tuona: «Ma è democrazia, questa? »
il Fatto 10.6.12
Sinistra, destra e Front National. Un ballottaggio per tre
Le legislative francesi sotto il segno dei candidati di Le Pen
di Gianni Marsilli
Parigi. E se la destra francese vincesse le legislative? Sarebbe coabitazione tra un presidente di sinistra e un primo ministro di destra, come fu tra Mitterrand e Chirac, e viceversa tra Chirac e Jospin. Tutti sopravvissero alla prova, uomini e istituzioni, ma in questi tempi di grande burrasca François Hollande, sovrano prigioniero nel suo palazzo, non avrebbe più i mezzi per condurre la sua politica, la Francia subirebbe un arresto cardiocircolatorio, il tavolo europeo verrebbe bruscamente rovesciato.
Può accadere? In teoria sì, in pratica è quasi fantapolitica. Le legislative dopo le presidenziali sono sempre un gioco stanco, quasi inerziale dopo la grande battaglia per l’Eliseo. Nessuno crede al ribaltone, men che meno i sondaggi. Vediamo gli ultimi di Ipsos per Le Monde: il blocco di sinistra dovrebbe avere tra i 292 e i 346 seggi, la destra parlamentare (Ump) tra 231 e 285, il Fronte nazionale tra 0 e 3.
LA MAGGIORANZA assoluta è di 289 seggi, Hollande può respirare tranquillo. L’interrogativo è un altro: se il Ps avrà da solo quella maggioranza o se avrà bisogno dei voti del Front de Gauche di Jean Luc Melénchon per governare.
La risposta verrà solo tra una settimana, dopo il secondo turno, ma il trend rilevato finora dice che i socialisti da soli non ce la faranno. Il tonitruante Melénchon, con i suoi probabili 20/30 deputati, sarà dunque decisivo in sede assembleare. In termini percentuali, la sinistra tutta insieme (PS, verdi, frontisti e altri) avrebbe circa il 44 per cento dei voti, la destra il 34, il Fronte nazionale il 15. Percentuali rassicuranti, fino a che le destre saranno due. Se saranno confermate tra una settimana, la sinistra avrà vinto ma non stravinto. Sul piano delle idee, le destre rimangono maggioritarie nel Paese.
Tra oggi e domenica prossima si gioca anche il destino parlamentare del Front national di Marine Le Pen, ancora privo di rappresentanza. Il doppio turno alla francese consente la presenza al secondo di più di due candidati all’elezione, a condizione che abbiano ricevuto il consenso di più del 12,5 per cento degli aventi diritto. Nella grande maggioranza dei casi al duello finale sopravvivono soltanto due contendenti, ma capita che ve ne sia un terzo.
La triangolazione quest’anno sarà possibile in una novantina di collegi, e in alcuni di questi (soprattutto nel sud est) il Front National è ben piazzato, a condizione che il riporto di voti sul suo candidato si faccia in maniera massiccia. In ogni caso i deputati marinisti saranno una sparuta pattuglia. Però quel partito avrà uno scranno che non ha mai avuto, e una inedita visibilità e possibilità di proposta legislativa. Se rimanesse fuori, la destra parlamentare per prima tirerebbe un respiro di sollievo.
Alle legislative, più che mai localizzate, c’è parecchia gente che gioca il suo futuro. Innanzitutto i ministri in carica. Hollande è stato chiaro, coloro che non risulteranno eletti dovranno dare le dimissioni: non si governa senza la legittimazione popolare. I ministri eletti, a loro volta, lasceranno il posto ai supplenti. I riflettori sono puntati su alcune battaglie particolarmente mediatiche, visti i personaggi in causa.
SULLA NIPOTINA di Jean Marie Le Pen, che a 22 anni tenta l’avventura a Carpentras, nel sud-est. Sul duello tra Marine Le Pen e Jean Luc Melénchon, che è andato a sfidarla proprio sulle sue terre di predilezione, nel nord che fu industriale. Su Ségolène Royal, che ha sloggiato il candidato socialista a La Rochelle per trovare lì, in riva all’Atlantico, il seggio parlamentare che le consenta di accedere alla presidenza dell’Assemblea. Battaglie assai sanguinose, ma molto locali. Di dibattiti che volano alto, i francesi in questi mesi ne hanno avuto a sufficienza.
l’Unità 10.6.12
Truppe Usa. Più suicidi che morti sul campo
di Virginia Lori
È un bilancio peggiore di quello della guerra in Afghanistan, uno dei fronti più impegnativi per le truppe Usa. Uccisi sul campo, ma non dal nemico. Dal primo gennaio 2012, ogni giorno, un militare americano si è tolto la vita: tra le truppe in servizio attivo, si sono registrati 154 suicidi in 155 giorni, almeno fino al 3 giugno scorso.
Una strage silenziosa, senza funerali d’onore, con mille ragioni e nessuna tale da arrivare alla ribalta della cronaca. Se non il numero da brivido: i suicidi sono stati quest’anno il 50 per cento in più dei militari uccisi nello stesso periodo in combattimento in Afghanistan. E la cosa preoccupa in particolare perchè la tendenza è in aumento. Anzi, si è impennata: più 18% rispetto al 2011, più 25% in riferimento al 2010, e del 16% nel confronto con il 2009, sinora considerato l’«annus horribilis» per il numero di suicidi tra le truppe.
«PROBLEMA URGENTE»
Il tragico fenomeno è preso molto sul serio dal Pentagono e dai servizi per i veterani, che stanno tentando una serie di interventi di aiuto psicologico e medico per i militari che tornano dai luoghi di combattimento. Lo stesso segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, ha di recente inviato un memorandum ai dirigenti militari e civili del ministero in cui definisce i suicidi «uno dei problemi più urgenti e complessi», e sottolinea la necessità di «continuare a lavorare per l’eliminazione di qualsiasi giudizio o discriminazione nei confronti di chi soffre di stress post-traumatico e altri problemi mentali».
Tra i più colpiti dai suicidi sono i soldati dell’esercito, seguiti da quelli dell’Air Force e della Marina, mentre una diminuzione dei casi seppure parziale si è registrata tra i marines. Gli stessi esperti faticano a capire il perchè dell’incremento generale della tendenza. Tra le varie motivazioni, lo stress prolungato a causa di più di un dislocamento al fronte, problemi post-traumatici, uso errato di farmaci, problemi economici al ritorno in patria. Eppure le cifre riflettono solo i suicidi tra i militari in servizio attivo e non riguardano i reduci, tra cui pure si rilevano elevatissimi tassi di suicidio.
l’Unità 10.6.12
La primavera delle donne arabe
di Silvia Costa
A Bruxelles abbiamo avviato un percorso sulle condizioni delle maghrebine
In autunno avremo un quadro chiaro sull’andamento dei processi democratici
LE DONNE IN TUNISIA, EGITTO, LIBIA E MAROCCO SONO STATE PROTAGONISTE ATTIVE DELLA PRIMAVERA ARABA. UN PROCESSO A CUI GUARDARE CON SPERANZA ma anche con preoccupazione, alla luce delle drammatiche notizie dalla Siria.
Per questo a Bruxelles, con un incontro della commissione Donne del Parlamento europeo con le rappresentanti delle donne maghrebine abbiamo avviato un percorso che da qui al prossimo autunno ci darà un quadro chiaro sull’andamento dei processi democratici a partire dalla condizione delle donne, in una fase promettente ma anche delicata.
A questo primo confronto, avvenuto con rappresentanti di Ong come la libica Souad Wheidi, impegnata nell’assistenza e denuncia della violenza sessuale usata come arma impropria contro donne e giovani dissidenti, e di giornaliste come la tunisina Sondès Ben Khalifa, seguirà a ottobre un incontro a Tunisi. Sulla base di queste audizioni, in qualità di relatrice, costruirò la relazione che sarà portata in Aula a Strasburgo.
L’Ue ha assunto l’impegno a rafforzare i partenariati e i processi democratici e di sviluppo, ma senza l’attiva partecipazione delle donne non ci saranno né democrazia né sviluppo durevoli. È quindi indispensabile capire come e dove le donne saranno coinvolte in questa nuova fase politica.
Sono varie le misure di cui l’Ue si sta dotando, tra cui nuovi strumenti di vicinato e una serie di specifici protocolli e task force bilaterali. È in questo orizzonte che vogliamo aprire una nuova stagione della cooperazione politica e istituzionale tra le donne al di qua e al di là dal Mediterraneo, a partire dal rispetto dell’autonomia delle scelte istituzionali e politiche nonché del pluralismo religioso e culturale.
Il 2011e i primi mesi di quest’anno hanno segnato alcune importanti tappe: la grande partecipazione delle donne alle prime elezioni libere, l’avvio di processi di riforma costituzionali, il crescente ruolo delle Ong. Vi sono però anche punti d’ombra: la scarsa presenza di donne nei parlamenti e nei governi, il riferimento alla sharia nelle costituzioni di alcuni paesi, la differenza tra la condizione delle donne in aree urbane e rurali sotto il profilo dell’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari e sociali, al lavoro e al credito.
Iniziative come l’appello delle donne arabe dello scorso 8 marzo segnalano una forte volontà di partecipazione per ottenere parità di diritti, segnalare i tentativi di esclusione, denunciare le forme di violenza pubblica e privata, nonché di chiedere un cambiamento delle leggi discriminatorie soprattutto in ambito civile e familiare. Nei prossimi mesi dal Parlamento europeo ascolteremo, ci confronteremo, tenteremo di capire come rafforzare queste aspirazioni. Dal sostegno ai processi democratici in Nord Africa può venire nuova linfa anche per le nostre democrazie in crisi di leadership e di consenso, ma non c’è democrazia senza un pieno ed equo coinvolgimento delle donne. Per questo, in un mondo sempre più globalizzato, sostenere i processi in atto in Nord Africa equivale in parte a sostenere noi stessi.
Corriere 10.6.12
Piazza Tahrir pericolosa per le donne, così vacilla il simbolo della rivoluzione
di Cecilia Zecchinelli
Che cosa è successo a piazza Tahrir, il simbolo del Risveglio arabo, l'icona della Rivoluzione egiziana, il luogo franco dove nei 18 giorni gloriosi che portarono al crollo del regime, oltre un anno fa, donne e uomini, cristiani e musulmani, religiosi e laici lottarono insieme, poi celebrarono uniti la loro vittoria? Da mesi quella brutta spianata nel centro del Cairo che voleva diventare un modello per il Nuovo Egitto è usata solo saltuariamente dai manifestanti, di solito è invasa da venditori ambulanti, balordi, trafficanti. E da settimane, in un continuo e brutto crescendo, è diventata off limits per le donne. Assalti e tentativi di stupro sono frequenti, il passaparola è ormai per tutte, velate o meno: «evitate Tahrir soprattutto se è buio».
Due sere fa, dopo l'ennesimo attacco a una ragazza da parte di 200 uomini non identificati, c'è stata una manifestazione per dire basta a quella vergogna. Ma le 50 manifestanti, nonostante il servizio d'ordine di qualche decina di maschi, sono state nuovamente aggredite. Fuggi fuggi tra le auto e le strade vicine, panico, urla, poi le donne si sono salvate in un edificio. Furiose e stravolte. La gente e i media locali si chiedono perché questa orrenda violenza, soprattutto chi ci sia dietro. Nel caos dell'Egitto che tra pochi giorni sceglierà il suo nuovo raìs, le teorie si moltiplicano: residui del vecchio ordine che vogliono dimostrare il bisogno di «ordine», delinquenti comuni, integralisti sessuofobi.
L'unica certezza è che la scomparsa della polizia dalle strade seguita alla fine dell'era Mubarak ha lasciato che il peggio emergesse in questo Paese una volta sicuro anche per le donne, almeno nei luoghi pubblici. La speranza è che se la mitica Tahrir di quei 18 giorni non era l'Egitto, se l'illusione che i giovani di Facebook avessero preso la leadership della società s'è rivelata infondata, anche ora la piazza non rappresenti l'intero Paese. Che le violenze sessuali si concentrino proprio lì per il valore simbolico del luogo e che gli assalti sessuali seguano una regia politica anti-rivoluzionaria, piuttosto che i nuovi sviluppi della società egiziana. Ma questa è appunto una speranza. E non tutti la condividono.
La Stampa 10.6.12
Tra i giovani tunisini in partenza per il Jihad in Siria
Delusi dalla rivoluzione, hanno un solo credo: l’Islam
di Domenico Quirico
L’uomo è tagliente. Dietro l’apparente cortesia delle sue frasi, nel timbro della voce, dietro la sue risatine false si sente lo stesso disprezzo che ho visto negli occhi dei giovani che entrano nelle moschee radicali, sulla via della seta come nel deserto: disprezzo per l’occidentale, per il bianco, il kufar, il miscredente. E insieme l’orgoglio per il rifiuto di tutto ciò che io, noi siamo. Che per loro è già una vittoria. Il quartiere Balancine è un labirinto che non finisce mai. Mi rendo conto, nel buio, che potrei non uscirne mai, se solo la mia guida lo decidesse: anche se il centro di Tunisi gli alberghi i ristoranti i ministeri sono a due passi. Nella strada orribili cani dalle orecchie da pipistrello frugano, con la prudenza di chi aspetta la sassata, nei mucchi di rifiuti.
Ecco la casa, siamo giunti. Barbagli di bianco, logoro e frusto, lo sporco pudicamente coperto dal buio. Di fronte un caffè. Ragazzi bivaccano avvolti nella pigrizia come grossi insetti in una ragnatela. Alcuni sono ubriachi, schiamazzo, un dirugginio di risa squarciate e di strida. La nostra guida li guarda, come se fossero semi caduti in una terra secca, che prima o poi bisognerà gettar via: c’è molto lavoro ancora da fare per arrivare alla santità. Non c’è luce, la scala si arrampica scivolosa, con gradini ripidi, un tanfo di zoo, un misto di segatura, urina, ammoniaca. Per quanto lavassero, quell’odore sempre ristagnerebbe, se lo portano addosso i muri i gradini come l’odore del fumo di sigaretta. Zaffate di caldo ti assalgono, malgrado la sera; il calore sembra impregnato, custodito nei muri e nelle stanze. La guida si arrampica svelto, sicuro nonostante il buio, al terzo piano; dagli appartamenti arrivano vampate di voci improvvise come un’invasione di insetti. Un motore si accende con un battito irregolare, sembra un animale rimasto senza fiato.
Anche nella stanza c’è solo la luce fioca di una lampadina che pende dal soffitto, una luce da cripta. Una tenda nasconde, male, una toilette arrugginita e sporca. È quasi tutta occupata, la camera, da un divano grande e basso che serve evidentemente anche da letto. Yusef, il ragazzo che siamo venuti a incontrare, seduto con le gambe incrociate, sembra in ascolto di qualcosa, uno scoppio, uno scricchiolio, un bisbiglio. Pare più giovane dei suoi 22 anni, ma qui l’adolescenza tramonta di colpo, come il sole. Vent’anni bastano a plasmarti la faccia, la dolcezza svanisce subito con l’esperienza. E la colpa.
Yusef sta per partire: per il Jihad, in Siria. Ha dentro la febbre, come alla soglia di una nuova vita, come prima di dichiararsi a una donna, o commettere il primo delitto. È salafita, come l’uomo che mi ha portato da lui. Sono venuto in Tunisia per cercare di capire questo lato estremo dell’Islam.
Nella piccola Tunisia: che ha inventato tutto, sperimentato tutto, la primavera rivoluzionaria e l’Islam al potere, dove i laici, gli increduli, sanno ancora scambiare con gli islamisti colpo su colpo. Dove sta già salendo, verso l’ebollizione, l’alambicco di un nuovo passaggio.
Bisogna, per questo, lasciarsi dietro gli orizzonti dell’islamismo «pragmatico», desacralizzato dal dio Potere, la socialdemocrazia islamista dei Fratelli Musulmani, di Ennahda, che spesso, dopo le rivoluzioni arabe, ci siamo inventati per non avere paura. Bisogna camminare su tracce che non comprendiamo più, che abbiamo dimenticato, quelle dell’Assoluto, il vasto territorio del Pentimento e del Desiderio struggente.
Yusef che andrà in Siria per combattere un altro regime empio, quello di Assad, non è solo. Altri ragazzi tunisini sono già partiti. Il reclutamento in alcune moschee radicali della città, poi un biglietto aereo per la Turchia e l’armata dei ribelli «dove ci sono altri fratelli, tanti, egiziani libici algerini». Ancora le brigate internazionali islamiche, come in Afghanistan, come in Iraq, come in Bosnia. Yusef sembra adagiarsi sulla sua fragilità come su un cuscino, parla senza guardare, come se i ricordi li evocasse per se stesso, per tenerli ancor caldi col suo fiato un’ora, un minuto, prima che cominci il gelo: la miseria senza scampo né remissione, la scuola, la piccola delinquenza per tirare avanti, la rivoluzione. Era uno di quei «teppisti» dei quartieri poveri che l’hanno tenuta dritta, la rivoluzione, nelle strade, sotto i colpi dei manganelli, nel fumo assassino dei lacrimogeni. Noi non li abbiamo citati, preferivamo i ragazzi di Internet, i figli della borghesia arricchita dai traffici del presidente Ben Ali, che la rivoluzione l’hanno gustata a parole, per noia e per snobismo.
Mai, nell’ora in cui siamo stati con lui, abbiamo avvertito una punta di amore che sempre si prova per ciò che si è perduto o si sta per perdere, una casa, una donna, un dolore perfino. Non sembra che l’Islam radicale renda la vita un circolo vizioso, un enorme movimento di antitesi e di negazioni. Ci vuole coraggio per questo morire nei cuori, cancellarsi nella memoria. La polvere non è ancora il nulla e deve essere dispersa. Ma non hai paura di precipitare in una guerra crudele, che in fondo non è tua, spietata, senza addestramento? Di punto in bianco, senza preavviso, il ragazzo si anima come se, pronunciando inavvertitamente una parola magica, avessimo aperto la porta della grotta. «Tu non sai niente: paura, coraggio... la mia forza non è nelle armi, è dentro. Io sono uno strumento. Noi musulmani eravamo diventati come un’erba che non può vivere senza arrampicarsi su qualcos’altro, dipendevamo dalle cose che ci date voi, che ci insegnate voi. Ora è la nuova rinascita. Aver paura dell’esercito di un tiranno? Non vedi che Dio sta già provvedendo? Dio ha confuso la mente degli americani, sì, gli americani ci aiutano, armano, finanziano, sono diventati lo strumento della santa causa».
Chissà se sa che due tunisini, ragazzi come lui, sono stati catturati con armi e esplosivi qualche giorno fa dai siriani e esibiti in televisione? Forse sì. Ma poco importa. L’uncino della sicurezza è sceso in fondo a lui, si è agganciato e ora non si stacca più. Non lascia che abbia paura. La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana, ovunque, sarà sempre la ricerca della santità.
I salafiti si sono riuniti il 20 maggio a Kairouan, neri stendardi, esibizioni di lotta e cavalcate selvagge, una dimostrazione di forza. Non sono molti, venti, trentamila, ma incombono. Voci, rumori leggende ne moltiplicano la forza: che, ad esempio, vicino a Gafsa, dove la rivoluzione è sbocciata, si addestrino alla guerra, intoccabili per soldati e gendarmi. Fantasie, quasi certamente. Sono veri, invece, i salafiti in tuta mimetica che pattugliano il parco dell’amore. È un luogo di Tunisi che tutti i ragazzi conoscono, dietro l’orribile albergo che uno dei figli di Gheddafi stava ristrutturando nel lusso e che resterà maceria di cemento. Qui i giovani della capitale, al riparo degli alberi, si scambiavano i timidi segni di un erotismo pudico anche ai tempi laici e sguaiati di Ben Ali. Ora la polizia della virtù salafita fa incursioni fragorose, ronde di voyeurs «benedetti» disturbano gli amanti impuri.
A Jendouba, a Sidi Bouzid, hanno fatto peggio, assaltato e bruciato i bar dove si vendeva alcol. Ennahda, al potere ma già indebolita dalla delusione, finge di non vedere. Un po’ perché non ha la forza di affrontarli a viso aperto, un po’ perché gioca a servirsene: vedete, dice ai laici, ai liberali, all’Occidente, o noi o loro.
Piccoli calcoli, tattica di politicanti. Parlando di Dio con questi pragmatici che tanto ci piacciono, ti pervade l’atroce languore dell’abitudine che ben conosciamo. Come in Occidente subito ti sfiora il pensiero che il loro è un Dio troppo accessibile, troppo facile da accostare. Non illudiamoci, il futuro è dei salafiti, gente che pensa che un solo gesto di audacia basti a modificare l’idea stessa del possibile, che vive una guerra per scelta e non per necessità e quindi una guerra che può sempre ricominciare, è sempre alle porte.
Anche Ihmed Zouhari è giovane, ha occhi chiari, di acciaio, tanto fermi e risoluti che ti pare di sentirti passare due mani sulle spalle. È uno dei capi del Partito della rinascita, che ha sede nel malfamato quartiere della Porta verde. Hezb el Tahrir, dicono, ha struttura di setta, evita la luce, pratica una selezione ossessiva e l’entrismo nei gangli del potere e della forza, odia i Fratelli Musulmani e chi mescola l’Islam con la democrazia
«Abbiamo sperimentato tutto, liberalismo dittature nazionalismo socialismo. Cosa abbiamo ottenuto? Solo povertà e corruzione. Resta l’Islam, totale integro puro. Ecco dove i partiti come i Fratelli Musulmani sbagliano: a mescolare l’Islam con altro, un po’ di democrazia, un po’ di nazionalismo, magari un po’ di comunismo. Dipendono da alleati che strappano concessioni sulla costituzione, la vita sociale, le leggi civili. Su tutto. Invece occorre un cambiamento radicale, creare un sistema unico, uno Stato retto dalla dottrina islamica, dal Corano, e poi riunire tutti i Paesi arabi e musulmani sotto un’unica bandiera.
«Era così prima del complotto franco-inglese. Non è un sogno, è realtà: di più, è un dovere, come la preghiera ogni giorno. Avremo un califfo assistito da un consiglio, ci saranno delegati che si occuperanno dei vari settori dello Stato, che controlleranno che il califfo rispetti il mandato divino. Governare con l’Islam ed estenderlo al mondo. E poi giudici che il califfo non potrà revocare».
Gli opponiamo una diga che sembra solida, il dubbio cioè che una dottrina nata secoli fa possa affrontare la modernità. «Voi non capite, la vostra democrazia va bene per voi, un mondo dove la gente non può mettersi d’accordo su un modo di governare, dove l’ideologia serve solo a prendere il potere e varia a seconda dell’utile. Qui ci possono essere partiti ma solo nell’Islam. Dite che è Medioevo? Vi chiedo: forse che l’uomo nel frattempo è cambiato?».
l’Unità 10.6.12
«Israele, il popolo dei lager non può costruire dei lager»
Tel Aviv dà il via libera ai centri di detenzione per stranieri irregolari. Parlano Shulamit Aloni, Yael Dayan, Zeev Sternhell, Yaariv Oppenheimer...
di Umberto De Giovannangeli
Un popolo che ha conosciuto l’orrore della deportazione forzata, un popolo che sa cosa significhi guardare il mondo da dietro il filo spinato, questo popolo non può, non deve smarrire la sua memoria collettiva e fondare la propria sicurezza sui Muri e i campi di detenzione». Le parole di Shulamit Aloni figura storica del pacifismo israeliano, più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres danno conto di una vicenda drammatica che va oltre la dimensione politica e tocca le corde, sensibili, della memoria e dei sentimenti. Decine di migliaia di immigrati irregolari presenti oggi a Tel Aviv e in altre città israeliane saranno trasferiti presto in campi di detenzione in costruzione e in «città di tende». Ad annunciarlo, nei giorni scorsi, è stato il ministro dell’Interno israeliano, all’indomani della sentenza del Tribunale distrettuale di Gerusalemme che ha autorizzato l’espulsione di circa 1.500 sud-sudanesi. Interpellato dalla radio pubblica, il ministro Eli Yishai ha dichiarato che «ci sono ancora circa 15 mila persone provenienti dal Sudan del nord e circa 35 mila dall’Eritrea». «Sono prossimi all’espulsione, che avvenga con il loro consenso o meno ha aggiunto questo numero rappresenta una minaccia per l’identità ebraica». Il governo ha quindi deciso di trasferire gli immigrati privi di permesso di soggiorno in centri di detenzione in costruzione nel sud del Paese, mentre nel frattempo, «abbiamo intenzione di creare città di tende».
Stando ai dati del ministero, sono circa 60 mila gli africani irregolari presenti nel Paese, per lo più provenienti da Sudan ed Eritrea. «Spero che nei prossimi mesi riusciremo a trasferire tutti gli infiltrati nei centri di detenzione e consentire ai cittadini israeliani nel sud di Tel Aviv e altrove di vivere in modo appropriato... in tranquillità e sicurezza», ha concluso. Yishai, denuncia il leader di Peace Now (la storica organizzazione pacifista israeliana) Yaariv Oppenheimer, alimenta la xenofobia, strumentalizzando il malessere della gente di quartieri periferici nei quali il governo «ha ammassato e abbandonato» il grosso degli irregolari o evocando singoli episodi criminali per additare un’intera comunità. Israele sta anche costruendo un muro di sicurezza lungo i 240 chilometri di frontiera con l’Egitto; il progetto dovrebbe essere completato entro la fine dell’anno. La pronuncia del tribunale israeliano allarma i tanti sudsudanesi presenti nel territorio. «Io davvero non so cosa fare», dice Khaled, uno di loro, che vive con i suoi due figli in Israele dal 2007. «Ci vogliono far tornare in luogo pericoloso. Ho paura di tornare nel mio Paese con i bambini: come faccio a garantire loro un futuro lì?». Anche le Ong che avevano presentato ricorso opponendosi al provvedimento si sono dette «rammaricate per la sentenza» e «preoccupate per la sicurezza di coloro – soprattutto i bambini – che sono costretti a rientrare in luoghi pericolosissimi». Secondo fonti governative ogni mese entrerebbero illegalmente in Israele circa 1200 migranti africani, quasi sempre con l’aiuto prima di beduini egiziani e poi di quelli israeliani. Gli africani che riescono a penetrare peraltro sono quelli che sopravvivono al fuoco della guardia di frontiera egiziana. Solo nel 2007-08 sul lato egiziano del confine sono stati uccisi una quarantina di africani. Lo scorso anno una trentina. «Il numero delle vittime è molto più alto dice Sigal Rosen, portavoce della Ong Hotline for Migrant Workers sono convinta che tanti altri migranti siano stati colpiti a morte ma non riusciamo a saperlo perché le autorità egiziane non lo dicono. E non dimentichiamo quelli che vengono feriti o arrestati».
I migranti catturati poi in Israele tranne un numero limitato di quelli provenienti dal Darfur vengono rispediti in Egitto dove, dopo un processo sommario e una detenzione durissima sono obbligati a tornare nei loro Paesi d’origine, nella migliore delle ipotesi. «Campi di detenzione, espulsioni di massa, aggressioni agli immigrati: tutto ciò è indice di un imbarbarimento sociale e culturale che non può essere in alcun modo giustificato adducendo la crescente insicurezza nei sobborghi di Tel Aviv o laddove più si concentrano le comunità di immigrati», dice a l’Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle minoranze, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. Le preoccupate considerazioni dell’ex parlamentare laburista trovano concorde Zeev Sternhell, uno dei più autorevoli storici israeliani: «È come se per trovare una coesione interna Israele debba individuare una minaccia esterna, contro cui fare fronte: lo sono i palestinesi, ed ora anche i sudanesi. Ma questo viversi in una sorta di trincea permanente, una trincea mentale oltre che materiale, finisce per alimentare un’aggressività collettiva che rischia di minare i principi stessi della nostra democrazia».
l’Unità 10.6.12
Israeliani, ebrei, razzisti e i raid anti-immigrati
di Moni Ovadia
UN PAIO DI SETTIMANE FA UMBERTO DE GIOVANNANGELI DAVA CONTO SU QUESTO GIORNALE DI ATTACCHI RAZZISTI SCATENATI IN ISRAELE CONTRO IMMIGRANTI AFRICANI. Gli attacchi ai limiti del pogrom hanno avuto luogo, incredibile a udirsi, nei sobborghi di Tel Aviv, la laicissima città della Israele più colta e moderna, città della movida, del buon vivere all’occidentale.
La teppaglia che ha scatenato i raid contro esseri umani, colpevoli solo di essere quello che sono, era composta da oltranzisti della destra israeliana, laica e religiosa. Anche i leader della odiosa campagna xenofoba sono israeliani, non arabi, quindi ebrei. La domanda che si impone con urgenza è: «Si può essere israeliani, ebrei e razzisti?» La risposta è: «Ma certo! Eccome!». Qualche lustro fa una simile domanda e una simile risposta sarebbero state scandalose in quanto tali, si sarebbero trovati esponenti autorevoli delle comunità ebraiche della diaspora (e si trovano ancora) pronti a lanciare anatemi contro chi avesse osato porre simili domande e dare simili risposte. Il malcapitato sarebbe stato immediatamente marchiato con l’infamante epiteto di antisemita, magari con un surplus di infamia: «Schifoso antisemita!». In tempi più recenti qualche anima bella, di fronte a manifestazioni di razzismo da parte di ebrei, con accenti addolorati e incredulo stupore diceva (e ancora dice ): «Ma come??? Proprio loro??? Con quello che hanno passato???».
Ebbene sì proprio noi, con quello che abbiamo passato, abbiamo i nostri razzisti, i nostri xenofobi, i nostri fascisti e se andiamo avanti di questo passo avremo anche di peggio, ( mi astengo dalla definizione per il rispetto che devo a quelli fra i nostri che furono annientati e ridotti in cenere). Come è potuto accadere? È facile capirlo. Gli ebrei sono solo esseri umani come tutti gli altri, con le loro miserie e le loro glorie. Pertanto è bastato lasciarsi andare con cupidigia all’idolatria della terra perché sorgessero fra gli ebrei i nazionalisti fanatici e religiosi e dunque razzisti, e xenofobi.
L’eccellenza ebraica nel corso di 30 secoli non è mai stata dovuta ad un supposto ed equivocato talento dell’ebreo in quanto tale, ma è nata da condizioni socio esistenziali, da scelte culturali e dal fatto di essere un popolo di meticci avventizi che seppero colonizzare il cielo con il Dio universale che a sua volta li elesse perché erano schiavi e stranieri, sbandati e «poco raccomandabili». Gli ebrei ebbero la folgorante intuizione di aggregarsi intorno ad una patria mobile, la Torah. E tutte le volte che hanno tradito questa vocazione sono cominciati i guai. Non quelli che vengono dall’esterno, ma dall’interno. E quelli sono i più insidiosi.
Corriere 10.6.12
Una terra due popoli
Quello Stato «ineguale» fra il Giordano e il Mare
A Ramallah si attenua la fiducia nel futuro di una Palestina indipendente
di Sergio Romano
Negli ultimi decenni dell'Ottocento, quando i primi coloni ebrei cominciarono ad arrivare in Palestina, Ramallah era spesso l'ultima tappa del loro viaggio, il luogo in cui avrebbero trascorso la notte per ripartire all'alba e alzare infine lo sguardo sulle mura di Gerusalemme accese di rosa nella luce del tramonto. La piccola città era allora un fiorente centro agricolo e aveva una importante comunità cristiana. Oggi i cristiani sono pressoché scomparsi, Ramallah conta 25 mila abitanti, ha un grappolo di piccoli grattacieli, un elegante albergo costruito da una società svizzera e un palazzo presidenziale (la Mukata), lungamente occupato da Yasser Arafat, costruito e ricostruito sulla vecchia sede di un edificio ottomano e di un carcere britannico. È il centro politico-amministrativo dell'Anp (Autorità nazionale palestinese) e sarebbe a un tiro di schioppo da Gerusalemme se due varchi di frontiera — il primo israeliano, il secondo palestinese — non rendessero il viaggio un po' più lungo del necessario.
Da qui il governo presieduto da Salam Fayyad amministra una parte dei territori occupati con un corpo di pubblici dipendenti composto da circa 150 mila persone. I risultati della sua politica economica sono stati positivi. Ha ridotto le spese, ha gestito con prudenza e precisione il bilancio dello Stato, ha favorito la nascita di nuove imprese, ha risvegliato gli «spiriti animali» di una società che ha il bernoccolo degli affari. La disoccupazione si aggira intorno al 18%, ma sale mediamente al 20% quando è sommata a quella molto più alta della Striscia di Gaza (27%). Potrebbe andare molto meglio, mi dicono i miei interlocutori, se Israele non si fosse impadronito dell'acqua, se non avesse di fatto il monopolio del turismo e non avesse riservato ai suoi coloni le terre più fertili della valle del Giordano.
Parlo anzitutto con Ghassan Khatib, direttore del Centro governativo per i mezzi d'informazione e condirettore delle attività editoriali di «bitterlemons», un'associazione israelo-palestinese che promuove «un civile scambio di vedute sul conflitto arabo-israeliano e su altre questioni medio-orientali». Khatib rifiuta la violenza, crede nella soluzione dei due Stati, ma attribuisce al governo di Benjamin Netanyahu lo stallo dei negoziati e non vede per l'Anp altra possibilità fuor che quella di bussare ancora una volta alla porta dell'Onu per ottenere un seggio, come Stato osservatore, nell'Assemblea generale. Non avrebbe il diritto di voto, ma potrebbe accedere ai tribunali internazionali e se ne servirebbe per denunciare i pregiudizi inflitti ai palestinesi dall'occupazione israeliana. Dopo il fallimento dell'ultimo tentativo, bloccato dal veto americano in Consiglio di sicurezza nel settembre dell'anno scorso, il governo sta lavorando a un progetto di risoluzione e spera di ottenere questa volta un sostegno «qualitativo», vale a dire le firme di tutti i membri dell'Unione europea.
Domando a Khatib se l'iniziativa verrà avviata nella sessione di settembre e mi risponde che Abu Mazen e i suoi consiglieri non hanno ancora deciso i tempi dell'operazione. Suppongo che si chiedano se convenga agire prima o dopo il risultato delle elezioni americane. Se il vincitore fosse Obama, il secondo mandato gli consentirebbe forse di fare ciò che non era elettoralmente opportuno un anno prima. Nella conversazione raccontata in un articolo precedente, un promotore israeliano del dialogo, Daniel Seidemann, mi ha ricordato che Netanyahu, in materia d'insediamenti, ha pubblicamente umiliato Obama costringendolo a un indecoroso passo indietro. Confermato alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti sarebbe forse tentato di regolare un vecchio conto.
Come ingannare il tempo in attesa delle elezioni americane e di altre vicende internazionali, fra cui la politica del Cairo dopo il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane? La risposta che ho più frequentemente ascoltato nelle mie conversazioni di Ramallah è: resistenza non violenta. In una intervista a una pubblicazione economica giordana (Jordan Venture del maggio 2012), Munib al-Masri, un ricco finanziere e uomo politico palestinese, ha detto che occorrono manifestazioni non violente e forme di disobbedienza civile. Vi sono state alcune manifestazioni, in effetti, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, ma hanno avuto luogo sulla scia delle rivolte arabe. Quelle di Gaza, particolarmente numerose (fra 10 mila e 20 mila dimostranti), erano dirette contro la dirigenza politica e sono state duramente represse; mentre quelle di Ramallah e altri centri cisgiordani sono state trattate dall'Anp con una certa benevolenza. Ma Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (un istituto specializzato in sondaggi) ritiene che le rivolte arabe non abbiano giovato alla causa palestinese. Preoccupato dall'instabilità delle regione, il governo israeliano preferisce lo status quo mentre quello palestinese dice di volere tornare all'Onu, ma non dà prova di grande intraprendenza. Gli avvenimenti degli scorsi anni hanno avuto l'effetto positivo di rendere inutile e indesiderabile il ricorso alla violenza, ma la «non violenza» e la disobbedienza civile sembrano essere soltanto artifici retorici, più proclamati che praticati. Il risultato, secondo Shikaki, è una generale apatia, una sorta di navigazione senza rotta verso l'inevitabile approdo dello Stato unico. L'Anp dichiara di volere la riconciliazione con i fratelli separati di Gaza, ma il gruppo dirigente di Hamas, se le elezioni presidenziali egiziane fossero vinte dal candidato della Fratellanza musulmana, sarebbe probabilmente attratto da un rapporto speciale con l'Egitto. Abu Mazen dichiara che occorre tentare ancora una volta la strada dell'Onu, ma con programmi non ancora precisati e con esiti incerti. Come abbiamo constatato altre volte in passato, il provvisorio, nelle vicende palestinesi, rischia di durare molto a lungo. Quello che sta nascendo di fatto, fra il Giordano e il mare, è uno Stato sui generis in cui israeliani e palestinesi vivono in zone separate, con status differenti, all'interno delle stesse frontiere e hanno relazioni simili per certi aspetti ai rapporti ineguali che si erano stabiliti nell'Impero russo fra gli ebrei del «recinto» (la zona d'insediamento fra Ucraina, Bielorussia, Polonia) e il resto della popolazione russa nell'impero zarista. Le parti naturalmente si sono rovesciate: gli ebrei vestono i panni dei russi, i palestinesi quelli degli ebrei.
2-continua la prima puntata è stata pubblicata il 7 giugno (è disponibile su “spogli” nella data della sua uscita)
Internazionale n.952 e Ha’aretz 8.6.12
Israele è razzista con gli immigrati neri
di Gideon Levy
qui
Internazionale n.952 e Der Spiegel 8.6.12
Armi segrete per Israele
qui
Corriere La Lettura 10.6.12
I populisti che arruolano Dio
Cresce in Europa l'uso politico della religione da parte di leader che sfruttano il disorientamento di fronte alla crisi delle nazioni
di Marco Ventura
Nella nostra età secolare, la fonte della sovranità ha smesso di essere in Dio; Dio non è più sovrano. Chi ne ha preso il posto? Il popolo. Il popolo sovrano. Nei Paesi in cui l'avvento della sovranità popolare ha coinciso con la liberaldemocrazia, il rapporto tra popolo e Dio si è riscritto in termini di libertà religiosa e di separazione tra Stato e Chiese. Per le Chiese la separazione è la miglior garanzia contro l'ingerenza statale; per gli Stati la separazione è la miglior garanzia contro l'ingerenza clericale. Alcuni Paesi, come la Francia e gli Stati Uniti, hanno introdotto la separazione chiamandola col suo nome; altri hanno teso ad essa riducendo le Chiese di Stato ad un ruolo simbolico, come nel Regno Unito e in Scandinavia, o moderando i privilegi delle Chiese forti, come in Germania e in Spagna.
In un Occidente spaventato dal mondo globale, la crisi del modello laico-separatista ha coinciso con quella della liberaldemocrazia. Nuove forme di alleanza tra Dio e popolo si sono delineate. Il cambiamento di paradigma si è avvertito particolarmente nei partiti e movimenti politici che hanno costruito sul populismo la loro affermazione. Nell'ambito del progetto «Religio West», diretto dal politologo Olivier Roy, un seminario internazionale presso l'Istituto universitario europeo di Firenze ha indagato il fenomeno attraverso l'analisi di alcuni casi nazionali.
L'affacciarsi di partiti populisti nell'Europa degli anni Ottanta fu una risposta al ridimensionamento della sovranità statuale, all'indebolimento delle nazioni, all'insicurezza delle Chiese. Alcuni leader intuirono che si apriva un nuovo spazio a chi avesse il coraggio di parlare al popolo. Il populismo, precisa il sociologo francese Jean-Louis Schlegel, non è una dottrina, ma una strategia degli attori politici in tempi di crisi. Le Pen in Francia e Haider in Austria vi ricorsero con abilità. Solleticarono le frustrazioni, ricrearono un popolo e additarono un nemico: le élite e gli immigrati. Dio rimase ai margini del populismo tra anni Ottanta e Novanta. Quando vi entrò, come nel caso della Lega, fu per rafforzare l'identità di un popolo padano tradito da una Chiesa di Roma non meno ladrona della politica romana; oppure, come in Turchia, per risvegliare una nazione islamica stanca di una laicità governativa e militare.
Soltanto dopo l'attentato alle Torri gemelle, i leader populisti arruolarono Dio alla loro demagogia. Prese forma una religione del popolo fatta di identità e simboli, di valori e tradizione. Il Dio del popolo presuppone «civiltà» e «culture» contrapposte, demarca il «noi» e il «loro». Siamo cristiani perché loro sono musulmani. Siamo cristiani perché lo siamo sempre stati. Questo Dio, osserva il politologo israeliano Dani Filc, funziona perché esclude e perché include: unisce il popolo escludendo il nemico e il diverso, ma al contempo promette inclusione a chi sia disposto ad entrare nel recinto, a riconoscersi nella nazione; persino a chi non pratica, persino a chi non crede. Il Dio del popolo ha nostalgia di un passato felice, della religiosità tradizionale, di un paesaggio rurale e di una società arcaica. Odia la riforma teologica e politica, la finanza e gli intellettuali.
È alle sorgenti di questo Dio che si è abbeverato l'odio dell'Europa. Pur nel contesto peculiare del «nazionalismo» padano, la parabola della Lega è significativa. Duncan McDonnell ricorda il Bossi degli anni Novanta, che inveisce contro gli scandali finanziari vaticani e rimprovera alla Chiesa di aver perso «ogni credibilità», tanto da dover riempire i seminari vuoti con preti dal Terzo Mondo. Lo studioso irlandese analizza il populismo leghista fatto di missione, sacrificio, terra promessa, riti e soprattutto di auto-assoluzione: perché la colpa non è mai mia, è sempre dell'altro. Fino alla conversione religiosa dopo le Torri gemelle. Dal 2001 la Lega accentua la propria battaglia per l'identità cristiana contro l'Europa secolarizzata e l'invasione musulmana. È forte la tensione con settori cattolici antagonisti, ma il Dio popolare leghista è astuto: «Un tempo attaccavamo i potenti, il Vaticano e la Chiesa», dichiara un militante a McDonnell, «poi i rapporti con la Chiesa sono molto migliorati» perché abbiamo criticato la Convenzione europea dei diritti umani; perché abbracciamo le radici cristiane. Il Dio leghista, secondo McDonnell, è attivamente anti-islamico e passivamente cristiano. La formula vale anche al di là dell'Italia. Per funzionare, il cristianesimo dei populisti deve ridursi ad una generica poltiglia di valori, simboli e nostalgie. Un amalgama passivo, cui costa poco aderire. È invece attivissima la retorica del nemico, anzitutto musulmano, come mostrano per l'Austria Sieglinde Rosenberger e Leila Hadj-Abdou.
Per Olivier Roy il populismo lacera Chiese e religioni perché ne spezza il monopolio su Dio. Roy ha ragione, ma per molti pezzi di Chiese e di religioni, il Dio populista è l'occasione del riscatto, l'illusione di un ritorno al monopolio, la seduzione del successo, come mostrano i vescovi abbagliati da Bossi e Berlusconi. Susi Meret, politologa italiana all'Università di Aalborg, racconta come Søren Krarup, pastore protestante e deputato, abbia plasmato l'ideologia xenofoba del Partito danese del popolo, per cui l'identità, la religione e la cultura sono qualcosa che si assimila «col latte della mamma». Pantelis Kalaitzidis, dell'accademia teologica di Volos, denuncia la deriva di un'ortodossia greca sempre più nazionalista, antiecumenica ed antioccidentale. La politologa turca Mine Eder fonda il successo del partito di Erdogan, l'Akp, sul populismo egemonico dell'Islam nazionalista turco. Tim Peace, dell'Università di Edimburgo, racconta la lotta della Chiesa d'Inghilterra, delle altre fedi e dei gruppi interreligiosi britannici contro la demagogia del British national party e della English defence league.
Schlegel nota come il cattolicesimo populista sia quello meno in sintonia con il Vaticano II, in particolare con l'ecclesiologia del popolo di Dio. In realtà, segnalano Dani Filc e Olivier Roy, il Dio populista è onnivoro e contraddittorio: opposto alla modernità, ma dalla parte dell'Occidente secolarizzato contro il sikh e il musulmano. Interessi e tattiche ricompongono gli opposti. È così nel Tea Party americano illustrato da Nadia Marzouki, nella laicità repubblicana di Marine Le Pen e ancor più nel populismo del Nord e Centro Europa, dove libertà sessuale, ateismo, tutela delle minoranze e diritti umani si tramutano in alleati della religione popolare e delle tradizioni. Lo ha mostrato lo studioso svizzero Oscar Mazzoleni, collegando il leader antiminareti elvetico Oskar Freysinger al libertario olandese Geert Wilders.
Nell'età secolare il popolo non appartiene più a Dio. I populisti cercano consenso e potere rovesciando i termini: il loro Dio appartiene al popolo; vale perché serve al popolo. Li inseguono le Chiese e le religioni quando strillano «no, Dio è mio». E se invece Dio non fosse di nessuno?
Nichi Vendola: «Mi candido alle primarie. Dopo il voto, partito unico»
«Dovremo affrontare il tema del soggetto politico del futuro, di quale sarà il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista»
«Niente personalism. Il punto è la sinistra del futuro, dobbiamo unire passioni e idee»
intervista di Simone Coillini
Non solo è intenzionato a lavorare col Pd per un «centrosinistra di governo» che rispetti anche determinati vincoli e preveda una cessione di sovranità da parte delle forze politiche che ne fanno parte. Non solo è pronto a candidarsi alle primarie annunciate da Pier Luigi Bersani, che andranno concepite «come uno straordinario processo di ripoliticizzazione della società». Ma Nichi Vendola dice anche che dopo le prossime elezioni «si potrà affrontare con scelte coraggiose, fuori e dentro le istituzioni, il tema del soggetto politico del futuro».
Partiamo dal convegno organizzato dalla Fiom, a cui avete partecipato lei, Di Pietro e Bersani: lo scontro tra il leader Idv e quello del Pd fa compiere un passo indietro rispetto a Vasto?
«No, anzi io considero questo appuntamento un passo in avanti, perché dopo tanto tempo le sinistre sono tornate a parlarsi. Sono così disabituate a farlo che sono ricorse ai toni incandescenti, e vorrei invitare tutti a non rimanere prigionieri della diffidenza, della propaganda di partito, delle bandierine personali. Ora dobbiamo lavorare insieme per mettere in campo un’alternativa vincente che rompa il muro dell’antipolitica, dobbiamo unire le nostre passioni e idee su come rilanciare l’Italia in un’Europa che ha un drammatico bisogno di sinistra». Lei parla di sinistra ma Di Pietro dice che in Parlamento non c’è un centrosinistra contro un centrodestra, che per lui non è questione di ideologie ma di coerenza.
«Lo stile di Di Pietro è rude e talvolta propagandistico, tuttavia continuo a pensare che il mondo che rappresenta sia un valore aggiunto per il centrosinistra. Gli elementi che ha sottolineato con un certo grido di indignazione vanno tenuti in considerazione».
Come le nomine Agcom?
«Ad esempio, scandalose. Per non parlare del degrado culturale rappresentato dal fatto, come abbiamo visto da ultimo sulla Rai, che l’unico deposito di competenze a cui attingere si chiami banca. A cosa allude il fatto che si ricorra a simili figure per ruoli dirigenziali nelle reti pubbliche? Monti ha detto di non sapere neanche se le persone nominate abbiano la tv in casa. E allora qual è l’unica chiave razionale di una scelta così dissennata? La prospettiva è quella di privatizzare la Rai?».
Le si potrebbe obiettare che è un retropensiero pregiudiziale da parte di chi è contrario al governo Monti, non crede?
«No, è un retropensiero lecito vedendo come si sta muovendo questo governo, che costituisce un problema per il Paese. E mi dispiace che Bersani appaia ancora prigioniero di troppe contraddizioni. Una sopra tutte: non si può evocare una nuova civiltà del lavoro e restare inerti mentre i tecnocrati smantellano i diritti sociali e l’idea stessa del lavoro come diritto. Per rendere credibile lo sforzo di costruire l’alleanza per il futuro, per poter fare appello al mondo del lavoro, bisogna evitare oscillazioni ed ambiguità. Altrimenti si rischia soltanto di alimentare l’onda nera dell’antipolitica». Sta dicendo che per lavorare a un’alleanza di centrosinistra è necessario che il Pd rompa con Monti?
«Sto dicendo che se vogliamo ricostruire la credibilità e la forza del centrosinistra di governo bisogna dare una risposta credibile e immediata al maturarsi della crisi sociale e democratica. Bisogna prendere atto del fatto che il tentativo, generosissimo, del Pd di condizionare un governo di tipo tecnocratico con scelte più marcatamente orientate nella direzione della crescita e della tutela del welfare è fallito».
Bersani ha annunciato entro la fine dell’anno primarie aperte per la premiership: lei si candiderà?
«Io sono a disposizione. Non sono nato candidato delle primarie a vita. Né sono roso da ambizioni personali. Qualora per rendere credibili le primarie, per dar vita a una contesa vera, e qualora servisse per mettere in relazione una piattaforma programmatica con le istanze della sinistra, io non mi sottrarrò. Le primarie possono essere l’occasione per un ascolto, per una contaminazione, per una forte messa in relazione tra politica e società».
Bersani, parlando del centrosinistra di governo, ha proposto una cessione di sovranità e decisioni a maggioranza dei gruppi parlamentari: la sua opinione? «Concordo con Bersani sull’idea che non bisogna replicare gli spettacoli molto tristi del passato governo, di un centrosinistra permanentemente rissoso e incapace di esprimersi come classe dirigente con un progetto forte. Il primo vincolo, allora, è rappresentato dal responso delle primarie, con la piattaforma legata al candidato premier. La prima cessione di sovranità è nei confronti degli elettori delle primarie, che non sono un concorso di bellezza. Poi dovremmo avere il coraggio di uscire dalla logica autoconservativa dei partiti così come sono, e all’indomani delle elezioni dovremo affrontare il tema del soggetto politico del futuro, di quale sarà il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista. E potremo affrontarlo con scelte coraggiose, dentro e fuori le istituzioni». A cosa pensa, concretamente?
«Se le cose andranno bene, nessuno ci impedisce di sperimentare in Parlamento un’unità più compiuta, delle forti sinergie tra gruppi parlamentari».
E fuori dalle istituzioni? Pensa in prospettiva a una fusione tra Pd e Sel?
«Il problema non è la fusione di Pd e Sel. Il punto è la sinistra del futuro. Dovremo lavorare a una grande ricostruzione dei luoghi della sinistra».
Repubblica 10.6.12
Vendola lancia il listone della sinistra “Sciogliere Sel? A me interessa la partita”
“Vasto non basta, ma Tonino non uscirà dalla coalizione”
intervista di Giovanna Casadio
Vendola, sottoscrive le parole di Di Pietro contro Bersani? «Non le sottoscrivo, la mia specialità del resto non sono le intemperanze né l’irascibilità». Ma lei con chi sta: con Bersani o con Di Pietro? «Intanto voglio dire che è positivo che tante anime del centrosinistra riprendano a parlarsi sia pure in modo frizzante, e soprattutto che lo facciano davanti a una platea inquieta e esigente come quella della Fiom. È una finta ingenuità stupirsi delle asprezze e dei toni rudi. Conosciamo le divaricazioni e i contrasti. Non avremmo avuto il ventennio berlusconiano se la sinistra non si fosse così accuratamente divisa». Questa è la malattia antica. Ma lei quali idee ha per il futuro? «Il fatto nuovo è che ci sia una ripresa di parola davanti alla questione sociale. Io non vorrei neanche sovraccaricare di significati i toni usati da Di Pietro, che si è posizionato con forza, ma dubito molto che la sua sia un’uscita dalla coalizione del centrosinistra». Sta cercando di tenersi in equilibrio, Vendola? «No, sto cercando di mettere tutti davanti alle responsabilità che abbiamo di costruire unitariamente l’agenda del cambiamento poiché siamo collocati sull’orlo di un cratere e il vulcano della crisi sociale, della disoccupazione di massa, della recessione, della povertà può eruttare da un momento all’altro. Essere responsabili non significa cercare il minimo comune denominatore, bensì costruire un patto con il mondo del lavoro e le giovani generazioni. O il centrosinistra è questo oppure non c’è, è un artificio elettorale». La “foto di Vasto”, quell’alleanza Vendola, Di Pietro, Bersani è strappata, rotta? «Per me la foto di Vasto è sempre stata solo l’evocazione di una possibilità: quella di un’uscita a sinistra dalla crisi del berlusconismo. I protagonisti di quell’immagine sono forse necessari, ma non sufficienti, per incarnare una grande e credibile alternativa. Comunque io scelgo la piattaforma della Fiom “senza se e senza ma”». Si presenta alle primarie del Pd? «Sono a disposizione». Cioè, si presenta o no? «Di mestiere non faccio il candidato alle primarie, non sono divorato dalle ambizioni personali ». Ma fu lei a lanciare la sfida. «Oggi siamo in un evo differente rispetto al luglio 2010. È una scelta che si compie collettivamente, non sono un ragazzo in carriera». Sarebbe disposto a sciogliere Sel, il suo partito? «Ho detto, nel congresso di fondazione, che più che il partito mi interessa la partita per uscire dall’egemonia della destra». Pensa forse a un “listone” della sinistra? «Siamo impegnati nella costruzione di un nuovo soggetto plurale, popolare, della sinistra del futuro così come lo evocano gli intellettuali di ALBA e i sindaci, da Pisapia a Emiliano, De Magistris, Zedda, Orlando... ». Ci sarà una lista Fiom alle elezioni? «Penso di no, la Fiom sta facendo bene il sindacato ed è un compito politico». Andrebbe al voto “divorziato” dal Pd? «Non andrei mai diviso dalle ragioni del mondo del lavoro». Bersani e l’impegno per i gay: a lei, omosessuale, quale effetto fa? «Bene, ora però la battaglia in Parlamento. Mi sono sentito troppe volte preso in giro dal piccolo cabotaggio, dall’ipocrisia, dal “vorrei ma non posso”. L’impegno è il minimo che la decenza impone a qualunque forza democratica, visto che l’Italia vive dentro una tenebra oscurantista».
l’Unità 10.6.12
Unioni civili
Il gay pride a Bologna Bersani: legge urgente
Il corteo: siamo senza diritti. Il leader Pd: stop al «Far west»
Bersani: «Contro il far west, una legge per unioni stabili»
Messaggio del segretario al Gay Pride. Scalfarotto (Pd): Lavoriamoci. Arcigay: i Dico? Non bastano
di Mariagrazia Gerina
È il giorno del Gay Pride. E Pier Luigi Bersani cerca parole chiare per parlare a un popolo meno variopinto del solito, che, senza carri per solidarietà con le popolazioni terremotate, sfilava ieri sotto le Due Torri. «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico», scandisce il messaggio di adesione del segretario Democratico alla manifestazione nazionale del movimento Lgbt. Un messaggio programmatico, che mette in fila i nodi irrisolti in tema di diritti civili che tengono l’Italia fuori dal novero dei «principali paesi occidentali»: unioni omosessuali, appunto, legge contro l’omofobia e la transofobia («è intollerabile che questo parlamento non sia riuscito a vararne una») e poi diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia, divorzio breve, testamento biologico. «Anche su questi temi, nei mesi che verranno da qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese», scandisce Bersani, schierando in modo deciso il Pd con le «forze progressiste che in tutto il mondo, da Obama al neo-eletto Hollande, sono impegnate a costruire un nuovo civismo», fatto di «pari diritti e pari opportunità, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale e identità di genere».
«Una lettera bellissima», lo ringrazia la deputata Paola Concia, firmataria di varie proposte di legge che vanno sotto la rubrica “diritti civili” e giacciono da tempo in parlamento. «Era ora», chiosa il leader di SeL Nichi Vendola. E mentre il portavoce dell’Arcigay, Paolo Patané, avverte: «Passo interessante ma non sufficiente, ci vuole il matrimonio civile», il vicepresidente del Pd Scalfarotto indica «le unioni civili sperimentate in Nord Europa» come un modello non ideale ma possibile su cui lavorare «insieme» e in calza i Democratici: «Adesso dobbiamo giungere a una proposta chiara con il Comitato diritti, presieduto da Rosy Bindi».
Intanto dal Pdl, parte il coro dei censori. Gasparri grida già a «Bersani come Zapatero». Qualgliariello mette in guardia Casini, sconsigliando al leader centrista «innaturali cartelli elettorali». Eugenia Roccella corre a tracciare attorno a Bersani il «perimetro delle alleanze possibili», che ovviamente, a suo avviso, esclude i cattolici. Mentre l’Udc Buttiglione scandisce il suo adagio: «Se Bersani intende parlare al Paese delle unioni omosessuali, noi continueremo a parlare in difesa della famiglia».
La Stampa 10.6.12
La mossa del segretario. Una legge per le coppie gay
E con le primarie parte il toto-successore alla guida del partito
Se Bersani sarà a Palazzo Chigi Letta lo seguirà; nel partito gara tra Bindi, Franceschini e Renzi
di Carlo Bertini
ROMA Non sono passate neanche 24 ore e la campagna per le primarie già si surriscalda: con un occhio di riguardo verso la vasta comunità gay che vota a sinistra, la prima mossa che fa Bersani, dopo aver annunciato la sua candidatura, è di stampo «zapaterista», per dirla con il ciellino Maurizio Lupi. «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico», dice testuale il segretario del Pd in un messaggio ai promotori del Gay pride 2012 di Bologna. E non c’è da stupirsi se il leader Pd, insieme alla voglia di sbarazzarsi di Di Pietro ormai equiparato al «peggior Grillo», cerchi al contempo di posizionarsi al meglio per le primarie: nella convinzione che «gira la caricatura di un Pd fermo e quindi dobbiamo muoverci e prendere delle iniziative». E si può immaginare come le reazioni a questa uscita del leader Pd scaldino anime e cuori a sinistra. Ignazio Marino subito tira fuori il suo disegno di legge sulle unioni civili, Vendola quasi non crede alle sue orecchie e sfida il Pd a passare dalle parole ai fatti in Parlamento. La Concia in prima fila a Bologna se la sente di promettere che quando il suo partito tornerà a governare, saranno approvate quelle leggi a tutela dei diritti dei gay. E il Pdl, preoccupato dal disegno di Bersani di mollare Di Pietro per stringere un patto di governo con Casini, subito prova a stanare l’Udc. Che se la cava con una voce autorevole come Buttiglione: convinto che non sia necessario esser d’accordo proprio su tutto «per un programma politico di salvezza dell’Italia» e che per l’Udc un valore «non negoziabile» resterà la difesa della famiglia.
E’ solo il primo effetto di una campagna che andrà avanti per tutta l’estate: il secondo è più interno al Pd. Dove la previsione di una vittoria di Bersani su Vendola e Renzi (che non mollerà la poltrona di sindaco durante la sfida) mette già in moto le fantasie sul successore per la guida del partito; visto che il vincitore delle primarie dei progressisti in base ai sondaggi è dato pure in planata verso Palazzo Chigi. Meccanismi fisiologici nei partiti e in tutte le organizzazioni verticistiche, ma che nell’era del web subiscono un’accelerazione più marcata. Non a caso il sito nato da poco Retroscena.It, sempre ben informato su tutto ciò che si muove al Nazareno, ieri mattina già riportava scenari suggestivi; che una fonte ben addentro alla stanza dei bottoni, definiva «perfino verosimile, ad oggi». E cioè che se Bersani guiderà l’esecutivo, il suo vice Letta lo potrebbe seguire al governo in un incarico di rilievo, con la Bindi e Franceschini in pole position per la poltrona di segretario, ma alle prese con un peso (diventato a quel punto massimo) come Renzi. Che nel caso ottenesse il 30-35% dei voti alle primarie, oltre a prenotare la successione a Bersani, anche da Firenze potrà gestire un tesoretto di consensi che gli varrà l’ultima voce in capitolo su nomine e cadreghe varie. Tutte fantasie premature di sicuro, ma certamente vive nella testa dei plenipotenziari, che prima di rinunciare a candidarsi alle primarie per aiutare sul campo la vittoria di Bersani, si faranno i loro conti.
E se è vero che spesso il web anticipa i tempi, anche nel caso di Di Pietro basta scorrere il coro di voci dei suoi elettori sui siti Idv per capire come la voglia di mollare il Pd per «allearsi con Grillo» sia più che una richiesta, ma quasi un’ingiunzione. Che spiega la vis polemica dell’ex pm, così come la presa d’atto del Pd che «ormai Tonino ha preso un altro abbrivio».
Corriere 10.6.12
«Legge sulle coppie gay» Diventa un caso l'apertura di Bersani
A Los Angeles Fioroni frena: non è il tempo giusto
di Maria Teresa Meli
ROMA — «Basta con il far west, serve una legge per le unioni civili»: Pier Luigi Bersani invia il suo messaggio al Gay Pride nazionale di Bologna, scegliendo di rompere gli indugi e di usare quelle parole chiare che finora non aveva mai pronunciato.
L'altro giorno la mossa a sorpresa sulle primarie, ora questa uscita sugli omosessuali: il segretario sembra aver innestato la quarta. Ed effettivamente è così. Con i compagni di partito il leader non ha nascosto la propria insofferenza nei confronti di come viene dipinto il Pd: «Fanno la nostra caricatura, descrivendoci come un partito fermo, immobile. Adesso basta, è il tempo di muoverci e di prendere delle iniziative». Detto, fatto. Bersani ha parlato con due importanti esponenti Pd del mondo gay, Aurelio Mancuso, presidente di Equality, e Andrea Benedino, e dopo essersi consultato con loro ha mandato quel messaggio: «Non è accettabile che in Italia non si sia ancora introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali, conferendo loro dignità sociale e presidio giuridico».
Per Bersani è anche «intollerabile che questo Parlamento non sia riuscito a varare una legge contro l'omofobia e la transfobia: sarà anche su questi temi — sottolinea il segretario del Pd — tra cui mi permetto di aggiungere il divorzio breve, l'introduzione del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia e il testamento biologico, che nei mesi che verranno di qui alle prossime elezioni politiche, si giocherà la nostra capacità di parlare al Paese».
Come era ovvio, le parole di Bersani hanno suscitato un dibattito dentro e fuori il Pd. Scontati i «no» dei pdl Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello, che approfittano dell'occasione per seminare zizzania tra Casini e Bersani. E altrettanto ovvio anche il «no» dell'Udc Rocco Buttiglione. Ma è all'interno del partito che il segretario rischia di trovare le resistenze maggiori. Come dimostrano le critiche che gli rivolge Beppe Fioroni: «Io faccio mie le parole che Benedetto XVI ha pronunciato nel corso di un incontro con un milione di persone a Milano: la politica non prometta cose che non può mantenere. E oggi con le famiglie che non riescono ad andare avanti, con la povertà e la disoccupazione, il nostro programma deve essere quello di tentare di risolvere la crisi. Sbagliare i tempi in politica è come fare cose sbagliate». Per un Fioroni che prende le distanze dal segretario, c'è una Paola Concia entusiasta: «Ottimo Bersani, andiamo avanti così». Del resto, la deputata del Pd e Aurelio Mancuso sono tra coloro che più si stanno muovendo per ottenere che il Partito democratico imbocchi la strada dei diritti civili. Possibilmente, senza tornare indietro.
E Matteo Renzi? Qual è la posizione del più importante competitor di Bersani? Il sindaco di Firenze spiega di essere favorevole alle unioni civili per i gay: «Del resto, questa richiesta era già nei cento punti della Leopolda. Purtroppo per Bersani, la campagna elettorale non sarà su quello». Ma quella per le primarie sì. Almeno questo è quello che teme il cattolicissimo Fioroni e che al contrario sperano Mancuso e Concia.
il Fatto 10.6.12
La Fiom fischia l’inizio
Il segretario del Pd contestato sull’articolo 18, ma Landini detta la linea a chi vuol vincere le primarie
di Giorgio Meletti
Pier Luigi Bersani va a prendersi i fischi della platea con piena consapevolezza. E qui sta il successo di Maurizio Landini. La sua Fiom è messa alle corde dalla Fiat, cacciata dalle fabbriche in cui ha detto no, isolata da Fim-Cisl e Uilm che per conto loro preparano la piattaforma del prossimo, ennesimo, contratto separato dei metalmeccanici. La Fiom è insomma un sindacato che, nelle grandi partite nazionali, non riesce a fare il sindacato. Eppure mette a segno un risultato impensabile per la stessa sorella maggiore, la Cgil di Susanna Camusso. Convoca all’hotel Parco dei Principi, nella sala passata alla storia per i convegni cripto-golpisti degli anni 60, tutti i leader del centrosinistra. E loro arrivano.
Non è il solito convegno del sabato mattina dove il politico arriva sull’auto blu sgommante, fa il suo discorsetto e se ne va senza curarsi di quel che si dice prima e dopo la sua epifania. No, stavolta arrivano tutti puntuali, da Bersani (Pd) a Oliviero Diliberto (Pdci), da Paolo Ferrero (Prc) a Antonio Di Pietro (Idv), fino a Nichi Vendola (Sel). E rispettosi ascoltano in attesa del proprio turno.
C’È IN BALLO una cosa molto seria. Per isolata e sbrindellata che la si voglia considerare, la Fiom è oggi l’unico vero avamposto della sinistra nei territori sociali della crisi. Nella sua disperazione, che si tradisce in una clamorosa excusatio non petita (“i lavoratori non ci stanno abbandonando”), Landini rischia di diventare l’arbitro delle primarie del centro-sinistra.
Se dentro l’organizzazione c’è chi, come l’uomo dell’auto Giorgio Airaudo, pensa che la capacità di pressione sulla politica si moltiplichi facendo balenare addiritturalaremotaipotesidilisteFiom, Landini preferisce limitarsi alla forza di un messaggio formulato come il grido di dolore dei pezzi di società più esposti alla crisi. Un grido che suona più o meno così: sul terreno sindacale puro non ce la facciamo più a reggere l’urto, stiamo arretrando sul piano delle condizioni di vita e anche delle libertà sindacali, il problema che vi rappresentiamo va affrontato sul piano politico. Un appello vero, che viene dalla pancia profonda del popolo Fiom, alla ricerca di risposte e non di leader o nuovismi. Come dimostra l’autentica ovazione rivolta dalla platea alla lucidità d’analisi del quasi ottantenne giurista Stefano Rodotà, di gran lunga l’oratore più applaudito del giorno, molto più dello stesso Vendola, per la precisione.
L’appello di Landini è chiaro, nel suo mescolare formule antiche e invenzioni sorprendenti. A un “noi vi incalzeremo”, vagamente démodé, affianca un paio di fendenti da fare invidia a Beppe Grillo per efficacia. Il migliore è questo: “Ho letto che il premier ha detto a Marchionne che la Fiat è libera di investire dove le pare. Monti, ma solo noi dobbiamo farci carico dell’interesse generale quando paghiamo le tasse? ”.
Landini non è tenero con gli ospiti. A Bersani, implicitamente, mette in conto le nequizie attribuite al governo Monti. A Vendola che evoca lo spettro dell’antipolitica come “invenzione della borghesia, come la parola casta”, ricorda che la Fiom si prende la libertà di criticare tutto respingendo il ricatto della “etichetta dell’antipolitica”.
E quindi di qui si passa. Ferrero e Diliberto hanno gioco facile a dire che il programma di Landini è il loro programma, come faceva Silvio Berlusconi ai convegni della Confindustria. Di Pietro, sebbene scortato dall’ex Fiom Maurizio Zipponi che oggi è il responsabile del lavoro per Idv, va completamente fuori tema e si infila nella rissa politica con il Pd.
PER BERSANI la cosa è più complicata, perché fuori tema non può permettersi di andarci. Sa su quale terreno è venuto a prendersi i fischi, e se li va a prendere come una medicina amara ma inevitabile. Prima inforca sulla nascita del governo Monti, con toni da solidarietà nazionale anni 70, o se si preferisce riproponendo lo stile autunno-inverno 1998 (modello “c’era la Serbia da bombardare”): “A novembre era in discussione il pagamento degli stipendi pubblici. Non c’erano i voti per andare a votare. L’alternativa non era tra governo Monti ed elezioni, ma tra governo Monti e continuare con Berlusconi”. Fischi. Si replica molto più rumorosamente sull’articolo 18. Dopo che Di Pietro gli ha rinfacciato il voto di fiducia alla riforma che rende più facile il licenziamento, Bersani abbozza un poco convinto “ritengo che si sia fatto argine”, e i fischi coprono il sussurro che segue, “in una situazione difficile”. Eppure Bersani è qui per giocarsela. Sottoscrive qualche punto del decalogo di Landini, abolizione dell’articolo 18, promette un tentativo di rivincita anche sul 18, riparla della patrimoniale. Ma la sua parola d’ordine, detta sul palco e rilanciata poi nelle dichiarazioni a margine è quella di un programma di governo “cha faccia cardine sul lavoro”.
La carta laburista se la giocò già nella campagna per la segreteria del Pd contro l’ex democristiano Dario Franceschini. Adesso deve aspettare l’estate, quando il governo Monti sarà criticabile senza timore di farlo cadere, per riproporre lo schema di gioco alle primarie per la candidatura a premier. Avrà di fronte Vendola e il sindaco di Firenze Matteo Renzi. Ieri Landini gli ha proposto una ricetta per non restare schiacciato tra i due avversari. E Bersani, solo con il fatto di presentarsi, ha dimostrato di gradire.
il Fatto 10.5.12
Decalogo. Le tute blu chiedono di fare così
Questo il decalogo dei punti di programma che il segretario generale della Fiom-Cgil Maurizio Landini ha proposto ai partiti del centro-sinistra. 1. Legge sulla rappresentanza. Modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori che limita l’agibilità sindacale alle organizzazioni “firmatarie di contratti”. 2. Abolizione dell’articolo 8, che consente ad accordi sindacali di derogare le leggi sul lavoro. 3. Lotta al precariato. Norme più restrittive sui contratti atipici di quelle della riforma Fornero. 4. Reddito di cittadinanza. 5. Articolo 18. Ripristino della garanzia, abolita dalla Fornero, del reintegro per il licenziamento ingiusto. 6. Età pensionabile. Abbassarla per i lavori usuranti, diversificarla a seconda del mestiere svolto. 7. Fondi pensione. Investire le quote dei lavoratori nei fondi negoziali sulle attività produttive italiane. 8. Riduzione orario di lavoro, con la detassazione. 9. Piano per la mobilità. Nuovo modello ecologico per l’industria dei trasporti. 10. Finmeccanica. Bloccare la vendita delle industrie civili (energia e ferro
il Fatto 10.6.12
Divorzio fra Bersani e Di Pietro. Sinistra verso la doppia coppia
Vendola cerca la mediazione impossibile
Ferrero esulta e si schiera con l’Idv
di Wanda Marra
Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista, ha un sorriso larghissimo. “Ci sono due schieramenti. Finalmente. Da una parte noi con Di Pietro, dall’altra Vendola con Bersani”. All’assemblea della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, il segretario Pd ha appena detto senza mezzi termini che “Di Pietro conosce il diritto e dovrebbe sapere che sta commettendo un reato: la diffamazione del Partito democratico”. Dopo mesi di strappetti e una settimana in crescendo, questo sembra lo strappo definitivo. Peraltro condiviso: “Bersani fugge il confronto”, dice il leader Idv. È netta l’analisi di Ferrero. E in effetti, l’impressione che si ricava all’ Hotel Parco dei Principi a Roma è proprio questa. La sinistra-sinistra, riunita da Maurizio Landini e Giorgio Airaudo, è rappresentata un po’ tutta: non solo i leader di Pd, Idv e Sel, ma, oltre a Ferrero, il leader del Pdci, Oliviero Diliberto (i due sono insieme nella Federazione della Sinistra), il sindaco di Bari, Michele Emiliano. Dice tutto il posiziona-mento nello spazio. A destra (guardando il palco) è seduto Bersani. Vicino a lui il responsabile economico, Stefano Fassina, l’ala più sinistra dei Democratici, miglior biglietto da visita per la Fiom. Dall’altra parte, Nichi Vendola. A sinistra (guardando il palco) ci sono Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto.
A sferrare l’attacco frontale è Di Pietro: “Non ce l’ha ordinato il medico di stare insieme. La politica in questo momento è offesa da chi fa le spartizioni sull'Agcom, su chi vota la fiducia sull'articolo 18, su chi va in piazza e poi sta con il governo Monti”, dice dal palco. Poi il de profundis finale della foto di Vasto: “Gli elettori non hanno bisogno di una foto ma di una proposta concreta, come ha detto Romano Prodi, non vogliamo fare scelte suicide ma scelte di campo ”, dice tra gli applausi. Dal palco Bersani non risponde. Fa un intervento in cui cerca di agganciare i metalmeccanici, salvando capra e cavoli. Mentre promette che sull’età pensionabile “ci metteremo una pezza”, dice che così “il piano Finmeccanica non va bene”; mentre tra fischi sonori cerca di giustificarsi sull’articolo 18 (“abbiamo fatto da argine” e “non era minimamente nelle mie intenzioni discuterlo”), riscrive la storia degli ultimi mesi di B. dicendo che “l’alternativa non era tra Monti e le elezioni, ma tra Berlusconi e Monti”. Platea fredda, contestazioni, applausi striminziti alla fine.
IL LEADER democratico poi si siede e ascolta l’intervento di Vendola. Mentre questi mette in campo tutta la sua abilità affabulatoria, il segretario democratico si lascia scappare qualche segno di insofferenza. Sfoglia Le Monde, si sofferma sull’Unità, manda messaggi, chiacchiera con Fassina. Vendola, d’altra parte, cerca di conciliare quello che sembra inconciliabile. “Non servono bandierine di partito”, ma “abbiamo bisogno di unità”, dice. E si lancia in affermazioni tipo “l’antipolitica è una trovata della borghesia italiana”. Fino agli appelli: “Facciamo una coalizione sul lavoro”. Tiene la platea, ma non frena la veemenza di Bersani che esce e dà del “diffamatore” a Di Pietro: “Darci degli inciucisti è diffamatorio”. È la rottura. D’altra parte, la strategia del Pd (o almeno del segretario) è chiara. A spiegarla, Fassina: “Adesso faremo una carta che tutti potranno sottoscrivere e poi partecipare alle primarie”. E dunque, tutti da Airaudo, se vuole, a Renzi, a Vendo-la. Di Pietro? “Se sottoscrive il patto anche lui”, dice Fassina, con un’aria scettica di chi sa che non andrà così. Dopo il voto, spiega ancora il responsabile economico “proporremo un patto di governo con i moderati”. Strana concessione da un uomo di sinistra. Spiega lui: “La prossima sarà una legislatura costituente, per fare le riforme”, riecheggiando le parole di Enrico Letta (esattamente ai suoi antipodi nel partito) in direzione venerdì. Di Pietro, fuori. Dentro, Casini. E Vendola? Dentro, ma se si adegua. Il leader Idv, dal canto suo ha una strategia speculare: da qui a un anno, i partiti saranno morti, il ragionamento. E dunque, tanto vale cercare di conquistarsi uno spazio a sinistra della sinistra. Tirando dentro la Fiom, se è possibile. E magari Grillo. “Hanno fatto come due maschi che si misurano”, banalizza Vendola. Ma se dovesse scegliere? “Non si può rinunciare né all’uno nè all’altro”, (non) risponde, criticando l’appoggio a Monti, ma rendendosi disponibile per le primarie. La scelta è solo rimandata.
l’Unità 10.6.12
De Luna: «I gazebo, una scossa salutare per il centrosinistra»
Per lo storico «le primarie sono una scelta coraggiosa ma non vanno intese in maniera narcisistica. Non si batte Grillo copiandolo»
di Bruno Gravagnuolo
Fa bene Bersani a lanciarsi nelle primarie. Anche se non mi nascondo le contro-indicazioni dello strumento, per come è fatto nel Pd. Importante era sparigliare, per rilanciare la forza mobilitante del partito».
È d’accordo col segretario Pd, Giovanni De Luna, storico contemporaneista a Torino, attento a media e storiografia, studioso di azionismo, Lega e antifascismo. Insomma professore, tutto bene? La sfida di Bersani non è in contrasto con la critica dei partiti personali e le sue stesse idee anti-carismatiche? «No, è un’opzione coraggiosa. Non coltivo il mito delle primarie, né ignoro i loro limiti. Ma ora c’è un grande vantaggio da cogliere: rompere la stasi e moltiplicare la mobilitazione rispetto al fatalismo prevalente. Anche in passato le primarie qualcosa lo hanno dato. Hanno accresciuto il potenziale di partecipazione, prolungando l’onda oltre l’occasione elettorale per la quale erano state indette». Già, ma non sempre sono state un affare per il Pd, anzi... «È l’energia che sprigionano a contare. E non vanno intese in maniera narcisistica e “personalistica”, ma come occasione di confronto. Il che spesso è accaduto, malgrado gli incidenti...».
Dunque, nessun contrasto tra partito strutturato, come quello che propugna Bersani, e primarie? «Le primarie non sono alternative al partito, né sinonimo di partito liquido. Anzi possono rinvigorirlo. Fidelizzare militanti ed elettori. Smuovere la passività. Semmai ora il problema è un altro: quale programma e quale legge elettorale?». Giusto, però con il Porcellum che impone premio e coalizione, le primarie hanno un senso. Con un sistema a doppio turno forse no, non le pare? «Il Porcellum va cambiato, ma hanno comunque un senso, tonificante. Nonché politico, nel senso “machiavelliano” della decisione. Purché non siano un tappabuchi, un espediente per dominare la marea antipolitica. Attenzione, Grillo passa. I partiti, quale che sia la forma partito, no. E non si batte Grillo copiandolo, ma con un’idea strategica. Non puramente localistica e leaderistica, come è stato nel caso della Lega, sul cui radicamento ci si è riempita la bocca, per poi vedere come è andata a finire. Quello era un partito personale, arroccato attorno alla segreteria nazionale. È quello che il Pd non deve assolutamente fare».
D’accordo e però quelle di Bersani saranno primarie aperte e di coalizione. Ma che succede in caso di polverizzazione, con tanti «secondi» votati, e un segretario-premier indebolito? Non sarebbe un autogol? «Guardi, i vantaggi superano gli svantaggi. Prima di tutto perché si è trattato di una iniziativa coraggiosa da parte di Bersani. E poi perché è una scossa salutare al corpo del partito, che può prolungarsi ben oltre il momento attuale. Ovviamente, e lo ripeto, non mi nascondo gli aspetti anche “folli” delle primarie, per come sono concepite nello statuto del Pd. Sono aspetti che vanno modificati. Ma ora l’importante è capitalizzare la rottura, e fare il pieno degli aspetti positivi già sperimentati».
Bene, visto che siamo in tema americano, faccia il «political consultant». Se lei se fosse il gosth-writer di Bersani, che cosa gli suggerirebbe? «Se la cava bene da solo. Ma gli direi di insistere su un punto: basta con la passività e il fatalismo. Con l’essere spettatori. L’Italia può tornare a essere protagonista, dopo venti anni di berlusconismo e nel pieno di una crisi devastante. Ecco quel che va trasmesso agli elettori: la concretezza di un obiettivo praticabile. Ma a tal fine è necessario riprendere la mobilitazione. Con orgoglio, proposte e dignità. In Italia e in Europa. Contro inefficienze e iniquità. E tecnici o non tecnici contro l’assurdità del mercato come il migliore dei mondi possibili».
Repubblica 10.6.12
Draghi, Bersani, varie ed eventuali
di Eugenio Scalfari
IL CANTIERE per la costruzione dell’Europa e per la messa in sicurezza dell’euro è stato finalmente aperto e registra alcune novità di notevole importanza. Per comprendere che cosa stia accadendo occorre anzitutto distinguere due diversi livelli operativi: quello dell’emergenza, con obiettivi di breve e brevissimo termine, e quello a più lungo raggio della nascita di un’Unione europea molto più integrata e con maggiore sovranità politica.
I protagonisti che operano su entrambi i campi di gioco sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande, il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Cinque leader di diverso peso divisi in due schiere: la Merkel da un lato, gli altri quattro dall’altro. Ma le novità verificatesi negli ultimissimi giorni è la cancelliera tedesca ad averle messe in campo: la Germania esce dall’angolo in cui era stata chiusa dai fautori d’una politica europea di sviluppo e propone l’obiettivo di costruire lo Stato federale europeo attraverso la necessaria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali per quanto riguarda i bilanci, il fisco, il ruolo della Banca centrale.
Viceversa la Merkel concede pochissimo spazio ai provvedimenti dettati dall’emergenza: nessuna federalizzazione dei debiti sovrani, nessun mutamento nel ruolo della Banca centrale, limitatissime concessioni sui bond a progetto e sul finanziamento degli investimenti transfrontalieri.
Nessun allentamento del rigore, approvazione immediata del “fiscal compact” e della riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.
Su un solo punto importante tra quelli imposti dall’emergenza anche Berlino sembra d’accordo: il Fondo europeo di stabilità è pronto a finanziare le banche spagnole purché il governo di quel Paese dia garanzie di adottare in tempi rapidi i provvedimenti di riforma già concordati con le autorità europee ma non ancora resi esecutivi. La risposta positiva di Madrid renderà possibile l’intervento che finanzierebbe le banche spagnole fino a cento miliardi di euro. A fronte di quest’operazione la “proprietà” di quelle banche passerà temporaneamente al Fondo europeo separando il debito sovrano spagnolo dal debito del suo sistema bancario e interrompendo così il perverso circuito che rappresenta una minaccia diretta contro l’intera architettura finanziaria dell’eurozona.
* * *
La strategia della Merkel può essere letta da due diversi punti di vista: la manifestazione di una decisa volontà della Germania di mettersi finalmente alla guida della costruzione d’un vero Stato federale europeo con tutte le implicazioni che riguardano il rafforzamento delle istituzioni dell’Unione, dal Parlamento ai poteri della Commissione e a quelli del presidente del Consiglio europeo dei ministri. Oppure lo si può guardare come un bluff utilizzato per coprire l’ennesimo “niet” sui provvedimenti di emergenza e di rilancio dello sviluppo. La costruzione dello Stato federale europeo richiederà almeno cinque anni; la Merkel avrebbe perciò lanciato la palla in tribuna solo per guadagnar tempo fino alle elezioni politiche che avverranno nel suo Paese nell’autunno del 2013. Poi si vedrà.
Gli altri quattro protagonisti del quintetto europeo hanno a questo punto una sola strada da battere: prendere la Merkel in parola per quanto riguarda l’obiettivo di lungo termine e ottenere il massimo possibile per fronteggiare l’emergenza e salvare l’euro e le banche europee. Draghi ha guadagnato all’Europa sette mesi di tempo iniettando fino al 15 ottobre del 2013 (con scadenza finale nel gennaio 2014) liquidità illimitata nel sistema bancario dell’eurozona. Ha evitato in questo modo che i depositanti facciano ressa agli sportelli delle banche per trasferire i loro capitali verso i titoli pubblici tedeschi. Sette mesi e una capsula d’ossigeno dentro la quale custodire i depositi bancari facendo migliorare lo “spread” e l’andamento delle Borse. Sempre che le elezioni greche del 17 prossimo non portino all’uscita di quel Paese dall’euro con le devastanti conseguenze che ne seguirebbero. Non credo che ciò avverrà sicché continuo a restare ottimista per quanto riguarda la tenuta dell’euro e – spero – la costruzione dell’Europa federale. Talvolta dal male nasce il bene e dopo la
tempesta arriva la quiete.
* * *
Vale la pena di ricordare che nel quintetto europeo ci sono due italiani: Mario Draghi, che opera a tutto campo e con strumenti che gli consentono interventi immediati e concreti, e Mario Monti (con Giorgio Napolitano alle spalle) che rappresenta nel concerto europeo uno dei Paesi fondatori dell’Unione, dell’euro e della Comunità che ebbe inizio nel 1957 e da cui tutto cominciò.
Monti è alla guida d’un governo sorretto dalla “strana maggioranza” di tre partiti. Uno di essi, quello fondato a suo tempo da Berlusconi, è in una fase di implosione confusionale e in calo verticale dei consensi. Gli altri due – Udc e Pd – sono il vero appoggio su cui si regge questo governo. Il Pd in particolare, che è tuttora stimato attorno al 25-30 per cento dei consensi degli elettori decisi a votare, che a loro volta però rappresentano soltanto uno scarso 50 per cento del corpo elettorale.
In questa situazione una parte del Pd, alla vigilia dei vertici europei dei quali abbiamo già sottolineato l’importanza, ha dichiarato la sua propensione ad accorciare la vita del governo andando al voto nell’autunno prossimo anziché nel maggio del 2013. Il segretario Bersani ha ribadito che l’appoggio dei democratici al governo durerà, come stabilito, fino alla scadenza naturale della legislatura, ma i fautori delle elezioni anticipate hanno proseguito la loro azione in raccordo con Vendola e Di Pietro. Questa situazione non è sostenibile soprattutto perché i “guastatori” fanno parte della segreteria del partito. La logica vorrebbe che, acclarato il loro contrasto con il segretario, si fossero dimessi dalla segreteria.
In mancanza di questa doverosa decisione, spetterebbe al segretario stesso di sollecitare quelle dimissioni o alla direzione costringerli a darle ma il tema non è stato neppure accennato nella riunione dell’altro ieri della direzione, come si trattasse d’una questione di secondaria importanza.
È presumibile perciò che continueranno a svolgere il loro ruolo di guastatori con la conseguenza di indebolire il governo in carica.
La stessa coltre di silenzio è caduta sul caso Penati di cui è imminente il rinvio a giudizio. Questa era l’ultima occasione utile per separare le responsabilità del partito dal gruppo dirigente del Pd in Lombardia. Non si invochi la presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva: è una giusta garanzia che non si applica però al giudizio politico che un partito ha l’obbligo di emettere: o fa corpo con l’imputato fino in fondo o lo espelle fin dall’inizio dai propri ranghi.
Ma c’era un terzo tema di cui il Pd avrebbe dovuto discutere e che ha anch’esso sepolto invece sotto un silenzio tombale ed era quello dell’elezione dei membri dell’Agcom e della Privacy, due importanti Autorità pubbliche che hanno il compito di esercitare il controllo sui rispettivi e importantissimi settori di competenza.
Si sperava che i partiti avrebbero scelto – secondo quanto prescrive la legge istitutiva di quelle agenzie – persone di provata indipendenza e di specifica competenza nei settori sottoposti alla vigilanza. Ma non è stato così. C’è stato tra i tre partiti in questione un ignobile pateracchio di stampo tipicamente partitocratico. Veltroni ha sollevato la questione in direzione e Bersani si è doluto di quanto era accaduto impegnandosi a riscrivere la legge. Ma in realtà la legge sulla nomina di quelle agenzie è chiarissima ed è stata violata dalle scelte dei partiti. Le nomine hanno la durata di sette anni e quindi se ne riparlerà soltanto nel 2019.
Sulle altre questioni, programma, legge elettorale, rinnovamento del gruppo dirigente, eventuali liste civiche collegate al partito e infine elezioni primarie per l’elezione del capo del partito, Bersani è stato chiaro e determinato riscuotendo a buon diritto l’unanimità dei
consensi.
* * *
Il governo Monti, come ripetiamo ormai da tempo, ha fatto molto per evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi mondiale in corso ormai da cinque anni, alla quale il governo del suo predecessore non aveva opposto alcun rimedio negandone anzitutto l’esistenza e praticando poi una politica economica di totale immobilismo.
Negli ultimi tempi tuttavia è sembrato che Monti abbia perso smalto, in parte per l’ovvia impopolarità dei sacrifici che ha dovuto imporre e in parte per alcuni errori compiuti, anche ed anzi soprattutto sul piano della comunicazione.
A questo riguardo gli rivolgiamo qui due domande che ci riserviamo di ripetergli quando lo incontreremo al “meeting” di Repubblica sabato 16 a Bologna dove ha cortesemente accettato di intervenire.
1. Esiste in Italia una questione morale? La domanda non riguarda, o non soltanto, i casi di disonestà di singoli uomini politici. Purtroppo ce ne sono stati e ce ne sono molti in tutti i partiti. La domanda riguarda soprattutto le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici che sono state da gran tempo occupate dai partiti e che debbono essere liberate da quell’occupazione e restituite alla loro autonomia istituzionale. Il caso delle autorità è tipico di quest’occupazione, la Rai è un altro esempio desolante (alla quale Monti ha posto parziale rimedio proprio ieri). E così le Asl e ogni sorta di enti della Pubblica amministrazione. È stupefacente che l’Unità di venerdì scorso pubblichi un articolo in cui si difende l’intervento politico dei partiti nelle nomine dei componenti dell’Agcom e della Privacy. Stupefacente che si teorizzi il criterio della supremazia partitocratica anche sugli enti “terzi” chiamati a garantire il controllo e l’efficienza della Pubblica amministrazione. Questo quadro non configura una questione morale da affrontare da un governo che giustamente vorrebbe cambiare i comportamenti degli italiani?
2. L’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco formulò qualche anno fa un progetto di grande interesse che prevedeva il conferimento ad un Fondo europeo di quella parte dei debiti sovrani eccedenti il rapporto del 60 per cento con il Pil di quel Paese. Il Fondo avrebbe applicato un interesse ottenuto dalla media ponderata degli interessi vigenti nei singoli Paesi i quali sarebbero comunque rimasti titolari dei propri debiti. Piacerebbe sapere dal nostro presidente del Consiglio se un progetto del genere rientri tra le proposte per la costruzione dell’Europa federale. Sembrerebbe infatti molto strana un’Unione federale senza una messa in comune anche se parziale del debito degli Stati membri della federazione.
* * *
Concludiamo richiamando quanto detto da Monti l’altro giorno a Palermo al convegno delle Casse di risparmio a proposito dei “poteri forti” che avrebbero abbandonato il suo governo schierandoglisi contro. Non sappiamo quanto sia pertinente questa denuncia con la politica del governo, ma una cosa è certa: alcuni “poteri forti” sono insediati fin dall’inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica.
Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano. Forse il presidente Monti dovrebbe risolvere questo problema. Spesso la paralisi governativa viene perfino da quegli uffici.
l’Unità 10.6.12
L’editoriale
Il testimone di Berlinguer
di Claudio Sardo
L’11 giugno di 28 anni fa moriva a Padova Enrico Berlinguer. Il suo tratto umano, la sua passione politica, il suo impegno rigoroso sono ancora nel cuore di tanti italiani. Anche di giovani che lo hanno conosciuto solo attraverso letture e racconti. Anche di cittadini delusi che oggi guardano alla politica con distacco e sfiducia.
Il mondo, l’Italia sono profondamente cambiati da allora. Ma le idee di Berlinguer e la sua eredità conservano un grande valore. Politico, non solo etico. È vero che Berlinguer era comunista e che, entro quell’orizzonte ideale ha combattuto la battaglia della vita prima della caduta del Muro, ma era un comunista italiano. E di questa storia originale, di questa cultura fondativa della nostra vicenda costituzionale, di questo affluente che ha innervato e contribuito ad ampliare il circuito democratico del Paese, Berlinguer ha espresso le punte più avanzate. Ne è stato un traino. Ha raccolto un testimone e lo ha portato avanti, molto avanti.
La memoria, la storia sono parti costitutive della politica. Non sono mai separate dalla battaglia dell’oggi. Le stesse idee di rinnovamento, proprio perché propongono e preparano un cambiamento, non possono non contenere una lettura della storia. Altrimenti cosa vorrebbe dire innovare? Cancellare il passato e far finta che il mondo possa ricominciare da zero? Questa semplificazione «nuovista», purtroppo, è stata più volte riproposta nella cosiddetta seconda Repubblica. L’oblio della storia, il taglio delle radici costituzionali, la condanna implicita dei partiti popolari sono stati indicati come la catarsi necessaria per approdare nella modernità. Il nuovismo è diventato parte dell’ideologia di questi anni. E in questo penoso epilogo di seconda Repubblica si torna alla carica.
Non a caso la polemica tra gli storici si sta facendo più intensa. Non a caso tanta attenzione viene oggi riservata ad Antonio Gramsci (l’autore italiano più letto nel mondo dopo Dante Alighieri): si vuole separare Gramsci dal nucleo originario e vitale del comunismo italiano e far apparire Palmiro Togliatti come un passivo esecutore dei diktat staliniani, in questo modo togliendo al Pci la caratura e la dignità di soggetto promotore della ricostruzione democratica, e soprattutto tagliando ogni radice che possa arrivare fino a noi. Per fortuna Giuseppe Vacca ha da poco dato alle stampe un bellissimo libro su Gramsci, che contiene importanti risposte con le quali l’intera comunità scientifica dovrà confrontarsi.
Ma a ben guardare anche la memoria di Aldo Moro continua ad essere sottoposta a un trattamento spietato: la polemica sulla prigionia e sulla trattativa ha quasi oscurato agli occhi dei contemporanei la lezione politica e civile dello statista, che più di ogni altro ha guidato l’allargamento delle basi democratiche e incarnato la peculiarità del cattolicesimo politico italiano. In questo caso le mode nuoviste si sono mescolate con un’indulgenza culturale delle nostre élite verso i terroristi, come ha coraggiosamente scritto Miguel Gotor.
Berlinguer, è vero, è stato in parte risparmiato da tanto aggressivo revisionismo. Era comunista, tuttavia era troppo dentro la modernità per poter subire un trattamento come quello di Togliatti o di Moro. Si è cercato però di depotenziare il suo messaggio, estraendo solo la «questione morale» e cercando di piegarla ad una invettiva contro i partiti. Quasi che lui, comunista, fosse un precursore dell’antipolitica. Berlinguer invece va riletto per intero. È un segno di rispetto, ma è anche il modo per ricevere di più dalla sua testimonianza. Il Berlinguer dell’austerità come leva di un nuovo sviluppo. Il Berlinguer della democrazia come valore universale (discorso pronunciato a Mosca, nel 60esimo della Rivoluzione d’ottobre). Il Berlinguer della laicità e del dialogo con i cattolici nella lettera a monsignor Bettazzi. Il Berlinguer del compromesso storico. Il Berlinguer del movimento di liberazione delle donne. Il Berlinguer dei nuovi bisogni e dell’emergenza ecologica. Il Berlinguer della diversità.
La questione morale fu la grande intuizione e il grande assillo degli ultimi anni della sua vita. Il blocco del sistema politico, seguito alla fine tragica della solidarietà nazionale, aveva iniziato a produrre quei fenomeni corrosivi che avrebbero poi portato al collasso della prima Repubblica. Berlinguer li comprese in anticipo. Ma la sua fu sempre, innanzitutto, una denuncia politica finalizzata a produrre un cambiamento reale. Del resto, il blocco del sistema era stato la risposta al progetto nel quale lui e Moro, muovendo da sponde diverse, avevano creduto.
Ricordare Berlinguer oggi non è, dunque, solo un atto di omaggio che ci consente di alzare la testa dall’affanno quotidiano. È parte della battaglia politica per il centrosinistra di domani. Perché la polemica sulla storia riguarda anzitutto il Pd, la sua natura, la sua identità. Il Pd è davanti a un bivio: cedere ad un nuovismo senza radici oppure progettare il futuro sentendosi parte viva della migliore storia nazionale. Rassegnarsi ad una società di individui, senza autonomia dei corpi intermedi e senza vere battaglie sociali, oppure essere ancora il «partito della Costituzione» e del cambiamento.
l’Unità 10.6.12
Caro Enrico, tra parole e pittura
parte da Roma l’omaggio itinerante alla storia del Pci
di Graziella Falconi
Domani al cinema Farnese per l’anniversario della morte la manifestazione voluta dal Cespe In mostra opere dedicate a Berlinguer da Guarienti a Calabria
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò». Quasi un leit motiv alla Lucio Dalla, la manifestazione «Caro Enrico» organizzata dalla Fondazione Cespe al Cinema Farnese di Roma (domani dalle 17,30 alle 19,30) per l’anniversario della scomparsa del segretario più amato nella lunga storia del Pci, un caduto sul lavoro, i cui funerali registrarono una eccezionale partecipazione, che secondo Vittorio Foa poteva essere spiegata soltanto perché Berlinguer era considerato dal popolo «un modello umano e politico». Per dirla alla Bertholt Brecht un italiano imprescindibile, che portava nel proprio dna la necessità di un secondo Risorgimento, l’aspirazione a una riforma morale e intellettuale, e che in un periodo particolarmente travagliato si è dedicato alla salvezza dell’Italia e della sua democrazia.
Mentre veniva eletto segretario del Pci, nel 1972, l’editore Gian Giacomo Feltrinelli saltava in aria collocando esplosivo su un traliccio a Segrate; l’economia mondiale era entrata in una crisi che portò alla convertibilità dell’oro in dollaro (1973 a Bretton Woods). Secondo alcuni storici nel 1975 la crisi era così acuta che le autorità avevano quasi perso il controllo della situazione: il terrorismo procurava quotidianamente morti e feriti, la bilancia italiana dei pagamenti era sempre più in rosso, con le principali aziende tutte indebitate, una crisi produttiva enorme, l’inflazione quasi al 20%. Pur in un quadro così drammatico, il Paese conosce una stabilizzazione democratica e finanziaria e riesce a impiantare lo stato sociale. Alcuni dati lo testimoniano.
Insieme al compromesso storico, al programma economico a medio termine, si lavorava all’approvazione da parte del Parlamento di riforme importanti: divorzio, aborto, diritto di famiglia, voto a 18 anni, statuto dei lavoratori, riforma delle pensioni, equo canone e legge dei suoli, riforma dei manicomi, occupazione giovanile, riconversione industriale, riforma sanitaria. Riforme di struttura ed elementi di socialismo, leggi relative all’ordine pubblico, alla finanza e al fisco, al decentramento degli enti locali. Leggi che incontrarono ostacoli e difficoltà di vario genere e che contenevano esse stesse incongruenze ed errori, ma testimoniano di una volontà di modernizzazione del Paese, tenendo insieme rinnovamento e risanamento, austerità e sviluppo.
«Da quando sei partito c’è una grossa novità, l’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va».
Crisi organica e permanente, con immancabile presenza di terremoto. Berlinguer in tutto questo rappresentava, pur con tutti i suoi limiti tra cui l’illusione sulla riformabilità del sistema sovietico e la sottovalutazione della capacità di riorganizzarsi del capitalismo la speranza e la ricerca, la capacità di cogliere il senso dei grandi processi e dei mutamenti della struttura del mondo. Ha denunciato il mutamento antropologico derivante dal consumismo, ma soprattutto si poneva il problema delle grandi questioni planetarie come le innovazioni tecnologiche, la fame, il divario tra nord e sud del mondo, l’ambiente, i limiti dello sviluppo, le nuove responsabilità dell’uomo verso le generazioni future. Egli fu in tutto un intellettuale e un politico, secondo la lezione di Antonio Gramsci, dal quale aveva mutuato i concetti di consenso e di forza declinati accanto e dentro a quelli della democrazia progressiva. Sono molte le suggestioni che egli ci ha consegnato e che l’iniziativa della Fondazione Cespe intende rievocare nel pomeriggio di lunedì. Una iniziativa politico culturale in cui domina la voce di Enrico, le sue parole, la sua immagine. Verranno presentate, come omaggio, rievocazione, commento o riflessione, le opere dei pittori Goberti, Guarienti, de Luca, Pupillo Falconi, Galli, Alexander, Calabria, e altri ancora, che daranno vita a una mostra itinerante nelle fondazioni ex Ds.
La Fondazione Cespe ha inteso ricordarlo anche alla luce di una preziosa eredità del Pci per la parte che ha fatto tesoro dell’insegnamento di Gramsci quando ammonisce: «Una generazione può essere giudicata sulla base dello stesso giudizio che essa dà della precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa... Una generazione vitale e forte che si propone di lavorare e affermarsi, tende invece a sopravvalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre».
Caro Enrico, questa è una lettera di ringraziamento per gli stimoli che possiamo trarre dalla storia e dall’esperienza.
l’Unità 10.6.12
Gotti Tedeschi a Napoli. Il memoriale mette paura
L’ex presidente Ior dai pm che indagano su Finmeccanica
Si attendono novità dai 47 faldoni sigillati
di Massimiliano Amato
NAPOLI Quarantasette faldoni di documenti, la memoria di un pc che non potrà essere aperta se non nel corso di un «contraddittorio tra le parti», come impone il Codice di rito, ma soprattutto un memoriale nel quale Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, non esita a fare nomi e cognomi dei suoi «nemici». Il materiale a disposizione di due procure, Roma e Napoli, sulle attività dell’istituto di credito del Vaticano è tanto. E minaccia di rendere infuocata l’estate all’interno delle mura leonine, già scosse dal caso del «corvo».
Tutto è partito da una serie di intercettazioni telefoniche disposte dai pm napoletani Henry John Woodcock, Francesco Curcio e Vincenzo Piscitelli nell’ambito delle indagini sugli appalti Finmeccanica. I tre magistrati napoletani, che hanno «spremuto» nel corso di tre interrogatori il faccendiere Valter Lavitola sui presunti casi di corruzione internazionale sull’asse Italia Panama, si sono imbattuti quasi per caso nel superbanchiere di Dio giubilato meno di un mese fa.
La casa e lo studio privato di Gotti Tedeschi, che allo stato non è indagato, sono stati oggetto di una lunga perquisizione martedì mattina. Nel pomeriggio, il banchiere si è presentato in Procura, a Napoli, per sostenere un lungo interrogatorio, interrotto solo a tarda sera, quando Gotti Tedeschi, stremato, ha chiesto un’interruzione. I pm e il banchiere si sono dati appuntamento la prossima settimana, quando l’audizione, come persona informata dei fatti, proseguirà, e dagli appalti Finmeccanica si passerà alle attività della banca del Vaticano. Ma, al di là della deposizione di Gotti Tedeschi, la procura di Napoli punta sul contenuto dei 47 faldoni, ancora sigillati, e sull’hard disk del pc dell’ex presidente dello Ior. I tre pm, e lo stesso procuratore reggente Sandro Pennasilico, non hanno commentato
la nota con cui la Santa Sede, nella serata di venerdì, ha richiamato la magistratura italiana al rispetto delle prerogative dello Stato Vaticano. Ma gli inquirenti fanno filtrare la determinazione ad andare fino in fondo nelle indagini. Allo stato l’unica insidia che si profila all’orizzonte è quella dell’incompetenza territoriale, ma è ancora presto si fa notare per determinare l’autorità giudiziaria competente a proseguire le indagini, soprattutto perché le rivelazioni di Gotti Tedeschi rientrerebbero a pieno titolo nell’indagine sugli appalti Finmeccanica, la cui titolarità finora non è mai stata messa in discussione.
Ieri, intanto, è stata la giornata delle smentite: il legale di Gotti Tedeschi, l’avvocato Fabio Palazzo, ha fatto sapere che il suo assistito «non è a conoscenza dei conti Ior e dei suoi intestatari e come tale non è neppure informato di personaggi politici eventualmente intestatari dei conti Ior». E la procura di Roma ha smentito di aver acquisito i faldoni di documenti in possesso di Gotti Tedeschi: una precisazione doverosa e scontata, dal momento che quei faldoni sono in possesso della procura di Napoli. La nota del legale di Gotti Tedeschi, però, entra con decisione in quello che è considerato un punto rovente delle due inchieste in corso. Vale a dire il racconto, riportato nel memoriale in possesso della procura della Capitale, delle resistenze che il banchiere avrebbe incontrato nella sua opera di trasparenza, soprattutto in materia di normativa antiriciclaggio, che tante inimicizie gli avrebbe procurato all’interno delle alte gerarchie vaticane. Il memoriale, che fa accenno a conti cifrati eventualmente riconducibili perfino alla criminalità organizzata, doveva essere recapitato al Pontefice, per il tramite di monsignor Georg Gaenswein.
Sullo sfondo, la guerra che sarebbe divampata all’interno del Vaticano tra chi, come lo stesso Gotti Tedeschi, premeva affinché anche lo Ior si adeguasse alle normative Ue in materia di antiriclaggio, e chi invece avrebbe opposto resistenze fortissime, sottolineando la «specificità» dell’istituto di credito vaticano.
La Stampa 10.6.12
Corvi e veleni Oltretevere
Tra Santa Sede e Trapani è scontro sulle rogatorie
Il Vaticano chiede collaborazione, ma non risponde alla procura siciliana
di Guido Ruotolo
L’indagine. La procura di Trapani ha smentito l’esistenza di un’inchiesta su conti dello Ior riconducibili a Matteo Messina Denaro
I timori. L’avvocato di Gotti ha precisato che il professore non ha ricevuto minacce di morte dirette
Chiede il rispetto della «sovranità riconosciuta alla Santa Sede», aspettandosi che quanto prima l’autorità giudiziaria italiana restituisca il «maltolto», la documentazione Ior sequestrata nella casa piacentina o nell’ufficio milanese dell’ex numero uno della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi. Ma intanto il Vaticano nega la rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Trapani (mentre si appresta a inoltrare la sua rogatoria all’Italia per il «Vatileaks»).
Ieri il procuratore di Trapani Marcello Viola ha precisato che la pista di conti occulti di Cosa nostra, del boss latitante Matteo Messina Denaro, transitati nei conti Ior non è una ipotesi coltivata dalla Procura di Trapani. Che invece sta aspettando di conoscere l’esistenza di conti Ior riconducibili a don Ninni Treppiedi, il sacerdote indagato dalla Procura di Trapani per furto, truffa, frode informatica, stalking, diffamazione e calunnia con altre 12 persone. Centinaia di migliaia di euro della Curia, beni immobili venduti all’insaputa delle autorità religiose.
Un «affaire», il caso Trapani. Che ha portato la Santa Sede a prendere una decisione clamorosa: trasferire il vescovo Miccichè dopo una istruttoria interna condotta dal vescovo di Mazara del Vallo, Mogavero. Il sospetto avanzato nelle Sacre Stanze è che don Ninni Treppiedi possa aver veicolato capitali mafiosi.
Ma proprio perché il Vaticano sta per consegnare alle autorità italiane una richiesta di collaborazione alle indagini - attraverso una rogatoria internazionale - il rifiuto di accogliere la richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dalla Procura di Trapani potrebbe creare qualche motivo di ripensamento.
Ieri, il legale del professore Ettore Gotti Tedeschi è intervenuto per rettificare alcune imprecisioni: «Il professore non è a conoscenza dei titolari dei conti Ior e come tale non è informato neppure di eventuali personaggi politici intestatari di conti Ior». In realtà ai magistrati di Roma e Napoli l’ex presidente dello Ior aveva precisato che quando ha iniziato a chiedere notizie sui conti correnti laici si è scatenata la guerra interna contro di lui. L’avvocato Fabio Palazzo, conferma, invece, che il professor Gotti Tedeschi ha avuto diversi incontri con esponenti politici italiani.
Due pagine con centinaia di allegati, lettere, documenti, mail. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha affidato al Valutario della Finanza il compito di analizzare questo materiale per individuare eventualmente profili investigativi da approfondire mentre la Procura di Napoli ha sigillato un armadio con 47 faldoni di documentazione nello studio milanese del professore ex numero uno della banca vaticana.
Napoli va avanti sul fronte degli approfondimenti del fascicolo sulla corruzione e riciclaggio internazionale di Finmeccanica. E gli uomini del Noe dei carabinieri stanno analizzando la documentazione trovata nella disponibilità di Gotti Tedeschi - che è amico dell’amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi - e che riguardano pratiche di finanziamento del Banco di Santander (di cui lui è rappresentante in Italia) a diverse società della holding del settore Difesa.
Nelle carte sequestrate oltre al memoriale con il quale Gotti Tedeschi replica punto su punto alle obiezioni e alle contestazioni del «tribunale» dello Ior che lo ha defenestrato, ci sarebbe anche una lettera drammatica nella quale dice di temere per la sua vita. Una lettera da recapitare a un avvocato, a un giornalista amico, alla sua segretaria. Ieri il suo legale prova a ridimensionare questi timori: «Non esistono minacce specifiche nè il professore è scortato». «Suggestioni» e «stress», insomma, avrebbero indotto il professore a temere per la sua vita.
La Stampa 10.6.12
I cardinali premono per risolvere la successione a Gotti Tedeschi
Restano le divisioni sulla trasparenza, ma serve una guida
di Giacomo Galeazzi
Rogatorie, ispezioni per l’ingresso nella «white list» dell’Ocse, memorandum di Gotti Tedeschi nelle mani dei pm. Mai come stavolta sulla scelta del presidente dello Ior incidono «fattori esterni». Il Vaticano cerca il suo banchiere, l’«interim» a Ronaldo Hermann Schmitz non ha normalizzato una situazione di forti tensioni interne all’Istituto ed entro breve verrà ufficializzata l’investitura del nuovo «numero uno».
In Curia hanno fatto rumore le parole all’Osservatore Romano del cardinale decano Angelo Sodano: «Quante volte ho votato in riunioni di cardinali, senza mai stupirmi che un confratello votasse a favore e l’altro contro. Amici eravamo e amici rimanevano». Molti vi hanno letto un chiaro riferimento alla divisione tra porporati all’interno della commissione di vigilanza Ior sulla cacciata di Gotti Tedeschi. «Bisogna fare in fretta e bene- spiega uno stretto collaboratore di Bertone-. Insediare un nuovo presidente stabile è anche d’aiuto all’istituto per aderire alle normative internazionali ed entrare nella “white list” dei paesi conformi agli standard anti-riciclaggio». La commissione è composta dai cardinali Bertone, Nicora, Tauran, Toppo e Scherer. E non sono mancati dissidi, ad esempio sulla normativa anti-riciclaggio, tra Bertone e Nicora. Il portavoce vaticano padre Federico Lombardi precisa che «non risulta in calendario» la prossima riunione del direttorio, che però «prima o poi» avrà luogo per stabilire i «passi ulteriori di ridefinizione dell’assetto dello Ior e della sua governance». Per la successione a Gotti Tedeschi non ci sono ancora decisioni. Un possibile candidato di fama internazionale, cattolico «doc», tedesco come il Papa, è l’ex presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, volto noto in Vaticano, ma molto anziano e da tempo fuori dai giochi. Pare improbabile l’ascesa dell’ex gran capo delle Generali Cesare Geronzi. È gradito a Bertone (segretario di Stato e presidente della commissione di vigilanza) Antonio Maria Marocco, subentrato nel 2011 a Giovanni De Censi del Credito Valtellinese, dopo la vicenda che portò la procura di Roma a sequestrare un fondo dello Ior depositato presso il Credito Agricolo e all’iscrizione nel registro degli indagati di Gotti Tedeschi e del direttore generale dello Ior Paolo Cipriani. Una lista ufficiale di candidati non c’è. La partita è più che aperta. E senza esclusione di colpi. Con un occhio agli equilibri interni e l’altro alle conseguenze d’immagine della bufera giudiziaria scoppiata attorno alla banca del Papa. «Occorre voltare pagina e allineare le finanze vaticane alla purificazione attuata da Benedetto XVI nella gestione della Curia romana», assicurano nei Sacri Palazzi. Dalla nomina del successore di Gotti Tedeschi si capirà quanto le fronde e i corvi abbiano davvero indebolito Bertone.
La Stampa 10.6.12
Intervista
Umberto Eco: “Il Papa da sempre al centro di trame per il potere”
L’analisi: la differenza è che ora vengono rese pubbliche
di Mario Baudino
ASTI Lo Stato Pontificio, sostiene Eco, è da sempre teatro di lotte e scontri di potere Intrighi storici Nel suo «Cimitero di Praga» Umberto Eco racconta gli intrighi che portarono alla creazione del falso dei «Protocolli dei Savi di Sion»
Umberto Eco, nel Cimitero di Praga, ha scritto la storia nera di un «corvo» ottocentesco, anche se non vaticano. Un intrigo di documenti falsi, rivelazioni, ricatti, delitti, fino alla stesura e al lancio mondiale di quel clamoroso falso antisemita che furono i «Protocolli dei Savi di Sion». L’ambiguità del documento è uno dei suoi temi preferiti. Non è che sta pensando a un romanzo Vaticanleaks, con banchieri, cardinali, ombre mafiose? «No - risponde divertito lo studioso narratore, oggi ad Asti per il Festival Passepartout -. Però, per risolvere la cosa alla buona, dato che l’inchiesta vaticana è talmente complicata, l’unica cosa che si può dire è che non sta succedendo niente di nuovo».
In che senso?
«Nel senso che basta una buona storia della Chiesa, anche scritta da un cattolico, per rendersene conto. C’è evidentemente da fare un distinzione tra la Chiesa come istituzione, chiamiamola divina, e lo Stato Pontificio come appunto Stato. Dove succedono tante cose. Sono quasi duemila anni che il Vaticano è al centro di lotte di potere. E di leggende, come ad esempio quella della Papessa Giovanna, secondo cui a un certo punto salì al soglio pontificale un donna. Ma pensi, che so, al processo postumo contro Papa Formoso».
Il cui cadavere fu dissotterrato, ripulito, posto sul trono è condannato per sacrilegio. Era l’897.
«Ci sono storie incredibili. Certo non erano rese pubbliche, ma diventavano oggetto di mormorazioni, anche pettegolezzi, e per il resto stavano chiuse nelle mura del Palazzo. La novità è che la globalizzazione dell’informazione ha rotto questo tabù. Un personaggio, non sappiamo mosso da chi e per quali ragioni, ha consegnato del materiale a un giornalista, che l’ha pubblicato. Una volta questo non succedeva».
Il rischio di fare una brutta fine, in effetti, era piuttosto alto. Non che sia svanito del tutto, a giudicare dal memoriale di Gotti-Tedeschi.
«C’è però anche un’altra differenza importante, ed è l’incontrollabilità dell’informazione. L’impossibilità della censura. Ai giorni nostri - è un argomento che toccherò nella mia conferenza di oggi - c’è un solo modo di praticare la censura: non costringendo a tacere, ma realizzando una massa di rumore».
La prospettiva si è rovesciata.
«Prima una maggiore quantità di informazioni era in ogni caso un bene; oggi l’abbondanza rischia di diventare, in certi casi, un male. Su Internet mi può arrivare una massa tale di informazioni da impedirmi di capire che cosa è vero e che cosa è falso»
Confusione per abbondanza?
«Non vale solo per Internet. Prenda un quotidiano di oggi, sessanta pagine. È già abbastanza difficile leggerlo tutto, e isolare le notizia che contano. C’è stato per lungo tempo un tg in Italia che non diceva le cose importanti ma raccontava continuamente che è nato un cane con due teste o uno ha spaccato la testa a un altro. In quell’insieme enorme di notizie scompariva o veniva taciuta quella importante. O pensi a quanta gente non sa più come è scomparsa, che so, Emanuela Orlandi o qualsiasi altra povera ragazza: ci sono ottanta trasmissioni che ogni giorno propongono informazioni nuove, poco utili perché altrimenti sarebbero state usate dalla polizia. Il chiacchiericcio continuo non ci fa capire come sono andate le cose».
Vede la stessa prospettiva per i corvi del Vaticano?
«Se fossi un funzionario interno che vuole tenere coperte le informazioni - e premetto che non mi pare ciò stia avvenendo -, le moltiplicherei. La censura del silenzio era per qualche aspetto più permeabile. Permetteva la mormorazione e le notizie più imbarazzanti circolavano. Tutti durante il fascismo sapevano che Claretta Petacci era l’amante di Mussolini. Oggi provi a dire chi è l’amante di Berlusconi».
Forse non lo sa....
«Neppure lui. Forse è proprio così» Professore, sta delineando un quadro assai fosco.
«Fosco? È il quadro di una celebre maledizione cinese».
Quale?
«Quella che dice: ti auguro di vivere in un’epoca interessante».
Corriere 10.6.12
«Ior, portai i conti a Gotti Disse: meglio non sapere»
Il direttore: chiesi di difenderci, non guardò le carte
di M. Antonietta Calabrò
ROMA — «Lei si sente come l'uomo nero che voleva fare male a Ettore Gotti Tedeschi?».
A ben vederlo, maglietta Lacoste a mezze maniche, mocassino fuori ordinanza, capelli cortissimi, l'aspetto dell'uomo nero non ce l'ha neppure un po'. Si scusa subito per aver violato il dress code del dirigente di banca. «Vengo da casa, sa, è sabato pomeriggio». Eccolo qui, quello che Gotti avrebbe descritto nel suo memorandum come il suo nemico numero uno, quello che avrebbe tramato per cacciarlo dalla banca. L'appuntamento è alle 18 a Porta Sant'Anna, i piazzali sono vuoti, senza una macchina parcheggiata, si sale su, al Cortile di San Damaso, poi un piccolo portoncino con un campanello che sembra quello di una casa. È Paolo Cipriani, direttore generale dello Ior dal giugno 2007, dopo aver avuto un'esperienza internazionale per banche italiane in Lussemburgo, a New York e a Londra. Un protagonista centrale del caso che ha portato il 24 maggio all'uscita traumatica di Gotti dall'Istituto. Parla per la prima volta.
Allora, come si spiega il j'accuse di Gotti? «Può non credermi, ma sinceramente non lo so», risponde allargando le braccia. «Eppure non riesco a volergliene». Più diversi non potrebbero essere. Cipriani gioca a basket, un gioco di squadra, ruolo di playmaker. Gotti è un esperto di judo, più che uno sport, un'arte marziale.
Insomma, Cipriani racconta tutta un'altra storia rispetto a Gotti che nel suo memorandum avrebbe detto che i suoi guai sono iniziati quando ha chiesto i nomi dei politici. Lì sono iniziate le incomprensioni. «Cose che, diceva Gotti, aveva "sentito in Italia"». I ricordi del direttore generale sono precisi: «Le domande le fanno sempre in Italia, ma qui ci sono le risposte, e conti cifrati e conti di politici non ci sono. Noi abbiamo fin dall'inizio voluto fargli capire e vedere, ma anche quando gli abbiamo portato tutti i tabulati, chiedendogli di guardare, di farci domande, di fare chiarezza, Gotti non ha mai voluto neanche visionarli. Ma ripeteva lo stesso "non voglio sapere, meglio non sapere". Poi un giorno, era lo scorso febbraio, quando già uscivano sui giornali notizie false che c'era qualcosa di oscuro da noi, perdemmo la pazienza e gli dissi: "Lei è il legale rappresentante, ma l'Istituto non lo conosce e non lo vuole difendere"». Poi, nota, «L'Istituto non è solo un Istituto. Sono più di cento persone oneste che lavorano qui e non è giusto che veniamo attaccati per cose che noi non abbiamo fatto».
Il direttore generale a riprova delle procedure interne trasparenti, aggiunge: «Noi abbiamo lavorato sui sistemi Aml, anche con consulenze esterne, molto prima che entrasse in vigore la legge 127. Siamo noi che vogliamo la trasparenza. Qui siamo guidati anche da un board di esperti e siamo obbligati a consegnare tutti i materiali a loro. Non c'è nessun segreto, nessun mistero. Noi abbiamo chiesto ripetutamente al presidente di interessarsi dell'Istituto, ma non prendeva in mano le cose. Era come se fosse assente anche quando era presente. A volte veniva in presidenza, che è distaccato dal resto dell'Istituto, e non ci diceva nulla. Poi, partiva».
Domando di nuovo: ci sono conti, non dico, anonimi, ma cifrati? «No, non ci sono, né ci potrebbero essere perché tutte i conti, che chiamiamo "posizioni" sono correlate ad un'anagrafica dell'intestatario, molto più dettagliato di quello usato in Italia, per esempio ed il sistema elettronico non può funzionare se non è completo di tutto». Ci sono nomi di politici italiani? «No, gli italiani (non religiosi) come persone fisiche sono solo i dipendenti o i pensionati della Santa Sede». C'è il nome di Luigi Bisignani? «Non ha un conto qui né lui né la moglie, nessuno». C'è il nome dell'ex capo del Sismi Pollari? «No». Abbiamo sentito che Gotti ha pure nominato Bill Clinton? «Una pura fantasia». E i soldi, come la mettiamo con i soldi? «Noi non forniamo prestiti, tutto ciò che esce e cioè bonifici e assegni e persino il contante è tutto tracciato, anche in modo più dettagliato che in Italia. Addirittura con uso di documenti doganali, che vengono consegnati alla nostra Autorità di controllo. I flussi sono sotto il controllo del sistema elettronico Ibis».
E i soldi in entrata? «Noi non abbiamo filiali, quindi ciò che entra ci viene mandato da banche estere, anche italiane. Spetta anche a loro, e anche per primi, fare i controlli, ma li facciamo anche noi, anche utilizzando sistemi come Ofac, che è una lista internazionale aggiornata costantemente i nomi delle persone sospette di riciclare: per intenderci qualsiasi persona sospetta viene subito bloccata». Quanto alla trasparenza, sottolinea che in tanti anni «all'estero non c'è mai stato un problema, e neanche in Italia per tanti anni. Poi, curiosamente, ad un certo punto trovano sempre problemi. Bisogna andare in Italia a chiedere perché».
Corriere 10.6.12
Bagnasco: addolorati ma mai smarriti
«Dobbiamo essere addolorati per i nostri peccati, ma mai spaventati o smarriti» e anche se «a volte le onde e le ombre sembrano preponderanti, il Papa ci ricorda che il Signore è presente e ci ripete le sue parole: "Non temete"». Anche se non direttamente, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, interviene sulle inchieste e polemiche che stanno interessando il Vaticano. «In questo momento pensiamo al Santo Padre - ha detto ancora Bagnasco -: stringiamoci a lui come a roccia solida che conferma la fede e come nocchiero che guida la barca».
Intanto il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, in una nota, definisce «completamente destituita di qualsiasi fondamento la notizia che la procura abbia sequestrato o comunque acquisito "cinquanta faldoni di documenti" nel confronti del prof. Ettore Gotti Tedeschi». Faldoni posti sotto sequestro, invece, dai pm della Procura di Napoli e al momento sigillati negli uffici dell'ex presidente dello Ior.
il Fatto 10.6.12
Gotti Tedeschi, i legali: non sa di politici. I pm di Roma: mai presi faldoni
Una mole di documenti all’attenzione dei magistrati e l’affare Gotti Tedeschi si complica: carte di natura diversa su cui gli stessi inquirenti hanno differenti competenze. Ci sono i 47 faldoni sequestrati dalla Procura di Napoli, che indaga sugli appalti Finmeccanica, il backup del computer del banchiere effettuato sempre su richiesta della procura partenopea. E poi c’è il memoriale difensivo sullo Ior, acquisito invece dalla Procura di Roma, titolare di due inchieste su ipotesi di riciclaggio e operazioni sospette che coinvolgono l’istituto di opere religiose. Infine, un appunto acquisito dalla procura romana in cui il banchiere sottolineava la paura per la propria incolumità. Materiali sequestrati da procure diverse che spiegano il motivo per cui il pm di Roma, Giuseppe Pignatone, abbia smentito l’acquisizione dei 47 faldoni (sotto sequestro dalla Procura di Napoli). Altra cosa è il fronte Ior e qui bisognerà vedere cosa emergerà dagli scritti di Gotti Tedeschi: ovvero dal memoriale difensivo per il quale il banchiere stava valutando quale potesse essere l’interlocutore più opportuno in Vaticano (e tra i destinatari possibili avrebbe pensato al Papa stesso). Fabio Palazzo, avvocato del banchiere, ha difeso il suo cliente sottolineando due aspetti: Gotti Tedeschi non si occupava di conti Ior e quindi non poteva essere a conoscenza dei nomi a cui i conti fossero intestati. Ammette che nel memoriale potrebbero esserci nomi di politici, ma, assicura l’avvocato, Gotti Tedeschi non aveva elementi per associare i nomi a conti titolari. “Il memoriale si concentra su meccanismi, modus operandi e sulla legge anti-riciclaggio vaticana, la cui interpretazione è stata oggetto di scontri Oltretevere, specie sulla retroattività, cioè la possibilità di estendersi a casi precedenti l’aprile 2011”, ha spiegato l’avvocato Palazzo. Carte che potrebbero innescare un braccio di ferro tra la Santa Sede e l’Italia, ma il Vaticano ha rimarcato che ripone “massima fiducia” nel fatto che “le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall’ordinamento internazionale siano rispettate”.
l’Unità 10.6.12
La chiesa americana approfitta del caos della Curia romana e si butta a destra
di Massimo Faggioli
Dopo la elezioni del 2008 Obama venne ricevuto con tutti gli onori in Vaticano ...
Ora i vescovi Usa sono tutti schierati con il candidato repubblicano
UNA VOLTA IN CURIA ROMANA SI DICEVA DEI CATTOLICI DELLE CHIESE MEDIORIENTALI CHE ERANO «POCHI, COSTOSI E LITIGIOSI». La stessa cosa sta dicendo oggi il cattolicesimo mondiale a proposito della Curia romana e dei collaboratori del Papa.
La guerra per bande che si svolge in Vaticano da qualche mese a questa parte viene seguita stancamente nel resto dell’orbe cattolico, eccettuata l’Europa, che nel pontificato del Papa tedesco ha il ruolo di un modello storico-culturale non suscettibile di aggiornamenti rispetto all’epoca premoderna. Ma in tutti i continenti le vicende vaticane hanno l’effetto di ridimensionare se non la potestas, certamente la auctoritas della Santa Sede tanto sulle questioni ecclesiali quanto su quelle politiche. Dall’elezione di Benedetto XVI in poi era chiaro che il pontificato non era né interessato né in grado a mantenere l’alto profilo politico dei Papi del secolo XX. Ma la promessa di un basso profilo si è trasformata in una serie di disastri grandi e piccoli (il discorso di Regensburg sull’Islam del 2006, il Papa che proclama “God Bless America” sul prato della Casa Bianca a fianco di George W. Bush nel 2008, il vescovo negazionista lefebvriano nel 2009, etc.) per i quali il Segretario di Stato, cardinale Bertone, è responsabile almeno dal punto di vista funzionale.
Questa lunga serie di incidenti prima e il caos interno alla Curia poi hanno indebolito drammaticamente la credibilità dell’istituzione, con degli effetti di prima grandezza sulla chiesa mondiale, e specialmente nella chiesa cattolica politicamente più importante al mondo oggi, quella statunitense. I vescovi americani, sempre più allineati al Partito repubblicano, non hanno dimenticato la calda accoglienza riservata dalla Curia romana al neoeletto presidente Obama nel luglio 2009. Non stupisce che l’arcivescovo Viganò, che nel 2011 aveva denunciato lo stato di caos della Curia e per questo fu «rimosso-promosso» a nunzio apostolico a Washington, sia oggi tenuto in alta stima dalla gerarchia americana, a cominciare dal leader della chiesa americana oggi, il cardinale di New York Timothy Dolan.
La mancanza di leadership del Vaticano sulla politica globale del cattolicesimo, ma ancor prima sullo “stile politico” proprio della chiesa cattolica, ha lasciato liberi i vescovi americani di lanciare la più aggressiva iniziativa politica contro la Casa Bianca che si ricordi: una serie di marce, referendum locali, proteste e veglie contro l’amministrazione Obama tra luglio e ottobre 2012, cioè nei mesi centrali della campagna elettorale per le presidenziali di novembre. Tutto questo ha provocato non solo profonde spaccature ecclesiali a livello locale, ma anche un indebolimento dell’autorità del magistero della chiesa su questioni cruciali (lavoro, finanza, diritti sindacali, giustizia sociale e internazionale) per il contributo dei cattolici alla crisi sociale in corso.
La crisi di VatiLeaks dà conferma che il pontificato di Benedetto XVI ha sommato gli elementi di debolezza tipici di un Papa non italiano (tra cui l’incapacità di tenere a distanza politicanti speculatori dell’autorità papale) a quelli di una Curia ancora profondamente legata al peggio del sottobosco politico italiano. Sono mancati gli elementi di forza che potevano venire da un Papa non italiano (la percezione della globalità del cattolicesimo non solo dal punto di vista sociologico ma anche teologico) e da una Curia romana ancora molto italiana ma fornita di quelle qualità di alta amministrazione che la caratterizzava fino a non molto tempo fa (tra cui l’orgoglio, tipico degli ecclesiastici di scuola diplomatica, di servire l’istituzione e la comunità dei fedeli in modo nascosto e silenzioso). La chiesa cattolica globale si può comprendere molto meglio da Roma che da New York o da Berlino: a patto che si accetti la responsabilità di concepire la Curia romana non come una reliquia del passato, o peggio, un parco a tema, la Disneyworld del cattolicesimo, ma come uno di quegli elementi tipici del genio istituzionale del cattolicesimo che oggi deve rinnovarsi e riformarsi alla luce della nuova geografia culturale e spirituale della chiesa.
La Stampa 10.6.12
Francia, primo turno per eleggere l’Assemblée Nationale
Ballottaggi tra una settimana
Hollande a caccia di una maggioranza
Ps favorito, il rischio è di doversi alleare con i comunisti
di Alberto Mattioli
577 deputati. L’Assemblée nationale è la Camera Bassa del Parlamento
I candidati sono 6603 Gli elettori 46 milioni 12,5%
Lo sbarramento per passare al secondo turno è piutto.sto alto: il Front National di Marine Le Pen dovrebbe farcela in più di 100 circoscrizioni
François Hollande e il suo primo ministro, Jean-Marc Ayrault, l’hanno detto e ripetuto: se i francesi vogliono davvero «il cambiamento» promesso dal nuovo Presidente e promosso dal Partito socialista, devono dare all’uno e all’altro la forza per realizzarlo. Tradotto: dal rinnovo dell’Assemblée nationale, due turni oggi e domenica prossima, deve uscire una maggioranza assoluta per la gauche e possibilmente per il solo Ps. Certo, di tutti i capi di Stato democraticamente eletti del mondo, quello francese versione Quinta Repubblica dispone dei poteri più estesi. Ma è chiaro che una maggioranza risicata o, peggio ancora, una «coabitazione» con una maggioranza e un premier di destra renderebbero molto più difficile fare le riforme annunciate.
Il punto di questa tornata elettorale è tutto qui. I sondaggi danno per scontato che la Camera andrà a sinistra (il Senato, eletto da assemblee di notabili locali, lo è già, per la prima volta nella storia della Quinta): da 297 a 368 deputati, a seconda dei sondaggi, dove la maggioranza assoluta è di 289. Ma per Hollande sarebbe meglio che il Ps fosse autosufficiente. Andrebbe bene anche arrivare alla soglia fatidica con i Radicali di sinistra e i Verdi, entrambi già rappresentati al governo; un po’ meno dover fare i conti con i comunisti nemmeno ex del Front de gauche, cosa che obbligherebbe a concessioni sul programma.
La destra strepita contro il rischio di un monopolio socialista del potere. Ma l’Ump, il partito di Sarkozy, dà per scontato di perdere e pensa già al dopo, quando bisognerà decidere se il suo candidato in vista delle presidenziali del 2017 sarà il segretario, Jean-François Copé, o l’ex primo ministro François Fillon, nemici neanche tanto cordiali. C’è poi il rebus dell’atteggiamento da tenere al secondo turno nelle circoscrizioni in cui il ballottaggio sarà fra un socialista e un candidato del Front national. Ufficialmente, l’ordine di scuderia è «né con uno né con l’altro», ma molti notabili del partito, specie al Sud, sono tentati di fare accordi con il Fn per salvare le poltrone locali.
Il Front, appunto. Marine Le Pen ha fatto il botto alle presidenziali: 17,9%, meglio di suo padre. Sulla base di questi risultati, il Fn, ribattezzato per l’occasione «Rassemblement bleue Marine», dovrebbe piazzarsi primo o secondo in 116 circoscrizioni. Ma c’è l’inconveniente del maggioritario, che finora gli ha sempre impedito di eleggere dei deputati, tranne quando Mitterrand impose la proporzionale appunto per mettere il bastone dell’estrema destra fra le ruote di quella «repubblicana». La grande attesa è quindi se il Fn riuscirà ad avere almeno un deputato. Uno sarebbe già un avvenimento. Nella migliore delle ipotesi, saranno otto, troppo pochi per costituire un gruppo, abbastanza per sdoganare definitivamente l’estrema destra.
In tutto questo, ci sono alcune sfide che focalizzano l’attenzione. Il centrista François Bayrou, eterna promessa mai realizzata della politica francese, rischia di essere battuto nel suo feudo di Pau, dove sia il Ps che l’Ump gli hanno piazzato contro un candidato. Ségolène Royal vuole la poltronissima di presidente dell’Assemblée, ma rischia di non entrarci perché il cacicco socialista di La Rochelle, dov’è candidata, le sta facendo la fronda. C’è la curiosità di vedere come andrà a Carpentras la ventiduenne Marion Le Pen, pimpante nipotina di Jean-Marie e Marine e terza generazione politica della famiglia. E poi, naturalmente, c’è la madre di tutte le battaglie, quella di Hénin-Beaumont, dove l’ultrasinistro JeanLuc Mélenchon sfida l’ultradestra Marine Le Pen con contorno di polemiche, insulti e querele. In vantaggio la primo turno c’è Marine, ma prenderà meno voti del Ps e del Front de gauche sommati, e rischia di perdere al secondo. E perciò già tuona: «Ma è democrazia, questa? »
il Fatto 10.6.12
Sinistra, destra e Front National. Un ballottaggio per tre
Le legislative francesi sotto il segno dei candidati di Le Pen
di Gianni Marsilli
Parigi. E se la destra francese vincesse le legislative? Sarebbe coabitazione tra un presidente di sinistra e un primo ministro di destra, come fu tra Mitterrand e Chirac, e viceversa tra Chirac e Jospin. Tutti sopravvissero alla prova, uomini e istituzioni, ma in questi tempi di grande burrasca François Hollande, sovrano prigioniero nel suo palazzo, non avrebbe più i mezzi per condurre la sua politica, la Francia subirebbe un arresto cardiocircolatorio, il tavolo europeo verrebbe bruscamente rovesciato.
Può accadere? In teoria sì, in pratica è quasi fantapolitica. Le legislative dopo le presidenziali sono sempre un gioco stanco, quasi inerziale dopo la grande battaglia per l’Eliseo. Nessuno crede al ribaltone, men che meno i sondaggi. Vediamo gli ultimi di Ipsos per Le Monde: il blocco di sinistra dovrebbe avere tra i 292 e i 346 seggi, la destra parlamentare (Ump) tra 231 e 285, il Fronte nazionale tra 0 e 3.
LA MAGGIORANZA assoluta è di 289 seggi, Hollande può respirare tranquillo. L’interrogativo è un altro: se il Ps avrà da solo quella maggioranza o se avrà bisogno dei voti del Front de Gauche di Jean Luc Melénchon per governare.
La risposta verrà solo tra una settimana, dopo il secondo turno, ma il trend rilevato finora dice che i socialisti da soli non ce la faranno. Il tonitruante Melénchon, con i suoi probabili 20/30 deputati, sarà dunque decisivo in sede assembleare. In termini percentuali, la sinistra tutta insieme (PS, verdi, frontisti e altri) avrebbe circa il 44 per cento dei voti, la destra il 34, il Fronte nazionale il 15. Percentuali rassicuranti, fino a che le destre saranno due. Se saranno confermate tra una settimana, la sinistra avrà vinto ma non stravinto. Sul piano delle idee, le destre rimangono maggioritarie nel Paese.
Tra oggi e domenica prossima si gioca anche il destino parlamentare del Front national di Marine Le Pen, ancora privo di rappresentanza. Il doppio turno alla francese consente la presenza al secondo di più di due candidati all’elezione, a condizione che abbiano ricevuto il consenso di più del 12,5 per cento degli aventi diritto. Nella grande maggioranza dei casi al duello finale sopravvivono soltanto due contendenti, ma capita che ve ne sia un terzo.
La triangolazione quest’anno sarà possibile in una novantina di collegi, e in alcuni di questi (soprattutto nel sud est) il Front National è ben piazzato, a condizione che il riporto di voti sul suo candidato si faccia in maniera massiccia. In ogni caso i deputati marinisti saranno una sparuta pattuglia. Però quel partito avrà uno scranno che non ha mai avuto, e una inedita visibilità e possibilità di proposta legislativa. Se rimanesse fuori, la destra parlamentare per prima tirerebbe un respiro di sollievo.
Alle legislative, più che mai localizzate, c’è parecchia gente che gioca il suo futuro. Innanzitutto i ministri in carica. Hollande è stato chiaro, coloro che non risulteranno eletti dovranno dare le dimissioni: non si governa senza la legittimazione popolare. I ministri eletti, a loro volta, lasceranno il posto ai supplenti. I riflettori sono puntati su alcune battaglie particolarmente mediatiche, visti i personaggi in causa.
SULLA NIPOTINA di Jean Marie Le Pen, che a 22 anni tenta l’avventura a Carpentras, nel sud-est. Sul duello tra Marine Le Pen e Jean Luc Melénchon, che è andato a sfidarla proprio sulle sue terre di predilezione, nel nord che fu industriale. Su Ségolène Royal, che ha sloggiato il candidato socialista a La Rochelle per trovare lì, in riva all’Atlantico, il seggio parlamentare che le consenta di accedere alla presidenza dell’Assemblea. Battaglie assai sanguinose, ma molto locali. Di dibattiti che volano alto, i francesi in questi mesi ne hanno avuto a sufficienza.
l’Unità 10.6.12
Truppe Usa. Più suicidi che morti sul campo
di Virginia Lori
È un bilancio peggiore di quello della guerra in Afghanistan, uno dei fronti più impegnativi per le truppe Usa. Uccisi sul campo, ma non dal nemico. Dal primo gennaio 2012, ogni giorno, un militare americano si è tolto la vita: tra le truppe in servizio attivo, si sono registrati 154 suicidi in 155 giorni, almeno fino al 3 giugno scorso.
Una strage silenziosa, senza funerali d’onore, con mille ragioni e nessuna tale da arrivare alla ribalta della cronaca. Se non il numero da brivido: i suicidi sono stati quest’anno il 50 per cento in più dei militari uccisi nello stesso periodo in combattimento in Afghanistan. E la cosa preoccupa in particolare perchè la tendenza è in aumento. Anzi, si è impennata: più 18% rispetto al 2011, più 25% in riferimento al 2010, e del 16% nel confronto con il 2009, sinora considerato l’«annus horribilis» per il numero di suicidi tra le truppe.
«PROBLEMA URGENTE»
Il tragico fenomeno è preso molto sul serio dal Pentagono e dai servizi per i veterani, che stanno tentando una serie di interventi di aiuto psicologico e medico per i militari che tornano dai luoghi di combattimento. Lo stesso segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, ha di recente inviato un memorandum ai dirigenti militari e civili del ministero in cui definisce i suicidi «uno dei problemi più urgenti e complessi», e sottolinea la necessità di «continuare a lavorare per l’eliminazione di qualsiasi giudizio o discriminazione nei confronti di chi soffre di stress post-traumatico e altri problemi mentali».
Tra i più colpiti dai suicidi sono i soldati dell’esercito, seguiti da quelli dell’Air Force e della Marina, mentre una diminuzione dei casi seppure parziale si è registrata tra i marines. Gli stessi esperti faticano a capire il perchè dell’incremento generale della tendenza. Tra le varie motivazioni, lo stress prolungato a causa di più di un dislocamento al fronte, problemi post-traumatici, uso errato di farmaci, problemi economici al ritorno in patria. Eppure le cifre riflettono solo i suicidi tra i militari in servizio attivo e non riguardano i reduci, tra cui pure si rilevano elevatissimi tassi di suicidio.
l’Unità 10.6.12
La primavera delle donne arabe
di Silvia Costa
A Bruxelles abbiamo avviato un percorso sulle condizioni delle maghrebine
In autunno avremo un quadro chiaro sull’andamento dei processi democratici
LE DONNE IN TUNISIA, EGITTO, LIBIA E MAROCCO SONO STATE PROTAGONISTE ATTIVE DELLA PRIMAVERA ARABA. UN PROCESSO A CUI GUARDARE CON SPERANZA ma anche con preoccupazione, alla luce delle drammatiche notizie dalla Siria.
Per questo a Bruxelles, con un incontro della commissione Donne del Parlamento europeo con le rappresentanti delle donne maghrebine abbiamo avviato un percorso che da qui al prossimo autunno ci darà un quadro chiaro sull’andamento dei processi democratici a partire dalla condizione delle donne, in una fase promettente ma anche delicata.
A questo primo confronto, avvenuto con rappresentanti di Ong come la libica Souad Wheidi, impegnata nell’assistenza e denuncia della violenza sessuale usata come arma impropria contro donne e giovani dissidenti, e di giornaliste come la tunisina Sondès Ben Khalifa, seguirà a ottobre un incontro a Tunisi. Sulla base di queste audizioni, in qualità di relatrice, costruirò la relazione che sarà portata in Aula a Strasburgo.
L’Ue ha assunto l’impegno a rafforzare i partenariati e i processi democratici e di sviluppo, ma senza l’attiva partecipazione delle donne non ci saranno né democrazia né sviluppo durevoli. È quindi indispensabile capire come e dove le donne saranno coinvolte in questa nuova fase politica.
Sono varie le misure di cui l’Ue si sta dotando, tra cui nuovi strumenti di vicinato e una serie di specifici protocolli e task force bilaterali. È in questo orizzonte che vogliamo aprire una nuova stagione della cooperazione politica e istituzionale tra le donne al di qua e al di là dal Mediterraneo, a partire dal rispetto dell’autonomia delle scelte istituzionali e politiche nonché del pluralismo religioso e culturale.
Il 2011e i primi mesi di quest’anno hanno segnato alcune importanti tappe: la grande partecipazione delle donne alle prime elezioni libere, l’avvio di processi di riforma costituzionali, il crescente ruolo delle Ong. Vi sono però anche punti d’ombra: la scarsa presenza di donne nei parlamenti e nei governi, il riferimento alla sharia nelle costituzioni di alcuni paesi, la differenza tra la condizione delle donne in aree urbane e rurali sotto il profilo dell’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari e sociali, al lavoro e al credito.
Iniziative come l’appello delle donne arabe dello scorso 8 marzo segnalano una forte volontà di partecipazione per ottenere parità di diritti, segnalare i tentativi di esclusione, denunciare le forme di violenza pubblica e privata, nonché di chiedere un cambiamento delle leggi discriminatorie soprattutto in ambito civile e familiare. Nei prossimi mesi dal Parlamento europeo ascolteremo, ci confronteremo, tenteremo di capire come rafforzare queste aspirazioni. Dal sostegno ai processi democratici in Nord Africa può venire nuova linfa anche per le nostre democrazie in crisi di leadership e di consenso, ma non c’è democrazia senza un pieno ed equo coinvolgimento delle donne. Per questo, in un mondo sempre più globalizzato, sostenere i processi in atto in Nord Africa equivale in parte a sostenere noi stessi.
Corriere 10.6.12
Piazza Tahrir pericolosa per le donne, così vacilla il simbolo della rivoluzione
di Cecilia Zecchinelli
Che cosa è successo a piazza Tahrir, il simbolo del Risveglio arabo, l'icona della Rivoluzione egiziana, il luogo franco dove nei 18 giorni gloriosi che portarono al crollo del regime, oltre un anno fa, donne e uomini, cristiani e musulmani, religiosi e laici lottarono insieme, poi celebrarono uniti la loro vittoria? Da mesi quella brutta spianata nel centro del Cairo che voleva diventare un modello per il Nuovo Egitto è usata solo saltuariamente dai manifestanti, di solito è invasa da venditori ambulanti, balordi, trafficanti. E da settimane, in un continuo e brutto crescendo, è diventata off limits per le donne. Assalti e tentativi di stupro sono frequenti, il passaparola è ormai per tutte, velate o meno: «evitate Tahrir soprattutto se è buio».
Due sere fa, dopo l'ennesimo attacco a una ragazza da parte di 200 uomini non identificati, c'è stata una manifestazione per dire basta a quella vergogna. Ma le 50 manifestanti, nonostante il servizio d'ordine di qualche decina di maschi, sono state nuovamente aggredite. Fuggi fuggi tra le auto e le strade vicine, panico, urla, poi le donne si sono salvate in un edificio. Furiose e stravolte. La gente e i media locali si chiedono perché questa orrenda violenza, soprattutto chi ci sia dietro. Nel caos dell'Egitto che tra pochi giorni sceglierà il suo nuovo raìs, le teorie si moltiplicano: residui del vecchio ordine che vogliono dimostrare il bisogno di «ordine», delinquenti comuni, integralisti sessuofobi.
L'unica certezza è che la scomparsa della polizia dalle strade seguita alla fine dell'era Mubarak ha lasciato che il peggio emergesse in questo Paese una volta sicuro anche per le donne, almeno nei luoghi pubblici. La speranza è che se la mitica Tahrir di quei 18 giorni non era l'Egitto, se l'illusione che i giovani di Facebook avessero preso la leadership della società s'è rivelata infondata, anche ora la piazza non rappresenti l'intero Paese. Che le violenze sessuali si concentrino proprio lì per il valore simbolico del luogo e che gli assalti sessuali seguano una regia politica anti-rivoluzionaria, piuttosto che i nuovi sviluppi della società egiziana. Ma questa è appunto una speranza. E non tutti la condividono.
La Stampa 10.6.12
Tra i giovani tunisini in partenza per il Jihad in Siria
Delusi dalla rivoluzione, hanno un solo credo: l’Islam
di Domenico Quirico
L’uomo è tagliente. Dietro l’apparente cortesia delle sue frasi, nel timbro della voce, dietro la sue risatine false si sente lo stesso disprezzo che ho visto negli occhi dei giovani che entrano nelle moschee radicali, sulla via della seta come nel deserto: disprezzo per l’occidentale, per il bianco, il kufar, il miscredente. E insieme l’orgoglio per il rifiuto di tutto ciò che io, noi siamo. Che per loro è già una vittoria. Il quartiere Balancine è un labirinto che non finisce mai. Mi rendo conto, nel buio, che potrei non uscirne mai, se solo la mia guida lo decidesse: anche se il centro di Tunisi gli alberghi i ristoranti i ministeri sono a due passi. Nella strada orribili cani dalle orecchie da pipistrello frugano, con la prudenza di chi aspetta la sassata, nei mucchi di rifiuti.
Ecco la casa, siamo giunti. Barbagli di bianco, logoro e frusto, lo sporco pudicamente coperto dal buio. Di fronte un caffè. Ragazzi bivaccano avvolti nella pigrizia come grossi insetti in una ragnatela. Alcuni sono ubriachi, schiamazzo, un dirugginio di risa squarciate e di strida. La nostra guida li guarda, come se fossero semi caduti in una terra secca, che prima o poi bisognerà gettar via: c’è molto lavoro ancora da fare per arrivare alla santità. Non c’è luce, la scala si arrampica scivolosa, con gradini ripidi, un tanfo di zoo, un misto di segatura, urina, ammoniaca. Per quanto lavassero, quell’odore sempre ristagnerebbe, se lo portano addosso i muri i gradini come l’odore del fumo di sigaretta. Zaffate di caldo ti assalgono, malgrado la sera; il calore sembra impregnato, custodito nei muri e nelle stanze. La guida si arrampica svelto, sicuro nonostante il buio, al terzo piano; dagli appartamenti arrivano vampate di voci improvvise come un’invasione di insetti. Un motore si accende con un battito irregolare, sembra un animale rimasto senza fiato.
Anche nella stanza c’è solo la luce fioca di una lampadina che pende dal soffitto, una luce da cripta. Una tenda nasconde, male, una toilette arrugginita e sporca. È quasi tutta occupata, la camera, da un divano grande e basso che serve evidentemente anche da letto. Yusef, il ragazzo che siamo venuti a incontrare, seduto con le gambe incrociate, sembra in ascolto di qualcosa, uno scoppio, uno scricchiolio, un bisbiglio. Pare più giovane dei suoi 22 anni, ma qui l’adolescenza tramonta di colpo, come il sole. Vent’anni bastano a plasmarti la faccia, la dolcezza svanisce subito con l’esperienza. E la colpa.
Yusef sta per partire: per il Jihad, in Siria. Ha dentro la febbre, come alla soglia di una nuova vita, come prima di dichiararsi a una donna, o commettere il primo delitto. È salafita, come l’uomo che mi ha portato da lui. Sono venuto in Tunisia per cercare di capire questo lato estremo dell’Islam.
Nella piccola Tunisia: che ha inventato tutto, sperimentato tutto, la primavera rivoluzionaria e l’Islam al potere, dove i laici, gli increduli, sanno ancora scambiare con gli islamisti colpo su colpo. Dove sta già salendo, verso l’ebollizione, l’alambicco di un nuovo passaggio.
Bisogna, per questo, lasciarsi dietro gli orizzonti dell’islamismo «pragmatico», desacralizzato dal dio Potere, la socialdemocrazia islamista dei Fratelli Musulmani, di Ennahda, che spesso, dopo le rivoluzioni arabe, ci siamo inventati per non avere paura. Bisogna camminare su tracce che non comprendiamo più, che abbiamo dimenticato, quelle dell’Assoluto, il vasto territorio del Pentimento e del Desiderio struggente.
Yusef che andrà in Siria per combattere un altro regime empio, quello di Assad, non è solo. Altri ragazzi tunisini sono già partiti. Il reclutamento in alcune moschee radicali della città, poi un biglietto aereo per la Turchia e l’armata dei ribelli «dove ci sono altri fratelli, tanti, egiziani libici algerini». Ancora le brigate internazionali islamiche, come in Afghanistan, come in Iraq, come in Bosnia. Yusef sembra adagiarsi sulla sua fragilità come su un cuscino, parla senza guardare, come se i ricordi li evocasse per se stesso, per tenerli ancor caldi col suo fiato un’ora, un minuto, prima che cominci il gelo: la miseria senza scampo né remissione, la scuola, la piccola delinquenza per tirare avanti, la rivoluzione. Era uno di quei «teppisti» dei quartieri poveri che l’hanno tenuta dritta, la rivoluzione, nelle strade, sotto i colpi dei manganelli, nel fumo assassino dei lacrimogeni. Noi non li abbiamo citati, preferivamo i ragazzi di Internet, i figli della borghesia arricchita dai traffici del presidente Ben Ali, che la rivoluzione l’hanno gustata a parole, per noia e per snobismo.
Mai, nell’ora in cui siamo stati con lui, abbiamo avvertito una punta di amore che sempre si prova per ciò che si è perduto o si sta per perdere, una casa, una donna, un dolore perfino. Non sembra che l’Islam radicale renda la vita un circolo vizioso, un enorme movimento di antitesi e di negazioni. Ci vuole coraggio per questo morire nei cuori, cancellarsi nella memoria. La polvere non è ancora il nulla e deve essere dispersa. Ma non hai paura di precipitare in una guerra crudele, che in fondo non è tua, spietata, senza addestramento? Di punto in bianco, senza preavviso, il ragazzo si anima come se, pronunciando inavvertitamente una parola magica, avessimo aperto la porta della grotta. «Tu non sai niente: paura, coraggio... la mia forza non è nelle armi, è dentro. Io sono uno strumento. Noi musulmani eravamo diventati come un’erba che non può vivere senza arrampicarsi su qualcos’altro, dipendevamo dalle cose che ci date voi, che ci insegnate voi. Ora è la nuova rinascita. Aver paura dell’esercito di un tiranno? Non vedi che Dio sta già provvedendo? Dio ha confuso la mente degli americani, sì, gli americani ci aiutano, armano, finanziano, sono diventati lo strumento della santa causa».
Chissà se sa che due tunisini, ragazzi come lui, sono stati catturati con armi e esplosivi qualche giorno fa dai siriani e esibiti in televisione? Forse sì. Ma poco importa. L’uncino della sicurezza è sceso in fondo a lui, si è agganciato e ora non si stacca più. Non lascia che abbia paura. La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana, ovunque, sarà sempre la ricerca della santità.
I salafiti si sono riuniti il 20 maggio a Kairouan, neri stendardi, esibizioni di lotta e cavalcate selvagge, una dimostrazione di forza. Non sono molti, venti, trentamila, ma incombono. Voci, rumori leggende ne moltiplicano la forza: che, ad esempio, vicino a Gafsa, dove la rivoluzione è sbocciata, si addestrino alla guerra, intoccabili per soldati e gendarmi. Fantasie, quasi certamente. Sono veri, invece, i salafiti in tuta mimetica che pattugliano il parco dell’amore. È un luogo di Tunisi che tutti i ragazzi conoscono, dietro l’orribile albergo che uno dei figli di Gheddafi stava ristrutturando nel lusso e che resterà maceria di cemento. Qui i giovani della capitale, al riparo degli alberi, si scambiavano i timidi segni di un erotismo pudico anche ai tempi laici e sguaiati di Ben Ali. Ora la polizia della virtù salafita fa incursioni fragorose, ronde di voyeurs «benedetti» disturbano gli amanti impuri.
A Jendouba, a Sidi Bouzid, hanno fatto peggio, assaltato e bruciato i bar dove si vendeva alcol. Ennahda, al potere ma già indebolita dalla delusione, finge di non vedere. Un po’ perché non ha la forza di affrontarli a viso aperto, un po’ perché gioca a servirsene: vedete, dice ai laici, ai liberali, all’Occidente, o noi o loro.
Piccoli calcoli, tattica di politicanti. Parlando di Dio con questi pragmatici che tanto ci piacciono, ti pervade l’atroce languore dell’abitudine che ben conosciamo. Come in Occidente subito ti sfiora il pensiero che il loro è un Dio troppo accessibile, troppo facile da accostare. Non illudiamoci, il futuro è dei salafiti, gente che pensa che un solo gesto di audacia basti a modificare l’idea stessa del possibile, che vive una guerra per scelta e non per necessità e quindi una guerra che può sempre ricominciare, è sempre alle porte.
Anche Ihmed Zouhari è giovane, ha occhi chiari, di acciaio, tanto fermi e risoluti che ti pare di sentirti passare due mani sulle spalle. È uno dei capi del Partito della rinascita, che ha sede nel malfamato quartiere della Porta verde. Hezb el Tahrir, dicono, ha struttura di setta, evita la luce, pratica una selezione ossessiva e l’entrismo nei gangli del potere e della forza, odia i Fratelli Musulmani e chi mescola l’Islam con la democrazia
«Abbiamo sperimentato tutto, liberalismo dittature nazionalismo socialismo. Cosa abbiamo ottenuto? Solo povertà e corruzione. Resta l’Islam, totale integro puro. Ecco dove i partiti come i Fratelli Musulmani sbagliano: a mescolare l’Islam con altro, un po’ di democrazia, un po’ di nazionalismo, magari un po’ di comunismo. Dipendono da alleati che strappano concessioni sulla costituzione, la vita sociale, le leggi civili. Su tutto. Invece occorre un cambiamento radicale, creare un sistema unico, uno Stato retto dalla dottrina islamica, dal Corano, e poi riunire tutti i Paesi arabi e musulmani sotto un’unica bandiera.
«Era così prima del complotto franco-inglese. Non è un sogno, è realtà: di più, è un dovere, come la preghiera ogni giorno. Avremo un califfo assistito da un consiglio, ci saranno delegati che si occuperanno dei vari settori dello Stato, che controlleranno che il califfo rispetti il mandato divino. Governare con l’Islam ed estenderlo al mondo. E poi giudici che il califfo non potrà revocare».
Gli opponiamo una diga che sembra solida, il dubbio cioè che una dottrina nata secoli fa possa affrontare la modernità. «Voi non capite, la vostra democrazia va bene per voi, un mondo dove la gente non può mettersi d’accordo su un modo di governare, dove l’ideologia serve solo a prendere il potere e varia a seconda dell’utile. Qui ci possono essere partiti ma solo nell’Islam. Dite che è Medioevo? Vi chiedo: forse che l’uomo nel frattempo è cambiato?».
l’Unità 10.6.12
«Israele, il popolo dei lager non può costruire dei lager»
Tel Aviv dà il via libera ai centri di detenzione per stranieri irregolari. Parlano Shulamit Aloni, Yael Dayan, Zeev Sternhell, Yaariv Oppenheimer...
di Umberto De Giovannangeli
Un popolo che ha conosciuto l’orrore della deportazione forzata, un popolo che sa cosa significhi guardare il mondo da dietro il filo spinato, questo popolo non può, non deve smarrire la sua memoria collettiva e fondare la propria sicurezza sui Muri e i campi di detenzione». Le parole di Shulamit Aloni figura storica del pacifismo israeliano, più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres danno conto di una vicenda drammatica che va oltre la dimensione politica e tocca le corde, sensibili, della memoria e dei sentimenti. Decine di migliaia di immigrati irregolari presenti oggi a Tel Aviv e in altre città israeliane saranno trasferiti presto in campi di detenzione in costruzione e in «città di tende». Ad annunciarlo, nei giorni scorsi, è stato il ministro dell’Interno israeliano, all’indomani della sentenza del Tribunale distrettuale di Gerusalemme che ha autorizzato l’espulsione di circa 1.500 sud-sudanesi. Interpellato dalla radio pubblica, il ministro Eli Yishai ha dichiarato che «ci sono ancora circa 15 mila persone provenienti dal Sudan del nord e circa 35 mila dall’Eritrea». «Sono prossimi all’espulsione, che avvenga con il loro consenso o meno ha aggiunto questo numero rappresenta una minaccia per l’identità ebraica». Il governo ha quindi deciso di trasferire gli immigrati privi di permesso di soggiorno in centri di detenzione in costruzione nel sud del Paese, mentre nel frattempo, «abbiamo intenzione di creare città di tende».
Stando ai dati del ministero, sono circa 60 mila gli africani irregolari presenti nel Paese, per lo più provenienti da Sudan ed Eritrea. «Spero che nei prossimi mesi riusciremo a trasferire tutti gli infiltrati nei centri di detenzione e consentire ai cittadini israeliani nel sud di Tel Aviv e altrove di vivere in modo appropriato... in tranquillità e sicurezza», ha concluso. Yishai, denuncia il leader di Peace Now (la storica organizzazione pacifista israeliana) Yaariv Oppenheimer, alimenta la xenofobia, strumentalizzando il malessere della gente di quartieri periferici nei quali il governo «ha ammassato e abbandonato» il grosso degli irregolari o evocando singoli episodi criminali per additare un’intera comunità. Israele sta anche costruendo un muro di sicurezza lungo i 240 chilometri di frontiera con l’Egitto; il progetto dovrebbe essere completato entro la fine dell’anno. La pronuncia del tribunale israeliano allarma i tanti sudsudanesi presenti nel territorio. «Io davvero non so cosa fare», dice Khaled, uno di loro, che vive con i suoi due figli in Israele dal 2007. «Ci vogliono far tornare in luogo pericoloso. Ho paura di tornare nel mio Paese con i bambini: come faccio a garantire loro un futuro lì?». Anche le Ong che avevano presentato ricorso opponendosi al provvedimento si sono dette «rammaricate per la sentenza» e «preoccupate per la sicurezza di coloro – soprattutto i bambini – che sono costretti a rientrare in luoghi pericolosissimi». Secondo fonti governative ogni mese entrerebbero illegalmente in Israele circa 1200 migranti africani, quasi sempre con l’aiuto prima di beduini egiziani e poi di quelli israeliani. Gli africani che riescono a penetrare peraltro sono quelli che sopravvivono al fuoco della guardia di frontiera egiziana. Solo nel 2007-08 sul lato egiziano del confine sono stati uccisi una quarantina di africani. Lo scorso anno una trentina. «Il numero delle vittime è molto più alto dice Sigal Rosen, portavoce della Ong Hotline for Migrant Workers sono convinta che tanti altri migranti siano stati colpiti a morte ma non riusciamo a saperlo perché le autorità egiziane non lo dicono. E non dimentichiamo quelli che vengono feriti o arrestati».
I migranti catturati poi in Israele tranne un numero limitato di quelli provenienti dal Darfur vengono rispediti in Egitto dove, dopo un processo sommario e una detenzione durissima sono obbligati a tornare nei loro Paesi d’origine, nella migliore delle ipotesi. «Campi di detenzione, espulsioni di massa, aggressioni agli immigrati: tutto ciò è indice di un imbarbarimento sociale e culturale che non può essere in alcun modo giustificato adducendo la crescente insicurezza nei sobborghi di Tel Aviv o laddove più si concentrano le comunità di immigrati», dice a l’Unità Yael Dayan, scrittrice, paladina dei diritti delle minoranze, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. Le preoccupate considerazioni dell’ex parlamentare laburista trovano concorde Zeev Sternhell, uno dei più autorevoli storici israeliani: «È come se per trovare una coesione interna Israele debba individuare una minaccia esterna, contro cui fare fronte: lo sono i palestinesi, ed ora anche i sudanesi. Ma questo viversi in una sorta di trincea permanente, una trincea mentale oltre che materiale, finisce per alimentare un’aggressività collettiva che rischia di minare i principi stessi della nostra democrazia».
l’Unità 10.6.12
Israeliani, ebrei, razzisti e i raid anti-immigrati
di Moni Ovadia
UN PAIO DI SETTIMANE FA UMBERTO DE GIOVANNANGELI DAVA CONTO SU QUESTO GIORNALE DI ATTACCHI RAZZISTI SCATENATI IN ISRAELE CONTRO IMMIGRANTI AFRICANI. Gli attacchi ai limiti del pogrom hanno avuto luogo, incredibile a udirsi, nei sobborghi di Tel Aviv, la laicissima città della Israele più colta e moderna, città della movida, del buon vivere all’occidentale.
La teppaglia che ha scatenato i raid contro esseri umani, colpevoli solo di essere quello che sono, era composta da oltranzisti della destra israeliana, laica e religiosa. Anche i leader della odiosa campagna xenofoba sono israeliani, non arabi, quindi ebrei. La domanda che si impone con urgenza è: «Si può essere israeliani, ebrei e razzisti?» La risposta è: «Ma certo! Eccome!». Qualche lustro fa una simile domanda e una simile risposta sarebbero state scandalose in quanto tali, si sarebbero trovati esponenti autorevoli delle comunità ebraiche della diaspora (e si trovano ancora) pronti a lanciare anatemi contro chi avesse osato porre simili domande e dare simili risposte. Il malcapitato sarebbe stato immediatamente marchiato con l’infamante epiteto di antisemita, magari con un surplus di infamia: «Schifoso antisemita!». In tempi più recenti qualche anima bella, di fronte a manifestazioni di razzismo da parte di ebrei, con accenti addolorati e incredulo stupore diceva (e ancora dice ): «Ma come??? Proprio loro??? Con quello che hanno passato???».
Ebbene sì proprio noi, con quello che abbiamo passato, abbiamo i nostri razzisti, i nostri xenofobi, i nostri fascisti e se andiamo avanti di questo passo avremo anche di peggio, ( mi astengo dalla definizione per il rispetto che devo a quelli fra i nostri che furono annientati e ridotti in cenere). Come è potuto accadere? È facile capirlo. Gli ebrei sono solo esseri umani come tutti gli altri, con le loro miserie e le loro glorie. Pertanto è bastato lasciarsi andare con cupidigia all’idolatria della terra perché sorgessero fra gli ebrei i nazionalisti fanatici e religiosi e dunque razzisti, e xenofobi.
L’eccellenza ebraica nel corso di 30 secoli non è mai stata dovuta ad un supposto ed equivocato talento dell’ebreo in quanto tale, ma è nata da condizioni socio esistenziali, da scelte culturali e dal fatto di essere un popolo di meticci avventizi che seppero colonizzare il cielo con il Dio universale che a sua volta li elesse perché erano schiavi e stranieri, sbandati e «poco raccomandabili». Gli ebrei ebbero la folgorante intuizione di aggregarsi intorno ad una patria mobile, la Torah. E tutte le volte che hanno tradito questa vocazione sono cominciati i guai. Non quelli che vengono dall’esterno, ma dall’interno. E quelli sono i più insidiosi.
Corriere 10.6.12
Una terra due popoli
Quello Stato «ineguale» fra il Giordano e il Mare
A Ramallah si attenua la fiducia nel futuro di una Palestina indipendente
di Sergio Romano
Negli ultimi decenni dell'Ottocento, quando i primi coloni ebrei cominciarono ad arrivare in Palestina, Ramallah era spesso l'ultima tappa del loro viaggio, il luogo in cui avrebbero trascorso la notte per ripartire all'alba e alzare infine lo sguardo sulle mura di Gerusalemme accese di rosa nella luce del tramonto. La piccola città era allora un fiorente centro agricolo e aveva una importante comunità cristiana. Oggi i cristiani sono pressoché scomparsi, Ramallah conta 25 mila abitanti, ha un grappolo di piccoli grattacieli, un elegante albergo costruito da una società svizzera e un palazzo presidenziale (la Mukata), lungamente occupato da Yasser Arafat, costruito e ricostruito sulla vecchia sede di un edificio ottomano e di un carcere britannico. È il centro politico-amministrativo dell'Anp (Autorità nazionale palestinese) e sarebbe a un tiro di schioppo da Gerusalemme se due varchi di frontiera — il primo israeliano, il secondo palestinese — non rendessero il viaggio un po' più lungo del necessario.
Da qui il governo presieduto da Salam Fayyad amministra una parte dei territori occupati con un corpo di pubblici dipendenti composto da circa 150 mila persone. I risultati della sua politica economica sono stati positivi. Ha ridotto le spese, ha gestito con prudenza e precisione il bilancio dello Stato, ha favorito la nascita di nuove imprese, ha risvegliato gli «spiriti animali» di una società che ha il bernoccolo degli affari. La disoccupazione si aggira intorno al 18%, ma sale mediamente al 20% quando è sommata a quella molto più alta della Striscia di Gaza (27%). Potrebbe andare molto meglio, mi dicono i miei interlocutori, se Israele non si fosse impadronito dell'acqua, se non avesse di fatto il monopolio del turismo e non avesse riservato ai suoi coloni le terre più fertili della valle del Giordano.
Parlo anzitutto con Ghassan Khatib, direttore del Centro governativo per i mezzi d'informazione e condirettore delle attività editoriali di «bitterlemons», un'associazione israelo-palestinese che promuove «un civile scambio di vedute sul conflitto arabo-israeliano e su altre questioni medio-orientali». Khatib rifiuta la violenza, crede nella soluzione dei due Stati, ma attribuisce al governo di Benjamin Netanyahu lo stallo dei negoziati e non vede per l'Anp altra possibilità fuor che quella di bussare ancora una volta alla porta dell'Onu per ottenere un seggio, come Stato osservatore, nell'Assemblea generale. Non avrebbe il diritto di voto, ma potrebbe accedere ai tribunali internazionali e se ne servirebbe per denunciare i pregiudizi inflitti ai palestinesi dall'occupazione israeliana. Dopo il fallimento dell'ultimo tentativo, bloccato dal veto americano in Consiglio di sicurezza nel settembre dell'anno scorso, il governo sta lavorando a un progetto di risoluzione e spera di ottenere questa volta un sostegno «qualitativo», vale a dire le firme di tutti i membri dell'Unione europea.
Domando a Khatib se l'iniziativa verrà avviata nella sessione di settembre e mi risponde che Abu Mazen e i suoi consiglieri non hanno ancora deciso i tempi dell'operazione. Suppongo che si chiedano se convenga agire prima o dopo il risultato delle elezioni americane. Se il vincitore fosse Obama, il secondo mandato gli consentirebbe forse di fare ciò che non era elettoralmente opportuno un anno prima. Nella conversazione raccontata in un articolo precedente, un promotore israeliano del dialogo, Daniel Seidemann, mi ha ricordato che Netanyahu, in materia d'insediamenti, ha pubblicamente umiliato Obama costringendolo a un indecoroso passo indietro. Confermato alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti sarebbe forse tentato di regolare un vecchio conto.
Come ingannare il tempo in attesa delle elezioni americane e di altre vicende internazionali, fra cui la politica del Cairo dopo il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane? La risposta che ho più frequentemente ascoltato nelle mie conversazioni di Ramallah è: resistenza non violenta. In una intervista a una pubblicazione economica giordana (Jordan Venture del maggio 2012), Munib al-Masri, un ricco finanziere e uomo politico palestinese, ha detto che occorrono manifestazioni non violente e forme di disobbedienza civile. Vi sono state alcune manifestazioni, in effetti, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, ma hanno avuto luogo sulla scia delle rivolte arabe. Quelle di Gaza, particolarmente numerose (fra 10 mila e 20 mila dimostranti), erano dirette contro la dirigenza politica e sono state duramente represse; mentre quelle di Ramallah e altri centri cisgiordani sono state trattate dall'Anp con una certa benevolenza. Ma Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (un istituto specializzato in sondaggi) ritiene che le rivolte arabe non abbiano giovato alla causa palestinese. Preoccupato dall'instabilità delle regione, il governo israeliano preferisce lo status quo mentre quello palestinese dice di volere tornare all'Onu, ma non dà prova di grande intraprendenza. Gli avvenimenti degli scorsi anni hanno avuto l'effetto positivo di rendere inutile e indesiderabile il ricorso alla violenza, ma la «non violenza» e la disobbedienza civile sembrano essere soltanto artifici retorici, più proclamati che praticati. Il risultato, secondo Shikaki, è una generale apatia, una sorta di navigazione senza rotta verso l'inevitabile approdo dello Stato unico. L'Anp dichiara di volere la riconciliazione con i fratelli separati di Gaza, ma il gruppo dirigente di Hamas, se le elezioni presidenziali egiziane fossero vinte dal candidato della Fratellanza musulmana, sarebbe probabilmente attratto da un rapporto speciale con l'Egitto. Abu Mazen dichiara che occorre tentare ancora una volta la strada dell'Onu, ma con programmi non ancora precisati e con esiti incerti. Come abbiamo constatato altre volte in passato, il provvisorio, nelle vicende palestinesi, rischia di durare molto a lungo. Quello che sta nascendo di fatto, fra il Giordano e il mare, è uno Stato sui generis in cui israeliani e palestinesi vivono in zone separate, con status differenti, all'interno delle stesse frontiere e hanno relazioni simili per certi aspetti ai rapporti ineguali che si erano stabiliti nell'Impero russo fra gli ebrei del «recinto» (la zona d'insediamento fra Ucraina, Bielorussia, Polonia) e il resto della popolazione russa nell'impero zarista. Le parti naturalmente si sono rovesciate: gli ebrei vestono i panni dei russi, i palestinesi quelli degli ebrei.
2-continua la prima puntata è stata pubblicata il 7 giugno (è disponibile su “spogli” nella data della sua uscita)
Internazionale n.952 e Ha’aretz 8.6.12
Israele è razzista con gli immigrati neri
di Gideon Levy
qui
Internazionale n.952 e Der Spiegel 8.6.12
Armi segrete per Israele
qui
Corriere La Lettura 10.6.12
I populisti che arruolano Dio
Cresce in Europa l'uso politico della religione da parte di leader che sfruttano il disorientamento di fronte alla crisi delle nazioni
di Marco Ventura
Nella nostra età secolare, la fonte della sovranità ha smesso di essere in Dio; Dio non è più sovrano. Chi ne ha preso il posto? Il popolo. Il popolo sovrano. Nei Paesi in cui l'avvento della sovranità popolare ha coinciso con la liberaldemocrazia, il rapporto tra popolo e Dio si è riscritto in termini di libertà religiosa e di separazione tra Stato e Chiese. Per le Chiese la separazione è la miglior garanzia contro l'ingerenza statale; per gli Stati la separazione è la miglior garanzia contro l'ingerenza clericale. Alcuni Paesi, come la Francia e gli Stati Uniti, hanno introdotto la separazione chiamandola col suo nome; altri hanno teso ad essa riducendo le Chiese di Stato ad un ruolo simbolico, come nel Regno Unito e in Scandinavia, o moderando i privilegi delle Chiese forti, come in Germania e in Spagna.
In un Occidente spaventato dal mondo globale, la crisi del modello laico-separatista ha coinciso con quella della liberaldemocrazia. Nuove forme di alleanza tra Dio e popolo si sono delineate. Il cambiamento di paradigma si è avvertito particolarmente nei partiti e movimenti politici che hanno costruito sul populismo la loro affermazione. Nell'ambito del progetto «Religio West», diretto dal politologo Olivier Roy, un seminario internazionale presso l'Istituto universitario europeo di Firenze ha indagato il fenomeno attraverso l'analisi di alcuni casi nazionali.
L'affacciarsi di partiti populisti nell'Europa degli anni Ottanta fu una risposta al ridimensionamento della sovranità statuale, all'indebolimento delle nazioni, all'insicurezza delle Chiese. Alcuni leader intuirono che si apriva un nuovo spazio a chi avesse il coraggio di parlare al popolo. Il populismo, precisa il sociologo francese Jean-Louis Schlegel, non è una dottrina, ma una strategia degli attori politici in tempi di crisi. Le Pen in Francia e Haider in Austria vi ricorsero con abilità. Solleticarono le frustrazioni, ricrearono un popolo e additarono un nemico: le élite e gli immigrati. Dio rimase ai margini del populismo tra anni Ottanta e Novanta. Quando vi entrò, come nel caso della Lega, fu per rafforzare l'identità di un popolo padano tradito da una Chiesa di Roma non meno ladrona della politica romana; oppure, come in Turchia, per risvegliare una nazione islamica stanca di una laicità governativa e militare.
Soltanto dopo l'attentato alle Torri gemelle, i leader populisti arruolarono Dio alla loro demagogia. Prese forma una religione del popolo fatta di identità e simboli, di valori e tradizione. Il Dio del popolo presuppone «civiltà» e «culture» contrapposte, demarca il «noi» e il «loro». Siamo cristiani perché loro sono musulmani. Siamo cristiani perché lo siamo sempre stati. Questo Dio, osserva il politologo israeliano Dani Filc, funziona perché esclude e perché include: unisce il popolo escludendo il nemico e il diverso, ma al contempo promette inclusione a chi sia disposto ad entrare nel recinto, a riconoscersi nella nazione; persino a chi non pratica, persino a chi non crede. Il Dio del popolo ha nostalgia di un passato felice, della religiosità tradizionale, di un paesaggio rurale e di una società arcaica. Odia la riforma teologica e politica, la finanza e gli intellettuali.
È alle sorgenti di questo Dio che si è abbeverato l'odio dell'Europa. Pur nel contesto peculiare del «nazionalismo» padano, la parabola della Lega è significativa. Duncan McDonnell ricorda il Bossi degli anni Novanta, che inveisce contro gli scandali finanziari vaticani e rimprovera alla Chiesa di aver perso «ogni credibilità», tanto da dover riempire i seminari vuoti con preti dal Terzo Mondo. Lo studioso irlandese analizza il populismo leghista fatto di missione, sacrificio, terra promessa, riti e soprattutto di auto-assoluzione: perché la colpa non è mai mia, è sempre dell'altro. Fino alla conversione religiosa dopo le Torri gemelle. Dal 2001 la Lega accentua la propria battaglia per l'identità cristiana contro l'Europa secolarizzata e l'invasione musulmana. È forte la tensione con settori cattolici antagonisti, ma il Dio popolare leghista è astuto: «Un tempo attaccavamo i potenti, il Vaticano e la Chiesa», dichiara un militante a McDonnell, «poi i rapporti con la Chiesa sono molto migliorati» perché abbiamo criticato la Convenzione europea dei diritti umani; perché abbracciamo le radici cristiane. Il Dio leghista, secondo McDonnell, è attivamente anti-islamico e passivamente cristiano. La formula vale anche al di là dell'Italia. Per funzionare, il cristianesimo dei populisti deve ridursi ad una generica poltiglia di valori, simboli e nostalgie. Un amalgama passivo, cui costa poco aderire. È invece attivissima la retorica del nemico, anzitutto musulmano, come mostrano per l'Austria Sieglinde Rosenberger e Leila Hadj-Abdou.
Per Olivier Roy il populismo lacera Chiese e religioni perché ne spezza il monopolio su Dio. Roy ha ragione, ma per molti pezzi di Chiese e di religioni, il Dio populista è l'occasione del riscatto, l'illusione di un ritorno al monopolio, la seduzione del successo, come mostrano i vescovi abbagliati da Bossi e Berlusconi. Susi Meret, politologa italiana all'Università di Aalborg, racconta come Søren Krarup, pastore protestante e deputato, abbia plasmato l'ideologia xenofoba del Partito danese del popolo, per cui l'identità, la religione e la cultura sono qualcosa che si assimila «col latte della mamma». Pantelis Kalaitzidis, dell'accademia teologica di Volos, denuncia la deriva di un'ortodossia greca sempre più nazionalista, antiecumenica ed antioccidentale. La politologa turca Mine Eder fonda il successo del partito di Erdogan, l'Akp, sul populismo egemonico dell'Islam nazionalista turco. Tim Peace, dell'Università di Edimburgo, racconta la lotta della Chiesa d'Inghilterra, delle altre fedi e dei gruppi interreligiosi britannici contro la demagogia del British national party e della English defence league.
Schlegel nota come il cattolicesimo populista sia quello meno in sintonia con il Vaticano II, in particolare con l'ecclesiologia del popolo di Dio. In realtà, segnalano Dani Filc e Olivier Roy, il Dio populista è onnivoro e contraddittorio: opposto alla modernità, ma dalla parte dell'Occidente secolarizzato contro il sikh e il musulmano. Interessi e tattiche ricompongono gli opposti. È così nel Tea Party americano illustrato da Nadia Marzouki, nella laicità repubblicana di Marine Le Pen e ancor più nel populismo del Nord e Centro Europa, dove libertà sessuale, ateismo, tutela delle minoranze e diritti umani si tramutano in alleati della religione popolare e delle tradizioni. Lo ha mostrato lo studioso svizzero Oscar Mazzoleni, collegando il leader antiminareti elvetico Oskar Freysinger al libertario olandese Geert Wilders.
Nell'età secolare il popolo non appartiene più a Dio. I populisti cercano consenso e potere rovesciando i termini: il loro Dio appartiene al popolo; vale perché serve al popolo. Li inseguono le Chiese e le religioni quando strillano «no, Dio è mio». E se invece Dio non fosse di nessuno?
Corriere La Lettura 10.6.12
La mia America, divisa e razzista
ia America, Divisa e Razzista
di Martin Amis
Lo scrittore inglese racconta il suo difficile rapporto con gli Usa. Sbarcò nel 1958, a 9 anni. Subito affascinato dal Nuovo Mondo, presto scoprì la segregazione. E ricorda ancora le parole di un professore: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il massimo dei voti»
Andai in America per la prima volta nel 1958. Avevo nove anni, e mi piacque talmente che vi restai quasi un anno. Prima di imbarcarci sulla Queen Elizabeth, io e mio fratello Philip (di dieci anni) prendemmo la saggia precauzione di cambiare i nostri nomi. Io feci una scelta piuttosto ovvia: negli States sarei stato Marty. Philip, più fantasioso, modificò uno dei suoi secondi nomi in Nick Junior — ignorando bellamente che non c'era un Nick Senior. Mi resi conto in seguito che sarebbe stato perfetto se avessi usato il mio secondo nome, Louis (i miei genitori erano ammiratori di Louis Armstrong). A ogni modo, quando il transatlantico si avvicinò alla scintillante immensità di New York, Nick Junior e Marty erano assolutamente pronti.
Venivamo da Swansea, nel Galles meridionale. Era una città di tale omogeneità etnica che giunsi all'età di rubacchiare gli spiccioli e fumare le prime sigarette prima di conoscere — o vedere — una persona con la pelle nera. Il mio battesimo del fuoco avvenne nel 1956, quando andai con mio padre a trovare un professore che veniva dalla Rhodesia (oggi Zimbabwe). Lungo la strada, mentre eravamo sul bus rosso a due piani, mio padre mi tenne con pazienza un discorsetto — che mi parve piuttosto ripetitivo — su quel che mi aspettava. «Ha la faccia nera», mi ripeteva. «È nero». Appena entrai nel piccolo appartamento scoppiai in lacrime. Senza trattenermi, dissi: «Hai la faccia nera!». «Certo», rispose il visiting professor, quando finì di ridere. «Sono nero!».
Nel 1958 anche mio padre era un visiting professor — era andato a insegnare scrittura creativa a Princeton. Quando iniziammo la scuola a Valley Road, Nick Junior si fece comprare da mia madre il suo primo paio di pantaloni lunghi, mentre Marty si trovò a essere l'unica persona dell'intera scuola ad avere i calzoni corti (oltre a un paio di sandali Clark e a flosce calze grigie). A Valley Road c'erano molti scolari neri, ma, se ricordo bene, nessun insegnante nero. A casa allacciai subito ottimi rapporti con la donna delle pulizie, May, che arrivava da Trenton due o tre volte alla settimana con la sua sensazionale Cadillac rosa.
In quarta elementare feci amicizia dapprima con Connie, poi con Marshal, poi con Dickie. In seguito un ragazzino nero che si chiamava Marty divenne il mio amico del cuore. Marty portava il suo nome con un certo stile (nel mio caso, Marty era tornato a essere Mart, come Nick Junior era tornato Phil). Un giorno, usando la tipica frase con cui i bambini britannici si invitano a casa, dissi a Marty:
«Vuoi venire da me per il tè?».
«Mmm, preferisco il caffè».
«Voglio dire per la merenda con il tè, i pasticcini e le brioche. Tu puoi bere il caffè».
«No. Non piacerei a tua mamma».
«Perché?».
«Perché sono nero».
«Mia madre non ci farebbe neanche caso».
Marty venne a prendere il tè, e fu un successo, pensai. Poi andai a casa di Marty. Viveva nel quartiere nero di Princeton (che ora mi sembra sia in gran parte ispanico). Mentre mangiavo il pasto serale con la grande famiglia di Marty, e giocavo a basket nel vicolo sul retro con i suoi fratelli e i suoi amici, mi resi conto di essere bianco con un'intensità fisica che non dimenticherò mai. L'unico ragazzino della scuola con i pantaloni corti: considerate la vergogna di quell'esperienza e moltiplicatela per mille. Ora si trattava della mia pelle. Per tre ore fui preda di un attacco di imbarazzo così violento che temetti di svenire. In seguito mi chiesi se anche Marty avesse provato la stessa cosa a casa mia. Era così che si sentiva in Main Street?
Nel 1967 mio padre accettò un altro incarico di insegnamento in America, alla «Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee», come riportano le sue memorie, «un'istituzione conosciuta — suppongo senza che molti lo trovino ironico — come l'Atene del Sud». Princeton aveva iniziato ad accettare studenti neri a metà degli anni Quaranta. Due decenni più tardi, mio padre chiese se ci fossero studenti «di colore» a Vanderbilt. «Certo», gli risposero senza scomporsi. «Si chiama Mr. Moore». Il corpo insegnante delle facoltà umanistiche non esprimeva «valori» diversi da quelli della società circostante, che consistevano nei pregiudizi più beceri. Il protagonista dell'aneddoto che segue era un romanziere e docente di letteratura di nome Walter Sullivan.
Quando racconto questa storia, cosa che faccio spesso, attribuisco a Sullivan un pesante accento del Sud per farlo sembrare ancor più orribile, ma di fatto parlava un normale inglese americano con una cadenza meridionale piuttosto piacevole. Ad ogni modo le sue parole furono, letteralmente, le seguenti: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il voto massimo, una A».
La grande probabilità di sentire a ogni evento sociale commenti di questo genere — che non solo non erano mai criticati, ma di solito erano largamente applauditi — spinse mio padre a scrivere che considerava il periodo passato a Nashville come «secondo solo al servizio militare nell'elenco delle esperienze che non vorrei mai ripetere».
Tutto questo accadde molto tempo fa, e ve ne do la prova. Nell'anno trascorso a Princeton, la famiglia Amis — tutti e sei noi — andò a fare una gita a New York per un giorno. Fu un evento gioioso e meraviglioso, e spendemmo tanto che ne parlammo, incredibilmente, per settimane, mesi, anni. Perché tra biglietti del treno, taxi e giri in traghetto, il lauto pranzo, la cena sontuosa, gli innumerevoli snack e merendine, gli Amis riuscirono a spendere non meno di 100 dollari.
Nel 1967, quando tornò in Gran Bretagna, mio padre scrisse una poesia piuttosto lunga su Nashville, che si conclude con questi versi: «Ma nel sud, nulla c'è né ci sarà / Per bianchi e neri nessun futuro / Nessuno. Non qui». La sua disperazione, a quanto pare, era eccessiva. Una delle tendenze demografiche più evidenti dell'America contemporanea è l'esodo delle famiglie nere dagli Stati del Nord a quelli del Sud. Ciononostante, quelli di noi che credono nell'uguaglianza civile sentono di aver bisogno di essere rassicurati. Mi riferisco ovviamente al caso dell'uccisione di Trayvon Martin. Lasciamo da parte, per ora, quel capolavoro di giurisprudenza che è lo «Stand Your Ground Act» (la legge sulla legittima difesa che oppone la parola di un assassino a quella della sua vittima che non potrà più replicare), e rispondete a questa domanda: è possibile, nel 2012, confessare di aver inseguito e ucciso un diciassettenne bianco non armato senza essere neanche arrestati? Tranquillizzatemi, ditemi di sì.
© Martin Amis, 2012
Corriere 10.6.12
Germania Anni 30 e baratro europeo: la lezione dimenticata da Berlino
Tedeschi ossessionati dall'iperinflazione. E ignorano la storia del XX secolo
di Niall Ferguson e Nouriel Roubini
Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?
Nutriamo seri timori che la scelta del governo tedesco di «fare troppo poco e troppo tardi» provochi il ripetersi della crisi della metà del XX secolo, che la nascita dell'integrazione europea aveva voluto scongiurare.
Appare sconcertante che proprio la Germania, di tutti i Paesi europei, abbia dimenticato la lezione della storia. Ossessionati dall'inesistente minaccia dell'inflazione, si direbbe che i tedeschi di oggi attribuiscano maggior importanza al 1923 (l'anno dell'iperinflazione) che al 1933 (l'anno che segnò la morte della democrazia). Farebbero meglio a ricordarsi come una crisi bancaria europea, due anni prima del 1933, contribuì direttamente allo smantellamento della democrazia, non soltanto nel loro Paese, ma da un capo all'altro dell'Europa.
Sono più di tre anni che lanciamo allarmi, invitando l'Europa continentale a fare ordine nei bilanci. Ma non è stato fatto quasi nulla. Nel frattempo, è da due anni che si assiste a una corsa agli sportelli delle banche alla periferia dell'eurozona: i finanziamenti transfrontalieri e interbancari vengono sostituiti da quelli della Bce; e i grossi investitori privati hanno già abbandonato le sponde della Grecia e le altre banche dell'area mediterranea.
Ma adesso il pubblico ha perso la fiducia e la corsa agli sportelli potrebbe prosciugare anche i piccoli depositi assicurati. Se la Grecia uscisse dall'unione monetaria, verrebbero congelati i depositi bancari per essere convertiti in nuove dracme: un euro in una banca greca non sarà più pari a un euro in una banca tedesca. Lo scorso mese i greci hanno ritirato più di 700 milioni di euro dalle loro banche.
Ancor più preoccupante è il fatto che un fenomeno simile si sia verificato anche presso alcune banche spagnole il mese scorso. Il goffo salvataggio di Bankia non ha fatto altro che rinfocolare le preoccupazioni degli spagnoli. Durante una recente visita a Barcellona, ci è stato chiesto con insistenza se era sicuro lasciare i propri risparmi in una banca spagnola. Questo genere di processo è potenzialmente esplosivo. Ciò che oggi appare una disinvolta passeggiata in banca potrebbe trasformarsi in uno scatto precipitoso verso l'uscita. La gente ragiona con la testa e si chiede: a chi tocca adesso?
Come abbiamo discusso nell'incontro del Nicolas Berggruen Institute una decina di giorni fa a Roma, la ricetta per uscire dalla crisi sembra ovvia.
Innanzitutto, occorre avviare un programma di ricapitalizzazione diretta — tramite azioni privilegiate senza diritto di voto — delle banche dell'eurozona, sia quelle centrali che quelle periferiche, ricorrendo all'Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) e al suo successore, l'Esm (Meccanismo europeo di stabilità).
Il sistema attuale per ricapitalizzare le banche con prestiti sovrani dai mercati obbligazionari nazionali — e/o l'Efsf — si è rivelato un disastro in Irlanda e in Grecia, facendo schizzare verso l'alto il debito pubblico, aggravando l'insolvenza del prestito sovrano e il rischio delle banche, per il crescente travaso del debito nelle loro mani.
Secondo, per evitare la corsa agli sportelli nelle banche europee — una certezza nel caso dell'uscita della Grecia e molto probabile comunque — occorre creare un sistema europeo di assicurazione dei depositi bancari.
Per ridurre il rischio morale (e il rischio ipotecario e creditizio che si accollano i contribuenti europei) sarà necessario introdurre misure addizionali.
Primo, il programma di assicurazione dei depositi deve essere finanziato da adeguati prelievi bancari: potrebbe trattarsi di una tassa di transazione o, meglio, di un prelievo su tutti i passivi bancari.
Secondo, è necessario impostare uno schema bancario grazie al quale i creditori non assicurati delle banche — sia junior sia senior — vengano penalizzati prima che si faccia ricorso ai soldi dei contribuenti per ripianare le perdite bancarie.
Terzo, occorre varare misure idonee a limitare le dimensioni delle banche, per evitare la sindrome del «troppo grande per fallire».
Quarto, occorre adottare un sistema europeo di vigilanza e regolamentazione comune a tutta l'area europea.
È anche vero che l'assicurazione sui depositi, a livello europeo, non potrà funzionare se persiste il rischio di estromissione di un Paese membro dall'eurozona. Sarebbe molto dispendioso garantire i depositi in euro, perché il Paese in uscita dovrebbe convertire tutti i fondi in euro nella nuova valuta nazionale, che si svaluterebbe rapidamente nei confronti dell'euro. D'altro canto, se l'assicurazione dei depositi è valida solo a condizione che il Paese in difficoltà resti comunque nell'eurozona, ciò non basterà a impedire la corsa agli sportelli. Occorre pertanto mettere in atto politiche adeguate per minimizzare il rischio di uscita.
Occorre accelerare l'introduzione di riforme strutturali atte a stimolare l'aumento di produttività. E la crescita dovrà ripartire con nuovi impulsi. Le politiche per raggiungere questo scopo comprendono l'intervento monetario della Bce, un euro più debole, stimoli fiscali al nocciolo dell'economia, riduzione della spesa e investimento nelle infrastrutture alla periferia (possibilmente con una «golden rule» per gli investimenti pubblici), e aumenti salariali in base alla produttività per sostenere il reddito e rilanciare i consumi.
E infine, vista l'insostenibilità di un elevato debito pubblico e di costosi interessi sui prestiti in alcuni Paesi membri, non vediamo alternative all'introduzione di qualche forma di mutualizzazione del debito.
Sono emerse di recente diverse proposte per gli eurobond. Tra di esse, è da preferire la proposta emanata dal Consiglio economico tedesco a favore di un European redemption fund (Erf) — non perché sia la soluzione ottimale, quanto piuttosto perché appare l'unica in grado di placare le preoccupazioni tedesche all'idea di accollarsi un rischio eccessivo.
L'Erf rappresenta uno strumento transitorio che non conduce all'emissione di eurobond permanenti, è sostenuto da adeguate garanzie collaterali ed è sottoposto a condizioni stringenti. Il rischio principale è che una simile proposta, se accettabile per la Germania, comporti tuttavia una perdita di sovranità in materia di politica fiscale nazionale da apparire improponibile per gli altri Paesi dell'eurozona, in particolare Italia e Spagna.
Se sarà inevitabile rinunciare a una fetta di sovranità, esiste tuttavia una differenza tra federalismo e «neocolonialismo» — nelle parole di un leader politico intervenuto all'incontro di Roma.
Finora la posizione tedesca si è dimostrata implacabilmente negativa su tutte queste proposte. Le preoccupazioni tedesche riguardo i pericoli dell'operazione sono tuttavia comprensibili: mettere a rischio i soldi dei contribuenti tedeschi sarà difficile da giustificare se non verranno introdotte riforme incisive nei Paesi periferici. Ma ci vorrà del tempo per renderle effettive. Ricordiamo che la riforma strutturale del mercato del lavoro tedesco non è stata realizzata dalla sera alla mattina, mentre invece l'attuale crisi bancaria europea rappresenta un rischio finanziario che potrebbe esplodere da un giorno all'altro.
La Germania dovrà capire che la ricapitalizzazione delle banche, l'assicurazione europea sui depositi e la mutualizzazione del debito non rappresentano più scelte facoltative, bensì i passi essenziali per evitare la disintegrazione irreversibile dell'Unione monetaria europea. Se non è ancora convinta, dovrà capire che il costo dello smantellamento dell'eurozona sarà di proporzioni astronomiche — per i tedeschi, come per tutti gli altri.
Dopo tutto, l'attuale prosperità economica della Germania deriva in larga misura dall'unione monetaria. L'euro ha dato all'esportazione tedesca un tasso di scambio molto più vantaggioso rispetto al vecchio marco. E il resto dell'eurozona rappresenta la destinazione finale del 42 percento delle esportazioni tedesche. Sprofondare metà di quel mercato in una nuova recessione non rappresenta certo una saggia decisione per la Germania.
In ultima analisi, come la cancelliera Merkel ha riconosciuto la settimana scorsa, l'unione monetaria da sempre lasciava presagire una più stretta integrazione verso l'unione fiscale e politica dei Paesi dell'area euro.
Ma ancor prima di intraprendere questo passo storico, l'Europa dovrà dimostrare di aver appreso gli insegnamenti del passato. L'Unione Europea è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta. Oggi è venuto il momento in cui tutti i Paesi europei — ma specialmente la Germania — devono rendersi conto di quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori.
(traduzione di Rita Baldassarre)
Corriere 10.6.12
Le ricette monetarie di Voltaire economista (e industriale) illuminato
di Armando Torno
Voltaire, ancora Voltaire. Ritorna improvvisamente d'attualità ed è citato sempre di più in questi tempi di crisi. Ora per il suo spirito critico, ora per la capacità unica di cogliere l'aria che tira. Il Financial Times l'8 giugno intitolava un commento «Lezioni di Voltaire, l'economista europeo illuminato». Addirittura Patrick Neiertz e Nicholas Cronk, gli autori dell'articolo, chiudevano scrivendo: «Voltaire, we miss you», ovvero: «Voltaire, ci manchi». Parole sante, anche se non stavano esaminandone la produzione letteraria. Perché sono scomparse figure di grande sintesi come la sua. Autorevole, temuto dai principi e venerato dai più semplici, anche se la Chiesa lo avrebbe volentieri arrostito. Del resto, Voltaire poteva parlare con Federico di Prussia stando seduto, scambiare lettere con la zarina Caterina II, offendersi perché Giuseppe II d'Austria, pur passando accanto alla sua dimora di Ferney, non gli rese omaggio. Era il filosofo che discuteva di economia, e magari di inflazione, ma anche il vero industriale capace di pensare. Dal suo soggiorno in Inghilterra capì il ruolo della classe media e imparò a non spaventarsi dinanzi al debito pubblico. Frasi come: «Incoraggiare l'industria»; o sentenze quali: «Qualsiasi Stato che prende soldi in prestito dal suo popolo non è più povero per questo» si trovano nelle sue opere e nelle innumerevoli lettere. Inducono ancora oggi a riflettere. Non era sprovveduto in alcuna materia. Basti anche un sommario elenco delle sue attività economiche per stupirci. Aveva ventisei poderi e fu il primo proprietario in Europa a concedere ai contadini anziché l'affitto il riscatto (Maria Teresa ne fu colpita e fece studiare questa mossa). Capì che occorreva diversificare gli investimenti. Non solo agricoltura e immobili quindi, ma concia, ceramica, mulini, persino orologi. Investì anche sulle navi negriere, che allora rendevano cifre simili a quelle che oggi guadagnano gli speculatori che collassano le borse. E poi i suoi introiti si sommavano alle rendite intellettuali. Caterina II di Russia, per fare un esempio, gli pagò consulenze stratosferiche; è comunque vero che Voltaire seppe consigliarle persino l'utilizzo di nuove innovazioni militari, soprattutto per debellare i turchi. Ma, al di là dell'imprenditore e del filosofo, del poeta e del drammaturgo, quel che manca completamente ai nostri giorni è la sua autorevolezza. L'economia ha bisogno di persone credibili, ché si intraprende spinti dalla fiducia più che dalle certezze. Certo, non mancano manipoli di bravi economisti: ma non riescono a essere amati dai contribuenti perché sembrano esprimere pensieri limitati. E ci sono infiniti filosofi: ma i più li tengono lontani dal cuore perché sanno bene che, se fossero posti alle leve del potere, causerebbero danni notevoli. Più grandi di quelli recati dagli economisti.
il Fatto 10.6.12
Carlo Galli
ia America, Divisa e Razzista
di Martin Amis
Lo scrittore inglese racconta il suo difficile rapporto con gli Usa. Sbarcò nel 1958, a 9 anni. Subito affascinato dal Nuovo Mondo, presto scoprì la segregazione. E ricorda ancora le parole di un professore: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il massimo dei voti»
Andai in America per la prima volta nel 1958. Avevo nove anni, e mi piacque talmente che vi restai quasi un anno. Prima di imbarcarci sulla Queen Elizabeth, io e mio fratello Philip (di dieci anni) prendemmo la saggia precauzione di cambiare i nostri nomi. Io feci una scelta piuttosto ovvia: negli States sarei stato Marty. Philip, più fantasioso, modificò uno dei suoi secondi nomi in Nick Junior — ignorando bellamente che non c'era un Nick Senior. Mi resi conto in seguito che sarebbe stato perfetto se avessi usato il mio secondo nome, Louis (i miei genitori erano ammiratori di Louis Armstrong). A ogni modo, quando il transatlantico si avvicinò alla scintillante immensità di New York, Nick Junior e Marty erano assolutamente pronti.
Venivamo da Swansea, nel Galles meridionale. Era una città di tale omogeneità etnica che giunsi all'età di rubacchiare gli spiccioli e fumare le prime sigarette prima di conoscere — o vedere — una persona con la pelle nera. Il mio battesimo del fuoco avvenne nel 1956, quando andai con mio padre a trovare un professore che veniva dalla Rhodesia (oggi Zimbabwe). Lungo la strada, mentre eravamo sul bus rosso a due piani, mio padre mi tenne con pazienza un discorsetto — che mi parve piuttosto ripetitivo — su quel che mi aspettava. «Ha la faccia nera», mi ripeteva. «È nero». Appena entrai nel piccolo appartamento scoppiai in lacrime. Senza trattenermi, dissi: «Hai la faccia nera!». «Certo», rispose il visiting professor, quando finì di ridere. «Sono nero!».
Nel 1958 anche mio padre era un visiting professor — era andato a insegnare scrittura creativa a Princeton. Quando iniziammo la scuola a Valley Road, Nick Junior si fece comprare da mia madre il suo primo paio di pantaloni lunghi, mentre Marty si trovò a essere l'unica persona dell'intera scuola ad avere i calzoni corti (oltre a un paio di sandali Clark e a flosce calze grigie). A Valley Road c'erano molti scolari neri, ma, se ricordo bene, nessun insegnante nero. A casa allacciai subito ottimi rapporti con la donna delle pulizie, May, che arrivava da Trenton due o tre volte alla settimana con la sua sensazionale Cadillac rosa.
In quarta elementare feci amicizia dapprima con Connie, poi con Marshal, poi con Dickie. In seguito un ragazzino nero che si chiamava Marty divenne il mio amico del cuore. Marty portava il suo nome con un certo stile (nel mio caso, Marty era tornato a essere Mart, come Nick Junior era tornato Phil). Un giorno, usando la tipica frase con cui i bambini britannici si invitano a casa, dissi a Marty:
«Vuoi venire da me per il tè?».
«Mmm, preferisco il caffè».
«Voglio dire per la merenda con il tè, i pasticcini e le brioche. Tu puoi bere il caffè».
«No. Non piacerei a tua mamma».
«Perché?».
«Perché sono nero».
«Mia madre non ci farebbe neanche caso».
Marty venne a prendere il tè, e fu un successo, pensai. Poi andai a casa di Marty. Viveva nel quartiere nero di Princeton (che ora mi sembra sia in gran parte ispanico). Mentre mangiavo il pasto serale con la grande famiglia di Marty, e giocavo a basket nel vicolo sul retro con i suoi fratelli e i suoi amici, mi resi conto di essere bianco con un'intensità fisica che non dimenticherò mai. L'unico ragazzino della scuola con i pantaloni corti: considerate la vergogna di quell'esperienza e moltiplicatela per mille. Ora si trattava della mia pelle. Per tre ore fui preda di un attacco di imbarazzo così violento che temetti di svenire. In seguito mi chiesi se anche Marty avesse provato la stessa cosa a casa mia. Era così che si sentiva in Main Street?
Nel 1967 mio padre accettò un altro incarico di insegnamento in America, alla «Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee», come riportano le sue memorie, «un'istituzione conosciuta — suppongo senza che molti lo trovino ironico — come l'Atene del Sud». Princeton aveva iniziato ad accettare studenti neri a metà degli anni Quaranta. Due decenni più tardi, mio padre chiese se ci fossero studenti «di colore» a Vanderbilt. «Certo», gli risposero senza scomporsi. «Si chiama Mr. Moore». Il corpo insegnante delle facoltà umanistiche non esprimeva «valori» diversi da quelli della società circostante, che consistevano nei pregiudizi più beceri. Il protagonista dell'aneddoto che segue era un romanziere e docente di letteratura di nome Walter Sullivan.
Quando racconto questa storia, cosa che faccio spesso, attribuisco a Sullivan un pesante accento del Sud per farlo sembrare ancor più orribile, ma di fatto parlava un normale inglese americano con una cadenza meridionale piuttosto piacevole. Ad ogni modo le sue parole furono, letteralmente, le seguenti: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il voto massimo, una A».
La grande probabilità di sentire a ogni evento sociale commenti di questo genere — che non solo non erano mai criticati, ma di solito erano largamente applauditi — spinse mio padre a scrivere che considerava il periodo passato a Nashville come «secondo solo al servizio militare nell'elenco delle esperienze che non vorrei mai ripetere».
Tutto questo accadde molto tempo fa, e ve ne do la prova. Nell'anno trascorso a Princeton, la famiglia Amis — tutti e sei noi — andò a fare una gita a New York per un giorno. Fu un evento gioioso e meraviglioso, e spendemmo tanto che ne parlammo, incredibilmente, per settimane, mesi, anni. Perché tra biglietti del treno, taxi e giri in traghetto, il lauto pranzo, la cena sontuosa, gli innumerevoli snack e merendine, gli Amis riuscirono a spendere non meno di 100 dollari.
Nel 1967, quando tornò in Gran Bretagna, mio padre scrisse una poesia piuttosto lunga su Nashville, che si conclude con questi versi: «Ma nel sud, nulla c'è né ci sarà / Per bianchi e neri nessun futuro / Nessuno. Non qui». La sua disperazione, a quanto pare, era eccessiva. Una delle tendenze demografiche più evidenti dell'America contemporanea è l'esodo delle famiglie nere dagli Stati del Nord a quelli del Sud. Ciononostante, quelli di noi che credono nell'uguaglianza civile sentono di aver bisogno di essere rassicurati. Mi riferisco ovviamente al caso dell'uccisione di Trayvon Martin. Lasciamo da parte, per ora, quel capolavoro di giurisprudenza che è lo «Stand Your Ground Act» (la legge sulla legittima difesa che oppone la parola di un assassino a quella della sua vittima che non potrà più replicare), e rispondete a questa domanda: è possibile, nel 2012, confessare di aver inseguito e ucciso un diciassettenne bianco non armato senza essere neanche arrestati? Tranquillizzatemi, ditemi di sì.
© Martin Amis, 2012
Corriere 10.6.12
Germania Anni 30 e baratro europeo: la lezione dimenticata da Berlino
Tedeschi ossessionati dall'iperinflazione. E ignorano la storia del XX secolo
di Niall Ferguson e Nouriel Roubini
Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?
Nutriamo seri timori che la scelta del governo tedesco di «fare troppo poco e troppo tardi» provochi il ripetersi della crisi della metà del XX secolo, che la nascita dell'integrazione europea aveva voluto scongiurare.
Appare sconcertante che proprio la Germania, di tutti i Paesi europei, abbia dimenticato la lezione della storia. Ossessionati dall'inesistente minaccia dell'inflazione, si direbbe che i tedeschi di oggi attribuiscano maggior importanza al 1923 (l'anno dell'iperinflazione) che al 1933 (l'anno che segnò la morte della democrazia). Farebbero meglio a ricordarsi come una crisi bancaria europea, due anni prima del 1933, contribuì direttamente allo smantellamento della democrazia, non soltanto nel loro Paese, ma da un capo all'altro dell'Europa.
Sono più di tre anni che lanciamo allarmi, invitando l'Europa continentale a fare ordine nei bilanci. Ma non è stato fatto quasi nulla. Nel frattempo, è da due anni che si assiste a una corsa agli sportelli delle banche alla periferia dell'eurozona: i finanziamenti transfrontalieri e interbancari vengono sostituiti da quelli della Bce; e i grossi investitori privati hanno già abbandonato le sponde della Grecia e le altre banche dell'area mediterranea.
Ma adesso il pubblico ha perso la fiducia e la corsa agli sportelli potrebbe prosciugare anche i piccoli depositi assicurati. Se la Grecia uscisse dall'unione monetaria, verrebbero congelati i depositi bancari per essere convertiti in nuove dracme: un euro in una banca greca non sarà più pari a un euro in una banca tedesca. Lo scorso mese i greci hanno ritirato più di 700 milioni di euro dalle loro banche.
Ancor più preoccupante è il fatto che un fenomeno simile si sia verificato anche presso alcune banche spagnole il mese scorso. Il goffo salvataggio di Bankia non ha fatto altro che rinfocolare le preoccupazioni degli spagnoli. Durante una recente visita a Barcellona, ci è stato chiesto con insistenza se era sicuro lasciare i propri risparmi in una banca spagnola. Questo genere di processo è potenzialmente esplosivo. Ciò che oggi appare una disinvolta passeggiata in banca potrebbe trasformarsi in uno scatto precipitoso verso l'uscita. La gente ragiona con la testa e si chiede: a chi tocca adesso?
Come abbiamo discusso nell'incontro del Nicolas Berggruen Institute una decina di giorni fa a Roma, la ricetta per uscire dalla crisi sembra ovvia.
Innanzitutto, occorre avviare un programma di ricapitalizzazione diretta — tramite azioni privilegiate senza diritto di voto — delle banche dell'eurozona, sia quelle centrali che quelle periferiche, ricorrendo all'Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) e al suo successore, l'Esm (Meccanismo europeo di stabilità).
Il sistema attuale per ricapitalizzare le banche con prestiti sovrani dai mercati obbligazionari nazionali — e/o l'Efsf — si è rivelato un disastro in Irlanda e in Grecia, facendo schizzare verso l'alto il debito pubblico, aggravando l'insolvenza del prestito sovrano e il rischio delle banche, per il crescente travaso del debito nelle loro mani.
Secondo, per evitare la corsa agli sportelli nelle banche europee — una certezza nel caso dell'uscita della Grecia e molto probabile comunque — occorre creare un sistema europeo di assicurazione dei depositi bancari.
Per ridurre il rischio morale (e il rischio ipotecario e creditizio che si accollano i contribuenti europei) sarà necessario introdurre misure addizionali.
Primo, il programma di assicurazione dei depositi deve essere finanziato da adeguati prelievi bancari: potrebbe trattarsi di una tassa di transazione o, meglio, di un prelievo su tutti i passivi bancari.
Secondo, è necessario impostare uno schema bancario grazie al quale i creditori non assicurati delle banche — sia junior sia senior — vengano penalizzati prima che si faccia ricorso ai soldi dei contribuenti per ripianare le perdite bancarie.
Terzo, occorre varare misure idonee a limitare le dimensioni delle banche, per evitare la sindrome del «troppo grande per fallire».
Quarto, occorre adottare un sistema europeo di vigilanza e regolamentazione comune a tutta l'area europea.
È anche vero che l'assicurazione sui depositi, a livello europeo, non potrà funzionare se persiste il rischio di estromissione di un Paese membro dall'eurozona. Sarebbe molto dispendioso garantire i depositi in euro, perché il Paese in uscita dovrebbe convertire tutti i fondi in euro nella nuova valuta nazionale, che si svaluterebbe rapidamente nei confronti dell'euro. D'altro canto, se l'assicurazione dei depositi è valida solo a condizione che il Paese in difficoltà resti comunque nell'eurozona, ciò non basterà a impedire la corsa agli sportelli. Occorre pertanto mettere in atto politiche adeguate per minimizzare il rischio di uscita.
Occorre accelerare l'introduzione di riforme strutturali atte a stimolare l'aumento di produttività. E la crescita dovrà ripartire con nuovi impulsi. Le politiche per raggiungere questo scopo comprendono l'intervento monetario della Bce, un euro più debole, stimoli fiscali al nocciolo dell'economia, riduzione della spesa e investimento nelle infrastrutture alla periferia (possibilmente con una «golden rule» per gli investimenti pubblici), e aumenti salariali in base alla produttività per sostenere il reddito e rilanciare i consumi.
E infine, vista l'insostenibilità di un elevato debito pubblico e di costosi interessi sui prestiti in alcuni Paesi membri, non vediamo alternative all'introduzione di qualche forma di mutualizzazione del debito.
Sono emerse di recente diverse proposte per gli eurobond. Tra di esse, è da preferire la proposta emanata dal Consiglio economico tedesco a favore di un European redemption fund (Erf) — non perché sia la soluzione ottimale, quanto piuttosto perché appare l'unica in grado di placare le preoccupazioni tedesche all'idea di accollarsi un rischio eccessivo.
L'Erf rappresenta uno strumento transitorio che non conduce all'emissione di eurobond permanenti, è sostenuto da adeguate garanzie collaterali ed è sottoposto a condizioni stringenti. Il rischio principale è che una simile proposta, se accettabile per la Germania, comporti tuttavia una perdita di sovranità in materia di politica fiscale nazionale da apparire improponibile per gli altri Paesi dell'eurozona, in particolare Italia e Spagna.
Se sarà inevitabile rinunciare a una fetta di sovranità, esiste tuttavia una differenza tra federalismo e «neocolonialismo» — nelle parole di un leader politico intervenuto all'incontro di Roma.
Finora la posizione tedesca si è dimostrata implacabilmente negativa su tutte queste proposte. Le preoccupazioni tedesche riguardo i pericoli dell'operazione sono tuttavia comprensibili: mettere a rischio i soldi dei contribuenti tedeschi sarà difficile da giustificare se non verranno introdotte riforme incisive nei Paesi periferici. Ma ci vorrà del tempo per renderle effettive. Ricordiamo che la riforma strutturale del mercato del lavoro tedesco non è stata realizzata dalla sera alla mattina, mentre invece l'attuale crisi bancaria europea rappresenta un rischio finanziario che potrebbe esplodere da un giorno all'altro.
La Germania dovrà capire che la ricapitalizzazione delle banche, l'assicurazione europea sui depositi e la mutualizzazione del debito non rappresentano più scelte facoltative, bensì i passi essenziali per evitare la disintegrazione irreversibile dell'Unione monetaria europea. Se non è ancora convinta, dovrà capire che il costo dello smantellamento dell'eurozona sarà di proporzioni astronomiche — per i tedeschi, come per tutti gli altri.
Dopo tutto, l'attuale prosperità economica della Germania deriva in larga misura dall'unione monetaria. L'euro ha dato all'esportazione tedesca un tasso di scambio molto più vantaggioso rispetto al vecchio marco. E il resto dell'eurozona rappresenta la destinazione finale del 42 percento delle esportazioni tedesche. Sprofondare metà di quel mercato in una nuova recessione non rappresenta certo una saggia decisione per la Germania.
In ultima analisi, come la cancelliera Merkel ha riconosciuto la settimana scorsa, l'unione monetaria da sempre lasciava presagire una più stretta integrazione verso l'unione fiscale e politica dei Paesi dell'area euro.
Ma ancor prima di intraprendere questo passo storico, l'Europa dovrà dimostrare di aver appreso gli insegnamenti del passato. L'Unione Europea è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta. Oggi è venuto il momento in cui tutti i Paesi europei — ma specialmente la Germania — devono rendersi conto di quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori.
(traduzione di Rita Baldassarre)
Corriere 10.6.12
Le ricette monetarie di Voltaire economista (e industriale) illuminato
di Armando Torno
Voltaire, ancora Voltaire. Ritorna improvvisamente d'attualità ed è citato sempre di più in questi tempi di crisi. Ora per il suo spirito critico, ora per la capacità unica di cogliere l'aria che tira. Il Financial Times l'8 giugno intitolava un commento «Lezioni di Voltaire, l'economista europeo illuminato». Addirittura Patrick Neiertz e Nicholas Cronk, gli autori dell'articolo, chiudevano scrivendo: «Voltaire, we miss you», ovvero: «Voltaire, ci manchi». Parole sante, anche se non stavano esaminandone la produzione letteraria. Perché sono scomparse figure di grande sintesi come la sua. Autorevole, temuto dai principi e venerato dai più semplici, anche se la Chiesa lo avrebbe volentieri arrostito. Del resto, Voltaire poteva parlare con Federico di Prussia stando seduto, scambiare lettere con la zarina Caterina II, offendersi perché Giuseppe II d'Austria, pur passando accanto alla sua dimora di Ferney, non gli rese omaggio. Era il filosofo che discuteva di economia, e magari di inflazione, ma anche il vero industriale capace di pensare. Dal suo soggiorno in Inghilterra capì il ruolo della classe media e imparò a non spaventarsi dinanzi al debito pubblico. Frasi come: «Incoraggiare l'industria»; o sentenze quali: «Qualsiasi Stato che prende soldi in prestito dal suo popolo non è più povero per questo» si trovano nelle sue opere e nelle innumerevoli lettere. Inducono ancora oggi a riflettere. Non era sprovveduto in alcuna materia. Basti anche un sommario elenco delle sue attività economiche per stupirci. Aveva ventisei poderi e fu il primo proprietario in Europa a concedere ai contadini anziché l'affitto il riscatto (Maria Teresa ne fu colpita e fece studiare questa mossa). Capì che occorreva diversificare gli investimenti. Non solo agricoltura e immobili quindi, ma concia, ceramica, mulini, persino orologi. Investì anche sulle navi negriere, che allora rendevano cifre simili a quelle che oggi guadagnano gli speculatori che collassano le borse. E poi i suoi introiti si sommavano alle rendite intellettuali. Caterina II di Russia, per fare un esempio, gli pagò consulenze stratosferiche; è comunque vero che Voltaire seppe consigliarle persino l'utilizzo di nuove innovazioni militari, soprattutto per debellare i turchi. Ma, al di là dell'imprenditore e del filosofo, del poeta e del drammaturgo, quel che manca completamente ai nostri giorni è la sua autorevolezza. L'economia ha bisogno di persone credibili, ché si intraprende spinti dalla fiducia più che dalle certezze. Certo, non mancano manipoli di bravi economisti: ma non riescono a essere amati dai contribuenti perché sembrano esprimere pensieri limitati. E ci sono infiniti filosofi: ma i più li tengono lontani dal cuore perché sanno bene che, se fossero posti alle leve del potere, causerebbero danni notevoli. Più grandi di quelli recati dagli economisti.
il Fatto 10.6.12
Carlo Galli
L’ora delle élite riluttanti
di Furio Colombo
Una nuova febbrile apatia” attraversa l'Italia. La frase bella e poetica riassume, a pagina 109, il senso del libro I riluttanti di Carlo Galli, appena pubblicato da Laterza. I riluttanti, secondo Galli, sono coloro che potrebbero dare e non danno, che potrebbero partecipare e si astengono, che hanno gli strumenti o la conoscenza per fare e non fanno. Al momento cruciale si tirano indietro e fanno sapere che non sono disponibili. In questo modo l’autore del saggio dà un volto alla zona grigia di cui si è molto parlato e capito poco.
IL PERCORSO di indagine parte da Machiavelli, che rimprovera i principi italiani di badare all'immagine, restando alla larga dall’attraversare la linea della responsabilità, chiama a testimone Petrarca, che vede in questa assenza una mancanza di virtù morale, ascolta Manzoni che in Adelchi denuncia “una élite votata alla ripetizione coatta della violenza”. E cita Leopardi quando constata che l'Italia ha “le classi dirigenti più ciniche di ogni altra regione”. Ecco, dunque, il pezzo mancante di un gioco che sembra consistere sempre nello scontro fra due estremismi, quello di un residuo potere e quello di una residua opposizione. Essere riluttante è un’opzione di élite. Non esiste un operaio riluttante, ma può esserlo il suo capo-azienda quando sta bene attento a restare allineato e coperto su ciò che “le giuste fonti” fanno sapere e vogliono che si dica sul lavoro come costo e come ingombro. Il riluttante ha un suo modo accorto di astenersi: lo fa con l'adesione immediata (forte istinto e buona informazione) alla decisione “giusta”. Il riluttante non è un solitario che vaga fuori dal “quadrato” in cui sono accampate le forze che contano. Il riluttante è dentro il campo e non riuscirai a farlo uscire a nessuna condizione, tanto più ostinato nel rifiutare di fare un passo diverso dal percorso segnato, quanto più è deciso a contare senza decidere. Altrimenti, ad esempio, come avrebbero fatto le “forze politiche” presenti in Parlamento a ottenere il voto massiccio che hanno ottenuto per nominare e votare persone senza rapporto con la realtà nelle “Autorità indipendenti” delle Comunicazioni e della Privacy, che sono diventate in tal modo totalmente dipendenti, visto che persino le mogli hanno trovato posto nelle altissime posizioni in questione? Forse, con la mia interpretazione, mi sto scostando dal rigoroso saggio di Carlo Galli che ho citato e che è destinato a diventare un breviario sul ceto dirigente italiano dei nostri giorni. Forse mi sto scostando quando dico che “il riluttante” il più delle volte è un militante, e che “apatia” significa totale disinteresse per l'opinione pubblica o anche solo il buon senso e il rifiuto (riluttanza) a uscire dalle fila, ad assumersi una responsabilità personale e aperta. Tutto ciò avviene con tale continuità e costanza, ed enormità di eventi, da spingere i cittadini alla rivolta. Ma il riluttante persevera. E i partiti credono di potersi valere di una buona scorta di riluttanti (i sinonimi sono ovviamente “conformista”, “opportunista”, “carrierista”) che esibiscono come prova di compattezza. Diventa più facile, adesso, capire il furore così diffuso, fino a poco fa, fra le classi dirigenti (soprattutto dei partiti e soprattutto a sinistra) per il fenomeno detto “antiberlusconismo”, visto come una intollerabile manifestazione di estremismo. Infatti turbava soprattutto la “apatia febbrile” dei militanti (dove militante significa ordinato partecipante a strategie sconosciute decise da altri che il più delle volte sono in contatto con altri ancora, e tengono conto di fatti e pericoli e convenienze che tu e io non conosciamo). Gli antiberlusconiani, i girotondini, i popoli viola, gli autoconvocati di ogni tipo che hanno a lungo riempito le piazze italiane ancora e ancora, dal Palavobis di Milano a Piazza Navona in Roma, prima di indignarsi, erano da respingere in quanto intransigenti. Nella vita politica dei riluttanti l’intransigenza è infatti intollerabile perchè interrompe il gioco della riluttanza militante. E per questo, per farne sentire il suono anarchico e stridente, l’antiberlusconismo veniva chiamato “estremismo”. E si evocava drammaticamente il pericolo di “dire sempre no”, il che implicava la necessità di trovare consonanze e accordi, e recava i una tabella di cose da fare, inevitabilmente, “insieme”. Per esempio approvare, assieme al ministro della Gioventù, una sua legge sulla eleggibilità attiva e passiva al Senato dei giovani di 18 anni, come se fosse una cosa utile e sensata in quel quadro politico, come se non fosse la legittimazione pubblica di un ministero totalmente inutile e truffaldino, visto lo stato di abbandono dei giovani.
MA IL CODICE del riluttante è già scritto molto prima della sua presunta militanza. È il misterioso talismano della “moderazione” ovvero una ideale “dose giusta” che mette in guardia da pericolosi e impetuosi abbracci di impegni o ideali, in situazioni imprudenti che possano intaccare la tua reputazione di moderato, indispensabile per i possibili incarichi di domani. Per questo scrive Corrado Staiano (Corriere della Sera, 7 giugno): “Per farcela a superare i momenti gravi della vita, anche della vita di una comunità, è indispensabile la passione. È stata ben presente in alcuni momenti della Storia nazionale”. E oggi? Stajano li conosce, li vede, li sente. Passano i riluttanti.
Il Fatto 10.6.12
Amnesie presidenziali
di Angelo d’Orsi
Nel dialogo con il dissidente Adam Michnik apparso ieri su Repubblica, Giorgio Napolitano rivisita il passato del partito che fu il suo e di milioni di italiani e giudica severamente le scelte del Pci, in particolare in relazione al 1956, l’anno spartiacque, come è stato chiamato. Fu drammatico, quell’anno, per la concomitanza tra le “rivelazioni” di Kruscev al XX Congresso del Pcus, le sommosse in Polonia, la sanguinosa repressione dei moti d’Ungheria da parte delle truppe sovietiche. In Italia, sede del maggior Partito comunista d’Occidente, i contraccolpi provocarono lacerazioni interne al partito, rotture a sinistra, con il Psi di Nenni e la fine dell’idillio tra intellettuali e Pci che, a partire dalla pubblicazione delle opere di Gramsci era stato intenso, avviando la cosiddetta egemonia culturale della sinistra.
MA NEL ’56 il Partito, pur con aspre crisi interne, rimase ancorato all’Unione Sovietica, giustificando l’invasione dell’Ungheria: fu una scelta all’insegna del realismo politico che oggi Napolitano giudica “un tragico errore”. Togliatti era uomo troppo intelligente per non accorgersi che i moti ungheresi non erano tutti fomentati dalle “potenze imperialistiche”: eppure il timore di “fare un favore all’imperialismo” era troppo forte e i tempi non gli parvero maturi per consentire al partito italiano una piena autonomia rispetto a Mosca. Certo, tutto ciò avvenne non senza contrasti interni alla Direzione del partito (si ricorda in particolare il gesto di rottura di Giuseppe Di Vittorio), e soprattutto le fibrillazioni di molti intellettuali che firmarono il famoso Manifesto dei 101, in cui si smarcavano dall’Unità che aveva salutato entusiasta l’ingresso dell’Armata Rossa a Budapest, (salvo poi, nell’arco di poche ore, sotto le pressioni dei dirigenti, ritrattare). Un illuminante scambio di lettere fra Togliatti e Giulio Einaudi (l’editore che stava pubblicando Gramsci) ci mostra il contrasto fra la posizione privata (anche Togliatti giudicava negativamente l’intervento sovietico) e quella pubblica: “Si sta con la propria parte anche quando essa sbaglia”.
OGGI NAPOLITANO parla, a ragione, del rapporto con l’Urss come di “una prigione”; ma forse dimentica il contesto storico in cui quel rapporto fra disuguali si dispiegò: la Guerra fredda, il maccartismo negli Usa, i Comitati civici, lo strapotere democristiano e la Celere in Italia. Il presidente non indulge alle grottesche sentenze di tanti ex che non soltanto rinnegano il proprio passato, ma gettano fra le nefandezze della storia la vicenda dell’intero movimento comunista, si esprime sobriamente nella sua rivisitazione critica di quel passato. Nel ’56 egli non ebbe certo la forza o la volontà di differenziarsi dalla linea togliattiana, la quale stava in realtà cambiando proprio in relazione agli eventi di quell’anno.
Tuttavia Napolitano faceva parte del Comitato centrale e nell’VIII Congresso del Pci che chiuse l’anno, pare abbia redarguito Antonio Giolitti che era invece stato critico, vantando la democrazia interna al partito, che aveva appunto consentito posizioni come quella giolittiana. Togliatti, dal canto suo, rivendicò l’importanza del rapporto con l’Urss, ma sottolineò con forza che non c’era (più) “né Stato guida, né partito guida”. La guida “sono i nostri princìpi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano... i doveri della solidarietà internazionale”. E invitò il partito a seguire, “nella nostra marcia verso il socialismo, una via italiana”.
Fu in fondo anche grazie a quel “tragico errore” che il Pci intraprese una strada diversa, che lo condusse nelle istituzioni e, con Giorgio Napolitano, al loro vertice.
Repubblica 10.6.12
La logica di Port-Royal quella sfida creativa per costruire un’opera
di Piergiorgio Odifreddi
Fu pubblicata, come sintesi di un metodo, da Arnauld e Nicole E diventò, dal Seicento, il testo base delle scuole gianseniste Se c’era un luogo, nel Seicento, dove la logica sicuramente non stava di casa, e anzi sembrava essere stata rigorosamente e ufficialmente bandita, quello era il monastero di Port-Royal. A confermarlo basterebbero le vicende personali e le opere letterarie legate al nome di Pascal, che di quel luogo fu il più noto frequentatore, e il più illustre fiancheggiatore. È dunque singolare che, nel campo scientifico, il monastero sia passato alla storia per quella che viene comunemente chiamata la Logica di Port-Royal, anche se in origine si intitolava La logica, o l’arte di pensare. La pubblicarono anonima nel 1662, esattamente trecentocinquant’anni fa, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, due degli intellettuali più in vista del convento. E rappresenta una sorta di lavoro “collettivo” che servì alle generazioni future. Tanto Arnauld era focoso e impulsivo (nel 1643 aveva scritto il primo pamphlet giansenista, La comunione frequentefatto di serrate dimostrazioni logiche in stile quasi matematico) quanto Nicole era pacato e riflessivo. Del giansenismo, pensava che fosse un’eresia immaginaria, su cui si era fatto troppo rumore per nulla. Tornando alla Logica di Port-Royal, le storie personali dei loro autori lasciano prevedere che il suo stile sia un po’ pretesco, ma il suo approccio non è scolastico. Anzi, nelle intenzioni teoriche, l’opera si schiera dalla parte dei moderni. Anche se, nello sviluppo pratico, si tiene alla larga dall’induzione, e dunque dal metodo scientifico e sperimentale, concentrandosi completamente sulla deduzione, e in particolare sul metodo geometrico e cartesiano. L’influsso di Cartesio è evidente, nel bene e nel male. Il bene, sta nell’aver capito che i sillogismi erano solo una parte della logica: la più arida, sterile e scolastica. Il male, nell’aver sottovalutato l’importanza e la fecondità del formalismo, a favore dell’intuizione e delle “idee chiare e distinte”. La Logica di Port-Royal si situa dunque a metà del guado che dalla logica filosofica di Aristotele condurrà a quella matematica di Leibniz, Boole, Frege e Russell. Ispirandosi alle anticipazioni di Pascal, e dei suoi due misconosciuti trattati Lo spirito geometrico e L’arte di persuadere, Arnauld e Nicole enunciano otto regole metodologiche, che mantengono ancor oggi inalterato il loro valore. Esse mostrano come il metodo logico consista nel «definire chiaramente i termini di cui ci si deve servire, postulare assiomi evidenti per provare le affermazioni, e sostituire mentalmente nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei termini definiti». Come già il titolo originario lasciava presagire, lo scopo della Logica di Port-Royalè ambizioso: si propone infatti di studiare non le regole della grammatica, o gli stratagemmi della dialettica, ma nientemeno che Le leggi del pensiero. Si tratta, cioè, dello stesso programma che intraprenderà George Boole nel 1854, fin dal titolo del suo omonimo capolavoro, ma con un approccio algebrico che gli permetterà di aprire le porte alla logica moderna. Arnauld e Nicole si fermarono fuori della soglia, invece, e nelle quattro parti della loro opera si limitarono a discutere le «quattro operazioni principali dello spirito: concepire, giudicare, ragionare e ordinare». Più che forzare a rigorose dimostrazioni di tipo algebrico o geometrico, le loro ricette permettevano dunque ancora di cucinare pseudodimostrazioni filosofiche: come quelle scodellate da Spinoza nella sua Ethica, che rimase « ordine geometrico demonstrata » solo nelle pie intenzioni dell’autore. Un elemento di vera novità, comunque, la Logica di Port-Royal riuscì a introdurlo, ed è la distinzione fra le “intensioni” e le “estensioni” dei concetti: cioè, fra comeessi sono enunciati, e ciò che essi esprimono. Si tratta della stessa distinzione fra “senso” e “significato” che Gottlob Frege riprenderà nel 1892, nel suo omonimo e classico articolo Senso e denotazione. Effettivamente, Port-Royal era il luogo più adatto per scoprire questa distinzione. Infatti, il monastero fu l’epicentro di un’interminabile disputa sulla grazia che non aveva nessun significato oggettivo, benché avesse molto senso soggettivo per i gesuiti e i giansenisti. Essa generò innumerevoli discussioni, piene forse di buone intenzioni, e certo di cattive “intensioni”, ma tutte prive di qualunque “estensione”. Era anche per educare a queste vuote dispute, oltre che per divertire il giovane duca di Chevreuse, che la Logica di Port-Royal fu scritta. Essa venne adottata come testo nelle “piccole scuole” gianseniste, che costituirono comunque un interessante esperimento d’avanguardia educativa. Le classi erano ridotte a una mezza dozzina di studenti, l’emulazione fra di essi era bandita, il silenzio veniva privilegiato al gioco, gli indisciplinati erano espulsi senza punizioni e il ragionamento era esaltato. Il fatto che, dopo tre secoli e mezzo, queste proposte allora avveniristiche suonino oggi anacronistiche, la dice lunga sulla direzione in cui sono rotolate l’educazione e la scuola, dalle vette di Pascal a oggi.
Corriere La Lettura 10.6.12
Elogio della ragion politica
Il bisogno d'essere governati è reale, non emotivo o irrazionale
Solo il coraggio di cambiare forma e volti
può (e quindi deve) rinnovare i partiti
di Francesco Piccolo
Qualche sera fa guardavo un dibattito politico in tv. O almeno, così era stato presentato. I contendenti stavano parlando da più di mezz'ora degli stipendi dei parlamentari. Cioè, di quanto guadagnavano, di quanto avevano dichiarato al Fisco; se era tanto, se era troppo, quanto avrebbero dovuto guadagnare, quanto avevano guadagnato altri. Guardavo molto annoiato. Non era la prima volta. E mi sono chiesto: ma la politica, ora, è questo? Cioè, più precisamente: ma cosa mi interessa sapere di un politico, quanto guadagna, oppure cosa fa di concreto in Parlamento o come sindaco di una città? Ero convinto — sono ancora convinto — che la politica riguardi di più, molto di più, la seconda questione.
Però, accanto alla politica concreta, come effetto collaterale non trascurabile, c'è la questione morale: come ci si comporta, quanto si guadagna, se si ha un conflitto d'interessi. In ogni carriera politica, questo aspetto è importante, bisogna porvi attenzione: ma soltanto in seconda battuta, quando si è apprezzata la concretezza del fare politica. Il moralismo potrebbe essere una formula matematica: la questione morale meno la politica reale. Se la questione morale prende il sopravvento su tutto, ecco che si diventa moralisti.
Perché si è arrivati a questo punto? Senz'altro, la prima risposta istintiva e anche sensata, è quella che diamo tutti: perché la politica in questi anni, i partiti e il sistema, è stata deludente, insufficiente e spesso corrotta.
Il dilemma a questo punto è: bisogna buttare via tutto quello che c'è?
La politica dovrebbe avere più o meno questa funzione in una società: ascoltare la gente, e riformulare in proposte, e poi in leggi, i desideri e le istanze. Perfino le insofferenze e gli sfoghi. Il rapporto degli italiani con la politica è da sempre profondamente emotivo, irrazionale. Si esprime rabbia, estremismo, si ha voglia che tutti vadano a zappare la terra. Se si chiede a un passante che cosa vorrebbe succedesse ai politici, spesso risponde: che vadano tutti in galera. O, se è particolarmente buono: che vadano tutti a casa.
Queste frasi raccontano la temperatura di un Paese. Poi ci sono altre richieste più o meno folli, poi altre più o meno sensate. Ma sempre un discorso politico fatto per strada ha un'emotività fortissima, una irrazionalità più o meno comprensibile. Che cosa fa allora di solito la politica, buona o cattiva che sia? Cerca di interpretare gli umori, soprattutto quelli emotivi e irrazionali, e incanalarli in una ragionevolezza, in una strategia. Da qui (certo, per semplificare) nascono i programmi politici, i progetti economici e culturali, la lotta all'evasione fiscale o l'organizzazione della società. La politica è — dovrebbe essere — la parte pacata e riflessiva del Paese, che però tende l'orecchio ai tumulti emotivi della sua gente. La democrazia consiste nell'incanalamento razionale dell'irrazionalità.
Non sta accadendo questo. Da molto tempo, ma in questi ultimi mesi in modo ancora più netto, visibile.
Se la democrazia è un canale razionale per le richieste anche irrazionali, il populismo consiste nel rinvigorire con intenzione quell'emotività, attraverso altra emotività. La democrazia consiste, per chi è addetto al fuoco, nel tenerlo a bada: cioè, tenere il fuoco sempre acceso ma basso, in modo che serva, ma non faccia danni; il populismo consiste nel soffiare di continuo su quel fuoco. Come si soffia sul fuoco? Si accusa il mondo politico di avere in dispregio la Costituzione e la democrazia, e poi si sostiene con disinvoltura che un presidente della Repubblica debba firmare o non firmare le leggi proposte a seconda di motivazioni politiche (e non può farlo); si dice con altrettanta disinvoltura che un presidente del Consiglio non è legittimato a governare se non si è sottoposto a una prova elettorale (ed è assolutamente legittimato). Queste affermazioni alimentano l'indignazione e la rabbia, perché lavorano sul desiderio di migliorare il mondo, programma vastissimo della gente perbene. Ma non usano il linguaggio della politica.
La politica è razionalità. L'irrazionalità allora si può definire, a ragione, antipolitica. Se uno come Beppe Grillo porta la gente in piazza per gridare vaffanculo a tutti, se urla che destra e sinistra sono uguali e che tutti devono andare a casa e il presidente della Repubblica con loro, non si può dire che lavori sulla razionalità, ma decisamente sulla emotività. E trova terreno fertile. È come se la nazionale di calcio avesse come commissario tecnico uno più facinoroso di quelli che discutono al bar. Il risultato sarebbe che finalmente vedremmo quella squadra che si vagheggia nelle discussioni tra avventori, con quattro punte e tre fantasisti. E forse ci divertiremmo anche un po'. Ma dubito che funzionerebbe.
E allora, l'antipolitica è da considerare la rivoluzione che sta arrivando? In poche parole, l'atmosfera dentro la quale siamo porterà a qualcosa di buono? Grillo e il Movimento 5 stelle sono una novità assoluta?
È una questione importante e seria, la presenza di un nuovo movimento e i consensi che ha e che avrà. Ma arriva da più lontano. Grillo e il suo metodo emotivo non sono una novità. In più, l'antipolitica ha una funzione distruttiva e non costruttiva, e infatti appena ha a che fare con la questione della governabilità, il concetto di pulizia assoluta diventa molto problematico da mettere in atto.
Quando è cominciato tutto questo? Lasciamo perdere «l'Uomo Qualunque», restiamo agli ultimi anni. C'è una linea politica emotiva molto forte che ha attraversato il Paese, dagli ultimi anni della prima Repubblica (che ha contribuito a distruggere, appunto, ma non è stata capace di ricostruire). Comincia con la comparsa di Umberto Bossi e della sua Lega. Il suo linguaggio estremo e sprezzante, antipolitico, appunto; che è riuscito addirittura a mantenere con perseveranza nella sua funzione di ministro. Prosegue con Silvio Berlusconi e lo sprezzo del Parlamento; ma è soprattutto la prima campagna elettorale, quella vincente del 1994, che lo propone come antipolitico per eccellenza: l'opposizione a quello che c'era, l'idea che basti non essere dei politici professionisti per portare cose buone. Infine, attraversa una sinistra minoritaria e urlante come quella di Antonio Di Pietro, che è un grande demolitore e un grande moralizzatore, attraversa anche i rottamatori all'interno del Partito democratico (rottamare vuol dire buttare il vecchio per accogliere il nuovo, ma in qualche modo la parola e le intenzioni sono tutte concentrate sulla voglia e la soddisfazione di buttare il vecchio, e basta) e arriva dritto dritto a Grillo, interprete definitivo e assoluto.
Però: può la politica diventare un oggetto soltanto emotivo e irrazionale? Se pensiamo al passato, vengono in mente Moro, Berlinguer, Craxi, La Malfa, Andreatta, Andreotti — cito in ordine sparso e non esaustivo, buoni e cattivi. Erano tutti lavoratori razionali che cercavano di interpretare gli umori — lo facevano bene o male, in favore del Paese o a proprio favore, ma non si poteva concepire la politica in altro modo.
L'avvento di Grillo sancisce definitivamente che la politica è diventata una formula emotiva esponenziale. Se la gente è insoddisfatta, può esprimere la sua irrazionalità ed emotività attraverso un movimento che accoglie e autorizza lo sfogo, lo rende attivo. Tutti quelli che sono arrabbiati hanno molte ragioni, ma gli arrabbiati devono avere rappresentanti politici meno arrabbiati che rappresentino le loro istanze. Adesso invece hanno rappresentanti politici più arrabbiati di loro. È questo il paradosso che alla fine ha cambiato e sta cambiando il linguaggio, la forma e il contenuto della politica.
Ad esempio, Grillo propone il metodo dei referendum a raffica: è un altro fraintendimento della democrazia; si dovrebbe ricorrere ai referendum soltanto per questioni epocali (il sistema proporzionale o maggioritario?), soprattutto etiche (l'aborto, il divorzio). Per il resto esiste il Parlamento (e con ciò si intende un Parlamento i cui rappresentanti siano votati direttamente dagli elettori; altro concetto elementare e fondante di una democrazia, che è stato tralasciato con disinvoltura). Ma in Italia ormai — e non solo per colpa dell'emotività della gente, sia chiaro — il Parlamento sembra essere il luogo della colpa assoluta, e due sono le cose che ci interessano: quanto guadagnano, e quando andranno tutti a casa (o, alcuni, in galera).
Tra la politica razionale e la politica emotiva (l'antipolitica), la seconda vince sempre. In Italia vince ancora più facilmente, considerato che la politica razionale è scarsa e senza grandi progetti. Eppure non c'è altro modo, per un Paese, che governare con raziocinio. E infatti mentre altri urlano in piazza, alcuni «tecnici» tentano (a volte bene, a volte male) di tenere a bada la crisi e tenere in vita lo Stato.
Cosa può fare la politica contro l'antipolitica? C'è una Costituzione, un sistema democratico che si definisce rappresentativo, e delle leggi. Da tutto ciò si può derogare? Cioè: il fatto che i rappresentanti politici non facciano funzionare bene, non sfruttino a dovere questo sistema, rende davvero distruggibile con disinvoltura il sistema? È questo il bivio davanti al quale si trova il Paese: lavorare per rinnovare e migliorare la vita politica all'interno della forma data, oppure seguire le demolizioni dell'antipolitica.
Bisogna considerare che rimane in Italia una larga fascia di elettori (ancora la maggioranza?) che alla politica razionale crede ancora. Crede ancora nel presidente della Repubblica, nella governabilità, nella democrazia rappresentativa e quindi crede ancora nella composizione diversificata del Parlamento. Sono anch'essi insoddisfatti, o delusi dell'andamento della politica di questi anni, ma non hanno smesso di credere in un miglioramento di fatto della vita politica italiana, e di conseguenza del Paese.
I partiti che aspirano a governare (di sinistra, di centro o di destra — saranno gli elettori a scegliere) non possono e non devono giocare la partita dell'emotività: non è nel loro dna, anzi in qualche modo costituirebbe un paradosso, la politica che si traveste da antipolitica. Un paradosso per nulla convincente e quindi perdente, oltretutto.
Quindi, devono scegliere l'unica strada alternativa possibile, quella del riformismo. Devono scegliere un punto preciso di posizionamento per essere messi a fuoco dall'elettorato italiano. Si posizionino in quel punto di mezzo tra il loro stesso fallimento e l'antipolitica. Chi ne ha il coraggio prenda su di sé la battaglia del grande cambiamento della forma e dei volti della politica italiana, a cominciare dalle proprie file e dai propri programmi. Ma allo stesso tempo — è questo il punto — sfidi Grillo con coraggio: prenda le distanze dal suo estremismo dialettico, dal suo qualunquismo politico. Lo sfidi con eleganza, ma con determinazione: si presenti al Paese come la forza razionale e costruttiva in opposizione all'onda emotiva che in questo momento Grillo rappresenta. Abbia il coraggio, un partito politico che voglia rappresentare gli italiani, di esprimere dissenso verso chi vuole destituire le fondamenta su cui questo Paese è stato costruito — fondamenta malate e piene di umido—, ma che vanno rivitalizzate e non abbattute. Combatta la battaglia della riforma elettorale, politica, istituzionale.
Sia chiaro: gli elettori potrebbero aver voglia di seguire (eseguire) la pulizia totale che chiede il Movimento 5 stelle. Oppure, chissà, potrebbero esprimere insofferenza giustificata per i modelli politici a cui hanno assistito in questi anni, ma poi fidarsi di uno spirito riformistico, se lo giudicano moderato ma preciso, attivo, realmente propositivo; e con rappresentanti di chiaro valore. I partiti accolgano senza timore la sfida più affascinante dei prossimi mesi: la politica contro l'antipolitica — ognuno dalla sua parte (ovviamente). E chissà che il risultato non sia affatto scontato. Chissà che in questo Paese si possa tornare a fare politica — si possa continuare a fare politica — nel modo e con i mezzi che i grandi fondatori della Repubblica avevano, con intenzioni buone e concrete, immaginato per noi.
Corriere La Lettura 10.6.12
Noir, falsa biografia d'Italia
Il giallo politicheggiante alla Massimo Carlotto vive di mitologie e coltiva un ottimismo puerile
di Guido Vitiello
Un bel noir di provincia, ecco cosa ci vuole per un esordiente in cerca di fortuna. D'altro canto, lo diceva Fabrizio De André, non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male: qualche delitto senza pretese lo abbiamo anche noi in paese. Un noir di provincia, ma anche di denuncia: si tratta di escogitare una trama ingarbugliata che da un qualunque fattaccio di cronaca o d'invenzione — l'omicidio di un tecnico informatico del Bellunese, la defenestrazione di una casalinga di Frattamaggiore — conduca a diramazioni sempre più oscure, a reti di complicità sempre più eccellenti: congiure internazionali, misteri d'Italia, zone d'ombra tra affari e malaffare. Serve poi lo stile adatto: scoppiettante, tutto mozziconi di frasi al presente indicativo e additamenti da narratore behaviourista. Per i dialoghi, rifarsi al tono di certe serie tv americane, anzi direttamente al doppiaggio italiano, creando uno slang-patacca su cui si avrà cura di innestare, qua e là, un po' di crudezze dialettali, tanto per far capire che abbiamo letto Gadda e Pasolini e che sappiamo accostarci al cuore nero della realtà, alle viscere di un Paese irredimibile, come d'altronde reciteranno diligentemente la quarta di copertina e, al traino, i recensori pigri. A quel punto, manca solo il critico pronto a giurare che il noir è il nuovo «racconto della realtà». È un equivoco che va avanti da una sessantina d'anni, da quel 1944 in cui Raymond Chandler, padre nobile del giallo hard-boiled, pubblicò il saggio The Simple Art of Murder. Chandler elogiava Dashiell Hammett per avere strappato il delitto al «giardino di rose del vicario», dove lo teneva ostaggio Agatha Christie, e averlo restituito ai vicoli, in «un mondo in cui i gangster possono dominare le nazioni e poco manca che governino le città». Da allora, la vulgata vuole che il torbido giallo-noir all'americana parli del mondo reale, laddove il vecchio giallo all'inglese si attardava in un salottino lezioso frequentato da baronesse e colonnelli in pensione. Era falso allora, lo è ancor oggi: Chandler e i suoi molti eredi e imitatori, tanto nel néo-polar francese quanto nel nuovo giallo italiano, hanno spacciato per realismo crudo un manierismo stracotto, solo di segno diverso: gangster al posto dei colonnelli, prostitute al posto delle baronesse, detective che invece di impomatarsi i baffi o coltivare orchidee si ubriacano di whisky nel loro ufficio-stamberga, solitari e sconfitti. E già, perché il giallo «realista», oltre che manierista, è anche mitologico: «Sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, né un vigliacco», scriveva Chandler, delineando il ritratto di un cavaliere errante dalla triste figura, un ruvido eroe da western trapiantato nella metropoli, un uomo in lotta con un mondo marcio che mena quasi vanto della propria sconfitta. Il fraintendimento è duro a morire. Il nume tutelare del noir politicheggiante post-sessantottino, Jean-Patrick Manchette, ripeteva a ogni occasione il ritornello del «realismo», che risuona oggi nel libro-conversazione di Marco Amici con lo scrittore Massimo Carlotto, The Black Album. Il noir tra cronaca e romanzo (Carocci): «Il noir non è altro che letteratura della realtà». Qui l'equivoco si complica con l'idea che il genere abbia onerosi compiti extraletterari. Non deve solo interpretare il mondo, deve trasformarlo (la vecchia storia di Marx che capovolge Hegel). È una prosecuzione della lotta politica con altri mezzi, una «contro-narrazione» sovversiva: «Quello che mi interessava, infatti, era maneggiare la realtà (…) si trattava di una scelta letteraria che mi offriva la possibilità di continuare a fare politica attraverso il racconto del Paese». Strumento di lotta o mero succedaneo, a beneficio di quei militanti degli anni Settanta (Carlotto viene da Lotta continua) immersi nella retorica della «generazione» incarcerata e sconfitta: «Io ho ancora un forte legame con gente del mio passato e spesso ci troviamo a ripetere che avevamo ragione. (…) Eppure non siamo in grado di incidere sulla realtà». Il noir antagonista diventa così uno strumento per «maneggiare» il mondo con la magia nera delle parole.
E però questo tipo di letteratura, che si vorrebbe immersa nella fornace della realtà, è intrappolata in una stanza degli specchi. Sorvoliamo pure sui giallisti da dottrina Mitterrand, o su quel porto franco dove il noir commercia in vario modo con l'autobiografia romanzata, la retorica reducistica, il feuilleton con pretese antagoniste e vari pasticci postmoderni (in senso gastronomico) riscattati in nome dell'ideologia. Certo è che la figura letteraria dell'eroe sconfitto, che soccombe al Sistema o racimola trionfi derisori, sembra fatta apposta per sovrapporsi alle mitobiografie dei vecchi insorti e alle mistificazioni del romanticismo ribellistico, creando un vertiginoso gioco di illusioni ottiche. Ma non il solo. Dice ancora Carlotto che la fonte del crimine è tutta sociale e politica: «Alla malvagità dell'essere umano, svincolata da questi aspetti, ci credo poco». Ernest Mandel, dirigente trotzkista e studioso del giallo, sosteneva che i detective classici sono dei reazionari, e che Maigret, convinto che «l'uomo non cambia», è un emissario dell'ideologia borghese. Anche il marxista libertario Manchette disprezzava gli investigatori alla Poirot perché «non risolvono mai il delitto generale di questo mondo». In fin dei conti il noir impegnato, che deride l'ingenuità dei vecchi polizieschi a lieto fine dall'alto del proprio disincanto, coltiva un ottimismo antropologico quasi puerile, anche se riporta il delitto nei vicoli o attinge alle cronache e agli atti giudiziari. Il vecchio giallo era irrealistico in tutto ma serbava, per così dire, il realismo del peccato originale, la coscienza di un male che sopravvive a tutte le rivoluzioni: era figlio del pessimismo vero, quello dei moralisti classici. Soprattutto, non s'illudeva di «maneggiare la realtà». Sapeva di maneggiare un giocattolo, e anche in questo era più realista.
Corriere La Lettura 10.6.12
Dalla fantaeconomia alla neurofantascienza
Genetica, super-cervelli, bio capsule, staminali Uno psicobiologo esplora le nuove frontiere
di Anna Meldolesi
Il presidente americano è furioso: il Giappone ha appena annunciato l'imminente nascita della prima super-bambina. Yoko avrà una corteccia cerebrale ultra-spessa grazie al trasferimento del gene Cog e iper-connessa grazie al fattore di crescita scoperto da Rita Levi Montalcini. «Se continua così quei musi gialli ci battono anche nel baseball». «Non possiamo permetterci di fallire un lancio spaziale su due e allo stesso tempo fotterci il mercato dei computer e quello dell'ingegneria genetica». «Mi faccia quei gemelli, professor Furtwängler, me li scodelli coi fiocchi. A far suonare la banda ci pensiamo noi: e vedrà che musica!».
La scena si svolge nella stanza Ovale, tra le pagine del primo romanzo firmato dallo psicobiologo della Sapienza Alberto Oliverio (Per puro caso, Dedalo). Per la fantascienza dei giorni nostri il pianeta da conquistare non è Marte, ma il cervello. Neuroscienziati e genetisti hanno preso il posto degli astronauti. Al professor Furtwängler, Oliverio ha dato la chioma di Antonino Zichichi e l'ego di Craig Venter, un occhio iperattivo e uno guercio, metafora perfetta del suo sguardo sul mondo. I due embrioni transgenici del progetto «super-twins» sono pronti per essere trasferiti nell'utero di una donna dell'Us Air Force. Si chiameranno Link e Wash, in onore di Lincoln e Washington. La Pontificia accademia nel frattempo ha già discusso e approvato l'ingegneria genetica migliorista. Il Santo Padre è miracolosamente guarito da una malattia neurodegenerativa (grazie a una segretissima terapia con cellule staminali, secondo quanto sostiene un gesuita dissidente) e ha apposto il suo sigillo sulle innovazioni: «Non alterano in verun modo i rapporti tra l'io spirituale e l'io materiale». I teologi confermano: «Mai la sfera dello spirito è stata o sarà valutata attraverso i parametri della neurobiologia, cioè in base a concezioni scientifiche che verranno inevitabilmente sorpassate. Lo spirito esisteva anche quando gli uomini e i sapienti ritenevano, con Aristotele, che il cuore fosse la sede dell'anima».
Il passo di Oliverio è diverso da quello anglosassone cui siamo abituati, il suo libro è ironico e colto come un pamphlet, eppure non rinuncia a caricare la molla della suspence. Il Vaticano avrebbe fatto meglio a mettersi di traverso? L'umanità si affaccia su una nuova era di felicità o corre dritta verso la catastrofe? Tertium datur, forse, ma non saremo noi a svelare il finale.
C'è chi leggendo certe storie si preoccupa, pensando ai rischi dell'impresa scientifica. C'è chi si arrabbia perché la scienza, quella vera, non è un vaso di Pandora e bisognerebbe smettere di rappresentarla così. Ma science-fiction e techno-thriller sono generi fatti soprattutto per sorprendere e divertire. Prima di andarsene, Michael Crichton ha disseminato per il globo nano-robot fuori controllo, sgherri del biotech, velociraptor clonati, ma amava la scienza e ne era riamato. Tra coloro che stanno provando a colmare il suo vuoto c'è Douglas E. Richards, con l'accoppiata Wired e Amped. I due romanzi usciranno su carta a settembre, dopo il successo in ebook, e leggendoli sembra già di stare al cinema.
Anche qui il protagonista è il cervello. «Il suo potenziale è quasi illimitato. Ma è plasmato per la sopravvivenza anziché per l'intelligenza pura. Gli idioti sapienti aprono solo un piccolo squarcio sulle sue possibilità. Possono imparare a memoria gli elenchi telefonici con una sola lettura e moltiplicare numeri a dieci cifre più velocemente di un calcolatore. Cosa accadrebbe se potessimo liberare capacità anche superiori in tutte le aree del pensiero e della creatività?». L'upgrade cerebrale immaginato da Richards è un big bang neuronale transiente: si ingoia una capsula contenente virus transgenici e ci si spara un'ora di genialità psichedelica. I neuroni si riorganizzano come un domino di cento miliardi di pezzi che collassano. Il quoziente intellettivo schizza fuori scala e la soluzione ai problemi scientifici più ostici si rivela nel modo più sfacciato, come un esibizionista che apre l'impermeabile. Al primo strabiliante livello di potenziamento appare lampante l'inesistenza di Dio, al secondo livello — inimmaginabile per chi abbia provato solo il primo — l'immortalità è quantistica e l'universo diventa multiverso. «Lo scopo dell'umanità non è scoprire se esiste Dio ma diventare Dio». Quel che accade al terzo stadio, probabilmente, non lo sapremo mai. Spingendo le capacità cognitive oltre i limiti umani, il corpo consuma tutte le proprie risorse, fino al coma, e questo non è il solo effetto collaterale.
La morte per esaurimento sfiora anche la giovane genetista che ha inventato la bio-capsula, ingerendola per prima. Kira Miller è bellissima, coraggiosa e fidata, o almeno lo è il suo «io normale». Lo sarà anche l'alter ego potenziato? Wired e il suo sequel hanno più strati e connessioni di un super-cervello, con buoni e cattivi che si confondono, e una rete di scienziati che si sottopongono al rischioso trattamento per lavorare in segreto al bene comune. Obiettivo fusione fredda? Viaggi superluminari? Immortalità? Prima del visionario Ray Bradbury, appena scomparso, la fantascienza era dominata da «pistole a raggi e pin-up da salvare», ci ha detto Richards. «A preparare la strada alla fantascienza seria è stato Ray», proprio lui che si vantava di non essere una persona seria. Ma negli stessi anni delle sue Cronache marziane, hanno visto la luce anche altri capolavori a cui i libri di Richards rendono omaggio. La fine dell'eternità di Isaac Asimov, e soprattutto Fiori per Algernon di Daniel Keyes, un classico in cui sintassi e ortografia seguono la parabola intellettiva del protagonista, in salita e poi in picchiata. Charlie è un uomo sottodotato, che si ritrova improvvisamente con un Qi einsteniano e poi regredisce. Il suo ultimo sgrammaticato pensiero prima di scomparire è per il topo che ha fatto da cavia: «Pps. Perfavore mettere gentilmente allorquando possibile dei fiori sulla tomba di Algernon dentro il cortile di dietro...». Non c'è la fine del mondo e neppure l'happy end, ma anche questa è (grande) fantascienza.
Corriere La Lettura 10.6.12
Kandinsky, astratto sinfonico
Studi, improvvisazioni, composizioni coloratissime e dal ritmo quasi musicale:
ritratto di un artista «dissonante» in bilico tra la cultura francese e quella italiana
di Sebastiano Grasso
«Tutto ciò che era inerte, fremeva; tutto quello che era morto, riviveva», scrive Wassily Kandinsky (1866-1944), ex docente di Diritto romano all'Università di Dorpat, in Sguardi sul passato (1913). «Non soltanto le stelle, la luna, le foreste, i fiori tanto cantati dai poeti, ma anche il mozzicone nel portacenere, il bottone di madreperla che vi fissa dal ruscello, bianco e paziente, il filo di corteccia che la formica stringe con tutte le sue forze e trascina fra l'erba alta, verso mete indeterminate e importanti (...). Tutto mi mostra il suo volto, il suo essere profondo, la sua anima segreta che tace più spesso invece di parlare. Fu così che ogni punto, ogni linea immota o animata per me diventavano vive e mi offrivano la loro anima. Questo bastò a farmi scoprire, con tutto il mio essere e tutti i miei sensi, le possibilità dell'esistenza di un'arte da determinare e che oggi, in contrasto con l'arte figurativa, è chiamata "arte astratta"».
Dopo Kandinsky e Monaco, Kandinsky e i suoi contemporanei, Kandinsky e la Russia, Kandinsky e i suoi vicini di casa, poteva mancare Kandinsky e l'arte astratta fra Italia e Francia? Certo che no. Ci ha pensato Aosta, che, al Museo archeologico, espone 30 fra olî e disegni del padre dell'astrattismo, un lavoro di Francis Picabia; due di Joan Miró, Gianni Monnet e Mauro Reggiani; tre di Jean Arp, César Domela, Atanasio Soldati, Ettore Sottsass e Sophie Taüber-Arp; cinque di Alberto Magnelli, Piero Dorazio, Luigi Veronesi e Alessandro Mendini; sei di Gillo Dorfles.
In rassegna, anche cinque ritratti di Kandinsky, tutti del 1934, di Florence Henri. Ricostruita la Sala da musica che, nel 1931, all'Esposizione internazionale di architettura a Berlino, aveva delle decorazioni murali in ceramica, disegnate dall'artista russo. Mostra curata da Alberto Fiz.
Rapporti con la Francia. Chiusa dai nazionalsocialisti la Bauhaus di Berlino (l'anno prima era toccato a quella di Dessau), nel 1933, Wassily e la moglie Nina vanno a Parigi prima e poi, su indicazione di Marcel Duchamp, si spostano a Neuilly-sur-Seine, a qualche chilometro dalla Ville Lumiére. Negli undici anni di permanenza — durante i quali va in Usa, Inghilterra, Norvegia, Messico e Italia — Kandinsky incontra Miró, Mondrian, Magnelli, Man Ray, Ernst, i Delaunay, Léger, Brancusi, Arp.
Ed ecco, nella mostra aostana, alcune testimonianze sull'influenza esercitata dal pittore russo su Arp (Il figlio dell'ombelico, Torso-anfora), Domela (Studio, Composizione), Magnelli (Grande viaggio, Coalizione sorprendente), Miró (Uccelli nella notte), sulla Taüber (Sei spazi con croce, Composizione in un cerchio) che, nel '38, ottiene la cittadinanza francese.
Rapporti con l'Italia. Già nel 2007, a Palazzo Reale di Milano, Luciano Caramel aveva curata la mostra Kandinsky e l'astrattismo in Italia 1930-1950. A parte le vacanze a Genova, Firenze, Pisa e Forte dei Marmi, Kandinsky nell'aprile-maggio 1933 espone alla Galleria del Milione a Milano.
Dopo la morte, la Biennale di Venezia gli dedicherà una sala personale (1950). Sono proprio queste presenze a stimolare interessi e confronti degli artisti di casa nostra, soprattutto di quelli di Forma 1 e del Mac (Movimento arte concreta). Valga per tutti, ad Aosta, l'esempio di Trenta (1948) di Atanasio Soldati, che riprende, persino con lo stesso titolo, un'opera di Kandinsky del '37. O, ancora, Sviluppo orizzontale di una cornamusa dolcissima, Il ponte di Carlo, Prometeo, La comunicazione di Dorazio. E che dire delle Metamorfosi di Monnet, della Composizione con più figure e del Giardino di Dorfles, delle Composizioni di Reggiani, dei Motivi astratti di Sottsass? E, su un altro piano, dell'«arte applicata» di Mendini? Si vedano Kandissi, Kandissa e Kandissone, rispettivamente divano, specchio e arazzo.
Un discorso a parte meritano le Composizioni di Veronesi. Come Kandinsky, Veronesi considera pittura e musica un tutt'uno. L'artista russo lo aveva scoperto ascoltando il Lohengrin di Wagner. «I violini, i profondi toni dei bassi e, soprattutto di quell'epoca, gli strumenti a fiato, rendevano per me tutta la forza di quell'ora pre-notturna — ricorderà nel suo Ruckblike —. Vidi nella mente tutti i miei colori; erano lì davanti ai miei occhi: linee selvagge, quasi pazze. Non mi permettevo di credere che Wagner avesse descritto musicalmente "il mio momento". Mi divenne comunque chiaro che i dipinti potevano sviluppare la stessa forza che aveva la musica».
E, volendo Kandinsky la «presa diretta», optava maggiormente per l'acquerello, perché riusciva a realizzare quel «ritmo pittorico» che per lui difficilmente l'olio era in grado di dare con altrettanta rapidità. Wagner, ma anche Stravinsky, Prokof'ev e, soprattutto, Schönberg.
Da qui una serie di opere, soprattutto dedicate alla natura, da lui stesso definite «sinfoniche»: Studi, Impressioni, Improvvisazioni, Composizioni. Che, per Will Gromann, si potrebbero paragonare all'oratorio Le stagioni di Haydn. Armonia e ritmo portano Kandinsky verso una concezione del colore come suono, in cui dominano, gradualmente, l'azzurro, il rosso, il giallo.
Musicalmente dissonanti, piuttosto che armonici, sono i poli fra i quali, d'ora innanzi, andrà la sua pittura: «Mi sembrava che l'anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale quando l'inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita. Sentivo, a volte, il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano».
L'angelico poeta di cieli astratti Veronesi non poteva che sottoscrivere.
La Stampa TuttoLibri 9.6.12
Tullio Regge: “Come Borges sento il brivido dell’infinito”
di Piero Bianucci
Dal mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel al Cern di Ginevra, dal Parlamento europeo agli Stati Uniti: una vita piacevolissima
«L’ autobiografia di un curioso» esce da Einaudi: «Primi libri? La Bibbia, la comprò mio padre sulle bancarelle» «L’Ariosto? Che fumettone, meglio la Matematica dilettevole e curiosa di Ghersi da Hoepli» «Pinocchio, no, ma tanto Salgari. E Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico» «La fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov»
Vent’anni al mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel, varie stagioni al Cern di Ginevra, una legislatura al Parlamento europeo, soggiorni di ricerca negli Stati Uniti, Russia, Giappone. Sempre con uno sguardo geniale e matematico puntato a indagare l’estremamente piccolo dell’atomo e l’estremamente grande delle galassie. Questo è Tullio Regge. L’universo è stato la sua casa, e ora la sua vita, 81 anni, è consegnata a una piacevolissima autobiografia scritta con Stefano Sandrelli, astronomo dell’Osservatorio di Brera ma anche narratore e abile comunicatore della scienza. Titolo, L’infinito cercare .
«Non è il titolo che avrei voluto», dice Regge sfogliando distrattamente il volume che Einaudi sta per mandare in libreria. «Con Rosanna, mia moglie, avevamo pensato a L’orizzonte degli eventi: sa, quel posto strano intorno a un buco nero, dove il tempo si ferma sull’orlo del pozzo gravitazionale».
L’orizzonte degli eventi di Regge ora è la vetrata che inquadra il verde della collina di Torino: un salone con pianoforte, libreria, un telescopio di ottone firmato da una storica azienda ottica torinese che non esiste più. Comunque sia, perfetto è il sottotitolo, «Autobiografia di un curioso». Curioso è anche il Regge lettore, che infatti un giorno sentì il bisogno di penetrare nel libro dei libri, la Bibbia, e per farlo imparò l’ebraico, divertendosi poi a rilevare le discrepanze tra il testo originale e la sua vulgata, per esempio nell’episodio delle due spie di Josuha che vanno a Gerico e vengono ospitate da una prostituta, parola di solito occultata in un eufemismo. «Ho letto la Bibbia – racconta – per stupire gli amici con qualche parola in ebraico antico. E’ un’opera che contiene tutto e il contrario di tutto. Probabilmente la portò in casa mio padre, che comprava un sacco di libri usati sulle bancarelle di piazza Carlo Felice e del Balon. Era geometra. A Torino ci sono cinque case che ha progettato, sono in corso Casale e in corso Quintino Sella. Anche lui era curioso e si interessava alla scienza. Purtroppo non aveva avuto maestri, e quindi la sua testa era piena di concetti sbagliati». Che fine hanno fatto i libri che suo padre acquistava sulle bancarelle? «Molti li ho ancora, sono in soffitta. Altri li vede lì in quella libreria, lassù in alto: l’Ariosto (un fumettone, ma divertente), la Divina Commedia, L’astronomie populaire eLes étoiles di Camille Flammarion. Sui libri divulgativi di Flammarion ho incominciato a conoscere l’astronomia. Ma per me il testo più importante fu la Matematica dilettevole e curiosa di Italo Ghersi, un manuale pubblicato da Hoepli. L’ho letto quando ero alle elementari. Ho saltato quarta e quinta grazie a un esame che mi ha permesso di iscrivermi al primo anno delle medie in una scuola privata di via delle Rosine. All’orale di matematica, come risultato di un problema, saltò fuori il numero 47. Toh, guarda, è un numero primo, esclamai. Il professore che mi esaminava si stupì. E come lo sai, mi domandò. Semplice, dissi: ho letto il Ghersi». Altri libri dell’infanzia e dell’adolescenza? «Non Pinocchio, ma tanto Salgari. Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico: in fisica si chiama Gruppo di Carroll la descrizione di un mondo fittizio in cui la velocità della luce è nulla, qualcosa di simile al coniglio di Alice, che corre sempre e resta nello stesso posto. A scuola I promessi sposi mi lasciarono indifferente. Non mi dispiaceva Leopardi. Niente Carducci, che invece mia moglie apprezza. Al liceo ho avuto un professore di italiano che si chiamava Vanara. Un bravo professore, ma allora io amavo solo la matematica e odiavo i temi di critica letteraria. Mi bocciò. Poi mi sono preso la soddisfazione di scrivere centinaia di articoli di divulgazione scientifica per i giornali, a quanto pare decenti. Il fatto è che per scrivere bene servono due cose: conoscere l’argomento ed esserne appassionati. Detestavo gli autori latini. Forse li avrei amati se invece di Virgilio mi avessero fatto conoscere Lucrezio o Plinio. L’unico libro in latino che mi ha conquistato è del matematico Gauss, le Disquisitiones Arithmeticae, lo scrisse nel 1798, quando aveva appena 21 anni, fu il primo testo sistematico di teoria dei numeri».
Romanzi? «Negli Anni 90 mi fecero questa domanda in un programma radio di Rai Tre. Parlai di Ippolito Nievo, Le confessioni di un ottuagenario: mia moglie ne fu commossa perché citai Colloredo, il paese friulano dove è nata. E poi Thomas Mann, specialmente il Doctor Faustus: mi piacque perché parla di un musicista, e la musica classica è una mia passione. E Robert Musil, che era un ingegnere meccanico, L’uomo senza qualità .... ».
Fantascienza? «Sì, i romanzetti di Urania, ma anche Isaac Asimov e Fred Hoyle, autore della Nuvola Nera. Però la fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov, che era biologo, e Hoyle, che è stato un brillante fisico teorico. Pure lui tira fuori cose senza senso, come astronavi più veloci della luce. La scienza vera è più sorprendente di qualsiasi fantascienza. Quando pubblicai una raccolta di miei articoli divulgativi la intitolai Le meraviglie del reale in contrapposizione a Le meraviglie del possibile, antologia di racconti di fantascienza che Fruttero e Lucentini curarono per Einaudi nel 1959».
Scrittori che ammira? «Primo Levi, naturalmente. La sua chiarezza, che gli viene dall’essere chimico, l’ironia, la nitidissima testimonianza sui lager nazisti. Ho potuto conoscerlo bene, da un nostro dialogo è venuto fuori un libretto. Non ho mai capito perché si sia ucciso. Ma il più vicino a me è Borges, specie quello di Finzioni: Funès o della memoria, La biblioteca di Babele. Vorrei essere Funès, ora che i miei ricordi evaporano! Di Borges mi piacciono i giochi di specchi, i labirinti, il brivido dell’infinito. Proprio per Tuttolibri nel 1981 mi divertii a calcolare le conseguenze fisiche di una biblioteca come quella immaginata da Borges: il numero di libri possibili è uguale a 25 elevato alla 656 mila, per scriverlo occorrono poco più di novecentomila cifre. Ma il volume dell’universo osservabile in centimetri cubi è un numero di appena 85 cifre. La Biblioteca di Babele non starebbe nell’universo... ». Lei ha dato alla fisica contributi importanti. Quando le assegnarono il Premio Einstein o la Medaglia Dirac le motivazioni ricordarono i Poli di Regge, applicati in meccanica quantistica, il Regge Calculus, primo tentativo di quantizzare lo spaziotempo, ricerche sui buchi neri. Per anni ha tenuto la cattedra di relatività all’Università di Torino. Se dovesse consigliare a un lettore comune un libro per capire le teorie di Einstein sceglierebbe la biografia che ne ha scritto Abraham Pais o l’esposizione divulgativa della relatività dello stesso Einstein? «Entrambe». Dire Tullio Regge significa tante cose: l’illimitata voglia di capire il mondo, la lotta civile per le pari opportunità di un uomo che da tanti anni una malattia costringe su una carrozzella, l’interesse per la musica, il gusto di costruire al computer disegni satirici. Ma un’attenzione speciale merita l’attività di divulgatore: un campo nel quale Regge è stato pioniere con conferenze, libri, Cd-Rom, mostre (Experimenta), iniziative come GiovedìScienza, tutte cose che stanno sotto il cappello dell’Associazione CentroScienza, dove tuttora è presente accanto a Danilo Mainardi, Aldo Fasolo, Piero Angela. L’infinito cercare rappresenta bene tutte queste sfaccettature e colpisce per la leggerezza con cui Regge tratta le cose importanti che ha fatto e la serietà che talvolta riserva a cose leggere. Nel congedarmi, scorro gli scaffali. Vedo L’ Orlando furioso nell’edizione dei Fratelli Treves del 1894 illustrata con 517 incisioni di Gustavo Doré, Borges nei Meridiani Mondadori, i due volumi delle Opere di Levi, la Fisica di Feynman (Zanichelli), La nuova fisica di Davis (Bollati Boringhieri), libri di genetica di Watson e Crick, gli scopritori della doppia elica del Dna. Ogni tanto un titolo di Odifreddi inquina sacri testi di matematica. In un angolo, un libretto in giapponese. Gli autori sono Tullio Regge e Vittorio De Alfaro. Tratta dei «poli di Regge», il lavoro giovanile che lo lanciò nel mondo della fisica.
La Stampa TuttoLibri 9.6.12
Sul lettino di Musatti anche il dialetto smaschera l’inconscio
di Augusto Romano
Psicoanalisi Racconti autobiografici storie di pazienti, tranches de vie, apologhi
Cesare Musatti (1897 – 1989) fondatore della psicoanalisi italiana
Cesare Musatti SULLA PSICOANALISI a cura di A. Ferruta e M. MonguzziBollati Boringhieri, pp. 342, 29
Una mia collega, che aveva fatto un’analisi con Cesare Musatti, mi raccontò che ben presto l’analista prese a darle del tu e, poiché erano entrambi di origine veneta, cominciò a usare il dialetto durante le sedute. A un certo punto, le suggerì anche di prendere marito. L’aneddoto si potrebbe tranquillamente aggiungere ai tanti contenuti in questa godibile antologia di scritti di Musatti intitolata Sulla psicoanalisi. Titolo invero un po’ improprio, giacché non si tratta di contributi teorici ma piuttosto di racconti autobiografici, storie di pazienti, tranches de vie, apologhi, narrati tutti con la stessa cordiale familiarità che Musatti aveva usato con la mia collega. Giacché Musatti era dotato di una personalità estrovertita ed era tendenzialmente interventista; si trovava bene quando era al centro dell’attenzione e provava piacere a incarnare ruoli diversi (si ricorderà che in vecchiaia posò anche per la pubblicità di una linea di abbigliamento maschile). Il tutto però agito con bonaria ironia e un forte senso del concreto, dietro cui si intravede quell’amore per la razionalità e la chiarezza, che lo rendeva refrattario a intuizioni e fantasie. Di conseguenza, egli si rivela in questi testi un eccellente narratore della vita quotidiana, capace di evocare con pochi tratti sia casi clinici complessi, sia i costumi della borghesia italiana nella prima metà del secolo scorso. Dunque, un gradevole contributo alle letture estive, colto e a un tempo affabile e chiaro.
Potremmo fermarci qui. Ma rinunceremmo a darci ragione della strana impressione che colpisce chi svolge la stessa professione di Musatti nel leggere i suoi amabili sketch. L’impressione è quella di una distanza temporale superiore a quella cronologica, come se Musatti in qualche modo appartenesse ancora a quella stagione - la Belle Epoque! - che precedette lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Impressione inizialmente incomprensibile, dato che Musatti - pur dichiarandosi fedele all’insegnamento freudiano - accoglie numerose e importanti innovazioni rispetto alla teoria del Maestro: relativismo epistemologico (le teorie psicologiche sono soltanto modelli interpretativi, non verità accertate) ; importanza fondamentale attribuita all’empatia nella relazione analitica; necessità di utilizzare le proprie esperienze per la comprensione dell’altro; riconoscimento della identità di natura nel paziente e nel terapeuta (entrambi più o meno nevrotici) ; modellamento del setting (cioè delle regole su cui si fonda l’incontro) a seconda della necessità. Tra l’altro, queste novità riprendono alcune delle più feconde anticipazioni di Carl G. Jung.
E allora? Allora il problema è un altro e riguarda le visioni del mondo. La psicoanalisi di cui parla Musatti è una psicoanalisi rassicurante. I suoi pazienti hanno dei sintomi, generalmente ben definiti; egli li sdraia sul lettino, connette ingegnosamente le libere associazioni fornite dal paziente con il linguaggio dei sintomi, e per lo più il paziente almeno in parte «guarisce». Una psicoanalisi ottimistica, che si fonda su processi lineari di causa-effetto e nutre una grande fiducia nella ragione strumentale e in quella che Paul Ricoeur chiamava l’«ermeneutica del sospetto»: attraverso una operazione poliziesca di smascheramento l’inconscio e le sue trame vengono riportate alla ragione. Ma come? Non era l’inconscio «selvatichezza indomita»?
Ho l’impressione che l’ottimismo positivistico abbia giocato un brutto scherzo a Musatti, o almeno al Musatti scrittore: gli ha sottratto la dimensione del tragico e lo ha condannato al lieto fine. I nostri pazienti sono oggi meno pittoreschi dei suoi e in genere presentano meno sintomi. Sempre meno la loro sofferenza è annidata in un punto specifico e perciò sempre meno è addomesticabile. Essa è pervasiva, ed è una malattia - come si diceva una volta - dell’anima, che si potrebbe chiamare assenza di significato. Perciò il problema si sposta: far scomparire i sintomi non significa guarire. Lo stesso concetto di guarigione si fa più equivoco, indefinito e fuorviante. Il compito è un altro: familiarizzarsi con l’insensatezza; non pretendere che essa sia altro da quello che è; lasciarla parlare; contemplare le immagini attraverso cui essa si esprime; a nostra volta parlarle, per quel che l’Io può.
Ma al mare, sotto l’ombrellone, sarà bene tenersi stretto il libro di Musatti e la sua simpatica leggerezza. "Un eccellente narratore capace di evocare sia casi clinici complessi sia i costumi della borghesia italiana Una psicoanalisi ottimistica rassicurante, che si fonda su processi lineari di causa-effetto"
l’Unità 10.6.12
Il mercato grigio dei farmaci
Medicinali introvabili? C’è una ragione
Sostanze salvavita che smettono di essere prodotte all’improvviso e che ritornano sul mercato con nuovi nomi e a prezzi altissimi
di Cristiana Pulcinelli
ALCUNI FARMACI STANNO SPARENDO DAL MERCATO. SONO FARMACI IMPORTANTI, COSIDDETTI SALVAVITA: antibiotici, anestetici, antiipertensivi, antitumorali, ma anche soluzioni elettrolitiche per fleboclisi e vitamine. Sembra che nessuno voglia produrli, eppure la loro unica colpa è di essere «vecch»i. Non che non funzionino più, al contrario spesso sono ancora gli unici efficaci contro alcune malattie. Il problema è che, in quanto vecchi, costano poco. Il loro brevetto è scaduto e possono essere prodotti come farmaci generici, ma chi se la sente di accollarsi una produzione complessa per un guadagno minimo?
Negli Stati Uniti il problema esiste già da un po’ di tempo. Un sondaggio condotto nel 2011 su 820 ospedali ha mostrato che quasi tutte le strutture avevano dovuto gestire la carenza di almeno un farmaco nei sei mesi precedenti l’inchiesta e il 24% lamentava la carenza addirittura di 21 o più farmaci. E la Fda, l’ente americano che si occupa della regolamentazione dei farmaci, riporta che nel 2011 i prodotti carenti sono stati 220.
Un problema tanto più grave, dicono i medici, perché spesso si tratta di farmaci che non sono sostituibili con degli equivalenti. Un esempio di quello che sta accadendo è stato fornito dal presidente della Società americana di oncologia clinica (Asco), Michael Link, durante il congresso che si è svolto da poco a Chicago: «Il metotrexate – ha detto è al momento l’unica terapia per la leucemia linfoblastica acuta. Gli oncologi Usa hanno lanciato l’allarme di recente affermando di avere una scorta di tale farmaco sufficiente solo per due settimane, e ciò ha portato all’intervento della Fda per una soluzione almeno temporanea».
Il metotrexate è un farmaco che viene usato da cinquant’anni: ormai è passato tra i generici e costa pochi centesimi a pillola. Ma all’appello mancano anche altri antitumorali di vecchia generazione: bleomicina, cisplatino, citarubicina, daunorubicina, liposomiale, doxorubicina leucovorin, vincristina.... Le case farmaceutiche dicono che manca la materia prima, ma secondo un articolo uscito recentemente sul New England Journal of Medicine, l’origine del problema risiede nel fatto che la produzione dei generici si sta concentrando nelle mani di poche fabbriche che si trovano a dover affrontare contemporaneamente problemi di produzione e un aumento della domanda.
I problemi di produzione nascono perché i generici, che garantiscono un margine di profitto basso, sono fatti nel modo più economico possibile, usando macchinari vecchi e poco efficienti (che fanno aumentare il rischio di incidenti) e lasciando meno scorte possibile. D’altro canto, la domanda di antitumorali cresce perché in Asia, Sud America e Africa si espande l’accesso al trattamento.
C’è chi dice che più che di questioni tecniche, si tratti di un problema economico: le industrie farmaceutiche non producono farmaci vecchi e a basso costo per favorire la vendita dei nuovi farmaci i cui costi sono invece astronomici, dell’ordine delle centinaia di migliaia di euro a paziente. Un esempio? Il leucovorin è un farmaco antitumorale disponibile dal 1952, nel 2008 è stato approvato il levoleucovorin, un farmaco simile al primo, efficace come il primo, ma 58 volte più costoso. Otto mesi dopo il leucovorin cominciava a scarseggiare.
E in Italia? Anche da noi il problema comincia a farsi sentire. Un articolo pubblicato dal gruppo di Umberto Tirelli dell’Istituto nazionale tumori di Aviano riporta come a maggio dell’anno scorso un ordine di 100 fiale di carmustina, un farmaco richiesto nel trapianto di cellule staminali, non è arrivato lasciando 9 pazienti affetti da linfoma senza la possibilità di completare il trapianto nei tempi stabiliti. «La situazione non è drammatica come quella degli Usa, ma il trend è lo stesso», spiega Tirelli. Moltissimi pazienti si trovano a dover affrontare la mancanza del farmaco di cui hanno bisogno. Quali sono le conseguenze? Se il paziente non può aspettare che il medicinale torni ad essere disponibile, i medici dovranno utilizzare nuove combinazioni di farmaci con sostanze simili a quelle mancanti. Ma spesso queste nuove combinazioni non sono state sperimentate e quindi possono risultare poco efficaci o addirittura tossiche.
Secondo un altro sondaggio condotto dall’Istituto per la pratica medica sicura degli Stati Uniti, il 25% dei clinici dichiara che nel luogo in cui lavora è stato commesso un errore a causa della mancanza di esperienza nella gestione di farmaci alternativi a quelli normalmente utilizzati ma che non si trovano più. Non manca chi approfitta della situazione: ecco dunque svilupparsi un “mercato grigio”, non del tutto illegale (ma quasi) in cui alcuni produttori immettono sul mercato i farmaci mancanti a costi più alti di 20, 30 volte. «Piccole aziende private fanno incetta di farmaci carenti – spiega Tirelli e poi li rivendono agli ospedali a un prezzo molto più alto. In questo modo accelerano il fenomeno, presentandosi nello stesso tempo come benefattori dell’umanità».
Anche Roberto Labianca, presidente del Collegio italiano primari oncologi medici ospedalieri, è preoccupato: «Quando un farmaco sparisce ci sono pazienti che non sanno cosa fare. Tutti si devono prendere le proprie responsabilità: i medici ma anche le autorità. In Italia poi il problema è aggravato dalla frammentazione del sistema sanitario: ogni regione ha il suo sistema». . Cosa rimediare? La Fda dice esplicitamente di non poter «chiedere a un’azienda di continuare a produrre un farmaco se questa vuole sospenderlo». Si potrebbe pensare, allora, a degli incentivi fiscali per le aziende che producano questi farmaci, oppure, propone Tirelli, «mettere sotto pressione le case farmaceutiche che non vogliono produrre i vecchi farmaci non approvando le loro nuove, costosissime terapie».
Corriere Salute 10.6.12
L'ormone dell'altruismo (e forse del razzismo)
Il ruolo controverso dell'ossitocina
di Danilo di Diodoro
Se da adulti si è depressi, potrebbe dipendere da esperienze negative e stressanti fatte quando si era bambini. Ma che legame c'è tra lo stress infantile e la depressione adulta? L'ossitocina. Ancora: se una persona non è ipnotizzabile e quindi non può ricorrere a questa tecnica psicologica per condizioni mediche che potrebbero beneficiarsene, c'è un farmaco capace di renderla ipnotizzabile? Sì, sempre l'ossitocina. E si può indurre le persone a essere più generose, ad esempio nel fare donazioni in denaro ad associazioni benefiche? Anche in questo caso la risposta è positiva: merito dell'ossitocina.
Si potrebbe proseguire con un lungo elenco di azioni diverse, visto che l'ossitocina è l'ormone dei legami sociali, può modificare positivamente le capacità empatiche degli individui e la loro modalità di rapportarsi con gli altri. Il legame tra carenza di ossitocina e depressione adulta è stato individuato da una ricerca, pubblicata sulla rivista Stress da Jolanta Opacka-Juffry e Changiz Mohiyeddini dell'Università di Londra, mentre l'azione pro-ipnotizzabilità di questo potente neuropeptide è stata scoperta da alcuni ricercatori dell'Università del South Wales di Sidney, in Australia, guidati da Richard Bryant, e pubblicata in un articolo uscito sulla rivista Psychoneuroendocrinology.
L'ossitocina è prodotta dall'ipotalamo e viene immagazzinata nella parte posteriore dell'ipofisi. Da lì, questo neuropeptide, composto da nove aminoacidi, parte per distribuirsi in tutto l'organismo per via nervosa o con la circolazione del sangue. All'inizio del secolo scorso, quando fu scoperta, si sapeva che era in grado di far contrarre l'utero (il termine "ossitocina" viene dal greco antico e vuol dire "nascita veloce"), poi si scoprì che serviva anche per facilitare l'allattamento al seno. Negli ultimi anni ad ogni azione di questa molecola se ne è aggiunta un'altra, con un progressivo spostamento verso l'area psicologica e sociale. Oggi è indicata come la molecola del benessere, perché aumenta il senso di fiducia in se stessi, migliora la capacità di stringere legami sociali e di comportarsi in maniera corretta e altruista.
«L'ossitocina gioca un ruolo centrale nella modulazione dell'ansia» dicono Waguih William IsHak della Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles e i suoi collaboratori, autori di una revisione su questa straordinaria molecola, pubblicata sul Journal of affective disorders. «Esercita quest'azione attraverso specifici recettori per l'ossitocina che sono stati trovati nell'amigdala, struttura fondamentale nel percorso neurologico che media la paura, la fiducia e il riconoscimento sociale».
L'ossitocina è capace di tenere a freno l'attività dell'amigdala, piccola struttura cerebrale che risulta troppo "eccitata" negli stati ansiosi e depressivi. Il livello circolante nel sangue di questa sostanza aumenta dopo stimoli positivi e piacevoli, come il calore, il tocco di un altro essere umano, l'esposizione a odori gradevoli e alla musica. L'ossitocina inoltre è più elevata nel sangue delle persone che sono inserite in una buona rete sociale, rispetto a chi è invece isolato. È responsabile del senso di quieto benessere che si prova dopo l'orgasmo sessuale, e rappresenta una fondamentale base biochimica dell'attaccamento tra madri e figli.
La somministrazione di questo ormone come farmaco ha una serie di azioni favorevoli, come la riduzione del livello di pressione arteriosa, che prosegue per giorni anche dopo una sola somministrazione, la riduzione del desiderio di assumere sale, l'abbassamento del tono simpatico-adrenergico, che è aumentato invece dallo stress.
Ma come tutti i farmaci molto attivi, anche l'ossitocina può avere sia importanti effetti collaterali, sia effetti inaspettati e negativi, a seconda della disposizione delle persone che la assumono (si vedano gli altri articoli in questa pagina).
Corriere Salute 10.6.12
È stata chiamata anche l'ormone "dell'amore"
Relazioni complesse con droga e alcol
di D. d. D.
È stata chiamata anche l'ormone "dell'amore", e in effetti il livello di ossitocina tende ad aumentare nel plasma delle coppie che stanno insieme da poco. Lo dice uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Bar-Ilan (Israele) e della Yale University di New Have (Stati Uniti) coordinati da Inna Schneiderman, e pubblicata sulla rivista Psychoneuroendocrinology. «Si tratta del primo studio che ha esplorato in maniera longitudinale l'attaccamento romantico da un punto di vista biochimico» dicono gli autori della ricerca. Selezionate 30 coppie, formatesi da non più di tre mesi, i ricercatori le hanno paragonate a un gruppo costituito da 43 single, e hanno rilevato che in questi ultimi i livelli di ossitocina erano significativamente inferiori a quelli delle coppie di innamorati. E in questi ultimi l'alto livello di ossitocina si è mantenuto fino all'osservazione ripetuta al nono mese.
Altre ricerche hanno trovato una correlazione anche tra ossitocina e attività sessuale; non c'è quindi da meravigliarsi se, a un certo punto, l'ormone è comparso su Internet come farmaco proposto per l'aumento della fiducia in se stessi e il miglioramento delle prestazioni sessuali.
«Attualmente l'ossitocina è autorizzata in Italia solo per l'induzione del parto — spiega la professoressa Donatella Marazziti, del Dipartimento di psichiatria, neurobiologia, farmacologia e biotecnologie dell'Università di Pisa —. Acquistare ossitocina su Internet è un'attività che implica tutti i rischi legati al commercio online di farmaci: non ci sono garanzie né sulla qualità, né sulla precisione dei dosaggi. Inoltre, va detto che lo spray nasale di ossitocina ha un'emivita - termine che indica il tempo di dimezzamento di un farmaco dopo la sua somministrazione - di pochi minuti e, quindi, viene eliminata velocemente dall'organismo». Un aspetto che contribuisce a renderne aleatoria l'efficacia.
«Al momento ci sono veramente pochi dati per dire che l'ossitocina sia in grado di svolgere questo tipo di azione — continua l'esperta — . Teoricamente, sarebbe possibile un suo ruolo nel miglioramento della funzionalità sessuale, per la sua capacità di aumentare la libido, indurre l'orgasmo e anche l'erezione. Ma ho usato il condizionale: infatti, da qui a dire che questo neuropeptide possa diventare una valida alternativa al Viagra, la strada è molto lunga».
In virtù delle sue potenzialità socializzanti, l'ossitocina è stata proposta anche per il trattamento di disturbi psichici incentrati su una "difettosa" relazione con il mondo circostante, come l'autismo e la schizofrenia. È un ambito di esplorazione recente e attualmente sono in corso circa 40 trial clinici, che stanno sollevando speranze, anche se non ci sono ancora conclusioni scientificamente affidabili.
«Queste potenzialità sono legate a una duplice azione dell'ossitocina, che, da un lato, riduce l'attività dei sistemi biologici che regolano lo stress e, dall'altro, attiva quelli di gratificazione o reward. Questo secondo effetto ne fa intravedere un possibile ruolo anche nel trattamento delle dipendenze» dice ancora Marazziti. In effetti, l'ossitocina ha interazioni complesse con alcol e droghe. Interazioni studiate da Nadine Striepens dell'Università di Bonn. Una sua revisione, pubblicata sulla rivista Frontiers in neuroendocrinology, indica che l'effetto antisociale dell'abuso di alcol potrebbe essere mediato proprio dalla carenza di ossitocina presente negli alcolisti cronici, conseguenza della distruzione tossica dei neuroni ipotalamici specializzati nella produzione di questa sostanza. Poi c'è l'ectasy, sostanza illegale con effetti ansiolitici e socializzanti, raggiunti anche attraverso lo stimolo alla secrezione di ossitocina; un effetto simile lo provoca la cocaina, ma solo nel momento dell'assunzione. L'abuso cronico, infatti, riduce i livelli di ossitocina, così che le madri cocainomani spesso non sviluppano un adeguato legame affettivo con la prole, né un adeguato comportamento protettivo.
di Furio Colombo
Una nuova febbrile apatia” attraversa l'Italia. La frase bella e poetica riassume, a pagina 109, il senso del libro I riluttanti di Carlo Galli, appena pubblicato da Laterza. I riluttanti, secondo Galli, sono coloro che potrebbero dare e non danno, che potrebbero partecipare e si astengono, che hanno gli strumenti o la conoscenza per fare e non fanno. Al momento cruciale si tirano indietro e fanno sapere che non sono disponibili. In questo modo l’autore del saggio dà un volto alla zona grigia di cui si è molto parlato e capito poco.
IL PERCORSO di indagine parte da Machiavelli, che rimprovera i principi italiani di badare all'immagine, restando alla larga dall’attraversare la linea della responsabilità, chiama a testimone Petrarca, che vede in questa assenza una mancanza di virtù morale, ascolta Manzoni che in Adelchi denuncia “una élite votata alla ripetizione coatta della violenza”. E cita Leopardi quando constata che l'Italia ha “le classi dirigenti più ciniche di ogni altra regione”. Ecco, dunque, il pezzo mancante di un gioco che sembra consistere sempre nello scontro fra due estremismi, quello di un residuo potere e quello di una residua opposizione. Essere riluttante è un’opzione di élite. Non esiste un operaio riluttante, ma può esserlo il suo capo-azienda quando sta bene attento a restare allineato e coperto su ciò che “le giuste fonti” fanno sapere e vogliono che si dica sul lavoro come costo e come ingombro. Il riluttante ha un suo modo accorto di astenersi: lo fa con l'adesione immediata (forte istinto e buona informazione) alla decisione “giusta”. Il riluttante non è un solitario che vaga fuori dal “quadrato” in cui sono accampate le forze che contano. Il riluttante è dentro il campo e non riuscirai a farlo uscire a nessuna condizione, tanto più ostinato nel rifiutare di fare un passo diverso dal percorso segnato, quanto più è deciso a contare senza decidere. Altrimenti, ad esempio, come avrebbero fatto le “forze politiche” presenti in Parlamento a ottenere il voto massiccio che hanno ottenuto per nominare e votare persone senza rapporto con la realtà nelle “Autorità indipendenti” delle Comunicazioni e della Privacy, che sono diventate in tal modo totalmente dipendenti, visto che persino le mogli hanno trovato posto nelle altissime posizioni in questione? Forse, con la mia interpretazione, mi sto scostando dal rigoroso saggio di Carlo Galli che ho citato e che è destinato a diventare un breviario sul ceto dirigente italiano dei nostri giorni. Forse mi sto scostando quando dico che “il riluttante” il più delle volte è un militante, e che “apatia” significa totale disinteresse per l'opinione pubblica o anche solo il buon senso e il rifiuto (riluttanza) a uscire dalle fila, ad assumersi una responsabilità personale e aperta. Tutto ciò avviene con tale continuità e costanza, ed enormità di eventi, da spingere i cittadini alla rivolta. Ma il riluttante persevera. E i partiti credono di potersi valere di una buona scorta di riluttanti (i sinonimi sono ovviamente “conformista”, “opportunista”, “carrierista”) che esibiscono come prova di compattezza. Diventa più facile, adesso, capire il furore così diffuso, fino a poco fa, fra le classi dirigenti (soprattutto dei partiti e soprattutto a sinistra) per il fenomeno detto “antiberlusconismo”, visto come una intollerabile manifestazione di estremismo. Infatti turbava soprattutto la “apatia febbrile” dei militanti (dove militante significa ordinato partecipante a strategie sconosciute decise da altri che il più delle volte sono in contatto con altri ancora, e tengono conto di fatti e pericoli e convenienze che tu e io non conosciamo). Gli antiberlusconiani, i girotondini, i popoli viola, gli autoconvocati di ogni tipo che hanno a lungo riempito le piazze italiane ancora e ancora, dal Palavobis di Milano a Piazza Navona in Roma, prima di indignarsi, erano da respingere in quanto intransigenti. Nella vita politica dei riluttanti l’intransigenza è infatti intollerabile perchè interrompe il gioco della riluttanza militante. E per questo, per farne sentire il suono anarchico e stridente, l’antiberlusconismo veniva chiamato “estremismo”. E si evocava drammaticamente il pericolo di “dire sempre no”, il che implicava la necessità di trovare consonanze e accordi, e recava i una tabella di cose da fare, inevitabilmente, “insieme”. Per esempio approvare, assieme al ministro della Gioventù, una sua legge sulla eleggibilità attiva e passiva al Senato dei giovani di 18 anni, come se fosse una cosa utile e sensata in quel quadro politico, come se non fosse la legittimazione pubblica di un ministero totalmente inutile e truffaldino, visto lo stato di abbandono dei giovani.
MA IL CODICE del riluttante è già scritto molto prima della sua presunta militanza. È il misterioso talismano della “moderazione” ovvero una ideale “dose giusta” che mette in guardia da pericolosi e impetuosi abbracci di impegni o ideali, in situazioni imprudenti che possano intaccare la tua reputazione di moderato, indispensabile per i possibili incarichi di domani. Per questo scrive Corrado Staiano (Corriere della Sera, 7 giugno): “Per farcela a superare i momenti gravi della vita, anche della vita di una comunità, è indispensabile la passione. È stata ben presente in alcuni momenti della Storia nazionale”. E oggi? Stajano li conosce, li vede, li sente. Passano i riluttanti.
Il Fatto 10.6.12
Amnesie presidenziali
di Angelo d’Orsi
Nel dialogo con il dissidente Adam Michnik apparso ieri su Repubblica, Giorgio Napolitano rivisita il passato del partito che fu il suo e di milioni di italiani e giudica severamente le scelte del Pci, in particolare in relazione al 1956, l’anno spartiacque, come è stato chiamato. Fu drammatico, quell’anno, per la concomitanza tra le “rivelazioni” di Kruscev al XX Congresso del Pcus, le sommosse in Polonia, la sanguinosa repressione dei moti d’Ungheria da parte delle truppe sovietiche. In Italia, sede del maggior Partito comunista d’Occidente, i contraccolpi provocarono lacerazioni interne al partito, rotture a sinistra, con il Psi di Nenni e la fine dell’idillio tra intellettuali e Pci che, a partire dalla pubblicazione delle opere di Gramsci era stato intenso, avviando la cosiddetta egemonia culturale della sinistra.
MA NEL ’56 il Partito, pur con aspre crisi interne, rimase ancorato all’Unione Sovietica, giustificando l’invasione dell’Ungheria: fu una scelta all’insegna del realismo politico che oggi Napolitano giudica “un tragico errore”. Togliatti era uomo troppo intelligente per non accorgersi che i moti ungheresi non erano tutti fomentati dalle “potenze imperialistiche”: eppure il timore di “fare un favore all’imperialismo” era troppo forte e i tempi non gli parvero maturi per consentire al partito italiano una piena autonomia rispetto a Mosca. Certo, tutto ciò avvenne non senza contrasti interni alla Direzione del partito (si ricorda in particolare il gesto di rottura di Giuseppe Di Vittorio), e soprattutto le fibrillazioni di molti intellettuali che firmarono il famoso Manifesto dei 101, in cui si smarcavano dall’Unità che aveva salutato entusiasta l’ingresso dell’Armata Rossa a Budapest, (salvo poi, nell’arco di poche ore, sotto le pressioni dei dirigenti, ritrattare). Un illuminante scambio di lettere fra Togliatti e Giulio Einaudi (l’editore che stava pubblicando Gramsci) ci mostra il contrasto fra la posizione privata (anche Togliatti giudicava negativamente l’intervento sovietico) e quella pubblica: “Si sta con la propria parte anche quando essa sbaglia”.
OGGI NAPOLITANO parla, a ragione, del rapporto con l’Urss come di “una prigione”; ma forse dimentica il contesto storico in cui quel rapporto fra disuguali si dispiegò: la Guerra fredda, il maccartismo negli Usa, i Comitati civici, lo strapotere democristiano e la Celere in Italia. Il presidente non indulge alle grottesche sentenze di tanti ex che non soltanto rinnegano il proprio passato, ma gettano fra le nefandezze della storia la vicenda dell’intero movimento comunista, si esprime sobriamente nella sua rivisitazione critica di quel passato. Nel ’56 egli non ebbe certo la forza o la volontà di differenziarsi dalla linea togliattiana, la quale stava in realtà cambiando proprio in relazione agli eventi di quell’anno.
Tuttavia Napolitano faceva parte del Comitato centrale e nell’VIII Congresso del Pci che chiuse l’anno, pare abbia redarguito Antonio Giolitti che era invece stato critico, vantando la democrazia interna al partito, che aveva appunto consentito posizioni come quella giolittiana. Togliatti, dal canto suo, rivendicò l’importanza del rapporto con l’Urss, ma sottolineò con forza che non c’era (più) “né Stato guida, né partito guida”. La guida “sono i nostri princìpi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano... i doveri della solidarietà internazionale”. E invitò il partito a seguire, “nella nostra marcia verso il socialismo, una via italiana”.
Fu in fondo anche grazie a quel “tragico errore” che il Pci intraprese una strada diversa, che lo condusse nelle istituzioni e, con Giorgio Napolitano, al loro vertice.
Repubblica 10.6.12
La logica di Port-Royal quella sfida creativa per costruire un’opera
di Piergiorgio Odifreddi
Fu pubblicata, come sintesi di un metodo, da Arnauld e Nicole E diventò, dal Seicento, il testo base delle scuole gianseniste Se c’era un luogo, nel Seicento, dove la logica sicuramente non stava di casa, e anzi sembrava essere stata rigorosamente e ufficialmente bandita, quello era il monastero di Port-Royal. A confermarlo basterebbero le vicende personali e le opere letterarie legate al nome di Pascal, che di quel luogo fu il più noto frequentatore, e il più illustre fiancheggiatore. È dunque singolare che, nel campo scientifico, il monastero sia passato alla storia per quella che viene comunemente chiamata la Logica di Port-Royal, anche se in origine si intitolava La logica, o l’arte di pensare. La pubblicarono anonima nel 1662, esattamente trecentocinquant’anni fa, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, due degli intellettuali più in vista del convento. E rappresenta una sorta di lavoro “collettivo” che servì alle generazioni future. Tanto Arnauld era focoso e impulsivo (nel 1643 aveva scritto il primo pamphlet giansenista, La comunione frequentefatto di serrate dimostrazioni logiche in stile quasi matematico) quanto Nicole era pacato e riflessivo. Del giansenismo, pensava che fosse un’eresia immaginaria, su cui si era fatto troppo rumore per nulla. Tornando alla Logica di Port-Royal, le storie personali dei loro autori lasciano prevedere che il suo stile sia un po’ pretesco, ma il suo approccio non è scolastico. Anzi, nelle intenzioni teoriche, l’opera si schiera dalla parte dei moderni. Anche se, nello sviluppo pratico, si tiene alla larga dall’induzione, e dunque dal metodo scientifico e sperimentale, concentrandosi completamente sulla deduzione, e in particolare sul metodo geometrico e cartesiano. L’influsso di Cartesio è evidente, nel bene e nel male. Il bene, sta nell’aver capito che i sillogismi erano solo una parte della logica: la più arida, sterile e scolastica. Il male, nell’aver sottovalutato l’importanza e la fecondità del formalismo, a favore dell’intuizione e delle “idee chiare e distinte”. La Logica di Port-Royal si situa dunque a metà del guado che dalla logica filosofica di Aristotele condurrà a quella matematica di Leibniz, Boole, Frege e Russell. Ispirandosi alle anticipazioni di Pascal, e dei suoi due misconosciuti trattati Lo spirito geometrico e L’arte di persuadere, Arnauld e Nicole enunciano otto regole metodologiche, che mantengono ancor oggi inalterato il loro valore. Esse mostrano come il metodo logico consista nel «definire chiaramente i termini di cui ci si deve servire, postulare assiomi evidenti per provare le affermazioni, e sostituire mentalmente nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei termini definiti». Come già il titolo originario lasciava presagire, lo scopo della Logica di Port-Royalè ambizioso: si propone infatti di studiare non le regole della grammatica, o gli stratagemmi della dialettica, ma nientemeno che Le leggi del pensiero. Si tratta, cioè, dello stesso programma che intraprenderà George Boole nel 1854, fin dal titolo del suo omonimo capolavoro, ma con un approccio algebrico che gli permetterà di aprire le porte alla logica moderna. Arnauld e Nicole si fermarono fuori della soglia, invece, e nelle quattro parti della loro opera si limitarono a discutere le «quattro operazioni principali dello spirito: concepire, giudicare, ragionare e ordinare». Più che forzare a rigorose dimostrazioni di tipo algebrico o geometrico, le loro ricette permettevano dunque ancora di cucinare pseudodimostrazioni filosofiche: come quelle scodellate da Spinoza nella sua Ethica, che rimase « ordine geometrico demonstrata » solo nelle pie intenzioni dell’autore. Un elemento di vera novità, comunque, la Logica di Port-Royal riuscì a introdurlo, ed è la distinzione fra le “intensioni” e le “estensioni” dei concetti: cioè, fra comeessi sono enunciati, e ciò che essi esprimono. Si tratta della stessa distinzione fra “senso” e “significato” che Gottlob Frege riprenderà nel 1892, nel suo omonimo e classico articolo Senso e denotazione. Effettivamente, Port-Royal era il luogo più adatto per scoprire questa distinzione. Infatti, il monastero fu l’epicentro di un’interminabile disputa sulla grazia che non aveva nessun significato oggettivo, benché avesse molto senso soggettivo per i gesuiti e i giansenisti. Essa generò innumerevoli discussioni, piene forse di buone intenzioni, e certo di cattive “intensioni”, ma tutte prive di qualunque “estensione”. Era anche per educare a queste vuote dispute, oltre che per divertire il giovane duca di Chevreuse, che la Logica di Port-Royal fu scritta. Essa venne adottata come testo nelle “piccole scuole” gianseniste, che costituirono comunque un interessante esperimento d’avanguardia educativa. Le classi erano ridotte a una mezza dozzina di studenti, l’emulazione fra di essi era bandita, il silenzio veniva privilegiato al gioco, gli indisciplinati erano espulsi senza punizioni e il ragionamento era esaltato. Il fatto che, dopo tre secoli e mezzo, queste proposte allora avveniristiche suonino oggi anacronistiche, la dice lunga sulla direzione in cui sono rotolate l’educazione e la scuola, dalle vette di Pascal a oggi.
Corriere La Lettura 10.6.12
Elogio della ragion politica
Il bisogno d'essere governati è reale, non emotivo o irrazionale
Solo il coraggio di cambiare forma e volti
può (e quindi deve) rinnovare i partiti
di Francesco Piccolo
Qualche sera fa guardavo un dibattito politico in tv. O almeno, così era stato presentato. I contendenti stavano parlando da più di mezz'ora degli stipendi dei parlamentari. Cioè, di quanto guadagnavano, di quanto avevano dichiarato al Fisco; se era tanto, se era troppo, quanto avrebbero dovuto guadagnare, quanto avevano guadagnato altri. Guardavo molto annoiato. Non era la prima volta. E mi sono chiesto: ma la politica, ora, è questo? Cioè, più precisamente: ma cosa mi interessa sapere di un politico, quanto guadagna, oppure cosa fa di concreto in Parlamento o come sindaco di una città? Ero convinto — sono ancora convinto — che la politica riguardi di più, molto di più, la seconda questione.
Però, accanto alla politica concreta, come effetto collaterale non trascurabile, c'è la questione morale: come ci si comporta, quanto si guadagna, se si ha un conflitto d'interessi. In ogni carriera politica, questo aspetto è importante, bisogna porvi attenzione: ma soltanto in seconda battuta, quando si è apprezzata la concretezza del fare politica. Il moralismo potrebbe essere una formula matematica: la questione morale meno la politica reale. Se la questione morale prende il sopravvento su tutto, ecco che si diventa moralisti.
Perché si è arrivati a questo punto? Senz'altro, la prima risposta istintiva e anche sensata, è quella che diamo tutti: perché la politica in questi anni, i partiti e il sistema, è stata deludente, insufficiente e spesso corrotta.
Il dilemma a questo punto è: bisogna buttare via tutto quello che c'è?
La politica dovrebbe avere più o meno questa funzione in una società: ascoltare la gente, e riformulare in proposte, e poi in leggi, i desideri e le istanze. Perfino le insofferenze e gli sfoghi. Il rapporto degli italiani con la politica è da sempre profondamente emotivo, irrazionale. Si esprime rabbia, estremismo, si ha voglia che tutti vadano a zappare la terra. Se si chiede a un passante che cosa vorrebbe succedesse ai politici, spesso risponde: che vadano tutti in galera. O, se è particolarmente buono: che vadano tutti a casa.
Queste frasi raccontano la temperatura di un Paese. Poi ci sono altre richieste più o meno folli, poi altre più o meno sensate. Ma sempre un discorso politico fatto per strada ha un'emotività fortissima, una irrazionalità più o meno comprensibile. Che cosa fa allora di solito la politica, buona o cattiva che sia? Cerca di interpretare gli umori, soprattutto quelli emotivi e irrazionali, e incanalarli in una ragionevolezza, in una strategia. Da qui (certo, per semplificare) nascono i programmi politici, i progetti economici e culturali, la lotta all'evasione fiscale o l'organizzazione della società. La politica è — dovrebbe essere — la parte pacata e riflessiva del Paese, che però tende l'orecchio ai tumulti emotivi della sua gente. La democrazia consiste nell'incanalamento razionale dell'irrazionalità.
Non sta accadendo questo. Da molto tempo, ma in questi ultimi mesi in modo ancora più netto, visibile.
Se la democrazia è un canale razionale per le richieste anche irrazionali, il populismo consiste nel rinvigorire con intenzione quell'emotività, attraverso altra emotività. La democrazia consiste, per chi è addetto al fuoco, nel tenerlo a bada: cioè, tenere il fuoco sempre acceso ma basso, in modo che serva, ma non faccia danni; il populismo consiste nel soffiare di continuo su quel fuoco. Come si soffia sul fuoco? Si accusa il mondo politico di avere in dispregio la Costituzione e la democrazia, e poi si sostiene con disinvoltura che un presidente della Repubblica debba firmare o non firmare le leggi proposte a seconda di motivazioni politiche (e non può farlo); si dice con altrettanta disinvoltura che un presidente del Consiglio non è legittimato a governare se non si è sottoposto a una prova elettorale (ed è assolutamente legittimato). Queste affermazioni alimentano l'indignazione e la rabbia, perché lavorano sul desiderio di migliorare il mondo, programma vastissimo della gente perbene. Ma non usano il linguaggio della politica.
La politica è razionalità. L'irrazionalità allora si può definire, a ragione, antipolitica. Se uno come Beppe Grillo porta la gente in piazza per gridare vaffanculo a tutti, se urla che destra e sinistra sono uguali e che tutti devono andare a casa e il presidente della Repubblica con loro, non si può dire che lavori sulla razionalità, ma decisamente sulla emotività. E trova terreno fertile. È come se la nazionale di calcio avesse come commissario tecnico uno più facinoroso di quelli che discutono al bar. Il risultato sarebbe che finalmente vedremmo quella squadra che si vagheggia nelle discussioni tra avventori, con quattro punte e tre fantasisti. E forse ci divertiremmo anche un po'. Ma dubito che funzionerebbe.
E allora, l'antipolitica è da considerare la rivoluzione che sta arrivando? In poche parole, l'atmosfera dentro la quale siamo porterà a qualcosa di buono? Grillo e il Movimento 5 stelle sono una novità assoluta?
È una questione importante e seria, la presenza di un nuovo movimento e i consensi che ha e che avrà. Ma arriva da più lontano. Grillo e il suo metodo emotivo non sono una novità. In più, l'antipolitica ha una funzione distruttiva e non costruttiva, e infatti appena ha a che fare con la questione della governabilità, il concetto di pulizia assoluta diventa molto problematico da mettere in atto.
Quando è cominciato tutto questo? Lasciamo perdere «l'Uomo Qualunque», restiamo agli ultimi anni. C'è una linea politica emotiva molto forte che ha attraversato il Paese, dagli ultimi anni della prima Repubblica (che ha contribuito a distruggere, appunto, ma non è stata capace di ricostruire). Comincia con la comparsa di Umberto Bossi e della sua Lega. Il suo linguaggio estremo e sprezzante, antipolitico, appunto; che è riuscito addirittura a mantenere con perseveranza nella sua funzione di ministro. Prosegue con Silvio Berlusconi e lo sprezzo del Parlamento; ma è soprattutto la prima campagna elettorale, quella vincente del 1994, che lo propone come antipolitico per eccellenza: l'opposizione a quello che c'era, l'idea che basti non essere dei politici professionisti per portare cose buone. Infine, attraversa una sinistra minoritaria e urlante come quella di Antonio Di Pietro, che è un grande demolitore e un grande moralizzatore, attraversa anche i rottamatori all'interno del Partito democratico (rottamare vuol dire buttare il vecchio per accogliere il nuovo, ma in qualche modo la parola e le intenzioni sono tutte concentrate sulla voglia e la soddisfazione di buttare il vecchio, e basta) e arriva dritto dritto a Grillo, interprete definitivo e assoluto.
Però: può la politica diventare un oggetto soltanto emotivo e irrazionale? Se pensiamo al passato, vengono in mente Moro, Berlinguer, Craxi, La Malfa, Andreatta, Andreotti — cito in ordine sparso e non esaustivo, buoni e cattivi. Erano tutti lavoratori razionali che cercavano di interpretare gli umori — lo facevano bene o male, in favore del Paese o a proprio favore, ma non si poteva concepire la politica in altro modo.
L'avvento di Grillo sancisce definitivamente che la politica è diventata una formula emotiva esponenziale. Se la gente è insoddisfatta, può esprimere la sua irrazionalità ed emotività attraverso un movimento che accoglie e autorizza lo sfogo, lo rende attivo. Tutti quelli che sono arrabbiati hanno molte ragioni, ma gli arrabbiati devono avere rappresentanti politici meno arrabbiati che rappresentino le loro istanze. Adesso invece hanno rappresentanti politici più arrabbiati di loro. È questo il paradosso che alla fine ha cambiato e sta cambiando il linguaggio, la forma e il contenuto della politica.
Ad esempio, Grillo propone il metodo dei referendum a raffica: è un altro fraintendimento della democrazia; si dovrebbe ricorrere ai referendum soltanto per questioni epocali (il sistema proporzionale o maggioritario?), soprattutto etiche (l'aborto, il divorzio). Per il resto esiste il Parlamento (e con ciò si intende un Parlamento i cui rappresentanti siano votati direttamente dagli elettori; altro concetto elementare e fondante di una democrazia, che è stato tralasciato con disinvoltura). Ma in Italia ormai — e non solo per colpa dell'emotività della gente, sia chiaro — il Parlamento sembra essere il luogo della colpa assoluta, e due sono le cose che ci interessano: quanto guadagnano, e quando andranno tutti a casa (o, alcuni, in galera).
Tra la politica razionale e la politica emotiva (l'antipolitica), la seconda vince sempre. In Italia vince ancora più facilmente, considerato che la politica razionale è scarsa e senza grandi progetti. Eppure non c'è altro modo, per un Paese, che governare con raziocinio. E infatti mentre altri urlano in piazza, alcuni «tecnici» tentano (a volte bene, a volte male) di tenere a bada la crisi e tenere in vita lo Stato.
Cosa può fare la politica contro l'antipolitica? C'è una Costituzione, un sistema democratico che si definisce rappresentativo, e delle leggi. Da tutto ciò si può derogare? Cioè: il fatto che i rappresentanti politici non facciano funzionare bene, non sfruttino a dovere questo sistema, rende davvero distruggibile con disinvoltura il sistema? È questo il bivio davanti al quale si trova il Paese: lavorare per rinnovare e migliorare la vita politica all'interno della forma data, oppure seguire le demolizioni dell'antipolitica.
Bisogna considerare che rimane in Italia una larga fascia di elettori (ancora la maggioranza?) che alla politica razionale crede ancora. Crede ancora nel presidente della Repubblica, nella governabilità, nella democrazia rappresentativa e quindi crede ancora nella composizione diversificata del Parlamento. Sono anch'essi insoddisfatti, o delusi dell'andamento della politica di questi anni, ma non hanno smesso di credere in un miglioramento di fatto della vita politica italiana, e di conseguenza del Paese.
I partiti che aspirano a governare (di sinistra, di centro o di destra — saranno gli elettori a scegliere) non possono e non devono giocare la partita dell'emotività: non è nel loro dna, anzi in qualche modo costituirebbe un paradosso, la politica che si traveste da antipolitica. Un paradosso per nulla convincente e quindi perdente, oltretutto.
Quindi, devono scegliere l'unica strada alternativa possibile, quella del riformismo. Devono scegliere un punto preciso di posizionamento per essere messi a fuoco dall'elettorato italiano. Si posizionino in quel punto di mezzo tra il loro stesso fallimento e l'antipolitica. Chi ne ha il coraggio prenda su di sé la battaglia del grande cambiamento della forma e dei volti della politica italiana, a cominciare dalle proprie file e dai propri programmi. Ma allo stesso tempo — è questo il punto — sfidi Grillo con coraggio: prenda le distanze dal suo estremismo dialettico, dal suo qualunquismo politico. Lo sfidi con eleganza, ma con determinazione: si presenti al Paese come la forza razionale e costruttiva in opposizione all'onda emotiva che in questo momento Grillo rappresenta. Abbia il coraggio, un partito politico che voglia rappresentare gli italiani, di esprimere dissenso verso chi vuole destituire le fondamenta su cui questo Paese è stato costruito — fondamenta malate e piene di umido—, ma che vanno rivitalizzate e non abbattute. Combatta la battaglia della riforma elettorale, politica, istituzionale.
Sia chiaro: gli elettori potrebbero aver voglia di seguire (eseguire) la pulizia totale che chiede il Movimento 5 stelle. Oppure, chissà, potrebbero esprimere insofferenza giustificata per i modelli politici a cui hanno assistito in questi anni, ma poi fidarsi di uno spirito riformistico, se lo giudicano moderato ma preciso, attivo, realmente propositivo; e con rappresentanti di chiaro valore. I partiti accolgano senza timore la sfida più affascinante dei prossimi mesi: la politica contro l'antipolitica — ognuno dalla sua parte (ovviamente). E chissà che il risultato non sia affatto scontato. Chissà che in questo Paese si possa tornare a fare politica — si possa continuare a fare politica — nel modo e con i mezzi che i grandi fondatori della Repubblica avevano, con intenzioni buone e concrete, immaginato per noi.
Corriere La Lettura 10.6.12
Noir, falsa biografia d'Italia
Il giallo politicheggiante alla Massimo Carlotto vive di mitologie e coltiva un ottimismo puerile
di Guido Vitiello
Un bel noir di provincia, ecco cosa ci vuole per un esordiente in cerca di fortuna. D'altro canto, lo diceva Fabrizio De André, non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male: qualche delitto senza pretese lo abbiamo anche noi in paese. Un noir di provincia, ma anche di denuncia: si tratta di escogitare una trama ingarbugliata che da un qualunque fattaccio di cronaca o d'invenzione — l'omicidio di un tecnico informatico del Bellunese, la defenestrazione di una casalinga di Frattamaggiore — conduca a diramazioni sempre più oscure, a reti di complicità sempre più eccellenti: congiure internazionali, misteri d'Italia, zone d'ombra tra affari e malaffare. Serve poi lo stile adatto: scoppiettante, tutto mozziconi di frasi al presente indicativo e additamenti da narratore behaviourista. Per i dialoghi, rifarsi al tono di certe serie tv americane, anzi direttamente al doppiaggio italiano, creando uno slang-patacca su cui si avrà cura di innestare, qua e là, un po' di crudezze dialettali, tanto per far capire che abbiamo letto Gadda e Pasolini e che sappiamo accostarci al cuore nero della realtà, alle viscere di un Paese irredimibile, come d'altronde reciteranno diligentemente la quarta di copertina e, al traino, i recensori pigri. A quel punto, manca solo il critico pronto a giurare che il noir è il nuovo «racconto della realtà». È un equivoco che va avanti da una sessantina d'anni, da quel 1944 in cui Raymond Chandler, padre nobile del giallo hard-boiled, pubblicò il saggio The Simple Art of Murder. Chandler elogiava Dashiell Hammett per avere strappato il delitto al «giardino di rose del vicario», dove lo teneva ostaggio Agatha Christie, e averlo restituito ai vicoli, in «un mondo in cui i gangster possono dominare le nazioni e poco manca che governino le città». Da allora, la vulgata vuole che il torbido giallo-noir all'americana parli del mondo reale, laddove il vecchio giallo all'inglese si attardava in un salottino lezioso frequentato da baronesse e colonnelli in pensione. Era falso allora, lo è ancor oggi: Chandler e i suoi molti eredi e imitatori, tanto nel néo-polar francese quanto nel nuovo giallo italiano, hanno spacciato per realismo crudo un manierismo stracotto, solo di segno diverso: gangster al posto dei colonnelli, prostitute al posto delle baronesse, detective che invece di impomatarsi i baffi o coltivare orchidee si ubriacano di whisky nel loro ufficio-stamberga, solitari e sconfitti. E già, perché il giallo «realista», oltre che manierista, è anche mitologico: «Sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, né un vigliacco», scriveva Chandler, delineando il ritratto di un cavaliere errante dalla triste figura, un ruvido eroe da western trapiantato nella metropoli, un uomo in lotta con un mondo marcio che mena quasi vanto della propria sconfitta. Il fraintendimento è duro a morire. Il nume tutelare del noir politicheggiante post-sessantottino, Jean-Patrick Manchette, ripeteva a ogni occasione il ritornello del «realismo», che risuona oggi nel libro-conversazione di Marco Amici con lo scrittore Massimo Carlotto, The Black Album. Il noir tra cronaca e romanzo (Carocci): «Il noir non è altro che letteratura della realtà». Qui l'equivoco si complica con l'idea che il genere abbia onerosi compiti extraletterari. Non deve solo interpretare il mondo, deve trasformarlo (la vecchia storia di Marx che capovolge Hegel). È una prosecuzione della lotta politica con altri mezzi, una «contro-narrazione» sovversiva: «Quello che mi interessava, infatti, era maneggiare la realtà (…) si trattava di una scelta letteraria che mi offriva la possibilità di continuare a fare politica attraverso il racconto del Paese». Strumento di lotta o mero succedaneo, a beneficio di quei militanti degli anni Settanta (Carlotto viene da Lotta continua) immersi nella retorica della «generazione» incarcerata e sconfitta: «Io ho ancora un forte legame con gente del mio passato e spesso ci troviamo a ripetere che avevamo ragione. (…) Eppure non siamo in grado di incidere sulla realtà». Il noir antagonista diventa così uno strumento per «maneggiare» il mondo con la magia nera delle parole.
E però questo tipo di letteratura, che si vorrebbe immersa nella fornace della realtà, è intrappolata in una stanza degli specchi. Sorvoliamo pure sui giallisti da dottrina Mitterrand, o su quel porto franco dove il noir commercia in vario modo con l'autobiografia romanzata, la retorica reducistica, il feuilleton con pretese antagoniste e vari pasticci postmoderni (in senso gastronomico) riscattati in nome dell'ideologia. Certo è che la figura letteraria dell'eroe sconfitto, che soccombe al Sistema o racimola trionfi derisori, sembra fatta apposta per sovrapporsi alle mitobiografie dei vecchi insorti e alle mistificazioni del romanticismo ribellistico, creando un vertiginoso gioco di illusioni ottiche. Ma non il solo. Dice ancora Carlotto che la fonte del crimine è tutta sociale e politica: «Alla malvagità dell'essere umano, svincolata da questi aspetti, ci credo poco». Ernest Mandel, dirigente trotzkista e studioso del giallo, sosteneva che i detective classici sono dei reazionari, e che Maigret, convinto che «l'uomo non cambia», è un emissario dell'ideologia borghese. Anche il marxista libertario Manchette disprezzava gli investigatori alla Poirot perché «non risolvono mai il delitto generale di questo mondo». In fin dei conti il noir impegnato, che deride l'ingenuità dei vecchi polizieschi a lieto fine dall'alto del proprio disincanto, coltiva un ottimismo antropologico quasi puerile, anche se riporta il delitto nei vicoli o attinge alle cronache e agli atti giudiziari. Il vecchio giallo era irrealistico in tutto ma serbava, per così dire, il realismo del peccato originale, la coscienza di un male che sopravvive a tutte le rivoluzioni: era figlio del pessimismo vero, quello dei moralisti classici. Soprattutto, non s'illudeva di «maneggiare la realtà». Sapeva di maneggiare un giocattolo, e anche in questo era più realista.
Corriere La Lettura 10.6.12
Dalla fantaeconomia alla neurofantascienza
Genetica, super-cervelli, bio capsule, staminali Uno psicobiologo esplora le nuove frontiere
di Anna Meldolesi
Il presidente americano è furioso: il Giappone ha appena annunciato l'imminente nascita della prima super-bambina. Yoko avrà una corteccia cerebrale ultra-spessa grazie al trasferimento del gene Cog e iper-connessa grazie al fattore di crescita scoperto da Rita Levi Montalcini. «Se continua così quei musi gialli ci battono anche nel baseball». «Non possiamo permetterci di fallire un lancio spaziale su due e allo stesso tempo fotterci il mercato dei computer e quello dell'ingegneria genetica». «Mi faccia quei gemelli, professor Furtwängler, me li scodelli coi fiocchi. A far suonare la banda ci pensiamo noi: e vedrà che musica!».
La scena si svolge nella stanza Ovale, tra le pagine del primo romanzo firmato dallo psicobiologo della Sapienza Alberto Oliverio (Per puro caso, Dedalo). Per la fantascienza dei giorni nostri il pianeta da conquistare non è Marte, ma il cervello. Neuroscienziati e genetisti hanno preso il posto degli astronauti. Al professor Furtwängler, Oliverio ha dato la chioma di Antonino Zichichi e l'ego di Craig Venter, un occhio iperattivo e uno guercio, metafora perfetta del suo sguardo sul mondo. I due embrioni transgenici del progetto «super-twins» sono pronti per essere trasferiti nell'utero di una donna dell'Us Air Force. Si chiameranno Link e Wash, in onore di Lincoln e Washington. La Pontificia accademia nel frattempo ha già discusso e approvato l'ingegneria genetica migliorista. Il Santo Padre è miracolosamente guarito da una malattia neurodegenerativa (grazie a una segretissima terapia con cellule staminali, secondo quanto sostiene un gesuita dissidente) e ha apposto il suo sigillo sulle innovazioni: «Non alterano in verun modo i rapporti tra l'io spirituale e l'io materiale». I teologi confermano: «Mai la sfera dello spirito è stata o sarà valutata attraverso i parametri della neurobiologia, cioè in base a concezioni scientifiche che verranno inevitabilmente sorpassate. Lo spirito esisteva anche quando gli uomini e i sapienti ritenevano, con Aristotele, che il cuore fosse la sede dell'anima».
Il passo di Oliverio è diverso da quello anglosassone cui siamo abituati, il suo libro è ironico e colto come un pamphlet, eppure non rinuncia a caricare la molla della suspence. Il Vaticano avrebbe fatto meglio a mettersi di traverso? L'umanità si affaccia su una nuova era di felicità o corre dritta verso la catastrofe? Tertium datur, forse, ma non saremo noi a svelare il finale.
C'è chi leggendo certe storie si preoccupa, pensando ai rischi dell'impresa scientifica. C'è chi si arrabbia perché la scienza, quella vera, non è un vaso di Pandora e bisognerebbe smettere di rappresentarla così. Ma science-fiction e techno-thriller sono generi fatti soprattutto per sorprendere e divertire. Prima di andarsene, Michael Crichton ha disseminato per il globo nano-robot fuori controllo, sgherri del biotech, velociraptor clonati, ma amava la scienza e ne era riamato. Tra coloro che stanno provando a colmare il suo vuoto c'è Douglas E. Richards, con l'accoppiata Wired e Amped. I due romanzi usciranno su carta a settembre, dopo il successo in ebook, e leggendoli sembra già di stare al cinema.
Anche qui il protagonista è il cervello. «Il suo potenziale è quasi illimitato. Ma è plasmato per la sopravvivenza anziché per l'intelligenza pura. Gli idioti sapienti aprono solo un piccolo squarcio sulle sue possibilità. Possono imparare a memoria gli elenchi telefonici con una sola lettura e moltiplicare numeri a dieci cifre più velocemente di un calcolatore. Cosa accadrebbe se potessimo liberare capacità anche superiori in tutte le aree del pensiero e della creatività?». L'upgrade cerebrale immaginato da Richards è un big bang neuronale transiente: si ingoia una capsula contenente virus transgenici e ci si spara un'ora di genialità psichedelica. I neuroni si riorganizzano come un domino di cento miliardi di pezzi che collassano. Il quoziente intellettivo schizza fuori scala e la soluzione ai problemi scientifici più ostici si rivela nel modo più sfacciato, come un esibizionista che apre l'impermeabile. Al primo strabiliante livello di potenziamento appare lampante l'inesistenza di Dio, al secondo livello — inimmaginabile per chi abbia provato solo il primo — l'immortalità è quantistica e l'universo diventa multiverso. «Lo scopo dell'umanità non è scoprire se esiste Dio ma diventare Dio». Quel che accade al terzo stadio, probabilmente, non lo sapremo mai. Spingendo le capacità cognitive oltre i limiti umani, il corpo consuma tutte le proprie risorse, fino al coma, e questo non è il solo effetto collaterale.
La morte per esaurimento sfiora anche la giovane genetista che ha inventato la bio-capsula, ingerendola per prima. Kira Miller è bellissima, coraggiosa e fidata, o almeno lo è il suo «io normale». Lo sarà anche l'alter ego potenziato? Wired e il suo sequel hanno più strati e connessioni di un super-cervello, con buoni e cattivi che si confondono, e una rete di scienziati che si sottopongono al rischioso trattamento per lavorare in segreto al bene comune. Obiettivo fusione fredda? Viaggi superluminari? Immortalità? Prima del visionario Ray Bradbury, appena scomparso, la fantascienza era dominata da «pistole a raggi e pin-up da salvare», ci ha detto Richards. «A preparare la strada alla fantascienza seria è stato Ray», proprio lui che si vantava di non essere una persona seria. Ma negli stessi anni delle sue Cronache marziane, hanno visto la luce anche altri capolavori a cui i libri di Richards rendono omaggio. La fine dell'eternità di Isaac Asimov, e soprattutto Fiori per Algernon di Daniel Keyes, un classico in cui sintassi e ortografia seguono la parabola intellettiva del protagonista, in salita e poi in picchiata. Charlie è un uomo sottodotato, che si ritrova improvvisamente con un Qi einsteniano e poi regredisce. Il suo ultimo sgrammaticato pensiero prima di scomparire è per il topo che ha fatto da cavia: «Pps. Perfavore mettere gentilmente allorquando possibile dei fiori sulla tomba di Algernon dentro il cortile di dietro...». Non c'è la fine del mondo e neppure l'happy end, ma anche questa è (grande) fantascienza.
Corriere La Lettura 10.6.12
Kandinsky, astratto sinfonico
Studi, improvvisazioni, composizioni coloratissime e dal ritmo quasi musicale:
ritratto di un artista «dissonante» in bilico tra la cultura francese e quella italiana
di Sebastiano Grasso
«Tutto ciò che era inerte, fremeva; tutto quello che era morto, riviveva», scrive Wassily Kandinsky (1866-1944), ex docente di Diritto romano all'Università di Dorpat, in Sguardi sul passato (1913). «Non soltanto le stelle, la luna, le foreste, i fiori tanto cantati dai poeti, ma anche il mozzicone nel portacenere, il bottone di madreperla che vi fissa dal ruscello, bianco e paziente, il filo di corteccia che la formica stringe con tutte le sue forze e trascina fra l'erba alta, verso mete indeterminate e importanti (...). Tutto mi mostra il suo volto, il suo essere profondo, la sua anima segreta che tace più spesso invece di parlare. Fu così che ogni punto, ogni linea immota o animata per me diventavano vive e mi offrivano la loro anima. Questo bastò a farmi scoprire, con tutto il mio essere e tutti i miei sensi, le possibilità dell'esistenza di un'arte da determinare e che oggi, in contrasto con l'arte figurativa, è chiamata "arte astratta"».
Dopo Kandinsky e Monaco, Kandinsky e i suoi contemporanei, Kandinsky e la Russia, Kandinsky e i suoi vicini di casa, poteva mancare Kandinsky e l'arte astratta fra Italia e Francia? Certo che no. Ci ha pensato Aosta, che, al Museo archeologico, espone 30 fra olî e disegni del padre dell'astrattismo, un lavoro di Francis Picabia; due di Joan Miró, Gianni Monnet e Mauro Reggiani; tre di Jean Arp, César Domela, Atanasio Soldati, Ettore Sottsass e Sophie Taüber-Arp; cinque di Alberto Magnelli, Piero Dorazio, Luigi Veronesi e Alessandro Mendini; sei di Gillo Dorfles.
In rassegna, anche cinque ritratti di Kandinsky, tutti del 1934, di Florence Henri. Ricostruita la Sala da musica che, nel 1931, all'Esposizione internazionale di architettura a Berlino, aveva delle decorazioni murali in ceramica, disegnate dall'artista russo. Mostra curata da Alberto Fiz.
Rapporti con la Francia. Chiusa dai nazionalsocialisti la Bauhaus di Berlino (l'anno prima era toccato a quella di Dessau), nel 1933, Wassily e la moglie Nina vanno a Parigi prima e poi, su indicazione di Marcel Duchamp, si spostano a Neuilly-sur-Seine, a qualche chilometro dalla Ville Lumiére. Negli undici anni di permanenza — durante i quali va in Usa, Inghilterra, Norvegia, Messico e Italia — Kandinsky incontra Miró, Mondrian, Magnelli, Man Ray, Ernst, i Delaunay, Léger, Brancusi, Arp.
Ed ecco, nella mostra aostana, alcune testimonianze sull'influenza esercitata dal pittore russo su Arp (Il figlio dell'ombelico, Torso-anfora), Domela (Studio, Composizione), Magnelli (Grande viaggio, Coalizione sorprendente), Miró (Uccelli nella notte), sulla Taüber (Sei spazi con croce, Composizione in un cerchio) che, nel '38, ottiene la cittadinanza francese.
Rapporti con l'Italia. Già nel 2007, a Palazzo Reale di Milano, Luciano Caramel aveva curata la mostra Kandinsky e l'astrattismo in Italia 1930-1950. A parte le vacanze a Genova, Firenze, Pisa e Forte dei Marmi, Kandinsky nell'aprile-maggio 1933 espone alla Galleria del Milione a Milano.
Dopo la morte, la Biennale di Venezia gli dedicherà una sala personale (1950). Sono proprio queste presenze a stimolare interessi e confronti degli artisti di casa nostra, soprattutto di quelli di Forma 1 e del Mac (Movimento arte concreta). Valga per tutti, ad Aosta, l'esempio di Trenta (1948) di Atanasio Soldati, che riprende, persino con lo stesso titolo, un'opera di Kandinsky del '37. O, ancora, Sviluppo orizzontale di una cornamusa dolcissima, Il ponte di Carlo, Prometeo, La comunicazione di Dorazio. E che dire delle Metamorfosi di Monnet, della Composizione con più figure e del Giardino di Dorfles, delle Composizioni di Reggiani, dei Motivi astratti di Sottsass? E, su un altro piano, dell'«arte applicata» di Mendini? Si vedano Kandissi, Kandissa e Kandissone, rispettivamente divano, specchio e arazzo.
Un discorso a parte meritano le Composizioni di Veronesi. Come Kandinsky, Veronesi considera pittura e musica un tutt'uno. L'artista russo lo aveva scoperto ascoltando il Lohengrin di Wagner. «I violini, i profondi toni dei bassi e, soprattutto di quell'epoca, gli strumenti a fiato, rendevano per me tutta la forza di quell'ora pre-notturna — ricorderà nel suo Ruckblike —. Vidi nella mente tutti i miei colori; erano lì davanti ai miei occhi: linee selvagge, quasi pazze. Non mi permettevo di credere che Wagner avesse descritto musicalmente "il mio momento". Mi divenne comunque chiaro che i dipinti potevano sviluppare la stessa forza che aveva la musica».
E, volendo Kandinsky la «presa diretta», optava maggiormente per l'acquerello, perché riusciva a realizzare quel «ritmo pittorico» che per lui difficilmente l'olio era in grado di dare con altrettanta rapidità. Wagner, ma anche Stravinsky, Prokof'ev e, soprattutto, Schönberg.
Da qui una serie di opere, soprattutto dedicate alla natura, da lui stesso definite «sinfoniche»: Studi, Impressioni, Improvvisazioni, Composizioni. Che, per Will Gromann, si potrebbero paragonare all'oratorio Le stagioni di Haydn. Armonia e ritmo portano Kandinsky verso una concezione del colore come suono, in cui dominano, gradualmente, l'azzurro, il rosso, il giallo.
Musicalmente dissonanti, piuttosto che armonici, sono i poli fra i quali, d'ora innanzi, andrà la sua pittura: «Mi sembrava che l'anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale quando l'inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita. Sentivo, a volte, il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano».
L'angelico poeta di cieli astratti Veronesi non poteva che sottoscrivere.
La Stampa TuttoLibri 9.6.12
Tullio Regge: “Come Borges sento il brivido dell’infinito”
di Piero Bianucci
Dal mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel al Cern di Ginevra, dal Parlamento europeo agli Stati Uniti: una vita piacevolissima
«L’ autobiografia di un curioso» esce da Einaudi: «Primi libri? La Bibbia, la comprò mio padre sulle bancarelle» «L’Ariosto? Che fumettone, meglio la Matematica dilettevole e curiosa di Ghersi da Hoepli» «Pinocchio, no, ma tanto Salgari. E Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico» «La fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov»
Vent’anni al mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel, varie stagioni al Cern di Ginevra, una legislatura al Parlamento europeo, soggiorni di ricerca negli Stati Uniti, Russia, Giappone. Sempre con uno sguardo geniale e matematico puntato a indagare l’estremamente piccolo dell’atomo e l’estremamente grande delle galassie. Questo è Tullio Regge. L’universo è stato la sua casa, e ora la sua vita, 81 anni, è consegnata a una piacevolissima autobiografia scritta con Stefano Sandrelli, astronomo dell’Osservatorio di Brera ma anche narratore e abile comunicatore della scienza. Titolo, L’infinito cercare .
«Non è il titolo che avrei voluto», dice Regge sfogliando distrattamente il volume che Einaudi sta per mandare in libreria. «Con Rosanna, mia moglie, avevamo pensato a L’orizzonte degli eventi: sa, quel posto strano intorno a un buco nero, dove il tempo si ferma sull’orlo del pozzo gravitazionale».
L’orizzonte degli eventi di Regge ora è la vetrata che inquadra il verde della collina di Torino: un salone con pianoforte, libreria, un telescopio di ottone firmato da una storica azienda ottica torinese che non esiste più. Comunque sia, perfetto è il sottotitolo, «Autobiografia di un curioso». Curioso è anche il Regge lettore, che infatti un giorno sentì il bisogno di penetrare nel libro dei libri, la Bibbia, e per farlo imparò l’ebraico, divertendosi poi a rilevare le discrepanze tra il testo originale e la sua vulgata, per esempio nell’episodio delle due spie di Josuha che vanno a Gerico e vengono ospitate da una prostituta, parola di solito occultata in un eufemismo. «Ho letto la Bibbia – racconta – per stupire gli amici con qualche parola in ebraico antico. E’ un’opera che contiene tutto e il contrario di tutto. Probabilmente la portò in casa mio padre, che comprava un sacco di libri usati sulle bancarelle di piazza Carlo Felice e del Balon. Era geometra. A Torino ci sono cinque case che ha progettato, sono in corso Casale e in corso Quintino Sella. Anche lui era curioso e si interessava alla scienza. Purtroppo non aveva avuto maestri, e quindi la sua testa era piena di concetti sbagliati». Che fine hanno fatto i libri che suo padre acquistava sulle bancarelle? «Molti li ho ancora, sono in soffitta. Altri li vede lì in quella libreria, lassù in alto: l’Ariosto (un fumettone, ma divertente), la Divina Commedia, L’astronomie populaire eLes étoiles di Camille Flammarion. Sui libri divulgativi di Flammarion ho incominciato a conoscere l’astronomia. Ma per me il testo più importante fu la Matematica dilettevole e curiosa di Italo Ghersi, un manuale pubblicato da Hoepli. L’ho letto quando ero alle elementari. Ho saltato quarta e quinta grazie a un esame che mi ha permesso di iscrivermi al primo anno delle medie in una scuola privata di via delle Rosine. All’orale di matematica, come risultato di un problema, saltò fuori il numero 47. Toh, guarda, è un numero primo, esclamai. Il professore che mi esaminava si stupì. E come lo sai, mi domandò. Semplice, dissi: ho letto il Ghersi». Altri libri dell’infanzia e dell’adolescenza? «Non Pinocchio, ma tanto Salgari. Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico: in fisica si chiama Gruppo di Carroll la descrizione di un mondo fittizio in cui la velocità della luce è nulla, qualcosa di simile al coniglio di Alice, che corre sempre e resta nello stesso posto. A scuola I promessi sposi mi lasciarono indifferente. Non mi dispiaceva Leopardi. Niente Carducci, che invece mia moglie apprezza. Al liceo ho avuto un professore di italiano che si chiamava Vanara. Un bravo professore, ma allora io amavo solo la matematica e odiavo i temi di critica letteraria. Mi bocciò. Poi mi sono preso la soddisfazione di scrivere centinaia di articoli di divulgazione scientifica per i giornali, a quanto pare decenti. Il fatto è che per scrivere bene servono due cose: conoscere l’argomento ed esserne appassionati. Detestavo gli autori latini. Forse li avrei amati se invece di Virgilio mi avessero fatto conoscere Lucrezio o Plinio. L’unico libro in latino che mi ha conquistato è del matematico Gauss, le Disquisitiones Arithmeticae, lo scrisse nel 1798, quando aveva appena 21 anni, fu il primo testo sistematico di teoria dei numeri».
Romanzi? «Negli Anni 90 mi fecero questa domanda in un programma radio di Rai Tre. Parlai di Ippolito Nievo, Le confessioni di un ottuagenario: mia moglie ne fu commossa perché citai Colloredo, il paese friulano dove è nata. E poi Thomas Mann, specialmente il Doctor Faustus: mi piacque perché parla di un musicista, e la musica classica è una mia passione. E Robert Musil, che era un ingegnere meccanico, L’uomo senza qualità .... ».
Fantascienza? «Sì, i romanzetti di Urania, ma anche Isaac Asimov e Fred Hoyle, autore della Nuvola Nera. Però la fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov, che era biologo, e Hoyle, che è stato un brillante fisico teorico. Pure lui tira fuori cose senza senso, come astronavi più veloci della luce. La scienza vera è più sorprendente di qualsiasi fantascienza. Quando pubblicai una raccolta di miei articoli divulgativi la intitolai Le meraviglie del reale in contrapposizione a Le meraviglie del possibile, antologia di racconti di fantascienza che Fruttero e Lucentini curarono per Einaudi nel 1959».
Scrittori che ammira? «Primo Levi, naturalmente. La sua chiarezza, che gli viene dall’essere chimico, l’ironia, la nitidissima testimonianza sui lager nazisti. Ho potuto conoscerlo bene, da un nostro dialogo è venuto fuori un libretto. Non ho mai capito perché si sia ucciso. Ma il più vicino a me è Borges, specie quello di Finzioni: Funès o della memoria, La biblioteca di Babele. Vorrei essere Funès, ora che i miei ricordi evaporano! Di Borges mi piacciono i giochi di specchi, i labirinti, il brivido dell’infinito. Proprio per Tuttolibri nel 1981 mi divertii a calcolare le conseguenze fisiche di una biblioteca come quella immaginata da Borges: il numero di libri possibili è uguale a 25 elevato alla 656 mila, per scriverlo occorrono poco più di novecentomila cifre. Ma il volume dell’universo osservabile in centimetri cubi è un numero di appena 85 cifre. La Biblioteca di Babele non starebbe nell’universo... ». Lei ha dato alla fisica contributi importanti. Quando le assegnarono il Premio Einstein o la Medaglia Dirac le motivazioni ricordarono i Poli di Regge, applicati in meccanica quantistica, il Regge Calculus, primo tentativo di quantizzare lo spaziotempo, ricerche sui buchi neri. Per anni ha tenuto la cattedra di relatività all’Università di Torino. Se dovesse consigliare a un lettore comune un libro per capire le teorie di Einstein sceglierebbe la biografia che ne ha scritto Abraham Pais o l’esposizione divulgativa della relatività dello stesso Einstein? «Entrambe». Dire Tullio Regge significa tante cose: l’illimitata voglia di capire il mondo, la lotta civile per le pari opportunità di un uomo che da tanti anni una malattia costringe su una carrozzella, l’interesse per la musica, il gusto di costruire al computer disegni satirici. Ma un’attenzione speciale merita l’attività di divulgatore: un campo nel quale Regge è stato pioniere con conferenze, libri, Cd-Rom, mostre (Experimenta), iniziative come GiovedìScienza, tutte cose che stanno sotto il cappello dell’Associazione CentroScienza, dove tuttora è presente accanto a Danilo Mainardi, Aldo Fasolo, Piero Angela. L’infinito cercare rappresenta bene tutte queste sfaccettature e colpisce per la leggerezza con cui Regge tratta le cose importanti che ha fatto e la serietà che talvolta riserva a cose leggere. Nel congedarmi, scorro gli scaffali. Vedo L’ Orlando furioso nell’edizione dei Fratelli Treves del 1894 illustrata con 517 incisioni di Gustavo Doré, Borges nei Meridiani Mondadori, i due volumi delle Opere di Levi, la Fisica di Feynman (Zanichelli), La nuova fisica di Davis (Bollati Boringhieri), libri di genetica di Watson e Crick, gli scopritori della doppia elica del Dna. Ogni tanto un titolo di Odifreddi inquina sacri testi di matematica. In un angolo, un libretto in giapponese. Gli autori sono Tullio Regge e Vittorio De Alfaro. Tratta dei «poli di Regge», il lavoro giovanile che lo lanciò nel mondo della fisica.
La Stampa TuttoLibri 9.6.12
Sul lettino di Musatti anche il dialetto smaschera l’inconscio
di Augusto Romano
Psicoanalisi Racconti autobiografici storie di pazienti, tranches de vie, apologhi
Cesare Musatti (1897 – 1989) fondatore della psicoanalisi italiana
Cesare Musatti SULLA PSICOANALISI a cura di A. Ferruta e M. MonguzziBollati Boringhieri, pp. 342, 29
Una mia collega, che aveva fatto un’analisi con Cesare Musatti, mi raccontò che ben presto l’analista prese a darle del tu e, poiché erano entrambi di origine veneta, cominciò a usare il dialetto durante le sedute. A un certo punto, le suggerì anche di prendere marito. L’aneddoto si potrebbe tranquillamente aggiungere ai tanti contenuti in questa godibile antologia di scritti di Musatti intitolata Sulla psicoanalisi. Titolo invero un po’ improprio, giacché non si tratta di contributi teorici ma piuttosto di racconti autobiografici, storie di pazienti, tranches de vie, apologhi, narrati tutti con la stessa cordiale familiarità che Musatti aveva usato con la mia collega. Giacché Musatti era dotato di una personalità estrovertita ed era tendenzialmente interventista; si trovava bene quando era al centro dell’attenzione e provava piacere a incarnare ruoli diversi (si ricorderà che in vecchiaia posò anche per la pubblicità di una linea di abbigliamento maschile). Il tutto però agito con bonaria ironia e un forte senso del concreto, dietro cui si intravede quell’amore per la razionalità e la chiarezza, che lo rendeva refrattario a intuizioni e fantasie. Di conseguenza, egli si rivela in questi testi un eccellente narratore della vita quotidiana, capace di evocare con pochi tratti sia casi clinici complessi, sia i costumi della borghesia italiana nella prima metà del secolo scorso. Dunque, un gradevole contributo alle letture estive, colto e a un tempo affabile e chiaro.
Potremmo fermarci qui. Ma rinunceremmo a darci ragione della strana impressione che colpisce chi svolge la stessa professione di Musatti nel leggere i suoi amabili sketch. L’impressione è quella di una distanza temporale superiore a quella cronologica, come se Musatti in qualche modo appartenesse ancora a quella stagione - la Belle Epoque! - che precedette lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Impressione inizialmente incomprensibile, dato che Musatti - pur dichiarandosi fedele all’insegnamento freudiano - accoglie numerose e importanti innovazioni rispetto alla teoria del Maestro: relativismo epistemologico (le teorie psicologiche sono soltanto modelli interpretativi, non verità accertate) ; importanza fondamentale attribuita all’empatia nella relazione analitica; necessità di utilizzare le proprie esperienze per la comprensione dell’altro; riconoscimento della identità di natura nel paziente e nel terapeuta (entrambi più o meno nevrotici) ; modellamento del setting (cioè delle regole su cui si fonda l’incontro) a seconda della necessità. Tra l’altro, queste novità riprendono alcune delle più feconde anticipazioni di Carl G. Jung.
E allora? Allora il problema è un altro e riguarda le visioni del mondo. La psicoanalisi di cui parla Musatti è una psicoanalisi rassicurante. I suoi pazienti hanno dei sintomi, generalmente ben definiti; egli li sdraia sul lettino, connette ingegnosamente le libere associazioni fornite dal paziente con il linguaggio dei sintomi, e per lo più il paziente almeno in parte «guarisce». Una psicoanalisi ottimistica, che si fonda su processi lineari di causa-effetto e nutre una grande fiducia nella ragione strumentale e in quella che Paul Ricoeur chiamava l’«ermeneutica del sospetto»: attraverso una operazione poliziesca di smascheramento l’inconscio e le sue trame vengono riportate alla ragione. Ma come? Non era l’inconscio «selvatichezza indomita»?
Ho l’impressione che l’ottimismo positivistico abbia giocato un brutto scherzo a Musatti, o almeno al Musatti scrittore: gli ha sottratto la dimensione del tragico e lo ha condannato al lieto fine. I nostri pazienti sono oggi meno pittoreschi dei suoi e in genere presentano meno sintomi. Sempre meno la loro sofferenza è annidata in un punto specifico e perciò sempre meno è addomesticabile. Essa è pervasiva, ed è una malattia - come si diceva una volta - dell’anima, che si potrebbe chiamare assenza di significato. Perciò il problema si sposta: far scomparire i sintomi non significa guarire. Lo stesso concetto di guarigione si fa più equivoco, indefinito e fuorviante. Il compito è un altro: familiarizzarsi con l’insensatezza; non pretendere che essa sia altro da quello che è; lasciarla parlare; contemplare le immagini attraverso cui essa si esprime; a nostra volta parlarle, per quel che l’Io può.
Ma al mare, sotto l’ombrellone, sarà bene tenersi stretto il libro di Musatti e la sua simpatica leggerezza. "Un eccellente narratore capace di evocare sia casi clinici complessi sia i costumi della borghesia italiana Una psicoanalisi ottimistica rassicurante, che si fonda su processi lineari di causa-effetto"
l’Unità 10.6.12
Il mercato grigio dei farmaci
Medicinali introvabili? C’è una ragione
Sostanze salvavita che smettono di essere prodotte all’improvviso e che ritornano sul mercato con nuovi nomi e a prezzi altissimi
di Cristiana Pulcinelli
ALCUNI FARMACI STANNO SPARENDO DAL MERCATO. SONO FARMACI IMPORTANTI, COSIDDETTI SALVAVITA: antibiotici, anestetici, antiipertensivi, antitumorali, ma anche soluzioni elettrolitiche per fleboclisi e vitamine. Sembra che nessuno voglia produrli, eppure la loro unica colpa è di essere «vecch»i. Non che non funzionino più, al contrario spesso sono ancora gli unici efficaci contro alcune malattie. Il problema è che, in quanto vecchi, costano poco. Il loro brevetto è scaduto e possono essere prodotti come farmaci generici, ma chi se la sente di accollarsi una produzione complessa per un guadagno minimo?
Negli Stati Uniti il problema esiste già da un po’ di tempo. Un sondaggio condotto nel 2011 su 820 ospedali ha mostrato che quasi tutte le strutture avevano dovuto gestire la carenza di almeno un farmaco nei sei mesi precedenti l’inchiesta e il 24% lamentava la carenza addirittura di 21 o più farmaci. E la Fda, l’ente americano che si occupa della regolamentazione dei farmaci, riporta che nel 2011 i prodotti carenti sono stati 220.
Un problema tanto più grave, dicono i medici, perché spesso si tratta di farmaci che non sono sostituibili con degli equivalenti. Un esempio di quello che sta accadendo è stato fornito dal presidente della Società americana di oncologia clinica (Asco), Michael Link, durante il congresso che si è svolto da poco a Chicago: «Il metotrexate – ha detto è al momento l’unica terapia per la leucemia linfoblastica acuta. Gli oncologi Usa hanno lanciato l’allarme di recente affermando di avere una scorta di tale farmaco sufficiente solo per due settimane, e ciò ha portato all’intervento della Fda per una soluzione almeno temporanea».
Il metotrexate è un farmaco che viene usato da cinquant’anni: ormai è passato tra i generici e costa pochi centesimi a pillola. Ma all’appello mancano anche altri antitumorali di vecchia generazione: bleomicina, cisplatino, citarubicina, daunorubicina, liposomiale, doxorubicina leucovorin, vincristina.... Le case farmaceutiche dicono che manca la materia prima, ma secondo un articolo uscito recentemente sul New England Journal of Medicine, l’origine del problema risiede nel fatto che la produzione dei generici si sta concentrando nelle mani di poche fabbriche che si trovano a dover affrontare contemporaneamente problemi di produzione e un aumento della domanda.
I problemi di produzione nascono perché i generici, che garantiscono un margine di profitto basso, sono fatti nel modo più economico possibile, usando macchinari vecchi e poco efficienti (che fanno aumentare il rischio di incidenti) e lasciando meno scorte possibile. D’altro canto, la domanda di antitumorali cresce perché in Asia, Sud America e Africa si espande l’accesso al trattamento.
C’è chi dice che più che di questioni tecniche, si tratti di un problema economico: le industrie farmaceutiche non producono farmaci vecchi e a basso costo per favorire la vendita dei nuovi farmaci i cui costi sono invece astronomici, dell’ordine delle centinaia di migliaia di euro a paziente. Un esempio? Il leucovorin è un farmaco antitumorale disponibile dal 1952, nel 2008 è stato approvato il levoleucovorin, un farmaco simile al primo, efficace come il primo, ma 58 volte più costoso. Otto mesi dopo il leucovorin cominciava a scarseggiare.
E in Italia? Anche da noi il problema comincia a farsi sentire. Un articolo pubblicato dal gruppo di Umberto Tirelli dell’Istituto nazionale tumori di Aviano riporta come a maggio dell’anno scorso un ordine di 100 fiale di carmustina, un farmaco richiesto nel trapianto di cellule staminali, non è arrivato lasciando 9 pazienti affetti da linfoma senza la possibilità di completare il trapianto nei tempi stabiliti. «La situazione non è drammatica come quella degli Usa, ma il trend è lo stesso», spiega Tirelli. Moltissimi pazienti si trovano a dover affrontare la mancanza del farmaco di cui hanno bisogno. Quali sono le conseguenze? Se il paziente non può aspettare che il medicinale torni ad essere disponibile, i medici dovranno utilizzare nuove combinazioni di farmaci con sostanze simili a quelle mancanti. Ma spesso queste nuove combinazioni non sono state sperimentate e quindi possono risultare poco efficaci o addirittura tossiche.
Secondo un altro sondaggio condotto dall’Istituto per la pratica medica sicura degli Stati Uniti, il 25% dei clinici dichiara che nel luogo in cui lavora è stato commesso un errore a causa della mancanza di esperienza nella gestione di farmaci alternativi a quelli normalmente utilizzati ma che non si trovano più. Non manca chi approfitta della situazione: ecco dunque svilupparsi un “mercato grigio”, non del tutto illegale (ma quasi) in cui alcuni produttori immettono sul mercato i farmaci mancanti a costi più alti di 20, 30 volte. «Piccole aziende private fanno incetta di farmaci carenti – spiega Tirelli e poi li rivendono agli ospedali a un prezzo molto più alto. In questo modo accelerano il fenomeno, presentandosi nello stesso tempo come benefattori dell’umanità».
Anche Roberto Labianca, presidente del Collegio italiano primari oncologi medici ospedalieri, è preoccupato: «Quando un farmaco sparisce ci sono pazienti che non sanno cosa fare. Tutti si devono prendere le proprie responsabilità: i medici ma anche le autorità. In Italia poi il problema è aggravato dalla frammentazione del sistema sanitario: ogni regione ha il suo sistema». . Cosa rimediare? La Fda dice esplicitamente di non poter «chiedere a un’azienda di continuare a produrre un farmaco se questa vuole sospenderlo». Si potrebbe pensare, allora, a degli incentivi fiscali per le aziende che producano questi farmaci, oppure, propone Tirelli, «mettere sotto pressione le case farmaceutiche che non vogliono produrre i vecchi farmaci non approvando le loro nuove, costosissime terapie».
Corriere Salute 10.6.12
L'ormone dell'altruismo (e forse del razzismo)
Il ruolo controverso dell'ossitocina
di Danilo di Diodoro
Se da adulti si è depressi, potrebbe dipendere da esperienze negative e stressanti fatte quando si era bambini. Ma che legame c'è tra lo stress infantile e la depressione adulta? L'ossitocina. Ancora: se una persona non è ipnotizzabile e quindi non può ricorrere a questa tecnica psicologica per condizioni mediche che potrebbero beneficiarsene, c'è un farmaco capace di renderla ipnotizzabile? Sì, sempre l'ossitocina. E si può indurre le persone a essere più generose, ad esempio nel fare donazioni in denaro ad associazioni benefiche? Anche in questo caso la risposta è positiva: merito dell'ossitocina.
Si potrebbe proseguire con un lungo elenco di azioni diverse, visto che l'ossitocina è l'ormone dei legami sociali, può modificare positivamente le capacità empatiche degli individui e la loro modalità di rapportarsi con gli altri. Il legame tra carenza di ossitocina e depressione adulta è stato individuato da una ricerca, pubblicata sulla rivista Stress da Jolanta Opacka-Juffry e Changiz Mohiyeddini dell'Università di Londra, mentre l'azione pro-ipnotizzabilità di questo potente neuropeptide è stata scoperta da alcuni ricercatori dell'Università del South Wales di Sidney, in Australia, guidati da Richard Bryant, e pubblicata in un articolo uscito sulla rivista Psychoneuroendocrinology.
L'ossitocina è prodotta dall'ipotalamo e viene immagazzinata nella parte posteriore dell'ipofisi. Da lì, questo neuropeptide, composto da nove aminoacidi, parte per distribuirsi in tutto l'organismo per via nervosa o con la circolazione del sangue. All'inizio del secolo scorso, quando fu scoperta, si sapeva che era in grado di far contrarre l'utero (il termine "ossitocina" viene dal greco antico e vuol dire "nascita veloce"), poi si scoprì che serviva anche per facilitare l'allattamento al seno. Negli ultimi anni ad ogni azione di questa molecola se ne è aggiunta un'altra, con un progressivo spostamento verso l'area psicologica e sociale. Oggi è indicata come la molecola del benessere, perché aumenta il senso di fiducia in se stessi, migliora la capacità di stringere legami sociali e di comportarsi in maniera corretta e altruista.
«L'ossitocina gioca un ruolo centrale nella modulazione dell'ansia» dicono Waguih William IsHak della Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles e i suoi collaboratori, autori di una revisione su questa straordinaria molecola, pubblicata sul Journal of affective disorders. «Esercita quest'azione attraverso specifici recettori per l'ossitocina che sono stati trovati nell'amigdala, struttura fondamentale nel percorso neurologico che media la paura, la fiducia e il riconoscimento sociale».
L'ossitocina è capace di tenere a freno l'attività dell'amigdala, piccola struttura cerebrale che risulta troppo "eccitata" negli stati ansiosi e depressivi. Il livello circolante nel sangue di questa sostanza aumenta dopo stimoli positivi e piacevoli, come il calore, il tocco di un altro essere umano, l'esposizione a odori gradevoli e alla musica. L'ossitocina inoltre è più elevata nel sangue delle persone che sono inserite in una buona rete sociale, rispetto a chi è invece isolato. È responsabile del senso di quieto benessere che si prova dopo l'orgasmo sessuale, e rappresenta una fondamentale base biochimica dell'attaccamento tra madri e figli.
La somministrazione di questo ormone come farmaco ha una serie di azioni favorevoli, come la riduzione del livello di pressione arteriosa, che prosegue per giorni anche dopo una sola somministrazione, la riduzione del desiderio di assumere sale, l'abbassamento del tono simpatico-adrenergico, che è aumentato invece dallo stress.
Ma come tutti i farmaci molto attivi, anche l'ossitocina può avere sia importanti effetti collaterali, sia effetti inaspettati e negativi, a seconda della disposizione delle persone che la assumono (si vedano gli altri articoli in questa pagina).
Corriere Salute 10.6.12
È stata chiamata anche l'ormone "dell'amore"
Relazioni complesse con droga e alcol
di D. d. D.
È stata chiamata anche l'ormone "dell'amore", e in effetti il livello di ossitocina tende ad aumentare nel plasma delle coppie che stanno insieme da poco. Lo dice uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Bar-Ilan (Israele) e della Yale University di New Have (Stati Uniti) coordinati da Inna Schneiderman, e pubblicata sulla rivista Psychoneuroendocrinology. «Si tratta del primo studio che ha esplorato in maniera longitudinale l'attaccamento romantico da un punto di vista biochimico» dicono gli autori della ricerca. Selezionate 30 coppie, formatesi da non più di tre mesi, i ricercatori le hanno paragonate a un gruppo costituito da 43 single, e hanno rilevato che in questi ultimi i livelli di ossitocina erano significativamente inferiori a quelli delle coppie di innamorati. E in questi ultimi l'alto livello di ossitocina si è mantenuto fino all'osservazione ripetuta al nono mese.
Altre ricerche hanno trovato una correlazione anche tra ossitocina e attività sessuale; non c'è quindi da meravigliarsi se, a un certo punto, l'ormone è comparso su Internet come farmaco proposto per l'aumento della fiducia in se stessi e il miglioramento delle prestazioni sessuali.
«Attualmente l'ossitocina è autorizzata in Italia solo per l'induzione del parto — spiega la professoressa Donatella Marazziti, del Dipartimento di psichiatria, neurobiologia, farmacologia e biotecnologie dell'Università di Pisa —. Acquistare ossitocina su Internet è un'attività che implica tutti i rischi legati al commercio online di farmaci: non ci sono garanzie né sulla qualità, né sulla precisione dei dosaggi. Inoltre, va detto che lo spray nasale di ossitocina ha un'emivita - termine che indica il tempo di dimezzamento di un farmaco dopo la sua somministrazione - di pochi minuti e, quindi, viene eliminata velocemente dall'organismo». Un aspetto che contribuisce a renderne aleatoria l'efficacia.
«Al momento ci sono veramente pochi dati per dire che l'ossitocina sia in grado di svolgere questo tipo di azione — continua l'esperta — . Teoricamente, sarebbe possibile un suo ruolo nel miglioramento della funzionalità sessuale, per la sua capacità di aumentare la libido, indurre l'orgasmo e anche l'erezione. Ma ho usato il condizionale: infatti, da qui a dire che questo neuropeptide possa diventare una valida alternativa al Viagra, la strada è molto lunga».
In virtù delle sue potenzialità socializzanti, l'ossitocina è stata proposta anche per il trattamento di disturbi psichici incentrati su una "difettosa" relazione con il mondo circostante, come l'autismo e la schizofrenia. È un ambito di esplorazione recente e attualmente sono in corso circa 40 trial clinici, che stanno sollevando speranze, anche se non ci sono ancora conclusioni scientificamente affidabili.
«Queste potenzialità sono legate a una duplice azione dell'ossitocina, che, da un lato, riduce l'attività dei sistemi biologici che regolano lo stress e, dall'altro, attiva quelli di gratificazione o reward. Questo secondo effetto ne fa intravedere un possibile ruolo anche nel trattamento delle dipendenze» dice ancora Marazziti. In effetti, l'ossitocina ha interazioni complesse con alcol e droghe. Interazioni studiate da Nadine Striepens dell'Università di Bonn. Una sua revisione, pubblicata sulla rivista Frontiers in neuroendocrinology, indica che l'effetto antisociale dell'abuso di alcol potrebbe essere mediato proprio dalla carenza di ossitocina presente negli alcolisti cronici, conseguenza della distruzione tossica dei neuroni ipotalamici specializzati nella produzione di questa sostanza. Poi c'è l'ectasy, sostanza illegale con effetti ansiolitici e socializzanti, raggiunti anche attraverso lo stimolo alla secrezione di ossitocina; un effetto simile lo provoca la cocaina, ma solo nel momento dell'assunzione. L'abuso cronico, infatti, riduce i livelli di ossitocina, così che le madri cocainomani spesso non sviluppano un adeguato legame affettivo con la prole, né un adeguato comportamento protettivo.
Corriere La Lettura 10.6.12
La mia America, divisa e razzista
di Martin Amis
Lo scrittore inglese racconta il suo difficile rapporto con gli Usa. Sbarcò nel 1958, a 9 anni. Subito affascinato dal Nuovo Mondo, presto scoprì la segregazione. E ricorda ancora le parole di un professore: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il massimo dei voti»
Andai in America per la prima volta nel 1958. Avevo nove anni, e mi piacque talmente che vi restai quasi un anno. Prima di imbarcarci sulla Queen Elizabeth, io e mio fratello Philip (di dieci anni) prendemmo la saggia precauzione di cambiare i nostri nomi. Io feci una scelta piuttosto ovvia: negli States sarei stato Marty. Philip, più fantasioso, modificò uno dei suoi secondi nomi in Nick Junior — ignorando bellamente che non c'era un Nick Senior. Mi resi conto in seguito che sarebbe stato perfetto se avessi usato il mio secondo nome, Louis (i miei genitori erano ammiratori di Louis Armstrong). A ogni modo, quando il transatlantico si avvicinò alla scintillante immensità di New York, Nick Junior e Marty erano assolutamente pronti.
Venivamo da Swansea, nel Galles meridionale. Era una città di tale omogeneità etnica che giunsi all'età di rubacchiare gli spiccioli e fumare le prime sigarette prima di conoscere — o vedere — una persona con la pelle nera. Il mio battesimo del fuoco avvenne nel 1956, quando andai con mio padre a trovare un professore che veniva dalla Rhodesia (oggi Zimbabwe). Lungo la strada, mentre eravamo sul bus rosso a due piani, mio padre mi tenne con pazienza un discorsetto — che mi parve piuttosto ripetitivo — su quel che mi aspettava. «Ha la faccia nera», mi ripeteva. «È nero». Appena entrai nel piccolo appartamento scoppiai in lacrime. Senza trattenermi, dissi: «Hai la faccia nera!». «Certo», rispose il visiting professor, quando finì di ridere. «Sono nero!».
Nel 1958 anche mio padre era un visiting professor — era andato a insegnare scrittura creativa a Princeton. Quando iniziammo la scuola a Valley Road, Nick Junior si fece comprare da mia madre il suo primo paio di pantaloni lunghi, mentre Marty si trovò a essere l'unica persona dell'intera scuola ad avere i calzoni corti (oltre a un paio di sandali Clark e a flosce calze grigie). A Valley Road c'erano molti scolari neri, ma, se ricordo bene, nessun insegnante nero. A casa allacciai subito ottimi rapporti con la donna delle pulizie, May, che arrivava da Trenton due o tre volte alla settimana con la sua sensazionale Cadillac rosa.
In quarta elementare feci amicizia dapprima con Connie, poi con Marshal, poi con Dickie. In seguito un ragazzino nero che si chiamava Marty divenne il mio amico del cuore. Marty portava il suo nome con un certo stile (nel mio caso, Marty era tornato a essere Mart, come Nick Junior era tornato Phil). Un giorno, usando la tipica frase con cui i bambini britannici si invitano a casa, dissi a Marty:
«Vuoi venire da me per il tè?».
«Mmm, preferisco il caffè».
«Voglio dire per la merenda con il tè, i pasticcini e le brioche. Tu puoi bere il caffè».
«No. Non piacerei a tua mamma».
«Perché?».
«Perché sono nero».
«Mia madre non ci farebbe neanche caso».
Marty venne a prendere il tè, e fu un successo, pensai. Poi andai a casa di Marty. Viveva nel quartiere nero di Princeton (che ora mi sembra sia in gran parte ispanico). Mentre mangiavo il pasto serale con la grande famiglia di Marty, e giocavo a basket nel vicolo sul retro con i suoi fratelli e i suoi amici, mi resi conto di essere bianco con un'intensità fisica che non dimenticherò mai. L'unico ragazzino della scuola con i pantaloni corti: considerate la vergogna di quell'esperienza e moltiplicatela per mille. Ora si trattava della mia pelle. Per tre ore fui preda di un attacco di imbarazzo così violento che temetti di svenire. In seguito mi chiesi se anche Marty avesse provato la stessa cosa a casa mia. Era così che si sentiva in Main Street?
Nel 1967 mio padre accettò un altro incarico di insegnamento in America, alla «Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee», come riportano le sue memorie, «un'istituzione conosciuta — suppongo senza che molti lo trovino ironico — come l'Atene del Sud». Princeton aveva iniziato ad accettare studenti neri a metà degli anni Quaranta. Due decenni più tardi, mio padre chiese se ci fossero studenti «di colore» a Vanderbilt. «Certo», gli risposero senza scomporsi. «Si chiama Mr. Moore». Il corpo insegnante delle facoltà umanistiche non esprimeva «valori» diversi da quelli della società circostante, che consistevano nei pregiudizi più beceri. Il protagonista dell'aneddoto che segue era un romanziere e docente di letteratura di nome Walter Sullivan.
Quando racconto questa storia, cosa che faccio spesso, attribuisco a Sullivan un pesante accento del Sud per farlo sembrare ancor più orribile, ma di fatto parlava un normale inglese americano con una cadenza meridionale piuttosto piacevole. Ad ogni modo le sue parole furono, letteralmente, le seguenti: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il voto massimo, una A».
La grande probabilità di sentire a ogni evento sociale commenti di questo genere — che non solo non erano mai criticati, ma di solito erano largamente applauditi — spinse mio padre a scrivere che considerava il periodo passato a Nashville come «secondo solo al servizio militare nell'elenco delle esperienze che non vorrei mai ripetere».
Tutto questo accadde molto tempo fa, e ve ne do la prova. Nell'anno trascorso a Princeton, la famiglia Amis — tutti e sei noi — andò a fare una gita a New York per un giorno. Fu un evento gioioso e meraviglioso, e spendemmo tanto che ne parlammo, incredibilmente, per settimane, mesi, anni. Perché tra biglietti del treno, taxi e giri in traghetto, il lauto pranzo, la cena sontuosa, gli innumerevoli snack e merendine, gli Amis riuscirono a spendere non meno di 100 dollari.
Nel 1967, quando tornò in Gran Bretagna, mio padre scrisse una poesia piuttosto lunga su Nashville, che si conclude con questi versi: «Ma nel sud, nulla c'è né ci sarà / Per bianchi e neri nessun futuro / Nessuno. Non qui». La sua disperazione, a quanto pare, era eccessiva. Una delle tendenze demografiche più evidenti dell'America contemporanea è l'esodo delle famiglie nere dagli Stati del Nord a quelli del Sud. Ciononostante, quelli di noi che credono nell'uguaglianza civile sentono di aver bisogno di essere rassicurati. Mi riferisco ovviamente al caso dell'uccisione di Trayvon Martin. Lasciamo da parte, per ora, quel capolavoro di giurisprudenza che è lo «Stand Your Ground Act» (la legge sulla legittima difesa che oppone la parola di un assassino a quella della sua vittima che non potrà più replicare), e rispondete a questa domanda: è possibile, nel 2012, confessare di aver inseguito e ucciso un diciassettenne bianco non armato senza essere neanche arrestati? Tranquillizzatemi, ditemi di sì.
© Martin Amis, 2012
di Martin Amis
Lo scrittore inglese racconta il suo difficile rapporto con gli Usa. Sbarcò nel 1958, a 9 anni. Subito affascinato dal Nuovo Mondo, presto scoprì la segregazione. E ricorda ancora le parole di un professore: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il massimo dei voti»
Andai in America per la prima volta nel 1958. Avevo nove anni, e mi piacque talmente che vi restai quasi un anno. Prima di imbarcarci sulla Queen Elizabeth, io e mio fratello Philip (di dieci anni) prendemmo la saggia precauzione di cambiare i nostri nomi. Io feci una scelta piuttosto ovvia: negli States sarei stato Marty. Philip, più fantasioso, modificò uno dei suoi secondi nomi in Nick Junior — ignorando bellamente che non c'era un Nick Senior. Mi resi conto in seguito che sarebbe stato perfetto se avessi usato il mio secondo nome, Louis (i miei genitori erano ammiratori di Louis Armstrong). A ogni modo, quando il transatlantico si avvicinò alla scintillante immensità di New York, Nick Junior e Marty erano assolutamente pronti.
Venivamo da Swansea, nel Galles meridionale. Era una città di tale omogeneità etnica che giunsi all'età di rubacchiare gli spiccioli e fumare le prime sigarette prima di conoscere — o vedere — una persona con la pelle nera. Il mio battesimo del fuoco avvenne nel 1956, quando andai con mio padre a trovare un professore che veniva dalla Rhodesia (oggi Zimbabwe). Lungo la strada, mentre eravamo sul bus rosso a due piani, mio padre mi tenne con pazienza un discorsetto — che mi parve piuttosto ripetitivo — su quel che mi aspettava. «Ha la faccia nera», mi ripeteva. «È nero». Appena entrai nel piccolo appartamento scoppiai in lacrime. Senza trattenermi, dissi: «Hai la faccia nera!». «Certo», rispose il visiting professor, quando finì di ridere. «Sono nero!».
Nel 1958 anche mio padre era un visiting professor — era andato a insegnare scrittura creativa a Princeton. Quando iniziammo la scuola a Valley Road, Nick Junior si fece comprare da mia madre il suo primo paio di pantaloni lunghi, mentre Marty si trovò a essere l'unica persona dell'intera scuola ad avere i calzoni corti (oltre a un paio di sandali Clark e a flosce calze grigie). A Valley Road c'erano molti scolari neri, ma, se ricordo bene, nessun insegnante nero. A casa allacciai subito ottimi rapporti con la donna delle pulizie, May, che arrivava da Trenton due o tre volte alla settimana con la sua sensazionale Cadillac rosa.
In quarta elementare feci amicizia dapprima con Connie, poi con Marshal, poi con Dickie. In seguito un ragazzino nero che si chiamava Marty divenne il mio amico del cuore. Marty portava il suo nome con un certo stile (nel mio caso, Marty era tornato a essere Mart, come Nick Junior era tornato Phil). Un giorno, usando la tipica frase con cui i bambini britannici si invitano a casa, dissi a Marty:
«Vuoi venire da me per il tè?».
«Mmm, preferisco il caffè».
«Voglio dire per la merenda con il tè, i pasticcini e le brioche. Tu puoi bere il caffè».
«No. Non piacerei a tua mamma».
«Perché?».
«Perché sono nero».
«Mia madre non ci farebbe neanche caso».
Marty venne a prendere il tè, e fu un successo, pensai. Poi andai a casa di Marty. Viveva nel quartiere nero di Princeton (che ora mi sembra sia in gran parte ispanico). Mentre mangiavo il pasto serale con la grande famiglia di Marty, e giocavo a basket nel vicolo sul retro con i suoi fratelli e i suoi amici, mi resi conto di essere bianco con un'intensità fisica che non dimenticherò mai. L'unico ragazzino della scuola con i pantaloni corti: considerate la vergogna di quell'esperienza e moltiplicatela per mille. Ora si trattava della mia pelle. Per tre ore fui preda di un attacco di imbarazzo così violento che temetti di svenire. In seguito mi chiesi se anche Marty avesse provato la stessa cosa a casa mia. Era così che si sentiva in Main Street?
Nel 1967 mio padre accettò un altro incarico di insegnamento in America, alla «Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee», come riportano le sue memorie, «un'istituzione conosciuta — suppongo senza che molti lo trovino ironico — come l'Atene del Sud». Princeton aveva iniziato ad accettare studenti neri a metà degli anni Quaranta. Due decenni più tardi, mio padre chiese se ci fossero studenti «di colore» a Vanderbilt. «Certo», gli risposero senza scomporsi. «Si chiama Mr. Moore». Il corpo insegnante delle facoltà umanistiche non esprimeva «valori» diversi da quelli della società circostante, che consistevano nei pregiudizi più beceri. Il protagonista dell'aneddoto che segue era un romanziere e docente di letteratura di nome Walter Sullivan.
Quando racconto questa storia, cosa che faccio spesso, attribuisco a Sullivan un pesante accento del Sud per farlo sembrare ancor più orribile, ma di fatto parlava un normale inglese americano con una cadenza meridionale piuttosto piacevole. Ad ogni modo le sue parole furono, letteralmente, le seguenti: «Non riesco proprio a dare a un negro o a un ebreo il voto massimo, una A».
La grande probabilità di sentire a ogni evento sociale commenti di questo genere — che non solo non erano mai criticati, ma di solito erano largamente applauditi — spinse mio padre a scrivere che considerava il periodo passato a Nashville come «secondo solo al servizio militare nell'elenco delle esperienze che non vorrei mai ripetere».
Tutto questo accadde molto tempo fa, e ve ne do la prova. Nell'anno trascorso a Princeton, la famiglia Amis — tutti e sei noi — andò a fare una gita a New York per un giorno. Fu un evento gioioso e meraviglioso, e spendemmo tanto che ne parlammo, incredibilmente, per settimane, mesi, anni. Perché tra biglietti del treno, taxi e giri in traghetto, il lauto pranzo, la cena sontuosa, gli innumerevoli snack e merendine, gli Amis riuscirono a spendere non meno di 100 dollari.
Nel 1967, quando tornò in Gran Bretagna, mio padre scrisse una poesia piuttosto lunga su Nashville, che si conclude con questi versi: «Ma nel sud, nulla c'è né ci sarà / Per bianchi e neri nessun futuro / Nessuno. Non qui». La sua disperazione, a quanto pare, era eccessiva. Una delle tendenze demografiche più evidenti dell'America contemporanea è l'esodo delle famiglie nere dagli Stati del Nord a quelli del Sud. Ciononostante, quelli di noi che credono nell'uguaglianza civile sentono di aver bisogno di essere rassicurati. Mi riferisco ovviamente al caso dell'uccisione di Trayvon Martin. Lasciamo da parte, per ora, quel capolavoro di giurisprudenza che è lo «Stand Your Ground Act» (la legge sulla legittima difesa che oppone la parola di un assassino a quella della sua vittima che non potrà più replicare), e rispondete a questa domanda: è possibile, nel 2012, confessare di aver inseguito e ucciso un diciassettenne bianco non armato senza essere neanche arrestati? Tranquillizzatemi, ditemi di sì.
© Martin Amis, 2012