martedì 26 giugno 2012

l’Unità 26.6.12
Le condizioni di un’alleanza
di Guglielmo Epifani


L’INTERVISTA CON CUI CASINI ESCR  DAL PENDOLO SEGUITO FINO AD OGGI E APRE A UNA prospettiva di collaborazione con il Pd per il futuro governo del Paese appare da un lato giudiziosa e dall’altra meritevole di una riflessione non occasionale da parte di chi si pone l’obiettivo di rinnovare l’Italia per salvarla dal declino nel nome della giustizia e dell’equità sociale. Pesa in questa scelta il ritorno in campo di Berlusconi, le incertezze e le divisioni nel fronte del centrodestra. Pesano la durezza della crisi e le difficoltà evidenti di uscire facilmente da una doppia trappola.
Quella di un euro senza testa e senza stato e quella di un Paese che da dieci anni non cresce né economicamente né socialmente. Pesa anche, va detto con chiarezza, la coerenza con cui il Pd ha scelto la strada più difficile e più responsabile: quella di far prevalere gli interessi generali e non i vantaggi della propria parte.
Riconoscere questa responsabilità vuole dire percorrere una strada in cui le ragioni del lavoro, degli esclusi, dei giovani precari, dei pensionati, di tutti coloro che stanno pagando sulla propria condizione i costi sociali ed umani della crisi, abbiano una esplicita centralità nei programmi di risanamento e di ricostruzione del Paese. L’equità non può essere solo predicata quasi fosse un tributo dovuto e nulla più. Deve diventare il cuore delle politiche fiscali e redistributive e anche il modo di difendere il welfare nella sua accezione più alta, quella di fondamento dell’eguaglianza e della cittadinanza, oltre che fattore di crescita e di sviluppo. Se si vogliono fare le cose seriamente, occorre partire dalle cause vere che hanno bloccato il Paese dalla nascita della moneta unica. Una moneta forte richiede un adattamento che non si è realizzato, soprattutto per responsabilità di un centrodestra incapace di governare il cambiamento necessario. Anzi, responsabile della difesa e dell’aumento di privilegi e del tutto irresponsabile dal punto di vista della lealtà e responsabilità fiscale. La cultura del pensare a se stessi, l’egoismo e l’individualismo proprietario, il rifiuto del rispetto delle regole, la pigrizia di una parte del sistema imprenditoriale, la chiusura corporativa degli interessi forti hanno alimentato una pratica di governo che ha portato il Paese sull’orlo del baratro.
Lo stesso governo Monti che ha il merito di aver ridato credibilità e ruolo all’Italia non può avere l’orizzonte di una politica duratura di ricostruzione. Può svolgere un ruolo nella transizione, anche se ha commesso errori evidenti e che è bene non nascondere. Ma non può, anche per il mandato ricevuto dal Parlamento, porsi l’obiettivo più ambizioso e più necessario. Proprio la difficoltà ad uscire dalla crisi dimostra la profondità delle trasformazioni che sono necessarie. Mentre la crescita di formazioni politiche a carattere personale e spesso venate da populismi pericolosi determinano un carico di responsabilità senza precedenti. Bisogna in sostanza presentarsi davanti a un Paese confuso ed impaurito con un messaggio chiaro e forte, che sappia guardare in faccia alla realtà. E dire con decisione che il ritorno alla lira non rappresenterebbe solo una sconfitta, ma una vera e propria avventura, soprattutto per la parte più debole. E si deve fare anche una cosa in più. Il Paese va mobilitato, le energie migliori vanno utilizzate, e le passioni risvegliate. Nessuno può tirarci fuori dai nostri guai, non ci sono salvatori alle porte.
L’etica che dobbiamo coltivare è quella della responsabilità comune e del farsi attori del nostro futuro. Per quanto difficile, questa è l’unica strada possibile. La politica non deve lasciare soli i cittadini, deve avere l’ambizione di un progetto alto, deve aprirsi e rinnovarsi. Ai cittadini tocca un compito altrettanto impegnativo: non credere a scorciatoie che non esistono, non pagare altri tributi a richiami senza fondamento, sentirsi soggetti pieni del proprio destino.

l’Unità 26.6.12
«Sì al patto tra progressisti e moderati»
«Passo importante contro la destra populista»
Casini sfida il Pd Bersani: sì all’intesa
di Susanna Turco


Bersani rilancia dopo l’apertura di Casini: segnale di grande rilievo per una ricostruzione democratica
Pdl spiazzato: si apre un problema politico di fondo

Un patto tra progressisti e moderati per il dopo Monti. Casini con un’intervista apre all’alleanza con il Pd e archivia Berlusconi. Bersani rilancia: è un segnale di grande rilievo per una ricostruzione democratica contro le spinte populiste. Il Pdl si sente spiazzato dalla mossa del leader Udc. Cicchitto: ora si apre un problema politico di fondo.

ROMA Un patto tra progressisti e moderati, che travalichi la tecnica di fine legislatura e si faccia politica nella prossima. Con un colpo, anzi due, in rapida sequenza come gli è proprio (intervista al “Corriere della Sera”, rilanciata in mattinata alla Direzione dell’Udc), Pier Ferdinando Casini dichiara chiuso il dialogo con un Pdl tutt’altro che deberlusconizzato e apre al Pd, spingendo sull’opportunità di proseguire la collaborazione oggi in atto: «La prospettiva è un patto tra progressisti e moderati per affrontare l’emergenza di lunga durata, imposta dalla crisi economica. Oggi si è realizzato con il governo tecnico, ma la strada è un governo politico nella prossima legislatura», dice a margine dell’appuntamento di partito. Una direzione che per il leader Udc va riprodotta e percorsa in parallelo anche in Europa, con un «patto tra Ppe e Pse» che consenta di arrivare agli «Stati Uniti d’Europa». Una «prospettiva», anche transnazionale, nella quale per Casini di fatto il Pdl non rientra. «Esserci o no è un problema loro, ma basta andare in Europa per capire che il Ppe non ha niente a che fare con chi vagheggia, anche solo per populismo, l’uscita dall’euro», spiega l’ex presidente della Camera, alludendo alle dichiarazioni anti-euro pronunciate da Silvio Berlusconi qualche giorno fa.
Parole che piacciono assai al segretario del Pd Pier Luigi Bersani: «Si tratta di un passo importante, che rende evidente come in Italia, ma non solo, bisogna costruire un patto tra le forze riformiste costituzionali, contro una destra che viene risucchiata inevitabilmente da posizioni populiste, con parole d’ordine pericolosissime», spiega intervistato da Youdem (mentre Marco Follini, che sei anni fa lasciò l’Udc per il Pd, gongola: «Il tempo dà ragione a scelte giuste»). Il leader del Pd affronta con una battuta la missione di Monti alla prossima riunione del Consiglio Europeo: «Dal premier mi aspetto un gol alla Pirlo. Anche se mi rendo conto che la porta verso cui deve calciare Monti ha molti portieri».
PDL SPIAZZATO
Le parole di Casini naturalmente, spiazzano il Pdl: «Escludendoci pregiudizialmente, Casini apre un problema politico di fondo», dice il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto, derubricando l’ipotesi a una «riproposizione del centrosinistra classico, con Casini al posto di Prodi». Gianfranco Rotondi acutamente osserva: «Il leader Udc pone fine politicamente alla legislatura: annunzia il patto Udc-Pd, chiede la spaccatura del Pdl».
Che si tratti di una mossa studiata nel quadro di accelerazione verso le elezioni è, in effetti, fuor di dubbio. Il segretario Udc Lorenzo Cesa, infatti, già affronta la questione della governabilità e vorrebbe stracciare la foto di Vasto: «Il Pd è alle prese con i rottamatori, e con Vendola e Di Pietro. Come ne uscirà è imprevedibile, però i fatti dimostrano ogni giorno di più che la foto di Vasto era davvero la vecchia foto dell’Unione, con qualche faccia diversa: ma con i fratelli-coltelli non si governa».
Più che spaccare il Pdl – operazione peraltro prossima a divenire superflua Casini vuole infatti riposizionarsi in fretta in vista del voto, archiviando l’idea (per lui seduttiva e, tutto sommato più semplice) di poter dialogare con il partito di Alfano e intanto attirare a sé quegli elettori: una tentazione ben presente fino alla tornata amministrativa, ma bocciata proprio dall’esito del voto (Pdl a picco, ma nessun guadagno per l’Udc). Adesso, poi, che Alfano – unico interlocutore possibile per i centristi è davvero marginalizzato da un Berlusconi risorgente, ogni dubbio è stato spazzato via («la solidità del gruppo dirigente del Pd è più forte di quella del Pdl», ha spiegato Casini al Corriere). Tanto più perché, sul fronte opposto, un personaggio con le posizioni di Matteo Renzi (sia dentro il Pd, che fuori) potrebbe rivelarsi presto un competitor ingombrante. E allora tanto vale affrettarsi a occupare quello spazio, prima che altri lo facciano, tentando per quanto possibile di scompigliare il quadro (anche quello delle alleanze, e infatti Sel e Idv storcono il naso).

l’Unità 26.6.12
Intervista a Massimo D’Alema
«Primarie? Prima il progetto. Un asse forte per il dopo Monti»
«Sì al confronto con i moderati. Vanno sconfitte le forze che vogliono impedire che dalla crisi
si esca con uno spostamento a sinistra»
di Simone Collini


ROMA «La candidatura del Pd a governare l’Italia è dentro questa visione». Massimo D’Alema sta parlando già da un po’ quando arriva a citare per la prima volta il Pd. Il ragionamento parte dall’Europa, dalla necessità di una ripresa economica ma anche di ridare al vecchio continente un ruolo sulla scena mondiale, in quanto «il mondo ha sofferto il danno della deregulation economica, ma i danni della deregulation politica, di una mancanza di governance possono essere ancora maggiori, possono essere addirittura le guerre, e l’Europa dovrebbe portare il suo patrimonio giuridico, la sua civiltà, il suo soft power, che consiste esattamente nell’essere in grado di risolvere i conflitti attraverso la mediazione pacifica». E qui, prima del Pd, D’Alema cita il centrosinistra, che «deve farsi portatore di un grande progetto per l’Europa, dopo il fallimento della destra, che da una parte ha imprigionato l’Europa in una tecnocrazia monetarista di cui si vedono gli effetti disastrosi e dall’altra ha incoraggiato il nazionalismo populista, di cui l’Italia è stato uno dei laboratori più inquietanti». Dice che è necessario «un salto di qualità nell’integrazione politica dell’Europa» e che questo deve diventare «la bandiera di una nuova stagione progressista». E dentro a questo quadro generale si arriva al Pd: «Siamo parte di un nuovo progetto per l’Europa, e siamo l’unica forza che possa ragionevolmente collegare il centrosinistra italiano a un nuovo centrosinistra europeo».
Lei guarda all’Europa ma non sarebbe più opportuno guardare alla richiesta di cambiamento che oggi investe i partiti? «Vede, noi siamo uno strano Paese, in cui viene messa ai margini la questione centrale e si dà vita a un dibattito estremamente povero e molto provinciale. In tutta Europa si discute dei temi della crescita, di giustizia sociale, si riapre un confronto tra destra e sinistra su queste questioni. In Italia invece il conflitto appare essere tra la casta e la società civile, due concetti carichi di ambiguità. In tutti i Paesi europei ci sono fenomeni di antipolitica, che hanno ragioni anche profonde, ma da nessuna parte questo assume il carattere lacerante che ha nel nostro Paese, con il rischio di indebolire o rendere impossibile qualsiasi prospettiva di governo. A volte ho la sensazione che c’è chi punta allo sfascio, senza alcun disegno politico. Basta pensare all’attacco irresponsabile e immotivato di questi giorni contro la presidenza della Repubblica, che, mai come in questo momento, è apparsa un presidio insostituibile nel rapporto tra istituzioni e cittadini».
Ma lei come si spiega il carattere “lacerante” dell’antipolitica in Italia?
«C’è evidentemente chi non apprezza l’idea che dalla crisi del berlusconismo si esca con uno spostamento a sinistra dell’asse politico. Magari si pensa che colpendo la legittimazione dei partiti, approfittando anche di errori e debolezze, si possa aprire la strada a qualche nuovo movimento o a qualche nuovo leader dotato di virtù taumaturgiche. Come se l’Italia non avesse già pagato un prezzo molto alto ad avventure di questo tipo». In Italia si guarda con attenzione al Consiglio europeo di giovedì, anche perché c’è il timore, senza risultati, di ripercussioni sul governo: secondo lei su cosa ci si dovrebbe concentrare?
«Su obiettivi concreti. Occorre una nuova visione strutturale ma adesso servono misure immediate, anche perché la grande svolta difficilmente ci sarà fino a che resterà la Merkel al governo. Il primo obiettivo, allora, è delineare una via d’uscita ragionevole dalla crisi greca, perché un’uscita di Atene dall’Euro avrebbe conseguenze disastrose per tutti. E poi bisogna concretizzare alcune delle molte ipotesi di cui si discute e che riguardano gli altri due temi cruciali: un’effettiva solidarietà europea di fronte alla crisi dei debiti sovrani e la realizzazione dei programmi europei d’investimento».
Di che tipo di mandato ha bisogno il governo italiano per arrivare all’appuntamento con un’adeguata autorevolezza?
«Un mandato forte sugli obiettivi ma flessibile, perché non credo che possa essere vincolato a determinate soluzioni tecniche. Queste sono oggetto di negoziato e la fiducia in Monti è piena, ha sicuramente tutte le necessarie qualità e conoscenze della realtà europea».
In Parlamento si voteranno mozioni diverse su questo: dice Enrico Letta che serve un documento unitario Pd-Pdl per mettere al sicuro il governo.
«Sarebbe meglio una mozione comune, certo, purché la si possa scrivere in termini chiari. Il problema, però, è che il Pdl è attraversato da forti tensioni. Il governo è indebolito dai problemi del centrodestra e dal riemergere di una forte tentazione di Berlusconi di rilanciare la sua ispirazione populista originaria in una sorta di competizione-dialogo con Beppe Grillo, che appare sempre di più il suo interlocutore privilegiato. In questo Berlusconi rivela anche fiuto, oltre a una dose di irresponsabilità. Questo destabilizza il Pdl, rivelando tutta la fragilità di Alfano e la confusa coesistenza di due prospettive politiche, perché da una parte c’è l’idea di una svolta moderata, e dall’altra una spinta al populismo, a un diciannovismo berlusconiano. È da questo conflitto irrisolto che derivano le tentazioni di far precipitare la situazione. Per noi le elezioni devono tenersi a scadenza ordinaria, l’idea di anticiparle è irresponsabile».
Può destrare sospetti il fatto che il Pd, pur ribadendo pieno sostegno al governo, già guardi al dopo Monti, non crede?
«Al contrario. Oltre l’emergenza, bisogna lavorare per una prospettiva politica che dia speranza al Paese nel medio periodo. L’Italia ha bisogno di riforme che vadano nel senso della giustizia sociale e di una riduzione delle diseguaglianze, ha bisogno di una politica industriale, di una correzione della politica economica e sociale: ha bisogno, cioè, del centrosinistra».
La scelta di indire primarie per scegliere il candidato premier aiuta ad andare in questa direzione, secondo lei?
«Se messe al posto giusto. Bersani alla Direzione ha detto che noi avremmo avviato una fase di confronto programmatico, un progetto per il futuro dell’Italia, utile anche a definire il campo delle forze che lo sostengono. Dopodiché le primarie serviranno per la scelta del candidato. Ma se le primarie vengono prima di un progetto condiviso, a cosa servono? E tra chi sono? Noi abbiamo indicato un percorso ragionevole, e dobbiamo evitare che, di fatto, si parta dalla fine. Il rischio, nel rovesciare i termini della questione, è di indebolire una prospettiva di cambiamento, di farla tutta implodere dentro di noi. Bisognerebbe ripartire dalle conclusioni della Direzione, dal progetto per il Paese, altrimenti avremo una lunga, confusa e logorante campagna elettorale interna».
Casini per la prima volta parla di un asse per governare tra progressisti e moderati: è prevedibile un’alleanza elettorale o un patto di legislatura?
«È una dichiarazione importante, ma in ogni caso bisogna partire dal progetto per il Paese e misurare su di esso le convergenze. È chiaro che adesso si delinea la possibilità di costruire una maggioranza intorno al Pd, cioè quell’asse tra progressisti e moderati necessario per dare stabilità all’unica prospettiva realistica per il Paese. Perché, al di là dei meriti di Monti, anche i cosiddetti mercati si interrogano sul futuro dell’Italia e quando vedono nei sondaggi che il secondo partito è Grillo, si chiedono con preoccupazione quali impegni l’Italia è davvero in grado di assumere. Quindi dobbiamo rendere evidente il progetto e al tempo stesso l’asse politico che può sostenerlo. Questa esigenza viene prima delle primarie». Non per contribuire a “rovesciare i termini della questione”, ma se dice che l’asse tra progressisti e moderati è l’“unica prospettiva” dice anche che non c’è partita alle primarie.
«Guardi, Bersani rappresenta il Pd e rappresenta credibilmente la possibilità di un rapporto tra la sinistra, che non siamo solo noi, e le forze moderate del centro».
Renzi però si è detto convinto di avere “la maggioranza”.
«Io non lo credo. Soprattutto non credo che abbia la maggioranza tra gli iscritti e gli elettori del nostro partito».
Renzi l’ha citata tra quelli che non andrebbero ricandidati in Parlamento alla prossima legislatura perché ha già alle spalle più di tre mandati. Ma lei si candiderà?
«Non è una questione importante, nel senso che si può fare politica e si può servire il Paese in molti modi diversi, anche senza candidarsi al Parlamento. La regola citata stabilisce che c’è un principio generale, rispetto al quale possono esserci delle deroghe motivate. Questa è la regola. Non se ne può leggere soltanto una metà. Detto questo, al momento opportuno il Pd farà le sue valutazioni e io farò le mie. Non sono una persona che ha dimostrato attaccamento alle poltrone, avendo lasciato quella di presidente del Consiglio e avendo messo in gioco quella in Parlamento, come è noto, correndo senza reti in un collegio dove eravamo dati sette punti sotto».

l’Unità 26.6.12
Il leader Udc: «Renzi? È alla mia destra»
Il sindaco: no comment
di Osvaldo Sabato


«Renzi è un ragazzo intelligente e simpatico. Gioca l’eterna partita giovani contro vecchi. Lo capisco bene, dicevo anche io le stesse cose anche io tanti anni fa. Ma capisco il corpo del Pd che lo respinge. Renzi, obiettivamente, per molti aspetti è alla mia destra. Basta pensare alla santificazione di Marchionne». Così Pier Ferdinando Casini sul sindaco di Firenze, probabile sfidante di Bersani alle primarie «aperte». Il leader dell’Udc a questo proposito suggerisce anche che le primarie vengano fatte sul modello degli Stati Uniti, «dove si è iscritti al registro dei Democratici o dei Repubblicani». E conclude: «Se le aprono a tutti, ci saranno tanti della destra anti-Pd che andranno a votare Renzi».
Da Palazzo Vecchio, nessun commento alle parole del leader
centrista. Renzi si fa sapere non è interessato a replicare. Chi commenta polemicamente le parole di Casini è Debora Serracchiani: « Bene, finalmente scopriamo che Casini ha una sua collocazione» dice. L’europarlamentare sabato scorso è stata al Big Bang dei sindaci, organizzato da Renzi. Che sia in atto un riavvicinamento con il sindaco di Firenze in vista delle primarie? Nell’entourage del rottamatore non si sbilanciano. L’attenzione è tutta per la prossima assemblea nazionale del Pd, che potrebbe dare il via libera alla candidatura di Renzi. Fra i collaboratori del sindaco di Firenze c’è un cauto ottimismo e per qualcuno Renzi potrebbe annunciare la sua scesa in campo contro Bersani, entro la metà di luglio. Praticamente qualche giorno dopo l’assemblea nazionale dei democratici. Il sindaco di Firenze resta però fermamente contrario ad un albo degli elettori.

l’Unità 26.6.12
Piacere a questa destra è pericoloso
risponde Luigi Cancrini


Ora si dice (Renzi) che piacere alla destra «non è un delitto» e, certo, se la peggiore destra italiana vuole incensare qualche apprendista rottamatore, lo può fare. Ma se vuole contribuire all’elezione del suddetto rottamatore quale leader del centro sinistra alle primarie, allora no, la democrazia non c’entra!
Massimo Della Fornace

Vedere in sequenza nei telegiornali di sabato Renzi e Bersani che presentano a platee diverse dello stesso partito posizioni diverse sul futuro dello stesso partito non è stato piacevole. Un partito è un partito, un’associazione di persone che si rispettano fra loro soprattutto perché condividono un’analisi della società in cui vivono, un pensiero e degli obiettivi a breve o medio termine e i dissensi, al suo interno, si affrontano parlandosi. Guardandosi in faccia, cercando di capire
le ragioni ed i pensieri dell’altro. È soprattutto per questo motivo che io da vecchio (rottamabile) ex Pci, più lui si muove e più provo fastidio di fronte alle proposte provocatorie di Renzi e più sento rispetto per le difficoltà vissute da Bersani, quello che è segretario del partito sulla base di primarie svolte da poco tempo e che con tanta fatica sta cercando di tenere la barra dritta in una situazione difficile: per il partito e per il paese. Rottamare persone superate nei fatti è brutto ma in alcune situazioni può essere anche necessario. Rottamare il metodo del dibattito democratico per affermare l’importanza del proprio punto di vista cercando simpatie nel campo avversario ha provocato già guai molto serii nella sinistra e nel Pd. Quello che piace agli avversari, purtroppo, è soprattutto la possibilità di sgozzare l’agnello che si offre loro per il sacrificio.

La Stampa 26.6.12
Centrosinistra, battaglia per la leadership
Pd, scontro sulle candidature
Per i maggiorenti il limite dei tre mandati vale per gli eletti dal ’96. “Rinnovatori” sulle barricate: no dal 2001
di Car. Ber.


ROMA Tutti quei «rottamatori» che ingenuamente pensavano che il Pd avrebbe lasciato fuori dalla porta molti di quelli che hanno già fatto dal 2001 ad oggi tre legislature in Parlamento, dovranno fare i conti con la ragion di partito: i principali maggiorenti, viste le polemiche di questi giorni e il pressing di quelli che vogliono più ricambio possibile, fanno sapere che l’articolo 21 dello Statuto dice testualmente: «Non è ricandidabile chi ha ricoperto la carica per la durata dei tre mandati»; durata da intendersi come 15 anni, per la semplice ragione che ci sono casi di parlamentari che in otto anni hanno percorso tre legislature, altri che in 10 anni ne hanno fatte due e così via. Tradotto, se contando come tre mandati le tre legislature dal 2001 al 2013 quasi 80 persone rischierebbero di non esser ricandidate, usando invece come parametro i 15 anni, la platea dei potenziali esclusi si riduce a 32 onorevoli, 18 alla Camera e 14 al Senato, quelli che sono stati eletti dal ‘96 o prima ancora. E se questo dato si accosta alle 30 deroghe che saranno consentite dal partito, si capisce come il rinnovamento delle liste del Pd sarà affidato ad altre logiche (bravura dei singoli nel trattare la rielezione, capacità di portare voti se vi fossero le preferenze, competenze acquisite su specifici temi), piuttosto che alla stretta contabilità della carriera parlamentare.
Ma se Bersani non si vuole privare dell’ausilio di «esperienze preziose» per il partito, sostenendo dunque «il buon senso» di fare alcune deroghe, i rottamatori sono sempre più agguerriti e ne fanno una questione tutta politica. «Io per parlamentari con tre mandati intendo quelli eletti nel 2001 - precisa Beppe Civati che presenterà l’ordine del giorno galeotto in assemblea - perché bisogna dare un messaggio politico. E quando parliamo degli eletti nel ‘96 parliamo di gente con 17 anni di carriera. E poi chiedo: siccome le due legislature 2001-2005 e 2008-2013 sono piene e quella 2006-2008 è dimezzata, i 15 anni si devono intendere per difetto o per eccesso? Insomma, per farla breve, il mio slogan è che meno deroghe si danno, più voti si prendono. Quindi in assemblea il 13 giugno chiederemo un limite ferreo dei tre mandati dal 2001 senza deroghe, evitando di metterci a fare la lettura filologica dello Statuto. Se non si vuole fare un ricambio percepibile del gruppo dirigente, lo si dica, la maggioranza dei voti per farlo ce l’hanno».
Ma il nodo dei tre mandati non è il solo fronte aperto nel Pd: anche sulle primarie aperte, la questione che agita le truppe è se creare o no un albo degli elettori, come chiesto da molti. Una misura precauzionale per evitare inquinamento del voto, che però ha alcune controindicazioni: i rottamatori non solo temono le cosiddette truppe cammellate contro Renzi, ma sostengono che sarebbe difficile da costruire questo albo. Andrebbe costituito nelle sedi di partito che spesso sono chiuse e strozzerebbe la partecipazione, richiedendo un doppio-triplo sforzo di volontà, che di fatto coinvolgerebbe solo i più motivati.
E dulcis in fundo, resta sul tavolo il problema delle primarie di coalizione che secondo alcuni big come Rosy Bindi non devono essere aperte ad altri concorrenti del Pd, perché «alle primarie di coalizione per la premiership, il partito va con il proprio segretario». Ma Bersani non vuole attaccarsi a questa regola e la pensa diversamente dal presidente dell’Assemblea: quindi la Bindi sarà costretta a mettere ai voti a metà luglio una norma che dissoci temporaneamente la figura del candidato premier da quella del segretario Pd.

Corriere 26.6.12
Il bipolarismo «emozionale» ha fallito Perché ora serve una politica mite
di Paolo Franchi


Può darsi, anzi, è altamente probabile che, nell'età dell'antipolitica dilagante e della crisi delle leadership, sia impresa vana provarsi a mettere a fuoco il senso e il fondamento culturale ed etico dell'agire politico in generale, e del proprio in particolare: forse il tempo è davvero scaduto. Ma già tentare di farlo è un merito. Specie se si è stati, e si è, della partita.
Marco Follini lo fa. È un moderato, convinto (non da oggi) che se non si restituisce voti alle ragioni di un'«Italia di mezzo» ridotta da un pezzo al silenzio il disastro è sicuro. Nella stagione convulsa della «democrazia emozionale e immediata» del falso bipolarismo, ha cercato di navigare politicamente mantenendo intatta, in contrasto con lo spirito dei tempi, una concezione mite della politica, di cui prova ora a ricostruire le motivazioni di fondo: non solo italiane, non solo post democristiane. Dei suoi libri, questo «Io voto Shakespeare», appena uscito da Marsilio, all'apparenza almeno è il meno legato alle vicende nazionali, cui è dedicato solo il primo capitolo, e all'attualità (si fa per dire) di una politica che sempre più gira a vuoto su se stessa. Ma sicuramente è il più impegnato. E anche il più ambizioso.
Sceglie il grande, geniale ma pure enigmatico e ambiguo Shakespeare. Non Machiavelli. O meglio, visto che il Bardo (sempre che sia davvero esistito) detestava il segretario fiorentino, ma ne era pure potentemente attratto, e seppure a un secolo di distanza era partecipe del medesimo passaggio d'epoca, molto più Shakespeare che Machiavelli. Perché entrambi «denudano» un potere che vivono, scrive Follini, come «accattivante e inesorabile, concreto e drammatico». Ma, se Machiavelli descrive il potente «nella geometria delle sue forze», Shakespeare gli lascia pensieri, dubbi, tormenti e fantasmi che non lo abbandoneranno mai. In una parola, la sua coscienza. Quella coscienza che rende la politica (intrinsecamente «doppia», perché contiene insieme una tentazione diabolica e una possibilità di salvezza) «onirica e tormentata», per quanto cinica e feroce possa risultare poi alla prova dei fatti. Così come per l'ultimo dei sudditi, «l'anima del re appartiene al re», viene prima delle responsabilità e dello Stato. E il potente, malvagio o giusto che sia, deve comunque farci i conti, perché la coscienza «è l'uomo che si nasconde dietro la maschera del potere», e irrompe lungo il confine tra politica e morale, per dare, oltre che un senso alla trama teatrale, un'anima ai suoi protagonisti.
La coscienza, dunque. E, con la coscienza, la misura, in primo luogo nell'uso «inesorabile» della forza, e quindi la faticosa, per nulla ovvia convinzione che, per accrescere davvero le risorse, occorre imparare a dosarle. Qui risiede, in Shakespeare, o almeno nello Shakespeare di Follini, la possibilità stessa di individuare una «via di mezzo tra la tirannide dei potenti asserragliati nei loro palazzi e la demagogia della piazza». Qui c'è «il germe di una moderna idea della politica e dei suoi limiti»: di una politica che, non avendo paradisi in terra da promettere, non può surrogarli con l'illusionismo mediatico, ma deve imparare a riconoscere che può proporre e proporsi solo «un onesto purgatorio, in attesa che il destino dell'uomo si compia altrove». Se Machiavelli è il teorico dell'hard power, «del potere legato alla nuda forza, alla strategia, al calcolo, all'intrigo, alla malizia, alla sua stessa inesorabilità», Shakespeare introduce, nel suo teatro, il soft power, «il potere discreto, capace di raffreddare i suoi istinti più bellicosi, di affinare le sue strategie, di "legare con fili di seta il furore della follia"».
Fin qui, a grandissime linee, Follini. Chi scrive non ha alcun titolo, ovviamente, per giudicare se e quanto sia filologicamente fondata la sua lettura di Shakespeare politico, e se per caso non faccia un involontario torto al Bardo scrivendo, a conclusione del libro, che il suo principe ideale in fondo, «era solo un bravo, diligente e coscienzioso giardiniere», un po' come il (grandissimo) Peter Sellers-Chance Gardner in «Oltre il giardino». Ma non è questo il punto. Perché l'interrogativo che la lettura di questo affascinante libretto lascia intatto, è se davvero, in tempi in cui di paradisi in terra non si parla più da un pezzo, la prospettiva di un onesto purgatorio rischia di diventare quasi un'utopia, e l'andamento dello spread incombe persino sulle chiacchiere delle nostre serate estive, le possibili fortune della politica prossima ventura possano risiedere ancora nella sua capacità di improntarsi finalmente, a discrezione, mitezza, senso del limite. Tutte qualità necessarie, soprattutto dopo il quasi ventennio gratuitamente tonitruante da cui siamo usciti come tramortiti. E però, è lecito temere, di per sé non sufficienti.

Repubblica 26.6.12
Tra Berlino e Berlusconi
di Massimo Giannini


Sotto il vulcano della crisi globale, la politica non rinuncia a consumare i suoi rituali più annosi e pericolosi. È la settimana cruciale: si giocano i destini dell’Eurozona e della moneta unica. Eppure non si vede un’establishment all’altezza della Storia. I leader europei, a partire dalla Merkel, si trincerano negli «opposti nazionalismi», che nessun Patto di Roma è sufficiente a spazzare via. Ribadire che «l’euro è irreversibile» non serve a niente: è puro esorcismo. Per salvare la costruzione europea, accompagnando quella federale a quella monetaria, c’è bisogno di statisti, non di esorcisti.
I partiti italiani, a partire dal Pdl, non resistono al canto delle sirene di una Vecchia Repubblica, che ripropongono il tema inquietante delle elezioni anticipate. Proprio in questo momento, che imporrebbe il massimo di coesione nazionale, la «Grosse Koalition de noantri» minaccia di rompersi e si lascia tentare dal voto subito. Stretto in questa tenaglia, alla vigilia del vertice europeo di dopodomani, c’è Mario Monti. Le cancellerie del continente guardano a lui come il mediatore dal quale dipende il successo dell’operazione. Le segreterie dei partiti guardano a lui come il catalizzatore sul quale scaricare le colpe di un eventuale fallimento.
Il «neuro-delirio» che scuote Bruxelles rischia di travolgere Roma. Giorgio Napolitano è preoccupato, Monti lo è ancora di più. A rasserenare gli animi non basta l’asse istituzionale tra Quirinale e Palazzo Chigi. E non basta nemmeno la chiamata alle armi della fiducia, con la quale il governo dovrà portare a casa la riforma del mercato del lavoro prima di giovedì. Serve un altro vertice di maggioranza, per disinnescare le troppe «mine vaganti» che rischiano di far esplodere la crisi. Ma non è affatto sicuro che basti. Nel Palazzo si moltiplicano i segnali di nervosismo di fronte a un governo che sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. Nel Paese si acuisce il disagio di fronte a una recessione che morde la carne dei cittadini, e a una condizione precaria che non colpisce più solo i figli, ma anche i padri.
Solo un ceto politico cinico e irresponsabile, che ha ormai perso del tutto i contatti con la realtà, può pensare di affrontare questa drammatica emergenza con gli strumenti del passato. Come se Monti fosse Rumor, e un governo di coesione nazionale si potesse avvicenvdare con un qualunque governo balneare. Il voto «sotto la canicola» sarebbe una catastrofe inimmaginabile per l’Italia. L’hanno capito persino quei disinvolti cantori del dannunzianesimo berlusconiano, che alla vigilia della rovinosa caduta del dicembre scorso invocavano il voto «sotto la neve». C’è una domanda capitale, che tuttora non trova risposta: cos’hanno da proporre i partiti della «strana maggioranza», in alternativa al governo «di scopo» del Professore?
Il Pdl è squassato da un’improbabile e improponibile resurrezione del Cavaliere. L’Alba Dorata berlusconiana promette due cose. Una patetica guerra contro la Germania (proclamata da un ex premier che si è dimostrato capace al massimo di qualche penoso «cucù» all’indirizzo della signora Merkel). E poi un’autarchica battaglia contro l’euro (combattuta da un capo di governo che per tre anni ha negato la crisi dicendo che «i ristoranti sono pieni»). Questa revanche populista, che lascia il povero Alfano nudo come un re Travicello, ha un respiro cortissimo. Può risvegliare gli umori di un pezzo di Nord che si sente tradito e impaurito. Può infiammare qualche anima bella del «berlusconismo da combattimento», nostalgica del bel tempo che fu. Può riaggregare qualche anima persa del leghismo, orfana di Bossi e divisa su Maroni. Ma è una proposta politica disperata. Non ripetibile nella forma, non ricevibile nella sostanza. A meno che qualcuno si illuda di poter «vendere» l’Italia nel mondo con la vecchia maschera di Papi-Silvio, e magari con le «facce nuove» di Gerry Scotti e Daniela Santanchè.
Il Pd è logorato da un sostegno onorevole, ma sempre più oneroso, nei confronti del governo tecnico. Bersani è riuscito a tenere abbastanza compatto il partito, su un fronte di lealtà personale verso Monti e di responsabilità istituzionale verso il Paese. C’è la scheggia impazzita di Renzi, ma per ora non è la sospetta «intelligenza col nemico» del sindaco di Firenze a mettere a repentaglio la linea «montiana» del partito. Certo, l’adesione a un programma di governo emergenziale, che di fatto ricalca la lettera di agosto della Bce, ha imposto e impone tuttora un costo elevato, in termini di consenso. Per quanto i sondaggi lo indichino come il primo partito italiano, il Pd non supera il 25% delle intenzioni di voto. L’apertura di gioco di Casini, che propone un’alleanza strategica tra progressisti e moderati, può essere una svolta addirittura decisiva per ridefinire il perimetro del centrosinistra riformista che verrà. Ma al momento, per quanto suggestionato dalla certezza di una vittoria elettorale quasi certa, Bersani non può ancora offrire agli italiani una piattaforma solida e durevole sulla quale costruire il governo del Paese. Con tutto il rispetto: l’Italia non si può presentare in Europa con i ministri vendoliani, e meno che mai dipietristi.
Questo governo non ha alternative. Monti, con tutti i suoi limiti e i suoi errori, è quanto di più credibile possa offrire l’Italia di oggi. Ma sarebbe sbagliato pensare che debba durare solo per questo. Il suo governo è utile se decide, e se fa le riforme che servono. Sul «Times» Bill Emmott ha scritto che «restare alla guida del Paese in modo inconcludente non servirà a salvare l’Italia o l’euro». È la verità, pura e semplice. Ed è ora che il Professore la sbatta in faccia, con forza, a tutti i “fondamentalisti riluttanti” che promettono di aiutarlo. Dalla Cancelliera di Berlino al Cavaliere di Arcore.

Repubblica 26.6.12
Franceschini: “Occorrono numeri ampi nelle due Camere. Di Pietro? Deve scegliere tra noi e Grillo”
“Il Paese chiamato a scelte difficili alleanza necessaria dall’Udc a Vendola”
di Alessandra Longo


ROMA Onorevole Franceschini, da oggi c’è un elemento in più di chiarezza nello scenario politico. Si va verso un asse tra progressisti e moderati. Casini si è impegnato.
«E’ da molto tempo che lavoriamo a questa prospettiva. Dopo le politiche del 2013, l’Italia si ritroverà all’inizio di un difficile percorso di ricostruzione, sto parlando di problemi finanziari, sociali. Per questo serve una legislatura di scelte vere, di riforme strutturali. Serve un consenso sociale il più largo possibile, serve avere dietro sindacati e imprenditori, laici e cattolici, pensionati e giovani delle partite Iva. Ci sono ragioni numeriche e politiche che spingono il Pd ad un’alleanza tra progressisti e moderati».
Nel primo caso è chiaro: volete vincere e avere i numeri per governare.
«Sì non si può vivere nell’incertezza dei due o tre voti di margine. Servono numeri
ampi in tutti e due i rami del Parlamento. Ma sono le ragioni politiche di fondo che spingono verso quest’alleanza».
Nel senso?
«Con le scelte difficili che il Paese sarà chiamato a fare, c’è bisogno di una maggioranza che abbia alle spalle molti mondi sociali, molte categorie, molte culture».
E dunque allargamento all’Udc.
«Ci stiamo lavorando da tanto. Avremo ancora come avversari o Bossi o Berlusconi o i loro eredi. Il Pd deve portarsi dietro il pezzo più grande possibile della società italiana. Ci vuole un’alleanza centro- trattino-sinistra».
E Vendola?
«L’alleanza va da Casini a Vendola. Sia chiaro: non si tratta di sostituire ma di allargare. E per noi è imprescindibile farlo assieme a Sel».
Magari al leader di Sinistra e Libertà questo schema non piace.
«Sono ottimista. Vendola è una persona responsabile, conosce bene la situazione del Paese e sa che potrebbe avere grande spazio per far sentire le proprie ragioni».
Vendola dentro, Di Pietro fuori?
«Nello schema progressisti/ moderati è facile collocare Vendola e Casini. Di Pietro è un po’ fuori da queste categorie. Si è costruito il suo percorso con altri criteri. La scelta la deve fare lui. O tira le cannonate, e insegue Grillo e il vento dell’antipolitica per incassare qualcosa, o si colloca nella prospettiva di governo».
Lei che dice?
«Dico che ogni volta che parla sembra inseguire Grillo ».
Il messaggio ai moderati vale anche per i moderati del Pdl?
«I moderati del Pdl sono dall’altra parte ed è bene che facciano lì il loro lavoro che non è facile. Devono riuscire a costruire una destra europea normale».
Intanto Monti prosegue tra mille ostacoli. Le sembra un buon segno che, alla vigilia del vertice europeo, riceva Pd e Pdl in due incontri separati?
«Il Pdl si prende progressivamente margini di distacco e libertà dalle scelte di governo. Vediamo dove porterà questa linea. Noi manteniamo il nostro impegno: appoggeremo Monti fino alla fine della legislatura».
Ieri D’Alema e Casini commemoravano insieme la figura di Berlinguer. Difficile non pensare al compromesso storico.
«Tempi e stagioni diverse. Casini va maturando la convinzione che l’unico modo per affrontare la prossima legislatura sia l’alleanza con i progressisti. Il compromesso storico fu altra cosa. Dc e Pci erano avversari che affrontarono da avversari alcune emergenze. Qui si parla — nel caso di vittoria — di governare il Paese insieme per un’intera legislatura».

Corriere 26.6.12
«No al partito dei cattolici. Ora un rilancio per l'Europa»


ROMA — Al Forum di Todi piace molto l'Europa, molto meno l'idea di un nuovo partito dei cattolici. È ciò che emerge dall'incontro di ieri alla Gregoriana, un'ulteriore tappa nel cammino che porterà il prossimo ottobre a una «Todi 2», un anno dopo il primo raduno, diventato celebre perché contribuì, anche se non direttamente, alla caduta del governo Berlusconi.
Nel convegno dall'eloquente titolo «Costruiamo gli Stati Uniti d'Europa» le sette organizzazioni cattoliche del mondo del lavoro che compongono il Forum (Acli, Cisl, Coldiretti, Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle Opere, Movimento cristiano lavoratori) hanno parlato di «governo federale», «politiche fiscali e di bilancio comuni» e hanno espresso un deciso «no» alla «pericolosa suggestione dell'uscita dall'euro». Il tutto riassunto in un appello finale sottoscritto dai partecipanti.
Ad aprire l'incontro il presidente delle Confcooperative Luigi Marino che ha parlato del «bisogno» che c'è di Europa contro «le derive del mercatismo». Hanno continuato alcuni professori invitati, come l'economista Stefano Zamagni, che ha insistito sulla «centralità della persona» o come lo storico Agostino Giovagnoli che, ripercorrendo le tappe che hanno portato all'attuale Unione, ha sottolineato l'importanza del momento che sta vivendo l'Europa: «O si fanno passi avanti o c'è il rischio reale di tornare indietro». Con le conclusioni lasciate al leader della Cisl Raffele Bonanni: «Non vogliamo fare un partito perché lo faremmo uguale a quelli che ci sono già. Io resterò leader del sindacato». D'accordo Andrea Olivero delle Acli: «Un nuovo partito dei cattolici non ce lo chiedono gli italiani, che dicono basta ai particolarismi».

Repubblica 26.6.12
Richiamo di Monsignor Crociata dopo gli scandali Lusi e Formigoni
“Troppi corrotti fra i cattolici” il monito del segretario Cei
di Marco Ansaldo


CITTA’ DEL VATICANO — Basta con i corrotti anche fra i cattolici. Dobbiamo riflettere su quel che accade «fra la nostra gente». E’ il richiamo forte che viene dalla Conferenza episcopale italiana, con un nuovo monito al mondo della politica. Se in passato è stato il cardinale-presidente dell’organismo vescovile, Angelo Bagnasco, a intervenire con fermezza, dando la spallata finale del mondo ecclesiastico all’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, adesso è il turno del segretario generale, monsignor Mariano Crociata.
Parlando agli assistenti nazionali delle Associazioni ecclesiali sociali, nella sede della Cei in via Aurelia a Roma, Crociata ha detto: «E’ impressionante come tanta nostra gente sia parte integrante di quella folla che va a comporre l’immagine sconfortante di un Paese condizionato dalla presenza di corrotti e corruttori, di evasori e parassiti, di profittatori e fautori di illegalità diffusa, difensori sistematici della rivendicazione dei diritti nell’ignoranza, se non nella denigrazione, dei doveri».
Parole dure, che sono chiaramente andate a richiamare casi recenti, come quelli di Lusi e di Formigoni. «Una riflessione dovremmo condurla su ciò che ha contribuito a produrre effetti di questo genere. Non possiamo adeguatamente condurla in questa sede; di certo c’è da mettere in conto una debolezza della personale consapevolezza di fede e della coscienza morale dei singoli».
«In questo senso — ha proseguito Crociata nella sua denuncia — una attenta verifica delle nostre proposte formative e dei rispettivi percorsi — in sintonia con quanto i Vescovi italiani chiedono sul tema educativo nel corso di questo decennio — andrebbe accuratamente svolta negli ambiti di nostra responsabilità».
E rivolgendosi ai rappresentanti delle associazioni, il segretario generale della Cei ha poi affermato: «Voi costituite — per mandato ecclesiale — la presenza del ministero ordinato nelle realtà associative che, attraverso di voi e i vostri confratelli impegnati nelle articolazioni territoriali delle aggregazioni, attendono il servizio di una guida pastorale e di un accompagnamento spirituale».
«Insieme — ha aggiunto — dobbiamo farci carico di una missione difficile e necessaria, in cui si incrociano la nostra responsabilità pastorale, le attese di iscritti e associati, il compito storico della Chiesa in Italia, riabbracciando la nostra missione con rinnovata adesione».

Corriere 26.6.12
Lusi: nell'appunto di Rutelli anche i 100 mila euro a Renzi
I tre punti del memorandum. La replica: calunnie mostruose


ROMA — È diviso in tre punti il memorandum di Francesco Rutelli a Luigi Lusi. Si tratta di un foglio scritto a mano che dà disposizioni sull'organizzazione del partito, ma anche sulla destinazione di alcuni fondi. In ballo ci sono 600 mila euro, oltre ad alcuni rimborsi relativi al Parlamento europeo. Ed è su questo che adesso si concentra l'attenzione dei magistrati. Perché l'indagine deve accertare se oltre al tesoriere - accusato di aver sottratto dalle casse della Margherita oltre 25 milioni di euro utilizzati per acquistare immobili e in parte trasferiti all'estero - altri possano aver destinato a fini personali il denaro proveniente dai rimborsi elettorali. Dunque, si effettueranno riscontri sull'appunto, ma dovranno essere esaminate anche le mail che i due si sono scambiati nello stesso anno e che riguardano proprio la gestione finanziaria del partito. Un settore del quale Rutelli aveva finora detto di non essersi mai occupato «perché lo abbiamo delegato completamente al tesoriere, però abbiamo sbagliato visto che ci siamo fidati di un ladro». Quel «ladro» che adesso ha evidentemente deciso di vendicarsi per la scelta dei suoi ex colleghi di partito di concedere il via libera all'arresto disposto dal giudice Simonetta D'Alessandro e ha consegnato la corrispondenza tra sé e il leader accusandolo in sostanza di essere al corrente di come venivano impiegati i finanziamenti.
«Parla dei 600
e soldi Pde»
Sarà la Guardia di Finanza a svolgere le verifiche sui nuovi documenti. Il memorandum è composto da un'unica pagina e non è datato, è stato Lusi a dire che risale a novembre 2009. Scrive Rutelli: «Luigi, 1) la vicenda dei tre - Sensi, Podda, Cucinotta - va risolta entro Natale. 2) ho incontrato Tommaso, tutto a posto. 3) Parla con Improta su punto 1, sulla vicenda dei 600 e sui soldi del Pde (la formazione europea di cui Lusi amministrava le finanze, ndr) che sono stati gestiti frettolosamente e male per paura». E' Lusi - sollecitato nel corso dell'interrogatorio dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Stefano Pesci - a fornire la sua spiegazione su quell'appunto.
«Sensi - dichiara il tesoriere - è il portavoce di Rutelli, le altre sono dipendenti della Margherita e il problema da risolvere riguardava i loro contratti lavorativi. Tommaso è un politico abruzzese che doveva passare all'Api», il partito fondato da Rutelli nell'ottobre 2009. Poi entra nei dettagli del terzo punto, quello che appare rilevante per l'inchiesta. «Guido Improta è l'organizzatore dell'Api», spiega riferendosi al sottosegretario ai Trasporti del governo guidato da Mario Monti. E aggiunge: «I 600 mila euro cui si fa riferimento equivalgono al 40 per cento di un milione e mezzo di euro che dovevo gestire e che sono esattamente la parte destinata ai rutelliani sulla base di quel patto di spartizione concordato con Rutelli ed Enzo Bianco di cui ero garante. Di quei soldi 100 mila andarono a Matteo Renzi, 200 mila alla fondazione Centocittà e il resto, 300 mila euro, al Cfs, Centro per un futuro sostenibile, la fondazione di Rutelli».
Tutti i bonifici frazionati
È su questo che dovranno essere effettuati accertamenti per stabilire se sia stata davvero questa la destinazione dei fondi e come siano stati poi utilizzati i soldi. La ricostruzione della movimentazione bancaria è stata da tempo affidata agli analisti delle Fiamme Gialle e a due consulenti di Bankitalia e adesso si chiederà proprio a loro una relazione specifica. Da parte sua Lusi sostiene che tutti i bonifici sono stati frazionati ed effettuati «avendo cura di non superare la soglia dei 50 mila euro, oltre la quale sarebbe scattata la segnalazione di operazione sospetta».
Soltanto quando saranno terminati i nuovi controlli si deciderà se convocare nuovamente Rutelli e gli altri leader del partito.
La linea stabilita dall'accusa prevede di cercare eventuali riscontri a tutto quello che viene sostenuto grazie alla presentazione di nuovi documenti, mentre non si dà molto credito a quelle dichiarazioni fatte dal tesoriere senza però supportarle con pezze di appoggio. Per esempio la tesi secondo la quale l'appartamento al centro di Roma e le ville in campagna sarebbero state acquistate come investimento per la corrente rutelliana. «Quegli immobili - ribadiscono in procura - sono la prova delle ruberie compiute dal tesoriere».
«Sono falsità mostruose»
Subito dopo l'interrogatorio di sabato scorso tutti i politici chiamati in causa - lo stesso Rutelli, Bianco e Renzi - avevano accusato Lusi di mentire. Ieri il livello dello scontro si è alzato con l'annuncio del leader dell'Api di una denuncia per calunnia che sarà presentata questa mattina. «Si tratta di falsità mostruose e grossolane», afferma Rutelli e il suo avvocato Titta Madia afferma: «Eventuali mail e appunti non possono che riguardare l'ordinaria attività politica e la normale dialettica sull'uso delle risorse del partito».
«Ennesimo balletto di cifre, ballano come lo spread», è il commento della segreteria del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, alle accuse dell'ex tesoriere.
Fiorenza Sarzanini

l’Unità 26.6.12
Cittadinanza, il coraggio di scegliere
di Luigi Manconi


Ha fatto benissimo il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ad affermare che la prima legge del futuro governo di centrosinistra sarà quella che permetterà ai bambini stranieri nati in Italia di ottenere la cittadinanza del nostro Paese.

Gli avversari l’hanno definita una «mossa elettorale» e mi viene da dire: tanto meglio. E proprio perché si tratta di una scelta politica che, certamente, avrà il suo peso nella prossima campagna elettorale, ma che non ha alcunché di estemporaneo o strumentale. Al contrario, è una mossa elettorale sacrosanta e intelligente, oltre che coraggiosa, che nasce da una seria riflessione e che rimanda a un sistema di valori condiviso.
Ecco, dunque, tre buone ragioni per apprezzare la mossa di Pier Luigi Bersani. La prima: una campagna elettorale tanto più una lunga campagna elettorale, destinata a durare otto mesi non può ricorrere a una fisionomia difensiva, a un atteggiamento insicuro, a uno stile spaventato. Deve avere piena consapevolezza di sé e delle proprie idee, pena l’insignificanza e l’irrilevanza. Deve, dunque, dichiarare ciò che vuole e assumersene la responsabilità.
La saggezza non consiste nel negare i propri valori, bensì nel saperli pazientemente argomentare e tenacemente difendere. Seconda ragione. La questione della cittadinanza e, più in generale quella della tutela dei diritti degli stranieri, non è riducibile a una scelta filantropica. È, per un verso, modernissima questione di affermazione dei diritti universali della persona e, per l’altro, opportunità ineludibile di investimento economico e sociale. Solo l’analfabetismo degli “imprenditori politici dell’intolleranza” ha potuto credere che si potesse ermeticamente “chiudere le porte”, innalzare muraglie, dazi e cordoni sanitari, attuare respingimenti in mare contro la legge di Dio e degli uomini; e che il pattugliamento delle motovedette fosse in grado di bloccare i flussi migratori determinati dallo “scambio ineguale” e da enormi sommovimenti geopolitici. E, invece, proprio una crisi economico finanziaria, quale quella attuale, induce a considerare l’immigrazione come un “fattore di crescita” e la tutela dei diritti dei migranti come una strategia di incentivi allo sviluppo. Terza ragione.
Il messaggio del segretario del Pd sulla cittadinanza, come quello appena precedente sulle coppie omosessuali, dice qualcosa di molto significativo.
Già oggi, e tanto più in prossimità delle elezioni, la lotta politica è destinata a polarizzarsi intorno a due importanti controversie: quella giovani/adulti e quella popolo/élites. Qui non si vuole certo ignorare la linea di frattura che corre intorno alla tematica del ricambio generazionale, dell’avvicendamento e del rinnovamento nei partiti, della formazione di nuove leadership; e tanto meno la frattura che evidenzia il fossato sempre più ampio tra cittadini esautorati della possibilità di partecipazione democratica, e ceto politico sempre più arroccato all’interno di un sistema di prerogative e privilegi.
Sia chiaro: queste fatture esistono e giocheranno un ruolo notevole nelle prossime scadenze elettorali, ma non riguardano nella stessa misura tutti i partiti. E, soprattutto, è quanto mai utile che i conflitti di cui si è detto siano giocati all’interno di uno spazio pubblico dove la classica contrapposizione tra destra e sinistra, e tra i valori di destra e quelli di sinistra, non venga abbandonata.
Venga, piuttosto, profondamente rinnovata e resa attuale. Insomma, “dire qualcosa di sinistra” non credo proprio che faccia un soldo di danno. Al contrario: se questa fisionomia di sinistra (o di centro sinistra) si manifesta attraverso valori ad alta intensità emotiva e di rilevante significato etico, capaci di tenere insieme le molte culture costituenti il senso comune del Pd, si tratta di un connotato identitario che può unire e mobilitare.
Pertanto, messaggi che abbiano un forte contenuto antidiscriminatorio (diritti degli stranieri, diritti delle minoranze sessuali...) rappresentano un’importante occasione per definire l’identità di un partito, che può vincere solo se si mostra irriducibile a quelle politiche dell’esclusione e a quelle “ideologie del disgusto” che la crisi economico finanziaria sembra incentivare e diffondere.

l’Unità 26.6.12
L’Antimafia vuole sentire De Gennaro
Il rischio che la Commissione presieduta da Pisanu non arrivi a una relazione finale e condivisa
Pd, Idv e Fli: nuove audizioni sui depistaggi delle indagini. In lista l’ex Capo della polizia e Spatuzza
di Claudia Fusani


ROMA Potrebbe essere, ancora una volta, un nulla di fatto. Con l’aggravante che non arrivare adesso a una posizione condivisa avrebbe il significato politico dell’occasione persa per sempre. Il rischio è che la Commissione antimafia che in questa legislatura si era data l’obiettivo di arrivare ad una lettura comune sulla stagione delle stragi di mafia nel triennio 1992-1994 non arrivi ad una Relazione finale, unica e sottoscritta da tutti i gruppi politici. Indiscrezioni di questi giorni al quinto piano di palazzo San Macuto dicono che il presidente Beppe Pisanu scriverà sicuramente la sua relazione, quella del Presidente. Molto difficile immaginare che, nonostante le capacità di mediazione di Pisanu, centro destra e centrosinistra possano condividerla.
Se le difficoltà c’erano prima, le novità dal fronte giudiziario di questi giorni, e le ricorrenze del ventennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, non le hanno certo smussate. Le posizioni, semplificando, sono chiare. Una parte del Pdl vorrebbe chiudere tutto all’autunno 1993 quando ministero della Giustizia e Dap decidono di sollevare dal 41 bis circa trecento mafiosi seppure di terzo e quart’ordine. Buttando, in questo modo, la croce addosso alla vecchia Dc costretta in quei mesi tra il 1992 e il ‘93 (presidenza Scalfaro e governo Ciampi) ad accettare compromessi per contrastare l’assalto del tritolo di Cosa Nostra. Pd, Idv e Fli guardano oltre perché le stragi vanno avanti, arrivano fino al gennaio 1994 (quella mancata allo stadio Olimpico, che sarebbe stata la più sanguinosa) e si fermano con la nascita della seconda repubblica. Sappiamo nelle mani di chi.
Il deposito degli atti, in vista della richiesta di rinvio a giudizio, dell’inchiesta di Palermo su una prima parte della trattativa tra Stato e Cosa Nostra, ha ulteriormente diviso le posizioni. Soprattutto costringe i membri della Commissione a non accontentarsi “solo” della contropartita 41 bis (carcere meno duro per i boss in cambio dello stop alle stragi) come vorrebbe il centrodestra e a chiedere nuove audizioni per chiarire i depistaggi che da vent’anni condizionano le indagini delle procure di Caltanissetta e Firenze (Palermo non ha competenza). Depistaggi che potrebbero essere la parte più importante della trattativa mentre il carcere duro quella, tutto sommato, residuale.
In quest’ottica i capigruppo Pd (Anna Garavini), Idv (Luigi Li Gotti), Fli (Fabio Granata) chiederanno domani, nell’ufficio di presidenza della Commissione, di andare avanti con le audizioni. In elenco c’è il prefetto, ora sottosegretario con delega ai servizi segreti, Gianni De Gennaro, che nel settembre 1993 scrisse la relazione della Dia (Direzione investigativa antimafia) in cui per la prima volta gli investigatori ammettevano che dietro le stragi non c’era solo la mafia. Che puntavano anche «a nuovi equilibri politici» e vedevano il coinvolgimento di «soggetti non mafiosi». Indicazioni che non hanno più avuto seguito.
Sarà chiesta anche l’audizione dei collaboratori Brusca e Spatuzza: il primo “conosce” la trattativa fino al ‘93, finché si parla di papello e 41 bis. Il secondo la conosce fino in fondo, al 1994. O almeno ne ha raccontato qualche passaggio ai magistrati.
Pezzi di verità che vengono fuori lentamente, scavando, confrontando. E altri che, pur evidenti subito, sono stati ignorati. Non c’è dubbio che il depistaggio più clamoroso riguardi Vincenzo Scarantino, per sedici anni pentito chiave dei processi Borsellino salvo poi crollare miseramente nel 2008 quando Spatuzza inizia la sua collaborazione. In Commissione si stanno rileggendo le due lettere con cui i magistrati applicati a Caltanissetta (Boccassini e Saieva) scrissero nell’ottobre 1994 che Scarantino non era affidabile. Né credibile. Le lettere furono inviate al procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che però insisteva nel dire che «Scarantino era la luce dell’inchiesta» perché la sua era «una piena confessione». Tinebra, convocato in Antimafia, ha presentato un certificato medico. È anziano e neppure messo bene. Boccassini e Saieva scrissero anche a Caselli, procuratore di Palermo, non perché fosse competente ma per conoscenza.
L’ipotesi di convocare questi magistrati è in queste ore in esame. Anche se la procura di Caltanissetta sta lavorando in silenzio sul grande depistaggio. Un’inchiesta che ha già messo sotto inchiesta tre investigatori con l’accusa di aver provocato e manipolato le confessioni di Scarantino. Il quarto, il più importante, era il questore Arnaldo La Barbera (morto nel 2003). Un’icona dell’antimafia che però era anche l’agente Catullo del Sisde.

il Fatto 26.6.12
La trattativa e le mutande dei boss
La lettera contro il 41 bis e le bombe
di Marco Lillo


Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994.
OGGI PUBBLICHIAMO i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei ‘graziati’ di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet Il  fattoquotidiano.it   che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della repubblica si sono intrecciate inscindibilmente.
Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del ROS, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma. Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit. I familiari chiedono al presidente: “quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato direttore del Dap allora. A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del DAP Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza.
A NOVEMBRE del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti. Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava.
Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all'ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell'epoca Mario Mori e all'allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato.
Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra.
La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti ‘liberati’ dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi.

il Fatto 26.6.12
Contrada e la grazia sfiorata
Il documento del consigliere di Napolitano. Poi tutto saltò
di Sandra Amurri


La conferma ufficiale che il Quirinale si attivò per la concessione della grazia a Bruno Contrada – numero tre del Sisde, condannato a 10 anni in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa – è la lettera che qui pubblichiamo a firma Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Napolitano, che l’avvocato difensore Giuseppe Lipera riceve il 24 dicembre 2007. D’Ambrosio lo informa che a seguito della sua lettera il Capo dello Stato si è attivato per dare avvio all’iter istruttorio per la grazia investendo l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Lo stesso Mastella, che oggi da noi interpellato risponde di non ricordare di aver avuto tra le mani questa richiesta. “Presi quella risposta come un regalo di Natale” dice Lipera che il 20 dicembre aveva inviato a Napolitano una missiva implorante in cui evidenziava lo stato di prostrazione del suo assistito sottolineando che Contrada, ritenendosi vittima di un errore giudiziario, la grazia mai l’avrebbe chiesta, anzi, si sarebbe aspettato un riconoscimento dallo Stato per averlo servito e precisando che l’atto di clemenza può esser concesso anche in assenza di “domanda o proposta”.
MA A DISTANZA di due giorni dalla lettera di D’Ambrosio, il Quirinale fa marcia indietro. Cosa è accaduto? Rita Borsellino, rientrando a casa aveva letto la notizia su Televideo e subito aveva dichiarato all’Ansa che era una cosa sconcertante. Passano pochi minuti e riceve la telefonata di Napolitano al quale lei ripete lo stesso concetto. Il Presidente le ripete: “Conosco quali sono le mie prerogative”. A quel punto la Borsellino diceva alle agenzie: “Ho parlato ora con Napolitano, mi sono tranquillizzata”. Da quella volta, racconta la sorella del giudice, il Presidente in occasione di incontri ufficiali le ha sempre mostrato freddezza. Lipera legge l’agenzia di quel giorno, si mette in allarme e all’Ansa a sua volta annuncia: “Domani andrò a parlare con il Presidente”. Il 31 dicembre 2007, infatti, senza alcun appuntamento, Lipera si presenta al Colle. A riceverlo, D’Ambrosio: “La stavamo aspettando” e imbarazzato prosegue: “Quella cosa non va più bene perché il suo cliente sta dicendo che non chiederà mai la grazia”. Lipera ricorda all’interlocutore di averlo già scritto nella sua lettera e che questo non aveva impedito al Presidente di avviare l’iter visto che l’avrebbe potuta concedere di sua sponte. Infine, gli fa notare come tutto quello che sta sostenendo contraddica il contenuto della lettera che porta la sua firma. D’Ambrosio resta muto. Era stata la telefonata di Rita Borsellino a far fare marcia indietro al Quirinale? Uscito dal Colle, l’avvocato Lipera legge sul Corriere della Sera un articolo dal titolo: “La supplica del difensore non più interpretabile come richiesta di clemenza dopo le dichiarazioni di Contrada” in cui si anticipa il colloquio con D’Ambrosio, appena terminato, dando del contenuto però una versione diversa. Il Corsera scrive: “Napolitano ha comunicato a Mastella, che ne ha già preso atto, che non debba avere ulteriore corso la procedura aperta a seguito della ‘implorazione-supplica’ inviata dall'avvocato Lipera” in quanto “essendo venute meno le condizioni formali, la volontà manifestata dal dottor Contrada di non voler chiedere un atto di clemenza oltre al preannuncio della presentazione di un ricorso per la revisione della condanna”. “Io non ho mai chiesto la grazia, ho sollecitato il Presidente ad avviare un procedimento di sua iniziativa”.
ORA OCCORRE fare un passo indietro. Il primo luglio 1992, giorno di insediamento di Nicola Mancino al ministero dell’Interno, Paolo Borsellino sta interrogando il boss Gaspare Mutolo e riceve una telefonata, così come lo mette a verbale proprio il pentito: dobbiamo interrompere, dice Borsellino, Mancino mi vuole incontrare. Si reca al Viminale assieme al procuratore aggiunto Aliquò. Borsellino entra e lui aspetta fuori. Incontro che Mancino ha sempre negato. Mutolo racconterà che Borsellino al suo ritorno esclamò: “Mi hanno fatto trovare Contrada! ”. Quello stesso Contrada che Mutolo stava indicando come colluso con il boss Rosario Riccobono. Un nome che inquietava particolarmente il giudice. Un giorno la figlia Lucia gli chiese: “Papà chi è quel Contrada di cui ho sentito parlare in tv? ”. Borsellino, sebbene in famiglia evitasse ogni riferimento al suo lavoro, rabbuiandosi rispose: “Dove hai sentito questo nome? Solo a farlo si può essere ammazzati”. Il 5 giugno scorso, la Seconda Sezione Penale della Cassazione ha confermato il no alla revisione del processo per il numero tre del Sisde: “Contrada non è vittima di un complotto dei pentiti”. Eppure ha rischiato di essere graziato.

il Fatto 26.6.12
“Patto con la mafia, il cedimento della sinistra”
L’inchiesta di Caltanisetta: “Ci fu una doppia morale, stagione ingloriosa per le istituzioni”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Tra mancate proroghe e decreti revocati, nella stagione delle bombe del ’93, il ministero della Giustizia cancella 520 provvedimenti di 41 bis, quasi il 50% di quelli deliberati l’anno precedente. C’è da chiedersi, scrive la Procura di Caltanissetta, “se questo non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato per far cessare le stragi’’. Ecco perché, scrivono il procuratore nisseno Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i pm Nicola Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, nella richiesta di custodia cautelare che riassume tre anni di indagine sulla strage di via D’Amelio, quella della trattativa è stata una “stagione ingloriosa per lo Stato italiano”. In quella richiesta gli inquirenti ricostruiscono, in oltre trecento pagine, tutte le ombre sugli apparati delle istituzioni impegnati a fermare il tritolo, nei mesi della campagna stragista contro il patrimonio artistico. E se a differenza dei colleghi di Palermo, i pm nisseni non giungono a conclusioni penalmente rilevanti, chiedendo di archiviare le posizioni dei protagonisti istituzionali del dialogo con Cosa Nostra (come ha rivelato il procuratore Pietro Grasso nell’intervista al Fatto Quotidiano del 19 giugno scorso), mostrano di avere le idee chiare nella ricostruzione delle loro carte sull’identità politica di chi ha trattato.
“QUESTA TRATTATIVA – spiegano i pm di Caltanissetta – era stata letta da Cosa Nostra come un segnale di grande debolezza della controparte statale”, che “almeno nella prima parte della trattativa, pare appartenere a quella che Giovanni Brusca definisce la sinistra, in essa ricomprendendo la sinistra Dc e la sinistra vera e propria, proprio quella che apparentemente aveva più volte difeso le inchieste del dottor Falcone e del dottor Borsellino”. Ma anche quella sinistra che, come ha detto l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, “in una sua parte aveva frapposto importanti ostacoli alla conversione del decreto dell’8 giugno ’92 (l’introduzione del 41 bis, ndr) e prima ancora all’istituzione della Procura nazionale Antimafia’’. Ed è a questo punto che i pm di Caltanissetta precisano che “nessuna responsabilità penale è stata accertata a carico di personalità politiche e istituzionali in quella che può definirsi la strategia stragista di Cosa Nostra nel ’92’’. L’altra certezza raggiunta dalla procura nissena è che Paolo Borsellino abbia saputo della trattativa e che la sua posizione in merito “sia stata interpretata, o riportata da qualcuno anche in maniera colposa, in modo da farlo ritenere un ostacolo o un muro da abbattere per poter arrivare ad una conclusione soddisfacente per Cosa Nostra della trattativa”. Ecco, secondo i pm nisseni, la ragione della memoria a orologeria. Nessuno dei protagonisti di quei giorni, né gli ex ministri Nicola Mancino, Giovanni Conso, Claudio Martelli, né i funzionari del Dap Nicolò Amato, Adalberto Capriotti, Edoardo Fazzioli, Francesco Di Maggio, Andrea Calabria, né gli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, né il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ha piacere di ammettere di essere stato “testimone silente di comportamenti che, seppure posti in essere da altre persone, possano aver spinto Cosa Nostra ad accelerare l’eliminazione di Borsellino”.
LA PROCURA di Lari disegna, insomma, il volto ambiguo di uno Stato dalla “doppia morale”. Se da una parte le istituzioni “a parole, e sui quotidiani, dispensavano lezioni di antimafia... nel chiuso delle stanze di alcuni membri del governo e di alcuni alti dirigenti della pubblica amministrazione si discusse approfonditamente cosa fare del regime del 41 bis, o meglio di come disfarsene a poco a poco, senza che la cosa venisse percepita all'esterno”. Davanti alle esplicite richieste provenienti dalle carceri di attenuare il regime di detenzione dura, e dopo l’uccisione di alcuni agenti carcerari, la situazione dei detenuti mafiosi viene rappresentata come “esplosiva”, al punto da temere che potesse “infiammare” anche l'ordine pubblico all'esterno. Per questo motivo, a solo un anno dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, sottolinea la procura di Caltanissetta “lo Stato, nella specie alcuni dei suoi uomini più importanti, pensa di arretrare di fronte alla offensiva mafiosa”.

il Fatto 26.6.12
Da Brancaccio alla camorra: lo strano condono del carcere duro


Per “dare un segnale di distensione’’ Conso ne revocò 334, “in assoluta solitudine’’ e contro il parere della Procura generale di Palermo, all’inizio del novembre del ’93: ma 51 di quei provvedimenti di applicazione del 41 bis vennero successivamente riapplicati a conferma che la pericolosità dei detenuti cui era stato tolto il carcere duro non era stata attentamente valutata da chi aveva il dovere di farlo. E che quella decisione, come sostengono le procure di Palermo e Caltanissetta, era stato il prezzo pagato dallo Stato nella trattativa con Cosa Nostra. Tra i detenuti tornati al 41 bis, oltre al bandito milanese Renato Vallanzasca, c’erano pezzi da novanta di Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita. Nell’elenco dei 51 figura il nome di Diego Di Trapani, suocero del boss Salvatore Madonia, ritenuto corleonese di antica osservanza e boss di rilievo della famiglia di Resuttana (Palermo), 76 anni, scarcerato nel 2006. E poi Giuseppe Giuliano, inteso ‘’Folonari’’, uomo d’onore di spicco della famiglia di Brancaccio, arrestato negli anni 80 con una magnum 357 e guanti da chirurgo mentre faceva la staffetta da un’auto sfuggita alla polizia. E Giuseppe Farinella, anziano patriarca delle Madonie, coinvolto, come componente della commissione provinciale di Cosa Nostra nella stagione stragista. Nell’elenco c’è anche il nome di Giuseppe Grassonelli, coinvolto nella strage di Porto Empedocle (Agrigento) e di Cesare Bontenpo Scavo, il capo della banda di estortori tortoriciani che misero a ferro e fuoco la cittadina tirrenica di Capo d’Orlando da dove partì la riscossa civile dell’Acio, la prima associazione anti-racket d’Italia oggi guidata da Sarino Damiano ed Enzo Mammana. Al 41 bis era tornato anche il boss di Ponticelli Giuseppe Sarno, riarrestato il mese scorso, e l’esponente della sacra corona unita Giuseppe Capriati, di Bari.
g.l.b. e s.r.

il Fatto 26.6.12
Giovanna Maggiani Chelli, Associazione via dei Georgofili
“I nostri figli sono morti di Stato?”
di Enrico Fierro


La strage dei Georgofili fu la strage del 41 bis, il carcere duro, che i boss volevano eliminare”. 26 maggio 1993, Cosa Nostra di rito corleonese, forse con l’aiuto o l’assenso di altre “entità” ancora sconosciute, semina il terrore a Firenze. I morti sono cinque, i feriti, alcuni gravissimi, 48. Da allora Giovanna Maggiani Chelli e i familiari delle vittime non si sono fermati un attimo per ricostruire fino in fondo le responsabilità, soprattutto istituzionali, di quell’eccidio. “Ora, grazie all’inchiesta della Procura di Palermo, ne sappiamo di più e possiamo dire che avevamo visto giusto. E con noi il pm Gabriele Chelazzi. Quanti silenzi, quante coperture eccellenti. Ecco, se potessi mandare un messaggio al senatore Nicola Mancino, gli direi di onorare la sua vita e gli anni passati al vertice di istituzioni importanti. Lasci che la legge faccia il suo corso, lasci dire una parola definitiva ai processi dove potrà intervenire e difendersi. Non li ostacoli chiedendo l’intervento e la protezione del Quirinale. Ricordo che nel 1997 lo incontrai a La Spezia dove lui era presente per un convegno, gli chiesi cosa sapeva delle stragi, lui mi rispose che la matrice era certamente mafiosa. Il quadro che emerge oggi ci parla anche di pesanti responsabilità e coperture istituzionali”. La signora Maggiani Chelli conosce gli atti dell’indagine di Firenze a memoria. “Le trattative tra Stato e mafia sono almeno due. La prima trattativa è quella che viene fuori dai rapporti tra il mafioso Antonino Gioé e Paolo Bellini, un uomo di Cosa Nostra e un personaggio coinvolto in mille trame oscure e ritenuto vicino ad ambienti dei servizi segreti. Bellini propone a Gioé una sorta di scambio, il boss chiede l’alleggerimento delle condizioni di carcerazione per cinque detenuti. Si tratta di boss anziani, tra questi anche il padre di Giovanni Brusca. Bellini si consulta con qualcuno (non sappiamo chi e soprattutto quale ruolo ricopriva) e torna da Gioé con un no. A quel punto il mafioso butta lì la famosa frase: e che ne dite se domani non trovate più la Torre di Pisa?”. È la strategia della tensione mafiosa. Bombe e mano tesa. “Se vuoi la pace prepara la guerra”, teorizza Totò Riina con i suoi. “E quindi il famosissimo papello con le richieste allo Stato. Non dimenticate che è lo stesso Riina a dire che si sono fatti sotto, riferendosi evidentemente a pezzi dello Stato che avevano avanzato offerte. Forse ci stiamo avvicinando alla verità. Noi vogliamo sapere se i nostri figli sono morti perché lo Stato era colluso, e Dio non voglia per il futuro di questo Paese, o perché qualcuno non è stato in grado di gestire la trattativa con la mafia. Speriamo solo che non vi siano altre interferenze. Quando Mancino si è rivolto al consigliere giuridico del Presidente Napolitano, ci saremmo aspettati una sola risposta: senatore, lasci lavorare la magistratura. Così non è stato. Ne prendiamo atto, sapendo che in questo modo si mettono dei freni all’accertamento della verità. E una democrazia senza verità muore”.

il Fatto 26.6.12
Alexander Stille: “Bavaglio, il Quirinale sbaglia”


Mi sembra legittimo che la stampa italiana, si occupi della trattativa Stato-mafia. Mi pare solo che ci sia troppa enfasi, con articoli che fanno intendere uno scandalo gigantesco che coinvolge il Quirinale. Mi sembra che il comportamento sia stato maldestro, ma non criminale”: così commenta Alexander Stille, professore di Giornalismo alla Columbia University di New York, giornalista e autore di saggi sulla mafia.
Stille, prima o poi sapremo la verità sulle stragi?
Senza aver approfondito tanto, il mio sospetto è che questa storia finirà come Piazza Fontana, con un quadro grigio. È chiaro che a un certo punto, rappresentanti dello Stato abbiano cercato, tramite contatti con la mafia, un dialogo per fermare le stragi. Non so se arriveremo a concludere che un vero patto scellerato è stato siglato. Mi sembra sbagliato oggi forzare certe conclusioni, tipo che lo Stato ha ucciso Borsellino: credo che molti lo pensino. Però bisogna andare avanti e continuare a cercare la verità.
Cosa pensa del fatto che Napolitano abbia parlato della necessità di una legge sulle intercettazioni?
Il tentativo di limitare la libertà di stampa è un grande errore, senza questo diritto l’Italia sarebbe al buio su molte questioni di primissima importanza. Ognuno deve fare il suo mestiere. Bene che i magistrati indaghino, bene che i giornalisti informino.
Al tempo della legge bavaglio di Berlusconi, la stampa italiana fece una battaglia unitaria per opporsi. Il principio dovrebbe valere anche ora. Giusto?
Certo. Non bisogna però pensare che ci sia un tentativo di coprire le stragi perché il consigliere giuridico del Presidente della Repubblica prende le telefonate inferocite e nervose di un ex ministro che teme di trovarsi coinvolto. Questi hanno solo combinato pasticci: Mancino doveva stare tranquillo, ha peggiorato la sua posizione.
Ma la richiesta di una legge sulle intercettazioni da parte del Capo dello Stato arriva dopo la pubblicazione delle conversazioni telefoniche.
In questo sbaglia. Napolitano può affermare che il Quirinale ha il diritto di parlare con membri delle istituzioni per assicurarsi che tutto proceda come deve. Non credo però che abbia un ruolo nel supportare determinate leggi. Non capisco perché si occupi della norma sulle intercettazioni: non è del Colle la funzione legislativa.
Lo fa nel momento in cui viene coinvolta l’istituzione che lui incarna.
Come dicevo, ognuno faccia il suo. Il Quirinale si occupi di vigilare sulle istituzioni, il Parlamento di fare le leggi, i magistrati le indagini, i giornalisti di dare le notizie. Questa esternazione non è certo un argomento a favore di una nuova legge bavaglio in Italia.
Negli Stati Uniti il rapporto della stampa con il potere è più libero.
Negli Usa la stampa è molto forte e protetta. Quasi tutti gli atti governativi sono a disposizione dei giornalisti: nel 99% dei casi è un bene. Ma a volte ci sono storture anche da noi.
E in Italia?
È l’inverso. È molto difficile sapere cosa fa il governo in Italia. Non c’è la sensazione che il governo sia proprietà dei cittadini: chi ha potere considera la stampa qualcosa da cui proteggersi.
SiT

il Fatto 26.6.12
Giornalisti o corazzieri?
di Antonio Padellaro


Più che ai tanti messaggi di apprezzamento per gli articoli del Fatto sugli interventi debiti e indebiti del Quirinale nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, risponderò alle critiche di altri nostri lettori. Essi, in sostanza, esprimono il timore che per una “tempesta in un bicchier d’acqua” (Giglioli), per “vaghe illazioni” (Piovani e Leghissa) o anche per una giusta “ricerca della verità” (Peschiera), si possa indebolire la figura del Capo dello Stato “in un momento drammatico” della vita democratica del nostro Paese. Si tratta della stessa obiezione che illustri commentatori hanno sviluppato con estremo vigore di fronte alle polemiche politiche divampate sulle telefonate del Colle. Valga per tutti l’acuto grido di allarme di Eugenio Scalfari su Repubblica del 21 giugno scorso: “Si tenta di indebolire il Quirinale, non per queste ragioni pretestuose, ma per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”. I nostri lettori non arrivano a immaginare tali “oscure manovre”, ma il loro disagio è palpabile. Ma come – rimproverano – Napolitano è stato l’unico baluardo allo strapotere di Berlusconi, quello che lo ha mandato a casa su due piedi e ora ve la prendete con lui mentre la destra “cerca di riguadagnare terreno” e l’Italia rischia la bancarotta? Potremmo rispondere che il grido “Annibale è alle porte” (anche quando non lo è) è sempre stato qui da noi l’alibi più efficace per nascondere piccole e grandi nafandezze. E che, in nome dell’emergenza continua, nel nostro amato Paese si fanno e si disfano governi e, all’occorrenza, si tratta anche con Cosa Nostra. Questa volta, comunque, l’emergenza riguarda gran parte dell’Europa. Dove, tuttavia, non risulta che a causa della crisi dell’euro le istituzioni siano diventate improvvisamente intoccabili. Dentro la voragine bancaria, per esempio, la Spagna è andata tranquillamente a elezioni e l’amato re Juan Carlos, mazzolato dai giornali per gli allegri e costosi safari, ha dovuto chiedere scusa al popolo. In Islanda, il premier della bancarotta è finito giustamente in un’aula di tribunale. In Germania, il capo dello Stato è andato a casa per un piccolo prestito agevolato alla moglie. E perfino la catastrofica Grecia ha cambiato tre Parlamenti in pochi mesi senza per questo arrivare alla guerra civile. Come si dice: è la democrazia, bellezza! Solo in Italia i politici furbacchioni, ogni volta che vengono presi in castagna, si mettono a strillare “fermi tutti che la casa brucia!” e magari l’incendio l’hanno appiccato loro. Non è il caso di Napolitano, ma del coro che lo circonda ogniqualvolta viene messo in discussione lo status quo, il potere costituito (da loro). E quindi, per quanto ci riguarda, non può esserci emergenza che tenga di fronte al nostro lavoro che consiste nel dare le notizie. Continueremo a pubblicarle sul Fatto senza domandarci a chi giovano e a chi no. Cari lettori, lo sapete, siamo giornalisti, non corazzieri ad honorem.

l’Unità 26.6.12
Ustica, il lungo silenzio iniziò con una lettera
Domani il 32esimo anniversario Una missiva ministeriale spiegava come la dinamica fosse già chiara subito dopo la tragedia
L’ex ministro Formica: «Per conoscere la verità serve un secolo»
di Giugi Marcucci


BOLOGNA L’indirizzo delle indagini», la stessa «scelta della scala delle priorità» dovevano scaturire da una valutazione che tenesse «conto delle ripercussioni che i risultati» avrebbero prodotto sugli «interessi superiori del Paese». Provando a tradurre: prima la ragione di stato, poi la verità sugli 81 morti della strage di Ustica, di cui domani cade il 32 ̊ anniversario. È scritto in linguaggio sufficientemente chiaro in un documento uscito dall’archivio Craxi grazie alla tenacia di Cora Ranci, dottoranda di ricerca alla facoltà di Scienze Politiche di Bologna. Il testo è di Carlo Luzzatti, già presidente tra l’80 e l’82 della commissione d’inchiesta che escluse il cedimento strutturale del volo Itavia scomparso dagli schermi radar il 27 giugno, concludendo a favore di due ipotesi: bomba o missile. La nota (“Promemoria per il signor ministro dei trasporti...”) è sicuramente dell’81, perché, osserva Ranci, fa riferimento a due relazioni inviate al ministro Rino Formica il 31 luglio e il 5 dicembre 1980. Destinatario del documento fu con ogni probabilità il successore di Formica, Vincenzo Balzamo, anche lui esponente socialista, ministro dei Trasporti dal 28 giugno 1981, deceduto nel ‘92, dopo aver ricevuto un avviso di garanzia nell’ambito delle indagini su Tangentopoli. A confermarlo è lo stesso Formica, il primo nell’80 a formulare esplicitamente l’ipotesi del missile, quindi dell’azione di guerra non convenzionale nei cieli di Ustica, successivamente convalidata da indagini giudiziarie e sentenze. «Nell’80 disposi, per evitare lungaggini, che la commissione da me istituita indirizzasse dei promemoria al ministro competente. Sulla base del primo io stesso riferei alle Camere». Del documento emerso dagli archivi del Senato, Formica spiega di non aver mai sentito parlare, ma ne offre comunque una spiegazione. «Indubbiamente il ministro deve aver chiesto alla commissione a che punto erano i lavori. E la risposta è stata: “Siamo in attesa di disposizioni per le implicazioni che possono sorgere a livello internazionale”». Una replica che non stupisce l’ex titolare dei Trasporti «Non mi sembra un documento eccezionale» ma che in qualche modo costituisce il prologo e la spiegazione dei 32 anni trascorsi senza sapere chi la sera del 27 giugno 1980 abbia premuto il grilletto. Del resto Formica lo ripete dal 2010: «Non bastano 30 anni, ci vorrà un secolo prima di capire quello che accadde a Ustica». Eppure proprio in quel promemoria si fa riferimento alla presenza di fosforo su un elemento del carrello (all’epoca il relitto non era ancora stato recuperato) trovato nell’addome di una delle vittime. Particolare da cui discende «una traiettoria dall’esterno verso l’interno», incompatibile sia con l’ipotesi del cedimento strutturale che con quella della bomba a bordo. La commissione esclude anche, attraverso il confronto con un incidente aereo del ‘79, che certi effetti possano essere stati prodotti dall’impatto del Dc 9 con la superficie del mare.
Essendo già stato escluso lo scontro accidentale con un altro aereo, non rimangono ipotesi molto diverse da quelle che possono produrre conseguenze sul piano internazionale: meglio chiedere indicazioni al ministro. Del resto, ricorda Cora Ranci, l’ipotesi del missile era già molto concreta, come aveva spiegato il tecnico americano John Macidull. E sedici anni dopo il documento della commissione Luzzatti, eccone un altro, questa volta della Nato, in cui si parla della presenza intorno al Dc 9 di Ustica di 21 aerei militari di varia nazionalità. Circostanza già intuita da Formica nell’80 sulla scorta delle indicazioni del generale Rana relative ai tracciati radar. L’ipotesi del missile ha un cuore antico. «A un certo punto tutti i partiti dell’arco costituzionale che, adducendo il cedimento strutturale, chiedeva di revocare la licenza a Itavia. Fu per questo che al Senato prospettai l’ipotesi del missile».
Ipotesi, spiega Cora Ranci, rimasta lettera morta. «Luzzatti, così preoccupato degli “interessi superiori del Paese”, non era solo il presidente di una commissione ministeriale, ma anche il più stretto collaboratore del magistrato che all’epoca indagava sulla strage, Giorgio Santacroce». E una cosa è certa, conclude Ranci, in quei primi anni, decisivi per l’accertamento della verità la magistratura fece molto poco. «Ad esempio ricorda Ranci restò per tre anni in attesa dei risultati di laboratorio, senza nemmeno pensare di sequestrare le registrazioni delle conversazioni telefoniche tra i centri radar».

Repubblica 26.6.12
Ustica 32 anni dopo. Il dovere della verità
di Romano Prodi e Walter Veltroni


Caro direttore, il 27 giugno 1980 un aereo civile della compagnia Itavia doveva, da Bologna, raggiungere Palermo. Non arrivò mai. Quel volo fu spezzato, ottantuno innocenti cittadini persero la vita.
Sono trascorsi 32 anni, ma quella data non può e non deve essere dimenticata.
Per questo, innanzitutto, vogliamo rinnovare la nostra vicinanza ai parenti delle vittime che per tanti anni, nel loro dolore, hanno tenuta viva l’attenzione su questa tragedia, con una richiesta di verità e giustizia che si è fatta salvaguardia dei valori democratici.
Il Presidente della Repubblica Napolitano, in occasione del “Giorno della Memoria” del 2010 dedicato alle vittime del terrorismo, affermò che «intrecci eversivi», «forse anche intrighi internazionali, opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato e inefficienza di apparati, hanno allontanato la verità sulla strage del DC 9».
Queste parole sono rimaste nella coscienza di tutti gli italiani e diventano ancora più intense davanti allo stato d’animo di chi – indelebilmente ferito da questa tragedia – denuncia il rischio che oggi, passati tanti anni dal 1999 (quando la sentenza-ordinanza del giudice Priore ci aveva consegnato una prima verità), ogni iniziativa si affievolisca.
Il giudizio civile, dopo una prima sentenza che ha dato ragione ai familiari nei confronti di ministeri dello Stato, è stato rinviato al 2015 e le indagini della Procura di Roma, tuttora aperte, conoscono difficoltà in attesa di una piena e convinta collaborazione di Stati amici e alleati. Lo stesso Parlamento europeo incontra difficoltà nella collaborazione.
L’Associazione dei familiari delle vittime ha svolto in questi anni una meritevole funzione civile contro l’oblio con uno sforzo tenace di tenere viva la memoria.
Uno sforzo articolato attraverso tante iniziative. Anche con i linguaggi della cultura, dell’arte – ne è esempio il Museo per la Memoria di Ustica che con l’installazione di Christian Boltanski è un grande patrimonio della cultura bolognese e italiana da difendere e valorizzare – ma questo sforzo teso all’affermazione di una piena verità ha bisogno di ulteriore impulso da parte di chi si occupa di amministrare la cosa pubblica. Crediamo sia giusto ricordare che quando il governo del quale eravamo rispettivamente presidente del Consiglio e vice-presidente chiese alle autorità politico-militari della Nato che i tracciati radar venissero messi a disposizione dell’autorità giudiziaria italiana, fu compiuto semplicemente un dovere, in nome di quella politica che deve creare le condizioni perché la verità possa emergere.
Sulla vicenda Ustica ci sentiamo di affermare che c’è, diffusa, una consapevolezza che è già stata conseguita con il contributo delle indagini della magistratura, con il contributo delle inchieste parlamentari e delle ricerche portate avanti dalle associazioni delle vittime. Proprio da questa consapevolezza crediamo possano seguire passi e sforzi determinanti in difesa sia delle vittime e dei loro parenti che del Paese stesso.
Pensiamo a passi e sforzi che portino a ricercare la collaborazione piena e leale da parte di Paesi amici e alleati, a partire da quelli che per dispiegamento “naturale” di forze sono stati vicini al luogo dell’incidente (come le strutture militari statunitensi, gli aeroporti francesi, le unità in navigazioni inglesi), fino ad altri che possono aver avuto presenze occasionali, come il Belgio.
È inoltre necessario riaprire in maniera più approfondita la collaborazione con la Nato e aprire anche una pagina nuova nei rapporti con la Libia, sia ricercando la collaborazione con i nuovi governanti sia riaprendo le pagine ancora opache dei rapporti tra i due Paesi con l’ausilio della documentazione che può essersi resa disponibile nel passaggio dei poteri.
Contribuire a raggiungere verità e giustizia su quanto accaduto quella sera di 32 anni fa sopra il cielo di Ustica rappresenta un dovere politico, morale e civile, un modo giusto per ricordare le vittime ed essere davvero vicini ai familiari e, più in generale, rappresenta un passo avanti per rimuovere veli e opacità su tanti, troppi misteri che hanno caratterizzato i passaggi più difficili e
delicati della storia recente del nostro Paese.

il Fatto 26.6.12
“Ti amo da morire, quindi ti uccido”
L’Onu: crimili tollerati dallo Stato
Il rapporto sul femminicidio in Italia: 73 vittime nel 2012
di Silvia D’Onghia


Il femminicidio è crimine di Stato tollerato dalle istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne che vivono diverse forme di discriminazione e violenza”. È durissimo il rapporto presentato a Ginevra da Rashida Manjoo, Special Rapporteur dell’Onu, dopo la sua visita in Italia a gennaio. La legislazione nel nostro Paese è buona, ma “non ha portato a una diminuzione dei femminicidi” o non è stata tradotta “in un miglioramento della condizione di vita delle donne o delle bambine”. La violenza continua a essere un problema culturale: la maggior parte degli episodi “non viene denunciata – spiega il rapporto – perché vissuta in un contesto culturale maschilista in cui la violenza in casa non è sempre percepita come crimine e in cui le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza stessa”. Del resto, basta scorrere le storie delle 73 donne uccise dall’inizio dell’anno (fonti: Casa Internazionale delle Donne e bollettino-di-guerra.noblogs.org), per rendersi conto che l’Onu ha ragione e che è ora di intervenire sul serio.
 (hanno collaborato Marzia Conversano e Valentina Gasparro)
LEGGI QUI


Repubblica 26.6.12
Afghanistan. La guerra impossibile
di Tzvetan Todorov


IL VERTICE della Nato, nel maggio di quest’anno, ha annunciato il «ritiro irrevocabile » delle truppe straniere che si trovano in Afghanistan entro la fine del 2014.
Se così fosse, sarebbe la fine di una delle guerre più lunghe di questo secolo e del precedente: tredici anni, dal 2001 al 2014, superata in durata solo dall’intervento americano in Vietnam (1959-1975); è stata anche una delle più costose: si stima che siano già stati spesi 530 miliardi di dollari. Le vittime si contano a migliaia fra i soldati della coalizione e a decine di migliaia fra la popolazione afgana.
Le grandi potenze non amano ammettere che gli capita di sbagliarsi nelle avventure che intraprendono, perciò questo ritiro ci verrà sicuramente presentato come un successo politico. Preferiscono non rendersi conto che le guerre asimmetriche moderne sono impossibili da vincere, che i popoli rigettano l’occupazione straniera anche se viene spiegato che è per il loro bene. È abbastanza probabile che il ritiro, come successe dopo la fine della guerra in Vietnam, sarà seguito dal tracollo del governo messo al potere. Gli anni di sforzi, le vittime, le spese non saranno serviti a niente, nemmeno come insegnamento per gli anni a venire.
Succede già con l’intervento in Libia del 2011. Il cambiamento di maggioranza in Francia, nel 2012, non ha dato luogo ad alcuna critica sulla partecipazione del Paese alla guerra. Il suo principale promotore all’interno del governo, Alain Juppé, prima ministro della Difesa e poi degli Affari esteri, ha dichiarato al momento di lasciare il potere: «Sono fiero di quello che abbiamo fatto in Libia», ricevendo l’approvazione sia dei deputati socialisti che degli editorialisti dei giornali di sinistra. Ma è una scelta contestabile tanto a priori quanto a posteriori. Non è vero che il bagno di sangue annunciato da Gheddafi non poteva essere evitato con altri mezzi: d’altronde, non è stato evitato perché oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale. E quando si ammetterà che la guerra non è uno strumento appropriato per imporre la democrazia, perché la sua lezione immediata consiste nell’affermare la superiorità della forza militare bruta e dunque la negoziazione, come la ricerca del compromesso, sono percepite come segnali di debolezza? Di per sé il risultato dell’intervento è tutt’altro che trionfale: la Libia è in preda a conflitti tribali, le milizie locali rifiutano di sottomettersi al potere centrale, l’islamismo salafita avanza sempre più, la repressione e le vendette contro i fedeli del vecchio regime proseguono, con atti di tortura che si aggiungono alle esecuzioni sommarie.
I dirigenti delle potenze occidentali, che amano credere di esprimere l’opinione della «comunità internazionale », non sembrano essere consapevoli del presupposto principale della loro politica, vale a dire che spetta a loro, come ai bei vecchi tempi degli imperi coloniali, decidere del destino di quei popoli privi di protettori potenti, in particolare in Africa e in Asia. Questi popoli, sembrano dirsi, sono condannati a restare eternamente minorenni e noi abbiamo la pesante responsabilità di decidere per loro. Come spiegarsi, altrimenti, il fatto che trovano legittimo destituire sulla punta del fucile i governi di così tanti Paesi, dalla Costa d’Avorio all’Afghanistan, perfino quando questi gesti spesso e volentieri hanno effetti controproducenti? Una simile mentalità del resto è condivisa da alcuni cittadini delle vecchie colonie residenti all’estero, che si indignano: ma che aspetta l’Occidente per venirci a liberare dal nostro tiranno?
Questi interventi sono tanto più problematici in quanto il contrario di un male non è necessariamente un bene. Un potere tirannico può essere sostituito da un altro che lo è altrettanto. Oggi vediamo la complessità della situazione in Siria, per la quale si moltiplicano gli appelli all’aiuto. Il governo di Damasco reprime i suoi avversari nel sangue, ma si tratta di semplici manifestanti pacifici o di combattenti armati che cercano di impadronirsi del potere? Il governo orchestra la sua propaganda, ma c’è da credere a tutte le notizie diffuse dalla televisione al-Jazeera o dall’autoproclamato Osservatorio siriano dei diritti umani? Dobbiamo interpretare il conflitto come un confronto fra amici e nemici della democrazia o come un confronto fra maggioranza sunnita e minoranze di altre confessioni, o ancora come una lotta per il potere fra l’Arabia Saudita e l’Iran?
Certe situazioni politiche, come del resto certe configurazioni personali, non sono migliorabili attraverso interventi radicali, di alcun genere. È questo che le rende, propriamente parlando, tragiche.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 26.6.12
Parla lo scrittore egiziano Gamal Al Ghitani
“Con gli islamisti si va indietro scippata la nostra rivoluzione”
di Alix Van Buren


«DOVREI dirmi contento? Sì, le prime elezioni presidenziali mi rallegrano. Però, si apre un’era molto difficile: per la prima volta da un millennio, da quando Muhammad Ali fondò l’Egitto moderno guardando all’Occidente, il Paese subisce un mutamento epocale: i Fratelli musulmani governano. Non avrei mai immaginato che la nostra grande rivoluzione finisse così». Gamal Al Ghitani, romanziere e giornalista, a 67 anni è la memoria storica del Cairo, protagonista del capolavoro Zayni Barakat.
Un gigante della letteratura, il giorno dell’insediamento di Morsi è sferzante, come sempre.
Ghitani, perché tanta preoccupazione?
«Perché i Fratelli musulmani sono venuti per restare. Da 84 anni vogliono controllare l’Egitto. Da allora il Paese è segnato dal conflitto fra società laica e religiosa. Per noi scrittori, artisti, musicisti, per il mondo laico votato ai diritti fondamentali, questo è un gran brutto momento».
Il presidente Morsi ha promesso un governo aperto a tutte le componenti della società. Lei non gli crede?
«E come farlo? Per sei mesi in parlamento i Fratelli musulmani non si sono occupati di economia, dei problemi della popolazione, ma della vita privata della gente, dell’istruzione, della censura. Quanto sia pericolosa la svolta è dimostrato dall’immagine di piazza Tahrir, domenica, affollata soltanto di Fratelli musulmani. I rivoluzionari del 25 gennaio, meno organizzati, senza leader, privi dei fondi miliardari di cui dispone l’Ikhwan, finanziato dal Qatar, sono stati messi da parte. Gli islamisti hanno scippato la rivoluzione, così come dilagano nello Yemen, in Siria, in Tunisia».
Lei non è troppo pessimista?
«Lo sono nel medio termine: e come me ben 10 milioni di cristiani copti, che infatti emigrano. E io, musulmano intellettuale, devo preoccuparmi anche per loro. I Fratelli musulmani vogliono fondare il primo Stato religioso d’Egitto. Però, nel lungo termine sono ottimista. Gli egiziani capiranno il gioco dell’Ikhwan. Verrà un’altra rivoluzione. Noi non baratteremo una dittatura militare con una religiosa»
 
l’Unità 26.6.12
Le paure di Israele
«L’inverno islamico non porterà la pace
Il risultato del voto egiziano crea scompiglio nel governo Netanyahu e nel Paese: si temono effetti destabilizzanti anche nei Paesi moderati
di Umberto De Giovannangeli


Oltre l’«inverno islamico». Cosa rappresenti per Israele l’elezione di Mohamed Morsi a presidente dell’Egitto, è sintetizzato nel titolo a tutta pagina di Yediot Ahronot: «Il buio cala sull'Egitto». Con questo titolo con un sapore che richiama calamità bibliche il più diffuso tabloid dello Stato ebraico suggerisce ai suoi lettori il significato della elezione alla presidenza al Cairo del candidato dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi. Si tratta di «una vittoria pericolosa», avverte il giornale, anche alla luce della biografia politica di Morsi che da giovane ha iniziato le proprie attività come «direttore del Comitato nazionale contro il sionismo». L’altro ieri l'ufficio del premier Benyamin Netanyahu ha espresso fiducia che la cooperazione con l'Egitto sia destinata a proseguire, «a vantaggio dei due popoli, e per la stabilità della Regione». Ma su questo punto, avverte Yediot Ahronot, occorre restare scettici perchè già la giunta militare ha di fatto cessato unilateralmente le forniture ad Israele di gas naturale e ha ulteriormente ridotto le relazioni bilaterali. Tuttavia Morsi, prevede il giornale, non abrogherà formalmente gli accordi di pace («il cui spirito è morto da tempo») perché essi garantiscono all'Egitto aiuti economici essenziali dall'Occidente. «La dipendenza dell'Egitto da quella assistenza conclude il giornale resta ora il nostro corpetto protettivo».
DISINCANTO
«La paura è diventata realtà: i Fratelli musulmani sono al potere in Egitto», titola Maariv, quotidiano di centro aggiungendo: «Il trattato di pace è a rischio». Pragmatico, Yaacov Katz, esperti di affari militari del Jerusalem Post, afferma da parte sua che «niente cambierà a breve termine nelle relazioni con il Cairo, poiché Morsi deve affrontare sfide più pressanti di una guerra con lo Stato ebraico». Ma l'arrivo al potere della Fratellanza «avrà una influenza sulla crescente minaccia terrorista nel Sinai», aggiunge. Anche il giornale Haaretz (sinistra) dedica la sua prima pagina ai «timori» che suscita in Israele il presidente islamista in Egitto. Di certo, l’elezione di Morsi ha sprofondato il governo Netanyahu in un’atmosfera di apprensione. Per tre ore e mezzo l'ufficio del primo ministro ha taciuto. Poi, pochi minuti prima delle edizioni dei telegiornali, è sopraggiunto uno stringato comunicato di quattro righe. «Israele si leggeva apprezza il processo democratico svoltosi in Egitto e ne rispetta l'esito. Israele si attende che la cooperazione con il governo egiziano prosegua sulla base degli accordi di pace fra i due Paesi, che è nell'interesse di entrambi i popoli e che contribuisce alla stabilità regionale». In sostanza: un appello al buon senso e al pragmatismo dei Fratelli musulmani.
Gli stessi dirigenti israeliani sembrano però non farsi troppe illusioni. Citato dalla radio militare, un funzionario governativo ha già avvertito che gli sviluppi di questa elezione rischiano di essere negativi. «Fin dall'inizio ha rilevato avevamo avvertito che la primavera araba rischiava di trasformarsi in un inverno islamico. Allora ha aggiunto, alludendo forse alla diplomazia di Washington le nostre previsioni erano state oggetto di scherno. Adesso appaiono ancora più fondate».
MONITORAGGIO
In Israele nelle settimane scorse ha avuto eco un acceso comizio popolare organizzato dai Fratelli musulmani in cui è stata invocata la costituzione di un Califfato islamico con capitale a Gerusalemme. Al tempo stesso c'è chi si sforza di vedere il lato positivo della situazione. L’ex ambasciatore di Israele al Cairo Ely Shaqed, ad esempio, si è compiaciuto del fatto che in Egitto, per la prima volta, si siano svolte «elezioni libere, senza brogli». «Si tratta di uno sviluppo serio, storico, drammatico» ha aggiunto. Ma il rischio, secondo Shaqed, è che la vittoria dei Fratelli musulmani abbia adesso ripercussioni destabilizzanti in Paesi moderati della Regione, come Giordania e Arabia Saudita, nonchè per la Autorità nazionale palestinese.

Corriere 26.6.12
Putin Cerca la Sponda Israeliana
di Francesco Battistini


Vignetta d'un giornale di Tel Aviv: Putin che scende dall'aereo, vede due dei suoi che scaricano un missile e sbotta, «idioti, siamo atterrati in Israele, non in Siria!». Il breve giro mediorientale del presidente russo, che oggi prosegue nei Territori palestinesi e in Giordania, è cominciato dalla casella più difficile. Non perché le sue relazioni con la classe dirigente israeliana siano cattive, anzi: dai tempi dell'Urss, non c'è stato un leader più filoisraeliano di Vladimir Vladimirovic (foto: con Bibi Netanyahu). Che fu il primo uomo del Cremlino a rompere il tabù, nel 2005, con lo storico abbraccio all'ex nemico sionista. E che alla compagnia di molti leader arabi, notoriamente, preferisce quella del ministro russofono degli Esteri, Lieberman. E che sfiorando la gaffe, una volta, mostrò pubblico apprezzamento per le performance dell'ex presidente israeliano Katsav, oggi in carcere per violenza sessuale. E che in Israele, con oltre un sesto della popolazione immigrata dalla Russia, con un partito di governo espressione di questa potente minoranza, è atterrato a inaugurare un monumento ai caduti dell'Armata Rossa. No, stavolta la ragione di questa visita è di stretta «geopolitica»: riequilibrare la posizione di Mosca, spinta a un pericoloso isolamento regionale dal suo appoggio a Siria e Iran, la prima foraggiata d'armi e di favorevoli veti in sede Onu, il secondo con tecnologie nucleari e risoluti no alle sanzioni internazionali. Gl'israeliani si sono ben guardati dall'irritare l'ospite, ben sapendo che serve altro a fargli cambiare idea. Ma ne hanno capito il bisogno di mostrarsi più spregiudicato e, in cambio di qualche contratto energetico, si sono prestati a far da sponda. S'è parlato così dei massacri di Assad e della Bomba di Ahmadinejad, certo. Si sono «condivise le preoccupazioni», chiaro. S'è sollecitato un «processo democratico indipendente» in Egitto, ovvio. Ma più che altro s'è dato un segnale tutt'intorno: «I russi sono il perno d'ogni cambiamento sia a Teheran che a Damasco — spiega un diplomatico israeliano — temono sia l'islamismo, che può contagiare le repubbliche caucasiche, sia le rivolte "stile Kosovo o Ucraina", dietro cui può nascondersi la mano americana. Hanno paura della Turchia e sospettano d'Israele. È il momento migliore per vedere che carte vogliono giocare».

Repubblica 26.6.12
Il blogger anti-Putin in Aeroflot “Ma non mi sono venduto”
Il leader dell’opposizione Navalnyj entra nel consiglio
di Nicola Lombardozzi


MOSCA — Qualcuno l’ha presa male, pensando alla classica polpetta avvelenata preparata da Vladimir Putin contro il suo più odiato nemico. Altri la prendono con ottimismo intravedendo spiragli di speranza di un cambiamento atteso da troppo tempo. In ogni caso la notizia è di quelle che lasciano spiazzati: Aleksej Navalnyj, il blogger anticorruzione, vero leader della protesta di piazza contro il “partito dei ladri e dei truffatori”, è stato eletto nel consiglio dei direttori dell’Aeroflot, l’ex compagnia di bandiera dell’Unione Sovietica, colosso dell’aviazione civile appartenente per il 51 percento allo Stato. Un simbolo, dalla sua fondazione nel 1923, del potere in Russia.
Ma al di là di qualche raro commento su internet, tipo «non ti sarai venduto?», oppure «questa storia non mi piace, ho paura di perderti», la massa dei seguaci di Navalnyj, che sulla rete sono centinaia di migliaia, non prende la cosa come uno scandalo. A rasserenare i dubbiosi c’è intanto da precisare che l’elezione è stata proposta e sostenuta da un oligarca non allineato con il governo Putin, Aleksandr Lebedev, titolare di quasi il 15 percento delle azioni della compagnia. Il suo nome dà grandi garanzie di indipendenza. Non a caso è proprietario, insieme a Mikhail Gorbaciov del pacchetto di maggioranza, del quotidiano di Novaja Gazeta, uno dei pochi giornali di opposizione sopravvissuti e tragicamente celebre per l’omicidio della sua inviata speciale Anna Politkovskaja. Questa attività insieme all’acquisto in Inghilterra di gloriose testate come The Independent e The Evening Standard lo ha messo più volte in rotta di collisione con Putin e i suoi. Tanto da far pensare che, più che un tentativo di comprare Navalnyj, la sua elezione rappresenti piuttosto un colpo sferrato all’attuale sistema di potere.
In ogni caso Navalnyj promette di sfruttare l’occasione per mettere a segno una parte del suo programma anticorruzione. «Il board dei direttori di cui farò parte — spiega scandendo le parole — avrà solo un potere consultivo. Presenterò proposte per segnalare truffe e prevaricazioni a danno degli azionisti di minoranza. Non avranno il coraggio di bocciarmele tutte». Con un gergo volutamente burocratico, il blogger più amato dai giovani russi, precisa
anche i privilegi e gli onori che la nuova carica gli porterà: «Già in mattinata mi hanno recapitato una tessera “millemiglia” della serie diamante che apprezzo molto. Quanto alla retribuzione, l’anno scorso i miei omologhi hanno incassato 40mila euro». Soldi che dovrebbero essere reinvestiti sul sito anticorruzione. Ma il denaro non è mai stato un problema per Navalnyj che vive di donazioni spontanee dei suoi sostenitori. Proprio grazie alla banca Nrb di Lebedev dovrebbe presto mettere in circolo delle carte di credito speciali che verseranno sul suo fondo l’1 percento di tutte le operazioni.
Ma qualcuno fa invece notare che gli azionisti di Stato non hanno fatto niente per impedire la sua ascesa. Navalnyj lo ammette: «È vero, avevano i numeri e le capacità ricattatorie per fermarmi. Ma forse sarebbe stato troppo anche per loro».

La Stampa 26.6.12
Intervista
“Damasco non è Tripoli. Nessuno vuole la guerra”
Lo storico Salt: un intervento sarebbe disastroso
di Marta Ottaviani


ISTANBUL La comunità internazionale non attaccherà la Siria e se decidesse di farlo sarebbe l’inizio di una situazione disastrosa, molto più complessa e pericolosa di quella in Libia. Jeremy Salt, storico dell’Università Bilkent di Ankara e autore del libro «La disfatta del Medio Oriente», spiega che cosa rischia la regione e perché è difficile porre fine al regime di Assad.
Professor Salt, siamo di fronte a un nuovo inasprimento delle reazioni fra Turchia e Siria. Che impressione si è fatto dall’abbattimento del F4 turco di venerdì scorso?
«Abbiamo due versioni molto diverse dell’incidente. L’unico punto in cui le ricostruzioni concordano è che il caccia è entrato nello spazio aereo siriano. Ma finché non viene confermato se è stato abbattuto nei cieli siriani o internazionali è difficile capire chi ha ragione e chi torto».
Oggi si riunisce la Nato. Crede che l’episodio porterà a un cambio di registro nei confronti del regime di Bashar Assad e magari anche a un intervento armato?
«Molte delle potenze che si troveranno oggi a Bruxelles non vogliono ricorrere alla forza. Se decidessero di attaccare sarebbe una grande sorpresa».
Perché?
«Perché la Siria non è la Libia. Sono passati 18 mesi da quando sono iniziate le manifestazioni contro il regime, ma fino a questo momento dall’esercito non sono arrivate defezioni di rilievo e il presidente Assad gode ancora di un consenso significativo. A questo va aggiunto che il Consiglio Nazionale Siriano ospita anime troppo diverse fra loro, manca di coesione e soprattutto è fatto da persone che vivono fuori dal Paese da anni e mancano di rapporti solidi con l’interno».
Supponiamo che invece decidano di attaccare, che cosa succederà?
«Un disastro, non solo per la Siria, ma a livello globale. Nessun intervento militare delle potenze occidentali ha mai avuto come conseguenza il benessere delle popolazioni per le quali si interveniva, ma qui rischiamo il disastro su larga scala. Russia e Cina non permetteranno mai che si violi la sovranità della Siria e agiranno in sede Onu. Se questo dovesse succedere in ambito Nato si vendicheranno in altro modo. C’è poi da considerare la minaccia dell’Iran, che farà di tutto per tenere in piedi Assad».
L’Iran sulla carta è anche un grande alleato della Turchia e Damasco ha accusato Ankara di lavorare per aumentare la tensione. Nei prossimi giorni il vicepresidente della Repubblica iraniana sarà in visita ad Ankara. Quale sarà il messaggio lancerà Teheran?
«Dirà alla Turchia di abbassare i toni ed esorterà Ankara a non peggiorare la situazione. Ahmadinejad sa benissimo che l’agenda dell’Arabia Saudita ha come primo obiettivo Assad e subito dopo il suo regime».
Che idea si è fatto della celebre politica estera turca?
«Penso che abbia funzionato molto bene dal 2002 al 2011, quando era imperniata sul buon rapporto con gli Stati vicini. La situazione libica e quella siriana sono state gestite male. Nel caso della Siria forse hanno pesato anche i rapporti personali fra il premier turco Erdogan e Assad».

Repubblica 26.6.12
Tra i martiri di Homs
di Jonathan Littel


HOMS QUESTO è un documento, non un testo rielaborato. È la trascrizione, più fedele possibile, di due taccuini di appunti che ho preso durante un viaggio clandestino in Siria, nel gennaio di quest’anno. Inizialmente dovevano servire come base per gli articoli che ho scritto al ritorno. Ma a poco a poco, nei lunghi periodi di attesa e di inattività, nei tempi morti creati dalla traduzione durante le conversazioni, e a causa di una certa frenesia che tende a voler trasformare subito il vissuto in scrittura, quegli appunti si sono dilatati. È ciò che rende possibile la loro pubblicazione. A giustificarla, invece, è ben altro: sono il rendiconto di un momento breve e già scomparso, quasi senza testimoni esterni, degli ultimi giorni della rivolta di una parte della città di Homs contro il regime di Bashar al-Assad, poco prima che fosse soffocata in un bagno di sangue, ancora in corso mentre sto scrivendo. Solo dopo aver scritto questi appunti, e dopo aver lasciato la Siria, a Homs le cose hanno cominciato a precipitare per davvero. Pensavo che ciò che avevo visto fosse abbastanza violento, e credevo di sapere cosa significasse questa parola. Ma mi sbagliavo. Perché il peggio era appena iniziato, e quindi oggi mi vergogno rileggendo certi passi, per esempio quelli in cui riferisco le nostre stupide liti con gli attivisti di Baba Amr, liti che ci sono state e che avevano un motivo (ecco perché non censuro quei passi), ma che assumono tutt’altro significato alla luce di ciò che sarebbe accaduto, e del comportamento successivo degli interessati (Jeddi e Abu Hanin, per citarne solo due), a cui molti giornalisti occidentali devono la vita.
Riassumo: la sera del 3 febbraio, all’indomani della mia partenza, molte granate si sono abbattute sul quartiere di al-Khaldiye, proprio vicino alla piazza degli Uomini liberi. Cadevano a intervalli, e tutte hanno colpito più o meno lo stesso punto, il che non può essere una coincidenza. Conseguenza: le persone che si erano precipitate a soccorrere le vittime della o delle prime granate sono state a loro volta uccise o gravemente ferite. I telefoni funzionavano ancora e ho chiamato Mani, che era rimasto a Baba Amr. Avrei voluto conoscere la sorte di tanta gente — Abu Adnan, Abu Bakr, Najah (sono sopravvissuti, per lo meno a quell’episodio), il barbiere della piazza, il pasticcere Abu Yasser, il meccanico e i suoi amici, i due venditori di kebab — ma gli ho chiesto di informarsi su una sola persona: Mahmud, il bambino di dieci anni che danzava durante le manifestazioni e lanciava gli slogan stando sulle spalle degli adulti. Mani non è mai riuscito a farmi sapere niente. Molti altri erano già morti, allora. Sabato 4 l’esercito ha intensificato il bombardamento su Baba Amr, e il 6 o il 7, non ne sono del tutto sicuro, la rete telefonica è stata definitivamente disattivata. In quel momento Mani si trovava in centro città e, con la direzione di Le Monde, abbiamo un po’ perso le sue tracce finché anche lui non se n’è andato da Homs, l’11 febbraio. Quasi tutti i contatti che potevamo avere con gli attivisti si sono interrotti in quel momento, tranne con i due gruppi che disponevano di un sistema satellitare Bgan, ovvero gli attivisti di al-Khaldiye e di Baba Amr.
Tutti i giorni, su YouTube, compaiono video, uno più immondo dell’altro, commentati, fino alla sua partenza per il Libano, dal siriano-britannico Danny Dayem, e poi molto spesso da un giovane medico — o piuttosto, probabilmente, uno studente di medicina, non sono sicuro — che avevo incrociato varie volte ma che non compare in questi taccuini, il dottor Mohammed al-Mohammed. Una cosa era evidente: il bombardamento del quartiere si intensificava di giorno in giorno (si sapeva poco degli altri quartieri, ma non sembrava che fosse meglio), e il numero delle vittime civili aumentava.
Chi non ha troppi problemi ad addormentarsi si prenda la briga di guardare alcuni di quei video, lo invito a farlo. In effetti Baba Ami ha una particolarità, che avevo notato ma a cui al momento non avevo attribuito tutta l’importanza che merita: è stato costruito frettolosamente e in modo semiabusivo da persone respinte ai margini di Homs e con pochi mezzi, che quindi ritenevano superfluo scavare una cantina costruendo il loro piccolo edificio. Una cantina è utilissima per sistemarci vecchi mobili o immagazzinare patate e cipolle, ma si può farne a meno quando non si buttano mai via i mobili e la scorta di patate e cipolle sta facilmente in cucina. È tutt’altra storia quando un esercito moderno, equipaggiato con carri armati d’assalto, razzi di tipo Grad, e mortai di calibri diversi sino ai 240 mm, arma mai usata in un conflitto contemporaneo a parte la Cecenia, bombarda il tuo quartiere strada per strada, casa per casa, in modo metodico e sistematico, per ventisette giorni.
L’offensiva delle forze di Bashar al-Assad era cominciata, guardacaso,all’indomanidelvoto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite su una risoluzione, peraltro piuttosto fiacca, ispirata al piano di pace della Lega araba, a cui Russia e Cina hanno risolutamente opposto il loro veto. Poco interessate a ripetere l’avventura libica, anche quando appariva chiaro che il massacro tanto temuto a Bengasi si stava effettivamente svolgendo a Homs, la diplomazia americana e quella europea si invischiavano in discussioni interminabili, piuttosto ridicole, su «corridoi umanitari » o proposte dello stesso tenore. I loro colleghi arabi, qatari o sauditi cominciavano a mormorare che si sarebbe potuto prospettare un intervento più energico, in particolare mediante trasferimento di armi all’Esl, ma nessuno li ascoltava. È a questo punto che, alquanto esasperato, nell’ultimo dei miei articoli per Le Monde ho proposto di tacere e abbandonare i siriani al loro destino. Purtroppo è ciò che è stato fatto.
L’epopea dei giornalisti occidentali uccisi o feriti a Baba Amr ha acceso i riflettori su ciò che accadeva laggiù, e al tempo stesso ne ha paradossalmente distolto l’attenzione. Da una parte non si poteva più dire di non sapere cosa stesse succedendo; dall’altra si potevano riempire i telegiornali e le colonne dei quotidiani di omaggi (più che meritati) a Marie Colvin e Rémi Ochlik, uccisi il 22 febbraio in un bombardamento mirato, con razzi, della casa dell’«Ufficio stampa», e poi concentrare tutta l’attenzione delle diplomazie e dei media sul salvataggio dei giornalisti feriti nello stesso attacco, Édith Bouvier e Paul Conroy, nonché degli altri due che avevano scelto di rimanere con loro invece di fuggire attraverso il tunnel, Javier Espinosa e William Daniels. Non trovo le parole per parlare del loro coraggio e dell’incubo che hanno vissuto finché non sono riusciti, uno dopo l’altro, a raggiungere il Libano, una settimana dopo. Ma constato anche che, salvo rare eccezioni, nessun media occidentale ha parlato degli attivisti e giornalisti siriani che si trovavano con loro, tranne alla fine, quando tredici «militanti» non identificati sono rimasti uccisi durante il trasferimento in fretta e furia dei feriti.
Ho scarse notizie dei siriani che, in pochi giorni, sono diventati nostri amici. La maggior parte
degli attivisti dell’informazione e del personale medico di Baba Amr (tra cui Abu Hanin e Mohammed al-Mohammed) sono riusciti a fuggire con i resti dell’Esl appena prima della caduta definitiva del quartiere, venerdì 2 marzo, a eccezione di Jeddi, che ha scelto di rimanere: il I° aprile Jeddi, il cui vero nome è Ali Othman, è stato arrestato ad Aleppo, e da allora starebbe subendo le peggiori torture. Gli attivisti di al-Safsafi, al-Khaldiye e al-Bayada — Omar Telaoui, Abu Bilal, Abu Bakr, Abu Brahim — sono ancora in vita, stando ai contatti che Mani è riuscito ad avere, anche se la loro situazione resta difficilissima. Fadi, Alaa, Abu Yazan, Ahmad e gli altri combattenti dell’Esl che compaiono in questo taccuino devono essere morti o peggio, o forse no, ma con ogni probabilità non lo saprò mai. Di molti tra quanti ho citato qui con il nome proprio, un’iniziale o uno pseudonimo che si erano scelti per lanciarsi in questa avventura, certo non rimarrà nulla al di là di questi appunti, e del loro ricordo nella mente di chi li ha conosciuti e amati: tutti quei giovani di Homs, sorridenti e pieni di vita e di coraggio, e per i quali la morte, o una ferita atroce, o la rovina, la degradazione e la tortura erano poca cosa rispetto all’inaudita felicità di essersi scrollati di dosso la cappa di piombo che pesava da quarant’anni sulle spalle dei loro padri.
Titolo originale Carnets de Homs. 16 janvier — 2 février 2012 © 2012 © 2012 Éditions Gallimard, Paris per la prima edizione © 2012 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino

La Stampa 26.6.12
Il presidente esorta il Congresso: Serve una riforma complessiva
Obama, vittoria a metà sull’immigrazione
La Corte Suprema cancella tre articoli della legge dell’Arizona. Ma resta in vigore il più controverso
di Paolo Mastrolilli


La Corte Suprema degli Stati Uniti ha battuto il primo dei due colpi a sua disposizione, che promettono di influenzare le presidenziali di novembre, annullando tre dei quattro articoli centrali della contestata legge sull’immigrazione approvata in Arizona. Un tema che avrà forte impatto, soprattutto sul voto decisivo della minoranza ispanica. Giovedì, invece, si pronuncerà sulla costituzionalità della riforma sanitaria, principale risultato legislativo ottenuto dall’amministrazione Obama.
La legge dell’Arizona si chiama S. B. 1070 e ha quattro aspetti fondamentali: richiede ai poliziotti locali di controllare lo status delle persone fermate, se esiste il «ragionevole sospetto» che siano immigrati illegali; trasforma in reato per gli stranieri girare senza documenti che provino di essere entrati legalmente negli Stati Uniti, e fare domanda di lavoro se non si possiedono queste carte; consente di arrestare chiunque sulla base del sospetto che sia un illegale. L’amministrazione aveva fatto causa, perché riteneva che questa legge statale contrastasse con i poteri del governo federale. Cinque giudici della Corte, cioè il conservatore e presidente Roberts, il moderato Kennedy, e i liberal Ginsburg, Breyer e Sotomayor, hanno deciso di annullare gli ultimi tre articoli. Invece hanno lasciato in vita il primo, cioè quello più controverso, perché minaccia di portare al «racial profiling», ossia abusi nei confronti di persone che potrebbero essere fermate e sottoposte a controlli solo sulla base del loro aspetto e della loro razza. I magistrati più conservatori, Scalia, Thomas e Alito hanno difeso quasi integralmente la legge, mentre la liberal Kagan non ha votato perché all’epoca in cui era iniziata la causa faceva il consigliere legale del governo.
I giudici però hanno affermato che in tema di immigrazione la parola di Washington prevale su quella degli Stati, lasciando aperta la porta a nuove cause contro l’articolo rimasto in piedi, sulla base del rischio di eventuali discriminazioni razziali, non incluse nella disputa tra i poteri statali e federali risolta ieri.
Obama ha detto di essere «soddisfatto», ma ha chiesto al Congresso di varare una riforma complessiva, e ha sottolineato il rischio che l’articolo sopravvissuto generi abusi. La governatrice repubblicana dell’Arizona Jan Brewer, che su questa legge aveva avuto contrasti pubblici col presidente, ha dichiarato che si sente vendicata perché i giudici hanno lasciato in piedi la parte fondamentale della legge, e quindi ordinerà subito di cominciare i controlli. Il candidato del Gop Romney ha aggiunto che la questione dimostra il fallimento del capo della Casa Bianca, perché non ha prodotto una riforma nazionale dell’immigrazione, e ribadisce il diritto degli Stati a gestire questi temi.
Il problema ha un aspetto giuridico e uno politico. Quello giuridico resta aperto, perché la Corte potrebbe cancellare l’articolo rimasto in vita nel momento in cui la sua applicazione dimostrasse che porta a discriminazioni razziali.
Quello politico invece riguarda il voto degli ispanici, decisivo per vincere a novembre stati cruciali come Colorado, Nevada, New Mexico, Florida e la stessa Arizona. Obama qui ha un vantaggio netto, che secondo la Gallup è arrivato al 66% contro il 25% di Romney. Il presidente Obama è popolare perché ha proposto il Dream Act, riforma favorevole agli immigrati bloccata al Congresso dal Gop, e nei giorni scorsi ha annunciato che non deporterà più i figli degli illegali. La sentenza è una sua parziale vittoria, e l’articolo rimasto in piedi potrebbe cementare la convinzione degli ispanici che per proteggersi devono rieleggerlo.
La situazione è molto delicata anche per Romney, che da una parte non vuole alienarsi ancora di più latini, ma dall’altra non può deludere la base bianca repubblicana che è favorevole alla legge dell’Arizona. Per questo ha evitato di prendere posizione, scaricando tutta la colpa sul presidente che non ha riformato l’immigrazione, ma è difficile che questa possa essere la sua ultima parola da qui a novembre.

Corriere 26.6.12
Germania - Italia 1
Complementarità culturale e modelli politici
Un passato comune che può servire al futuro
di Sergio Romano


Gli Stati hanno debiti finanziari di cui devono rendere conto ai loro creditori. Ma le nazioni preferiscono generalmente dimenticare quelli morali e culturali che hanno contratto con altri Paesi nei momenti decisivi della loro storia. Alberto Blanc, segretario generale del ministero degli Esteri italiano negli anni dell'unità nazionale, non apparteneva alla categoria degli ingrati e degli smemorati. Sapeva che il Veneto, nel 1866, era stato conquistato soltanto grazie alla vittoria dei prussiani contro l'Austria a Sadowa. E sapeva che la Germania, dopo la sconfitta della Francia nella guerra del 1870, aveva tutti i titoli per essere considerata la maggiore potenza del continente. In una lettera a Marco Minghetti dello stesso anno disse che la nuova Italia avrebbe dovuto rompere con il passato, sbarazzarsi di tutte le chiacchiere retoriche degli anni precedenti (fra cui in particolare «l'alleanza delle razze latine») e fissare il proprio sguardo sui Paesi che potevano meglio ispirare il suo futuro. Nella lettera a Minghetti notò lo straordinario vantaggio conquistato dalla Germania sul resto del mondo e aggiunse che l'Italia, d'ora in poi, avrebbe dovuto occuparsi di «cose solide e sicure come la scienza positiva, la produzione, la forza che scaturisce dall'una e dall'altra». Tradotta in parole più semplici la lettera di Blanc diceva: il nostro modello d'ora in poi deve essere la Germania, non la Francia.
Il segretario generale del ministero degli Esteri (un savoiardo, nato suddito del regno di Sardegna) aveva ragione. La Germania era allora la più dinamica delle potenze europee. Dopo la sua straordinaria fioritura filosofica e letteraria tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, toccava ora alle sue industrie, alle sue banche, ai suoi laboratori scientifici e alla sua editoria il compito di aprire le strade che la scienza, la tecnologia, il pensiero politico e sociale dell'intera Europa avrebbero percorso nei decenni successivi. La borghesia italiana continuò a essere prevalentemente francofona (la lettera di Blanc a Minghetti era scritta in francese) ma la modernità, ormai, parlava tedesco. Il modello politico francese era quello di una democrazia parlamentare vivace e democratica, ma rissosa e terribilmente incline a scandali di spie, affari e denaro. La Germania, invece, irradiava coesione, disciplina sociale, efficienza amministrativa. Francesco Crispi sperò di essere il Bismarck italiano. Sidney Sonnino fu attratto dal modello costituzionale tedesco (una sorta di presidenzialismo monarchico temperato dall'esistenza di un Parlamento autorevole) e pensava certamente alla Germania quando scrisse per La Nuova Antologia un articolo («Torniamo allo Statuto») in cui proponeva che al re venissero restituiti i poteri previsti dalla Carta albertina.
Su un altro piano le pensioni volute da Bismarck e la legislazione sociale dell'Impero guglielmino dimostravano che uno Stato forte poteva essere attento alle esigenze dei lavoratori. I socialisti italiani non amavano il Kaiser, ma non potevano ignorare che la Germania aveva il più autorevole partito socialdemocratico europeo e grandi organizzazioni sindacali. Quasi tutti i riferimenti intellettuali della sinistra italiana tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento furono tedeschi: Marx, Engels, Bebel, Kautsky, Bernstein. Quando Bernstein propose una revisione delle dottrine marxiste sulle sorti del capitalismo, il dibattito sul revisionismo vide scendere in campo la migliore intellighentsia italiana, da Antonio Labriola a Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Quando il partito socialista, fondato nel 1892, ebbe bisogno di un giornale, il nome prescelto (Avanti!) era semplicemente la traduzione italiana di una grande testata tedesca (Vorwärts). Da allora i partiti e sindacati italiani assomigliano a quelli della Germania molto più di quanto non ricordino quelli della Francia e della Gran Bretagna.
La Triplice Alleanza, firmata nel 1882 fra Austria-Ungheria, Germania e Italia, ebbe l'effetto di rafforzare i rapporti italo-tedeschi, soprattutto sul piano economico. Allorché l'Italia, dopo lo scandalo della Banca Romana, ebbe bisogno di un sistema bancario all'altezza delle sue nuove esigenze, il Paese adottò quello tedesco della «banca mista» (banca commerciale di sconto, ma anche d'affari e investimenti industriali). La Banca commerciale italiana nacque con capitali tedeschi e fu amministrata, nei suoi primi decenni, da uomini — Giuseppe Toeplitz e Otto Joel — che provenivano da una lunga esperienza mitteleuropea. Alla vigilia della Grande guerra una parte del nazionalismo italiano sostenne che quella banca era lo strumento di cui la Germania si era servita per conquistare l'Italia. In realtà la Bci fu, sin dal momento della sua nascita (1894), l'indispensabile interlocutore della nuova industria elettrica italiana e di molte altre iniziative imprenditoriali dell'era giolittiana. Neppure lo scoppio della Grande guerra interruppe subito i rapporti fra i due Paesi. D'intesa con Giovanni Giolitti, un uomo politico tedesco (Bernhard von Bülow, marito di una nipote di Marco Minghetti) tentò a lungo d'impedire che l'Italia partecipasse al conflitto; e la guerra italiana contro la Germania cominciò soltanto il 27 agosto 1916, quando il governo di Paolo Boselli dovette cedere alle pressioni degli Alleati. Sino ad allora una parte importante della classe politica nazionale aveva sperato di avere un solo nemico: l'Austria-Ungheria.
Non ho scritto di altri avvenimenti che formano il capitolo più negativo della storia dei rapporti italo-tedeschi: le reciproche contaminazioni ideologiche negli anni di Mussolini e Hitler, l'alleanza, la guerra (la somma di due follie), le leggi razziali, l'occupazione tedesca dopo l'8 settembre. Sono le vicende più note al grande pubblico e hanno avuto l'effetto di oscurare la straordinaria complementarità economica e culturale che aveva unito i due Paesi nei decenni precedenti. Vi fu un momento in cui Benedetto Croce poté parlare della «Germania che abbiamo amato» come di un amore perduto. Fu smentito, fortunatamente, dalla naturalezza con cui Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer s'intesero, dopo la fine della guerra, per gettare le fondamenta dell'unità europea. La prima iniziativa venne dalla Francia, e l'asse franco-tedesco, dopo il ritorno di de Gaulle al potere, fu per molto tempo la «locomotiva» dell'Europa. Ma fra De Gasperi e Adenauer correvano rapporti più intensamente culturali: il cristianesimo sociale degli inizi del Novecento, il clima politico della Mitteleuropa e forse addirittura il sentimento della comune appartenenza a quella vecchia casa europea che era stata per molto tempo il Sacro Romano Impero. Angela Merkel e Mario Monti non hanno né la stessa formazione, né gli stessi ricordi. Ma può giovare a entrambi sapere che non lavorano nel vuoto di un rapporto inesistente fatto di reciproci risentimenti. C'è un passato italo-tedesco che può servire al futuro.

Corriere 26.6.12
Germania - Italia 2
Da Goethe a Mann, quei cercatori d'infinito attratti e spaventati dalla luce mediterranea
di Paola Capriolo


Forse nessuno tra i grandi personaggi della cultura germanica ha reso all'Italia un omaggio paragonabile a quello del francese Stendhal, che volle essere designato come «milanese» sulla sua pietra tombale, quasi a offrire l'estrema testimonianza di un sentimento che può essere definito addirittura di adesione. Questa adesione non c'è, da parte dei tedeschi: c'è però una fascinazione non meno profonda, che dal diciottesimo secolo sino a tutto il Novecento ha spinto poeti, scrittori e filosofi a compiere il loro reale o metaforico «viaggio in Italia» per misurarsi con un mondo opposto e complementare. Quell'epoca aurea che i germanisti definiscono Klassik sarebbe difficilmente concepibile se il consigliere di Corte Johann Wolfgang von Goethe, dopo essere tornato indietro una prima volta, come sgomentato dalla prospettiva di un incontro che presagiva fatale, quando era già sul punto di varcare il passo del Gottardo, non si fosse infine deciso a valicare le Alpi lasciandosi completamente impregnare dall'esperienza italiana. Al suo ritorno non era diventato «romano», «napoletano», «veneziano», non aveva assunto la cittadinanza spirituale di nessuno dei luoghi dove aveva soggiornato; in compenso aveva acquisito quell'idea latina della forma che si sarebbe così felicemente contemperata con gli slanci speculativi e le inclinazioni faustiane dell'indole tedesca dando luogo a una delle più grandi stagioni della cultura europea. È in fondo la nascita di un mito: quello della «terra dove fioriscono i limoni», oggetto di una lunga, tenace nostalgia di cui forse possiamo ancora cogliere gli echi nel turista di Amburgo o di Francoforte in visita al nostro Paese; un mito che a ben vedere non si spegne neppure durante la stagione romantica, quando la forma, la misura, l'istinto classico del limite riassunti nella parola «Italia» vengono fatti oggetto della più radicale contestazione. Così, appunto, vanno le cose tra gli opposti: a volte si attraggono, altre volte si respingono, senza mai poter prescindere l'uno dall'altro. È come se il tedesco definisse inevitabilmente se stesso in rapporto all'Italia, ora rivendicando la propria superiorità di cercatore dell'infinito e instancabile collezionista di fiori azzurri, ora sentendo questo stesso anelito all'infinito come un'irrimediabile goffaggine e guardando con l'invidia dell'apprendista all'innata «chiarezza» di noi eredi del Rinascimento.
Dopo Goethe, dopo le generazioni degli scrittori romantici nelle cui pagine l'Italia compare soprattutto come scenario di torbide fiabe, tocca a un secondo viaggiatore d'eccezione fare dei propri ripetuti soggiorni nella penisola altrettante tappe fondamentali nella storia della cultura tedesca. È un filosofo, questa volta, e si chiama Friedrich Nietzsche. Da seguace di Schopenhauer, nonché teorico del «dionisiaco» e della sua moderna rinascita nella musica wagneriana, finisce con lo scorgere nell'Italia il salutare antidoto a tutto questo, la culla di quel «grande stile» che si oppone allo spirito della décadence come il limpido cielo della Liguria alle nebbie germaniche, o la prediletta cucina piemontese a quella dieta obnubilante a base di birra e salsicce che a suo dire comprometterebbe alla radice, nei connazionali, ogni possibilità di pensare con chiarezza. Spulciando tra i suoi aforismi da «Umano, troppo umano» in poi (con particolare riguardo a quel libro italiano già nel titolo che è «La gaia scienza»), sembra di rileggere gli epigrammi più sferzanti rivolti da Goethe contro la tendenza dei tedeschi a perdersi in una «profondità» che sconfina nell'informe; mentre la profondità, scrive il filosofo con una sorta di aristocratico understatement, va nascosta, e precisamente «nella superficie», ossia in quell'incantesimo apollineo dello stile di cui proprio l'Italia ha custodito il retaggio facendo dell'apparenza non una sorta di scorza sotto la quale scavare in cerca di una presunta verità, ma un «Olimpo», una piena, autonoma celebrazione della sfera sensibile (o di quella natura che, per dirla con Goethe «non ha né nocciolo né buccia»).
Grazie a questi due giganti che, in polemica con il loro popolo, ne hanno influenzato più di chiunque altro lo sviluppo spirituale, si può dire che a dispetto della geografia la Germania abbia acquisito una preziosa sponda mediterranea. Ne percepiamo la presenza in quasi tutte le principali figure che, nella prima metà del Novecento, hanno sviluppato ciascuna a suo modo i presupposti nietzscheani sul piano letterario o poetico: da Gottfried Benn che, pur non avendo mai messo piede nel nostro Paese, con un palese richiamo all'autore dello Zarathustra definisce «complesso ligure» uno dei nuclei fondamentali della sua ispirazione e del suo repertorio espressivo, a Thomas Mann, nel quale per la verità il mito dell'Italia è quasi sempre filtrato dallo schermo dell'ironia, o forse, viene fatto di pensare, da una sorta di inveterata diffidenza protestante verso il «paganesimo» delle genti latine. Ma persino il pregiudizio, in fondo, non è altro che l'aspetto negativo del mito, e a dispetto di ogni riserva critica Mann resta un visitatore innamorato, come Goethe e Nietzsche, come quel pellegrino di nome Tannhäuser che (l'omaggio di Wagner non è meno toccante di quello di Stendhal) descrive come culmine della propria penitenza non i digiuni o le flagellazioni, ma l'aver attraversato l'Italia negandosi il piacere di guardarsi attorno.

Corriere 26.6.12
Germania - Italia 3
«Ruccola» e «kapieren»: il match linguistico lo vinciamo noi
di Isabella Bossi Fedrigotti


Il match linguistico Italia-Germania lo vinciamo noi, anche se più che altro per meriti migratori. Nel passato, Sei, Sette e Ottocento, sono stati gli italiani a occupare musicalmente la Germania (e l'Europa intera), imponendo la propria punteggiatura sugli spartiti dei grandi componitori di ogni dove, tedeschi e austriaci in primo luogo. Ed è da allora che allegro, vivace, andante con moto, piano, pianissimo sono entrati a far parte del lessico germanico (come, del resto, anche francese, inglese e spagnolo).
Poi sono arrivati — portati da camerieri, cuochi, pizzicagnoli e pizzaioli emigrati in massa in Germania nel corso del secolo passato — i termini di cucina, per cui oggi al Gasthaus i tedeschi ordinano, certi di farsi intendere anche dal personale locale, una «pasta» o, ancora meglio, una «bolonese» (per significare spaghetti al ragù), un «salami», accompagnato da un «grissini» (entrambi sempre al plurale), un'insalata di «ruccola» (con due «c») condita con «balsamico» (l'aceto è pleonastico) e, da bere, un «prosecco» o una «pellegrino» (per dire acqua minerale, così, senza più santo davanti). E per finire, volentieri un «gelati» (anch'esso soltanto al plurale) o un bel «tiramisu», con grande incertezza, però, su dove porre l'accento. Ma la parola italiana più utilizzata in assoluto in Germania, specialmente da parte di chi vuole sentirsi giovane e trendy, è senza dubbio il piccolo, facile e affascinante «ciao!».
Un capitolo a parte meritano i termini nostrani ancora ben vivi e vegeti, per ragioni di passata storia comune, nell'austriaco, e usati soprattutto a Vienna, capolinea degli antichi scambi con l'Italia, come, per esempio, «quasi» oppure «gusto» e i molti verbi di radice latina riadattati con desinenza tedesca, come «kapieren», «akzeptieren», «organisieren» o «gustieren», per capire, accettare, organizzare e gustare. Emigrazione nella direzione inversa non ce n'è stata e perciò pochi sono i termini tedeschi che si sono fatti largo nella nostra lingua. E se oggi procedono soprattutto dall'ambito turistico, come «spazieren» (passeggiare) o «tanzen» (danzare), ieri venivano da quello militare come «kaputt», «Diktat» oppure il terribile «ausmerzen» (eliminare), e l'altro ieri da quello artistico e filosofico come «Kitsch», «Weltanschauung» o «Schadenfreude» che abbiamo imparato a usare per oggetti di cattivo gusto, per visione del mondo e allegria per un altrui danno. Dall'ambito culinario abbiamo, invece, preso soltanto lo Strudel e le celestiali «graffe» napoletane, figlie legittime dei Krapfen. Il tedesco ha, tuttavia, la sua bella rivincita. È un lessico forse non più ricco ma certamente più preciso del nostro, in grado di puntualizzare con minuzia le situazioni, che infilza come farfalle su uno spillo, laddove l'italiano tende volentieri a restare un po' più sul vago: a conferma che la lingua è primo e fondamentale specchio della personalità. E a ribadire il concetto c'è anche un'altra differenza tra i due idiomi: poiché il loro vuole il verbo sempre in fondo alla frase, prima di parlare, i tedeschi devono avere ben chiaro il concetto che vogliono esprimere né possono modificarlo per via, mentre gli italiani sì che possono. Coerenza e fedeltà contro libertà (e incoerenza) insomma.

Corriere 26.6.12

Cultura Istruito e integrato: l'altro volto del fanatico
Ira, Raf, Br: gli estremisti sembrano persone normali
di Paolo Mieli


Viaggi nella psiche dei profeti armati. S’intitola Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici (il Mulino, pagine 238, € 19) il saggio dedicato da Gérald Bronner alle origini dei movimenti oltranzisti. Sulle radici culturali del terrorismo è di grande utilità il libro di Michael Confino
Il catechismo del rivoluzionario (Adelphi). Alexis de Tocqueville illustra le ragioni del 1789 nel classico L'antico regime e la Rivoluzione (Rizzoli). Elie Barnavi si sofferma sul fanatismo a fondo confessionale in Religioni assassine (Bompiani).

A non pochi piace pensare che l'estremismo sia la conseguenza della debolezza psicologica di alcuni individui, attribuibile «a dispiaceri personali, inadeguatezze sociali, scarsa istruzione, disumanità o psicopatia». Anche a detta degli analisti più avveduti, chi compie una scelta estrema lo fa «per colmare il vuoto della propria vita affettiva» e il terrorismo, di matrice sia religiosa sia politica, è alimentato «dalla marginalità sociale o dalla scarsa istruzione».
Niente di più sbagliato. Nella maggior parte dei casi, «gli individui che aderiscono a questo tipo di pensiero estremo non sono pazzi, né stupidi o disadattati». Del resto il nostro sentimento di indignazione non sarebbe compatibile con la sensazione di irrazionalità. Se questi individui «agissero spinti da una forma di follia stabile o temporanea, dalla disperazione o da altre cause che li trasformano in automi della barbarie, non potrebbero essere ritenuti moralmente (e, in una certa misura, nemmeno giuridicamente) responsabili dei loro gesti». L'irragionevolezza «può suscitare un sentimento di orrore ma non di indignazione». Concetti e parole tra virgolette che sono a fondamento di un bel saggio di Gérald Bronner, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, edito dal Mulino.
Ma prima di addentrarci in questo campo d'indagine, occorre fare una premessa. Non ci siamo ancora del tutto liberati dalla concezione della storia dell'umanità come una serie di passaggi da uno stato infantile a uno adulto. In base a questa prospettiva, nell'Ottocento si riteneva che l'Europa si trovasse nello stadio più avanzato della storia, mentre i popoli del Terzo Mondo erano rimasti nella condizione infantile. All'inizio del Novecento Lucien Lévy-Bruhl si spinse a ipotizzare una differente evoluzione sociale tra i popoli occidentali e quelli «primitivi» ai quali lui attribuiva un «pensiero prelogico». Edward B. Tylor, il primo antropologo a cui l'Università di Oxford assegnò una specifica cattedra (nel 1896), concepiva la storia dell'umanità come «uno sviluppo della mente umana verso uno stadio di complessità e razionalità crescenti». Sosteneva che «le credenze, i miti, e tutto ciò che allontanava il pensiero dalla razionalità oggettiva costituiscono retaggi del passato, utili all'antropologo impegnato a studiare le configurazioni arcaiche della cognizione, ma condannati a scomparire dalle società moderne». Sbagliava.
Nel 1986 Françoise Bouchayer ha fatto un'interessante indagine sul campo a Loch Ness e ha scoperto che a credere all'esistenza del mostro erano soprattutto individui diplomati. D'altra parte non si può non notare come basso status sociale e scarsa istruzione non fossero affatto caratteristiche della maggior parte dei militanti dell'Ira, delle Brigate rosse, della banda Baader Meinhof, dell'Armata rossa giapponese. E Mohammed Atta, il principale responsabile dell'attentato dell'11 settembre 2001 alle Twin Towers, era, come è noto, laureato, per giunta con una tesi sulla riqualificazione architettonica dei quartieri antichi. Parimenti istruito era stato Sergej Necaev il rivoluzionario russo che — come ha ben ricostruito Michael Confino nel libro Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l'affare Necaev (Adelphi) — trascinò nel fanatismo parte considerevole di due generazioni di giovani russi alla fine dell'Ottocento.
Alexis de Tocqueville — nel 1856, in L'antico regime e la Rivoluzione (Rizzoli) — notò che la presa della Bastiglia era stata preceduta da un ventennio di benessere. Paradossalmente «a mano a mano che si sviluppa in Francia la prosperità, gli spiriti sembrano più inquieti, il malcontento pubblico si inasprisce; l'odio contro tutte le antiche istituzioni aumenta, la nazione si avvia palesemente verso una rivoluzione». Spiega poi Tocqueville: «Vent'anni prima non si sperava nulla dall'avvenire, adesso non si teme nulla; l'immaginazione, impadronendosi in anticipo di quella felicità prossima e inaudita, rende indifferente ai beni che si hanno e spinge a precipizio verso le cose nuove».
Dopo un incoraggiante periodo di prosperità, nota adesso Bronner, alcune categorie di individui cominciarono a nutrire anticipazioni troppo ottimistiche, come se la loro visione del futuro fosse una tangente rispetto alla china in discesa del presente. Quando le previsioni si rivelarono sbagliate, questi individui si sentirono defraudati da ciò che ritenevano spettasse loro di diritto. Perché, nei loro sogni ad occhi aperti, si erano già concessi quei beni ai quali ora avrebbero dovuto rinunciare. Il malcontento si diffuse in particolare in gruppi generalmente poco «rivoluzionari» (come redditieri, commercianti, industriali), penalizzati dalla cattiva gestione dello Stato. Il loro intenso desiderio di arricchirsi, alimentato dalla recente prosperità, era destinato ad essere frustrato dai debiti non pagati dello Stato (e da quelli che loro stessi avevano contratto). Il desiderio di riforme, in particolare delle istituzioni finanziarie, nasceva da tale irritazione generalizzata. A questo punto Tocqueville si domanda: «Come sarebbe stato possibile sfuggire a una catastrofe?». In nessun modo, quando si ha «da una parte una nazione all'interno della quale il desiderio di far fortuna cresce ogni giorno» e «dall'altra un governo che eccita continuamente questa passione nuova e continuamente la turba, l'attizza e la delude, affrettando così la propria rovina».
Lo spazio della frustrazione collettiva, osserva Bronner, è definito dallo scarto tra ciò che riteniamo possibile e desiderabile, da un lato, e l'effettiva realizzazione di tali prospettive, dall'altro. Se questo spazio è eccessivo, la situazione rischia di farsi esplosiva. Nel 1962 James C. Davies, studiando la rivoluzione russa del 1917, giunse alla conclusione che «un movimento di protesta sociale ha più probabilità di verificarsi se è preceduto da una crisi economica, a sua volta conseguente a un lungo periodo di crescita e di prosperità». In seguito a lunghi periodi di crescita economica, «le aspirazioni della popolazione si orientano verso l'alto, le azioni, gli investimenti e i desideri sono ispirati dalle modalità di anticipazione dell'avvenire; se una crisi improvvisa manda all'aria tutti i progetti, gli individui, costretti a ridimensionare o ad annullare le loro elevate aspirazioni, sperimentano un'intensa frustrazione». E, dice Davies, l'aggregazione delle frustrazioni può scatenare una rivoluzione. Ma, specifica Bronner, tale struttura della frustrazione collettiva è solo una delle possibili forme che può assumere la distinzione tra livelli d'aspirazione (cioè le credenze collegate al futuro) e il livello di soddisfazione reale (risultato del confronto della credenza con la realtà). Andando più in là di Davies, Ted Gurr ha proposto di aggiungere altre due strutture: «Nella prima il livello di aspirazione resta costante quando cala quello di soddisfazione, nella seconda il livello di soddisfazione reale resta stabile anche quando aumenta quello di aspirazione».
Già alla fine dell'Ottocento, in Sociologia del suicidio (Newton Compton), Émile Durkheim aveva messo in risalto come in ogni Paese «il tasso di suicidi non aumenta solo, come prevedibile, nei periodi di crisi economica, ma anche nelle fasi di prosperità (è accaduto ad esempio in Italia e in Prussia negli ultimi anni del XIX secolo)». Il fattore di generazione dei suicidi, spiegava Durkheim, non è tanto la miseria quanto il brusco cambiamento sociale; «ogni rottura di equilibrio, anche se apportatrice di un maggiore benessere e di un aumento della vitalità generale, spinge alla morte volontaria». Le crisi, a prescindere dalla loro natura negativa o positiva, impediscono provvisoriamente alla società di esercitare la sua azione di regolazione dei desideri. «Un qualunque essere vivente», sono sempre parole di Durkheim, «non può essere felice e non può nemmeno vivere se i suoi bisogni non hanno un rapporto sufficiente con i mezzi di cui dispone». Nei periodi di brusca prosperità, le aspirazioni non regolate degli individui tendono a collocarsi ad un livello inaccessibile, alimentando la frustrazione.
Già, la frustrazione. Gli jihadisti di tutto il mondo — ha scritto Elie Barnavi in Religioni assassine (Bompiani) — al di là delle differenze che intercorrono tra loro, ritengono tutti di essere stati umiliati dall'Occidente e sono ossessionati dall'idea di prendersi una rivincita. Le origini dei soprusi percepiti sono molteplici: la colonizzazione, la schiavitù, la dominazione economica e culturale e tutta una serie di fatti d'attualità ritenuti collegati ad una «famiglia immaginaria» (nel loro caso quella dei musulmani oppressi). E, dal momento che non è difficile individuare nel mondo dei musulmani oppressi dagli occidentali, l'estremista ritiene legittimo che un qualsiasi musulmano possa, a sua volta, colpire gli occidentali.
Eppure le costruzioni e le rivendicazioni dei terroristi appaiono assurde anche a uno sguardo superficiale. Certo, spiega Bronner, «perché le credenze estreme ci vengono di solito presentate nella loro forma costituita, mentre per comprenderle avremmo bisogno di osservarne il processo di costituzione; l'adesione a queste credenze è caratterizzata da una meccanica progressiva, quasi invisibile per l'osservatore». I gruppi estremisti sanno bene che se la loro dottrina fosse conosciuta subito e in forma integrale, essa scoraggerebbe molti potenziali affiliati; perciò si preoccupano di introdurre in maniera progressiva un sistema di credenze che, se si giudicassero tutte assieme, il senso comune liquiderebbe come assurde. Devono dunque spingere l'adepto ad accogliere per gradi tale sistema di credenze. «Talvolta la verità stessa della dottrina è tenuta (temporaneamente) nascosta; questa astuta manipolazione consente di eludere le resistenze suscitate in qualunque persona da proposizioni stravaganti».
Perciò una tappa fondamentale è quella della conversione. La conversione «è il risultato di una sottile combinazione di esperienze personali e prove esterne che gradualmente costruiscono una credenza spettacolare, del tutto scollegata dal senso comune». A ciascuna tappa del processo, «l'iniziato si confronta con argomenti nuovi che, per essere accolti, richiedono un impegno lievemente superiore rispetto al livello precedente; una volta innescato questo meccanismo cognitivo incrementale, diventa molto difficile decostruire le credenze del discepolo ricorrendo ad argomentazioni contraddittorie». Poi, scrive Bronner, una delle modalità di ingresso nel fanatismo, ben documentata dagli esperti, è collegata all'impressione di penetrare nel tempio della purezza, dove si espiano tutti i peccati commessi e si riscattano le umiliazioni precedenti a questa rinascita.
Di qui un percorso di formazione che ben si ravvisa nell'estremismo musulmano. Si propone una particolare rilettura della storia del mondo che conduce l'iniziato alla conclusione che l'azione violenta non solo è necessaria, ma anche eticamente giusta. Viene descritta un'età dell'oro, ai tempi del Profeta e dei primi califfi, un'epoca di equilibrio e di serenità, durante la quale gli esseri umani vivevano in armonia con Dio e imponevano il rispetto della sua volontà. L'empietà degli infedeli ha infranto questo equilibrio perfetto, inaugurando un'epoca di decadenza. Ha notato Hannah Arendt nella sua opera Le origini del totalitarismo (Einaudi) che «i movimenti totalitari evocano un mondo menzognero di coerenza che meglio della realtà risponde ai bisogni della mente umana e in cui, mercé l'immaginazione, le masse sradicate possono sentirsi a proprio agio ed evitare gli incessanti colpi che la vita e le esperienze reali infliggono agli uomini e alle loro aspettative». Si è avuta poi, secondo questa ricostruzione storica, l'era dell'umiliazione e della frustrazione. Walter Runciman, in Ineguaglianza e coscienza sociale (Einaudi), ha dimostrato che «il sentimento di frustrazione è più acuto quando l'individuo attribuisce il suo fallimento percepito (cioè la differenza tra le sue aspirazioni e la loro effettiva realizzazione) non a ostacoli posti a lui come persona, ma a una discriminazione della comunità di appartenenza». Sarebbe «per favorire la rovina dei musulmani» che il mondo occidentale avrebbe fatto occupare parte delle sue terre al «malefico popolo di Israele». Non si sfugge all'umiliazione.
Uno degli ideologi dei Fratelli musulmani, Sayyid Qutb, già all'inizio degli anni Cinquanta, reduce da un viaggio negli Stati Uniti, ne parlò come di un Paese da distruggere. Capì che difficilmente ai giovani lì espatriati sarebbe stato riconosciuto lo stesso status sociale che avevano nel Paese d'origine, benché il loro livello di istruzione fosse spesso superiore alla media nazionale del Paese di adozione. La sensazione di declassamento e di frustrazione che ne derivava era la conseguenza dello scarto tra ciò a cui pensavano di aver diritto, le speranze nutrite prima della partenza, e ciò che avevano ottenuto nella realtà. Alexis de Tocqueville per primo ha notato come il pensiero estremo possa essere considerato un'espressione particolarmente rappresentativa della modernità. «Le società democratiche causano, per loro natura, un tasso di frustrazione superiore a quello prodotto da tutti gli altri sistemi sociali». Questo proprio «in ragione dei principi su cui si fondano: ricompensa del merito e rivendicazione dell'uguaglianza».
Reduce dal celebre viaggio in America, Tocqueville scrisse di quello «strano malessere psicologico dei cittadini» che pure per le condizioni materiali di vita — soprattutto se messe a confronto con quelle degli europei — avrebbero avuto poco di cui lamentarsi. «Quando sono abolite tutte le prerogative di nascita e di fortuna, quando tutte le professioni sono aperte a tutti e uno può arrivare con le sue sole forze all'apice di esse», scriveva, «davanti all'ambizione degli uomini sembra aprirsi un campo immenso e facile, ed essi immaginano volentieri di essere chiamati a grandi destini». Ma è una concezione «fallace», che «l'esperienza corregge ogni giorno». Quando «la diseguaglianza è la legge comune di una società, finisce che le diverse, anche grandi, disuguaglianze non colpiscono l'occhio; quando tutto è all'incirca allo stesso livello, l'occhio è ferito anche dalle più piccole». Ecco le cause cui va attribuita la singolare «malinconia» che «mostrano spesso gli abitanti dei Paesi democratici» dove pure è il regno dell'abbondanza, e «il disgusto per la vita che a volte li colpisce nel pieno di un'esistenza agiata e tranquilla».
La vita dei cittadini convinti di meritare molto più di ciò che hanno e che coltivano ambizioni sempre più grandiose, prosegue Bronner, produce una sentimento che «rischia di convertirsi in un disprezzo del mondo materiale, che alimenta la credenza consolatoria nell'esistenza di un mondo superiore, lontano dalle illusioni terrene». Gli estremisti, nota ancora Bronner, «presentano spesso un livello di istruzione superiore alla media», che inevitabilmente si associa alle loro aspirazioni elevate. Scrive poi l'autore che in tutti i casi che ha studiato «la frustrazione e il desiderio di affermazione costituiscono un mix esplosivo (…). Una delle grandi passioni inedite dei nostri tempi democratici è l'appetito per la notorietà, talvolta privilegiata persino rispetto alla riuscita economica».
Lo studioso parla poi di quello che definisce «l'oligopolio cognitivo che imprigiona l'individuo nel radicalismo». Che significa? A volte il processo di radicalizzazione può risultare invisibile, perché l'estremista e il gruppo al quale appartiene sanno bene che alcune attività, soprattutto quelle terroristiche, non si conciliano con la trasparenza. Altre volte «l'individuo ostenta visibilmente i segni della radicalizzazione perché fiero della sua nuova identità e per tentare di convincere il suo entourage a seguire la stessa strada». Qui tutti, a cominciare dai familiari, sono portati a commettere l'errore di provare ad allontanare l'estremista dalla sua credenza, provando a fargli capire l'insensatezza della sua scelta e denigrando coloro che ne hanno compiuto una simile. E invece si dovrebbe percorrere un'altra via.
Le nostre idee preconcette spiegano, almeno in parte, l'invisibilità sociale dei processi che conducono ad aderire a una qualche forma di estremismo. Ma a un certo punto inevitabilmente siamo portati a porci una domanda: come è possibile aderire in maniera incondizionata a un sistema di idee che incoraggia a commettere atti criminali, ignorando valori umani e interessi materiali? Possiamo ipotizzare che il senso dei valori o degli interessi personali scompaia dalla mente dell'estremista? Qui Bronner ricorre a quello che definisce il «paradosso della incommensurabilità mentale» riferendosi a «una realtà un po' oscura della nostra vita psichica, la cui portata va oltre il pensiero estremo». Il paradosso è ciò che ci permette di comprendere come mai sia quasi impossibile far cambiare idea a un estremista, salvo che, quando lui decide che è venuto il momento di cambiarla quell'idea, le sue credenze, che apparivano fino a un minuto prima inattaccabili, si sgretolano in un batter d'occhio. Segno questo che non è un principio logico che le teneva insieme, bensì una decisione che con il merito di esse aveva poco a che vedere.
Quasi sempre il tema centrale (anche se occultato) del pensiero radicale è quello della morte. In alcuni casi ci si limita ad attendere il proprio destino. Come gli avventisti millenaristi convinti — sulla base dei calcoli del loro guru, William Miller, un colonnello del New England che cercava di interpretare le profezie bibliche — che la fine del mondo sarebbe giunta tra il 1843 e il 1844. La data venne rinviata per ben quattro volte, ma dopo l'ennesima proroga la sera del 22 ottobre i millenaristi finirono per rinunciare a credere nella fine dell'umanità: «Le nostre speranze e le nostre aspettative sono andate in fumo», scrisse uno degli adepti, «e ci ha preso una tristezza che non avevo mai conosciuto prima; sembrava che la perdita di tutti gli amici terreni non potesse avere paragone… piangevamo in continuazione, fino all'alba». Altre volte alcuni militanti della setta presero essi stessi l'iniziativa di accelerare l'Armageddon proprio per non essere risucchiati dalla sindrome di Miller testé descritta: è il caso dei giapponesi Aum, che nel 1995 cercarono di provocare una catastrofe chimica nella città di Tokyo. Oppure come fecero quella sessantina di membri dell'Ordine del Tempio solare che, tra il 1994 e il 1995 negli Stati Uniti, decisero (come avrebbero fatto in tempi successivi altri loro simili) di togliersi la vita.
Tra gli estremisti «si incontrano ovviamente squilibrati ed è senza dubbio ipotizzabile che molti individui entrino a far parte di gruppi radicali perché psicologicamente fragili o facilmente manipolabili». Ma le spiegazioni di questo genere contrastano con quanto chiaramente osservato da tutti i ricercatori che hanno tentato di tratteggiare la figura dell'estremista tipo. Gli adepti studiati a metà anni Ottanta da David Stupple, ad esempio, risultavano «socialmente ben integrati, moralmente e cognitivamente equilibrati». Maurice Duval si è interessato a una setta chiamata Aumismo (era stata fondata nel 1969 da Gilbert Bourdin a Castellane, nelle Alpi dell'Alta Provenza) e ha trovato che i partecipanti leggevano regolarmente i giornali, iscrivevano i figli a scuole pubbliche e private, partecipavano a dibattiti e avevano un livello culturale superiore alla media nazionale. Un'ulteriore conferma dell'assunto di questo libro di Gérald Bronner: il mondo del pensiero estremo e delle pratiche estreme è in tutto e per tutto (o quasi) l'opposto di quel che appare. Ed è anche per questo che ogni volta che sembra sia stato disintegrato per sempre, si ripresenta intatto, anzi rafforzato e comunque puntuale ad ogni tornante della storia.

Corriere 26.6.12
Come giudicare il terrorismo, quello di ieri e quello di oggi
risponde Sergio Romano


Sfogliando vecchie riviste di storia ho trovato un articolo che riguarda Giuseppe Mazzini. Si intitola Mazzini terrorista. C'è pure la raffigurazione di Felice Orsini che prepara una delle bombe che nel 1859 Francesco Crispi fece fabbricare in serie in Sicilia. Ora mi chiedo: quando parliamo degli altri riusciamo a essere sereni? Mi pare di no. Sono costoro che ho nominato delle persone rispettabili? Lo è stato Rosario Bentivegna, che per il suo atto ha ricevuto una medaglia? Lo è stato Mario Fiorentini che gli ha preparato la bomba che fu piazzata dentro un bidone dell'immondezza a via Rasella? O soltanto colui che ha fatto esplodere delle bombole di gas a Brindisi è colpevole e merita la nostra riprovazione? E chi non loda Giuseppe Mazzini è un cattivo patriota e chi non esalta Rosario Bentivegna è per forza un bieco fascista?
Abelardo Ignoti

Caro Ignoti,
La sua lettera è stata scritta quando molti sospettavano che l'attentatore di Brindisi avesse motivazioni politiche. Oggi sappiamo che il suo gesto interessa la psichiatria molto più di quanto non concerna la storia del terrorismo. Ma la sua lettera ha il merito di constatare implicitamente che il giudizio sul terrorismo dipende spesso dalla distanza temporale che ci separa dall'avvenimento. Quello dei nostri giorni è sempre, per la grande maggioranza dell'opinione pubblica occidentale, esecrabile e orrendo. Quello del passato viene spesso spiegato, giustificato e addirittura nobilitato. Crispi non partecipò probabilmente ad azioni terroristiche, ma costeggiò per qualche tempo l'ala violenta del Risorgimento e durante un soggiorno a Parigi, dal 1856 al 1858, ebbe da Mazzini l'incarico di andare alla ricerca di un operaio che voleva fare saltare in aria la cattedrale di Notre Dame durante il battesimo del principe imperiale. Se qualcuno accennava ai suoi trascorsi di cospiratore e lo incitava a evocare qualche episodio, Crispi s'imbronciava, tagliava corto e diceva seccamente che quelle cospirazioni avevano fatto l'Italia. Voleva dire che erano memorie sacre e che non era opportuno contaminarle con aneddoti e indiscrezioni. Da allora l'atteggiamento verso il terrorismo del passato è divenuto ancora più comprensivo e assolutorio. Molto dipende, naturalmente, dalla ideologia dominante. Una larga parte della opinione pubblica occidentale comprende e perdona il terrorismo dei movimenti di liberazione. I Paesi nati dalla lotta contro una potenza coloniale dedicano strade e innalzano monumenti a personaggi che si erano distinti per la loro brutale spregiudicatezza. Anche il governo israeliano, qualche anno fa, ha nobilitato con un convegno l'attentato dell'organizzazione Irgun Zwai Leumi, il 22 luglio 1946, contro l'hotel King David di Gerusalemme, sede del comando britannico, in cui 92 persone perdettero la vita. Con l'occasione fu predisposta una targa in cui si leggeva che l'Irgun aveva preannunciato l'attentato con alcune telefonate, 25 minuti prima dell'esplosione, e aveva invitato il comando britannico a evacuare il King David. Ma l'albergo, «per ragioni note soltanto ai britannici, non era stato evacuato». L'ambasciatore di Gran Bretagna protestò contro una iscrizione che «glorificava un atto di terrorismo» e la targa fu parzialmente corretta. In quella definitiva, posta all'esterno dell'albergo, fu scritto altresì che l'Irgun aveva espresso il suo rammarico per il numero delle vittime. Sembra di comprendere che vi sono circostanze in cui il terrorismo può essere considerato un legittimo atto di guerra quando cerca di evitare vittime innocenti.
In questa distinzione vi è probabilmente molta ipocrisia. Nella strategia dell'attentatore ciò che maggiormente conta è incutere terrore, dimostrare potenza e audacia, provare al cittadino inerme che il potere non è più in grado di garantire la sua personale sicurezza. La sconfitta farà di lui un bandito; la vittoria, se riuscirà a coglierla, un eroe.

Corriere 26.6.12
Il mondo privato dei grandi scrittori
di Paolo Di Stefano


Leggere le interviste ai grandi scrittori, quando si tratta di conversazioni ampie e distese, è un piacere impareggiabile. La Paris Review è, in questo, un esempio di straordinario fascino, perché le sue interviste accompagnano il lettore dentro il mondo privato, le abitudini, il laboratorio, i pensieri e le convinzioni degli autori. Fa dunque benissimo la Fandango a persistere nell'impresa di riproporle ai lettori italiani, giungendo ora al quarto volume, densissimo, come sempre.
Meglio che un corso di scrittura, e più economico.
Lezione numero 1. Non avere fretta. Quante pagine al giorno scrive William Styron? «Quando procedo spedito in media scrivo due pagine e mezza, tre pagine al giorno(…). Cerco di sentire quello che succede nella storia prima di metterlo su carta, ma poi, in realtà, gran parte di quel tempo di preparazione non è altro che un lungo, fantastico sogno a occhi aperti dove penso a tutto tranne che al lavoro».
Lezione numero 2. Non affidarsi al sentimento. Ezra Pound, consigli ai giovani? «Non basta buttare lì i propri mal di pancia e i propri stati d'animo. Come recitava il motto della rivista Punchbowl dell'Università di Pennsylvania: "Qualsiasi emerito stupido può essere spontaneo"».
Lezione numero 3. Non sottovalutare lo strumento di scrittura. Paul Auster: «Scrivo a mano, in genere con una stilografica, a volte a matita, specialmente per segnare le correzioni. Se potessi scrivere direttamente a macchina o al computer, lo farei, ma non sono mai riuscito a pensare bene con le dita in quella posizione».
Lezione numero 4. Non trascurare il luogo in cui si crea. Jack Kerouac, dove preferisce scrivere? «La scrivania in camera, vicino al letto, con una buona lampada, da mezzanotte all'alba, qualcosa da bere quando comincio a sentirmi stanco, di preferenza a casa, ma se non sono a casa, anche una camera d'albergo o di un motel può diventarlo».
Lezione numero 5. Non dare mai nulla per scontato. Philip Roth, Lei deve avere un inizio? «Per quel che ne so, io parto dalla fine. Un anno dopo la mia prima pagina può diventare la duecentesima, ammesso che ci sia ancora (…). La fluidità può essere il segnale che non sta succedendo niente se non addirittura che devo fermarmi, mentre invece quando brancolo nel buio, da una frase all'altra, allora capisco che devo andare avanti».
Lezione numero 6. Non essere subito soddisfatti di sé. Murakami Haruki, quante revisioni fa in genere? «Quattro o cinque. Ci metto sei mesi a scrivere la prima stesura e poi sette o otto a riscriverla».
Se poi leggete le risposte di Marianne Moore, Wodehouse, Naipaul, Pamuk, Grossman e gli altri, vi convincerete che: 1. è indispensabile lasciar correre la scrittura senza stare troppo a pensarci; 2. il sentimento è tutto; 3. penna o computer fa lo stesso; 4. idem il luogo; 5. è necessario procedere da una idea generativa; 6. la prima redazione è sempre la migliore.

Corriere 26.6.12
Enzo Sereni, il partigiano sionista che sognava la convivenza di ebrei e arabi
dal nostro corrispondente
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Altro che Italia-Germania 4 a 3. Se il calcio è la metafora delle grandi sfide, se ormai le storie dei popoli s'incrociano sui campi di calcio come sui manuali di scuola, anche la piccola grande storia degli «italkìm», gli italiani israelizzati, passa per un meno memorabile ma simbolico Italia-Israele 4 a 2, qualificazione ai Mondiali. L'Azteca fu lo stadio di Ramat Gan, in quell'occasione. E l'eroe della partita, Mariolino Corso. Che negli ultimi tre minuti segnò due gol e ci salvò da una mezza figuraccia contro una squadra d'onesti zappatori da kibbutz. Chi c'era (1961), se lo ricorda. Gli altri se lo possono immaginare nelle foto che da domani vengono esposte al Mishkenot Shaananim di Gerusalemme, dove apre una due giorni di studi su «L'Italia in Israele: il contributo degli ebrei italiani alla nascita e allo sviluppo dello Stato d'Israele», organizzata dall'ambasciata italiana assieme a Hevrat Yehudè.
Italkìm brava gente. Una comunità tanto sottile quanto visibile. Che in oltre sessant'anni ha accompagnato e sostenuto, spesso incoraggiando e non sempre criticando, la costruzione d'una casa per gli ebrei. Un contributo che si è trasformato anche in tributo, pesantissimo, com'è la storia prima eroica e infine tristissima d'un italiano oggi un po' dimenticato, Enzo Sereni, il partigiano sionista che sognava la convivenza pacifica con gli arabi, «l'emissario» di tanti scampati alla Shoah che non si risparmiò e a sua volta finì ucciso a Dachau.
La figura di Sereni — che a Gerusalemme è tema d'un dibattito presieduto da Paolo Mieli ed è pagina del volume Italia-Israele: gli ultimi 150 anni pubblicato dalla Fondazione Corriere della Sera — ci racconta l'epopea un po' mitizzata di quei primi cento ebrei, per lo più intellettuali, venuti a farsi mani callose negli uliveti di Palestina. Immortalato dai francobolli israeliani e da un kibbutz che ne porta il nome, raccontato nel romanzo della nipote Clara, Sereni è la chiave che apre ad altri temi di discussione: il ruolo degli «italkìm» nella ricerca scientifica, tecnologica, agricola; l'eredità artistica, attraverso la prima personale di Emanuele Luzzati inaugurata dal console generale di Gerusalemme, Giampaolo Cantini; la presenza accademica, coi nomi di Alexander Rofé, Sergio Minerbi e Sergio Della Pergola… «Quanto sia prezioso il retaggio della nostra presenza qui — spiega Carmela Callea, direttrice dell'Istituto di cultura a Tel Aviv —, è testimoniato anche dal successo dei nostri corsi d'italiano: aule piene per tutto l'anno».
L'album di famiglia, la storia d'uno scambio, è nelle immagini seppiate della mostra: Randolfo Pacciardi (quando era il Pri, il partito più «israeliano») che veniva ad abbracciare Ben Gurion, Roberto Benigni laureato ad honorem a Bersheva, i restauri della sinagoga di Conegliano Veneto nel cuore di Gerusalemme… Per il racconto di un'epopea, c'è pure il film: Il viaggio di Eti, la vicenda documentata d'un paesino foggiano, San Nicandro Garganico, che alla fine della Seconda guerra mondiale abbracciò l'ebraismo e decise d'emigrare in Israele. Una conversione che nessun convegno è ancora riuscito a spiegare.

Repubblica 26.6.12
Perché l’emergenza porta alla rimozione
Dal terremoto alla crisi, come superare gli stati sociali di “necessità”
di Mauro Magatti


Di fronte ad un terremoto che non passa e all’impotenza che suscita una terra improvvisamente diventata inabitabile, è lecito porsi la domanda: quanto a lungo può durare lo stato di emergenza? Quanto a lungo si può contare sull’emozione suscitata da un disastro naturale che ci colpisce o da un problema sociale che ci affligge? Con il loro modello individualistico e tecnocratico, le democrazie avanzate sono bene equipaggiate per gestire l’emergenza. La macchina dei soccorsi ci rassicura sul fatto che nessuno, di fronte ad un disastro, è lasciato solo.
Più difficile è la gestione di un problema che oltrepassa i limiti, assai ristretti, della notiziabilità. Nel giro di qualche giorno da quando “perde” la prima pagina, qualunque tragedia pare destinata a venire riassorbita nel retroscena oscuro dell'indifferenza. A quel punto, già “digerita” dall’opinione pubblica, insorgono mille difficoltà: i fondi stanziati vengono tagliati, la prevenzione rinviata, gli interventi di contrasto sospesi.
La difficoltà nasce dal fatto che la durata di un problema – per non parlare della sua cronicità – contraddice la velocità, l’istantaneità, l’emotività di cui è fatta la nostra vita sociale. Di fronte ad un problema quello che cerchiamo è una risposta rapida ed efficace. Ma quando il trauma non può venire riassorbito in poco tempo, all’emozione subentra quella straordinaria qualità umana che è la capacità di adattamento. Se non si fosse riplasmato di fronte al mutare delle situazioni, l’essere umano non si sarebbe mai potuto affermare.
Occorre, però, distinguere due opposte modalità adattive. La prima è quella della rimozione che consiste nel negare la realtà. Assorbita la reazione emotiva, scartata la realistica possibilità di poter tornare alla situazione preesistente, tutto ritorna come prima. La vita riprende il suo corso. Da molti punti di vista, la rimozione funziona assai bene, permettendo di assorbire situazioni critiche. Tuttavia, di norma, tale soluzione scarica il costo dell’adattamento su una minoranza, da cui la maggioranza riesce a prendere le distanze. Va da sé che, nelle nostre società grandi e anonime, la rimozione finisce per essere la soluzione più diffusa, anche perché è la meno impegnativa.
Il problema è particolarmente rilevante nelle democrazie che, sempre meno corpo e sempre più semplice mediazione di interessi, tendono a prendere la strada facile della rimozione dimenticandosi in breve tempo dell’emozione che pure aveva alimentato un sincero pathos partecipativo. Anche di fronte ai fatti più gravi – non solo i disastri naturali, ma pure le offese più lesive del nostro senso della legalità – passata la reazione emotiva, i cittadini delle democrazie avanzate paiono incapaci di tener desta la loro attenzione. Il problema è che la rimozione, quando è sistematica, è un virus che, negando l’idea di cittadinanza, mina la democrazia.
L’alternativa è trasformare quel disastro, quel problema in una sfida da affrontare insieme allo scopo di cambiare l’organizzazione sociale in quanto tale. Il passaggio dalla rimozione all’innovazione può funzionare solo a condizione che la sfida non sia solo di qualcuno, ma di tutti: sfida non per una parte, ma per tutto il corpo sociale. Un modello che tende a prevalere quando in pericolo è un’intera collettività, come le guerre.
Più difficile è che esso prevalga quando il disagio è più circoscritto. In questi casi, occorre far conto su due risorse.
La prima è la virtù civica della partecipazione. Anche se allergiche a considerazioni di ordine morale, le democrazie avanzate non possono pensare di non pagare i costi della rimozione senza riconoscere e valorizzare la qualità del cittadino che si sente responsabile della condizione di sofferenza altrui. L’adattamento attraverso la sfida diventa plausibile se è presente, nel tessuto sociale, la disponibilità a non considerare il destino dell’altro del tutto indipendente dal proprio.
Tuttavia, come moderni sappiamo che la virtù da sola non basta. Dobbiamo far conto su di essa, ma anche sostenerla. Stimolarla. Ed ecco allora la seconda risorsa: la capacità di trasformare il problema di pochi in una occasione di innovazione per molti (al limite per tutti). La rimozione, infatti, prevale quando un problema viene affrontato in chiave puramente riparativa, come un costo. L’innovazione, invece, trova la sua strada quando da un problema sociale o un disastro ambientale nasce lo stimolo per migliorare i rapporti e gli scambi all’interno di gruppo e con l’ambiente circostante.
Si pensi al caso del terremoto. Se si vuole evitare il piano inclinato che porta alla rimozione, occorre promuovere azioni che, al di là dell’emergenza, facciamo leva su quelli che, mostrandosi come problemi, possono trasformarsi in spunti per l’innovazione: si tratta, invece di edificare baracche, di sperimentare nuovi materiali antisismici; invece di alimentare la burocrazia, di mettere a punto procedure più snelle e affidabili per gli appalti pubblici; invece di limitarsi all’invio di denaro, di arrivare a promuovere nuove forme di finanziamento di medio lungo termine; invece di aumentare le tasse, di lanciare nuove modalità di assicurazione collettiva.
Durante la Grande Recessione, Keynes sostenne che, per uscire dalla crisi, lo stato avrebbe dovuto creare posti di lavoro mandando i disoccupati a scavare buche per poi riempirle. Oggi, nel mezzo di una Grande Contrazione, la crescita può essere rilanciata reimparando a investire le risorse non infinite in modo efficiente, finalizzato e intelligente in quei settori che fanno crescere la collettività nel suo insieme. La condizione per la ricostruzione è quella di tornare a distinguere un costo da un investimento, passando da un modello centrato sul consumo ad uno centrato sulla produzione di valore.

Repubblica 26.6.12
Piavoli docente nel laboratorio di Bellocchio

Iscrizioni fino al 10 luglio per il laboratorio di regia diretto da Marco Bellocchio al Bobbio Film Festival (dal 21 luglio). Docente: Franco Piavoli, autore di “Pianeta azzurro”.