sabato 5 maggio 2012

l’Unità 5.5.12
Il segretario Pd conclude la campagna elettorale con Doria a Genova
«Leali a Monti ma indichiamo cosa faremo una volta al governo»
Bersani: è il momento del centrosinistra in Italia e in Europa
Bersani chiude a Genova la campagna per le amministrative: «Può cominciare una fase di cambiamento». Al governo chiede politiche per la crescita e alleggerire l’Imu, affiancandole una tassa patrimoniale.
di Simone Collini


«Per un decennio la destra ha governato in Europa e in Italia. Il risultato lo abbiamo davanti. Ma ora può partire il rilancio del centrosinistra». Pier Luigi Bersani lega presidenziali francesi e amministrative nostrane. Tra i due tipi di voto non c’è solo la contemporaneità temporale. Per il leader del Pd dalle prossime ore può «cominciare una fase di cambiamento», perché il risultato d’oltralpe, domani sera, può far mutare di segno la politica europea, troppo timida con la finanza e troppo centrata sulla disciplina di bilancio, e perché i dieci milioni di italiani che domani e dopodomani si recheranno alle urne voteranno sì per le loro città, ma anche per dare un segnale di «riscossa politica e civica» nelle prime elezioni dell’era post-Berlusconi.
PD PER LA RICOSTRUZIONE
Bersani ha giocato tutta questa campagna elettorale presentando il Pd come il partito della «ricostruzione», leale col governo a cui ha garantito il sostegno fino alla fine della legislatura ma impegnato a mostrare agli italiani «cosa farebbe e cosa farà quando sarà al governo». Crescita, lavoro, solidarietà, sociale sono le parole che è andato ripetendo in tutte le piazze d’Italia, difendendo la scelta del governo tecnico a scapito delle elezioni anticipate («non voglio vincere sulle macerie del mio Paese») ma lanciando a Monti segnali piut-
tosto chiari. Anche ieri, al fianco di Marco Doria a Genova, città scelta per la chiusura di questa campagna elettorale, Bersani ha ribadito che il suo partito «manterrà la parola» sul sostegno all’esecutivo, anche quando dalla piazza si sono levati numerosi fischi all’indirizzo del governo, mentre il leader del Pd diceva che «la situazione è seria, le banche non danno i soldi, vediamo il peso di una tassazione e tutto questo crea disagio e rabbia».
MODIFICARE L’IMU
L’appoggio a Monti non è in discussione, ma Bersani chiede politiche per la crescita e non solo regole sul mercato del lavoro («con queste non si mangia»), chiede di «attivare un po’ di pagamenti» e di «far girare liquidità», chiede di alleggerire l’Imu, affiancandole una tassa sui grandi patrimoni immobiliari, e di lasciarla ai comuni, magari diminuendo i trasferimenti dello Stato ma garantendo ai sindaci una base di autonomia fiscale.
Il livello di consenso che incasserà il Pd nel voto di domani e dopodomani dirà quanta forza avranno queste richieste. Anche rispetto alle richieste, nella quasi totalità dei casi di segno opposto, provenienti dal Pdl («noi possiamo dire se qualcosa che fa il governo non va bene  è il messaggio che invia ad Alfano voi che per tre anni avete detto che la
crisi era una favola dovete stare zitti»).
FRANCIA E ITALIA
Ma Bersani già guarda anche al dopo amministrative. E quanto sta avvenendo oltralpe viene giudicato dal leader del Pd positivamente anche da questo punto di vista. Non c’è solo il fatto che il leader di una forza progressista comeFrançois Hollande abbia la forte possibilità di diventare il prossimo presidente della Francia. Il fatto è che attorno al leader del partito socialista si è costruita in questo secondo turno delle presidenziali un’alleanza che va dall’esponente di sinistra Jean-Luc Mélenchon al centrista François Bayrou.
Un modello che ricalca la coalizione tra progressisti e moderati a cui sta lavorando Bersani per il 2013. «Da due anni io propongo un incontro tra un centrosinistra di governo e un centro moderato saldamente democratico», sottolinea. «Adesso che sia Mélenchon che Bayrou votano per Hollande, forse si capirà che non stavo dicendo cose così assurde». La natura del voto di domani e dopodomani, fortemente condizionato dalle diverse caratteristiche territoriali, non ha consentito di arrivare ora a un modello di questo tipo. Ma Bersani è convinto che per le politiche il discorso sarà diverso, e anche in Italia si potrà ripetere quanto avvenuto in Francia, con «forze progressiste e di sinistra che cercano di organizzare un campo rivolgendosi a forze moderate saldamente democratiche contro una destra condizionata dal populismo». Un modello che Bersani vede all’opera anche al di fuori dei confini segnati da Pdl e Lega. L’attacco, sferrato proprio a Genova, è per Beppe Grillo, che «come tutti i populismi visti nella storia d’Italia, fa finta di partire a sinistra e poi ti sbuca a destra».

Corriere 5.5.12
Citazioni di Tucidide e aria vecchio Pci

La corsa di Doria per guidare Genova
Il candidato «arancione» e la lite con i grillini. Le spaccature del centrodestra

di Marco Imarisio

GENOVA — Grazie partigiano Nullo, ovunque tu sia. «Io non mi vergogno del nome, e non lo cambio». La frase era questa. Giancarlo Pajetta la pronunciò parlando del vecchio Pci, mentre sul palco di piazza Matteotti Marco Doria sembra riprodurla alla lettera quando parla di cosa significhi il suo essere di sinistra.
«Confessi, lei ha citato». «No, giuro che era involontario, anche se in vita mia ho avuto il piacere di conoscere Pajetta. Al massimo si è trattato di un riflesso pavloviano...». Subito dopo accade l'imponderabile. Il candidato sindaco del centrosinistra, vincitore a sorpresa delle primarie corse da indipendente contro il Pd, si fa una risata.
Dunque è successo, per ben due volte, a poche ore dal voto. La prima è stata opera di un comico di professione, Dario Vergassola. Marco Doria è capace di ridere. Alla chiusura della sua campagna elettorale, festa e musica, l'ispiratore Giuliano Pisapia al suo fianco, è caduto anche l'ultimo tabù, dopo due mesi di una campagna elettorale animata, si fa per dire, da protagonisti così quieti da sembrare rassegnati a un epilogo invero piuttosto annunciato. «Non sono un musone, ma neppure un tribuno, questo è certo. Quando parlo cerco di non semplificare le cose se non sono semplici. Non amo alleggerire per il gusto di farlo. La politica è una cosa nobile e seria».
Sui quarti di nobiltà di Marco Doria — figlio di Giorgio, il marchese rosso che osò iscriversi al Pci e fu diseredato da una famiglia che vanta tra i suoi antenati il celebre ammiraglio Andrea fondatore della Repubblica marinara e una trentina almeno di altri avi che danno il loro nome ad altrettanti palazzi storici della città, compreso quello del Comune — si è già scritto tutto il possibile. Su una serietà che ogni tanto rischia di essere un boomerang, meno. Che si tratti di circoli dei pensionati o di giovani dei centri sociali, il lungo passaggio sulla difesa della Costituzione e sui valori della sinistra storica è ormai diventato un tormentone. E i suoi collaboratori ricordano ancora con sgomento la lunga dissertazione su Tucidide inflitta ai portuali che lo ascoltavano nel loro circolo ricreativo.
Ma proprio in queste caratteristiche desuete c'è tutto il paradosso di questa elezione genovese. Nella città di Beppe Grillo, dove il Movimento a cinque stelle è dato in ascesa, il grande sconvolgimento delle primarie e la conseguente eutanasia del Pd spaccato tra due candidate, ha prodotto un candidato sindaco color arancione che è l'esatto contrario dell'antipolitica. Non c'è nulla di più nuovo del vecchio, e in qualche modo la presa rapida che Doria ha avuto sulla sinistra genovese va attribuita soprattutto al suo essere, come dire, abbastanza Pci di una volta. Serio, a volte algido, poco accomodante, aiutato in questo da un certo distacco nobiliare. «Possiamo darci del tu» gli disse al primo dibattito pubblico il candidato leghista Edoardo Rixi. «Non vedo alcuna necessità di farlo» replicò Doria. «Meglio precisare: non appartengo al alcun partito ma amo molto la politica, intesa come impegno civile per affrontare i problemi della società. I valori storici della sinistra devono essere uniti alla capacità di leggere la società di oggi, di tutela dei beni comuni, di ripensare il rapporto tra istituzioni e cittadini».
La contesa sulle origini politiche di Doria ha finito presto per diventare ideologica, restringendo lo spazio di discussione sul futuro di una città che fatica a intravederne uno. Gli ultimi dati elaborati dalla direzione statistica del Comune mostrano come a Genova i prezzi di quasi ogni bene crescano più velocemente della media nazionale, quasi lo 0,5% mensile in più, e questo nel luogo con la percentuale più alta di pensionati. All'inizio di giugno Fincantieri consegnerà la sua ultima nave, e da allora comincerà l'attesa per una nuova commessa, il comparto energia di Ansaldo è in grave difficoltà, anche porto è in sofferenza.
Ma tutto questo è rimasto quasi sullo sfondo dei litigi tra parenti prossimi. A lungo il centrodestra genovese ha studiato come sfruttare lo psicodramma delle primarie Pd. Si è arrovellato, ha verificato, pensato, poi come al solito ha obbedito a Claudio Scajola. Il risultato è stato la candidatura in quota Pdl di Pierluigi Vinai, membro della Fondazione Carige, considerato molto vicino all'Opus Dei, persona gradevole e molto impegnata nel mondo del volontariato cattolico, che sembra elidersi con quella del più noto Enrico Musso, senatore, ex sfidante berlusconiano di Marta Vincenzi, oggi in corsa solitaria per il Terzo polo. Naturalmente, i due non hanno fatto che prendersi a sportellate. «Peggio ancora di Doria, il senatore è figlio dei poteri forti genovesi, della famiglie che hanno sempre avuto le mani sulle città» dice il primo. «Doria è il vecchio, ma Vinai è solo un grigio funzionario di partito» replica il secondo.
L'unione fa la forza anche a sinistra. Il programma del candidato grillino Paolo Putti, tre figli, animo mite, fiero disaccordo con le sparate «leghiste» del fondatore di M5S, è simile a quello di Doria. «Vero» ammette lui. «Le similitudini sono evidenti». E allora? «Beh, lui ha già preso accordi con i partiti, è già entrato nella giostra del Pd». Ogni volta il marchese prova a stare lontano dalla rissa. «Premesso che non è mio costume parlare degli avversari...». Poi vince il richiamo della foresta, non c'è nulla di più lontano di Grillo dal suo modo di pensare. «Il M5S non ha progetti credibili. Come reperire risorse per la sostenibilità ambientale e per il mantenimento dello stato sociale? Non lo dicono. Il qualunquismo e il vaffa... servono solo per applausi facili».
A Genova la debolezza della politica ufficiale, da una parte e dall'altra, ha prodotto una corsa strana, dove la candidatura di Doria, l'unica che appare davvero forte, cominciò con un riquadro nella pagine interne del Secolo XIX, firmato dai sette amici che hanno poi condotto la sua campagna autarchica, budget di soli 80mila euro ma tanto sembra bastare. «Eravamo pochi amici al bar...». Professore, guardi che l'ex compagno Gino Paoli ha detto che voterà per Musso. «Dice davvero? Me ne dispiaccio, ma del resto siamo in democrazia...». La terza risata ormai non fa più notizia.

l’Unità 5.5.12
La relazione in un convegno dell’associazione cattolica Agesci
I gay «hanno problemi con se stessi», un fatto «di natura cerebrale»
«I capi omosessuali sono un problema educativo»
Bufera sugli scout
Sconsigliabile il «coming out», meglio rivolgersi subito ai genitori e a un professionista. Doveva essere una riflessione d'apertura: ma ecco le linee guida proposte dall’Agesci e appena pubblicate.
di Delia Vaccarello


Giusto essere etero, per chi non si adegua consigliabile il ricorso allo psicologo. Sono alcune delle linee guida dell’Agesci sull’omosessualità e sono rivolte ai capi: «Le persone omosessuali adulte nel ruolo di educatore costituiscono per i ragazzi loro affidati un problema educativo». Dunque l’omosessualità è «un problema». Si tratta di un seminario organizzato dalla rivista «Scout-Proposta educativa» nato come desiderio di apertura, ma dalle conclusioni infelici (www.agesci. org). Una platea di capi scout ha ascoltato i tre relatori: Padre Francesco Compagnoni, docente di teologia morale, Dario Contardo Seghi psicoterapeuta, Manuela Tomisich mediatrice familiare.
Per Compagnoni occorre distinguere tra chi fa coming out e chi no, e non bisogna mai smarrire, pur nella tolleranza che la società vuole, il valore morale dei comportamenti, vale a dire: essere etero è morale, il resto no. Anche Seghi si sofferma sul coming out e pur tra mille sfumature conclude: un capo omosessuale affetto da protagonismo può sentire «di dover passare attraverso l’espressione pubblica del suo orientamento sessuale». Non è opportuno parlarne, «cosa diranno i genitori dei ragazzi che possono essere condizionati»? È bene «che un capo si fermi». I relatori mettono in guardia i ragazzi sul rapporto con ciò che si sente: una persona non è ciò che sente. Aprendo così la strada alla repressione delle sessualità di gay e lesbiche. Ma non tutti i giovani obbediscono: «Dopo 17 anni di scoutismo, quando stavano per promuovermi a capo dei ragazzi dai 17 ai 21 anni mi è stato detto che dovevo tacere il mio amore per una coetanea altrimenti avrei confuso i giovani. Non ho accettato compromessi», dichiara M. di Milano.
Gli esperti sottolineano in rosso le teorie del «gender», vale a dire le teorie che riflettono sulla costruzione culturale dei generi sulla cui base è possibile in Italia per legge il cambiamento di sesso. Quelle che stabiliscono tramite il concetto di «identità di genere» l'eventualità che ci si senta di appartenere a un genere diverso da quello suggerito dal sesso alla nascita. Sotto accusa in questo caso è la transessualità.
Anche il consigliato ricorso allo psicoterapeuta per un ragazzo omosessuale è vecchio e dannoso. Non si fa fatica a riconoscere l’invito a sottoporsi a terapie riparative per reprimere i propri impulsi, terapie pericolose, vane e produttrici di infelicità (un' analisi critica in “Curare i gay?” di Paolo Rigliano e altri ed. Cortina). Immediate le reazioni della comunità gay: «La natura, l'identità e la dignità delle persone viene piegata da Agesci ad un approccio parziale e inevitabilmente ideologico», dichiara Paolo Patanè, presidente di Arcigay che propone ad Agesci un confronto pubblico. A stretto giro la risposta dell’Associazione scout cattolica: «Con il seminario l'Associazione ha voluto avviare una riflessione sul tema dell’omosessualità. Non abbiamo risposte preconfezionate».

il Fatto 5.5.12
Il documento dell’Agesci
Sei gay? Puoi fare il capo scout
L’organizzazione cattolica ancora contraria al coming out
ma le tendenze sessuali non sono più criteri di selezione
di Marco Politi


 È il prezzo perché l’Agesci faccia passi in avanti. Ma sono da attendersi ruvide reazioni vaticane.

Un capo-scout gay: perché no? Meglio che non faccia il coming out, ma non c’è ragione di non affidargli la responsabilità di un gruppo a ragione del suo orientamento sessuale.
L’Agesci, l’organizzazione degli scout cattolici, lancia il dibattito sull’omosessualità al suo interno e apre una breccia nel muro delle demonizzazioni della dottrina ufficiale ecclesiastica. Perché lo stato attuale della posizione vaticana è sempre quello dettato dal cardinale Ratzinger quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina: niente persecuzioni o derisioni delle persone omosessuali, ma condanna totale della loro vita di relazione. Unica via d’uscita: praticare la castità.
Una posizione irrealistica, da cui si sono ormai allontanati moltissimi credenti sia gay sia eterosessuali, che ritengono i rapporti omosex una maniera legittima di vivere la propria sessualità. È di poche settimane fa la decisione dell’arcivescovo di Vienna cardinale Schoenborn di accettare la nomina di un cattolico gay dichiarato nel consiglio parrocchiale del paesino austriaco di Stuetzenhofen. Il parroco non voleva. Invece il cardinale non solo ha dato il suo placet, ma ha ricevuto ufficialmente in arcivescovado il ventiseienne Florian Stangl con il suo compagno.
D’altronde il cardinale Mar-tini sostiene da anni di non avere mai provato l’impulso a biasimare una coppia omosessuale, quando la incontrava. E recentemente ha proposto che la Chiesa non ostacoli una legge sulle unioni civili, valide anche per i partner gay.
Lo stesso “Avvenire”, il giornale dei vescovi, ha pubblicato l’anno scorso nel suo mensile “Genitori e Figli” un articolo per invitare le coppie a circondare di affetto un figlio gay, sconsigliando perentoriamente ogni tentativo di “guarirlo”. Sempre su “Avvenire”, qualche anno fa, lo psichiatra Vittorino Andreoli in un reportage a puntate sui preti oggi esprimeva con garbo il parere di non vedere motivo per non accettare sacerdoti gay.
Il convegno di studio organizzato dalla rivista “Scout-Proposta educativa” nel novembre scorso si inserisce in questa traiettoria per portare la Chiesa ad abbandonare posizioni fossilizzate. Bisogna leggere attentamente ogni riga delle relazioni pubblicate in questi giorni – perché lo stile è necessariamente prudente data l’aria che tira ai vertici della Chiesa – ma è evidente il tentativo di sdoganare la presenza gay anche all’interno del movimento scout cattolico.
Al convegno uno dei relatori, il domenicano padre Francesco Compagnoni, ha sostenuto la posizione ufficiale vaticana ricordando che le Scritture condannano le relazioni omosessuali come “gravi depravazioni” e comunque sono atti “intrinsecamente disordinati”. Perciò un capo scout gay rappresenterebbe un “problema educativo”. Eppure anche Compagnoni traccia una differenza tra il capo, che è gay ma non lo dice, e l’omosessuale pubblicamente dichiarato.
Sono contorsioni, ma fino a poco tempo fa era anche la dottrina ufficiale dell’esercito americano dove l’omosessualità era vietata e quindi vigeva la regola “Don’t ask, don’t say”: le gerarchie militari non chiedano, i soldati non dichiarino.
Più netti in direzione di una visione riformata della questione omosessuale sono le altre due relazioni, che aprono la strada nel campo dell’associazionismo cattolico ad un’accettazione sdrammatizzata dell’orientamento omosessuale. Manuela Tomisich, docente all’università Cattolica di Milano, sottolinea: “Costruire la propria identità attraverso una serena attenzione alla dimensione della sessualità – sottolinea – rende possibile esprimere la propria unicità e riconoscersi nella propria scelta”
Nessuna demonizzazione, quindi. Più chiaro ancora l’ex dirigente scout e psicoterapeuta Dario Contardo Seghi: “Le tendenze sessuali intime dei capi non sono criteri di selezione… Possiamo avere un capo con tendenze omosessuali bravissimo e capace e uno eterosessuale con limiti tali” da non affidargli un gruppo. Meglio, comunque, un capo scout gay, che mantenga la sua privacy senza coming out.

il Fatto 5.5.12
CL, cerchio magico intorno a papa Ratzinger
Nonostante scandali e “amici” arrestati l’organizzazione domina in Vaticano
di Marco Lillo


Dopo 30 anni di assenza, un pontefice torna al Meeting di Cl a Rimini. Papa Ratzinger terrà un discorso alla grande kermesse di Comunione e Liberazione che quest’anno avrà come tema il rapporto tra l’uomo e l’infinito. Non è solo una voce ma un impegno preso nero su bianco da Benedetto XVI e dal segretario di Stato Tarcisio Bertone in un carteggio inedito che pubblichiamo. In un giorno d’estate compreso tra il 19 e il 25 agosto nei padiglioni della fiera il pontefice tedesco abbraccerà decine di migliaia di seguaci e simpatizzanti del movimento fondato da don Luigi Giussani nel 1954 e guidato dopo la morte del “Don” nel 2005 da don Julian Carron.
L’ULTIMO PAPA a partecipare al meeting è stato Giovanni Paolo II nel 1982. E proprio alla ricorrenza del trentennale si richiama la presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, per chiedere a Benedetto XVI di tornare. La professoressa Guarnieri scrive il 23 novembre 2011 al segretario di Stato Tarcisio Bertone: “Il 1982 fu l’anno della storica visita al meeting del Beato Giovanni Paolo II. Il medesimo anno vide anche il riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Il2012pertantorappresenta per noi un duplice e significativo trentennale ed un contesto estremamente suggestivo per accogliere il Santo Padre”. La professoressa, nella sua lettera a Bertone ricordava un incontro del 19 giugno a San Marino, nel quale il Papa le disse: “È molto tempo che non ci vediamo! Lei lavora ancora per il Meeting? ” in memoria delle antiche partecipazioni dei primi anni novanta dell’allora cardinale Joseph Ratzinger alla kermesse. E la lettera si concludeva con una preghiera a Bertone: “Affido alla Sua paternità e alla Sua benevolenza questo invito”. Il segretario di Stato non si è risparmiato e nel volgere di due settimane ha ottenuto il sì del Pontefice. Il 9 dicembre del 2011 Tarcisio Bertone scrive al segretario del Papa don Georg Ganswein perché annoti l’impegno: “Con la presente Ti informo che nell'Udienza a me concessa il 5 dicembre 2011, il Santo Padre ha preso visione della lettera del 23 novembre 2011 della professoressa Emilia Guarnieri, Presidente del Meeting di Rimini. Considerando i due anniversari che cadono nel 2012, il Santo Padre ha espresso il suo favore per una breve visita e un suo intervento al Meeting di Rimini in data da stabilire”.
In fondo però quella che si sta preparando da mesi è solo la consacrazione di un legame che sempre di più sta diventando un elemento caratterizzante di questo e forse persino del prossimo pontificato, se troveranno conferma le voci dell’investitura dell’arcivescovo di Milano di provenienza ciellina, Angelo Scola. Proprio il Fatto ha pubblicato nel febbraio scorso un documento anonimo nel quale si annunciava la fine del papato di Ratzinger entro novembre 2012. Un annuncio di morte reinterpretato da alcuni osservatori come una previsione certa di “dimissioni” del Papa per far posto al suo successore preferito, cioè proprio Angelo Scola.
UNA SOLUZIONE “anomala” ma possibile, secondo l’interpretazione dottrinaria che lo stesso Ratzinger avrebbe avallato in un’intervista. Vera o falsa che fosse, la profezia della staffetta tra Ratzinger e Scola ha portato allo scoperto il peso crescente di Cl negli equilibri vaticani. Non è un mistero che siano cielline le quattro signore cinquantenni che dormono nell’appartamento papale e sono ammesse a pranzare e cenare con il Pontefice tanto da formare la cosiddetta famiglia papale. Per l’esattezza sono aderenti ai Memores Domini, associazione laicale i cui membri vivono i consigli evangelici di povertà, castità perfetta e obbedienza sotto l’egida di Comunione e Liberazione. Anche l’arcivescovo di Milano Angelo Scola condivide la quotidianità con alcune signore aderenti ai Memores.
Il legame tra Cl e Scola è molto stretto. Il Fatto ha rintracciato una lettera del marzo 2011 al Nunzio Apostolico in Italia Giuseppe Bertello dal leader di Cl don Julian Carron. In questa lettera Carron suggerisce di nominare Scola anche per la sua sensibilità all’area politica di centrodestra. “Rispondo alla Sua richiesta permettendomi di offrirle”, scrive Carron “in tutta franchezza e confidenza”, ben consapevole della responsabilità che mi assumo di fronte a Dio e al Santo Padre, alcune considerazioni sullo stato della Chiesa ambrosiana”. La diagnosi del leader di Cl è spietata: “Il primo dato di rilievo è la crisi profonda della fede del popolo di Dio... perdura la grave crisi delle vocazioni... la presenza dei movimenti è tollerata, ma essi vengono sempre considerati più come un problema che come una risorsa”. Poi Carron arriva al dunque: “dal punto di vista poi della presenza civile della Chiesa non si può non rilevare una certa unilateralità di interventi sulla giustizia sociale, a scapito di altri temi fondamentali della Dottrina sociale, e un certo sottile ma sistematico ‘neocollateralismo’, soprattutto della Curia, verso una sola parte politica (il centrosinistra) trascurando, se non avversando, i tentativi di cattolici impegnati in politica, anche con altissime responsabilità nel governo locale, in altri schieramenti”. Il nome di Formigoni non c’è ma chiunque intravede dietro queste righe la figura del governatore. “Questa unilateralità di fatto... finisce per rendere poco incisivo il contributo educativo della Chiesa al bene comune, all’unità del popolo e alla convivenza pacifica”. Per tutte queste ragioni, conclude Carron: “l’unica candidatura che mi sento in coscienza di presentare all’attenzione del Santo Padre è quella dell’attuale Patriarca di Venezia, Card. Angelo Scola. Tengo a precisare che con questa indicazione non intendo privilegiare il legame di amicizia e la vicinanza del Patriarca al movimento di Comunione e Liberazione, ma sottolineare il profilo di una personalità di grande prestigio e esperienza... ”.
L’arcivescovo di Milano, con la raccomandazione di Cl, oggi è dato per favorito a prendere il posto di Benedetto XVI. È questo il paradosso di Cl: proprio nell’anno della sua massima potenza e della annunciata benedizione del Papa con la sua visita al Meeting, esplodono gli scandali e le indagini della magistratura. Dopo gli arresti di due ciellini amici di Formigoni come Antonio Simone e Pierangelo Daccò e la pubblicazione delle fotografie dei resort a cinque stelle dove il presidente della Lombardia è stato in vacanza persino don Julian Carron ha scritto a Repubblica: “Sono stato invaso da un dolore indicibile dal vedere cosa abbiamo fatto della grazia che abbiamo ricevuto. Se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo aver dato”. Una lettera che finora non ha fatto cambiare idea sul suo viaggio a Rimini a Benedetto XVI.

il Fatto 5.5.12
Zingaretti e la battaglia di “Cinque giorni”
La free press minacciata per aver scritto sulle truffe dei Punti Verdi
di Eduardo Di Blasi


In via Cristoforo Colombo, 134 a Roma, c’è la redazione di una free press, che, nata a Colleferro circa nove anni fa, si è poi diffusa lungo i comuni dei Castelli. E poi, seguendo le direttrici di bar, stazioni ferroviarie e treni che la mattina portano a lavorare a Roma migliaia di pendolari, è sbarcata nella Capitale pure lei: da quattro anni, al quinto piano di quel civico 134, di fianco alla sede della Telecom Sparkle, c’è il quotidiano Cinque giorni.
Sempre quattro anni fa, in quello stesso appartamento nei pressi della Regione Lazio, trovò casa una piccola società di comunicazione, nata poche settimane prima, la Beecom.
Proprio in quel 2008, del resto, la Beecom farà parte della squadra che porterà alla vittoria nelle elezioni per la Provincia di Roma l’attuale presidente, il Pd Nicola Zingaretti. “Rivendico con orgoglio quella campagna elettorale – dice oggi Stefano Bruno, 37 anni, numero uno di Beecom – perché fu un grande successo”.
ANNI DOPO quell’indirizzo ritorna in atti e fatti. Il primo data al 15 aprile scorso. I consiglieri del Pdl in Provincia di Roma Andrea Simonelli, Francesco Petrocchi, Anselmo Tomaino e Gabriele Lancianese in un’interrogazione urgente al presidente della Provincia, chiedono se corrispondano a verità i finanziamenti che l’ente provinciale ha erogato negli anni 2009, 2010 e 2011 a tre società: la Cinque Giorni Edizioni Metropolitane, la Apr (che era fino all’anno passato la società di pubblicità di Cinque Giorni e aveva sede sempre in via Colombo 134) e la Beecom. In totale, calcolano i consiglieri, la Provincia avrebbe versato oltre 600 mila euro nelle casse delle tre società. Una bella somma.
Il 26 di aprile scorso, però, succede anche un altro fatto: alla redazione di via Colombo arriva una lettera minatoria abbastanza chiara: “Longo Giuliano hai rotto il cazzo con i Punti Verdi. Pensa ad altro stronzo. Ti faccio un regalo, adesso ti avverto poi ti trovo e ti sparo. Dopo tocca a Inches che gioca a fare la guardia. Se siete fortunati vi fate sei mesi di stampelle o peggio” (la punteggiatura è nostra).
Ora Giuliano Longo è il direttore editoriale di Cinque Giorni, Inches è Massimo Inches, consigliere del II Municipio di Roma, appartenente al gruppo de La Destra, mentre i “Punti Verdi” sono un progetto che, partito nel 1995 (giunta Rutelli), con lo scopo di recuperare distese di parchi lasciati all’abbandono affidandoli all’iniziativa dei privati, sono diventati in molti casi occasione di speculazione o di truffa, tanto che anche la Procura di Roma adesso vuole vederci chiaro.
Bene, sul tema dei Punti Verdi Qualità (Pvq), Longo ha condotto, dal novembre del 2010, una campagna martellante: ha raccontato delle licenze passate di mano, delle ditte e degli intermediari in cui ricorrono diversi nomi vicini alla destra romana, ha fatto una cronaca minuziosa dei progetti che si sono andati arenando, di ditte e ingegneri attivi su più progetti, di Parco Feronia e Spinaceto, fino all’Olgiata. Ha lanciato l’allarme prima di altri: “Se continua così il Comune rischia di rimetterci 400 milioni di euro” (è infatti questa la cifra garantita dal Campidoglio ai privati che hanno acceso i mutui per i propri progetti e ora sono in sofferenza). Anche questa, per dire, una bella somma. Tanto che Longo dice: “Ci vogliono far levare la pubblicità, unica fonte di reddito per una free press, perchè gli diamo fastidio”.
SE QUESTA STORIA si potesse inscrivere in una battaglia politica, minacce da Anni di Piombo a parte, si potrebbero contrapporre Pdl e Zingaretti e chiudere la partita. Non sarebbe però un’analisi corretta giacché, dall’ottobre 2011, l’editore di Cinque Giorni è l’imprenditore Roberto Di Paolo che nel 2008 aveva sostenuto Gianni Alemanno, suo vecchio amico, nella scalata al Campidoglio, ma che da tempo vi si è discostato, perchè, ha dischiarato sul suo stesso giornale, Alemanno “si è omologato alla politica mangiona”.
La Provincia di Roma, dal canto suo spiega: “Nel triennio 2009-2011 abbiamo dato pubblicità a Cinque Giorni per la cifra complessiva di 476.333,62 euro più iva, e lo abbiamo fatto perchè quel quotidiano copre meglio di altri l’area provinciale, arrivando anche in piccoli comuni che altrimenti non raggiungeremmo. Il budget annuale tra comunicazione e ufficio stampa è di circa due milioni di euro, darne un decimo per fare pubblicità su un medesimo media non ci sembra un’esagerazione”.
E la Beecom? La società, che tra l’altro cura i siti internet di Zingaretti e della sua fondazione, ha avuto diversi affidamenti dalla Provincia negli ultimi 3 anni: alcuni da poche migliaia di euro sono senza gara (per lo più per depliant di iniziative) e uno più consistente per la gestione di “Provinz”, la newsletter settimanaledellaProvinciadiRoma, che gestisce praticamente da quando è nata. Nell’ottobre 2008 gli fu affidata per tre mesi dopo una gara a tre. Poi, prima con una proroga, poi con una gara che l’ha vista unica partecipante, infine in un’ulteriore gara a tre, ha ottenuto in appalto la newsletter (fanno 200 mila euro nel triennio). Su questo Petrocchi ha presentato un’altra interrogazione. La battaglia per il Campidoglio prossimo venturo è partita.

l’Unità 5.5.12
Francia 2012 Lo staff del candidato Ps fa sapere che, se eletto, si insedierà già prima del 15 maggio
Lo scatto finale di Hollande. Da «Bella ciao» all’Eliseo
A Tolosa, all’ultimo comizio del candidato socialista, hanno intonato «Bella ciao». I sondaggi lo dicono, militanti e vertici del Ps ci credono. Ma Sarkò non demorde e si aggrappa agli elettori di Marine Le Pen.
di Emidio Russo


Fra riti scaramantici e cautele dell’ultim’ora, i socialisti sono ormai convinti che domenica sera vedranno il loro leader François Hollande raggiungere la presidenza, riportando il Ps all'Eliseo per la prima volta dal 1995. Lo dicono i sondaggi che danno lo sfidante socialista circa al 53% dei voti contro il 47% del conservatore Nicolas Sarkozy. Lo dicono gli analisti politici, soprattutto dopo che il centrista Francois Bayrou giovedì ha dichiarato che voterà Hollande, perchè la campagna di Sarkozy volta a catturare i voti dell’estrema destra «non rispecchia i valori dei moderati e della Francia repubblicana». E lo dice in qualche modo anche lo stesso Sarkozy, che nell'ultimo giorno di campagna elettorale ha tentato di radunare e spronare i suoi seguaci. «Vedrete una grande sorpresa», ha detto il presidente-candidato alla radio Europe 1. E poi, in un comizio a Sables d'Olonnes (ovest della Francia), ha tenuto un discorso vibrante contro la sinistra chiamando a un soprassalto d'orgoglio la «maggioranza silenziosa»: gli astensionisti e gli elettori della destra del Front National. «Vorrei convincervi di una cosa: ogni voto conterà», ha proclamato Sarkò. «Domenica, non immaginate neanche fino a che punto tutto sarà sul filo del rasoio». Ma salvo colpi di scena, Hollande sembra inattaccabile, come Sarkozy pare destinato ad allungare la lista delle vittime politiche della crisi in Europa.
QUESTIONE DI IDENTITÀ
Che il clima in casa socialista sia molto entusiasta si è capito anche all’ultimo comizio di Hollande a Tolosa, giovedì sera, con l’orchestra che intonava addirittura Bella ciao, a dimostrazione di un orgoglio di appartenenza che altrove, di questi tempi, pare smarrito. E poi emergono i primi fuorionda dal campo socialista «se François sarà eletto presidente», come si dice a Rue Solferi-
no. Per esempio, si fa intendere che potrebbe insediarsi all'Eliseo già prima del 15 maggio e fissare a stretto giro un incontro con Angela Merkel nella prospettiva di un vertice informale europeo a fine maggio o inizio giugno. È la previsione affidata da fonti diplomatiche e membri del suo staff alla France Presse. Hollande ha dichiarato a più riprese di voler dedicare la sua prima missione estera al cancelliere tedesco.
Secondo una fonte diplomatica, il passaggio di consegne fra Nicolas Sarkozy e Hollande potrebbe tuttavia essere anticipato a venerdì 11. In tal caso, il neo-presidente andrebbe a Berlino già l’11 stesso o durante il fine settimana del 12-13 maggio. «Non è stato ancora deciso nulla. Non abbiamo preso alcun contatto. Siamo molto flessibili. Siamo concentrati sul 6 maggio. Di quello si parlerà al più presto nel periodo che va dal 12 al 16 maggio», ossia con la fine ufficiale del mandato di Sarkozy, hanno aggiunto dall'entourage del candidato socialista.
Per il resto, gli occhi sono puntati agli elettori che al primo turno hanno votato Le Pen e per Bayrou, essendo certi i voti della sinistra per Hollande. Il presidente uscente sta cercando conforto nell’appello in extremis di un gruppo di artisti e intellettuali, tra cui Depardieu, Aznavour, Claude Lelouch. Ma sarà una lunga notte, quella di domenica, per Sarkozy.

l’Unità 5.5.12
La rabbia dei greci alla prova del voto
Con l’incubo Weimar
di Teodoro Andreadis


L a Grecia va domani al voto, in un quadro politico che non è mai stato così incerto. La crisi economica ha sconquassato il sistema politico, il ceto medio, in due anni di continui sacrifici, è pericolosamente franato e moltissimi cittadini sono disorientati. Tre, gli scenari possibili: una riedizione della collaborazione tra socialisti e centrodestra di Nuova democrazia per portare avanti il piano di austerità, o una coalizione di forze di sinistra con l’appoggio di partiti che dicono “no” ad altre tasse. Come terza ipotesi, il ritorno alle urne.
Secondo gli ultimi sondaggi ufficiosi, Nuova Democrazia si attesterebbe sul 22% e i socialisti del Pasok intorno al 15%, gli eurocomunisti di Syriza vengono dati al 13% e i comunisti ortodossi del Kke al 10%. C’è però tutta un’altra serie di forze politiche di recente formazione che rivendica la possibilità di dire la sua sul futuro del Paese: i «Greci indipendenti» di Panos Kammenos hanno bocciato la svolta filo-austerity del leader di Nuova Democrazia e sono dati all’8%. Anche la Sinistra Democratica, (ex del Pasok ed eurocomunisti) con a capo
Fotis Kovelis ritiene non si possano chiedere altri sacrifici ai greci e si debba rimettere subito in moto lo sviluppo. Poi ci sono gli ecologisti che per la prima volta potrebbero farcela a superare la soglia di sbarramento del 3%.
La vera novità, assai inquietante, è rappresentata dall’estrema destra. Ci sono i populisti nazionalisti del Laos che hanno sostenuto il tecnico Lukas Papadimos sfilandosi appena due mesi fa e la formazione razzista e xenofoba «Alba Dorata» (Chrysi Ayghì) che potrebbe superare il 4%. Si tratta di una formazione che si è appropriata di un linguaggio ispirato a comizi nazionalsocialisti, che parla di «purezza della razza greca» e chiede l’immediata espulsione degli immigrati. Molti tassisti, che ad Atene rappresentano la pancia del Paese, arrivano a dichiarare che «al punto in cui siamo arrivati, probabilmente, una scelta estremista può essere vista come un atto di coraggio». Segnali altamente preoccupanti, che dimostrano gli effetti devastanti di una recessione che ha toccato il 5%, della disoccupazione arrivata al 24% e della chiusura di più di 400mila negozi e piccole e medie imprese.
In questo quadro, il centrodestra di Samaràs cerca di far fruttare i due anni e mezzo trascorsi all’opposizione e la forte caduta delle percentuali del Pasok, conseguenza diretta dell’applicazione dei Memorandum. Molti greci, tuttavia, ricordano che dal 2004 al 2009, al governo c’era stato proprio il partito di Samaràs e che sotto l’allora primo ministro Kostas Karamanlìs il debito pubblico è scoppiato. «Come è successo nel corso dell’occupazione nazista, quando le varie forze della resistenza greca hanno collaborato, così anche ora, dobbiamo continuare a lavorare insieme, per arginare il populismo», ha dichiarato l’esponente conservatore Aris Spiliotopoulos in un dibattito tv a cui era presente Pavlos Gheroulanos, ministro socialista della Cultura. Nessuno, tuttavia, è in grado di dire se i due partiti riusciranno ad assicurarsi 151deputati, numero minimo per poter governare. Molto dipende da quante formazioni entreranno in Parlamento e, ovviamente, dalla somma finale dei voti dei due primi partiti. La percentuale minima a cui si fa riferimento in queste ore è del 38%, trattasi però di un calcolo approssimativo.
Sul fronte opposto la sinistra ha cercato di formulare una propria proposta: Alexis Tsipras, degli eurocomunisti di Syriza, ha chiesto che dopo le elezioni tutte le forze a sinistra del Pasok decidano di collaborare, per un «governo dell’alternativa». Per non abbandonare l’Europa, ma per adottare una nuova linea di rinegoziazione dei sacrifici imposti. I comunisti «duri e puri» del Kke non si sono dimostrati disponibili a rispondere all’appello, ma il partito di centrodestra “Greci indipendenti”, che contesta le scelte di Nuova Democrazia, si è dichiarato pronto a discutere una piattaforma economica comune. Il compositore Mikis Theodorakis e Manolis Glezos, eroi dell’antifascismo che hanno preso parte alle mobilitazioni dei mesi scorsi, hanno lanciato un messaggio chiaro: Glezos è candidato col Syriza, Theodorakis invita i cittadini a «votare forze di rottura che non accettino altre imposizioni dal Fondo monetario». Ma quando ci si sente disillusi e stremati è persino difficile distinguere tra quel che è “bene” e quel che è “male”. Quello che è lecito sperare è che la delusione e la rabbia, catalizzati, nel recente passato, in movimenti pacifici come quello degli «indignati» di piazza Syntagma, non vadano a rafforzare forze estremiste che si collocano nella destra più pericolosa e reazionaria.

La Stampa 5.4.12
Grecia, domani un voto da brivido
“La crisi? Ridateci i Colonnelli”
Sono accreditati di un 5,4 per cento Per loro «Hitler è stato un grande leader»
Nella sede del partito neonazista che potrebbe entrare in Parlamento: “Noi fermeremo gli immigrati”
di Tonia Mastrobuoni


Rabbia Una manifestazione ad Atene del partito conservatore Nea Democratia che con Antonis Samaras potrebbe aggiudicarsi il voto 10% Agli ultrà I partiti dell’estrema destra potrebbero raggiungere insieme il 10 per cento nel voto di domani Militanti del movimento Alba dorata manifestano vicino ad Atene
L’ingresso è talmente insignificante che se non fosse per i due nerboruti militanti che lo presidiano con occhio torvo e braccia conserte, sarebbe difficile scovarlo. La sede di «Alba dorata» è un appartamentino al secondo piano di un vecchio edifico malandato, di fronte alla stazione di Atene. Dentro, una decina di replicanti dei due guardiani all’ingresso, con enormi bicipiti e tatuaggi sotto magliette attillate, si aggirano indaffarati nei preparativi per gli ultimi comizi. Alle pareti, una foto della festa annuale del partito per ricordare la vittoria di Leonidas, appena due millenni e mezzo fa. Ma anche striscioni di manifestazioni che recitano amenità tipo «La Macedonia è Grecia». Fuan e rune come piovesse, su uno scaffale nero pece un libro dedicato al neofascista Mikis Mantakas.
Donne in giro, una. La somiglianza non inganna: è Urania, la figlia 24enne del capo, Nikos Michaloliakos. Siamo venuti a capire come fa un partito dello zero virgola (0,29% alle politiche del 2009) a balzare al 5,4% nei sondaggi con parole d’ordine come «Hitler è stato un grande personaggio» o proposte come quella di riempire le frontiere di mine antiuomo o di nazionalizzare le banche. «Tanto sono comunque di proprietà degli ebrei», taglia corto Urania. Ah, ecco. E la dittatura dei colonnelli greci che si è conclusa neanche quaranta anni fa? «Ha avuto molti lati buoni, la sicurezza ad esempio» spiega come se niente fosse.
La sicurezza è ovviamente un grande tema di «Alba dorata» con un grande capro espiatorio, gli immigrati. Una delle idee che ha fatto crescere questo partito, almeno ad Atene dove sono entrati nel consiglio comunale, è che i militanti si offrono per accompagnare le vecchiette a ritirare la pensione o a fare un bancomat. Facendo leva sul mito della capitale violenta, assediata da immigrati.
Quando viriamo di nuovo sugli argomenti che li hanno fatti rimbalzare sui giornali di tutto il mondo, come i campi di sterminio, Urania non ha incertezze: «ci sono state molte bugie su quesi sei milioni. E poi anche i comunisti hanno ucciso milioni di persone». Anche se lei nega, «siamo nazionalisti, non neonazisti», le parole d’ordine sono esattamente quelle. Ogni tanto, mentre parliamo, si avvicina un ragazzo con aria minacciosa e le chiede se è tutto a posto. Ci domandiamo se è uno di quelli noti per terrorizzare e picchiare gli immigranti in giro per la città. Urania deve averci letto nel pensiero: «Non siamo stati noi a terrorizzare gli immigrati. È una bugia messa in giro dalla propaganda di sinistra». E anche sull’Europa, la posizione è aggressiva: «L’abbiamo pagato caro e dunque noi restiamo nell’euro. Ma i debiti non li ripaghiamo, sono delle banche che sono in mano ad americani ed ebrei».
Per la prima volta da quando è stato fondato, 27 anni fa, questo partito potrebbe superare la soglia di sbarramento e mandare una dozzina di deputati in Parlamento, se i pronostici saranno confermati. E negli ultimi tempi ha anche approfittato del calo di consensi che è toccato all’altro partito dell’estrema destra, il Laos. Che sconta il fatto di aver appoggiato per mesi il governo Papademos. Nostalgico, ma troppo poco arrabbiato, il partito di Yorgos Karatzaferis. Che è dato attorno al 3 o 4% e propone dazi e una doppia valuta per due anni: l’euro per il commercio con l’estero e la «eurodrachma» per l’economia domestica. Insieme, la destra estrema euroscettica sfiora insomma il 10%. Ma il fronte politico che minaccia di ridiscutere l’accordo con la Ue e il Fmi che in cambio dei mega salvataggi ha imposto un radicale aggiustamento dei conti è molto più vasto. A sinistra i comunisti del Kke non scendono a patti con nessuno ma chiedono tout court l’uscita dalla Ue oltre che dall’euro e sono al 10-12%. Altri partiti di sinistra come Syriza o la Sinistra democratica sono fumosi sulla moneta ma rifiutano la tabella di marcia della trojka. Nei sondaggi sono accreditati rispettivamente all’11 e al 3%.
Domani si presenteranno ben 32 partiti alle elezioni politiche greche, unanimemente considerate le più importanti dal 1974, dall’uscita dalla dittatura. Circa 10 riusciranno probabilmente a entrare in Parlamento superando il limite del 3%. Di questi, quelli che tifano esplicitamente per mantenere gli impegni con l’Europa per salvarsi dal fallimento sono solo due, quelli attualmente al governo. Sarà una domenica da brivido domani. E non solo a Parigi.

Corriere della Sera 5.5.12
Beffò i nazisti, ora sfida la Merkel Il ritorno dell'eroe dell'Acropoli
La Grecia al voto tentata dalla sinistra radicale antitedesca
di Davide Frattini


ATENE — Manolis Glezos sarebbe dovuto morire due volte, condannato alla fucilazione dalla giunta dei colonnelli, e forse tre se quella notte del 1941 i nazisti gli avessero sparato. Assieme a un amico si era arrampicato sulle pietre dell'Acropoli ed era riuscito a strappare la bandiera con la svastica dalla cima del Partenone. Il primo atto di sfida all'occupazione non è stato l'ultimo dell'uomo che simboleggia la resistenza dei greci.
A 89 anni, i baffoni bianchi del pirata che non vuole andare in pensione, si azzuffa con gli avversari politici e la polizia antisommossa: tre mesi fa con il compositore Mikis Theodorakis, anche lui vicino ai novanta, è finito all'ospedale mezzo soffocato dai lacrimogeni durante una manifestazione davanti al parlamento. Prima di scendere in strada per protestare, ancora oggi si rivolge ai compagni caduti. Il nuovo nemico sono la Troika (l'Unione Europea, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale) e le misure di austerità imposte al Paese. «Dopo la guerra — commenta — la Grecia ha conquistato la libertà, non l'indipendenza. Le potenze straniere stanno decidendo tutto per noi».
Giovedì sera è stato Glezos ad aprire il comizio di Syriza, il partito che i sondaggi danno terzo alle elezioni di domani. E' stato lui ad accompagnare sul palco il leader Alexis Tsipras, il più giovane tra i politici greci, nato nel luglio del 1974, quattro giorni dopo la caduta della dittatura militare. Le bandiere rosse, i pugni chiusi e le falci/martello, le canzoni di Patti Smith e Bella ciao: il raduno di Atene ricorda una delle assemblee studentesche che Tsipras guidava all'università, dove ha studiato ingegneria. La coreografia punk rock vuole attrarre i giovani, dei quasi dieci milioni di possibili elettori sono quelli pronti a scegliere l'astensione.
Un gigante indossa la maglietta con la scritta Eat the rich ed è così grosso che sembra essersi mangiato un intero consiglio d'amministrazione. L'Europa e i banchieri sono i bersagli, Angela Merkel il «despota» da contestare. «La Germania è in debito con noi. Se oggi i tedeschi possono vivere in un Paese democratico — dice Glezos all'agenzia Reuters — è anche grazie alla nostra lotta. Frau Merkel ci vuole punire per aver fermato i piani di Adolf Hitler? Voglio ricordare che quando l'Italia ci attaccò, siamo stati noi a distruggere il mito dell'Asse imbattile». Il partigiano ripete sempre che la Grecia è l'unica nazione europea a non aver ricevuto i risarcimenti per l'invasione durante la Seconda guerra mondiale. «Berlino non ci ha restituito le antichità rubate o l'argento portato via. Se teniamo conto del prestito d'occupazione, ci devono dare 162 miliardi di euro più gli interessi».
Che i compatrioti possano votare per un partito neonazista come Alba d'oro lo indigna. Il simbolo del movimento è il meandro, un richiamo alla Grecia classica molto simile alle linee della svastica. L'estrema destra xenofoba dovrebbe superare la soglia del 3 per cento ed entrare per la prima volta in parlamento. I militanti, dalla testa rasata e aggressivi come i pitt bull che portano disegnati sulle magliette, predicano l'espulsione degli stranieri: gli immigrati illegali sono stati l'altro tema della campagna elettorale assieme all'austerità euro-imposta. Con Glezos condividono l'avversione per Bruxelles e spingono per l'uscita dal trattato di Schengen (vogliono minare le frontiere).
I socialisti del Pasok e Nuova Democrazia (centrodestra) da quarant'anni governano il Paese in un'alternanza quasi dinastica. Se nessuno dei due dovesse riuscire a formare il governo, puniti dagli elettori per i tagli e le scelte economiche, Alexis Tsipras potrebbe tentare di riunire attorno a Syriza i gruppi dell'estrema sinistra, frammentati da sempre. Con il sorriso sfrontato da Antonio Banderas, offre accordi ai comunisti (hanno già detto di no) e minaccia di non rispettare il Memorandum, l'accordo sul debito da ripagare, firmato con la Troika. Non parla di uscita dall'euro, ma proclama: «I sacrifici affrontati dai greci non sono per l'euro. Stiamo soffrendo per gli oligarchi, i plutocrati, il grande capitale. Stiamo diventando un protettorato, una colonia».
Tifoso del Panathinaikos, i collaboratori lo definiscono «un perfezionista» e il governo lo accusa di incitare alla violenza. Lo slogan della campagna («Loro hanno deciso senza di noi, adesso andiamo avanti senza di loro») potrebbe trasformarsi nel 13 per cento dei voti, più di trenta deputati. E' convinto che la Grecia possa farcela senza i 130 miliardi di aiuti («bisogna combattere l'evasione fiscale») e vuole imbarcare i delusi dal partito socialista. Dal palco rievoca gli eroi della resistenza come Glezos: «Il popolo greco non ha mai chinato la testa davanti ai nemici, non la abbasserà adesso davanti alla Troika».

La Stampa 5.5.12
“Una crisi anomala che fa molto comodo a Obama e a Hu”
L’analista Keidel: esito positivo per entrambi
di Maurizio Molinari


Il sinologo del Tesoro Albert Keidel, economista, è stato il responsabile dei rapporti con Pechino del Dipartimento del Tesoro fino al 2004. Attualmente è senior fellow all’Atlantic Council

Questa è una crisi che fa comodo ai governi di entrambi i Paesi»: pochi a Washington conoscono la Cina come Albert Keidel, ex titolare dei rapporti con Pechino del ministero del Tesoro oggi all’Atlantic Council, e la sua lettura dell’attuale crisi parte dall’analisi di quanto sta avvenendo nella Repubblica popolare.
Quale è la genesi del braccio di ferro sul dissidente Chen?
«La genesi è nella decisione del consolato Usa a Chengdu, in febbraio, di accogliere l’ex capo della polizia locale Wang
Lijun per raccoglierne la deposizione sulla morte dell’imprenditore britannico Neil Heywood che ha portato alla caduta del capo del partito comunista locale, Bo Xilai, con conseguenze importanti negli equilibri di potere a Pechino».
Quale è il legame fra l’episodio di Chengdu e la fuga di Chen?
«In entrambi i casi i diplomatici americani hanno scelto di sfidare le autorità cinesi non a Pechino ma in aree decentrate: a Chengdu accogliendo nel consolato il poliziotto anti-regime, e a Shandong da dove Chen è scappato. Ciò significa essere entrati in un nuovo livello di impegno a favore del dissenso, con una penetrazione sul territorio assai specifica, capace di influenzare gli eventi lontano da Pechino».
Quali sono le implicazioni nei rapporti fra Usa e Cina?
«L’apparenza porterebbe a dire che il braccio di ferro su Chen ha complicato le relazioni bilaterali ma siamo di fronte a una crisi che ha molti strati e quello che colpisce di più riguarda le conseguenze favorevoli per entrambi i governi».
Che cosa intende dire?
«Erano più di venti anni che un dissidente non entrava nell’ambasciata Usa a Pechino e non sappiamo ancora chi ha dato l’autorizzazione di accogliere Chen. A prescindere da come finirà, l’episodio consente a Barack Obama di cavalcare il sentimento anti-cinese molto radicato in America in piena campagna elettorale. Il vantaggio politico che ne trae è evidente come altrettanto chiaro è il fatto che alla vigilia del cambio di presidente a Pechino, nel partito comunista è in atto una resa dei conti e la crisi di Chen crea un’atmosfera anti-americana in Cina che favorisce il fronte dei falchi, non certo Xi Jinping».
Sta dicendo che l’attrito su Chen è una crisi artificiale?
«Con certezza nessuno può dirlo, sappiamo però che i cinesi hanno seguito l’auto che ha portato Chen all’ambasciata Usa a Pechino, per oltre 400 km, e dobbiamo chiederci come sia stato possibile che non siano riusciti a fermarla».
Ora si affaccia il compromesso su un visto di studio per Chen negli Stati Uniti. Quali saranno le conseguenze?
«Quelle più importanti riguardano il ruolo dei diplomatici Usa in Cina. Continuando ad alzare il livello di impegno nelle regioni interne avranno come interlocutori non tanto i pochi dissidenti di tipo tradizionale, interessati a libertà e democrazia, quanto i numerosi portatori di uno scontento sociale frutto della disparità di benessere fra città e campagne».

Corriere 5.5.12
Lebensborn
I poveri fantasmi di una razza perfetta
di Alberto Bevilacqua


Q uesto che sto per raccontarti, cara madre, è davvero ciò che paventavi come «il peggio del mondo». Al polo opposto, estremo, dell'universo bambino.
I «figli del Lebensborn» hanno sfilato per le vie di Oslo: cortei silenziosi, striscioni, volantini lanciati in aria: «Sono passati tanti anni e continuano a chiederci perché ci siamo meritati questo trattamento crudele. Noi vogliamo che qualcuno ci dica perché. E che ci chiedano scusa: eravamo solo bambini». Dopo aver portato la loro storia di fronte alla Corte Europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo, senza aver ottenuto il risarcimento che chiedevano, ancora continuano a battersi. Ho scritto spesso su di loro, Lisa. E li ho visti sfilare, ho stretto le loro mani, ho firmato i loro appelli…
Lebensbornheime. Case della Sorgente di vita. Campi creati, anche in Norvegia durante l'occupazione, da Heinrich Himmler, capo delle SS. Suicida dopo la disfatta tedesca.
Nel programma scientifico sottoscritto dai medici nazisti, si legge: «Giovani eroici delle SS, selezionati con un culto che imporremo al mondo e al futuro della Storia, esemplari perfetti della razza ariana, alti, vigorosi, occhi azzurri, sanità assoluta, si uniranno alle giovani naziste delle Bdm, anch'esse esemplari ariani perfetti, occhi azzurri, tratti armoniosi, sanità assoluta: Vergini».
Il motto: creare altri esemplari in razza ariana «pulita», auspicando la nascita di maschi destinati al combattimento, di femmine pronte a confortarli con la stessa fede fanatica. Una volta ottenuta la vittoria, individui di ambo i sessi capaci di affrontare altre battaglie durature per trasformare in reietto ogni esser umano di razza sporca.
Le ragazze norvegesi — alte, bionde, sane — sembravano perfette allo scopo. Alla fine della guerra, in Norvegia, si contavano dodicimila bambini nati in queste unioni. Le copule programmate per fabbricare l'uomo perfetto avvenivano nei Lager «Sorgente di vita». Baracche simili a quelle di altri Lager, con la sola differenza che gli ambienti erano meticolosamente puliti, le pareti dipinte a colori chiari, azzurri soffusi, e mazzi di fiori freschi spiccavano alle finestrelle, e arrivavano vassoi con cibi in quantità. Ma intorno, identici i reticolati, i fari accesi che battevano le notti, le kapò scelte fra meretrici abili e crudeli, altri aguzzini conoscitori delle ombre da cui si controlla, si spia: si muovevano invisibili con le armi in pugno.
I figli del Lebensborn vennero tolti dalle mani delle madri. Dopo la disfatta nazista, considerati un'eredità ingombrante, furono rinchiusi in orfanotrofi e in ospedali mentali, oppure affidati a famiglie che li fecero sentire colpevoli della loro nascita. Oltre ai maltrattamenti, gli insulti: «bastardi tedeschi», «puttane tedesche». In gran parte, crebbero quasi senza istruzione. Privati, in seguito, dei diritti riconosciuti ai comuni cittadini. Si pensò addirittura di deportarli in massa in Australia.
Solo alla fine degli anni Novanta, i «figli del Lebensborn» sono usciti dalle loro ombre. Hanno chiesto al governo di assumersi la responsabilità dei maltrattamenti e delle discriminazioni, di indennizzare quanti ne erano stati vittime. L'indennizzo, con scuse puramente formali, fu stabilito dallo stato soltanto nel Duemila: ventimila corone, poco più di tremila euro.
…Li ho visti, Lisa. Sono entrato nei loro cortei che si sono formati al calare delle ombre, e hanno continuato a scodarsi rischiarati da fiaccole simili a quelle che delimitavano i campi «Sorgente di vita». Nella luce incerta, ho visto brillare centinaia di occhi azzurri sotto i capelli ingrigiti. Occhi di fantasmi come usciti dal nulla. Il nulla reale delle loro esistenze. Molti camminavano con difficoltà, portando il peso di una vecchiezza che appariva grottesca.
Mai come in quei momenti, Lisa, ho provato disperazione, in nome tuo, pensando alla tua innocenza, che mi sembrava avvolgere immensa il corteo, alla tua anima così limpida, e forte del suo amore, da adombrarsi col terrore di compiere il male. Il male che nemmeno conoscevi, se non nel suo generico esistere.
Il male è questo, Lisa, ora lo conosci.

Corriere 5.5.12
E Hitler fornì a Mussolini un precursore del Viagra
di Enrico Mannucci


Stupri in gioventù, l'afrodisiaco Hormovin (un precursore del Viagra che gli procurò Hitler) alla fine. In mezzo — ovvero da Duce del fascismo — un battaglione di conquiste degno di una rockstar: una, due, anche quattro al giorno secondo le leggende più adulatrici, per decenni, fra amanti consolidate e conquiste effimere (non più definibili stupri, perché tante italiane sognavano l'avventura con lui, ma neanche troppo distanti). La biografia sessuale di Mussolini (nella foto) è un catalogo simil-mozartiano. E ci si è applicato Roberto Olla, storico e giornalista televisivo, autore, fra l'altro, dei Combat Film, antologia delle riprese di operatori militari trasmessa qualche anno fa. Dux è il titolo del suo libro, che ricalca quello della biografia scritta da Margherita Sarfatti, amante fra le più importanti nonché fondatrice con quell'opera di una parte notevole del mito mussoliniano. Olla parte dall'apprendistato giovanile — alquanto rude, di tale Virginia B., il futuro Duce scrisse: «Io la presi lungo le scale, la gettai in un angolo dietro a una porta e la feci mia. Si rialzò piangente e avvilita» — e arriva fino al 1936, l'anno di svolta (anche secondo l'opera defeliciana sulla cui traccia si muove il libro) nei rapporti fra Mussolini e Hitler. L'intreccio fra sesso e potere viene accuratamente esplorato, attraverso il corpo del Duce e le memorie delle sue conquiste, popolane o intellettuali tutte impegnate a denigrare la concorrente: Sarfatti contro Balabanoff, Petacci contro Sarfatti, la legittima Rachele contro tutte e, anche, superiore a tutte (tranne Claretta) nella certezza del possesso. Piero Melograni, che firma l'introduzione, ricorda come il sex appeal mussoliniano sia stato ben raccontato da Ettore Scola nel film Una giornata particolare. E ammonisce che non sempre e non tutti i passaggi storici sono decifrabili con la ricostruzione di quel che succede nei Palazzi o, addirittura, nelle camere di quei Palazzi. È vero però, conclude Melograni con l'occhio rivolto all'oggi (o al passato molto prossimo), che «i potenti sono costretti a occultare dietro gli onori, le pompe, i cerimoniali, a loro stessi, prima che agli altri, le loro insicurezze e le loro miserie».

Corriere 5.5.12
Il cervello neutrale
Il sesso c'entra poco: fra un matematico e un violinista ci sono più differenze che fra un uomo e una donna. Fine della contesa
di Franca Porciani


Chissà se queste ultime ricerche metteranno la parola fine a una discussione che va avanti da decenni, condita dalle alzate di scudi delle femministe e da posizioni diverse, fino alla polemica, fra psicologi, linguisti, neurologi. Al centro del dibattito, il cervello femminile: ha questo oggetto misterioso caratteristiche che lo distinguono da quello dell'uomo, per l'influsso degli ormoni e di altri fattori, ambientali e genetici, oppure le supposte differenze sono solo una «panzana» costruita da secoli di maschilismo? L'idea di un cervello «neutro» viene oggi rilanciata dagli studi sulle abilità mentali dei due sessi condotti dai neurobiologi e dai neurolinguisti. Ricerche finalmente raffinate e attente.
Come sintetizza Valentina Bambini, ricercatrice del Nets, il centro di neurolinguistica e sintassi teoretica della scuola superiore universitaria IUSS di Pavia: «Studiando con grande rigore la fluidità verbale e la ricchezza del vocabolario nell'uomo e nella donna, ovvero selezionando bene gruppi omogenei di individui per età e istruzione, si è visto che entrambi utilizzano in media 16.000 parole al giorno. Le differenze che si riscontrano nell'infanzia, con le bambine più precoci nell'apprendere il vocabolario, vanno scomparendo in età adulta».
Eh sì, perché finora si riteneva che la donna usasse un maggior numero di vocaboli, 20.000 al giorno, il doppio dell'uomo, e con maggiore disinvoltura, circa 250 parole al minuto contro le 125 dei maschi (la cosiddetta «parlantina») e se ne erano trovate giustificazioni biologiche. O meglio, basi biologiche, non fosse altro per il fatto che i neuroni (le cellule cerebrali) sono sensibili agli ormoni, il testosterone nell'uomo, gli estrogeni e il progesterone nella donna.
I lavori dei neurolinguisti rinforzano l'opinione di Catherine Vidal, neurobiologa dell'Istituto Pasteur di Parigi che si è occupata molto del tema e che insieme alla giornalista Dorothée Benoit-Browaeys ha scritto un libro di grande successo, «Il sesso nel cervello», pubblicato in Italia dalle edizioni Dedalo. «Contrariamente alle previsioni, non sono state riscontrate divergenze lampanti — scrive —. Su più di un migliaio di studi compiuti con la risonanza magnetica funzionale (tecnica in grado di rilevare quali aree cerebrali «lavorano» in un determinato momento, ndr), soltanto alcune decine hanno evidenziato con chiarezza differenze fra i sessi, meno marcate, comunque, di quelle fra il cervello di un violinista e quello di un matematico».
Così come è stata sconfessata l'idea che la donna sia più capace dell'uomo di fare cose diverse nello stesso momento, perché più brava di lui a utilizzare i due emisferi cerebrali contemporaneamente (la base biologica era stata trovata nel maggiore spessore del corpo calloso, il fascio di fibre nervose fra un emisfero e l'altro).
Ma chi si occupa delle influenze degli estrogeni sul cervello non demorde, come Adriana Maggi, direttore del Centro di eccellenza per lo studio delle malattie degenerative cerebrali dell'Università di Milano: «Gli studi sul cervello con la Pet, un esame che sfrutta i positroni (le antiparticelle degli elettroni) per fornire immagini indicative della sua attività, hanno rivelato che nell'ipotalamo, una sorta di direttore di orchestra dei rapporti fra centri nervosi e ghiandole endocrine, una piccola area, il nucleo sessuale dimorfico, è più sviluppata nel maschio. Fenomeno strettamente legato all'intensa attività mentale a sfondo sessuale dell'uomo (sembra che l'85 per cento degli uomini abbia fantasie erotiche ogni 52 secondi). Mentre nella donna risulta particolarmente attivo l'ippocampo, il centro del cervello che svolge un ruolo chiave nella memorizzazione delle parole. Potrebbe essere una delle ragioni per cui le donne manifestano una maggiore fluidità nell'eloquio e maggiore ricchezza di vocaboli».
Tutto queste differenze possono essere determinanti per il comportamento come possono non esserlo. Ipotesi quest'ultima, cara alle femministe, contrarie all'idea che la mente della donna risenta dei propri ormoni, visto come un nuovo pregiudizio per svilire l'identità femminile (chi non si ricorda il detto che la donna «pensa con l'utero»!). «Ma quale pregiudizio?», contesta la neuropsichiatra californiana Louann Brizendine, autrice di un best seller internazionale, «Il cervello delle donne», tradotto in Italia da Rizzoli. «Esistono studi che dimostrano come nelle prime due settimane dalla fine delle mestruazioni gli estrogeni agiscano come un fertilizzante sull'ippocampo, aumentando le connessioni nervose del 25 per cento, con conseguente maggiore lucidità e agilità mentale. Dopo l'ovulazione, c'è il calo degli estrogeni e la secrezione del progesterone elimina questi "ponti" aggiuntivi e il cervello delle donne in questa fase diventa torbido, più lento».
Forse gli ormoni influiscono, ma la questione centrale diventa poi quale rilievo si vuole dare a queste differenze. Torna in mente la vecchia storia del cervello femminile più leggero (pesa il 9 per cento in meno) di quello maschile, che fino agli anni Cinquanta veniva considerata la prova inconfutabile dell'inferiorità intellettuale del sesso debole. Fortunatamente i metodi moderni di indagine del cervello hanno rivelato che la donna, proporzionatamente al suo corpo, ha un cervello più piccolo dell'uomo, ma possiede lo stesso numero di cellule cerebrali, cento miliardi, una più una meno, «ammassate» perché costrette dentro una scatola cranica più piccola.
Non dimentichiamo che il cervello di Albert Einstein pesava solo 1215 grammi, al di sotto della media maschile, che è di circa 1350. Piccolo e, ciononostante, geniale. Con buona pace dei pregiudizi.

Corriere 5.5.12
Moby Dick, Trotzkij, i Khmer rossi: la Bibbia parla della modernità
Geremia, Giona e Amos: modelli attuali secondo George Steiner
di Gianfranco Ravasi
s. j.

L'affascinante itinerario biblico che George Steiner, docente delle più prestigiose università di Occidente, propone nel suo saggio smentisce ininterrottamente un'ermeneutica «ascetica», pronto ad andare oltre i sentieri d'altura o le sole piste della steppa.
Egli, infatti, rimane fedele al suo programma critico generale, insofferente del new criticism formalistico: quest'ultimo nega o ignora i contesti storici, le referenzialità, la soggettività autoriale, il pre-testo e il para-testo che procedono ed eccedono ogni singola opera, ed esclude il rilievo del lettore coinvolto dallo scritto. Tutte queste dimensioni valgono, invece, a livello supremo per il Libro per eccellenza com'è la Bibbia, una realtà vivente trasmessa nei secoli dalla selce al silicio e simile al «mormorio di una fonte lontana» echeggiante in un oceano di altre pagine. Un testo che è talmente oltre se stesso da essere causa degli effetti i più disparati, dalla mistica alla guerra, generati dalla sua straordinaria energia performativa. È per questo che Steiner si trova a suo agio nella sontuosa vitalità e fecondità del Libro sacro.
Quasi in ogni sua parola la Bibbia è stata ammantata da una nube di commentari che talora ne offuscavano la luce, ma altre volte si rivelavano come una galassia di luminose stelle interpretative. I lettori dei testi biblici nei secoli hanno, infatti, inforcato le lenti ermeneutiche più sofisticate — dall'allegoria al letteralismo, dal metodo storico-critico agli approcci contestuali più vari, giuridici, sociologici, economici, psicoanalitici, femministi, semiotici e altri ancora — nell'incessante sforzo di decifrare tutte le iridescenze di quelle parole. Questo caleidoscopio esegetico era per altro postulato dalla polisemia insita in quella lingua apparentemente così povera quantitativamente (tutto il lessico ebraico biblico è fatto di soli 5.750 vocaboli) e qualitativamente, perché simile alle pietre di quel deserto in cui è sbocciata. Eppure essa è capace di irradiazioni semantiche insospettate e Steiner ne estrae alcune note (davar, «parola» e «atto») e altre meno praticate, sempre attento a ricordarci, ad esempio, che le traduzioni di quelle frasi antiche nei moderni idiomi hanno sortito uno straordinario effetto generativo a livello linguistico generale: «le due principali costruzioni della lingua inglese sono, infatti, Shakespeare e la Bibbia di re Giacomo». A tal punto che un altro celebre traduttore inglese come William Tyndale giungeva a scrivere che «la lingua greca (biblica) si accorda più con l'inglese che col latino, e le proprietà dell'ebraico s'adattano mille volte più all'inglese che alla lingua latina» della celebre Vulgata di Girolamo. (...)
Ininterrotto è, dunque, il contrappunto che questa originalissima «introduzione» instaura tra il testo originale e la sua eco successiva, talora invertendo i percorsi per cui può essere l'oggi a gettare luce sul passo antico (Trotzkij è convocato per Geremia, i Khmer rossi per Amos, Moby Dick per Giona, e così via in una lista infinita di «inter-cessioni»).
Non per nulla l'ultima tappa di questo itinerario testuale comincia con una considerazione scontata ma del tutto ignorata nei nostri giorni smemorati: «Quanto spoglie sarebbero le pareti dei nostri musei se private delle opere d'arte che illustrano, interpretano o fanno riferimento ai temi della Bibbia. Quanto silenzio ci sarebbe nella nostra musica occidentale, se ne espungessimo i contesti, le trasposizioni e i motivi biblici», per non parlare poi delle pagine che rimarrebbero bianche nella letteratura... La post-modernità — ammesso che sia una categoria valida e un'atmosfera oggi ancora respirabile — ha consumato ormai un divorzio col «grande codice» biblico. Anzi — è sempre Steiner a notarlo — oggi «il linguaggio stesso è in condizione di transito», come accadeva a Israele in marcia verso la Terra Promessa. La meta attesa è quella nella quale «la parola e il significato ritorneranno a essere una cosa sola, come accadeva nell'Eden, fino allo scoccare dell'ora messianica».
E qui affiora un interrogativo estremo che Steiner, collocato sulla frontiera (per altro mobile) dell'agnosticismo, lascia qua e là brillare, ma che non affronta mai di petto. Si intravede a questo livello, a mio avviso, la sua radicale differenza dal poeta e amico Thomas S. Eliot, che era invece proteso a cercare il «point of intersection» tra «time and timeless» sia nel testo biblico sia nella storia, tanto per usare il linguaggio dei Quattro quartetti. La Bibbia, infatti, si autopone come «parola di Dio» in parole umane, è «attestazione» di un Altro, come ripetono i Profeti. L'«Io-Sono» della celebre autodefinizione divina dal roveto ardente del Sinai ha in sé tutta la forza provocatrice della persona (Io) che esiste e agisce (Sono).
Steiner, di fronte a questo orizzonte misterioso del Libro, si arresta apparentemente sulla soglia del «senso comune e del positivismo» che riconosce alla Scrittura un'«eccezionale qualità e impatto», senza voler impegnarsi oltre, nella «teo-logia», col rischio che «si inizi con la nebbia e si finisca nello scisma».
Eppure, se si leggono le ultime due o tre pagine del saggio, l'autore della Lezione dei maestri traccia una linea di demarcazione («E tuttavia…») con tutto quanto fino a quel momento ha affidato ad analisi testuali. E dall'oggettivo passa al soggettivo testimoniale: «Ora parlo solo per me». E con un senso di vertigine, di cecità e di disorientamento si immedesima per un istante in Giobbe o in Qohelet, in Isaia o in un salmista, uomini e donne che pranzano, come ogni altra creatura, eppure hanno incontrato un Altro e hanno sperimentato e vissuto un Oltre: «Mi ritrovo ad annaspare», confessa Steiner, «verso una qualche nozione di "surrealismo", un ordine di ispirazione (...) per il quale non disponiamo di alcun adeguato metro di paragone, né di alcuna spiegazione naturalistica soddisfacente».
A questa feritoia egli si affaccia, rimanendo impaurito e attonito, mentre sente echeggiare la voce del Dio di Giobbe: «Chi è costui che oscura la mia ‘esah (ossia il mio "progetto" trascendente) con parole insipienti?» (38,2). Forse aveva ragione il Kierkegaard del Timore e tremore quando affermava: «La fede è la più alta passione di ogni uomo. Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano ad essa, ma nessuno va oltre».

Corriere 5.5.12
Hai pagato le tasse? Le domande di Atene agli aspiranti politici
di Eva Cantarella


«Hai pagato le tasse?». Ad Atene era una delle domande che venivano poste a chi era stato designato a ricoprire una carica pubblica. Seguivano altro domande: «Hai fatto il servizio militare?», «tratti bene i tuoi genitori?». Il sorprendente — per noi — interrogatorio (detto dokimasia, vale a dire scrutinio) si svolgeva dinanzi ai cittadini riuniti nel tribunale popolare, per consentir loro di sapere se il candidato era persona «degna». E in quella sede il presidente della seduta chiedeva all'assemblea: «C'è qualcuno che vuole accusare quest'uomo?». Come possiamo leggere in un'orazione di Dinarco, di chi aspirava a ricoprire cariche pubbliche si scrutinava anche il tropos, vale a dire l'indole. Agli ateniesi non sarebbe mai venuto in mente di parlare di violazione di quello che noi chiamiamo diritto alla privacy. A proposito di un altro scrutinio, la cosiddetta «docimasia degli oratori», alla quale venivano sottoposti i cittadini che prendevano la parola in assemblea, Eschine, nell'orazione contro Timarco, accusato di essersi prostituito, ricorda la legge che vietava ai prostituti di parlare in assemblea perché «non credeva possibile che uno stesso uomo fosse cattivo nelle questioni private e buono in quelle pubbliche, e pensava che non fosse giusto concedere la parola a chi era abile e capace nei discorsi, ma non nella vita». E ricorda che, denunziando il comportamento riprovevole di Timarco, egli difende tutti gli ateniesi, perché contribuisce a garantire la morale pubblica. Beninteso, nessuno intende additare i greci come modello. Ma essendo il popolo che ha «inventato» la democrazia, può essere una buona idea sapere quel che ne pensavano.

Repubblica 5.5.12
La violenza sulle donne e l´incapacità di fare i conti con la solitudine
Quel maschio fragile che non accetta limiti
Viene meno la legge della parola che dovrebbe governare le nostre relazioni
di Massimo Recalcati,
analista lacaniano

La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell´umiliazione dell´insulto e dell´aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta.
Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, non è una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà. Essa afferma che l´umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l´umano è l´esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c´è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell´altro. Per questo la condizione che rende possibile l´amore – come forma pienamente umana del legame - è – come teorizzava Winnicott - la capacità di restare soli, di accettare il proprio limite. Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l´ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine. Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l´esterno come luogo di minaccia.
Il passaggio all´atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell´unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà assoluto – di vita e di morte – sul proprio partner non è mai una manifestazione dell´amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione. Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per te e dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione).
Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità umana dovrebbe essere passione erotica per l´incontro con l´Altro, mentre riducendosi a pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell´incontro viene rotto da un vandalismo osceno. Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità di questa violenza. C´è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l´incarnazione del limite, ma è anche l´incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente – simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine.
Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull´avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull´appropriazione dell´oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull´"idiozia del fallo", quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all´ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente "etero"; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l´incontro con questo godimento "infinito" dichiarandole "tutte puttane". E´ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riescono a governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell´illuminismo assimilavano la donna all´ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros.
E´ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E´ chiaro per lo psicoanalista che questa violenza – anche quando viene esercitata da uomini potenti - non esprime solo l´arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell´amore, quando c´è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l´altro. Per un uomo amare una donna è davvero un´impresa contro la sua natura fallica, è poter amare l´etero, l´Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola.

Repubblica 5.5.12
"Una telefonata con Primo Levi", nuovo libro di Bartezzaghi
Così la parola ci salva dai veleni della storia
di Valerio Magrelli


Come è possibile che uno studioso di enigmistica e semiologia, sia pure tra i più versatili e ferrati, possa confrontarsi con l´autore che ha scandagliato fino in fondo l´abisso del Lager? Come sperare di descrivere l´indescrivibile esperienza della Shoah affidandosi agli strumenti della linguistica? È quanto riesce a fare Stefano Bartezzaghi nel saggio Una telefonata con Primo Levi. A phone call with Primo Levi (edizione bilingue, Einaudi, pp. 195, euro 16). Il testo muove da un´osservazione in apparenza poco rilevante: nella Babele dei campi di concentramento (luoghi disumani in cui «l´uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l´uomo sia uomo, era caduto in disuso»), spesso la sopravvivenza era legata alla semplice padronanza del tedesco.
Infatti, spiega Levi, l´uomo incolto «non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua lingua e chi non capisce tout court. […] Perciò, chi non capiva né parlava il tedesco era per definizione un barbaro». Ciò accadeva ovviamente in senso gerarchico, fra nazisti e detenuti, ma anche fra i detenuti stessi, dunque su un piano di sostanziale parità, come si vede dall´incontro dell´italiano con un sovietico: «Il fatto che un uomo, adulto e normale, non parli russo, e cioè non parli, gli sembra un atteggiamento di insolente protervia, come se io rifiutassi apertamente di rispondergli. […] con mio sollievo, se ne torna al suo fuoco e mi abbandona alla mia barbarie».
Bartezzaghi si interroga proprio su quel particolare stato definito da Levi con un nome che (e ne era certo consapevole), tradisce un´origine linguistica: barbarie. "La barbarie", spiega l´autore della Tregua, "condizione di chi non parla la nostra lingua, diventa per estensione e rifrazione la condizione di chi rifiuta di considerare uomo l´altro uomo". Da qui la sua desolante conclusione: «A livello piú o meno consapevole, per molti chi parla un´altra lingua è lo straniero per definizione, l´estraneo, lo strano, diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale, o almeno un barbaro: cioè, etimologicamente, un balbuziente. Uno che non sa parlare, un quasi-non-uomo». Il che, detto da chi compose Se questo è un uomo, suona davvero come una sentenza di morte.
Eppure l´attenzione di Levi per i segreti della lingua non si ferma qui, dato che fra i suoi interessi troviamo una spiccata propensione verso i giochi di parole, e in particolare per i palindromi. Si tratta di una pratica ben nota, che consiste nel creare delle sequenze verbali tali da produrre un´espressione sensata anche se lette al contrario (vale a dire da destra a sinistra). Sia brevi sostantivi ("Anna"), sia vere e proprie frasi ("O narici di Cirano"), si rivelano insomma double face. È questo il tema di un racconto, Calore vorticoso, dedicato ai palindromi, dove ci si chiede: le frasi reversibili sono forse vere, come "sentenze d´oracolo"? Il romanziere lo nega, ma, nota Bartezzaghi, pare quasi contraddirsi, aggiungendo subito dopo un riferimento all´alone "magico e rivelatorio" emanato dall´esattezza di simili costruzioni. Ebbene, dando prova di un autentico virtuosismo, Levi arriva a proporre addirittura un palindromo bilingue: «In arts it is repose to life: è filo teso per siti strani».
Indubbiamente esperimenti del genere potrebbero essere liquidati quali prodotti ludici, o comunque secondari, rispetto al grosso della sua produzione. Ma come non pensare al disperato pensiero di modellare un mondo, sia pure esclusivamente linguistico, capace di conservare una parvenza di senso anche se "alla rovescia"? Perché una cosa è certa; ciò che caratterizza l´orrore del Lager, in quanto appunto mondo "alla rovescia", è la totale perdita di senso, una perdita che, anche a distanza di anni, portò purtroppo molti sopravvissuti a scegliere la strada del suicidio.
Studioso di Perec, Queneau e Calvino, Bartezzaghi analizza l´opera di Levi in una prospettiva originale, sia attraverso i suoi stretti legami con gli scrittori appena citati, sia convocando quel gran maestro di giochi e erudizione che fu Giancarlo Dossena, a riprova di quanto la parola possa talvolta tramutarsi in antidoto contro il veleno della Storia.

Repubblica 5.5.12
L’intervento di Carlo De Benedetti a Dogliani. Dalla televisione ai nuovi media
“Il futuro dei giornali sarà nella multimedialità”
di Paolo Griseri


DOGLIANI - Comperare la 7? «Un anno fa ci pensavo ma Bernabé preferì tenere il giocattolo anche se la sua azienda si occupa di telefonia. Oggi la crisi ha mutato lo scenario. Credo che oggi dovrebbe essere Bernabé a venirmi a pregare». Il presidente del gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, ha risposto così a chi gli chiedeva se fosse ancora interessato a rilevare la tv di Mentana. E quando Giovanni Minoli ha fatto notare che «questa risposta è un inizio di trattativa», De Benedetti ha sorriso ma non ha commentato.
Accade a Dogliani, in provincia di Cuneo, dove l´editore ha casa: «Sono qui perché mi sento un doglianese». Con Minoli si parla di nuovi media, internet, tv e giornali: «Quel che conta – dice De Benedetti – è il contenuto. È lui il re. Gli strumenti possono cambiare nel tempo. Il miliardo gli utenti di facebook dimostra che c´è una grande richiesta di comunicazione». Il futuro è dunque nelle piattaforme multimediali, nei brand che uniscono diversi media. I giornali di carta, prevede De Benedetti, «non spariranno, muteranno la loro funzione. Perderanno copie e numero di pagine, aumenteranno il prezzo e soprattutto la qualità perché offriranno analisi sui fatti più che annunciarli». I giornali saranno affiancati da altri media: «Oggi l´Ipad raccoglie già l´8 per cento dei lettori di Repubblica». Sulla multimedialità scommette anche Minoli osservando come «i giovani utenti di internet sono i più affezionati spettatori di Raistoria. I linguaggi e i mezzi si integrano talvolta in modo sorprendente».
Paolo Griseri

D di Repubblica 5.5.12
Le guerre inutili tra le scuole di psicoterapia
risponde Umberto Galimberti

qui
http://www.scribd.com/doc/92468213/Galimberti-su-D-di-Repubblica-5-5-12