lunedì 18 giugno 2012

Francia, la maggioranza assoluta ai socialisti
Grecia, la paura spinge a destra, Syriza è il secondo partito, oltre il 26%
Egitto, braccio di ferro in atto


l’Unità 18.6.12
Renzi attacca Bersani: «Aprire il Pd? Una furbata»
 La candidatura alle primarie: «Potrei essere io, una ragazza o qualcun altro...»
Ventura: «Parole poco responsabili»
di Maria Zegarelli


Ancora non ha deciso se candidarsi, «potrei essere io o un’altra persona, magari una ragazza», ma intanto Matteo Renzi, ospite di «In 1/2h» di Lucia Annunziata parla come fosse già in campagna elettorale. «Un leader deve scegliere, deve assumersi la responsabilità di farlo. Non dico “adesso apriamo una campagna di ascolto con le associazioni amiche che mi danno dei nomi e poi rifletto se appoggiarle o no”», dice in aperta polemica con il segretario Pierluigi Bersani che si è rivolto alle associazioni per le nomine Rai. Polemico anche su alcuni passaggi dell’intervista rilasciata dal segretario ieri a l’Unità, il sindaco di Firenze marca le distanze: «Quando scelgo una persona cerca di metterla competente, svincolata dalle tessere del partito, capace di fare le cose che deve fare».
Tranchant il commento sull’apertura alla società civile: «È peggio che una furbata o una captatio benevolentiae, io lo considero una persona seria e lo rispetto ma ha un’idea vecchia del partito, fatto di addetti ai lavori. Io la penso diversamente, non mi sento società incivile perché faccio il sindaco». L’aspirante premier individua una terza via, che vada al di là di «Berlusconi con il sorriso di plastica e la sinistra che ha sempre risposto con l’ombra cupa dalemiana della politica come una setta di addetti ai lavori che fa grandi inciuci». La terza via dunque eccola: un partito leggero con gente che fa politica «per un periodo limitato di tempo». Di Bersani apprezza la scelta di sostenere «il Governo ed è stato molto serio nel voler arrivare al 2013 e sono convinto che lo farà». Ma anche Monti, che pure era partito bene, «in questo momento è molto arenato».
Per sciogliere la riserva sulla sua candidatura il sindaco di Firenze spiega che vuole una gara vera, senza albo di partito e dice che se dovesse perdere non se ne andrà dal partito, «do una mano a chi ha vinto».
L’UMORE PD
«Vedo che c’è un certo protagonismo da parte di Renzi commenta Marina Sereni -. La scelta di chi deve guidare il campo progressista, vorrei sottolineare, non può prescindere da un’impegnativa riflessione su come si risolleva l’Italia e l’Europa». Per Sereni, invece, la linea tracciata dal segretario «è positiva, sollecita il nostro partito ad aprirsi e costruire la piattaforma per il futuro tenendo presente che c’è un grande bisogno tra la nostra gente, ma tra gli elettori in generale, di un confronto vero sui contenuti delle riforme e le soluzioni alla crisi di cui il prossimo governo dovrà farsi carico». «Fa una certa impressione commenta Michele Ventura sentire Renzi affermare che potrebbe candidarsi lui, un’altra persona o una ragazza. Ma ci rendiamo conto che stiamo parlando di chi si candida a governare il Paese in una situazione che fra un anno non sarà molto diversa da quella attuale. Si tratterà di rilanciare l’economia puntando su nuovi modelli e ci sarà bisogno di un nuovo protagonismo in Europa insieme alle altre forze progressiste. In momenti come questi c’è bisogno di statisti, anche se può sembrare un termine superato, e deve essere chiaro che non è un gioco la questione della leadership».
Walter Verini, che non commenta le parole di Renzi, dice di aver apprezzato molto quelle due parole attorno a cui ruota l’intervista del segretario. «Coraggio e apertura sono le parole chiave senza delle quali non esiste un Pd che si candida a governare il paese. I partiti sono decisi ragiona il deputato Pd ma devono sapersi nutrire della energie che ci sono all’esterno». Quello che si aspetta adesso, aggiunge, «sono gesti coraggiosi nel rinnovamento della politica che non passa soltanto attraverso le nuove classi dirigenti. Bisogna rompere con il correntismo, un male che divora quotidianamente il partito». E se è vero, come è vero che nella Conferenza di Napoli il lavoro è al centro del programma di governo del Pd, «è altrettanto vero che lavoro non è soltanto quello dipendente, c’è quello dei precari, delle partite iva, degli autonomi. Noi dobbiamo parlare a tutte queste categorie con la stessa incisività», conclude Verini.
Nel frattempo gli amministratori locali del Pd sono già con i motori caldi in vista delle primarie. Matteo Renzi ha chiamato a raccolta a Firenze, alla Leopolda, un gruppo di sindaci per dare un peso specifico agli amministratori dalle primarie invitandoli a dire per primi «che non basta più. Che c’è bisogno di altro. È tempo di cambiare». Ma la sua iniziativa è stata subito stoppata da quasi un centinaio tra sindaci, presidenti di Provincia e di Regione che invece scendono in campo proprio per sostenere il segretario.

La Stampa 18.6.12
“I partiti non riescono a parlare ai cittadini”
Barca: noi ci assumiamo la responsabilità delle scelte difficili
intervista di Fabio Martini


ROMA Nel rapporto tormentato tra il governo dei tecnici e la sua maggioranza, la richiesta da parte del Pd di un decreto legge a brevissima scadenza sulla questione esodati, di uno scambio secco con la questione del mercato del lavoro, non spiazza il ministro alla Coesione sociale Fabrizio Barca, una delle personalità più apprezzate dal presidente del Consiglio: «Proporre un accordo di questo tipo è una richiesta legittima. Naturalmente fare le cose male non è mai produttivo e dunque un eventuale decreto si potrà fare quando tutte le informazioni saranno disponibili. Diverso il caso della riforma del mercato del lavoro: il governo ha fatto una scelta sacrosanta e ora chiede che i tempi di attuazione siano rapidi».
Il leader del Pdl Alfano ha quasi deriso il provvedimento sulla crescita, sostenendo che la disponibilità reale è di un miliardo: quello tra governo e maggioranza le pare un rapporto esemplare?
«È un rapporto comprensibile, che si spiega anche con la straordinaria difficoltà che i partiti hanno nell’intrattenere un rapporto diretto con i cittadini: nel corso del tempo le loro organizzazioni si sono fatte liquide. Talora le forze politiche hanno la tendenza ad accomodare la critica generale, ad assecondarla secondo una modalità semplice, a volte anche scontata. Ma di questo non dobbiamo stupirci».
È la vostra missione?
«Siamo stati messi lì proprio perché sul governo si scaricassero le responsabilità, finendo per accreditarci tutte le cose che non vanno e in qualche modo non riconoscendoci quelle positive. Mi preoccupa molto invece un’altra questione: lo scarso livello di comprensione di alcuni provvedimenti, per la verità molto incisivi».
Quando le cose non andavano bene i governi dei partiti dicevano che c’era un problema di comunicazione, ultimamente lo diceva persino un mago del ramo come Berlusconi...
«E allora faccio un esempio. Nel pacchetto sviluppo c’è un provvedimento che è una sorta di rivoluzione: abbiamo stabilito che di ogni transazione che lo Stato fa con qualunque soggetto - sia esso un consulente, un acquisto o un progetto infrastrutturale - se dopo il primo gennaio non sarà dato conto del beneficiario, della motivazione del trasferimento e delle modalità contrattuali, quella transazione non sarà valida. Questo potrà incidere in maniera radicale sulla degenerazione tra Stato e privati per la grande trasparenza che consentirà».
Certo, i mass media saranno superficiali ma a comunicar bene non deve pensare anche il governo? Non pensa che per farlo ci vorrebbe più fatica e più umiltà nel ritenere che farsi capire è altrettanto importante che decidere?
«Sui giornali è stata introdotta la modalità delle schede riassuntive degli interventi che spesso hanno un tono un po’ apodittico, come se il mondo fosse cambiato da quelle norme e non dai comportamenti delle persone e dunque dalla attuazione delle leggi. Dopodiché, certo, anche il governo deve sapere comunicare».
Il governo lavora, ma senza un svolta in Europa, quasi tutto rischia di vanificarsi: Monti cosa dovrà contribuire a far accadere a fine mese a Bruxelles?
«Due cose molto importanti: misure che abbiano effetti immediati sulla crescita ed è possibile, ma anche dare una svolta al processo di unificazione delle politiche comunitarie».
Ministro, lei è spesso all’Aquila, dove è in corso un’esperienza originale di ricostruzione, che mette assieme forte impulso pragmatico e partecipazione popolare: un modello?
«Quando siamo stati incaricati di occuparci di questa questione, in febbraio, ci siamo subito resi conto che lo scoramento della popolazione era superiore rispetto alla situazione obiettiva. E abbiamo compreso che una percezione così negativa e una sfiducia così forte nello Stato traevano origine essenzialmente da un deficit di democrazia partecipativa. In altre parole, la gente non sentiva come proprio tutto ciò che accadeva».
“Complici” i mass media?
«In qualche modo sì: le immagini che rilanciavano i mass media diventavano per loro stessi la verità, quasi più della verità stessa. Col pericolo che su una popolazione sfortunata ed esclusa potesse determinarsi una sorta di ignavia. Abbiamo invertito questo processo e anche non si riguadagna in poco tempo la fiducia persa, diciamo che da parte dei cittadini c’è una apertura vigilata di credito».

La Stampa 18.6.12
L’ex tesoriere Lusi
«Tutto alla luce del sole Non ho truccato i conti»


«Tutte le spese sono alla luce del sole. Le mie spese venivano controllate. Io facevo tutto quello che mi era stato chiesto di fare». Lo dice Luigi Lusi intervenendo nella trasmissione di Maria Latella su Sky. «C’erano tre organi che controllavano»,afferma il senatore che si dichiara innocente dall’accusa di associazione a delinquere. «I revisori dei conti avevano in mano di tutto. È un po’ difficile dire che ho truccato i conti»,aggiunge. «Perché i politici sono contrari a svelare tutti i conti della Margherita?». E nega che sceglierà il patteggiamento perché «devo recuperare la dignità di fronte alla famiglia e al Paese. Voglio il dibattimento e dire quello che penso».L’intervista di Lusi ha scatenato gli avvocati della ex Margherita Madia e Diddi: «Continua nel suo pervicace tentativo di inquinamento della realtà». «Lusi vorrebbe far credere - sostengono i legali - di aver agito nell’interesse della Margherita e di aver eseguito un mandato alla luce del sole ma, evidentemente, egli dimentica che nei mesi scorsi quella stessa autorità giudiziaria nella quale dice di avere fiducia gli ha sequestrato alcuni appartamenti, due ville, oltre che due milioni di euro, e che tale ingente patrimonio era nella sua esclusiva disponibilità».

La Stampa 18.6.12
Ora anche il taglio dei parlamentari è a rischio
di Carlo Bertini


L’ avevano dato per fatto, questo parziale antidoto alla furia dell’antipolitica, e invece il famoso taglio dei parlamentari ora rischia di saltare insieme al tavolo delle riforme costituzionali. Il testo bipartisan «ABC» si è arenato in aula al Senato e mercoledì si vedrà che fine farà. Il Pd e l’Udc vorrebbero rispedire in commissione le proposte del Pdl sul semipresidenzialismo che stravolgono l’accordo stipulato a suo tempo dai tre leader, il famoso patto per le riforme: taglio del 20% dei parlamentari, sfiducia costruttiva del premier e nuovi regolamenti per sveltire le leggi. Ma al di là delle buone intenzioni sbandierate dal Pdl per procedere in aula con un voto su questo testo, che sarebbe il solo viatico per ricucire il clima e poter poi cambiare la legge elettorale, i loro avversari del Pd li accusano di fare melina, lanciando l’allarme sul fatto che entro giugno si deve chiudere la prima lettura o non se ne farà più niente. Che la sforbiciata - peraltro risibile di 183 parlamentari su 945 non sia affatto scontata, la dimostra il fatto che gli sherpa al lavoro sul nuovo accordo per la legge elettorale hanno già pronta la via d’uscita: se saltasse il pacchetto di riforme costituzionali e si volesse salvare solo il taglio dei parlamentari, in attesa di capire come finirà sull’unico punto cui nessuno rinuncerebbe a cuor leggero temendo gli strali di Grillo, si potrebbe fare una norma transitoria: in cui si condizioni l’applicazione del nuovo sistema di voto al numero degli eletti. Rinviando ad una norma successiva l’obbligo di adattare il nuovo sistema di voto ad un Parlamento sforbiciato di 508 deputati e 254 senatori o al solito parterre di 630 onorevoli alla Camera e 315 senatori. E le simulazioni sugli effetti di nuove leggi elettorali basate sul numero di 630 deputati, caso strano, sono le più gettonate in questi giorni...

Corriere 18.6.12
L'ex ministro Scotti: fui cacciato e su Cosa nostra si cambiò linea
Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu ministro dell'Interno
In quegli anni la mafia iniziò la strategia stragista con l'omicidio di Salvo Lima e l'attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone
Al Viminale gli successe Nicola Mancino
intervista di Fabrizio Caccia


Ex democristiano, Vincenzo Scotti, 78 anni, è stato uno dei politici più influenti della Democrazia cristiana
Fu eletto deputato per la prima volta nel 1968 e poi, dalla fine degli anni Settanta è stato più volte sottosegretario e ministro. Fra il 2008 e il 2011 è stato sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi

A Palermo, l'8 giugno scorso, è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo sulla vicenda della presunta trattativa fra la mafia e lo Stato

ROMA — «Premesso: sulla presunta trattativa Stato-mafia non dico una parola. Ci sono indagini in corso eppoi io ho già detto tutto nel mio libro, "Pax mafiosa o guerra? A vent'anni dalle stragi di Palermo". Una cosa, però, mi sento di dirla... ».
La prego, presidente Scotti...
«Credo sia giunto il momento di aprire una riflessione politica nel Paese, per affrontare la questione della "presunta trattativa" in modo laico, cioè senza pregiudiziali ideologiche e senza fare processi in piazza. La democrazia ha bisogno di trasparenza e di chiarezza».
Chiarissimo, presidente Vincenzo Scotti, classe 1933, vecchia volpe democristiana, nel secolo scorso soprannominato «Tarzan» per la sua indiscussa abilità nel «saltare» da una corrente all'altra del partito. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu il ministro dell'Interno della Repubblica. L'attacco della mafia allo Stato era in pieno svolgimento: con la strage di Capaci e, ancora prima, l'omicidio di Salvo Lima. L'8 giugno scorso, a Palermo, Scotti è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo.
Lei dice che è arrivato il momento di fare chiarezza. Ma come?
«Io credo che la politica debba evitare soprattutto che negli elettori, nei cittadini, cresca la sfiducia, che si alimenti l'idea di una Patria dei misteri. E questo, a proposito della presunta trattativa, si può ottenere chiarendo, già davanti alla Commissione antimafia, che cosa realmente accadde. E perché».
Qualcuno però dovrebbe farsi avanti...
«Non faccio nomi, ma sicuramente tutti i presidenti del Consiglio, i ministri dell'Interno e della Giustizia, tutti i capi delle forze dell'ordine e i responsabili della magistratura dell'epoca, diciamo tra il '90 e il '97, con un po' di coraggio potrebbero certamente contribuire a fare chiarezza. Anche perché la partita con la mafia è ancora aperta».
Ma ci fu o no la trattativa tra lo Stato e Totò Riina per evitare altre stragi?
«Non ho elementi per dirlo. Di sicuro dopo di me ci fu un cambiamento di linea, questo mi pare evidente. Lo ha detto Conso pubblicamente (Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel '93, ndr): lui non confermò i 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr)».
E lei invece fu fatto fuori...
«Certi giudizi appartengono all'analisi storica, ma certamente mi hanno fatto fuori».
Chi? E perché?
«L'analisi storica... Già nel '91 ci fu un grosso punto di rottura con la mafia. Ricordo il decreto legge, davvero sul filo della legittimità costituzionale, con cui rimettemmo in prigione, io ero all'Interno, Martelli alla Giustizia e Andreotti premier, tutti i mafiosi del maxiprocesso tornati in libertà per una sentenza della Cassazione che dichiarava scaduti i termini della carcerazione preventiva. Cossiga, allora presidente della Repubblica, lo definì un mandato di cattura per decreto legge. Ma quello fu soltanto l'inizio. Prima delle stragi del '92 dichiarai in marzo lo stato d'allerta perché mi erano giunte precise informazioni, tra cui un memoriale del noto depistatore Elio Ciolini, depositato al tribunale di Bologna. In questo documento si faceva chiaramente riferimento alla mafia e a possibili stragi in arrivo. Nessuno mi credette».
E dopo Capaci lei tornò alla carica per rafforzare il 41 bis, senza aspettare l'insediamento del nuovo governo Amato. Ma il 28 giugno '92 si ritrovò ministro degli Esteri...
«Per questo dico che il problema non si può lasciare, con tutto il rispetto, alla magistratura. Il problema è politico e lo dobbiamo affrontare anche per rispetto di tutti quelli che hanno dato la vita, che hanno pagato col sangue la lotta alla mafia. Per questo è giusto farsi avanti, raccontare tutto quello che accadde, senza la paura di passare per traditori, perché comunque lo Stato la lotta alla mafia negli anni l'ha fatta bene e con ogni mezzo, non solo con la repressione ma con una legislazione modello. Però anche noi politici siamo esseri umani, non siamo robot e pur sapendo dall'inizio i rischi che corriamo ci portiamo dietro le nostre paure...».
Paure, misteri, veleni. Il suo successore all'Interno, nel '92, Nicola Mancino, in questi giorni è diventato un caso per aver chiesto aiuto al Colle in diverse telefonate...
«Non so valutare la sua reazione: di Mancino nel mio libro si parla bene, un uomo e un politico di grande livello, già presidente del Senato, sulla soglia del Quirinale... Certo tutte queste tensioni non aiutano la chiarificazione nel Paese».
E il presidente Napolitano ha fatto bene o male a intervenire sulla vicenda con la lettera inviata al Pg della Cassazione?
«Il presidente della Repubblica, per favore, lasciamolo stare. Lasciamolo lavorare tranquillo per il bene del Paese, perché la situazione è grave, c'è la crisi, la patria è in pericolo. Scherziamo con i fanti ma... ».

il Fatto on line 16.6.12
Trattativa Stato-mafia, Mancino chiamò il Quirinale per lamentarsi delle indagini

qui

Corriere 18.6.12
Il carcere duro revocato dal Guardasigilli

L'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, 91 anni, è indagato nell'ambito del fascicolo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Deve rispondere di false informazioni al pm, l'inchiesta su di lui è dunque sospesa in attesa almeno della sentenza di primo grado. All'epoca il Guardasigilli aveva revocato alcuni provvedimenti di carcere duro o di attenuazione dello stesso regime detentivo, il cosiddetto «41bis».

Repubblica 18.6.12
Mancino, scontro sulla lettera del Quirinale
L’inchiesta Stato-mafia. Di Pietro: indebite pressioni sui pm. Letta, Pd: basta insulti a Napolitano
di Corrado Zunino


ROMA— La trattativa tra Stato e mafia del 1992-1993, che a vent’anni di distanza torna a infiammare le istituzioni del paese, in queste ore rimbalza sulla politica italiana corrente. Si è scoperto, come ha raccontato ieri Repubblica, che tra novembre 2011 e aprile 2012 furono ben otto le telefonate dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, messo alle strette dalle procure di Palermo e Caltanissetta, a uno dei consiglieri del presidente della Repubblica, il magistrato Loris D’Ambrosio, per segnalare il suo problema e indicare lo scarso collegamento fra le procure inquirenti (c’è anche Firenze). Solleciti che non rimasero inascoltati. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo scorso 4 aprile fece inoltrare dal segretario generale una lettera di Mancino al procuratore generale della Cassazione. E sabato, di fronte alle polemiche sollevate dalla vicenda, il Quirinale con una nota ha spiegato: «Basta con le illazioni irresponsabili, la lettera era una richiesta al pg di valutare esigenze di coordinamento fra tre diverse procure».
Di buon’ora, ieri, Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei valori, ha scelto di attaccare dal suo blog il capo dello Stato. Ha scritto: «Preoccupa che ci sia stata una lettera di pressioni scritta da Napolitano al procuratore generale della Cassazione. In un altro paese ci sarebbe stata un’alzata di scudi della politica, ma in Italia i riflettori rimangono spenti e le inchieste giornalistiche sono additate come irresponsabili illazioni. Qui di irresponsabile c’è solo la convinzione che per qualcuno la legge sia più uguale che per gli altri e che la verità venga dopo la necessità di difendere i potenti di oggi e di ieri». Ancora Di Pietro: «Lo staff del presidente della Repubblica ha confermato che è prassi intervenire sulle autorità giudiziarie. Può il segretario generale della Presidenza della Repubblica informare il pg evidenziando che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato, sono “condivise da Napolitano”? ». Di Pietro ha annunciato, infine, un’interrogazione al ministro della Giustizia: «La verità deve essere cercata senza guardare in faccia né presidenti, né ex presidenti e senza interventi di sorta».
L’attacco di Di Pietro ha scosso l’ala moderata del Partito democratico. Il vicesegretario Enrico Letta ha replicato: «Il leader dell’Idv non lesina azioni e dichiarazioni che hanno il solo scopo di terremotare il già precario equilibrio istituzionale del Paese e di rincorrere Grillo in questa folle competizione a chi la spara più grossa. Per ora ha ottenuto di tagliare definitivamente l’ultimo ormeggio che lo teneva legato al Pd». E su Twitter ha parlato di «intollerabile a campagna denigratoria di Di Pietro contro Napolitano». Il capogruppo del Pdl alla Camera, Maurizio Gasparri, si è infilato nel varco aperto per dire: «Se vent’anni fa ci fu una trattativa tra Stato e mafia è bene che si conoscano i responsabili, ed è bene che si sappia chi vuole mantenere quella pagina oscurata».

Corriere 18.6.12
Accuse di Di Pietro sul caso Mancino Il Pd: «Intollerabili»
Il leader Idv: poteva il Colle investire il Pg?
di Giovanna Cavalli


ROMA — La presunta trattativa tra la mafia e pezzi di Stato tra il 1992 e il 1994 — su cui la Procura di Palermo ha indagato per quattro anni, chiamando in causa, tra gli altri, per falsa testimonianza, l'ex ministro dell'Interno ed ex presidente del Senato Nicola Mancino — continua a suscitare polemiche incrociate nel mondo politico. Dopo che sul Fatto Quotidiano si è adombrata una possibile azione di moral dissuasion da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sui magistrati. In risposta a pressanti telefonate dello stesso Mancino che chiedeva di non essere lasciato solo.
Dopo la smentita indignata del Colle («Illazioni irresponsabili e risibili»), che precisa di aver scritto al pg della Cassazione solo «per coordinare le indagini» e non per esercitare pressioni indebite, ieri il leader Idv Antonio Di Pietro è tornato ad attaccare con veemenza il Capo dello Stato: «Qui di irresponsabile c'è soltanto la convinzione che per qualcuno la legge sia più uguale che per gli altri, come se i fatti documentati si potessero liquidare senza risposta» scrive l'ex pm sul suo blog. «Purtroppo la triste conferma ci arriva dallo staff del Colle. Era nel ruolo di Napolitano scrivere al pg della Cassazione per chiedere di intervenire sulla questione? I cittadini devono sapere se settori dello Stato hanno operato e collaborato con la mafia e nessuno, dico nessuno, può ostacolare questa ricerca».
Reagisce con sdegno Enrico Letta, vicesegretario del Pd che parla di «intollerabile campagna denigratoria contro Napolitano». E aggiunge: «L'Italia ha bisogno di responsabilità e impegno, non di denigrazione e falsità». La conclusione più immediata è questa: «Con l'attacco volgare e insultante di oggi Antonio Di Pietro ha compiuto il salto di qualità finale, in folle competizione con Grillo a chi la spara più grossa. L'unico risultato concreto che ottiene è tagliare definitivamente l'ultimo ormeggio che lo teneva legato al Pd». Avete frainteso, sostiene Antonio Borghesi, vicepresidente Idv alla Camera: «Dal presidente Di Pietro non c'è stato alcun attacco al Capo dello Stato. La richiesta di trasparenza non va considerata attacco alla democrazia, anzi, è esattamente un appello al rispetto della stessa e delle istituzioni». Per Andrea Orlando, del Pd, invece c'era la precisa volontà di «gettare ombre ingiustificate su chi ha svolto e svolge un ruolo estremamente delicato: attribuire comportamenti a Napolitano estranei al suo ruolo istituzionale, o addirittura finalizzati a impedire l'accertamento della verità, ci pare da parte di Di Pietro un modo irresponsabile di alimentare il dibattito politico».
Punti di vista. «Possibile che qualsiasi riflessione agli occhi del Pd debba apparire come una minaccia all'equilibrio istituzionale?» si interroga il senatore Idv Stefano Pedica. «Pensare ed esprimersi liberamente è diventato un delitto?». Dal Pdl interviene Maurizio Gasparri, che rimprovera Di Pietro: «Prima di interrogarci sulle lettere di oggi, dico a chi come lui ha taciuto in tutti questi mesi, cerchiamo di mettere in luce le evidenti colpe di chi nel '93-'94 cancellò il carcere duro per i mafiosi». Ma poi invita il Colle a farsi parte attiva: «La trattativa ci fu e chi sa deve parlare. Il Quirinale scriva un'altra lettera, invitando i protagonisti a dire cosa fecero e perché. Vogliamo sapere e non staremo zitti». Si fanno sentire i familiari delle vittime di via dei Georgofili: «Vorremmo anche noi avere avuto in quel 1993 la possibilità di parlare con il Capo dello Stato di allora, perché intervenisse verso quelle istituzioni che elargivano benefici ai mafiosi detenuti».

Repubblica 18.6.12
“Intercettazioni necessarie temevamo che i politici concordassero le versioni”
Ingroia: ma sulle indagini non ci sono state interferenze
di Salvo Palazzolo


PALERMO — Antonio Ingroia, il coordinatore del pool che indaga sulla trattativa mafia-Stato, sostiene di essere ormai abituato alle «iniziative» dei suoi indagati eccellenti: «Purtroppo — spiega — è ormai una cattiva abitudine molto diffusa quella di cercare scorciatoie per affermare la propria innocenza. L’importante, però, è che non si verifichi alcuna interferenza e il corso delle indagini resti tale ».
Vuole dire che non l’ha sorpreso il pressing dell’ex ministro Mancino per fare intervenire addirittura il Quirinale nella sua indagine?
«Non mi sembra il caso che io commenti questo tipo di scelta strategica messa in atto da uno dei miei indagati».
Resta da capire se le pressioni del senatore Mancino, che non voleva essere messo a confronto con l’ex ministro Martelli, si siano manifestate in qualche modo sul vostro pool.
«Posso assicurare che la procura di Palermo si è sempre mossa senza condizionamenti o pressioni di sorta, basandosi solo sul convincimento che ci si è fatto sulle prove».
Mancino poneva al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, anche una questione più generale che prescindeva dalla sua posizione: un’apparente mancanza di coordinamento fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, che indagavano sui misteri del ‘92-’93. C’è stato davvero questo problema?
«Credo proprio di no, soprattutto nell’ultimo anno, quando le indagini di Palermo e Caltanissetta si sono avvicinate verso la conclusione. Ci si è mossi sempre nel rispetto delle reciproche competenze, senza sovrapposizioni, né interferenze. Trovo peraltro le conclusioni dei colleghi di Caltanissetta del tutto convergenti con quelle di Palermo».
Scorrendo le carte dell’inchiesta appena conclusa, un dubbio potrebbe sorgere: Mancino è stato intercettato mentre era solo un semplice testimone. Forse allora le sue preoccupazioni espresse al Quirinale, sull’invasività dell’indagine di Palermo, non erano poi così infondate.
«Abbiamo messo gli atti a disposizione delle difese, che potranno leggere le motivazioni dettagliate attraverso le quali sono state chieste le intercettazioni, poi autorizzate dal giudice delle indagini preliminari. Vi erano fondati sospetti che gli esponenti delle istituzioni che dovevano essere sentiti potessero concordare fra loro la versione da riferire. Ecco perché si è ritenuto di ricorrere a uno strumento di accertamento idoneo».
Ironia della sorte, le parole di Mancino intercettate sembrano essere state profetiche. Alla fine, le divisioni ci sono state, e all’interno del pool di Palermo: il pm Paolo Guido non ha firmato l’atto di chiusura dell’indagine. Su quali punti sono state le divergenze?
«Non mi pare che si possa parlare di divisioni: in ogni gruppo di lavoro è fisiologico che possano esserci posizioni diverse. Ma, in questo caso, non hanno riguardato l’impostazione dell’indagine, bensì la valutazione di singole posizioni. E non erano quelle di Mancino o Conso, sui quali c’è stata unanimità di vedute».
Unanimità che sembra non esserci stata per i politici Dell’Utri e Mannino: d’altro canto, il primo è stato già assolto definitivamente per i fatti successivi al 1992, e solo per quelli; il secondo è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Adesso, invece, sono accusati di aver avuto un ruolo nella trattativa, fra il ‘92 e il ‘94.
«Ho il massimo rispetto per le sentenze, ma le contestazioni a Dell’Utri e Mannino adesso sono altre. Ovvero, non si imputa di avere contribuito a rafforzare Cosa nostra. Dell’Utri, in particolare, viene chiamato in causa perché avrebbe fatto da tramite per alcune specifiche minacce di proseguimento delle stragi, pervenute al presidente del Consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi. Su questo tema nessun giudice si è mai pronunciato».
Un docente di diritto penale, Giovanni Fiandaca, sostiene però che non si possa contestare il reato di trattativa ai politici, che avrebbero potuto scegliere legittimamente di alleggerire la strategia antimafia per evitare altre stragi.
«Nessun politico è accusato di avere trattato con la mafia. Nella nostra ricostruzione ci sono piuttosto alcuni intermediari istituzionali. I destinatari finali, o presunti tali, non sono incriminati per concorso in trattativa: né Mancino, né Berlusconi sono stati accusati di questo reato. Mancino risponde solo di falsa testimonianza».
Quanto è ancora distante la verità sui misteri del ‘92-’93?
«Noi cerchiamo di fare il nostro dovere, per la parte di competenza che ci spetta. I colleghi di Caltanissetta e di Firenze indagano sulle stragi. C’è poi la commissione antimafia, che sta facendo un ottimo lavoro. Sono certo che ci sarà coesione fra tutte le componenti dello Stato, perché sia accertata la verità. Adesso però sarebbe necessario un atto di coscienza da parte di chi, all’interno delle istituzioni, conosce la verità e fino ad oggi ha taciuto».

Corriere 18.6.12
La filosofa e il medico (di Berlusconi): sfida per il San Raffaele
di Simona Ravizza


MILANO — L'ateneo sorge sotto la Cupola, in cima svetta l'Arcangelo San Raffaele: ma nelle aule dedicate da don Luigi Verzé a santi e sapienti, filosofi, medici e scienziati, adesso è tempo di faide. Una lotta che emerge chiaramente da email, lettere e raccomandate rimaste finora riservate. In palio c'è la guida della prestigiosa Università Vita Salute del San Raffaele. Il candidato in pole position è Alberto Zangrillo, docente di Rianimazione, nonché medico dell'ex premier Silvio Berlusconi, che — come anticipato dal Corriere lo scorso 24 maggio — è uscito vittorioso dalle primarie, istituite con lo scopo di individuare il rettore più gradito al corpo accademico. Ma la sua ascesa fa storcere il naso a chi — come la filosofa Roberta De Monticelli — vuol farsi promotore di una battaglia per l'etica e la trasparenza, tra filantropi annunciati e mai arrivati e ambizioni di potere. Ma non solo.
Già un mese fa, nel mezzo della lotta per la successione a don Luigi Verzé alla guida dell'ateneo, il professor Antonio Emilio Scala va all'attacco: «La raccomandata inviata in via Favre 6, a Chiasso, è ritornata indietro con l'indicazione: "Il destinatario è irreperibile all'indirizzo indicato". Resto tuttora in attesa di precisazioni». Lì, a Chiasso, doveva esserci la sede legale della Marcus Vitruvius Foundation (MVF), la pluriannunciata charity internazionale che avrebbe dovuto investire nell'ateneo un miliardo di dollari in cinque anni. E, invece, niente. Così proprio a quell'Alberto Zangrillo ora candidato a diventare rettore — e tra i principali sostenitori della MVF — la fantomatica sponsorizzazione inizia a costare le prime grane. Un nuovo colpo al medico del Cavaliere arriva, poi, dalle pagine del Corriere, con una lettera della stessa De Monticelli dove — anche se senza far nomi — la filosofa solleva la questione della charity e ricorda i dubbi sollevati sulla sua esistenza da inchieste giornalistiche.
Altra lettera di Scala il 13 giugno, nuova dose di veleno: «Le risorse di cui l'Università ha assoluto bisogno sono la competenza, la qualità e lo spirito di appartenenza dei suoi docenti, l'entusiasmo, l'applicazione allo studio e alla ricerca dei suoi studenti, l'opera intelligente e la disponibilità di tutto il personale non docente e non i miracolistici quanto improbabili interventi di fantomatici finanziatori».
Così Zangrillo, ieri sera al telefono, s'innervosisce: «Per favore basta con la charity — dice —. Era nostro dovere, come va ripetendo anche Clementi (Massimo, preside di Medicina, ndr), vagliare l'opportunità di ricevere fondi di origine filantropica. L'operazione, almeno per il momento, è andata male? Pazienza, ma ciò non ha nulla a che vedere con la mia candidatura a rettore. Io mi sono messo semplicemente al servizio di un'istituzione, la mia storia e il mio curriculum scientifico parlano per me».
Tutti contro tutti? L'Università Vita Salute, che conta quasi duemila iscritti tra Medicina, Psicologia e Filosofia, è stata l'ultima roccaforte del potere di don Luigi Verzé e dei suoi fedelissimi (i Sigilli). Due di loro, Raffaella Voltolini e Gianna Zoppei, da sempre le più vicine al prete manager, siedono nel consiglio di amministrazione dell'ateneo che dovrà scegliere il rettore verosimilmente entro l'autunno. Le altre cinque poltrone sono occupate dai presidi Massimo Clementi e Michele Di Francesco (in rappresentanza del senato accademico), dagli uomini di legge Ruggero Pesce (magistrato) e Emanuele Rimini (avvocato) entrati con l'accordo dei commissari del Tribunale fallimentare, infine c'è il presidente del cda, Antonio E. Scala (ex preside di Medicina, considerato vicino alle Sigille e in stretti rapporti con l'ex ministro Ferruccio Fazio). Numerose cordate, con un unico obiettivo: comandare l'Università del San Raffaele.
Non mancano le incognite legate all'ingresso di Giuseppe Rotelli al San Raffaele: il neoproprietario entrerà con suoi rappresentanti anche nel cda dell'ateneo, modificando magari gli equilibri di potere? Lo farà prima o dopo l'elezione del nuovo rettore? Una cosa è certa: «Il recupero organico dell'attività didattica universitaria — dice l'imprenditore nel suo discorso d'insediamento, lo scorso 16 maggio — sarà obiettivo prioritario della mia gestione».

l’Unità 18.6.12
La «Carta dei diritti» fa fare al Pd un bel passo avanti
di Luigi Manconi


Lo dico subito e senza tentennamenti: considero il documento «Per una nuova cultura politica dei diritti» elaborato dal Pd un notevole passo avanti. Per argomentare questa affermazione, parto da una premessa fatalmente (e un po’ ignominiosamente) autoreferenziale. Un secolo fa, intorno al 1995, presentai al Senato due proposte di legge, rispettivamente sul testamento biologico e sulle unioni civili. L’iniziativa suscitò appena una certa curiosità: ma sul piano legislativo, va da sé, non se ne fece nulla.
È un dato imprescindibile, credo, perché dà la misura, per un verso, di quali e quante resistenze incontri la volontà di legiferare su quelle materie; e, per altro verso, di quanto sia maturato l’orientamento dell’opinione pubblica e persino quello di una parte della classe politica tradizionalmente arretrata, se non sorda, rispetto a quelle istanze. Tuttavia, quell’esperienza di oltre tre lustri fa, ha anche un altro significato, che non riguarda solo la mia biografia. Militavo, all’epoca, in un partito che raccoglieva il 2-3% dei consensi così come mi era accaduto in fasi precedenti della mia vita (quando il consenso era persino più esiguo).
Nel frattempo, il mio estremismo culturale e la mia vocazione minoritaria non si sono attenuati tant’è vero che, oltre a militare nel Pd, mi trovo così spesso a mio agio con i radicali ma ho ritenuto che quelle questioni, per potersi affermare richiedessero due essenziali condizioni. La prima: che diventassero patrimonio condiviso di un soggetto politico di massa e tendenzialmente maggioritario; la seconda: che quei temi si traducessero in proposta di governo.
In altre parole, che problematiche considerate “intrattabili” finalmente potessero essere “trattate” e trascritte in norme, diventando legge. Per tante e antiche ragioni che richiamano la storia e la geografia, le culture nazionali e le residuali ideologie più resistenti di quanto si creda questo in Italia richiede un percorso incredibilmente faticoso, per giunta soggetto a periodici arretramenti. Ed è proprio questo che rende tuttora indispensabile che l’azione ispirata a principi rigorosi e a valori forti e intensi si esprima e trovi spazio all’interno di un partito di massa influenzandone se ne è capace l’agenda politica e ancor prima gli orientamenti culturali e la mentalità condivisa.
Ecco, penso che ciò stia avvenendo, sia pure lentissimamente, all’interno del Pd; ed è quanto è avvenuto, nel corso di un anno e mezzo, all’interno del Comitato che ha elaborato il documento in questione. Ciò vuol dire forse che in quel documento (o addirittura nel partito) sia prevalso il radicalismo libertario? Non scherziamo. È successo, piuttosto, che un punto di vista, qual è quello nel quale mi riconosco e che si manifesta su vari temi (fine vita, unioni civili, autodeterminazione individuale, garantismo penale, immigrazione...) abbia avuto agio di esprimersi, di modificare posizioni preconcette, di ottenere importanti adesioni e, infine, un significativo riconoscimento nel testo finale. Così che, oggi, se quel documento diventasse davvero qualcosa di simile ad una «carta dei principi» del Pd, questo impegnerebbe il partito ad assumere posizioni e a battersi per normative ispirate a un impianto culturale profondamente innovativo.
Meno statalista e più attento ai diritti individuali, meno autoritario e più sollecito verso le istanze della soggettività, meno collettivista e più consapevole della possibilità che tra garanzie sociali e garanzie della persona non esista una gerarchia rigidamente definita. Non è un’acquisizione di poco conto ed è il risultato di una riflessione che ha attraversato in profondità tutte le componenti del Pd. Ci si è arrivati non come usa dire «cedendo un po’» o «rinunciando ciascuno a qualcosa». Ci si è arrivati, piuttosto, lo dico senza la minima enfasi, attraverso un laborioso percorso che ha conosciuto successive approssimazioni, per giungere, infine, a un esito comune.
In questo quadro, va apprezzato come assai importante un documento, dove si trova affermata la piena dignità e autonomia delle opzioni personali nella sfera sessuale e la piena dignità e autonomia delle modalità di relazione che ne discendono; e dove si sostiene la necessità di «speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali».
Non può sfuggire che, qui, si prevede una tutela giuridica non solo per i diritti soggettivi, ma anche per quelli propri di una relazione di coppia. Non si parla di «matrimonio omosessuale»? Certo, non se ne parla, ma una «carta dei principi» deve affermare questi i principi, appunto e non indicare le soluzioni normative. Di più: l’interesse di chi al riconoscimento del matrimonio omosessuale tenda (e io tra questi) è proprio quello di disporre di un quadro culturale e morale in cui sia possibile iscrivere le forme legislative, che i rapporti di forza e la lotta politica e le maggioranze parlamentari consentiranno.

La Stampa 18.6.12
Vaticano
L’ex maggiordomo arrestato un mese fa indica laici e alti prelati
Corvi, il Papa conosce le loro identità
di Giacomo Galeazzi


«Vatileaks», il cerchio si stringe. Dagli interrogatori di Paolo Gabriele sono emersi mandanti e complici. L’ampia collaborazione dell’ex maggiordomo papale, detenuto da quasi un mese in una cella di sicurezza del Palazzo del Gendarmeria, ha portato gli inquirenti a individuare le responsabilità di laici e prelati. Sono così affiorati i nomi dei sospettati che la commissione cardinalizia ha riferito sabato al Pontefice e che già in settimana potrebbero essere resi pubblici. Alcuni capi dicastero e presuli emeriti (interrogati dai loro pari grado Herranz, Tomko e De Giorgi) non avrebbero fornito spiegazione ritenute sufficienti sulle fughe di notizie e il passaggio di documenti riservati. Le rogatorie per i cittadini italiani, invece, saranno necessarie solo per coloro che non si presenteranno spontaneamente ai colloqui quali persone informate dei fatti. Intanto movente e finalità configurano una sorta di «congiura di corte» orchestrata per mutare gli assetti del potere curiale in previsione del conclave. La magistratura ritiene che l’aiutante di camera del Pontefice abbia agito su ordine e indicazione di qualcuno, con l’aiuto di giornalisti amici e dipendenti della Santa Sede. E, come ribadisce il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, Paolo Gabriele non è un capro espiatorio. «Anche i tre porporati che indagano hanno ascoltato il maggiordomo trovato con le fotocopie della corrispondenza privata di Benedetto XVI», evidenzia l’agenzia cattolica Zenit. Per furto aggravato, Gabriele rischia otto anni di carcere, ma la sua posizione giudiziaria si è alleggerita da quando fornisce agli inquirenti circostanze e nomi. Il Papa segue da vicino l’evoluzione delle indagini. All’inchiesta penale si affianca il calendario di audizioni e accertamenti svolti parallelamente all’indagine dei magistrati e della Gendarmeria. Essendo al più alto livello, la commissione cardinalizia è l’unica autorizzata a indagare sui porporati. Sono stati sentiti prelati e laici. Altri sono in programma. Sabato il Pontefice ha voluto dare il suo personale «imprimatur» al prosieguo degli accertamenti. Intanto per il maggiordomo lo stato di custodia cautelare continua: il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet si è riservato la decisione sull’istanza di scarcerazione presentata per il loro assistito dagli avvocati difensori Carlo Fusco e Cristiana Arrù. Ora per lui riprendono gli interrogatori formali, «anche alla luce degli approfondimenti delle indagini e allo studio dei documenti effettuati in questi giorni», puntualizza padre Lombardi. E anche il fatto che i tre cardinali siano tutti «emeriti», liberi da incarichi pastorali o di Curia, e per di più ultra-ottantenni, quindi slegati da un futuro Conclave, indica come possano operare con le mani libere e col più ampio mandato. Sentendo quindi anche capi di uffici vaticani, compresi loro pari grado, senza problemi gerarchici. E infine riferendo direttamente al Papa, senza mediazioni di sorta.

La Stampa 18.6.12
In video a Dublino
Benedetto XVI parla di pedofilia


Lo scandalo della pedofilia ha «minato la credibilità del messaggio della Chiesa», e per il Papa «rimane un mistero» come sacerdoti e religiosi abbiano potuto «offendere in tale maniera». Nel video messaggio trasmesso ieri a Dublino a chiusura del 50/o Congresso eucaristico internazionale, Benedetto XVI ha parlato alle decine di migliaia di fedeli riuniti nella capitale di un Paese in cui la Chiesa è stata fortemente colpita dalla piaga degli abusi sui minori. Parlando della storia della Chiesa in Irlanda che «è stata una potente forza di bene nel mondo», il Papa ha sottolineato che «ringraziamento e gioia per una così grande storia di fede e di amore sono stati di recente scossi in maniera orribile dalla rivelazione di peccati commessi da sacerdoti e consacrati nei confronti di persone affidate alle loro cure».

l’Unità 18.6.12
I dati dell’UNHCR. Un mondo di rifugiati
Sono milioni: in fuga dalla guerra e dalla fame
Il dossier annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite racconta un universo parallelo tragico: l’esodo forzato di uomini, donne e bambini dai teatri della crisi
di Umberto De Giovannangeli


UN QUADRO INQUIETANTE. UN FENOMENO IN CRESCITA. IL 2011 HA FATTO REGISTRARE UN TRISTE RECORD RELATIVO ALLE PERSONE FUGGITE DAL PROPRIO PAESE: il numero di persone diventate rifugiate lo scorso anno è stato infatti il più alto dal 2000. È quanto emerge dal rapporto annuale pubblicato oggi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Nella pubblicazione «2011 Global Trends» l’Unhcr presenta informazioni e dati dettagliati sulla portata delle migrazioni forzate provocate da una serie di gravi crisi umanitarie, cominciate alla fine del 2010 in Costa d’Avorio e seguite da altre in Libia, Somalia, Sudan e altri Paesi.
Complessivamente 4,3 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie aree d’origine, 800.000 delle quali attraversando il confine dei propri Stati e diventando rifugiati. «Il 2011 ha visto sofferenze di dimensioni memorabili. Il fatto che così tante vite siano state sconvolte in un periodo di tempo così breve implica enormi costi personali per tutti coloro che ne sono stati colpiti», rimarca António Guterres, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati a capo dell’Unhcr. «Possiamo solo essere grati del fatto che nella maggior parte dei casi il sistema internazionale atto a proteggere queste persone sia rimasto saldo e che le frontiere siano rimaste aperte. Questi sono tempi difficili».
Difficoltà che spesso, troppo spesso, si trasformano in tragedie collettive. Alla fine del 2011 in tutto il mondo vi erano 42,5 milioni di persone tra rifugiati (15,4 milioni), sfollati interni (26,4 milioni) o persone in attesa di una risposta in merito alla loro domanda d’asilo (895.000). Nonostante l’elevato numero di nuovi rifugiati, la cifra complessiva è risultata inferiore al totale del 2010 (43,7 milioni), soprattutto per effetto del ritorno alle proprie case di un gran numero di sfollati: 3,2 milioni, la cifra più alta da oltre un decennio. Per quanto riguarda i rifugiati, nonostante un incremento nel numero dei rimpatri rispetto al 2010, il 2011 si trova comunque al terzultimo posto per numero di ritorni a casa (532mila) nell’ultima decade.
Considerato in un’ottica decennale, il rapporto evidenzia diverse tendenze preoccupanti. In primo luogo, il fenomeno delle migrazioni forzate colpisce numeri maggiori di persone a livello globale, con cifre annuali che superano i 42 milioni di persone in ognuno degli ultimi 5 anni. Inoltre, una persona che diventa rifugiato è probabile che rimanga in tale condizione per molti anni, spesso bloccato in un campo profughi o vivendo in condizioni precarie in un centro urbano: dei 10,4 milioni di rifugiati che rientrano nel mandato dell’Unhcr infatti quasi i tre quarti (7,1 milioni) si trovano in esilio protratto da almeno 5 anni, in attesa di una soluzione alla loro condizione. Una soluzione sempre più problematica.
Complessivamente l’Afghanistan si conferma il Paese d’origine del maggior numero di rifugiati (2,7 milioni), seguito da Iraq (1,4 milioni), Somalia (1,1 milioni), Sudan (500.000) e Repubblica Democratica del Congo (491.000). Circa i 4/5 dei rifugiati di tutto il mondo fuggono nei Paesi limitrofi. Ciò si riflette ad esempio nelle numerose popolazioni di rifugiati presenti in Pakistan (1,7 milioni), Iran (886.500), Kenya (566.500) e Ciad (366.500). Tra i Paesi industrializzati il principale paese d’accoglienza è la Germania, con 571.000 rifugiati. Il Sudafrica è invece il primo Paese per numero di domande d’asilo ricevute (107.000), confermando la posizione degli ultimi 4 anni. L’Italia, con 58mila rifugiati, presenta cifre contenute rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, in termini sia assoluti che relativi. In Francia, Paesi Bassi e Regno Unito i rifugiati sono tra i 3 e i 4 ogni 1.000 abitanti, in Germania oltre 7, in Svezia oltre 9, mentre in Italia meno di 1 ogni 1.000 abitanti. Per quanto riguarda le domande di asilo, nel 2011 sono state presentate poco più di 34mila domande. Un incremento, rispetto agli anni precedenti, determinato dagli effetti della Primavera araba e della guerra in Libia.
AIUTI AGLI SFOLLATI
Il mandato originario dell’Unhcr prevedeva l’assistenza ai rifugiati, ma nei suoi 6 decenni di vita l’Agenzia ha esteso l’attività includendovi anche l’assistenza a molte delle persone sfollate all’interno dei propri Paesi, alle persone apolidi coloro cioè che non hanno una cittadinanza riconosciuta e alle questioni relative ai diritti umani che accompagnano tali fenomeni. Il rapporto «2011 Global Trends» rileva che solo 64 governi hanno fornito dati sulle persone apolidi. Da ciò consegue che l’Unhcr ha potuto raccogliere cifre solo per un quarto degli apolidi di tutto il mondo, il cui numero è stimato in circa 12 milioni. Dei 42,5 milioni che alla fine del 2011 si trovavano in stato di migrazione forzata, non tutti rientrano nella competenza dell’Unhcr. Complessivamente il numero di rifugiati e sfollati assistiti dall’Unhcr 25,9 milioni è aumentato di 700.000 unità nel 2011.

Corriere 18.6.12
L'utopia tecnocratica delle origini non basta più ai cittadini d'Europa
di Ian Buruma


Ci sono idee eccelse che, come splendidi oggetti che racchiudono una bomba a orologeria, contengono sin dal loro concepimento un difetto fatale. E il sogno di un'Europa unita, sebbene lungi dall'essere esplosivo, potrebbe rivelarsi un triste esempio di questo assunto. Per capire la crisi in corso sarebbe utile rivolgere lo sguardo verso le origini intellettuali dell'Unione europea.
Tra i principali architetti dell'unione vi fu Jean Monnet, diplomatico ed economista francese, che trascorse gran parte della Seconda guerra mondiale a Washington, in veste di negoziatore per gli alleati europei. Dopo la sconfitta tedesca, si rafforzò in lui la convinzione che solo un'Europa unita avrebbe potuto scongiurare il ripetersi di un conflitto catastrofico in Occidente. «Non ci sarà pace in Europa - scrisse nelle sue memorie - «se gli Stati verranno ricostruiti sulla base della sovranità nazionale».
Quasi all'unanimità il continente europeo, stremato dalla guerra e davanti alle istituzioni in rovina delle nazioni devastate, si disse d'accordo. Solo gli inglesi, vittoriosi e con le loro vecchie istituzioni sopravvissute pressoché intatte, levarono una voce di dissenso.
In realtà, l'ideale di un'Europa unita risale molto addietro nel tempo. Se non proprio all'antica Roma, certamente al Sacro romano impero del X secolo. Da quell'epoca in poi, l'ideale europeo ha subito molti cambiamenti, ma due sono stati i temi costanti. Il primo, l'ideale di una cristianità unificata, con l'Europa al suo centro. Il duca di Sully (1559-1641) evocò una repubblica europea cristiana, cui avrebbero potuto aderire anche i turchi, se si fossero convertiti.
L'altro ideale si richiama all'aspirazione alla pace eterna. Nel 1713, un altro francese cattolico, l'Abbé de Saint-Pierre, pubblicò il suo «Progetto per la pace perpetua in Europa», che prevedeva un senato e un esercito europei, e pari diritto di voto agli stati membri più grandi.
In un certo senso, nella mente dei primi pensatori pan-europei, l'ideale di pace eterna confluiva in quello dell'unità di tutti i cristiani.
Dopo l'Illuminismo, l'universalismo religioso fu adottato senza problemi anche dai razionalisti. Lo statista francese dell'800, Alphonse de Lamartine, scrisse un'ode all'unità europea, nutrita di ispirazione razionalista, intitolata Marsigliese della pace. Non è difficile immaginare perché il concetto di un mondo pacifico e senza frontiere, dove le divisioni e gli scontri politici sono stati superati, esercitasse un tale fascino dopo la Seconda guerra mondiale. Molti videro nel nazionalismo che aveva devastato l'Europa l'espressione del Male assoluto. Solo un mondo libero dalla lotta politica poteva garantire una pace duratura.
Monnet era un tecnocrate convinto, che detestava il conflitto politico e credeva ciecamente nell'unità. (Nel 1940, quando Hitler appariva invincibile, Monnet giunse a suggerire a Winston Churchill di conglomerare Francia e Gran Bretagna in un'unica nazione).
L'ideale post-bellico di un'Europa unita incarnò davvero il sogno del pianificatore, una sorta di Utopia tecnocratica, che coincise, certamente per Monnet e per gli altri padri fondatori dell'Europa rinata dalle macerie della guerra, con un ideale nobilissimo, interamente positivo e pacifico. Il guaio dei tecnocrati, però, è quello di sottovalutare le conseguenze politiche dei propri progetti. Si lanciano sulla loro strada come se la politica non esistesse, o fosse un inconveniente trascurabile.
La recente dichiarazione di Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, sulle sue scarse simpatie per le sofferenze dei greci, perché avrebbero dovuto pagare le tasse, è stata ampiamente criticata non solo per la mancanza di tatto, ma anche per la profonda ipocrisia, poiché in quanto diplomatico la stessa Lagarde non paga tasse. Ecco, questo piccolo incidente illustra la tipica sensibilità di un tecnocrate autoritario privo del benché minimo fiuto politico. Le devastanti misure di austerità emanate a Bruxelles e a Washington da burocrati non eletti dal popolo offeso, non rappresentano solo una calamità sociale, ma anche una pericolosa minaccia alla democrazia. Quando i cittadini perdono la fiducia nelle istituzioni democratiche nate appunto per tutelarli, la società tutta rischia di scivolare verso l'estremismo.
E così, in mancanza di un miracolo, la bomba a orologeria contenuta nel nobile idealismo post-bellico si avvicinerà pericolosamente al momento critico. Abbiamo toccato i limiti dell'utopismo tecnocratico. Un'integrazione ancor più forte imposta a tutti tramite l'unione fiscale sarà pure la soluzione razionale all'attuale crisi finanziaria, ma essa incarna una risposta tecnocratica che non contribuirà in nessun modo a rendere l'Europa più democratica ma che, anzi, rischia di scatenare reazioni estreme.
Da tutto questo appare chiaro che la tecnocrazia funziona bene fintanto che la gente ne ricava benefici materiali, come è successo in Europa negli ultimi cinquant'anni, e come accade ancora oggi in Cina. Ma il meccanismo si romperà alla prima crisi. L'Europa ne paga già le conseguenze in questi giorni.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 18.6.12
Per fame o per soldi: l'epopea dei briganti
Un flagello estraneo al crimine organizzato che infuriò per secoli anche al Nord
di Sergio Rizzo


Preparavano i bagagli e salutavano le persone care. Ma prima di mettersi in viaggio non si dimenticavano di fare testamento. Nel Settecento e nell'Ottocento succedeva in tutta Italia, da Como alla Calabria. Lo raccontano testimoni del calibro dell'intellettuale campano Giuseppe Maria Galanti o dello scienziato e patriota lecchese Antonio Stoppani, a dimostrazione dei rischi ai quali si andava incontro allora per le strade italiane. Che non pullulavano certo di Tir, né di auto guidate il sabato sera da giovani ubriachi appena usciti dalla discoteca. Ma di briganti. L'Italia ne era piena. Ne è sempre stata piena, finché quello che viene definito il «fenomeno» del brigantaggio non fu stroncato dallo Stato unitario.
La formidabile galleria tratteggiata da Enzo Ciconte nel suo volume Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all'Ottocento, da poco in libreria per i tipi di Rubbettino, si chiude con il bandito Giuseppe Musolino, detto il «re dell'Aspromonte». Figura a suo modo epica e di fortissima connotazione popolare, al punto da ispirare Giovanni Pascoli per un'ode rimasta poi incompiuta, muore ottantenne nel 1956: dopo quarantacinque anni di carcere e dieci di manicomio. Difficile dire se fosse davvero l'ultimo dei briganti, ma è certo che con lui scompare un mondo che per secoli ha percorso una strada parallela a quella della storia d'Italia. Un mondo fatto di violenza, coraggio, viltà, lealtà, tradimento, avidità, corruzione, egoismo, solidarietà. E le cui origini sono del tutto sconosciute. Ma non le ragioni per cui la penisola italiana ne diventa il terreno fertile. Il fatto è che a partire dal Cinquecento l'Italia è attraversata da scontri sanguinosi, senza soluzione di continuità. Ed è seguendo il filo rosso del sangue e del denaro che il brigantaggio prospera, fino a diventare, nello Stato unitario, un vero e proprio contropotere.
«Nel 1559», racconta Ciconte, «la fine delle guerre d'Italia lascia sul lastrico un numero enorme di persone, abili a combattere, ma che non sono più abituate al lavoro dei campi. Molti di costoro forniscono schiere e schiere di fuorilegge radunati in bande. Non c'è da stupirsi che anche nel Veneto del Seicento molti delinquenti siano soldati, costretti a quella scelta per integrare la misera paga giornaliera». Ma se il fenomeno è diffuso in tutta Italia, è al Sud che tocca l'apice. «La Calabria del Cinquecento produce tanti briganti perché è in quel secolo che la condizione di vita dei contadini e dei diseredati spesse volte raggiunge punte di insopportabilità tali da spingere le popolazioni a scoppi irrefrenabili d'ira violenta contro i baroni e i signori locali». Alle rivolte spesso si univano anche i frati. Una situazione nella quale, ricorda Ciconte, «giganteggia la figura di Tommaso Campanella», che tuttavia non riuscirà a «instaurare una repubblica comunista e teocratica come quella immaginata nella Città del Sole».
Alcuni briganti sono abilissimi nell'utilizzare a proprio vantaggio i contrasti fra i poteri locali. È il caso dell'abruzzese Marco Sciarra, detto «Flagellum Dei»: nemico pubblico numero uno per lo Stato pontificio; protettissimo dalla Repubblica di Venezia. Né mancano i banditi che si fanno direttamente braccio armato dei potenti e dei nobili, qual è, per esempio, Francesco Marocco detto Tartaglia, ciociaro di Sora, al servizio di Paolo Giordano Orsini. Oppure Pietro Mancino, una specie di Francis Drake pugliese, che per conto dei francesi e del Papa è la spina nel fianco del Regno di Napoli.
Va da sé che per stroncare il brigantaggio non si esitasse a ricorrere a ogni mezzo. Ivi incluse le atrocità. «Di questi tempi è frequente», scrive Ciconte, «trovare agli angoli delle strade i cadaveri, o pezzi di essi, dei banditi orrendamente sfregiati e tagliati in quarti; è un fatto consueto, fa parte del panorama abituale perché tutti sono convinti che l'orribile spettacolo possa essere d'esempio». Un macabro rituale che si ripeterà per secoli, fino alla vigilia dell'Italia unita, nello Stato pontificio.
«Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d'una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un'accetta gli spaccai il petto e l'addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo». L'autore di questa sconvolgente descrizione altri non è che Giovanni Battista Bugatti, meglio noto come Mastro Titta: il boia del Papa che per ben 68 anni, dal 1796 al 1864, eseguì le sentenze capitali emesse dal tribunale dello Stato della Chiesa. Aveva 17 anni quando uccise il suo primo uomo, 85 quando chiuse una carriera durante la quale per ben 77 volte aveva squartato un cadavere: fosse quello di un brigante o di un semplice furfante.
Nemmeno le pene più atroci, come la tortura, né le leggi più infami avrebbero tuttavia spezzato il legame, inevitabile, fra briganti e alcuni strati popolari. Ci sono perfino momenti in cui le bande si fanno esercito «di liberazione». In alcune zone del Sud, come l'Abruzzo, i briganti combattono con i sanfedisti per restituire ai Borbone il regno che gli è stato sottratto dai rivoluzionari francesi. Tragica premessa per quella dolorosa pagina storica derubricata per lunghi decenni sotto la voce «repressione del brigantaggio», ma che in realtà ha assunto nel Mezzogiorno dopo il 1861 i contorni di una vera e propria guerra civile.
Nella ribellione al governo giacobino di Gioacchino Murat emergono banditi leggendari, che sono condottieri in piena regola: come Michele Pezza da Itri, detto «Fra Diavolo». Ciconte ci racconta che, con il momentaneo ritorno dei Borbone a Napoli, «mantiene il grado di colonnello, ottiene una pensione ed è nominato Duca di Cassano». Poi tornano i francesi e lo impiccano. Uno dei tanti. «Murat individua nel brigantaggio l'arma più importante usata da inglesi e borbonici contro il suo regno e decide di non accettare più quella situazione», spiega l'autore. Dà quindi una terrificante carta bianca al suo generale Charles-Antoine Manhès: «È una guerra di sterminio che voglio fare a questi miserabili». Ed è quello che accade.
Il problema si ripeterà quando arriverà l'esercito piemontese. Ma «non c'è bisogno dei soldi dei Borbone per accendere la rivolta», commenta Ciconte. «Molti li accendono i galantuomini che con la coccarda tricolore s'insediano nei posti di potere e comandano più di prima… Altri li accende la chiamata alle armi delle quattro classi più giovani e poi una successiva chiamata, per il solo Mezzogiorno, di 36 mila uomini con una ferma che ha durata quinquennale… I giovani meridionali non hanno alcuna intenzione di vestire la divisa del re piemontese. Molti per non fare il soldato si fanno briganti… I boschi pullulano d'altri giovani. Sono i soldati borbonici che rientrano nelle loro case… Gli ufficiali trovano un posto nel nuovo esercito, i soldati no… Ad essi s'aggiungono i soldati dell'esercito meridionale garibaldino che viene sciolto. Molti di loro diventeranno provetti capibanda». Ma senza subire, a quanto pare, il fascino della via mafiosa al crimine.
«Tra brigantaggio, mafia, camorra e 'ndrangheta», afferma Ciconte, «non c'è alcun nesso. In Calabria il brigantaggio non ha interessato l'attuale provincia di Reggio Calabria. In Abruzzo, Puglia e Basilicata ci sono stati briganti, non mafiosi. In Campania il brigantaggio interessa le province di Terra di Lavoro e dei Principati e non la città di Napoli, che è il cuore della camorra». In Calabria «lo scenario delle gesta brigantesche è identico a quello delle lotte contadine. Si può arrivare a dire che… briganti e moti contadini hanno scacciato da quelle terre la 'ndrangheta, ne hanno impedito la formazione».

Repubblica 18.6.12
Scalfari racconta Repubblica “Noi, tra politica e sentimento”
di Simonetta Fiori


C’è un clima di allegria nel grande salone medioevale che accoglie con una standing ovation Eugenio Scalfari. L’“allegria degli affetti”, quelli della sua estesa famiglia allargata che è il giornale. E “l’allegria delle opere” condivise insieme ai numerosissimi lettori e lettrici che ora sottolineano con il battimani i passaggi politici e sentimentali d’un lungo cammino. È una grande festa, questa che si svolge a Bologna, e non poteva mancare il fondatore di Repubblica, sollecitato sul palcoscenico da Concita De Gregorio. Un viaggio nella memoria dalle molte tonalità, civili e personali, che si svolge davanti a un’affollatissima platea sintonizzata sulle stesse corde. La questione morale. La politica intesa come servizio. L’Italia migliore che è rimasta minoranza. «Non sono mai stato comunista, la mia estrazione è diversa», dice Scalfari. «Ma in questi casi mi verrebbe da salutare con il pugno chiuso». Un paradosso per un liberale di sinistra? «Dico quel che sento», e ha la libertà per farlo. Nelle prime file ci sono alcuni dei suoi antichi compagni di viaggio, come Bernardo Valli, che arrivò in piazza Indipendenza pochi anni dopo quel 14 gennaio del 1976, quando dalla piccola rotativa “Goss” uscì il primo numero di Repubblica. E c’è Ezio Mauro che da sedici anni, nel maremoto dell’Italia, tiene il timone del giornale. Succede nelle feste di famiglia, ci si commuove un po’. Così quando Scalfari ringrazia il suo successore, «non posso dire che lo considero un figlio, ma quasi», e il pubblico partecipa con un applauso in crescendo, l’emozione prende il sopravvento. «Di solito gli ex direttori vengono mandati lontano, in qualche importante redazione estera. Io con Ezio mi sento tre volte al giorno». Abbracci, qualche lacrima. Ragione e passione, il giornale è anche questo. Il senso di una storia non può che essere corale. Così Scalfari ripercorre il suo viaggio straordinario – dal Mondo all’Espresso a Repubblica – pescando dalla memoria gli amici che non ci sono più. Peppe D’Avanzo. Miriam Mafai. Giorgio Bocca. Ecco la storia di un giornale che è anche la storia di un paese segnato da alcuni vizi costanti. Dall’“Italia alle vongole” contro cui s’impegnava il Mondo (l’antenato del quotidiano) all’Italia “insofferente alle regole”, “che non ha il senso dello Stato”, “che insegue interessi particolari e mai generali”, contro cui oggi combatte Repubblica. E il futuro, come scriverlo? Concita De Gregorio riconduce al tema del festival, e Scalfari fa piazza pulita di molti luoghi comuni radicati anche a sinistra. L’antipolitica? «La politica è ineliminabile, come la metafisica o la trascendenza. Necessaria, come lo sono i partiti. La stortura è che da decenni hanno occupato lo Stato. La vera riforma è questa: la disoccupazione delle istituzioni». Grillo e i grillini. «Da un po’ di tempo sento dire che Grillo è un cosa, i grillini un’altra. Non è così. Ma avete letto i programmi di Grillo? Vuole abolire i partiti e le banche. Un’assurdità, smentita dal suo stesso movimento che inevitabilmente si farà partito». Il governo Monti. «Anche tra i miei amici s’usa dire: i primi due mesi ero contento, ora però... Sono passati solo sette mesi. Noi abbiamo avuto governi che in dieci anni non hanno piantato un chiodo». La lista di Repubblica? «Alcuni la incoraggiano, altri ne sono terrorizzati. Sentimenti inutili, perché la lista non c’è». C’è la festa, quella sì. Il viaggio della memoria s’è concluso, Scalfari scende dal palco per raggiungere la moglie Serena e la figlia Enrica. La folla lo lambisce, una signora gli grida “grazie”. Sì, “grazie”, in tanti lo ripetono, una parola breve per dirgli molte cose.