sabato 16 giugno 2012

l’Unità 16.6.12
Oggi in piazza l’Italia del lavoro
Bersani: «Il lavoro per noi è centrale. Il lavoro è la tua quota di trasformazione del mondo»
Il segretario: non ti fa solo mantenere la famiglia, è la tua dignità, è la tua quota di trasformazione del mondo e ne hai diritto
di Maria Zegarelli


Democrazia e lavoro. Saranno questi i pilastri del progetto politico attorno ai quali il Partito democratico vuole costruire l’alternativa di governo. «Perché il lavoro non è solo quello che ti fa mantenere la famiglia, è la tua dignità, è la tua quota di trasformazione del mondo e ne hai diritto». E forse è proprio questo uno dei passaggi più applauditi dell’intervento con cui Pier Luigi Bersani ha chiuso ieri a Napoli i lavori della seconda Conferenza nazionale sul lavoro del suo partito. Un intervento che non ha risparmiato critiche al governo, a Silvio Berlusconi (per il patto con l’Ue per il pareggio di bilancio), al ministro Fornero e alla (non) politica della zona Ue e alle non politiche, a iniziare da quella industriale, italiane. A proposito delle liberalizzazioni dell’era Monti il segretario Pd perde la pazienza e si lascia scappare una parolaccia. «Se un anziano ha gli occhi secchi e va a comprare un collirio costa 19 euro, c.... Non è possibile: è acqua».
IL PD E IL GOVERNO
Per sostenere il governo, ammette, «si fatica ogni settimana di più. Ma noi siamo leali, abbiamo preso un impegno e andremo fino in fondo» anche anpassaggi su spending review, pubblico impiego e dismissioni, tutte misure a cui stanno lavorando i ministri tecnici e i supertecnici. Al governo dice: «Ascoltateci un po’ perché a forza di fare ‘sto mestiere siamo un po’ tecnici anche noi», e allora va «benissimo la spending review, «ma cerchiamo di non creare aspettative che poi non si riescono a gestire. Attenzione a come maneggiamo questi temi. Dico al governo di farci capire, se ci avessero ascoltato sulle pensione avremmo evitato qualche guaio». E bene anche il decreto sviluppo, dalle indiscrezioni «che arrivano da Roma sembra ci siano buone misure, ma vediamo la sostanza. Per esempio va benissimo confermare la norma da noi pensata per le ristrutturazioni in edilizia, ma se il termine è a giugno dell’anno prossimo non si fa in tempo neanche a iniziare». Cose utili «e cose che si capiscono poco» come, appunto, i tempi troppi brevi previsti per gli incentivi, a partire dai risparmi energetici, perché alle «politiche bisogna dare un minimo di prospettiva». Altro capitolo: le dismissioni. «Benissimo se sono quelle degli enti locali. Per il resto non ho obiezioni a che Fintecna vada alla Cassa Depostiti e Prestiti. Vorrei capire però, dove finisce Fincantieri perché non è tempo di prendere i nostri soggetti industriali e metterli chissà dove». Da Napoli Bersani avverte i tecnici a non ripetere l’errore esodati, sul quale apprezza le «parole finalmente consapevoli da parte del governo». «Ho sentito dice che il ministro Fornero ha detto “chiamiamo gli esodati persone in via di salvaguardia”. È un passo avanti linguistico e concettuale», ma il Pd adesso chiede che alle norme sul mercato del lavoro si aggiungano quelle che riguardano chi è rimasto senza stipendio e senza lavoro grazie al ministro del Welfare. Poi, tocca alla Fiat. «Qualcuno, possibilmente il governo, dovrebbe chiamare la Fiat alle sue responsabilità, perché altrimenti dobbiamo rivolgerci a “Chi l’ha visto?”. Scusate la brutalità ma è scomparsa da troppi tavoli, tavoli che non ci sono».
La prima Conferenza sul lavoro il Pd la fece un anno fa a Genova, un tempo lontanissimo. C’era il governo Berlusconi, i sindacati erano spaccati, ieri i leader sindacati erano qui alla vigilia della manifestazione unitaria di oggi, al governo ci sono i tecnici e la crisi non solo è conclamata ma è nella sua fase più acuta. Sul palco salgono Cesare Damiano, il primo cittadino Luigi De Magistris , Tiziano Treu, il lavoratore esodato e la cassa-integrata. Fuori, poco prima che tutto iniziasse, ci sono stati momenti di tensione con gli operai di Iribus Iveco, poi la tensione si è sciolta e si è fissato un appuntamento con il segretario.
Stefano Fassina nella sua lunga e applaudita relazione dice «È il tempo della politica, la funzione della tecnica è trovare soluzioni efficienti per raggiungere obiettivi dati. Gli obiettivi oggi non sono dati, anche se come dati vengono presentati». In gioco, secondo il responsabile lavoro Pd, ci sono «la civiltà del lavoro, la democrazia fondata sul lavoro», per questo, dice, è necessario un «neo umanesimo laburista, sintesi originale della dottrina sociale della Chiesa e dell’attenzione all’asimmetria di potere nella dimensione della produzione propria del movimento socialista». Il populismo, ormai è fallito, dice, proprio mentre siamo nel mezzo «dell’illusoria scorciatoia tecnocratica dedicata alla ricerca delle riforme senza consenso». Per questo, chiude, è ora «di riprendere l’unica strada possibile: la via costituzionale della democrazia fondata su partiti rifondati per le riforme condivise».

l’Unità 16.6.12
«Diritti civili, il Pd ha trovato un terreno comune»
di Maria Zegarelli


«Lo definisce un «lavoro importante, un significativo passo in avanti». Michele Nicoletti, segretario Pd di Trento, ordinario di Filosofia politica nella stessa città è tra gli estensori del documento sui diritti civili varato dall’omonima Commissione presieduta da Rosy Bindi. Ma sul documento, arrivato sul tavolo del segretario Pier Luigi Bersani e destinato all’Assemblea nazionale di luglio per una discussione aperta, non c’è affatto «piena condivisione». Professore, un anno di lavoro non è bastato per trovare una posizione comune. «Cercherei di vedere in positivo il cammino che abbiamo fatto. Abbiamo scelto una strada diversa rispetto a quella di chi chiedeva un documento con una presa di posizione politica, un sì e un no, sui temi presi in esame. Abbiamo preferito la via dei principi fondamentali che devono essere terreno comune del Pd rispetto al tema dei diritti. A me sembra che, pur nella pluralità delle posizioni e delle culture, alla fine abbiamo quel terreno sia stato trovato. La discussione si è animata sulle concrete scelte legislative per tutelare alcuni di questi diritti, ma ciò che ci trova d’accordo è che il Pd è il partito dei diritti civili strettamente legati a quelli sociali».
Non le sembra un po’ poco per un partito che si definisce democratico?
«Questa è solo una tappa, non il punto di arrivo finale. Un contributo che offriamo al partito e ai circoli come piattaforma di discussione. Nessuno ha mai pensato che questo documento esaurisse il tema dei diritti. Siamo partiti da una situazione in cui nell’Assemblea nazionale si erano votati documenti che riguardavano la scuola, la sanità, il lavoro ma non questo su questi temi. Ora c’è una riflessione che si sforza di inserire i diversi problemi all’interno di un quadro complessivo e non credo che questo lavoro vada banalizzato. Abbiamo costruito un orizzonte condiviso sui principi di fondo, affrontando la violenza sul corpo, la libertà di coscienza, il riconoscimento dei diritti sulle coppie di fatto...».
Sulle unioni civili in Commissione c’è chi ha osservato che la lettera di Bersani al gay pride fosse più avanzata rispetto al contenuto del vostro documento. C’è ancora una grande timidezza per dire dei sì e dei no netti?
«Non mi sembra che ci siano timidezze. Sia la Corte costituzionale sia la Cassazione hanno escluso il riconoscimento del matrimonio, così come previsto dalla nostra Costituzione, alle coppie omosessuali. Hanno invece sancito il tema del riconoscimento delle unioni anche omosessuali e della loro tutela che spetta al legislatore. Questo il solco entro cui ci siamo mossi e a me sembra che il nostro documento sia in piena sintonia anche con quanto dichiarato dal segretario. Capisco che chi aveva posizioni diverse non si possa ritrovare nel nostro documento ma la strada che noi abbiamo scelto è stata quella di privilegiare il quadro dato dall’ordinamento costituzionale frutto dell’incontro tra culture diverse».
Quindi sono critiche ingenerose?
«Vorrei distinguere. Su questo tema è giusto che noi tutti ci incalziamo a vicenda a fare di più e meglio, ma dobbiamo darci reciprocamente atto della ricchezza dell’esperienza e la presidente Bindi ha fatto un ottimo lavoro di costruzione di un luogo di scambio e di intreccio. Non abbiamo proceduto a maggioranza ma secondo una logica di inclusione, per questo mi spiace che si dia importanza soltanto alle parti su cui possiamo avere dei punti di distanza. Ognuno di noi può avere visioni di verse ma credo sia importanti che si trovino degli orizzonti comuni».
Crede che durante la prossima legislatura riuscirete davvero a legiferare su questi temi o la crisi economica li metterà ancora una volta in secondo piano? «Penso che stavolta sia possibile farcela perché c’è una complessiva maturazione nel nostro Paese e c’è una larga condivisione del fatto che ci sia bisogno di una maggiore tutela dei diritti di ogni persona in ogni momento della sua vita. Dalla lotta alla violenza sessuale, all’omofobia, ad una piena libertà religiosa, al testamento biologico, c’è bisogno di intervenire e sarà possibile farlo anche grazie al Pd. Per questo non si deve avere solo la preoccupazione dei sì e dei no ma anche della necessità di spiegare le ragioni per costruire il consenso».
Non le sembra che il consenso fatichino a trovarlo le forze politiche al loro interno, rispetto alla maggioranza della società civile che su coppie di fatto e testamento biologico ha le idee chiare?
«È vero, ma su altri temi, dal diritto di cittadinanza, ai diritti nelle carceri, la libertà religiosa, non darei per scontato il fatto che siano dati per acquisiti tra l’opinione pubblica. Non è detto che la politica sia perennemente in ritardo, anche se abbiamo avuto una politica di destra che ha fortemente penalizzato il tema dei diritti».
Veramente neanche il centrosinistra quando è andato al governo ha legiferato su questo.
«Il Pd non è mai andato al governo, sono sicuro che quando vincerà le elezioni riuscirà laddove si è fallito nel passato».

Corriere 16.6.12
Il Pd, i diritti civili e la necessità di mediare
Discutere di temi «sensibili» può essere il primo passo per una campagna elettorale più serena
di Pierluigi Battista


Per alcuni anni i temi «eticamente sensibili» sono stati sepolti nello sgabuzzino delle cianfrusaglie irrilevanti. Bisognava neutralizzarli: erano troppo «sensibili», troppo «divisivi», troppo incandescenti. Oggi il Pd sta cominciando a liberarsi dall'autocensura.
I democratici non riusciranno a dare risposte appaganti per tutti. Ma almeno hanno il coraggio di affrontare argomenti importanti, anche se politicamente scabrosi. La politica vuole riprendersi i suoi spazi? Esca allo scoperto, dimostri che si è ancora capaci di discutere, proporre, e anche dividersi, se necessario.
Il documento del Pd sul riconoscimento delle coppie di fatto, partorito da una commissione diretta dalla cattolica Bindi, cerca di mediare tra anime culturali diverse in un partito in cui convivono cattolici e laici. Sulle coppie dello stesso sesso, il documento appare più prudente e frenato da cautele di quanto non siano state le dichiarazioni del segretario Bersani. Ma non è neanche prigioniero della «scomunica» preventiva di Beppe Fioroni, che sulla questione delle unioni tra gay ha disseppellito l'ascia di guerra (ideologica) contro il segretario del partito. Ha un senso riesumare il tema del riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso? Certo che lo ha. In tutto il mondo delle democrazie liberali questo tema è all'ordine del giorno, scavalcando schieramenti e collocazioni politiche. In Germania la «democristiana» Merkel non ha mai avuto in programma lo smantellamento delle leggi che riconoscono la convivenza tra le coppie gay. Malgrado le furiose battaglie del passato, persino nella Spagna dei Popolari non si intende provvedere alla demolizione dello zapaterismo, variante oltranzista ed estremista nella promozione dei diritti civili. In America i repubblicani non scatenano una guerra di religione contro Obama che si dice favorevole ai matrimoni gay. In Gran Bretagna è il conservatore Cameron a dirsi favorevole al riconoscimento dello Stato delle unioni omosessuali. In Italia, dopo l'incendio dei Dico, una coltre di silenzio imbarazzato è calata su questo tema, lasciandolo appannaggio di minoranze importanti ma senza la forza necessaria a imporlo nell'agenda pubblica. Oggi il Pd, e bisogna rendergliene merito, ha strappato questo velo omertoso e reticente.
Può darsi che il Pd appaia troppo timido, come pure dicono le componenti più marcatamente «laiciste» del partito. Ma un partito variegato e culturalmente ibrido, come del resto lo sono tutti i partiti di grandi dimensioni in Europa e negli Stati Uniti, non può che attestarsi su una ragionevole, dignitosa e responsabile mediazione. L'analogia può sembrare una forzatura, e in parte lo è: ma anche la legge che istituì il divorzio all'inizio degli anni Settanta fu timida e frutto di inevitabili «mediazioni», eppure per la prima volta l'Italia conobbe qualcosa di sconvolgente e rivoluzionario come il divorzio. Oggi il riconoscimento delle coppie gay può avere lo stesso valore dirompente. Il meglio è nemico del bene. Per avere la perfezione si rischia di non ottenere nulla. Una mediazione sorretta da una consapevole dignità culturale può strappare risultati decisivi anche se la lettera della proposta può lasciare perplessi e insoddisfatti.
E così anche per il tema del testamento biologico. La nettezza del «no all'eutanasia» che viene ribadita nel documento del Partito democratico può disinnescare paure e sospetti che non sono solo il frutto di pregiudizi, ma la conseguenza del potere immenso che la tecnoscienza ha conquistato sulle nostre vite e sulla stessa nostra morte. Ma una proposta ragionevole e coraggiosa che consenta ai cittadini di dire nel corso della loro vita cosciente cosa «non» vorrebbero che si facesse quando la loro vita sarà entrata nel buio dell'incoscienza senza speranza, questa proposta sarebbe una risposta giusta al totale e autoritario rifiuto della libera scelta contenuta nelle proposte avanzate in questa legislatura dalla maggioranza di centrodestra sul testamento biologico. No all'eutanasia, ma sì alla libera scelta di come vivere, di come essere curati e di come morire quando la prosecuzione delle cure sarebbe solo accanimento: anche questa mediazione permette di uscire dall'immobilismo, dalle guerre di religione, dagli oltranzismi contrapposti. Poi certo verrà il tempo della discussione, dei cambiamenti, delle rettifiche. Ma intanto il grande silenzio si è infranto. L'allargamento dei diritti civili si riprende il centro della scena. Ci sono poche speranze che la prossima campagna elettorale assuma toni civili. Ricominciare a discutere sui temi rimossi e «sensibili» può essere un primo passo.
Pierluigi Battista

Repubblica 16.6.12
Fassina, Marino, Cuperlo e Pollastrini contestano il documento del comitato guidato da Rosy Bindi. La parola all’assemblea
Coppie gay, il Pd si divide sui diritti I laici: “Servono scelte più nette”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Lo scontro è solo rimandato all’assemblea nazionale di inizio luglio. Ma nelle caselle mail, sugli smartphone, nei colloqui privati e nelle riflessioni sulle candidature alle primarie sta cominciando a farsi largo l’eterno duello tra laici e cattolici. Il documento della commissione Diritti del Pd è troppo arretrato sulle coppie gay, secondo i primi. «Se vinciamo le elezioni, sia chiaro: voglio una soluzione più avanzata dei Dico», dice Barbara Pollastrini che pure dei Dico fu autrice insieme con Rosy Bindi. «Non ci sono problemi? Allora la parte del testo che si riferisce al riconoscimento giuridico dei diritti delle coppie omosessuali va scritta meglio», incalza Gianni Cuperlo. Vuol dire: senza ipocrisie. E senza margini per chi, dentro il Partito democratico, chiede di limitare l’evoluzione dei diritti al singolo partner di una coppia di fatto. È la coppia che va tutelata La commissione presieduta da Rosy Bindi ha deciso l’altro ieri di licenziare il testo, dopo molti mesi di lavoro e di confronto. Nel frattempo però c’è stato l’apertura non formale del segretario del Pd al gay pride di Bologna. «Non è possibile che non sia ancora stata introdotta una legge che faccia uscire dal far west le convivenze stabili tra omosessuali», scrisse il segretario del Pd agli organizzatori, una settimana fa. E ancora: «Il Partito democratico non intende sottrarsi: è inaccettabile che in Italia non si conferisca agli omosessuali dignità sociale e presidio giuridico».
C’è scritto il contrario nel documento della commissione Diritti?
No. Ma certo il testo non è altrettanto netto. Si fa riferimento alla sentenza della Consulta che invita il legislatore a riconoscere i diritti e i doveri anche delle unione tra lo stesso sesso. Ma si fa cenno al rispetto dell’articolo 29 della Costituzione, quello sulla famiglia, e si chiede un intervento «per i legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali». Quest’ultima parte appare a un gruppo nutrito di dirigenti del Pd — da Cuperlo a Pollastrini, da Matteo Orfini a Stefano Fassina, da Aurelio Mancuso ad Andrea Benedino per finire con il più arrabbiato di tutti Ignazio Marino — arretrata. «I Dico sono una storia di 5 anni fa — dice Orfini —. Oggi Obama in America e Hollande in Francia propongono i matrimoni gay. Quel documento è rimasto un po’ indietro».
Il “manifesto”, un impegno faticoso che comprende temi come il fine vita, la 194, la violenza sessuale, è adesso sul tavolo di Bersani. Sarà a lui a decidere se e come integrarlo. Nel caso arrivi in
discussione all’assemblea nazionale, il gruppo dei dissidenti presenterà emendamenti. Scatenando così anche le anime del Partito democratico che lo considerano “spericolato” e in grado di rompere il filo con il mondo cattolico. L’uscita di Beppe Fioroni su una sua eventuale candidatura alle primarie nasce proprio da qui, dal solco che un dibattito sulle coppie gay o su altri “valori non negoziabili” aprirà nel Pd. Non si registrano attacchi personali, per il momento. Anzi, il metodo e la sintesi guidata da Rosy Bindi vengono apprezzati da Ivan Scalfarotto e Paola Concia, gay dichiarati. Ma Scalfarotto spiega così le difficoltà: «Su quel punto il compromesso, secondo me, è impossibile. Non si capisce perché due omosessuali possono sposarsi in Argentina e in Portogallo e in Italia no».

Corriere 16.6.12
«Il Fatto non sarà mai l'organo di Beppe Grillo»
Cinzia Monteverdi, amministratrice del quotidiano: a Monti o Berlusconi daremmo lo stesso spazio
di Paolo Conti


ROMA — L'intervista di Marco Travaglio a Beppe Grillo apparsa su Il Fatto ha scatenato un diluvio di polemiche. Filippo Facci su Libero ha scritto: «Travaglio, lo zerbino di Grillo». Cosa ne pensa Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del quotidiano diretto da Antonio Padellaro?
«No, davvero non l'ho trovata un'intervista-zerbino...»
Veramente anche la base si è ribellata. Qualche lettore ha cominciato a scrivere che Grillo è il vostro padrone...
«No. Non siamo e non saremo l'organo di Grillo. Se mai l'avessi scritta io, quell'intervista, forse avrei pubblicato qualcosa di diverso. Magari ho qualche punto interrogativo in più».
Lei dice: non siamo l'organo di Grillo. Ma due pagine di intervista su «Il Fatto».
«Primo: se Mario Monti o Silvio Berlusconi ci concedessero un'intervista, metteremmo a disposizione lo stesso spazio. Secondo. Non siamo noi ad essere l'organo di Grillo, ripeto, ma sono molti grillini che ci scelgono e ci comprano perché non abbiamo finanziamenti pubblici e siamo fuori dalla solita, tradizionale politica».
Allora sarà Marco Travaglio a subire il fascino di Grillo...
«Travaglio non subisce il fascino di nessuno se non del suo archivio e dei fatti che racconta. È colpito dal fenomeno di un movimento autonomo che sta crescendo a vista d'occhio. Non da Grillo in sé».
In quell'intervista mancherebbero domande vere e incalzanti...
«Penso che le domande incalzanti vadano dirette in primo luogo a chi ha gestito e gestisce ancora il potere. Grillo è un fenomeno da analizzare. Verrà il tempo dei quesiti perfidi, se e quando saranno al potere».
Le brucia molto la scissione provocata da Luca Telese?
«Quale scissione? È solo un giornalista, molto bravo, che se n'è andato. E mi dispiace che abbia abbandonato Il Fatto lasciando una scia di veleno. Non credo si costruisca così la strada di un possibile successo».
Luca Telese vi accusava da tempo, appunto, di filo-grillismo...
«Sul nostro giornale appaiono, e continueranno ad apparire, anche opinioni molto diverse tra loro. Ancora una volta: non siamo l'organo di nessuno. Nemmeno di Grillo!».
Sempre Telese accusa: a dettare la linea politica in realtà non è più il direttore, Antonio Padellaro, ma Travaglio.
«Altra cosa falsa. Padellaro dirige il giornale con grande equilibrio e sa gestire la particolare natura de Il Fatto. È lui il direttore, sue ovviamente le scelte finali».
Vi accusano di aver silurato l'ex amministratore delegato Giorgio Poidomani. Infatti lei è al suo posto, ormai.
«Poidomani è stato fondamentale nella nascita e nella crescita del progetto. Gli dobbiamo, e personalmente gli debbo, molto. Ma caratterialmente, lui stesso lo ammette, non era uomo da distribuire deleghe, aveva l'abitudine di controllare tutto. Quando gli abbiamo chiesto di decentrare, ha preferito non accettare di restare con noi proprio perché non ama condividere una parte del suo ruolo. Carattere, appunto».
Cosa pensa, per finire, del progetto di Telese?
«Telese mi sembra puntare sul fenomeno dell'anti-travaglismo. Guardandola con un'ottica positiva, vedo un esperimento che si richiama al nostro. Un modello di business editoriale che evidentemente funziona. Significa che abbiamo fatto centro. Che siamo stati bravi».

il Fatto 16.6.12
Grillo. I sondaggi lo danno al 21%: sopra il Pdl, vicinissimo al Pd


Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo si attesta al 21 per cento, registrando un aumento di quasi un punto percentuale (+0,8%) rispetto alla settimana scorsa. È quanto emerge da un sondaggio sulle intenzioni di voto condotto dall’Istituto Swg in esclusiva per Agorà, su Rai Tre, che conferma l’ascesa continua del consenso nei confronti del M5S: da settembre scorso ad oggi, dicono i sondaggi, è passato dal 3% al 21%. I favori dei cittadini per il movimento di Grillo sono aumentati soprattutto alla vigilia delle amministrative del maggio scorso, in cui Grillo ha conquistato i primi sindaci, tra cui quello di una grande città come Parma. Da aprile i favori per Grillo passano dall’8% (secondo Swg) al 15 per cento di maggio, per arrivare poi a giugno con più del 20% di preferenze degli elettori.
Nel frattempo Swg conferma il trend negativo del premier Mario Monti, in termini di fiducia, che scende al 33%. Per quanto riguarda i partiti “tradizionali”, il Pd sale dello 0,8%: oggi sarebbe votato dal 24 per cento degli italiani. Perde invece quasi mezzo punto percentuale rispetto alla settimana scorsa il Pdl, che si attesta al 15 per cento. Ritorna sotto la soglia del 6 per cento l’Udc (5,7%), che perde un punto percentuale rispetto a sette giorni fa. Sotto la soglia del 6 per cento anche l’Idv, al 5,5 percento (-0,6%). In totale le forze presenti in Parlamento hanno il voto di circa il 60% degli italiani che intendono recarsi alle urne, mentre ben il 40% non è attualmente rappresentato. Cresce, peraltro, il partito del “non voto” che passa questa settimana dal 42,2 al 45,8%.

Repubblica 16.6.12
Incubo Pdl, nei sondaggi precipita al 15%
Berlusconi: partito solo nella testa dei dirigenti. E Alfano chiama Feltri per le primarie
di Carmelo Lopapa


ROMA — Il Pdl in piena sindrome da 15 per cento. L’incubo diventa realtà e l’ultima rilevazione Swg di ieri cristallizza con quelle due cifre un tracollo di consensi che da via dell’Umiltà a Palazzo Grazioli temevano e in qualche misura già conoscevano. In queste ore non sono più i soli barricaderi ex An a chiedersi se il partito reggerà fino alle primarie di ottobre.
Silvio Berlusconi quei dati se li rigira tra le mani, sempre più convinto che occorra «una scossa», che l’attuale baracca non basta: «Il Pdl non c’è più, esiste solo nelle teste dei nostri dirigenti» è la riflessione più amara del capo. Moltiplicare l’offerta con liste di giovani, di donne, di imprenditori e volti nuovi della società civile resta la soluzione preferita, un cantiere aperto al quale il Cavaliere in gran segreto sta già lavorando, in vista delle Politiche. Ma le elezioni sono lontane. Nel frattempo il Pdl è in piena emorragia. Ormai stabilmente sotto il 20, secondo tutti i sondaggisti, comunque terza forza alle spalle di Grillo. Viaggiava sopra il 25 in novembre scorso, all’insediamento del governo Monti. «La preoccupazione c’è, il vero problema è che manca la reazione», spiega un ex ministro sconfortato. L’ultima rilevazione registrata una settimana fa da Euromedia Research,
società di fiducia di Berlusconi, dava al Pdl una forbice tra 18 e 20 per cento. «Ma tutti i grandi partiti presenti in Parlamento pagano dazio, perdono consensi — spiega Alessandra Ghisleri, direttrice dell’istituto — E guadagna chi nelle Camere non c’è: Grillo e, in parte, Vendola». Consigli al Cavaliere sostiene di non averne forniti. «Ma un messaggio va colto: gli elettori dicono in coro che a loro non piace questo modo di fare politica, si attendono risposte immediate ai loro problemi reali».
Angelino Alfano confida nelle primarie per rilanciare il partito. Ha convocato per lunedì il tavolo «delle regole» che dovrebbe disciplinarle. E una direzione nazionale — sollecitata da tanti — per il 27 giugno. Ma del congresso nazionale non si ha notizia. Il calo di consensi lo riconduce al «sostegno al governo Monti: scontiamo l’opposizione dei nostri elettori». Ma confida sul fatto che gli elettori non siano «fuggiti altrove: li riconquisteremo ». Lo dice durante la conferenza stampa convocata per ufficializzare le dimissioni del presidente della Giovane Italia, Giorgia Meloni, sostituita da Marco Perissa (classe ’82, anche lui della scuderia Azione Giovani), che affiancherà la coordinatrice Annagrazia Calabria. L’ex ministro nella lettera di dimissioni rimarca la mancata convocazione di un congresso dei giovani per passare il testimone. Correrà anche lei per le primarie? La Meloni risponde solo che non lo ha preso in considerazione e che non lascia perché «è già pronta un’altra poltrona». Ma tutta l’area ex An si sta interrogando se sposare la causa Alfano o condurre una battaglia in sostegno proprio della Meloni per andare alla conta.
Il segretario, in maniche di camicia e in versione «smile» davanti ai giovani (dal 21 al 23 la loro assemblea a Fiuggi), si augura che le primarie siano le «più partecipate» possibile, che si trasformino in una «grande festa». Rivela di aver chiamato Vittorio Feltri e di averlo invitato a partecipare. Salvo essere gelato poche ore dopo dal direttore editoriale del Giornale: «Non ho ricevuto alcun invito, solo una telefonata di cortesia. Valuterò, i parlamentari sono degli straccioni, io guadagno 700 mila euro l’anno». Galan si è candidato. Daniela Santanché, forte dei sondaggi interni, è già in campagna elettorale (col placet del Cavaliere). «Certo che sono in corsa — spiega — Io non ho alcun tatticismo, nessuna strategia, solo un credo, un cuore, una passione».

Corriere 16.6.12
Militari o islamici, l'Egitto vota «Al bivio tra il colera e la peste»
Lo sconforto dei delusi della rivoluzione nel giorno del ballottaggio
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — Le ambulanze arancioni con la mezzaluna rossa aspettano nelle vie intorno a Tahrir, come nei giorni della Rivoluzione. Assenti, questa volta, i carri armati, i cavalli di frisia, i militari. Soprattutto le centinaia di migliaia di persone che da tutto l'Egitto arrivavano nella grande piazza. Eppure, oggi e domani sono cruciali per il più importante Paese arabo: il processo iniziato 16 mesi fa con la caduta di Mubarak doveva concludersi questo weekend con il voto per il nuovo raìs, seguito dal ritiro dei generali a fine mese.
«Non sarà così, ce li terremo chissà per quanto. Gli unici che ormai potrebbero fare qualcosa sono i Fratelli Musulmani, ma dove sono? Non c'erano un anno fa, non ci sono ora», dice Ahmed, 30 anni, guida turistica disoccupato, deluso da quelle poche centinaia di persone sparse per Tahrir tra cui i soliti venditori ambulanti e, certo, molti agenti in borghese. «La gente non c'è perché è chiaro, contro la Giunta non c'è niente da fare. E meglio così: la Fratellanza sarebbe un disastro per tutti a partire da noi donne», commenta una ragazza uscita dal metrò, una delle poche senza velo, che poi corre via.
E' questo il dilemma che deve affrontare oggi l'Egitto: scegliere il suo presidente tra Mohammad Morsi, il ruvido candidato dei Fratelli vincitore nel primo turno un mese fa, e Ahmed Shafiq, l'ex generale e premier di Mubarak arrivato secondo per pochi voti. Eliminati dalla corsa i moderati, religiosi o meno, e i difensori, sinceri o meno, della Rivoluzione. Non solo: due giorni fa l'Alta Corte ha decretato illegale e sciolto il Parlamento eletto in inverno con un'assoluta maggioranza degli islamici.
Morsi e Shafiq si contendono così un Paese senza Costituzione, e quindi senza conoscere nemmeno i poteri del presidente, e senza Parlamento, e quindi con il potere legislativo assunto dalla Giunta fino a nuove elezioni politiche, da decidere quando. «Situazione da golpe bianco», «dittatura strisciante», «come in Algeria nel 1991», è il commento di molti. L'allarme si è esteso al resto del mondo: anche Washington ieri s'è detta «preoccupata» per l'annullamento del risultato delle politiche.
«E' un momento difficilissimo, il primo nella nostra Storia moderna dove lo Stato è davvero a rischio», commenta Gamal Ghitani, il più noto scrittore della vecchia generazione, comunista dai tempi di Nasser che lo mise in carcere. «Dobbiamo scegliere tra la peste e il colera, io sceglierò il colera, meno mortale, cioè Shafiq. Ma è una catastrofe, spero solo che la febbre politica che ha acceso il Paese non si plachi, che presto sorgano i partiti e i leader che ora mancano, che la violenza della Fratellanza, che sappiamo armata, non esploda».
Ieri, dopo la minaccia poche ore prima di una «nuova rivoluzione» se il voto sarà irregolare, Morsi ha assunto toni più pacati. Nessuna mobilitazione, per ora, solo l'appello perché si voti in massa per lui. Shafiq, con atteggiamenti che molti giurano uguali a quelli con cui Mubarak parlava al «suo» popolo, ha promesso di nuovo stabilità. E intanto la passione politica di cui parla Ghitani ha continuato a bruciare, ovunque, unita però a una crescente stanchezza. «La gente discute ancora ma ha capito che i militari vogliono Shafiq e non ha più forza per opporsi, specie se l'alternativa è un islamico che non dà garanzie di cambiamento in meglio. Moltissimi come me non voteranno», dice Hisham Zeini, attivista e artista.
E infatti a vincere queste elezioni sarà probabilmente l'astensione: già al primo turno aveva toccato per altro il 54%. Favorito, comunque, era e resta Shafiq: con prevedibili brogli ma forse anche senza. Un'affermazione di Morsi non cambierebbe però le cose: solo la strategia esplicita dei generali sarebbe diversa, perché isolerebbero ostacolandolo in ogni modo il nuovo Fratello-raìs, anziché ritirarsi, in apparenza, lasciando al loro candidato il potere evidente. Ma in entrambi i casi i generali non torneranno presto nelle caserme. Dopo 16 mesi da quando Tahrir scandì per la prima volta lo slogan delle Primavere arabe — al sha'b yurìd isqàt al nizàm, il popolo vuole la caduta del regime — il nizàm, il regime, non è ancora caduto.

Repubblica 16.6.12
La coscienza dell’Occidente e il mattatoio di Damasco
di Timothy Garton Ash


MI AUGURO che un giorno Bashar al-Assad, non più presidente, compaia davanti alla Corte penale internazionale per rispondere dell’accusa di crimini contro l’umanità. Le violenze a opera di altre forze nel conflitto che ormai in Siria ha assunto le caratteristiche di guerra civile non possono sminuire le sue responsabilità. Va ricordato che tutto è iniziato sotto forma di manifestazioni non violente, nel miglior stile della vera Primavera araba. Assad avrebbe potuto rispondervi attuando importanti riforme, di cui ha accarezzato l’idea: aprire negoziati, oppure consentire una transizione pacifica con una onorevole e soddisfacente uscita di scena per sé e per la sua famiglia. Ha scelto invece di mantenere il potere ricorrendo ad una brutale repressione, come già suo padre prima di lui, arrivando a bombardare indiscriminatamente la popolazione civile. Mentre la sua elegantissima moglie, Asma, educata in Gran Bretagna, falcava pavimenti di marmo sui tacchi delle sue Christian Louboutin i soldati e i feroci miliziani di Assad massacravano donne e bambini innocenti nella polvere.
L’opposizione popolare in Siria si è mantenuta rigorosamente non violenta di fronte alla spietata repressione, poi ha perduto la disciplina. Le defezioni dall’esercito e le armi provenienti dall’esterno l’hanno trasformata dapprima in insurrezione armata.
Poi l’hanno fatta diventare una guerra civile, con il regime assediato, l’opposizione spaccata, alawiti, sunniti e rispettivi sostenitori esterni tutti impegnati in un conflitto complesso, a tratti torbido. La rivoltante novità è che oltre a massacrare i civili, l’esercito e la milizia hanno usato i bambini come scudi umani. Anche alcuni ribelli avrebbero reclutato minorenni nelle loro fila. Ma come ha dichiarato lo stesso Assad in un’intervista televisiva prima che tutto avesse inizio, la responsabilità di ciò che accade in Siria è la sua.
Se non avesse scelto la via della repressione il suo Paese non sarebbe arrivato alla guerra civile. Forse Assad ha pianto, in privato, sulla spalla profumata di Asma, io lo vedo come un uomo debole che cerca di esser forte. Ma, come ha scritto W. H. Auden invertendo i verbi di una frase famosa,
“quando pianse, i bambini morivano per strada”.
Come è logico si levano sempre più alti gli appelli all’intervento per porre fine alla carneficina. In un discorso tenuto in aprile al Museo dell’Olocausto di Washington, Elie Wiesel si è chiesto se la storia ci abbia insegnato qualcosa, «se sì, come mai Assad è ancora al potere?», ha aggiunto.
Se l’unico requisito necessario a giustificare l’intervento umanitario fosse il numero di morti e feriti tra i civili innocenti, la Siria lo avrebbe soddisfatto. Ma la teoria della responsabilità di proteggere, approvata dall’Onu, ossia il sistema più rigoroso ed equo di cui disponiamo oggi per riflettere su questo genere di sfide, prevede che l’azione abbia prospettive ragionevoli di successo. L’intervento è attuabile se, sulla base di una valutazione informata, è verosimilmente in grado di migliorare la situazione nel Paese in oggetto.
Questo requisito ahimè non è soddisfatto dalla Siria. Bernard-Henri Levy potrà anche sentenziare disinvoltamente che l’intervento è «realizzabile e possibile», ma cosa ne sa?
Il problema non è limitato alle dimensioni, agli armamenti e al livello di addestramento delle forze di repressione di Assad, e alle fratture regionali e settarie interne al Paese. Esiste anche un coinvolgimento diretto di potenze regionali e globali che appoggiano apertamente o meno le varie parti in lotta nella guerra civile. È chiarissimo che l’Iran sciita e la Russia putinista sostengono direttamente il regime di Assad, simpatizzando con la sua base alawita, mentre le potenze sunnite, come l’Arabia Saudita e il Qatar, armerebbero i ribelli. Il russo rispondeva a Hillary Clinton che ha accusato il suo Paese di fornire elicotteri d’attacco al regime di Assad. Nel frattempo gli appelli all’intervento si fanno sempre più insistenti in seno al congresso e sui media americani, ma non al Pentagono, che procede a una lucida analisi delle possibili implicazioni. È facile che un intervento umanitario ai minimi termini possa trasformarsi in un’occupazione travagliata e prolungata, o addirittura in una sorta di guerra per procura.
Al contempo le opzioni puramente politiche finora ipotizzate appaiono deboli o irrealizzabili. Il piano di pace di Kofi Annan è andato in fumo. Un inasprimento delle sanzioni contro la famiglia Assad e i suoi accoliti potrebbe portare ad un crollo degli ordini via internet di scarpe Christian Louboutin, ma non fermerà un dittatore con le spalle al muro, che lotta per evitare di fare la fine di Gheddafi. C’è chi propone un fronte popolare interno per la pace in Siria, che veda la stretta collaborazione tra Usa e Arabia Saudita, Iran e Russia. È un’ipotesi probabile quanto un matrimonio tra il papa e Madonna (la popstar). L’idea di un’opposizione siriana più coesa, che si impegni per una transizione non violenta e negoziata, è valida per il passato e per il futuro, ma non è una soluzione per il presente nel bel mezzo di una guerra civile.
La posizione della Russia sulla Siria è scioccante, menzognera e indifendibile. I russi hanno più volte bloccato le iniziative tese ad ottenere dall’Onu misure più drastiche per la soluzione del conflitto, ricorrendo ad argomentazioni ipocrite che non celano l’interesse nazionale russo a mantenere un punto d’appoggio militare, economico e politico in Medio Oriente. Sono stati i russi ad addestrare l’esercito siriano che massacra i civili e oggi, se va dato credito alla Clinton, forniscono elicotteri d’attacco per aiutare gli uomini di Assad a uccidere ancora.
Non si vergognano? Domanda inutile nel caso della Russia di Putin. Non hanno altri interessi nazionali che in fin dei conti potrebbero contare di più? Questa invece è una domanda utile. Se davvero vogliamo fermare la carneficina in Siria noi in Occidente dobbiamo riflettere su come usare al meglio il bastone e la carota , anche a nostre spese, per far cambiare atteggiamento ai russi. La via di Damasco passa per Mosca e la conversione di Putin non sarà opera di nessun Dio.
Traduzione di Emilia Benghi www.timothygartonash.com

l’Unità 16.6.12
La svolta di Obama sull’immigrazione. Vincono i «sognatori»
Clandestini tra i 16 e i 30 anni, se senza reati, non rimpatriabili
Spiazzati Romney e i governatori razzisti
di Martino Mazzonis


Quando hanno attraversato la frontiera in auto, nascosti in un furgone o con un visto turistico erano bambini o adolescenti. Alcuni, magari, erano così piccoli da non ricordare nemmeno di aver vissuto in un altro Paese. Sono circa 800mila e da ieri non rischiano più l'espulsione, che in America si chiama deportazione, un termine più appropriato. Con un memorandum di tre pagine spedito ai direttori dei servizi della dogana, dell'immigrazione e di controllo delle frontiere, la Segretaria alla Sicurezza nazionale, Janet Napolitano, ha annunciato una svolta nelle politica dell'immigrazione dell'amministrazione Obama. Le persone arrivate illegalmente negli Stati Uniti prima di aver compiuto i 16 anni di età e che non ne hanno compiuti 30, hanno vissuto nel Paese per almeno cinque anni consecutivi, vanno a scuola, si sono diplomate o hanno servito nell' esercito e che infine hanno la fedina penale pulita, non dovranno essere espulse. Non è una legge, per quella ci vuole il Congresso, è una direttiva su come applicarla. Ma in sostanza si tratta del Dream Act, una proposta dell' amministrazione che i repubblicani si rifiutano di approvare.
IL SOGNO AMERICANO.2
Le centinaia di migliaia di persone che vivevano una condizione da incubo possono tirare un sospiro di sollievo. Cresciuti nei quartieri ispanici delle grandi metropoli o nelle aree a maggioranza latina di Stati come il Texas, l'Arizona, la California, nel corso degli ultimi due anni hanno sentito aumentare la pressione contro di loro. Non solo alcuni governatori repubblicani hanno fatto approvare leggi al limite della costituzionalità che aumentano le possibilità di essere fermati per un controllo e quindi espulsi ma anche l'amministrazione Obama aveva applicato la legge con rigore. Loro, i dreamers (sognatori) come si fanno chiamare quanti si sono mobilitati per il Dream Act vestono, pensano, studiano e trasudano cultura statunitense. Magari latina o asiatica, ma made in Usa. Per questi ragazzi l'espulsione non sarebbe stata solo il fallimento di un percorso migratorio, ma un'emigrazione forzata in Paesi Messico, Salvador, Honduras e magari qualche Paese asiatico che conoscono appena. E per questo nei mesi scorsi avevano manifestato nelle piazze, autodenunciandosi.
STORIA DI CESAR
«Sono qui, non ci sono nato, ma ho preso un Phd e ho fondato una organizzazione pubblica per uscire allo scoperto. Sono qui da sempre, credi che avessi idea di non essere in regola?». Così ci raccontava Cesar Vargas qualche settimana fa durante un seminario di discussione sulla riforma dell'immigrazione. Cesar assieme ad altri ha fondato un gruppo di pressione, il Drm capitol group, in favore di misure come queste e al telefono ci dice di essere felice: «Siamo scesi in strada, abbiamo organizzato raccolte di firme, siamo andati a Washington per questo. Ora terremo gli occhi aperti perché le nuove regole vengano applicate, ma oggi abbiamo un'occasione per festeggiare e il presidente ci ha dato una ragione per mobiliarci in suo favore». La mossa dell'amministrazione, che ha spiegato in prima persona la nuova politica ieri pomeriggio, è una scommessa politica. I latinos (ma anche gli asiatici) sono un gruppo cruciale per le elezioni di novembre e l'inazione sulla riforma dell'immigrazione, accompagnata dall'eccesso di zelo sulle espulsioni rendeva questa parte dell'elettorato quantomeno poco entusiasta. Con questa scelta Obama può finalmente sostenere di aver fatto qualcosa. Non si tratta di una riforma epocale e neppure di una strada verso la cittadinanza. Ma è un passo nella direzione giusta e non dovrebbe far male con gli indipendenti: in fondo si tratta di giovani, studenti, il possibile futuro d’America. Romney dal canto suo balbetta o sostiene la auto-deportazione: sa che per lui l’immigrazione è un terreno scivoloso sia spostandosi a destra che al centro. Tanto più che alcuni membri del partito repubblicano hanno già attaccato duramente la nuova politica con la scusa che aggira il Congresso. A confermarci che la scelta di Obama sia quella giusta è ancora Cesar Vargas: «Mi ha appena chiamato mio cognato, è un cittadino americano, tende a essere conservatore, non vota e se lo facesse voterebbe repubblicano. Stavolta vado a votare e voto per il presidente, mi ha detto».

Corriere 16.6.12
Costa-Gravas
«Atene è la cavia d'Europa, ma il clima sta cambiando»
Lo scrittore di «Z-L'orgia del potere»: «Con Hollande e Monti aria nuova»
di D. F.


ATENE — È stato il più giovane tra i capi di partito, «con quella faccia da Adriano Celentano», a spingerlo verso la decisione di candidarsi. Per la prima volta, a 77 anni. Vassilis Vassilikos non ama Alexis Tsipras, perché da quella faccia «traspare troppa arroganza, sembra convinto che la sinistra non sia mai esistita senza di lui. E Marx? E Lenin? Mi considero un intellettuale gramsciano e per me è un atteggiamento inaccettabile».
Per il debutto lo scrittore ha scelto come partito Sinistra Democratica, i «cugini» ribelli che hanno lasciato Syriza, la coalizione di gruppi radicali. «Rappresentano la sintesi tra Nuova Democrazia/Pasok (la tesi) e Syriza, l'antitesi. Non sarò eletto, ma volevo comunque fare un gesto simbolico». Non gli piace Tsipras e non gli piace chi lo paragona ad Andreas Papandreou, lo storico leader socialista. «Papandreou era un genio dell'economia e anche i tempi erano diversi: negli anni Ottanta il denaro affluiva verso la Grecia dalla Comunità Europea, adesso se ne scappa fuori. Tsipras non ha mai conosciuto la povertà, non sa di che cosa parla. L'unico punto in comune tra i due: la demagogia e il populismo».
«L'orgia del potere», che ha raccontato nel romanzo Z diventato il film diretto da Costa-Gavras, non è più quella dominata dai Colonnelli. «I dittatori del Ventunesimo secolo — commenta — sono gli speculatori, gli investitori internazionali che hanno abolito la democrazia per imporre il dispotismo dell'economia». Vede la Grecia ancora una volta sfruttata come cavia da laboratorio. «Negli anni Sessanta la strategia dei colpi di Stato venne provata qui e ne siamo usciti dopo sette anni. Allora io vivevo a Roma e so quanto gli italiani fossero preoccupati che succedesse anche a loro, che Atene fosse solo la prima tappa. Oggi l'esperimento sono queste misure di austerità. È stato scelto l'anello più debole della catena per somministrare la medicina dei tagli e vedere se funziona. Non ha curato il malato, anzi. Siamo senza via d'uscita».
Il virus ha almeno indotto i greci a ritornare alla solidarietà. «È l'unico risultato positivo della crisi, sembra di essere di nuovo negli anni Cinquanta, quando eravamo più poveri ma meno individualisti. La famiglia, con la sua rete protettiva, è al centro della società, inevitabile quando ci sono così tanti giovani disoccupati».
Il clima in Europa — spera Vassilikos — sta cambiando. «Dobbiamo ringraziare François Hollande, il presidente francese, e Mario Monti, il premier italiano. Fino ad ora siamo stati guidati da Angela Merkel, che manca di una visione come invece hanno avuto i suoi predecessori alla Cancelleria tedesca fin da Konrad Adenauer».
Il bar dell'elegante quartiere di Kolonaki è quello dove viene da sempre. Beve vino bianco accompagnato da formaggio grana italiano. Siede qui e parla di politica, «di che cosa succederà domani», come i personaggi del racconto Café Émigrec (raccolto in 8 e 1/2 assieme ad altri romanzi brevi): in esilio discutono e giocano a flipper, provano a vaticinare il futuro, la vita dopo i Colonnelli. «Anche adesso rischiamo l'embargo, tagliati fuori dall'Europa. Sarebbe assurdo perché il 90 per cento dei greci vuole restare nell'Unione, si sente europeo più che orientale. Con la Russia esiste solo il legame della religione ortodossa».
La paura è tornare a essere provincia e provinciale come la sua Salonicco dopo la deportazione del 97 per cento della comunità ebraica verso i campi nazisti. «Quando successe ero bambino, avevo otto anni. Era una città cosmopolita, che faceva parte culturalmente dell'Europa centrale. Lo sterminio degli ebrei ha ridotto Salonicco a essere un pezzo dei Balcani».

l’Unità 16.6.12
Passeggiando nel tempo. Un flaneur nell’antica Roma
L’«Atlante» di Carandini dà anima all’archeologia
Tanti giovani ricercatori hanno collaborato al progetto del grande studioso. Un’opera di valore che è anche una sfida a quell’Italia che vuole la morte della cultura
di Giuseppe Montesano


VADO IN GIRO INDOLENTE PER I VICOLI DEL CAMPO MARZIO, SPERANDO IN UNO DEGLI INCONTRI CHE ORAZIO RACCONTA, QUANDO CI SI CONTENDE UN OGGETTINO PER TOCCARSI LE DITA, E BACIARSI RITROSI E ECCITATI NEL SEMI-BUIO DELLA SERA, E INTORNO SI SENTONO LE RISATINE TRATTENUTE, DI GOLA, DELLE RAGAZZE CHE CHIAMANO INNOCENTI E SENSUALI... Ma che succede? Non ci sono automobili, non riconosco niente, e intorno a me arrivano voci che sciolgono dittonghi, frusciano parole che tintinnano come monete d’argento: «puella... dac mihi basia... cras donaberis... quam minima credula postero... semper amor»...
Che strano! Non pensavo che l’odioso latino dei professori potesse essere questa musica risonante, un po’ sfatta e roca, e dolce... Deve essere un film, ma la ricostruzione è proprio esatta, anche se gli spazi svaniscono come nei sogni e a tratti si velano le facce, però mi pare impossibile che qui ci sia il Campo Marzio così preciso, questa non sembra la cartapesta di Cinecittà, vedo le scrostature delle case romane, e le bottegucce con la bilancia, e le tuniche che lasciano intravedere calzari e piedini con le unghie laccate... Sto sognando! Ecco, non può essere diversamente, è per questo che mentre vago per il Foro di Cesare mi basta chiudere un attimo gli occhi per veder comparire rovine di Piranesi con i muschi che ricadono come pellicce e merletti, e acquerelli dell’Ottocento dove la città brilla quieta come un giocattolo antico. Sì, sto camminando in uno strano sogno, dove i secoli mi appaiono mescolati, con le statue decapitate che odorano di Tempo perduto e i bassorilievi con le divinità orientali che sembrano scolpiti l’altro ieri, e la Domus Aurea e le Ville patrizie già rinascimentali, e le vestali con il capo coperto come piccole suore cristiane, e i turisti in cilindro e bombetta sotto archi romani che si fanno immortalare in un lampo al magnesio che li fissa come se potessi toccarli...
Che strano! Forse se mi muovo su me stesso come un caleidoscopio tutto tornerà normale, i pezzi si metteranno a posto, e non comincerò a sospettare di essere entrato in una macchina del tempo... O forse ho capito, non dovevo assopirmi nella fantasticheria sfogliando avidamente questo libro che ora ho davanti, come si chiama, ah, sì, ora lo vedo: si intitola L’atlante di Roma antica, un volume dell’Electa curato da Andrea Carandini, un libro in cui mi sono perso come in uno stradario metafisico o in una bibbia delle antichità romane, non so bene, quello che ora so di certo, dal rumore delle automobili, dal traffico spaventoso e dagli stereo che sparano Madonna a tutto volume, che sono tornato nel 2012, nel presente. E il presente mi dice che l’archeologo Andrea Carandini ha fatto, e l’Electa ha pubblicato, un libro bellissimo e nuovo.
Cosa «fa» questo Atlante di Roma? Ci porta nei quartieri della città mostrandoci le loro molteplici facce, ci mostra le piante topografiche, quelle storiche tramandate nei secoli e quelle ricostruite oggi; abbiamo i frantumi di statue e mosaici, la Colonna Traiana in un primissimo piano da cinema e il cavallo di bronzo, abbiamo le fotografie del Tevere con le colonne romane nell’Ottocento e le incisioni di Piranesi con il tempio di Venere e gli acquedotti; abbiamo gli scritti degli specialisti che hanno lavorato all’Atlante, e abbiamo le loro ricostruzioni. Con pochi colori neutri, Carandini e i suoi collaboratori hanno creato proiezioni tridimensionali della Villa di Augusto e della Domus Aurea, del Campo Marzio e dei Templi, mostrandoci con molta discrezione grafica ciò che spesso il 3D spettacolare tradisce enormemente, facendo diventare l’antica Roma un cartone animato.
SENZA TRADIMENTI DA 3D
Qui, invece, nella chiarezza e semplicità delle linee, riusciamo a leggere fino a un punto molto profondo le strutture abitative di cui parlavano poeti e storici, e scopriamo che molto al di sotto di ciò che le rovine e i resti ci mostrano, la struttura urbanistica e abitativa di Roma aveva molto in comune con la sua lingua e con una parte consistente della sua civiltà: essenzialità e economia sembrano esserne le linee guida, in una nitidezza di stile che ricorda il Rinascimento, e testimonia che gli Alberti e gli altri erano molto più acuti filologicamente di quanto si pensi in genere. Dall’altro lato, nella stratigrafia di affreschi, decorazioni e mosaici, appare già nella Roma antica la facies barocca, che consiste nel pensare in forma teatralizzata e metamorfica gli spazi.
L’Atlante di Roma Antica è un progetto scientifico di grande lungimiranza e altissima levatura, e a vedere la foto dei giovani che hanno collaborato con Carandini, e a leggerne gli scritti, si direbbe davvero che ci sono due Italie: quella vecchia intellettualmente e eticamente, che ci ha s-governato e ci s-governa e che vuole la morte della cultura, e quella di questi studiosi e di molti altri, che è il Paese vero, moderno, appassionato e intelligente, pronto a scavare nel sottosuolo di se stesso per trarre alla luce il futuro. Ma se vinceranno i vecchi, avremo solo macerie.

La Stampa 16.6.12
In Spagna gli affreschi più vecchi del mondo
Graffiti di Altamira retrodatati: opera dei Neanderthal?
di Giordano Stabile


Quando nel maggio del 1879 l’archeologo dilettante Marcelino San de Sautuola scoprì i bisonti rossi di Altamira e li attribuì agli uomini primitivi che erano vissuti nella montagne dell’Asturia migliaia di anni prima di Cristo gli diedero del «matto, incompetente, falsario» Accuse feroci piovute dalle più alte cattedre di paleontologia e dal Congresso di Lisbona del 1880, dove si concluse che l’ipotesi più plausibile era che se li fosse dipinti lui. Non tutti i cattedratici erano d’accordo, perché la pulizia dei tratti, lo splendore dei colori erano tali da presupporre un grande artista. Naturalmente contemporaneo.
Le scuse a Sautuola, già morto, arrivarono nel 1902. Poi, scavo dopo scavo, la datazione è andata sempre più ritroso, sedicimila, ventimila, trentasettemila anni fa. Altre caverne, El Castillo, Tito Bustillo, sono state scoperte con reperti, utensili, ossa e disegni lasciati da migliaia di generazioni che si sono succedute nei siti. Ora Altamira ha conquistato la palma della più antica testimonianza dell’Homo sapiens in Europa, molto più antica degli altri celebri affreschi preistorici, quelli di Lascaux.
Persino troppo antica. Perché l’ultima retrodatazione, a 41mila anni fa, opera del paleontologo britannico Alistair Pike, rischia di nuovo di scardinare parecchie certezze. Questo volta l’équipe dell’Università di Bristol che ha condotto la ricerca non potrà essere accusata di «dilettantismo». Ma il problema c’è. Quella data, 40.800 anni fa, non collima con studi solidissimi che ci dicono l’Homo sapiens, allora, aveva appena messo piede sul Continente. L’Europa era dominata dai cugini di Neanderthal, tarchiati, robusti, resistenti al freddo ma non certo con il phisique-du-rôle dell’artista.
La datazione però è incontestabile. L’équipe di Bristol ha analizzato la patina di carbonato di calcio che si è formata sopra alcuni affreschi, in particolare in piccoli dischi rossi. Il carbonato si forma esattamente come stalattiti e stalagmiti e assorbe un piccolo numero di atomi di uranio, presenti in natura. L’uranio decade, con tempi di dimezzamento precisissimi, in atomi di torio. Calcolando il rapporto fra uranio e torio nel carbonato, Pike è riuscito a datare gli affreschi «con un margine di errore di pochi decenni».
Possibile che l’Homo Sapiens, appena due secoli dopo lo sbarco nelle Penisola iberica, fosse già arrivato all’estremo Nord, si fosse impossessato dei migliori rifugi fino allora proprietà dei neandertaliani? Difficile. Allora, delle due, una. O siamo arrivati prima o anche i nostri cugini dalla fronte basa erano grandi artisti. Ne è già convinto, per esempio, Joao Zilhao, dell’Università di Barcellona: «È una sensazione di pancia, la conferma definitiva può venire solo dalla scoperta di un affresco più vecchio di qualche secolo. Ma ci sono buone probabilità che i piccoli dischi rossi siano opera dei Neanderthal».
La ricerca sarà ampliata «in altre caverne, in Spagna, Portogallo e tutta l’Europa occidentale». Se sarà confermata la tesi, non potremo più guardare dall’alto in basso neppure i Neanderthal. Secondo Picasso, «dopo Altamira, nell’arte c’è stato soltanto il declino». Forse perché i cugini dalla fronte bassa erano più bravi di noi.

La Stampa TuttoLibri 16.6.12
Rosario Villari Ritorno di un classico: «Un sogno di libertà. Napoli e un declino di un impero, 1585-1648»
Quelle teste mozzate invocano Masaniello
di Giovanni De Luna


Un oceano quasi immobile di subalternità, increspato ogni tanto da un improvviso ed effimero moto di ribellione. Tra i tanti luoghi comuni affiorati nel dibattito che ha accompagnato, nel 2011, la riflessione sulla nostra storia unitaria, questo, che si riferisce alla storia del Mezzogiorno, è uno dei più consolidati, fronteggiato da quelli che favoleggiano sulle ricchezze saccheggiate dal Nord o sulla virtuosità del sistema di governo dei Borboni.
Sono immagini speculari, molto diffuse nel senso comune, ma che c'entrano poco o niente con la ricerca storica.
Sembra così opportuna la scelta di Rosario Villari di ripubblicare una sua opera classica, del 1967, ampliandola con parti completamente nuove, dedicata a Napoli tra il 1585 e il 1648 ( Un sogno di libertà. Napoli e un declino di un impero, 1585-1648, Mondadori). Due date, per due rivolte contro il dominio spagnolo. Entrambe concentrate in pochi giorni di violenza, ma con uno spessore che non si lascia imprigionare nello schema dell'accensione improvvisa e della follia sanguinaria del popolo.
La prima si concluse con l'esposizione delle teste dei rivoltosi in un macabro monumento. Avrebbe dovuto essere un monito severo contro chi si ribellava all'autorità spagnola; in realtà fu rimosso perché perpetuava la collera degli sconfitti, pronta a riesplodere, come avvenne nel 1647, con lo stesso tragico epilogo, con l'eccidio di Masaniello e dei suoi compagni.
Le pagine di Villari ci accompagnano nei meandri delle rivolte, permettendoci di entrare in contatto con un composito universo di figure individuali e di attori sociali, in una serie di cerchi concentrici che partono dal più largo (Madrid e il potere lontano della Corona) e riattraversano in successione la corte napoletana del Vicerè, i baroni insaziabilmente a caccia di privilegi, il banditismo delle campagne, esponenti dei ceti provinciali e periferici («leggitori di libri» li definì un cronista dell'epoca) che alimentarono i primi progetti di indipendenza e di rifiuto del dominio baronale, le «profezie» visionarie di Tommaso Campanella e, infine, il popolo, con i suoi istinti plebei ma anche con la generosità di alcune figure di uomini consapevoli, come Giulio Genoino e lo stesso Masaniello. Un groviglio di interessi contrapposti, un affresco complesso che interagisce con le rivolte in Portogallo, in Catalogna, nelle Fiandre, teatri di guerra lontani, ma che scardinano il nostro Mezzogiorno da ogni ruolo periferico e marginale, lo inseriscono nel cuore della crisi dei domini spagnoli, della rete delle relazioni diplomatiche con la Francia, in una dimensione che si nutre dei fermenti sociali e culturali dell'Europa di allora.
Certo tutto finisce male. Ma in quelle rivolte ci sono speranze di futuro, aneliti di libertà che appartengono al Mezzogiorno italiano così come il conformismo, l'ossequio ai potenti, l'immobilismo. C'è di tutto: proteste per la fame, ansie religiose, banditismo, attese messianiche, fremiti libertini, «una volontà di rifiuto radicale, di eversione». E su tutto incombe il prezzo enorme pagato dal Mezzogiorno a quelle sconfitte.
Scrivendone secoli dopo, Vincenzo Cuoco osservava come «una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo, di cui l'umanità non si libera se non quando le sue idee saranno di nuovo al livello coi governi suoi… Ma talora passano dei secoli e si soffre la barbarie prima che questi tempi ritornino». Nel 1799, lui stesso era stato protagonista dell'effimera ma straordinaria avventura della Repubblica partenopea, soffocata nel sangue dai cattolicissimi sanfedisti del cardinale Ruffo.
Per chiunque voglia voltarsi indietro per rilanciare oggi la questione meridionale, questo libro offre una traccia importante, proponendo di leggere in quei sussulti e in quelle sconfitte uno dei cardini su cui fondare la ricerca delle energie che si sono proposte di riscattare il Sud dalla miseria e la sua storia dalla suggestione dei luoghi comuni.

Repubblica 16.6.12
L’urgenza della memoria
di Alessandra Longo


Documenti, immagini, videotestimonianze, eventi, biografie. Un «viaggio virtuale attraverso i luoghi e la storia», dal fascismo alla seconda guerra mondiale, dalla Resistenza alla Liberazione. Sarà presentato oggi, nella sede del Museo Cervi a Gattatico (Reggio Emilia) il nuovo portale memorieincammino. it. Iniziativa aperta e interattiva che coinvolge già oltre un centinaio di soci dell’Istituto Cervi (in gran parte Comuni) e risponde a quella che i promotori definiscono «l’urgenza della memoria». Bisogna fare presto a raccontare le radici prima che si «spengano le ultime voci di quella stagione complessa ». Testimonial Moni Ovadia che parla dalla homepage: «La memoria è un flusso di emozioni, di scelte, a volte di omissioni. La memoria è un progetto e si rivolge al futuro». La memoria cammina e siamo tutti noi.

Repubblica 16.6.12
Aurelio Mancuso e Umberto Veronesi
Il futuro dell’uomo tra religione e scienza
risponde Corrado Augias


Gentile Corrado Augias, Vito Mancuso ha scritto che “il futuro dell’uomo non è solo nella scienza” in opposizione a Veronesi il quale però non credo che pensi questo, si è solo espresso con entusiasmo sui risultati della tecnologia. La scienza si propone di capire i meccanismi dei fenomeni naturali e cerca di organizzarli secondo razionalità, con teorie che sottopone a verifiche e aggiornamenti. Questo metodo è negato alla teologia, che invece ha da tempo acquisito una verità definitiva. Alla scienza si può fare un diverso appunto: non considerare sempre le priorità nell’investire le risorse, in particolare quelle destinate alla conoscenza pura. Ad esempio, conoscere meglio la stella Fomalhaut, a 25 anni luce dalla Terra che richiede la costruzione di un osservatorio a 5000m di altitudine in Cile. Francamente sembra meno urgente dei provvedimenti per impedire che un miliardo di esseri umani rimanga senza cibo. Sembra altrettanto urgente che chi si occupa di religione denunci, prima delle carenze future della scienza, la superstizione mercantile che ancora affligge Lourdes, Fatima, Medjugorje.
Franco Ajmar

La discussione innescata dal doppio intervento di Umberto Veronesi e di Vito Mancuso sulla scienza è del più grande interesse. Dei rapporti tra religione e società si discute da prima ancora del cristianesimo. Il sofista Crizia, in un suo dramma, accenna la teoria che gli dèi furono inventati per impedire agli uomini di delinquere. Machiavelli giudica la paura delle pene eterne più efficace delle leggi per mantenere i buoni costumi. La religione però è anche la principale fonte di speranze e di consolazione al contrario della razionalità che, diceva Chateaubriand, “non ha mai asciugato una sola lacrima”. Mancuso ha ragione a dire che non si vive di sola scienza e credo che anche Veronesi sarebbe d’accordo. Mancuso semmai esagera quando tira dalla sua Einstein ricordando la frase “la scienza senza religione è zoppa, la religione senza
scienza è cieca”. Parole che non mi pare rispecchino ciò che Einstein ha detto altrove. Per esempio parlando della religione ebraica come di un insieme di leggende infantili. Non mi pare che oggi ci sia nessuno che vuol rimuovere il sacro dal mondo, né sarebbe possibile. Si dovrebbe invece cercare di tenere separato il sacro dalla vita civile. Il Discorso della Montagna, sublime per ispirazione, sarebbe un disastro se trasformato in articoli del codice. La scienza non può assoggettarsi al dogma o perde il suo carattere di scienza; la religione invece si fonda sul dogma o non è più religione. La spiritualità vera rifugge dall’imposizione forzata, domanda silenzio e concentrazione, sicuramente non ama la politica e i soldi. Con Mancuso di questo abbiamo discusso a lungo; sono cose che sa e che condivide.

Repubblica 16.6.12
Il pensiero debole è ancora “forte”
Un intervento sul dibattito filosofico intorno al Nuovo realismo
Nell’agosto scorso Ferraris ha lanciato su queste pagine il manifesto del New Realism
che ha aperto il dibattito sul superamento del Pensiero debole
di Pier Aldo Rovatti


Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo( Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni. Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni. Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifestouna lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia? » e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ». Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così. A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin. Tutto questo percorso – che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) – conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti. Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività. Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi. Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità». Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette). Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi. Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi – forse – ancora più di ieri.

Repubblica 16.6.12
La vergogna perduta
Come siamo diventati un popolo di esibizionisti
di Roberto Esposito
 

Un saggio esamina la mutazione del sentimento che per secoli ha funzionato come un meccanismo di coesione sociale
Oggi i modelli cui è obbligatorio adeguarsi non sono più etici ma estetici, imposti dalle aspettative di una platea virtuale

Cosa è successo alla vergogna? Dove è finita, o come è cambiata, quell’emozione fondamentale collocata al centro dei rapporti umani e che anzi, in un certo senso, li precede, tracciando una linea che non può essere varcata senza segnare una sorta di regressione antropologica? Se essa non è sparita – visto che le sensazioni costitutive della nostra esperienza non si cancellano di colpo – certamente è mutata di segno. Dal pudore, quella che un tempo chiamavamo discrezione, essa si è rovesciata in un bisogno di esibizione, cui si può dare anche la patente di autenticità, ma che in realtà è parte integrante di una società in cui, per esistere, pare necessario essere visti, individuati, notati, non solo nei successi, ma anche nelle fragilità e nelle pieghe più intime. Altrimenti non si capirebbe perché mai, quotidianamente, in uno scompartimento di treno, siamo costretti ad ascoltare le vicende private di chi urla al cellulare accanto a noi, come se fosse solo. O, peggio, perché coppie, celebri o anonime, di ogni età e condizione, immettano in internet le immagini dei loro rapporti
sessuali. E non è diventato un irresistibile richiamo mediatico il pianto in diretta di persone messe di fronte ai propri errori, rimorsi, rimpianti reali o immaginarie, di cui, poco alla volta, cominciano a vantarsi come di testimonianze di verità e di coraggio?
Un libro di Gabriella Turnaturi, intitolato appunto Vergogna. Metamorfosi di un’emozione (Feltrinelli), prova, con gli strumenti raffinati della psicologia sociale, a fornire una risposta a tale domanda, riconducendo questa antinomia ad un orizzonte più ampio e profondo. Il suo presupposto di partenza è che, se tutte le emozioni sono costruzioni sociali, ciò vale tanto più per la vergogna. Senza lo specchio dello sguardo altrui, non si aprirebbe quello scarto rispetto a noi stessi da cui si genera la vergogna. Certo, il disagio per un nostro modo di essere, o di fare, non ha bisogno del giudizio esterno – può emergere autonomamente dentro di noi. Ma esso è sempre socialmente mediato, si struttura nel confronto con modelli e norme elaborate nella comunità cui apparteniamo. Non per nulla, secondo il mito platonico del Protagora, a consentire la nascita della politica, non sono le tecniche assegnate inizialmente agli uomini, ma è la combinazione di dike e di aidos, di giustizia e vergogna, senza le quali non sarebbe possibile una vita in comune. È proprio l’allentamento della coesione sociale, infatti, a produrre il depotenziamento della vergogna. Già il passaggio da comunità ad alto tasso di integrazione agli attuali regimi individualistici ne ha determinato un primo decremento. Ma, come già osservava Marco Belpoliti nel bel libro edito da Guanda Senza vergogna, è il narcisismo autoreferenziale della società dello spettacolo ad aver prosciugato i pozzi della vergogna. Non soltanto nelle nostre società non esistono più interdetti generali, ma gli atti di cui un tempo ci si vergognava, piuttosto che celati, sono addirittura esibiti. Come si spiegherebbe, altrimenti, che personaggi più o meno noti, ripresi in case o isole, si mostrino in atteggiamenti volutamente indecorosi, mentre altri si denudano, in senso metaforico e reale, sotto lo sguardo degli spettatori – come la pornostar che, durante la sua performance, fissa attraverso la telecamera gli occhi dell’osser- vatore? Quasi a dirgli che c’è sempre qualcun altro capace di sfregiare ancora di più il volto della vergogna, al punto di fare della sua scomparsa l’oggetto stesso del godimento. Ciò non vuol dire che ogni tipo di vergogna sia esaurito. Ma essa sposta il suo oggetto dal piano morale a quello fisico, dalle azioni ai corpi – non appena questi si allontanino dai canoni prefissati della bellezza mediatica o si appannino le prestazioni cui sono di continuo sollecitati. A generare vergogna, insomma, non è più un dato modo di comportarsi, ma il mancato adeguamento alle aspettative di una virtuale platea televisiva. Nel web – osserva l’autrice – c’è perfino un sito, beautifulpeople. com, cui ci si può iscrivere, tramite foto, soltanto se si è giudicati sufficientemente attraenti. In questo modo il cerchio si chiude – è la norma fissata dai circuiti mediatici a definire la soglia della vergogna, sotto la quale ogni comportamento è potenzialmente concesso, purché procuri godimento. Naturalmente, come sempre accade nelle dinamiche sociali, e nelle derive del senso, rimane un resto insaturo, qualcosa sporge e fa attrito. Quando una nota signora barese arriva a dichiarare in televisione che se si vuole guadagnare ventimila euro al mese, ci si deve vendere la madre, dando voce a un punto di vista non isolato, allora qualcosa non torna e qualcun altro finisce per pagare, calamitando su di sé la vergogna esorcizzata dagli altri. Nel romanzo La vergogna, Salman Rushdie racconta di Sufiya, una donna brutta e handicappata, che nell’India della modernizzazione selvaggia assume sulle proprie spalle tutta la vergogna fuggita dal mondo – com e un contenitore di carne in cui questa si riversa prima di traboccare rovinosamente nella società. Del resto la proiezione della vergogna su individui o gruppi sociali inermi ed innocenti ha costituito da sempre un dispositivo centrale del potere. Quante volte esso si è costruito imprimendo lettere scarlatte o stelle gialle sulle vesti di chi destinava all’espulsione e poi alla sop- pressione? Suscitando in loro, prima che il terrore, quello strano rossore che annuncia la morte, come accadde ad uno studente italiano – ricordato da Robert Antelme in La specie umana – scelto a caso dalle SS per la decimazione. Cosa provochi quel rossore non è facile a dire – forse la vergogna per coloro che ne hanno smarrito anche le tracce. Forse qualcosa di più misterioso, che chiama in causa il rapporto del soggetto con l’immagine insostenibile della propria desoggettivazione – come un fotogramma in cui ci si vede guardati nella nudità impudica di un corpo senza vita. Ma quel rossore può richiamare anche un altro lato, o un altro effetto, del dispositivo della vergogna. Oltre che a dike, alla giustizia, aidos, il pudore, può essere associato anche a nemesis, che Bernard Williams in Vergogna e necessità (il Mulino, 2007) traduce con “indignazione”. È un’altra contraddizione cui assistiamo in questi anni di continuo sommovimento, e ribaltamento, del rapporto tra società e individui – quando all’apparente scomparsa della vergogna fa riscontro, quasi compensandola, un sentimento di crescente indignazione. È come se, oltre un certo limite, ci si cominciasse a vergognare della mancanza di vergogna – indignandosi contro coloro che l’hanno sequestrata, o rivolta contro esseri umani obbligati a vergognarsi della propria pelle, della propria fame, della propria indigenza. Nelle situazioni in cui la crisi sociale oltrepassa un certo limite, come quella che attualmente viviamo, gli orientamenti fanno presto a mutare e a capovolgersi nel loro opposto. La vergogna non è un dato psicologico, una impressione di superficie, che possa mai esaurirsi. Essa rappresenta un elemento costitutivo del nostro essere uomini – ciò che, forse più di ogni altro carattere, ci differenzia dagli animali. In questo senso Marx ha potuto affermare che la vergogna non si limita a precedere la rivoluzione – è già in sé una rivoluzione. Se, come un lampo, tale vergogna-indignazione è avvampata lungo tutta l’Africa Mediterranea fino al Medio Oriente, sfidando la repressione di massa, tornerà, sta già tornando, a farsi sentire anche da noi.

Repubblica  16.6.12
Morto a 98 anni il filosofo francese Roger Garaudy
Quell’ex comunista negava l’Olocausto
di Fabio Gambaro

PARIGI Dal comunismo al negazionismo, passando per il cristianesimo e l’islam, è questo il tortuoso percorso del filosofo francese Roger Garaudy, morto mercoledì all’età di novantotto anni (ne avrebbe compiuti 99 il mese prossimo), nella sua casa di Chennevières, alle porte di Parigi. Da tempo era stato messo al bando dal mondo intellettuale francese, di cui pure era stato una personalità di spicco fino agli anni Settanta, prima di quella conversione all’islam, da cui poi approdò all’antisemitismo e al negazionismo. «Sono giunto all’Islam con la Bibbia sotto un braccio e Il Capitale di Marx sotto l’altro», aveva dichiarato nel 1989 a Re- pubblica. Solo che poi quei testi furono del tutto dimenticati quando nel 1996 scrisse Les Mythes fondateurs de la politique israélienne, un libro in cui rimise in discussione la realtà della Shoah e delle camere a gas. Quell’opera, scrivono Michaël Prazan e Adrien Minard nel loro volume Roger Garaudy Itinérarie d’une négation (Calmann-Levy, 2007), fu «l’atto iniziale della penetrazione delle idee negazioniste tra i nemici più determinati dello stato d’Israele». Nato a Marsiglia nel luglio 1913 da una famiglia atea, Garaudy si era convertito al protestantesimo all’età di quattordici anni, aderendo in seguito al Partito Comunista Francese, motivo per cui negli anni della guerra fu arrestato e imprigionato per diversi mesi. Nel dopoguerra entrò a far parte del Comitato centrale del partito, nelle cui file venne eletto diverse volte deputato e senatore, fino al 1962 quando lascerà ogni mandato per dedicarsi esclusivamente alla filosofia. In quegli anni, in cui era considerato il filosofo ufficiale dei comunisti francesi, Garaudy difenderà il dialogo tra cristiani e marxisti, denunciando ogni forma di rigido ateismo, come mostrano i volumi De l’anathème au dialoguee Marxistes et chrétiens face à face. Contemporaneamente, il filosofo iniziò ad emanciparsi dallo stalinismo, dimostrandosi sempre più critico nei confronti dell’ortodossia comunista. I saggi Peuton être comuniste aujourd’hui e Pour un modèle français du socialisme suscitarono molte discussioni, segnando la progressiva rottura con il partito, da cui infatti verrà espulso nel 1970. Da quel momento inizia l’avvicinamento di Garaudy all’islam, a cui si convertirà qualche anno dopo, pubblicando diversi saggi sull’argomento e creando una fondazione a Cordoba per celebrare l’età dell’oro dell’islam. Sempre più critico nei confronti d’Israele, il suo discorso si radicalizzerà definitivamente durante gli anni Novanta con la pubblicazione di Les Mythes fondateurs de la politique israelienne, libro che susciterà enorme scandalo e molte polemiche, durante le quali il filosofo venne difeso dall’Abbé Pierre, di cui era amico fin dai tempi della guerra. Il libro venne vietato e l’autore fu condannato a nove mesi di carcere con la condizionale e a 150.000 franchi di multa per «contestazione dei crimini contro l’umanità». Come tutti i negazionisti, Garaudy ha sempre negato di essere un negazionista e si è sempre considerato vittima di un linciaggio politico-culturale. Ripudiato dal mondo politico e intellettuale francese, il filosofo negli ultimi anni della sua vita ha molto viaggiato nei paesi musulmani dove è stato sempre accolto come una personalità di rilievo e dove ha potuto diffondere liberamente le sue tesi contro «l’occidente criminale» e «la superiorità dell’islam », tesi sviluppate ancora una volta nel suo ultimo libro, Le terrorisme occidental, pubblicato nel 2004. Non c’è nessuno oggi in Francia che rivendichi la sua controversa eredità.