l’Unità 30.5.12
Speending review
Ci risiamo: riprovano ad abolire 25 aprile e Primo maggio
Rieccoli. Servono soldi e rispuntano i demolitori delle festività, purché laiche. Mentre il governo è al lavoro per reperire 4,2 miliardi entro giugno, somma necessaria a impedire l’aumento di due punti di Iva in ottobre, in Parlamento qualcuno ha pensato bene di riproporre la vecchia idea di Tremonti di cancellare primo maggio e 25 aprile, con l’obiettivo di risparmiare qualche euro. Il testo fa parte delle centinaia di emendamenti piovuti sul decreto della spending review, che doveva servire semplicemente a ufficializzare l’incarico al commissario Enrico Bondi, l’uomo chiamato da Mario Monti a organizzare l’operazione risparmio delle amministrazioni pubbliche. Invece quel testo si è trasformato in un provvedimento omnibus che lievita ogni giorno. A firmare la proposta sulle festività è Andrea Pastore, attivissimo senatore del Pdl, tra i più presenti a Palazzo Madama. Naturalmente il lavoro e la liberazione non verrebbero certo «oscurate», ma sarebbero spostate alla domenica più vicina. Per le feste patronali, invece, l’emendamento autorizza il governo «a concludere con la Santa Sede la revisione degli accordi conclusi in ordine alle festività». La norma di Tremonti era stata inserita nella manovra estiva del 2011 ma con un emendamento del Pd erano state salvate proprio il 25 aprile, il primo maggio e il 2 giugno. Oggi si ricomincia daccapo, anche se non basteranno due giorni lavorativi in più per recuperare miliardi di euro. Evidentemente sotto sotto c’è qualcos’altro.
Corriere 30.5.12
«Avanti con chi ci sta» Ma Bersani è stretto tra primarie e quota 14%
di Maria Teresa Meli
ROMA — Causa terremoto la Direzione del Pd è stata rinviata a lunedì prossimo. E questo slittamento di date consente a Pier Luigi Bersani di avere il tempo e il modo per confrontarsi con gli ultimi eventi. Perché se è vero che il segretario va ripetendo da giorni che «il partito non può aspettare immobile che altri decidano per loro e per noi», è anche vero che nello stagno del Pd le acque si muovono, a prescindere da lui e dai suoi progetti. La battaglia per le primarie è iniziata. Matteo Renzi ha dato il «la». Gli ulivisti di Arturo Parisi e i quarantenni di Pippo Civati e Paola Concia hanno fatto il resto. «Primarie, primarie e ancora primarie», invocano a gran voce. Le hanno già chieste, a dir la verità. All'ultima assemblea nazionale del Pd, quando Bersani e Bindi hanno spiegato che le primarie in un modo o nell'altro ci sarebbero state e che quindi non c'era motivo per presentare un ordine del giorno in cui chiederle ufficialmente. Questa volta le richiederanno, ma non si accontenteranno di una promessa o di una parola data. Questa volta ulivisti e quarantenni vogliono un pronunciamento ufficiale. Anche a costo di ottenere una bocciatura. Almeno in questo modo sarà chiaro chi vuole andare avanti con le primarie e chi no. Renzi non si fa coinvolgere pubblicamente dal dibattito in corso, ma fa il tifo perché alla fine anche Bersani si convinca che le primarie sono «l'unico strumento per far sopravvivere il Pd». Il sindaco di Firenze calibra parole e toni, in questa fase. Non vuole passare per il guastatore o il Pierino della situazione: «Decidano loro, ma decidano per il bene del partito e del centrosinistra». Intanto un cuneo è stato messo. Per la prima volta da quando sembravano abbandonate in un dimenticatoio, le primarie sono risorte. E piacciono. I prodiani le esaltano. I quarantenni ne fanno questione di vita e di morte. Nel frattempo Bersani inspira forte l'aria e pensa a come ovviare al meccanismo che si è innescato con tanta facilità dopo due dichiarazioni di Renzi. E per fortuna che la terza è stata pronunciata lontano dalle telecamere e dai microfoni. Quando è rimasto (mediaticamente e politicamente) solo, Bersani ha potuto dare libero sfogo ai suoi tormenti rispetto al movimentismo del sindaco di Firenze: «Noi non possiamo fare la parte di quelli che aspettano Casini. Dobbiamo coinvolgere tutti nel nostro processo di cambiamento, e se qualcuno non ci sta, pazienza. Il nostro compito è quello di andare oltre questa stagione. Ne abbiamo la forza e la voglia. Perciò non aspetteremo più l'Udc all'infinito, né attenderemo le liste civiche che assomigliano tanto agli album di figurine di quando ero piccolo». Dunque avanti tutta, tra una difficoltà e un ostacolo, per dimostrare che il Partito democratico «ce la può fare». In qualsiasi modo. Senza l'aiuto, osserva ironico Bersani, di «liste civiche con le figurine». Perché, piaccia o no, il perno è il Pd, sottolinea il segretario, colto da una vocazione maggioritaria tardiva. E il Partito democratico non ha intenzione alcuna di «farsi cannibalizzare» da altre formazioni del centrosinistra. Né tanto meno pensa ad ammucchiate assai simili a quelle che segnarono il periodo della «gioiosa macchina da guerra». «Non si possono sommare le mele alle pere», spiega Bersani con il linguaggio semplificatorio che predilige. E osserva: «La coalizione che sarà deve partire dal basso, coinvolgere la società civile che si sente esclusa dal Pd». Ma partire dal basso, è ovvio, significa partire comunque «dagli alleati che ci sono», anche se non si vuole «cristallizzare la fotografia di Vasto» né recintare uno spazio politico che si punta a lasciare aperto. «Partiamo con chi c'è adesso, non possiamo aspettare immobili altre convergenze: la situazione è troppo compromessa e l'Udc è troppo lontano da una decisione definitiva». Bersani la sua decisione, invece, l'ha presa. Vuole misurarsi con la premiership del Paese. E ha un solo timore che lo frena: in un panorama frastagliato, in cui lista civica si aggiunge a lista civica, mentre Montezemolo scende in campo e Saviano ci fa un pensierino, il Pd rischia di venire prosciugato. Magari raggiungendo quella quota 14 per cento che è il vero incubo dei dirigenti del partito. Finora è un numero su un sondaggio che prevede la presenza dei grillini, di Montezemolo e di un po' di liste civiche. Domani potrebbe rivelarsi un'orribile realtà.
La Stampa 30.5.12
Direzione Pd rinviata
Rottamatori e prodiani mettono ai voti le primarie
di Car. Ber.
ROMA Primarie, alleanze e riforme: i tre nodi che la Direzione del Pd avrebbe dovuto affrontare ieri sono stati rinviati di una settimana e sono tutti e tre strettamente collegati tra loro. Alle nove di ieri mattina, dopo la prima forte scossa in Emilia, Bersani decide di sospendere la riunione della Direzione e di riconvocarla per lunedì prossimo. Mentre il leader del Pd ritiene più urgente e opportuno recarsi nelle zone colpite dal terremoto, sul campo della contesa interna resta un documento depositato da alcuni quarantenni «rinnovatori» del suo partito che chiedono le primarie a ottobre per la premiership del 2013. Un appello che ricalca quello avanzato giorni fa dal «rottamatore» Matteo Renzi e che non risulta gradito al vertice del partito per ovvie ragioni. L’ordine del giorno presentato ieri dovrà essere messo ai voti lunedì e questa «conta» interna al Pd potrebbe comportare qualche problema al segretario. Il testo, firmato dai «prodiani» Parisi, Gozi, Zampa e Santagata, ma anche da Scalfarotto, Concia e dal «rottamatore» Pippo Civati, fissa tre punti: le candidature alle elezioni politiche saranno decise attraverso elezioni primarie per i parlamentari, con qualsiasi sistema elettorale. Secondo, il limite dei tre mandati è stabilito per tutti. Terzo, il candidato alla premiership sarà deciso con le primarie aperte in ottobre.
E se D’Alema fa notare che il limite dei tre mandati «è già previsto dallo Statuto», è pur vero che sono previste anche deroghe per le figure di maggior spicco; deroghe che, se questo testo venisse approvato in Direzione, sarebbe difficile a quel punto applicare. E se poi Bersani si appresta a lanciare lunedì prossimo il messaggio che è presto per cristallizzare un’alleanza a tre con Vendola e Di Pietro perché ci sono troppe variabili ancora aperte (su legge elettorale e nuove «offerte» politiche non ancora chiare), la «conta» sulle primarie, chieste con forza anche da Vendola, potrebbe creare qualche grattacapo. Perché se sancite da un voto del «parlamentino» sarebbe complicato a quel punto negarle o limitarne il perimetro solo a candidati del Pd. Altro fronte aperto, le liste civiche: di fronte all’intenzione ventilata da Bersani di lanciare un appello a partiti, società civile e movimenti per un patto di ricostruzione del paese che parta nel 2013, un patto da stringere anche con eventuali liste civiche, altri «quarantenni» si fanno sentire. I cosiddetti «giovani turchi» come Matteo Orfini e Andrea Orlando, stanno preparando un contro-documento in cui chiedono di non dividersi sul rinnovamento anagrafico, ma di impegnarsi per rafforzare il profilo del partito.
il Fatto 30.5.12
Di Pietro, Ferrero e Diliberto tifano per il “partito Fiom”
Il sindacato delle tute blu negozierà con la sinistra il 9 giugno
di Luca Telese
Nel “Day after” la Fiom per un giorno tace. C'è il terremoto, ci sono operai morti, il segretario dei metalmeccanici Maurizio Landini ha annullato subito, in segno di lutto, un’intervista pubblica programmata per questa sera a Reggio Emilia, al Fuori Orario di Taneto di Gattatico. Persino i dipendenti della sede emiliana ieri sono stati sfrattati dalle scosse e hanno lavorato con i telefonini. Ma il sasso lanciato nello stagno dai metalmeccanici della Cgil produce cerchi concentrici e increspa le acque.
La Fiom chiede alla politica “un passo avanti” e un impegno, si propone come catalizzatore di un cartello che ponga al centro lavoro e diritti. C’è chi risponde con entusiasmo, come Oliviero Di-liberto e Paolo Ferrero (entusiasmo prevedibile) chi a sua volta tace (prudenza imprevedibile) come la Cgil, e la sua leader, Susanna Camusso. Poi ci sono le reazioni della base, che un dirigente di primo piano di Corso Trieste riassume così: “Se questa notizia fosse saltata fuori un anno fa, forse avremmo potuto registrare qualche perplessità fra i nostri iscritti. Oggi, invece, registriamo entusiasmo e inviti ad andare avanti persino fra i non iscritti”.
UN GIORNO di silenzio ufficiale, dunque, dopo l'annuncio di un convegno in cui la Fiom convoca i leader di tutti i partiti del centrosinistra, a Roma, il 9 giugno, per rimettere al centro dell'agenda la questione sociale e dopo aver ventilato – questo è il fatto nuovo – l'ipotesi di un patto da far sottoscrivere ai candidati (già soprannominato il “bollino blu”) in cui chi vuole quel riconoscimento si impegna a votare, una volta eletto, delle leggi sui temi sensibili dello sviluppo e del lavoro. Non solo: il sindacato potrebbe anche promuovere la candidatura di una pattuglia di quadri che provengono dalle sue fila, un presidio non più
solo simbolico. Di più. Come ripete spesso Giorgio Airaudo, “tutti i partiti devono abbassare la percentuale di avvocati e commercialisti eletti, e aumentare quella dei lavoratori”. Dice Oliviero Diliberto, leader del Pdci, che incontrerà di nuovo Landini nei prossimi giorni: “Se c'è un soggetto in Italia che può certificare e porre la questione sociale, quello é la Fiom. E i comunisti italiani aggiunge sono felici di qualsiasi forma di impegno del sindacato in questa direzione”.
GLI FA ECO Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: "Se la Fiom si pone come soggetto propulsivo rispetto alla politica, io non posso che essere contento. Se contribuisce all'unità della sinistra – aggiunge – sono ancora più contento”. E anche Maurizio Zipponi, numero due dell'Italia dei Valori (proconsole di Antonio Di Pietro sui temi del lavoro) dice: “Noi ci saremo, il 9 giugno, in prima fila, non come dei notai chiamati a ratificare, ma come dirigenti che sull'agenda blu dei diritti proposta dalla Cgil ha molto da condividere, ma anche molto da dire”. Una giornata di silenzio nel lutto. Una giornata per capire in che modo la politica può metabolizzare la svolta della Fiom. Una giornata in cui tutti si chiedono se Landini, Airaudo, e uomini-simbolo come Giovanni Barozzino possono candidarsi. E diventare dei Lula italiani.
Corriere 30.5.12
La finta innocenza dell'antipolitica
di Emanuele Trevi
Uno degli aspetti più insopportabili del pensiero collettivo di oggi è la tendenza a sovrapporre interpretazioni fasulle a problemi reali. Ecco per esempio prendere piede, e insediarsi stabilmente nel linguaggio e nelle coscienze, questa minacciosa e seducente categoria dell'antipolitica. Col suo inequivocabile suffisso, la parola suggerisce che nella nostra società si agitino idee e sentimenti collettivi ostili e contrari alla politica. Per questa strada, l'antipolitica rientrerebbe pacificamente nella stessa famiglia verbale dell'antibiotico, dell'antigelo, dell'antifurto. Ma se provassimo a fermarla alla dogana del ragionamento, questa presunta antipolitica, e a perquisirla a dovere, non scopriremmo nient'altro che una politica travestita, nemmeno troppo bene. Basta esercitare un po' di attenzione per rendersene conto. Nella difficile impresa di superare in stoltezza ed ipocrisia i discorsi dei politici, i rappresentanti dell'antipolitica sono veri maestri.
La ragione è che sono fatti della stessa identica pasta dei loro presunti nemici. La propaganda è l'unico scopo, l'unico mezzo, l'unica ragione della loro vita. E il consenso televisivo è l'unico aspetto della realtà che i rappresentanti di entrambi i campi si contendono a colpi di menzogne. In questo contesto, l'antipolitico cambia gli ingredienti, non le regole del gioco. L'innocenza, la purezza, la finta ingenuità sono strumenti di propaganda non diversi, nella loro essenza, dalla promessa di posti di lavoro, e da tutti gli altri eterni espedienti della vecchia politica. Magari ci fosse, l'antipolitica vera. Ma, voltate le spalle alla ricerca del consenso, bisognerebbe procedere nella direzione del pensiero solitario, dello scarto culturale, del coraggio intellettuale. Cadrebbe davvero a proposito, per chi nutrisse tali nobili aspirazioni, la ristampa del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil (Castelvecchi editore). Il fatto che i partiti esistano, scriveva Simone Weil nel 1943, «non è in alcun modo un motivo per conservarli». Perché solo il bene sarebbe un motivo legittimo per conservare una determinata istituzione umana. Ma per ogni partito, la concezione del bene pubblico non può che diventare una semplice petizione di principio e in ultima analisi «una cosa vuota, irreale». La diagnosi di Simone Weil è impietosa e veritiera. Confondendo i mezzi con i fini, i partiti smarriscono la loro finalità primitiva. Diventano macchine per fabbricare dannose passioni collettive. Annullano quanto di più prezioso c'è nell'esistenza dei singoli, cioè il pensiero individuale. Non hanno altro scopo, infine, che accrescere in maniera indefinita il loro potere. A differenza di ciò che è reale, infatti, i partiti, la cui materia è «l'irrealtà», non conoscono i propri limiti, e vivono nell'esclusivo bisogno di crescere, come se fossero animali all'ingrasso, «e l'Universo fosse stato creato per farli ingrassare». E dunque, non ci si può illudere che il senso della verità e della giustizia si conservi negli individui che scelgono di aderire a un partito, rinunciando alla propria «luce interiore» e insediando così la menzogna al centro dell'anima.
La conclusione è nitida come al termine di una dimostrazione matematica: «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene allo stato quasi puro». È quasi inutile aggiungere che i partiti del 1943 erano ben diversi da quelli di oggi, se non altro per la statura umana e intellettuale di molti dei loro capi. E che nemmeno l'acume di Simone Weil poteva prevedere l'effetto mortificante del dibattito televisivo, dove è fatale che a vincere sia l'idea più rassicurante, più conforme alle aspettative del maggior numero, e in definitiva più stupida. Ma a tutto questo non si può opporre la finta innocenza di un'antipolitica che aspira alle stesse glorie, alle stesse poltrone, allo stesso potere della politica. La lezione più utile e necessaria è ancora quella di Simone Weil: non compromettersi con ciò che si disprezza, tentare di pensare ciò che ancora non è stato pensato, e soprattutto, non barattare la propria «luce interiore» con le finte promesse dell'opinione e del potere.
La Stampa 30.5.12
Terza Repubblica cercansi sconosciuti
Tutti concordano sull’analisi di Ricolfi: il sistema Italia è paralizzato dalla mancanza di rinnovamento delle classi dirigenti e la cooptazione è la regola. Ma dall’immobilismo può spuntare un leader. A sorpresa
di Fabio Martini
Tutto si sarebbe potuto immaginare, non che l’immota Prima Repubblica potesse essere superata dalla Seconda nell’inamovibilità delle sue leadership. Sono ancora tutti lì i leader che conquistarono la ribalta venti anni fa e, anche se appaiono claudicanti, tuttavia sono incapaci di staccarsi dai riflettori, tutti uniti dallo stesso destino, da Berlusconi a Fini, da Bossi a D’Alema, da Casini alla Bindi. La vischiosità nel ricambio delle classi dirigenti in Italia è questione che ha interpellato generazioni di sociologi e politologi e nel suo editoriale per La Stampa di domenica scorsa Luca Ricolfi ha arricchito il dossier, portando una nuova argomentazione: l’Italia è una sorta di Repubblica fondata sulla cooptazione, e il fenomeno è talmente consolidato e pervasivo che il cooptato, per gratitudine, finisce col diventare un conservatore, mentre i trentaquarantenni, conoscendo le regole, attendono fatalisticamente il loro turno, anziché spingere per un fisiologico ricambio. Risultato finale: la palude della Seconda Repubblica.
Una palude, se possibile, più stagnante rispetto alla stagione precedente, quella che nell’immaginario collettivo appariva irripetibile e che per 40 anni aveva riproposto le facce in bianco e nero di Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, personaggi talmente inossidabili che nella saggistica, non solo domestica, avevano preso la forma di una gerontocrazia. Certo contendibile, ma paragonabile per durata a quella sovietica dei Breznev e dei Gromyko: «E infatti fu proprio l’immobilità del sistema politico della Prima Repubblica - sostiene Piero Ignazi, uno degli studiosi di punta del gruppo del Mulino - a produrre nel 1992-1994 uno di quei rinnovamenti totali e assoluti che di solito hanno due effetti: o le rivoluzioni continue che mangiano uno dopo l’altro i loro figli, oppure la stabilizzazione del sistema, come è avvenuto da noi. Da quel momento si è subito e di nuovo congelato tutto, con la “complicità” di diversi fattori: un bipolarismo senza sconvolgimenti elettorali, un partito come la Lega dominato da un padre-padrone, altri due, Forza Italia e il Pdl, fondati sul sistema proprietario; l’arroccamento sul potere romano del principale partito della sinistra, sia pure con l’eccezione dell’emiliano Bersani».
Dunque, se esistono misurabili ragioni politiche che spiegano il perdurare del tappo oltre i confini storicotemporali della Prima Repubblica, l’analisi di Ricolfi rimandava invece al Dna, alla specificità italiana, allo stratificarsi di (mal) costumi nazionali, a cominciare dall’abitudine alla cooptazione, una lettura che convince Guido Crainz, storico dell’Italia contemporanea: «È assolutamente vero che esiste una corrispondenza tra società e politica nell’abuso della cooptazione, esattamente come il problema del conflitto di interessi si è rivelato “irrisolvibile” non solo per ragioni politiche ma perché innervato in tanti gangli della società. E come la Prima Repubblica è morta per eccesso di cooptazione, così anche la Seconda si sta esaurendo per lo stesso motivo».
Eppure - lo sostieneAlessandro Campi, direttoredella Rivista di politica, già m a î t r e - à - p e n s e r della finiana Farefuturo - c’è una cooptazione «cattiva» e una «buona»: «Storicamente la cooptazione si è rivelata una delle forme più efficaci di selezione di gruppi dirigenti. Se chi seleziona e coopta è motivato da valori e da una strategia e sceglie sulla base del merito, questo produce gruppi omogenei molto efficaci. Ciò che ha prodotto stagnazione e immobilismo nella classe dirigente è la mancanza dell’elemento competitivo a tutti i livelli, a cominciare dal campo amministrativo e istituzionale nel quale il criterio selettivo è l’anzianità, è il tempo che decide qualità, funzione, status professionale, compensi. Anche un partito è vitale, se è contendibile all’interno, ma negli ultimi anni non c’è stato un solo partito nel quale il leader sia stato messo in discussione con la dialettica tradizionale». Con un’aggravante che ha appesantito il peso del tappo: «Anche il sistema delle aspettative si è abbassato: mentre un tempo le borghesie locali facevano a gara per entrare in politica, oggi le élite professionali si tengono a distanza, il livello medio si è abbassato».
E se anche per il professor Crainz il problema italiano è «rompere la cooptazione malata» e al tempo stesso rispondere all’imperativo banale «quando uno perde, va via», oggi chi rischia di ripetere l’errore di 20 anni fa è la sinistra: «Non è vero che allora restò fuori dalla politica la società civile, che invece entrò di corsa attraverso la Lega e soprattutto attraverso Forza Italia. Allora come oggi la sinistra non aiuta il rinnovamento della classe dirigente e rischia la sconfitta se ripropone lo schema del primato del partito nella versione, a questo punto un po’ caricaturale, di Massimo D’Alema».
Eppure la storia, anche quando propone analogie, non si ripete mai eguale a se stessa, al punto che Piero Ignazi non esclude un cambio di scena nello stagnante ciclo della classe dirigente italiana: «Quando un sistema è troppo immobile, alla fine produce un cataclisma e anche cambiamenti repentini, compresa l’irruzione nel giro di poche settimane di leader fino ad allora sconosciuti: basta essere nel posto giusto, al momento giusto».
La Stampa 30.5.12
Insegniamo ai giovani l’esercizio della critica
Solo da loro può uscire una nuova leadership. Ma servono contenitori dove si realizzino percorsi dif ormazione
di Daniele Marini
L’ Italia soffre di un sistema di rappresentanza a circuito chiuso. Che si genera e alimenta tutta al suo interno. L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è focalizzata sul ceto politico, sulla casta. Giustamente. Sono quelli che portano la responsabilità maggiore delle scelte che ricadono su cittadini, famiglie e imprese. Ma se i politici sono lo specchio del Paese, allora dobbiamo porci qualche interrogativo in più. A maggior ragione dopo giorni di discussione sugli esiti delle recenti Amministrative, sulla (presunta) antipolitica di una parte consistente della popolazione, sul fenomeno del Movimento 5 Stelle. In questo senso, bene ha fatto Luca Ricolfi sulle colonne della Stampa a sollevare il tema spinoso della classe dirigente. Che non è soltanto quella politica, appunto. Ma quella che alberga nei mondi associativi e della rappresentanza organizzata, nelle organizzazioni sindacali così come nelle banche, nelle sue fondazioni e negli enti intermedi.
Con diverse gradazioni, i leader dei partiti politici, soprattutto di quelli personali e carismatici (come la Lega, Forza Italia prima e il PdL poi; ma anche il centrosinistra non ne è esente), hanno realizzato un meccanismo di selezione della classe dirigente dove il criterio della fedeltà e dell’adesione ha fatto aggio su quello del merito, della professionalità e della critica. In una sorta di «familismo amorale», rafforzato da un «con me o contro di me», si è inverata una selezione per esclusione progressiva. Dove le voci critiche e riflessive sono diventate, poco alla volta, eretici da marginalizzare. Il problema è che un meccanismo analogo ha intessuto anche gli altri ambiti dei mondi della rappresentanza. Inverando – per riformulare la locuzione di Ricolfi – un meccanismo di «cooptazione a ripetere».
Senza voler fare di tutta l’erba un fascio, tuttavia è sufficiente, per esempio, fare un’esplorazione all’interno delle organizzazioni sindacali, dove i gruppi dirigenti cambiano sì, ma spostandosi da una categoria all’altra, limitando al massimo così l’ingresso di nuove forze. Oppure nell’ambito delle associazioni imprenditoriali. In questo caso, i ruoli di vertice hanno meccanismi di rinnovo più celeri (fatto salvo che negli anni recenti non sono pochi i casi in cui modifiche statutarie tendono a prolungare la durata degli incarichi), ma poi si assiste alla chiamata a incarichi di rappresentanza nei mondi collaterali, come quello bancario o assicurativo. Da qui, a loro volta, risulta facile cooptare all’interno di questi ambiti altre persone considerate vicine, che condividono i medesimi interessi e partecipano dei medesimi gruppi di potere. L’esito finale è lo sviluppo di un insieme di relazioni e regole vischioso che rende praticamente impossibile, se non in modo estremamente lento e complesso, un ricambio effettivo della classe dirigente. E rende questi gruppi dirigenti impermeabili alle sollecitazioni che vengono dall’esterno. Impermeabili perché la reciprocità delle loro relazioni le spinge ad auto-sostenersi e proteggersi.
Tutto ciò spiega perché questi sistemi di rappresentanza sono incapaci: 1) di riformare le proprie organizzazioni; 2) di guardare al futuro e fare scelte strategiche, perché ripiegate sulla propria conservazione; 3) di percepire il distacco che si è generato nei confronti dei cittadini, degli aderenti, dei soci. È l’esito del meccanismo della «cooptazione a ripetere». Un meccanismo che, a mio avviso, prende avvio negli Anni 70, quando i mondi dell’associazionismo e della rappresentanza non costituiscono più il canale privilegiato della formazione per l’approdo all’esperienza politica. Quando gli stessi partiti hanno via via smesso di formare nelle apposite scuole la loro classe dirigente. La «cooptazione a ripetere» si può rompere per un evento traumatico proveniente dall’esterno, com’è stato nel caso di Tangentopoli o, più di recente, com’è nel caso del PdL e della Lega. O perché emerge una leadership culturale in grado di esprimere e imporre una vision, nuovi valori dell’azione della rappresentanza.
Una nuova leadership non può che venire dalle giovani generazioni. Finora, quelle che hanno tentato di approcciare questi percorsi più spesso hanno abbandonato sfiduciati e si sono dedicati ad altro. Esprimono il loro essere classe dirigente in altre forme: nell’imprenditoria, nella cooperazione, nell’associazionismo volontario. Una leadership per diventare tale necessita comunque di incubatori, di contenitori dove si realizzino percorsi di formazione e di educazione alla politica. Ciò non significa tornare alle forme del passato. Sarebbe impossibile. Ma offrire luoghi strutturati dove lo spazio della riflessione e dell’esercizio della critica sia la materia d’insegnamento quotidiana. Là dove ciò si realizza, i giovani non si sottraggono. La sfida della creazione di una classe dirigente del futuro si gioca nella sua formazione.
Università di Padova
La Stampa 30.5.12
“Avvilito da questa giustizia Per un avvocato la parcella non è l’unico obiettivo”
L’avvocato Coppi: gli imputati sono stati le sole vittime
di Maria Corbi
ROMA È l’avvocato delle cause vinte Franco Coppi, tanto che quando vogliono usare un argomento contro un’ assoluzione di uno dei suoi clienti dicono: «È stato assolto perché Coppi è il numero uno». E’ successo nel processo di via Poma con Busco (assolto). Ora per Rignano Flaminio (assolti). Storiacce di accuse infamanti che raccontano non solo di delitti e delle pene ma anche di un pezzo d’Italia, con le sue speranze, le sue frustrazioni e spesso le sue inciviltà.
Professor Coppi iniziamo da Rignano: tutti assolti con formula piena. Cosa ci insegna?
«Sono avvilito dallo stato della nostra giustizia e non intravedo nessuno che possa indicare la rotta giusta. A chiunque in una collettività può capitare di dover rispondere di un’accusa, ma i tempi devono essere ragionevoli. A Rignano per la sentenza di primo grado sono passati sei anni e c’è il rischio che vada avanti altri 4 tra appello e Cassazione. Intanto le persone coinvolte nelle accuse subiscono danni irreparabili materiali, psicologici, morali».
Professore lei nella sua vita ha difeso e difende molti personaggi potenti, a iniziare da Andreotti, poi ha anche clienti come Raniero Busco e Sabrina Misseri. In molti si chiedono come possano permettersi un avvocato di grido.
«Mi scoccia dirlo, ma per un avvocato la parcella non può essere l’unico obiettivo. Se bussano alla mia porta certo non li mando via perché non possono pagare. Non dormirei tranquillo. Faccio i conti con Sabrina? La difendo e basta».
Sabrina Misseri, un processo difficile, ancora in corso. Praticamente tutta l’Italia la crede colpevole.
«Ma questo non mi ferma certo. Sa che le dico? In questo momento il processo di Avetrana è il processo della mia vita».
Avrei detto il processo Andreotti.
«No è Avetrana. Sono assolutamente convinto dell’innocenza della mia assistita e vivo questo processo con una partecipazione profondissima. L’idea di una 22enne in carcere, che sta correndo questi rischi, è una sofferenza quotidiana».
Lei è conosciuto per il suo sangue freddo, il suo distacco. E’ cambiato o la hanno sempre " disegnata" cosi?
«Non bisogna mai farsi tradire dal coinvolgimento, questa è una regola da cui non derogo mai. Ma come si fa a non essere coinvolti in certi drammi umani? Mi ricordo la notte in cui sono tornato da Perugia dopo la condanna ad Andreotti, innocente, a 24 anni per l’omicidio Pecorelli. Lo so solo io cosa ho passato, cosa ho provato, quando sono andato a casa sua a mezzanotte. Ho subito messo a disposizione il mio mandato, ma il Presidente mi ha risposto che la sua fiducia in me, se possibile, era aumentata».
Cosa si è inceppato a Rignano?
«Questo processo non si doveva proprio fare. Dovevano essere archiviate le accuse in udienza preliminare, che dovrebbe essere un filtro importante per evitare processi inutili. Se c’è qualcuno abusato in questa storia sono stati gli imputati».
Un’ostinazione della Procura nelle accuse?
«Sì».
E cosa pensa del dibattito sulla responsabilità dei giudici?
«Non vorrei mai un giudice timoroso di decidere per la paura di poter essere chiamato a rispondere del proprio errore. Limiterei i casi alla colpa gravissima. Sarebbe già un passo avanti se si ripristinasse un minimo di controllo sulla carriera dei magistrati».
E i processi mediatici?
«L’opinione pubblica può influenzare un giudizio in corte di Assise dove ci sono giudici popolari esposti alla televisione e ai media. E trovo inqualificabile che nei salotti tv partecipano persone che poi devono essere ascoltate come testimoni. E che commentano le dichiarazioni di altri testi. E’ possibile in un paese serio? Mi ha chiesto, a inizio intervista, che Italia esce da questi grandi casi di cronaca. Ma la domanda è un altra: che Italia esce dai talk show?».
La Stampa 30.5.12
Il cardinale amico del Papa “Siamo tornati al Medioevo”
Il tedesco Brandmüller, ex presidente del Comitato scienze storiche: mare in tempesta, Ratzinger addolorato
di Andrea Tornielli
CITTÀ DEL VATICANO Il Papa è addolorato ma tranquillo: sa che la Chiesa deve attraversare il mare in tempesta. E sa che lui deve condividere l’esperienza di Gesù…». Walter Brandmüller, 83 anni, cardinale dal novembre 2010, già presidente del Pontificio comitato di Scienze storiche, conosce Joseph Ratzinger fin dagli anni in cui erano entrambi professori universitari in Baviera e ha una lunga esperienza della Curia romana.
Lei è tedesco e conosce il Papa da lungo tempo. Come crede stia vivendo questi momenti? Perché appare così tranquillo?
«Benedetto XVI naturalmente è addolorato, ma è anche certamente tranquillo perché si affida totalmente all’aiuto che arriva dall’Alto. È consapevole che la Chiesa deve attraversare il mare tempestoso di questo mondo, deve attraversare problemi. Le difficoltà non rappresentano certo la situazione ideale, ma direi che sia normale che si viva in mezzo ad esse».
Nel libro intervista con Peter Seewald, «Luce del mondo», il Papa ha detto che bisogna mettere in conto di «sopportare attacchi e opporre resistenza»…
«Il Vangelo è segno di contraddizione, la contraddizione del mondo è quasi il sigillo dell’autenticità del messaggio. Il destino del discepolo di Gesù è quello di condividere la sua esperienza di sofferenza. C’è questa certezza di fede, credo, all’origine della tranquillità di Benedetto XVI».
Da storico della Chiesa, come giudica il momento che stiamo attraversando? Ci sono esempi del passato da paragonare alla situazione odierna?
«Beh, nel Medio Evo un re di Francia, Filippo il Bello, era arrivato a falsificare delle bolle pontificie per screditare Papa Bonifacio VIII. E come non ricordare che alla fine dell’Ottocento, durante il Concilio Vaticano I, durante la discussione sull’infallibilità pontificia, vi furono fughe di documenti usati come base per articoli firmati con pseudonimo, le “Lettere di Quirinio”, e pubblicati in Germania: servivano per screditare il Concilio».
I presunti «corvi» sostengono di aver fatto filtrare documenti per «aiutare il Papa». Come giudica questa affermazione?
«Mi dispiace, ma non posso accettare questa spiegazione. Non si può dire che si sta aiutando il Papa mentre si commettono dei crimini. Così facendo non lo si aiuta affatto ma lo si danneggia soltanto».
Quale crede sia l’esito di ciò che sta accadendo agli occhi dei fedeli nel mondo?
«Credo che i fedeli siano addolorati e lo capisco. Ma credo anche che si sentano ancora più vicini che mai al Papa, condividendo la sua sofferenza».
Qual è la sua personale esperienza della Curia romana che in questi giorni appare attraversata da scontri e tensioni interne?
«La mia esperienza è questa: la Curia romana è sostanzialmente fedele al Papa e alla sua missione. Ci sono tanti buoni elementi che prestano il loro servizio in modo molto competente, disinteressato e fedele. Purtroppo non si può mai escludere che vi siano dei casi di infedeltà. Ma questi non devono mai farci perdere di vista la prima parte di ciò che ho detto».
La Stampa 30.5.12
Il piano per lo Ior: comprare all’estero una nuova banca
Le altre ipotesi: trovare un partner finanziario o riaprire i rapporti con la JP Morgan americana
di Giacomo Galeazzi
CITTÀ DEL VATICANO 33 mila depositanti 5 miliardi di euro Sono i titolari di conti correnti presso lo Ior, due su tre hanno la cittadinanza italiana La cifra depositata presso lo Ior. All’istituto bancario vaticano sono ammessi solo correntisti speciali
La parola d’ordine è voltare pagina. L’ingresso della Santa Sede nella lista dei Paesi virtuosi è a rischio e in Curia si lavora a una «exit strategy». Comprare una banca all’estero, trovare un nuovo partner finanziario, oppure riaprire i rapporti con la JP Morgan (ma stavolta non con le filiali europee bensì direttamente con la casa madre americana). Per uscire dalla situazione di «ridotta operatività» dello Ior, che ormai lavora quasi esclusivamente con Deutsche Bank, e premunirsi da una possibile «bocciatura» dell’Ocse per la scarsa trasparenza, sono in corso grandi manovre attorno alla «cassaforte del Papa».
Il cardinale Tarcisio Bertone sta valutando una rosa di tre possibili soluzioni. Ieri, in una colazione d’affari con il manager di fiducia Giuseppe Profiti, presidente dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, e alcuni esperti di finanza il segretario di Stato (e presidente della commissione di vigilanza sullo Ior) ha discusso del futuro della banca vaticana. Si sta ipotizzando, in particolare, di dare mandato per l’acquisizione di una banca all’estero in modo da poter superare la situazione di stallo determinata dall’adeguamento alle normative richieste per l’ingresso nella «white list» dell’Ocse e dai conti bloccati alla JP Morgan Italia e ad Unicredit in seguito ad inchieste giudiziarie per violazione della normativa antiriciclaggio. Lo Ior spesso opera non come una banca, ma come una vera e propria fiduciaria, che scherma la reale titolarità dei suoi conti correnti. Il problema è esploso due anni fa quando l’Istituto ha ordinato al Credito Artigiano di trasferire 23 milioni di euro alla Jp Morgan di Francoforte (20 milioni) e alla Banca del Fucino per 3 milioni. Lo Ior pretendeva che la banca omettesse le comunicazioni previste dalla normativa antiriciclaggio italiana.
Per questa ragione la Procura di Roma chiese il sequestro e da allora indaga il presidente e il direttore generale dello Ior. E contemporaneamente gli ispettori di Bankitalia hanno chiesto informazioni sui reali intestatari dei soldi movimentati dall’istituto vaticano.
E il nuovo presidente dello Ior? I cardinali della Commissione, che venerdì avrebbero dovuto ratificare la «sfiducia» all’ex presidente dell’Istituto Ettore Gotti Tedeschi votata all’unanimità il giorno prima dal «board», dovranno tornare a riunirsi. Perché l’ultimo incontro tra Bertone, Toppo, Scherer, Tauran e Nicora, si è concluso senza arrivare a una determinazione condivisa, come dimostra la mancata diffusione di un comunicato che pure era stato annunciato. Il braccio di ferro sul «licenziamento» dell’ex banchiere del Papa, quindi, non si è ancora concluso, tutt’altro, e la situazione appare in stallo. Gotti Tedeschi, che di sicuro ha vissuto con molta amarezza le modalità insolitamente brutali del siluramento, sta preparando un «memorandum» in sua difesa prima della nuova riunione della Commissione. E sta cercando sponda al piano più alto del Palazzo apostolico, direttamente dal Papa, con cui da tempo vanta un rapporto di grande stima e fiducia. Poi resta il fatto che, dal punto di vista procedurale, la sua uscita di scena non è stata ancora formalizzata, anche se le funzioni di presidenza dello Ior sono assunte «ad interim» dal vicepresidente Ronaldo Hermann Schmitz, ex ad della Deutsche Bank.
Sullo sfondo restano infine i dissidi che si sono vissuti in Vaticano sul varo delle nuove norme di trasparenza e antiriciclaggio, sulle operazioni di adeguamento che hanno riguardato lo Ior, come pure la perdita di fiducia verso Gotti Tedeschi da parte del cardinale Bertone, determinata anche dall’esito dell’operazione San Raffaele.
La Stampa 30.5.12
Gli scandali in Vaticano
Tre italiani coinvolti La Santa Sede a caccia di prove
Indagini su email e telefonate, collaborazione con i pm Nei mesi scorsi chiesta collaborazione ai Servizi segreti
di Giacomo Galeazzi e Francesco Grignetti
A tutt’oggi Paolo Gabriele è l’unico indagato per la fuga di documenti dall’appartamento papale, ma il cerchio si sta stringendo attorno a tre funzionari laici della Santa Sede, residenti in Italia. «I giudici vaticani chiederanno aiuto alla giustizia italiana, se la loro inchiesta porterà a identificare responsabilità di cittadini italiani», afferma il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. «Questi sono giorni tragici», aggiunge il comandante della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani.
Giani in passato è stato un funzionario del Sisde, i servizi segreti italiani. E proprio all’intelligence italiana è stato richiesto sostegno in due fasi. Innanzitutto quando mesi fa il «corvo» iniziò a passare carte segrete ai mass media e la Santa Sede chiese informalmente aiuto al governo italiano che autorizzò i servizi a collaborare con la Gendarmeria, senza però che i colpevoli venissero individuati.
In un secondo momento, il comandante Giani sarebbe tornato alla carica con gli italiani - sia l’intelligence, sia le forze di polizia - chiedendo supporto per intercettare telefonate e mail. Ma questo aiuto non poteva certo arrivare senza il «placet» delle autorità politiche. La Gendarmeria ha comunque fatto le sue indagini, e ora si è a un passo da una svolta. Come detto, ci sono tre laici che lavorano in Vaticano, ma sono cittadini italiani e risiedono a Roma, in cima all’elenco dei sospettati. Secondo gli investigatori che lavorano oltreTevere le responsabilità dei tre sono evidenti. Si attende forse che facciano un passo falso. E se finora non è stata avanzata alcuna richiesta di rogatoria verso la magistratura italiana, non mancherebbe molto per chiedere assistenza giudiziaria e sequestrare i loro computer privati. Oltretutto sui server di posta elettronica, le mail vengono conservate per cinque anni. Sarà agevole, al momento opportuno, verificare se qualcuno di questi ha maneggiato documenti proibiti.
Il maggiordomo infedele, intanto, ha incontrato i suoi avvocati Carlo Fusco e Cristiana Arrù, ma gli interrogatori formali cominceranno solo tra qualche giorno. La sua situazione sembra seriamente compromessa: padre Lombardi ieri ha precisato che il materiale trovato in casa dell’aiutante di Camera è «sufficiente» a motivare le accuse formulate contro di lui. Il sospetto è che Paolo Gabriele sia però soltanto una pedina in questo gioco, e nemmeno quella più importante. Probabilmente era il «postino» addetto a far filtrare le carte segrete fuori dalle mura vaticane.
E sembra che davvero Paolo Gabriele abbia promesso di collaborare con gli investigatori vaticani. Il suo sarà un aiuto «ampio, fruttuoso e molto positivo», per stare alle parole di padre Lombardi. Nel frattempo è stato trasferito in un’altra cella, sempre all’interno della caserma vaticana ed è tenuto sotto costante osservazione. All’interno della cella, infatti, e anche nel bagno, sono attive delle telecamere che lo riprendono 24 ore su 24.
La commissione cardinalizia che sovrintende l’inchiesta continua poi le sue audizioni, i tre cardinali De Giorgi, Herranz e Tomko vogliono svolgere «con tranquillità il loro lavoro» e in pieno coordinamento con il Tribunale e la Gendarmeria. Dai colloqui della commissione potrebbe essere nata l’indiscrezione fallace sull’interrogatorio di cinque porporati.
«La commissione - ha ricordato padre Lombardi - può anche sentire dei cardinali come responsabili di uffici della curia romana», ma questi non sono da considerarsi automaticamente interrogatori collegati all’arresto del maggiordomo. In uno dei colloqui sarebbe affiorato un riferimento ad una non meglio precisata lista di ecclesiastici massoni. Un riferimento che richiama alla mente il periodo buio della loggia «Ecclesia» emersa 34 anni fa con decine di presunti affiliati tra cardinali e vescovi di Curia.
Repubblica 30.5.12
I "corvi" all’attacco di padre Georg e lo scontro con la segreteria di Stato
Tensione anche tra il collaboratore del Papa e il cardinal Bertone
di Marco Ansaldo
Il "primo ministro" del Vaticano aveva già mal sopportato l´aumento di peso di monsignor Corbellini nella Curia Romana
"Il vero motivo delle invidie rivolte al segretario personale del Papa? Semplice: è lui che lo ha diviso da Bertone"
Padre Gänswein ha ormai assunto il ruolo di consigliere del Pontefice e gestisce l´agenda di Benedetto XVI
CITTÀ DEL VATICANO - «Il vero motivo degli attacchi contro padre Georg? Semplice: è lui la persona che ha staccato Bertone dal Papa. Possiede fascino, influenza, e nell´ultimo periodo ha sempre più assunto visibilità esterna, oltre che spazio presso il Pontefice. Un potere che ha finito per dare molto fastidio alla Segreteria di Stato». Continuano in Vaticano le indagini sulla pubblicazione dei documenti riservati della Santa Sede inviati ai media. Prosegue la caccia ai "corvi", gli autori materiali della fuoriuscita delle carte. Ma si approfondisce anche il racconto delle vicende interne, che gli informatori aiutano a comprendere svelando quel che accade nel cuore del Vaticano.
Di monsignor Georg Gaenswein molto si è detto e letto sulla stampa. Ha sempre colpito, sotto la tonaca indossata elegantemente, il suo aplomb. Stile di vita sportivo, e carica spirituale intensa per un uomo profondamente appassionato di teologia. Di pari passo, negli anni più recenti Gaenswein ha però anche assunto un ruolo di consigliere di Joseph Ratzinger, del quale è conterraneo. Un incarico non ufficiale, che tuttavia dentro le Sacre Mura lo ha messo nel mirino.
Nel luglio 2009 monsignor Giorgio Corbellini viene eletto dal Papa vescovo titolare e nominato alla Sede Apostolica presidente dell´ufficio del Lavoro. Un anno più tardi arriva anche la nomina a presidente della Commissione disciplinare della Curia. Due incarichi di grande rilievo, che gli permettono di mettersi a contatto e conoscere ogni dettaglio dei singoli apparati: la Gendarmeria, il Museo, la Biblioteca, la Fabbrica di San Pietro. È il ruolo di un direttore delle risorse umane. Scatta per lui - così come avverrà con Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dello Ior prima in asse con il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, poi la scorsa settimana licenziato in tronco - un meccanismo di attrito con la Segreteria di Stato. Corbellini decide di riferire direttamente al Papa, attraverso don Georg come interlocutore, e Bertone non la prende bene. Il vescovo rimane così al palo nella sua aspirazione di salire di grado, visto gli importanti incarichi che ricopre, e a bloccarlo è proprio la Segreteria di Stato. Gaenswein vorrebbe aiutarlo presso il Papa, ma il passo significherebbe uno scontro con Bertone.
È anche da questo episodio che comincia a consumarsi il rapporto fra i due uomini più vicini al Pontefice. Progressivamente, il giovane aiutante del Papa comincia però ad abbandonare la figura di semplice comparsa dietro le quinte, e Benedetto XVI gli ritaglia un ruolo più centrale. È lui a ricevere le lettere, dall´esterno e dall´interno, inviate a Sua Santità. Ed è sempre lui a smistare le richieste di udienza, a dire di sì oppure di no, a dettare l´agenda dei ricevimenti del Papa. Con il passare del tempo, il brillante monsignore tedesco svolge un´attività che il pur influente segretario di Giovanni Paolo II, don Stanislao Dziwisz, oggi cardinale di Cracovia, non ha mai compiuto se non all´ultimo, quando ormai Karol Wojtyla era nel periodo terminale della sua vita. Ma Georg, don Giorgio come lo chiamano amichevolmente, non bada solo alla salute del Papa: consiglia Ratzinger nei libri da scrivere (quello su Gesù), rilegge i discorsi più delicati, lo indirizza verso le persone da incontrare. Con un piglio pragmatico che non piace sempre a tutti. Quando ad esempio Bertone invia una lettera al cardinale Dionigi Tettamanzi per dirgli di rassegnare le dimissioni dall´Istituto Toniolo, la cassaforte che controlla l´Università Cattolica, in uno scontro al calor bianco, l´arcivescovo di Milano decide infine di inviare le sue risposte direttamente al Papa, e lo fa tramite l´assistente personale del Pontefice.
Negli ultimi anni, in più, l´immagine di Gaenswein è sfondato nei media e tra il pubblico. Il monsignore centellina i suoi appuntamenti. Ma va a parlare nelle Università, riceve una Laurea honoris causa, viene invitato a conferenze (e sa anche quando fermarsi, come giovedì scorso dove lo volevano premiare a Pordenone alla vigilia del licenziamento di Gotti e dell´arresto del maggiordomo papale). È però lui, oggi, ad avere in mano le redini dell´Appartamento papale. E gli attacchi che gli arrivano sono dovuti a gelosie e invidie interne. Provengono soprattutto da chi non sopporta di vedere filtrato il rapporto con il Pontefice. Il cardinale Bertone, per lunghi anni al Sant´Uffizio, poi nella segreteria di Stato, è stato l´indiscusso e solidissimo braccio di ferro di Joseph Ratzinger. E i due sono legati da una forte amicizia. Ma ora la prossimità di padre Georg al Papa, e la sua maturazione come uomo e sacerdote, gli hanno assegnato una posizione invidiabile in Vaticano. Ed è diventato un obiettivo da colpire.
Il Papa adesso è triste, dicono tutti nelle Segrete stanze. «Sente questa come una prova», ha spiegato ieri il suo portavoce, padre Federico Lombardi, riferendosi alla vicenda del suo cameriere arrestato. Per lui è un «dolore specifico», perché tocca una persona a lui vicina e che stimava. «Una situazione delicata e difficile», l´ha descritta ieri il cardinale Angelo Scola, nuovo arcivescovo di Milano, dal quale il Pontefice andrà in visita da venerdì a domenica prossima. Ieri una lunga intervista pubblicata sull´Osservatore Romano ha rotto il silenzio del quotidiano ufficiale della Santa Sede sulla vicenda del maggiordomo arrestato. «Considero la pubblicazione delle lettere trafugate - ha detto monsignor Angelo Becciu, Sostituto della Segreteria di Stato, al direttore del giornale, Giovanni Maria Vian - un atto immorale di inaudita gravità. Soprattutto perché non si tratta unicamente di una violazione, già in sé gravissima, della riservatezza cui chiunque avrebbe diritto, quanto di un vile oltraggio al rapporto di fiducia tra Benedetto XVI e chi si rivolge a lui, fosse anche per esprimere in coscienza delle proteste». Nel cuore del Vaticano non si parla d´altro.
l’Unità 30.5.12
La Curia: «Immorale fuga di notizie»
Il braccio destro di Bertone all’Osservatore: «Atti di gravità inaudita»
Paolo Gabriele pronto a collaborare
di Roberto Monteforte
«Il Pontefice è particolarmente addolorato anche per la violenza subìta dagli autori delle lettere o degli scritti a lui indirizzati. È stato un atto brutale». Lancia il suo affondo contro la campagna mediatica di questi giorni e contro il «Vatileaks» monsignor Angelo Becciu. È il sostituto alla segreteria di Stato, il numero due del cardinale Bertone che in un’intervista rilasciata al direttore dell’Osservatore romano, Giovanni Maria Vian pubblicata sulla prima pagina del quotidiano vaticano, sottolinea «l'esito positivo» dell'indagine, anche se «amaro» e critica con durezza le «modalità dell’informazione». «Preoccupano e rattristano» afferma perché hanno «scatenato fantasie senza alcuna rispondenza alla realtà».
Chiarisce subito il punto, in polemica con chi invoca la trasparenza e il diritto di cronaca e quindi il buon diritto di pubblicare documenti riservati, anche quelli indirizzati al pontefice. «Considero la pubblicazione delle lettere trafugate un atto immorale di inaudita gravità». «Non si tratta aggiunge unicamente di una violazione, già in sè gravissima, della riservatezza alla quale chiunque avrebbe diritto, quanto di un vile oltraggio al rapporto di fiducia tra Benedetto XVI e chi si rivolge a lui, fosse anche per esprimere in coscienza delle proteste». Beggiu insiste: «Non sono state semplicemente rubate delle carte al Papa, si è violentata la coscienza di chi a lui si rivolge come al vicario di Cristo, e si è attentato al ministero del successore dell'apostolo Pietro». «In parecchi documenti pubblicati sottolinea ci si trova in un contesto che si presume di totale fiducia. Quando un cattolico parla al Romano Pontefice, è in dovere di aprirsi come se fosse davanti a Dio, anche perché si sente garantito dalla assoluta riservatezza».
Conclude il suo ragionamento rivolgendosi al mondo dei media. «Un po’ di onestà intellettuale e di rispetto della più elementare etica professionale non farebbe certo male al mondo dell'informazione». Quello che comunque monsignor Beggiu assicura, malgrado «l’amarezza e il dispiacere per quanto è accaduto» è la «determinazione e fiducia nell'affrontare una situazione francamente difficile».
Lo ha confermato ai giornalisti anche il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi facendo il punto sull’inchiesta. Sarà interrogato presto, al massimo i primi giorni della prossima settimana Paolo Gabriele l’ex maggiordomo del Papa rinchiuso nella camera di sicurezza della gendarmeria con l’accusa di «furto aggravato». Nel suo appartamento sarebbero stati trovati lettere e documenti indirizzati al pontefice. Padre Lombardi ha anche confermato l’intenzione di collaborare espressa per conto del giovane dai suoi avvocati che ieri hanno potuto incontrarlo ancora una volta. L’inchiesta continua. «Paoletto», come viene affettuosamente chiamato in Vaticano Paolo Gabriele, per ora è l’unico formalmente incriminato. Restano ancora da scoprire gli altri responsabili del «furto», chi ha «diffuso i materiali» e gli eventuali «ricettatori». Ma anche quale sia il fine e soprattutto chi sia il regista dell’operazione.
Oltrevere si è convinti che l’ex maggiordomo del Papa benché responsabile di «comportamenti inqualificabili» sia solo un ingenuo esecutore. Forse anche per questo, oltre che per l’affetto e la vicinanza verso la sua famiglia, molto stimata in Vaticano, vi è stata la scelta irrituale della Sala Stampa vaticana di diffondere i comunicati del suo collegio di difesa. C’è pure chi dà per sicuro il «perdono» di Benedetto XVI verso chi per sei anni è stato il suo «aiutante di camera». Sono ancora tante le incognite legate allo sviluppo dell’inchiesta, comprese quelle legate alla possibile richiesta di collaborazione delle autorità di giustizia vaticane con la magistratura italiana.
il Fatto 30.5.12
Il Vaticano trova tre talpe intorno a Bertone, ma non le può arrestare
Sono cittadini italiani, serve il via libera della Severino
di Carlo Tecce
Quando padre Federico Lombardi, il portavoce vaticano, comunica un messaggio che supera il colonnato di San Pietro è sempre un enigma carpirne il significato profondo. Quasi per anticipare le curiosità, stavolta, padre Lombardi ha parlato di un’ipotesi che può diventare una certezza: “Se necessario, si chiederà la collaborazione con la Giustizia italiana”. Appare inevitabile ora che i sospettati fra la Segreteria di Stato sono tre: tutti funzionari, tutti italiani. Non cittadini vaticani che risiedono dentro le mura leonine come Paolo Gabriele, il presunto traditore che sfruttava il ruolo di maggiordomo di Benedetto XVI per trafugare documenti riservati. L’inchiesta vaticana, sospesa fra una lotta di potere senza precedenti, inizia a spuntare quella lunga lista di venti talpe che guida l’azione dei gendarmi coordinati dal poliziotto Domenico Giani. I tre uomini individuati pare che abbiano già avuto colloqui con gli inquirenti e con la commissione cardinali-zia che presiede l'indagine: ripetuti interrogatori per confermare le prove raccolte in queste settimane. Ma per formalizzare le imputazione contro i tre cittadini italiani, il Vaticano ha bisogno di interagire con il nostro ministero per la Giustizia.
IL PORTAVOCE del ministro Paola Severino fa sapere che nessuna richiesta ufficiale o ufficiosa è arrivata in via Arenula, per il momento. Poi il sostegno italiano andrebbe attentamente valutato e calibrato per creare un rapporto biunivoco, non soltanto a favore del Vaticano che, il passato insegna, rivendica sempre la sua autonomia. Ormai è chiaro che il livello più basso, il braccio operativo riconosciuto in Gabriele, rispondesse a un gruppo di cardinali in aperto contrasto con la gestione di Tarcisio Bertone. Però appena la posizione del Segretario di Stato può vacillare, si è parlato di una sostituzione a dicembre, ecco che un intervento indiretto di Benedetto XVI rimette ordine. Quando l’Osservatore Romano, l’organo ufficiale del Papa, pubblica un’intervista a monsignor Giovanni Becciu, un collaboratore di Bertone, dimostra che la fiducia fra Benedetto XVI e il cardinale piemontese è ancora intatta. È proprio Becciu che riporta i sentimenti del Papa: “Ha subito un atto brutale. È addolorato, ma ha pietà di Gabriele”. Il monsignor definisce “criminoso” il libro di Gian Luigi Nuzzi al mandato di Bertone. Non è finita nemmeno la partita per lo Ior: incassata la ruvida lettera che licenziava il presidente Etto-re Gotti Tedeschi, scritta a caldo dal consiglio di Sorveglianza, i quattro cardinali che compongono la commissione devono riunirsi di nuovo. Perché Pierre Tauran e Attilio Nicora, quest'ultimo vicino a Scola e Tettamanzi, due oppositori di Bertone, chiedono di non liquidare così la cacciata di Gotti Tedeschi.
Sua Santità, Chiarelettere – che fa entrare i lettori in stanze e segreti inviolabili, ma giustifica le tensioni: “Non siamo mummie, il dissenso non è scandalo”. Chissà se l’assenza di due cardinali, domenica scorsa a San Pietro sia una semplice coincidenza o una forma di dissenso. I due cardinali sono Angelo Sodano e Giovanni Battista Re, che si possono definire non perfettamente aderenti al metodo Bertone. Non è finita nemmeno la partita per lo Ior: incassata la ruvida lettera che licenziava il presidente Gotti Tedeschi, scritta a caldo dal consiglio di Sorveglianza, i quattro cardinali che compongono la commissione devono riunirsi di nuovo. Perché Pierre Tauran e Attilio Nicora, quest’ultimo vicino a Scola e Tettamanzi, due oppositori di Bertone, chiedono di non liquidare così la cacciata di Gotti Tedeschi.
il Fatto 30.5.12
Intervista a don Andrea Gallo
“Ratzinger è debole, comanda l’Opus Dei”
di Fabrizio d’Esposito
Prete di strada, con fama di disubbidiente, don Andrea Gallo stavolta ha bisogno di fare una premessa: “Sono un prete da oltre 52 anni e sai perché? Perché ho aderito a Gesù e alla Chiesa, pensa un po’. Mi chiamano contestatore ma io non contesto nulla. Ho avuto cinque cardinali arcivescovi e accetto la correzione fraterna. Non me ne vado ma non taccio”.
Sulla Chiesa del potere e del denaro volano corvi nerissimi.
Finalmente i mass media stanno pubblicando queste lettere. Qui ormai siamo di fronte a un imponente apparato finanziario che opera a livello mondiale. La Chiesa già aveva avuto uno scossone cercando di occultare lo scandalo dello pedofilia. Ecco perché il messaggio di Gesù e del Vangelo non raggiunge più gli uomini. Questa è la mia vera amarezza.
I protagonisti sono genovesi come lei: Bertone, Bagnasco, l’ambizioso cardinale Piacenza che vuole fare il segretario di Stato.
Li conosco benissimo tutti e tre e dico che il più pericoloso è il cardinale Piacenza.
I classici giochi di Curia si sono trasformati in una guerra senza precedenti.
Vent’anni fa conobbi un monaco di cui non faccio il nome perché è vivo e scrive libri. Era un un importante dirigente vaticano. Gli chiesi: “Come va a Roma? ”. Lui mi rispose: “Roma è una sede vacante, governa l’Opus Dei”.
La prelatura fondata da Josemaria Escrivà, oggi santo.
Ho rivisto il monaco due anni fa e gli ho fatto un’altra domanda: “È sempre valido quello che mi dicesti? ”. Mi ha fatto un sorriso bellissimo e mi ha detto: “È ancora valido”. Uno dei tre inquisitori che indagano è il cardinale Casado, allievo di Escrivà. Il vero problema della Chiesa è una grande crisi di leadership. Non posso assumermi la responsabilità di tacere.
Un papa debole.
Ratzinger è entrato papa in un Conclave strano, durato appena due giorni. La Controriforma è continuata e Roma è rimasta cieca e sorda di fronte ai fedeli. Ci sono pilastri dogmatici che nulla hanno a che vedere con la Bibbia.
La casa di Dio invasa dal fumo di Satana.
Quando sento dire che il vento diabolico soffia sulla casa di Dio mi chiedo: ma chi è questo Dio che abita in Vaticano? È quella la vera casa di Dio? La Chiesa però è sempre gloriosa. Ed è “semper reformanda”.
Uno dei punti del Concilio Vaticano II.
Concilio significa confronto non arroganza del ministero ed esclusione dalla comunione. Ratzinger ha sfiorato l’eresia nel-l’omelia dell’ultimo Giovedì Santo, rispondendo all’appello dei teologi tedeschi.
Chiusura netta.
Ha negato l’ordinazione femminile perché non c’è alcuna indicazione in merito da Nostro Signore, ha detto. Ma allora il Signore ha dato indicazioni più precise per fondare lo Ior? Poi ha citato un’enciclica del Beato Giovanni Paolo II che “irrevocabilmente nega” il sacerdozio femminile. Hai capito? Giovanni Paolo II era una persona sulla terra non Dio eppure ha il potere di negare irrevocabilmente.
Il futuro è nero come i corvi che volano da mesi?
Ripeto, la Chiesa è sempre gloriosa e deve essere salvata da noi cattolici. Non è possibile continuare così. Anche il cardinale Martini si era espresso per un nuovo Concilio. Oggi abbiamo una crisi spaventosa di vocazioni. Nella mia diocesi solo un sacerdone negli ultimi due anni.
Colpa degli scandali, dalla pedofilia alle lotte di potere?
Aggiungo l’obbligo del celibato. Ma la Chiesa siamo noi e dobbiamo salvarla, come ha scritto nel suo ultimo libro il grande teologo Hans Kung. Il Vaticano è il nuovo Vitello d’oro. Finirà che da disubbidiente divento teologo.
il Fatto 30.5.12
Santa sede: “ridicole dimissioni del Papa”
Semplicemente ridicolo”. Così commentano negli ambienti ecclesiastici l’intervento di Giuliano Ferrara che ha chiesto esplicitamente le dimissioni di Benedetto XVI, per liberare la Chiesa da questo “peso ingombrante e darle una ventata di nuovo spirito”. A riferirlo sono fonti vicine al Vaticano secondo le quali, “non si cerca solo di liquidare il Cardinale Bertone come Segretario di Stato, ma ormai si punta addirittura all’attacco diretto a Papa Benedetto XVI. Ma una volta Radio Londra non era la radio delle cose serie?”. Infatti, dopo l’editoriale su Il Giornale, Ferrara torna a ribadire il suo suggerimento al Pontefice, ovvero quello di fare un passo indietro, anche a Radio Londra, la trasmissione dell Ferrara-pensiero su Rai1. “Sogno le dimissioni di Benedetto XVI per il bene della Chiesa: che la Chiesa riparta senza ombre e senza scandali, e Ratzinger se ne torni a fare il teologo in Baviera”. Una posizione netta e contraria al solito atteggiamento per un personaggio che non ha mai nascosto la sua ammirazione per Joseph Ratzinger. Eppure per Ferrara la fine del papato di Benedetto XVI è segnata, il mandato potrebbe essere concluso per la necessità di un rinnovamento all’interno del Vaticano. “Il Vaticano è al centro di una serie di scandali, il vento scuote la casa di Dio, è il momento di un nuovo ciclo di storia della chiesa e del cristianesimo. Per avviare questo nuovo ciclo vorrei che il Papa scrivesse i suoi libri in un eremo in Baviera e che lasci il posto a un nuovo Pontefice al di sopra di tutto. Questo è il sogno di un uomo che vuole bene alla chiesa”.
La Stampa 30.5.12
Bocciato il ricorso. Un omicidio «crudele» e «brutale»
Condannato il governo italiano per l’accordo economico raggiunto coi parenti delle vittime
L’Alta Corte “Sui marò la competenza è del Kerala”
di Marco Bresolin
Un omicidio «crudele» e «brutale», la cui competenza giuridica è delle autorità del Kerala. Ennesimo passo indietro nella vicenda dei due marò accusati di aver ucciso due pescatori indiani. Ieri l’Alta Corte di Kerala ha infatti respinto il ricorso presentato dal governo italiano sul conflitto di giurisdizione nel procedimento che vede coinvolti Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. «Una situazione inaccettabile e paradossale» ha tuonato Margherita Boniver, inviato speciale della Farnesina, che ieri a Nairobi ha discusso della questione pirateria con il ministro dell’Interno del Kenya.
La sentenza messa nero su bianco dal giudice Gopinathan non coglie certo di sorpresa i diplomatici italiani che stanno seguendo la vicenda, ma allontana ulteriormente la possibilità di risolvere la questione. Anche perché i toni usati dal magistrato, nelle 60 pagine in cui ha motivato la sua decisione, sono tutt’altro che concilianti. Oltre a definire «crudele» e «brutale» l’uccisione dei due pescatori, il giudice ha infatti precisato che i due militari non dispongono di alcuna immunità, nonostante il governo di Roma sostenga che i due militari, essendo organi dello Stato, vadano giudicati in Italia. «Nei documenti - si legge nella sentenza - non c’è nulla da cui si possa desumere che i marò avessero “libertà assoluta” di sparare e uccidere persone. Loro erano agli ordini del capitano». Ma, visto che «non c’è nulla che indichi che il capitano avesse dato un ordine di sparare», la responsabilità viene fatta cadere interamente su di loro.
La questione della giurisdizione era stata sollevata anche in merito al luogo dell’«incidente», avvenuto in acque internazionali. L’Alta Corte ha però smontato anche questa contestazione. «Esiste una sentenza del 1981 - ha scritto il magistrato - che impone allo Stato (il Kerala, ndr) di intervenire fino al limite della Zona di interesse economico (che si estende fino a 200 miglia nautiche, ndr) se il passaggio di una nave privata crea problemi gravi alla sua sicurezza».
Ma non è tutto, perché il governo italiano e i famigliari delle vittime sono stati condannati a pagare un’ammenda per aver raggiunto un accordo extragiudiziale. I parenti dei due pescatori dovranno sborsare 10 mila rupie ciascuno (circa 144 euro), mentre lo Stato italiano 100 mila (1.400 euro). Per oggi, infine, è attesa la sentenza sulla richiesta di concedere la libertà vigilata ai due militari, che nei giorni scorsi sono stati trasferiti dal carcere di Trivandrum alla Borstal School di Kochi. Proprio ieri la stampa indiana ha riportato una notizia curiosa: un indiano residente in Italia avrebbe offerto all’Alta Corte un terreno dal valore di 285 mila euro come garanzia per concedere la libertà ai due militari.
La Stampa 30.5.12
L’Esercito italiano vuole i droni armati Washington nicchia
Ferma al Congresso la richiesta di Roma
di Francesco Grignetti
L’ Italia vuole armare i suoi aerei senza pilota. Sono sei i cosiddetti «droni», velivoli comandati da terra, che gli italiani vorrebbero trasformare da occhio elettronico volante a micidiale artiglio che può sparare missili. Ma queste non sono tecnologie che si comprano al supermercato. Oltretutto, in una logica di non-proliferazione, gli Stati Uniti sono particolarmente gelosi di queste armi sofisticatissime. E quindi, da mesi, visto che la Gran Bretagna li ha ottenuti nel 2008, il governo italiano corteggia quello americano per avere il «via libera» ai missili. Ora la parola è passata al Congresso degli Stati Uniti, che secondo le procedure di legge ha l’ultima parola. Secondo quanto riportava ieri il quotidiano «The Wall Street Journal», c’è stato un primo passaggio significativo. Ma l’ultima parola è ancora lontana. Ci sono infatti alcuni settori del Congresso che resistono all’idea di condividere una tecnologia così esclusiva. L’Inghilterra, come ha ricordato Dianne Feinstein, la senatrice democratica che guida la Commissione Intelligence e capolifila degli scettici, «è un caso particolare».
Le forze armate statunitensi usano ormai largamente i droni. A scorrere le notizie delle ultime due settimane, un aereo senza pilota ha lanciato un missile contro un convoglio sospetto in Yemen uccidendo tre presunti militanti di Al Qaeda; poi due aerei senza pilota hanno colpito nel Pakistan del Nord nel giro di 48 ore. In Afghanistan, poi, i droni sono usati quotidianamente. Anche quelli italiani. Con la differenza che quelli americani viaggiano armati di missili e all’occorrenza possono colpire. I nostri Reaper (chiamati anche Predator B), al contrario, si limitano a osservare. E ci fu almeno un caso, un anno fa, in cui un «drone» italiano individuò un gruppo di attentatori che stava sistemando un ordigno lungo una strada
Un paio di anni fa, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e direttore della fondazione «Icsa» Leonardo Tricarico, polemizzava così: «È grazie alla vigilanza degli occhi elettronici se viene scoperto un terzo degli ordigni che la guerriglia piazza lungo le vie dove passano i nostri convogli e le nostre pattuglie. Quando un Reaper individua qualcosa di sospetto, o meglio quando lo si individua dalla sala operativa, scatta l’allarme. In genere si manda una pattuglia a controllare e a disinnescare l’ordigno. Insomma si passa all’intervento umano. Però così si rischiano le vite».
Fonti dell’esercito americano citate dal «The Wall Street Journal» sostengono che l’Italia appunto vorrebbe utilizzare questi aerei in Afghanistan e che sarebbe interesse di tutti gli alleati che un Paese come l’Italia abbia questo tipo di capacità. Ma è almeno un anno che i due governi ne parlano senza decidere. Il rischio, se e quando finalmente arriverà dall’Amministrazione Obama il sospirato
«via libera», considerando poi che ci vorranno almeno dodici mesi per addestrare i piloti che da terra guidano i droni, è che probabilmente i nuovi velivoli arriveranno quando le truppe italiane avranno già lasciato l’Afghanistan.
«Stiamo ancora lavorando con gli Usa - diceva qualche settimana fa il capo di stato maggiore dell’Aeronautica, generale Bernardis, intervistato dal giornale di settore «Airpress» - per poter avere il dispositivo con le armi connesse. Non necessitiamo di grandi numeri, però abbiamo bisogno di quella capacità, che è molto interessante e strategica, e permette in certi tipi di azione di evitare l’impiego di velivoli pilotati, di conseguenza abbattendo i costi. Come attività è consolidata, non ha grandi difficoltà tecniche. Le difficoltà sono di esecuzione. Non per nulla ce l’hanno solo gli americani. Speriamo che gli Usa siano volenterosi».
Corriere 30.5.12
Le super-armi degli americani montate su droni italiani
Gli aerei senza pilota colpiranno in Afghanistan
di Massimo Gaggi
NEW YORK — «I killer silenziosi» è il titolo del lungo servizio dedicato dal settimanale Newsweek al modo in cui i droni armati hanno cambiato la strategia dell'intervento militare Usa in molte aree del mondo, dall'Afghanistan alla Somalia allo Yemen. Una guerra dei robot per proteggere le truppe o, addirittura, per colpire obiettivi terroristici senza dover mettere in campo soldati. Gli aerei Usa senza pilota, come l'ormai celebre «Predator», sono, però, anche un'arma che pone nuovi problemi etici prima ancora che tecnici.
Attacchi nei quali uccidere è molto più facile che catturare e nel corso dei quali spesso l'eliminazione di un terrorista comporta il «danno collaterale» di vittime innocenti. Ma è questo il futuro della tecnologia bellica. E questa è la strada che Barack Obama ha imboccato con determinazione, assumendosi responsabilità personali molto pesanti. Fino al punto di avere l'ultima parola sulla «kill list», la lista dei terroristi che il governo americano intende eliminare considerandoli una minaccia mortale, come ha raccontato ieri il New York Times.
Tra qualche anno una responsabilità simile, anche se in scala ridotta e più politica che operativa, potrebbero doversela assumere anche i capi del governo e delle forze armate italiane. Anche il nostro Paese, infatti, si sta dotando di droni e quelli attualmente in servizio, usati come semplici ricognitori, potrebbero ben presto essere armati trasformandosi, quindi, in strumenti micidiali.
Da tempo l'Italia aveva chiesto agli Stati Uniti di poter armare con missili «Hellfire» e bombe a guida laser i suoi droni (dodici in tutto) e soprattutto i sei «Reaper» (più grandi e più avanzati dei «Predator») che sono schierati in Afghanistan a protezione del nostro contingente di circa quattromila uomini. Ma fin qui solo gli Amx, i caccia italiani con pilota a bordo trasferiti dall'Aeronautica militare nel Paese dell'Asia centrale, sono stati armati.
La richiesta italiana, presentata qualche anno fa, era stata infatti accantonata dal governo americano. Fin qui Washington ha consentito solo alla Gran Bretagna (e fin dal 2008) di armare i suoi droni di costruzione americana, in virtù della «relazione speciale» tra i due Paesi. Nei confronti degli altri alleati aveva prevalso un atteggiamento di maggior prudenza, nel timore di rendere troppo facilmente accessibile una tecnologia bellica assai sofisticata.
Ma questo atteggiamento è cambiato di recente: la Casa Bianca ha deciso di autorizzare la vendita dei sistemi d'arma all'Italia e ha chiesto al Congresso il relativo «nulla osta». Una procedura fin qui condotta in modo abbastanza riservato nel corso della quale, però, sono emerse riserve di alcuni influenti parlamentari. Perplessità che ieri sono finite sulla prima pagina del Wall Street Journal. Non si contesta il diritto dell'Italia, alleato fedele e molto impegnato in Afghanistan, di difendere con gli strumenti più efficaci i suoi soldati. Ma c'è il timore che, una volta autorizzata la cessione di tecnologia all'Italia, sia poi impossibile negare gli stessi missili e le stesse bombe «intelligenti» agli altri alleati. E in lista d'attesa ci sono già partner della Nato come la Turchia che, probabilmente, userebbero i droni anche contro i ribelli curdi nel Sud-Est del Paese.
Le riserve sono di molti parlamentari e soprattutto dell'influente senatrice della California Dianne Feinstein, democratica come Obama, che presiede la Commissione servizi segreti del Congresso. In realtà il termine entro il quale il Parlamento avrebbe potuto intervenire per bloccare la decisione della Casa Bianca (che si è mossa nel clima di maggior fiducia istaurato con Mario Monti e coi ministri degli Esteri e della Difesa, Terzi e Di Paola) è trascorso senza che venisse proposto alcun veto. Rimane, comunque, ancora un margine d'incertezza e questo spinge i due governi a mantenere un certo riserbo, a parte una dichiarazione del Pentagono, per il quale i droni armati aiuterebbero in Afghanistan tutte le forze alleate e non solo i soldati italiani.
In realtà l'orizzonte è più ampio: anche se arriverà il via libera del Congresso, i tempi tecnici per l'installazione del sistema d'arma sono, infatti, superiori a un anno. E gli alleati della Nato hanno già deciso il ritiro dall'Afghanistan nel 2014 e la fine delle operazioni militari in campo aperto già a metà del 2013.
Insomma, gli Stati Uniti si stanno semplicemente preparando (con tute le cautele strategiche del caso) a monetizzare sul piano commerciale il loro vantaggio tecnologico nel campo dei velivoli senza pilota, mentre le nostre Forze armate si adeguano alla nuova dottrina bellica. Un futuro che sarà ineluttabilmente dei droni, da Sigonella, dove arriveranno i grandi «Global Hawk» della Nato, capaci di sorvegliare tutto il Nord Africa (comprese le aree sub sahariane dei nuovi covi di Al Qaeda), fino all'Iraq che difenderà coi «Reaper» le sue istallazioni petrolifere e le vie di navigazione del Golfo Persico.
La Stampa 30.5.12
La lista di Obama dei terroristi da uccidere
Ogni martedì al presidente è sottoposto un elenco di jihadisti pericolosi per gli Usa
di Maurizio Molinari
E’ il presidente americano Barack Obama ad autorizzare di persona la scelta dei nomi dei terroristi di Al Qaeda che vengono bersagliati e uccisi dai droni della Cia in Pakistan, Afghanistan, Somalia, Yemen e altrove. A rivelarlo è un’inchiesta del «New York Times» sulla «Kill List», la lista dei jihadisti da eliminare che ogni martedì viene sottoposta al Presidente al termine di un processo di selezione che, fra Cia e Pentagono, coinvolge circa cento alti funzionari. Agli incontri nel «Terror Tuesday» il martedì del terrore - partecipano nella «Situation Room» della Casa Bianca il Presidente, il consigliere antiterrorismo John Brennan, con alle spalle 25 anni nella Cia, il consigliere per la Sicurezza nazionale Tom Donilon e lo stratega politico David Axelrod. E’ un collegamento video dal Pentagono che vede alternarsi specialisti militari e dell’intelligence nell’illustrare a Obama chi è stato eliminato e chi è entrato nella «Kill List», soffermandosi sulle diverse «nomination» di chi è candidato ad essere eliminato. Sono i consiglieri del Presidente a spiegare che la scelta di Obama di assumersi la responsabilità di chi uccidere risale alle sue letture degli scritti sulla guerra di Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino perché lo hanno portato a ritenere di doversi assumere la «responsabilità moderale di tali azioni». «Obama è un Presidente che si sente a proprio agio nell’usare la forza per conto degli Stati Uniti» assicura Donilon.
Per capire come sia stato possibile che lo stesso Obama, contrario al conflitto in Iraq e ostile alla formulazione della «guerra globale al terrorismo» ereditata dal predecessore George W. Bush, sia arrivato a gestire la «Kill List» bisogna partire dal 2009. Nel primo anno alla Casa Bianca infatti Obama si trova di fronte alla strage di Fort Hood - 13 vittime - e al fallito attentato di Natale contro un jet commerciale a Detroit, arrivando alla conclusione che dalle basi in Yemen è Al Qaeda che sta tentando di far deragliare la sua presidenza. Poiché in entrambi i casi il mandante è l’imam yemenita-americano Anwar al-Awlaki è Obama ad ordinare di eliminarlo come avverrà il 30 settembre 2011 - assieme ad un numero sempre più folto di colonnelli, ingegneri, potenziali kamikaze e militanti che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti. Fino al punto che la «Kill List» illustrata a Obama è arrivata a includere numerosi minorenni, compresa una ragazza, spingendo il Presidente a chiedere spiegazioni alla Cia «perché se iniziano a usare i ragazzi entriamo in un nuovo terreno». E’ stato così Obama ad autorizzare dozzine di attacchi in Afghanistan e Pakistan, dall’eliminazione del capo dei taleban pachistano Baitullah Meshud nell’agosto del 2009, al saudita Shakr al-Taifi, numero 2 di Al Qaeda in Afghanistan ucciso ieri con un blitz nella provincia di Kunar. Per avere un’idea dell’intensità delle uccisioni mirate, basti pensare che da inizio aprile sono stati eliminati 14 colonnelli di Al Qaeda in Yemen, 6 in Pakistan e 1 in Afghanistan, con Obama ogni volta personalmente impegnato ad evitare il più possibile vittime civili, partendo dall’assioma che vengono considerati «combattenti» tutti i maschi in età adulta che si trovano nei paraggi dell’obiettivo da colpire.
Secondo la ricostruzione del «New York Times», Obama ha definito una «scelta facile» l’eliminazione di Al-Awlaki e deve al contributo di Brennan l’approccio alla «guerra giusta» teorizzata da alcuni filosofi cristiani, in maniera analoga a quanto fece George W. Bush in occasione dell’attacco all’Iraq nel 2003. Tale impostazione, per la Casa Bianca, non è in contraddizione con l’opposizione di Obama al «waterboarding» negli interrogatori dei terroristi né con la volontà di chiudere il carcere di Guantanamo perché si originano sempre da un approccio da accademico e giurista, basato sul rispetto della legge degli Stati Uniti.
Corriere 30.5.12
Gli ambasciatori siriani cacciati da tutta Europa
Hollande: non escludo l'intervento militare
di Maurizio Caprara
ROMA — Interessati a non apparire paralizzati dalla Russia, che frena le decisioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu contro la sanguinosa repressione delle proteste in Siria, gli Stati Uniti, alcuni Paesi europei, Australia e Canada stanno mandando via dai rispettivi territori numerosi rappresentanti diplomatici del regime di Bashar el Assad.
Concordata nel fine settimana, la scelta delle espulsioni è stata resa operativa ieri da Sydney e poi da un nucleo europeo con in testa Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Spagna. È successo in un giorno contrassegnato da due ulteriori novità. Prima l'emergere di dettagli terribili sul massacro di Hula, città malvista da Assad nella quale venerdì sono state uccise 108 persone, in parte forse con coltelli e mazze. Più tardi, parole non scontate su una possibile guerra alla Siria da parte del socialista che ha preso alla presidenza francese il posto di Nicholas Sarkozy, il promotore nel 2011 dei bombardamenti sulla Libia.
«Non è da escludere un intervento armato a patto che sia effettuato nel rispetto del diritto internazionale, ossia dopo una deliberazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu», ha dichiarato il presidente francese François Hollande. La condizione posta non è di facile realizzazione, anche se il successore e rivale di Sarkozy riceverà venerdì il presidente russo Vladimir Putin e ha affermato di volerlo convincere a permettere una nuova risoluzione del Consiglio per bloccare la repressione contro gli oppositori del dittatore alauita. Di certo, Hollande ha alzato i toni. Il ministro degli Esteri Laurent Fabius ha specificato di non ipotizzare un intervento di terra, ma già entrare in questi dettagli significa valutare altre opzioni. La Casa Bianca, che vorrebbe Assad lasciasse il potere, fa sapere di non ritenere adesso l'intervento militare in Siria la via giusta perché porterebbe più caos e carneficine.
Per adesso tocca a numerosi rappresentanti di Assad lasciare i Paesi nei quali sono accreditati. Al Corriere risulta che sono cinque i diplomatici siriani ai quali è stato chiesto di andar via dall'Italia, che all'ambasciatore Khaddour Hasan sono stati dati sette giorni per partire da Roma e che all'unico funzionario rimasto nella nostra ambasciata a Damasco, dopo la sospensione dell'attività degli uffici decisa il 14 marzo, è stata impartita la disposizione di raggiungere Beirut. Secondo una nota, il ministro degli Esteri Giulio Terzi ieri ha fatto convocare Hasan alla Farnesina, gli è stato detto che è «persona non grata» e che il giudizio è «esteso ad alcuni funzionari». Da Washington, Londra e Sydney, nelle quali non c'era più l'ambasciatore siriano, vengono espulsi gli incaricati d'affari. Dagli Usa entro 72 ore, come ordinato dalla Germania per l'ambasciatore a Berlino. Altre notifiche di «non grati» da Olanda e Bulgaria. Motivo, per usare le parole della Farnesina: «Le efferate violenze contro la popolazione civile ascrivibili alla responsabilità del governo siriano».
Da fonti dell'Onu si è saputo che a Hula, stando ad oppositori ieri bombardata ancora, «meno di 20 dei 108 assassinii sono attribuibili a cannonate». Il sottosegretario generale dell'Onu Hervé Ladsous ha parlato di «esecuzioni con armi da taglio» addebitabili alle «milizie Shabiha» di Assad. Dal dittatore è stato Kofi Annan: «Siamo a un punto di non ritorno», ha detto l'inviato dell'Onu. Per dove? A porte chiuse, a Roma, Mario Monti e il premier polacco Donald Tusk hanno ravvisato che senza intesa tra Usa e Russia non c'è via d'uscita.
l’Unità 30.5.12
Non siamo scimmie «assassine»
Nuove teorie sull’origine della violenza «L’uomo è naturalmente buono»
Il biologo evoluzionista Frans de Waal sostiene che come gli scimpanzè bonobo abbiamo slanci solidaristici
L’aggressività inaudita e gratuita è una costruzione culturale
In passato nel dibattito intellettuale si era imposta l’idea di una natura cattiva della specie umana
Lo scienziato porta ad esempio della sua tesi che prima del neolitico non ci sono state guerre ...
Già neuroscienziati italiani negli anni 90 avevano parlato di «neuroni specchio» che producono spinte empatiche
di Pietro Greco
LA BOMBA DI BRINDISI, CHE HA RECISO SENZA RAGIONE E SENZA PIETÀ UNA VITA GIOVANE E INNOCENTE, È PURTROPPO SOLO UNO DEGLI ULTIMI ESEMPI. Homo sapiens sembra ave-
re una ferocia gratuita sconosciuta in natura. Tanto che un etologo, come Konrad Lorenz, parlava di noi come della «scimmia assassina». Distinguendoci dalle altre scimmie che possono essere aggressive ma che, appunto, non sono mai gratuitamente assassine.
Dove ha origine l’inaudita violenza umana? Lo chiedeva esplicitamente il fisico pacifista Albert Einstein in una famosa lettera a Sigmund Freud, il padre della psicanalisi. La missiva era datata luglio 1932. E ha preceduto di pochi mesi, con tragica preveggenza, l’ascesa al potere di quel distillato di violenza che è stato il nazismo.
Freud fornì due risposte. La prima è: non lo sappiamo. L’origine della violenza uma-
na è certo oggetto di indagine scientifica. Ma è ancora troppo presto per dare una risposta scientificamente fondata. Tuttavia è certo che sull’uomo agiscono due pulsioni ineludibili, la pulsione sessuale e la pulsione di morte. Quando la pulsione di morte è proiettata verso l’esterno diventa violenza assassina. Entrambe le pulsioni derivano dalla nostra animalità. Siamo, dunque, naturalmente cattivi.
Il dibattito ha interessato anche i biologi evoluzionisti. Thomas Huxley, il «mastino di Darwin» sosteneva, un po’ come Freud, che solo l’evoluzione culturale consente di limitare la nostra naturale aggressività: la cultura è la spada con cui l’uomo ha imparato a uccidere
la sua violenta animalità. Charles Darwin, però, non ne era del tutto convinto e, anticipando l’altra tesi di Freud, rimandava a tempi più maturi una risposta.
SAGGIO SU «SCIENCE»
Ora quei tempi sono arrivati, sostiene in buona sostanza il biologo evoluzionista Frans de Waal, intervenendo nel recente speciale che la rivista Science ha dedicato allo Human Conflict. Possiamo formulare alcune ipotesi scientificamente fondate. E il quadro che ne emerge è affatto diverso rispetto a quello dipinto da Lorenz, da Huxley e da Freud. L’uomo non è una «scimmia assassina». Al contrario, è «naturalmente buono». È l’evoluzione culturale che ci ha fornito le occasioni e gli strumenti per violare la nostra natura e renderci, talvolta, molto cattivi.
Frans de Waal fonda le sue affermazioni su alcuni dati. Non ci sono evidenze di guerre di sterminio condotte dall’uomo prima del neolitico. E ancora oggi, anche i soldati in guerra uccidono solo sotto pressione e, dopo aver ucciso il nemico, la gran parte di loro ne resta scioccata. Insomma, non amiamo la violenza. Non siamo «naturalmente cattivi». Inoltre, le scimmie cui siamo più vicini sono gli scimpanzé bonobo, che, per dirla con uno slogan, «fanno l’amore, non la guerra». Gli altri scimpanzé, i comuni, conoscono la xenofobia, è vero, e hanno una marcata aggressività verso «l’altro». Ma questa aggressività non è mai gratuita.
Inoltre in tutti i mammiferi – e, spesso, non solo in loro – la gran parte dei comportamenti sociali è fondata non sull’aggressività ma sull’empatia: sulla capacità di compenetrarsi nelle condizione degli altri e di provare anche solidarietà. L’empatia si esprime spesso in atti di autentico altruismo. Se una femmina di scimpanzé è oggetto di aggressione da parte di un maschio violento, può contare sulla difesa attiva delle sue compagne, che non esitano a rischiare la propria incolumità e ad affrontare fisicamente il maschio per dissuaderlo dal continuare.
Dove sono le prove che sostengono questo nuovo e, per molti versi, clamoroso quadro? Nel nostro cervello, sostiene Frans de Waal (che, sia detto per inciso, è più simile a quello degli scimpanzé bonobo che degli scimpanzé comuni). E, in particolare, in quelle particolari cellule neurali scoperte (nel 1991) da Giacomo Rizzolatti e dai suoi collaboratori presso l’università di Parma e battezzate (nel 1996) dallo stesso Rizzolatti col nome di «neuroni specchio».
Quello che videro i neuroscienziati italiani all’inizio degli anni 90 è che ci sono dei neuroni, nelle scimmie (i macachi), che «sparano» – ovvero, si attivano – sia quando la scimmia compie un’azione, per esempio afferra una nocciolina e la porta alla bocca, sia quando vede compiere la medesima azione da parte di un’altra scimmia.
Negli anni successivi Rizzolatti e i suoi collaboratori hanno dimostrato che i «neuroni specchio» sono presenti anche nell’uomo e in altri animali, mammiferi e non. E che non sono coinvolti solo nel sistema motorio. Ma anche nel linguaggio. Alcuni «neuroni specchio» si attivano sia quando pronuncio una parola, sia quando la sento pronunciare.
L’EMPATIA
Gruppi di «neuroni specchio» rendono possibile anche il fenomeno di «empatia». Se vedo qualcuno vomitare, per esempio, anch’io subisco qualche conato. I «neuroni specchio empatici» in realtà fanno molto di più che evocare emozioni primordiali. Lo stesso gruppo di Rizzolatti ha dimostrato che si attivano anche in condizioni psicologiche più raffinate. Si attivano, per esempio, quando vedo una persona triste e mi sento triste anch’io. O quando, appunto, vedo un bambino cadere e sbucciarsi le ginocchia e anch’io «provo» una sensazione di dolore e un’immediata solidarietà. L’empatia e i comportamenti solidaristici sono alla base delle particolare relazioni tra madri e figli nei mammiferi e consentono alla genitrice di accudire amorevolmente il proprio figlio per lungo tempo. Ma sono alla base anche delle relazioni nelle società di mammiferi e nelle società, vastissime, create dall’uomo.
I «neuroni specchio» ci dicono che l’empatia è un carattere forgiato dall’evoluzione biologica. Che noi uomini siamo, per usare il titolo di un libro di Frans de Waal, «naturalmente buoni». Forse più di altri animali. Certo più degli scimpanzé comuni e quanto gli scimpanzé bonobo.
Ma allora, ripetendo la domanda di Einstein a Freud, dove ha origine la violenza a volte inaudita e gratuita dell’uomo? A questo punto è chiaro: la violenza dell’uomo non è una pulsione incontrollabile, ma una costruzione culturale. È il frutto della nostra mente. E, tuttavia, resta vero quello che sosteneva Freud nella risposta ad Einstein: non cerchiamo né alibi né appigli nella natura. Solo la cultura (di pace) può risolvere i problemi creati della cultura (di guerra).
l’Unità 30.5.12
Momenti di gioia made in Italy
La felicità è una questione di famiglia Ritratto di un sentimento in 500 foto
Una mappa di quel che oggi appare un’oasi serena nel vivere:
la traccia e la spiega l’antropologo Franco La Cecla in base alle istantanee pervenute al concorso indetto dall’almanacco Barbanera
di Rossella Battisti
FELICITÀ, CHE SENTIMENTO EVANESCENTE, SFRANGIATO, TANTO ELUSIVO QUANTO RICERCATO. QUEST’ANNO CI SI PROVANO IN MOLTI a metterlo nero su bianco: il Festival della Felicità tra Pesaro e Urbino (vedi box sotto). Ma anche a riportarlo a colori, come nelle centinaia di foto planate nella redazione di Barbanera, l’Almanacco più antico d’Italia, che ha promosso il concorso «Un anno di felicità». Dodici i vincitori, scelti da una giuria presieduta dall’antropologo Franco La Cecla, assieme a Paolo Buroni, Maurizio Pallante, Sveva Sagramola, Laura Campagnoli, Luigi Campi e Maria Pia Fanciulli. Dalle vincitrici un grappolo di ragazzine in tutù che festeggia un debutto riuscito al sorriso da funny Valentine di un amico. Fuggevoli nuvole raggelate nello specchio di un lago montano, la coppia che fa sessant’anni insieme di «amour», dolce attesa di mamma e figlio, i Patch Adams nostrani... Un mosaico di istantanee che formano una micro-mappa di gioia a vista d’occhio.
La Cecla, quale felicità viene fuori da questo campionario di mezzo migliaio di immagini, non oceanico ma significativo?
«Sembrerebbe che la felicità, in poche parole, sia stare in un bel posto con le persone care. È il ricordo di un momento particolare la nascita di un bambino, il matrimonio, la laurea, il viaggio dove sono gli stati d’animo a prevalere. Nell’insieme, c’è un’impressionante quantità di foto a casa, come se la felicità fosse una cosa domestica». Lo scriveva già Novalis nell’Ottocento, mandando a spasso per tutto il libro il suo protagonista in cerca del fiore azzurro e poi, una volta trovato il fiore della felicità, dentro c’era il volto dell’amata... «Eh sì, sono gli affetti familiari in preponderanza. Il ragazzo, la ragazza, i fidanzati. Molti padri, madri, nonne, nonni, un’enorme quantità di lattanti, di infanti. E la foto straordinaria di una nuora che abbraccia sua suocera che riprende l’evento».
La felicità resta dunque «materia d’interni»? «Sono molti gli interni di famiglia: salotti, sale da pranzo, case e se si esce è per una scampagnata, per andare in vacanza con l’amato. Non c’è felicità, sembrerebbe, fuori dalla famiglia. La cosa che mi ha sorpreso, invece, è che nelle foto di esterni ricorre la montagna più del mare. Scalate vittoriose fatte con gli amici, gite con i bambini e lo zaino in spalla e quelle che testimoniano una passione solitaria. Mentre le didascalie che accompagnano queste immagini montane parlano di sfida, libertà, silenzio, bellezza. Quasi un percorso di iniziazione, vicino a un’esperienza spirituale come un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, anche queste scatti ricorrenti».
Chi sono le persone che hanno aderito all’invito di questo concorso, dove anche i premi erano «assaggi di felicità», come un viaggio nel Buthan, un corso di cucina o di meditazione orientale?
«Mi ha sorpreso che ci fossero molti giovani e giovanissimi, dato che a promuovere il concorso è un almanacco «vecchio» 250 anni... Direi che sono le risposte di una certa Italia piccolo borghese, una nuova generazione post ‘77 che riprende il sogno di una famiglia che in realtà non ha mai avuto, semmai è un ideale che risale a quelle dei nonni».
Ci sono anche tracce di «nuove famiglie»?
«Qualche cenno: un matrimonio misto alle Filippine, qualche bambino adottato, nuclei familiari allargati...»
Perché la Palma d’oro della felicità alle bimbe ballerine?
«Ci ha colpito la gioia immediata per una cosa ben fatta. Una gioia a portata di mano. Erano molte le foto dedicate ai bambini, ma questa aveva una sua immediatezza felice».
Sono arrivate anche molte foto con animali, ma nessuna nell’elenco vincitore. Come
mai?
«Personalmente mi faceva impressione leggere didascalie tipo “la ragione della mia vita”. La trovo una dimensione un po’ riduttiva dell’esistenza. Io ho cercato di votare quello che si apriva più al mondo, ma eravamo in sei in giuria con un certo numero di voti a disposizione e non sempre quello che è emerso corrisponde a ciò che io o altri avremmo scelto».
Qualche sorpresa riscontrata in questo campionario di piccole felicità?
«Beh, mi sono stupito che nessuna si riferisse al lavoro, come se nessuno fosse felice di quello che fa. Oppure ancora, mi aspettavo un taglio “bio”, da slowfood, del tipo com’è bello fare l’orto, modellare i vasi di terracotta.... Insomma, qualche foto di attività creativa, di piccolo bricolage. E soprendentemente non c’erano istantanee di impegno politico, tipo cortei o manifestazioni. O di momenti collettivi. Si è privilegiato la sfera privata, il ritratto di un’Italia fatta di valori semplici, che non si fa molte illusioni su costruzioni sociali, artistiche e culturali. Una felicità apparentemente modesta, sottotono, che riflette il momento storico che stiamo vivendo ma anche un’arte di vivere tipicamente italiana che cerca, al di là degli avvenimenti che fanno rumore, le costanti della vita quotidiana».
L’Italia di oggi è meno felice di ieri?
Forse sì. Ha meno aspettative di largo raggio, meno ambizioni e maggior concretezza. La felicità per gli italiani di oggi è qualcosa di fragile, legata alle relazioni primarie, dove la famiglia è la garanzia e l’ombrello sotto il quale la felicità è possibile e auspicabile».
Mi dia una sua definizione di felicità...
«Aiuto! Forse qualcosa che ha molto a che fare con un buon ritmo, una buona routine. La capacità di vivere in armonia con i ritmi del quotidiano piuttosto che la grande esplosione».
Corriere 30.5.12
Siamo la terra dei nonni di Edipo
Gli anziani sono il vero welfare dei giovani, ma ne inibiscono la crescita
di Silvia Vegetti Finzi
Cicli di vita e conflitti tra generazioni
Pubblichiamo una sintesi della relazione sulla famiglia che Silvia Vegetti Finzi tiene al festival dell'Economia di Trento e Rovereto, che comincia domani e prosegue fino a domenica 3 giugno. «Cicli di vita e rapporti tra generazioni» è il tema di questa edizione, cui intervengono tre premi Nobel: Christopher Pissarides, Dale T. Mortensen e Eric S. Maskin. Partecipano inoltre altri protagonisti del mondo dell'economia come Barry Eichengreen, Olivia S. Mitchell, Thomas Piketty, George Soros, Adair Turner. Tra gli italiani intervengono i ministri Elsa Fornero e Corrado Clini, il segretario della Cgil Susanna Camusso, l'imprenditore Carlo De Benedetti, i magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino.
Il festival è promosso dalla Provincia autonoma, dal Comune e dall'Università di Trento.
Info www.festivaleconomia.it
È indubbio che la famiglia abbia subìto negli ultimi anni radicali trasformazioni per cui non si può più parlare di «famiglia» ma di «famiglie», tante sono le modalità di aggregazione con cui si configura la sfera privata. Da sempre la famiglia costituisce l'unico luogo in cui si incontrano tutte le generazioni, ma il modo con cui si posizionano e relazionano varia secondo i tempi e i luoghi.
Una variazione recente ha modificato la struttura interna della famiglia, indipendentemente dalla sua forma anagrafica. Mi riferisco alla posizione assunta negli ultimi decenni dai nonni, al fatto che, sulla scacchiera dei rapporti familiari, i genitori dei genitori occupino ora una casella centrale e determinante. I motivi di questo spostamento rinviano alla funzione di ammortizzatore sociale svolta dalla famiglia in questi anni di crisi.
Se l'Italia non ha sinora registrato la rovina economica e sociale in cui sono precipitate molte famiglie di altri Paesi, ad esempio gli Stati Uniti, dove le fasce più deboli del ceto medio, travolte dai debiti, hanno perso tutto, cadendo in condizioni di povertà estrema, è anche perché, da noi, la famiglia ha sopperito in buona parte alla drastica riduzione dei redditi e all'aumento della disoccupazione. La famiglia, con le sue reti informali di solidarietà, è stata il più efficace baluardo per contenere la crisi e proteggerci, almeno sinora, da un disastro epocale. Non si tratta però della famiglia in generale, ma di una particolare tipologia, quella composta da nonni, genitori e figli che sono contemporaneamente nipoti.
La configurazione tradizionale si è radicalmente modificata per la centralità assunta dai nonni. Nella famiglia tradizionale i nonni erano figure autorevoli e importanti, ma il loro ruolo era soprattutto simbolico. Non intervenivano nelle decisioni dei figli coniugati e non interferivano nell'educazione dei nipoti. Rappresentavano, per così dire, la stirpe, lo «stemma araldico» dal quale discendevano le identità individuali.
Tuttavia, nella tarda modernità, per i giovani disoccupati, è sempre più difficile trovare una risposta soddisfacente. I «lavoretti», parziali, precari, marginali, sottopagati non sono certo in grado garantire appartenenza e identità.
Nell'indifferenziato della società definita «liquida», ma che io direi piuttosto «vischiosa», i punti fermi sono altri: i genitori e, sempre più frequentemente, i nonni che, appartenendo alla «generazione fortunata», hanno fruito del posto fisso, di buone retribuzioni e sufficienti pensioni, che con i loro risparmi sono diventati proprietari della prima e talora della seconda abitazione.
Il nostro Paese, con quasi dodici milioni di persone sopra i 65 anni, è il più anziano d'Europa e uno di quelli dove molti vecchi vivono ancora in famiglia: il 30 per cento della popolazione over 65 convive con un figlio, contro la media europea del 20. Non parcheggiati come in un posteggio ma come membri attivi, partecipi e, spesso decisivi, soprattutto quando divengono nonni. La loro funzione è triplice: finanziaria, organizzativa e affettiva.
Per aiutare le famiglie più giovani, spesso in difficoltà, i nonni hanno devoluto, in questi ultimi anni, gran parte dei loro risparmi. Nella nostra incerta contemporaneità, i nonni costituiscono «punti fermi» affettivi per i figli e soprattutto per i nipoti.
Nonni importanti, quindi, ma protagonisti di una congiuntura che, secondo le previsioni, non potrà durare in eterno, destinata a finire quando la crisi economica, che si sta rivelando interminabile, avrà esaurito le loro risorse economiche e la loro disponibilità fisica e psichica verrà meno.
Si profila all'orizzonte una nuova famiglia più europea, meno italiana, ma i nonni non sono destinati, come i dinosauri, a scomparire per una glaciazione epocale. Forse verrà meno il loro contributo economico, si ridurrà la disponibilità assistenziale, ma non credo scomparirà mai la generosa espressione del loro affetto e della loro solidarietà. Vi sono consuetudini che non perderanno facilmente il senso che hanno ritrovato in questi anni. Recarsi periodicamente a trovare i nonni, festeggiare da loro il Natale, considerarli depositari della storia collettiva e di famiglia, nonché testimoni delle relative ricorrenze, ascoltare i loro ricordi, trarre, dalla discendenza delle generazioni, sentimenti di continuità e di appartenenza costituiscono efficaci antidoti alla dispersione e all'anonimia di una società che solo il prefisso «post» sembra definire.
In questi difficili anni la famiglia, comunque costituita, rappresenta una grande, inestimabile risorsa, ma proprio il suo punto forte, il patrimonio «nonni», porta con sé alcune problematiche conseguenze. Il loro indispensabile apporto, in termini finanziari, organizzativi e affettivi può provocare infatti nuove dipendenze. Effetti regressivi rispetto all'apertura che caratterizzava la famiglia degli anni 70 e 80.
L'immaginazione che alimentava le utopie e le sperimentazioni di nuovi modi di vivere insieme sembra aver lasciato il posto a un immaginario omologato che recupera, anche nelle situazioni meno favorevoli, i valori tradizionali del matrimonio, dei rapporti di consanguineità, la proprietà dei figli e dei beni. Vanno in questo senso il desiderio di sposalizi celebrati con fasti tradizionali e il ricorso alla fecondazione artificiale da parte di persone sole che preferiscono avere un figlio con margini di consanguineità piuttosto che rivolgersi all'adozione e all'affido, valorizzati negli anni delle conquiste civili.
Per certi aspetti sembra che la crisi economica stia egemonizzando gli schemi concettuali con cui pensiamo la famiglia e, mentre la frammentazione sociale moltiplica le forme della parentela, l'immaginario ne ripropone una sola, quella edipica. Con la differenza che il posto del padre appare sovrastato da quello del nonno, garante del «nome» e della genealogia familiare.
Mentre i nonni esercitano, come abbiamo visto, forme di potere e di autorità, spesso ma non sempre avallate da personale autorevolezza, i figli, trovando il posto già occupato, stentano a raggiungere il vertice spettante al padre, finendo per attestarsi in un gradino intermedio tra l'essere figli e genitori.
I bambini che crescono accanto a un papà tornato figlio, o a una mamma che ridiventa figlia, tendono a maturare precocemente, assumendo, nei loro confronti, atteggiamenti protettivi che invertono l'ordine delle generazioni. Vi sono aspetti positivi in questa inversione, come quando i ragazzi, nativi digitali, insegnano ai genitori e ai nonni l'uso del computer e di altri strumenti elettronici. Ma non sappiamo ancora cosa comportino, sulla lunga distanza, questi mutamenti nell'ordine delle generazioni.
Repubblica 30.5.12
Gli universi possibili
Nel nuovo saggio di Barrow la storia del cosmo attraverso le metafore degli scienziati: dall’immagine del pancake a quella delle frittelle
di Massimiano Bucchi
Nel 1997, Sergej Brin e Larry Page cercavano un nome per il proprio motore di ricerca. Fu un loro compagno di studi di Stanford a buttare lì un termine utilizzato in matematica e in astrofisica: Googol. Il termine era stato coniato nel 1938 da un bambino di nove anni, nipote del matematico americano Edward Kasner, che lo aveva sfidato a trovare un nome per un numero molto grande: 1 seguito da 100 zeri. È in anni googol, ad esempio, che si stima il tempo necessario per l´evaporazione di alcuni buchi neri. Un nome perfetto, dunque. Ma controllando se il dominio Googol.com fosse disponibile, il compagno di studi fece ciò che capita a tutti noi: sbagliò a digitare sulla tastiera. La lieve deformazione piacque più dell´originale, e Page e Brin si affrettarono a registrare "Google.com".
Così Il libro degli universi di John Barrow (Mondadori) ci ricorda che la storia della ricerca e della riflessione sul tema offre straordinari esempi di come l´immaginazione degli scienziati possa e debba svilupparsi nel tentativo di spiegare qualcosa. Ecco allora il "cosmologo teorico più famoso degli anni Trenta", il prete cattolico Georges Lemaître, che paragonava l´evoluzione dell´universo a «un´esplosione di fuochi artificiali appena finita: qualche pennacchio rosso, cenere e fumo». Nel 1946 fu a quanto pare la visione di un film horror dalla struttura narrativa circolare, Dead of Night, a ispirare la teoria dello stato stazionario. Tornando a casa dal cinema, Fred Hoyle, Hermann Bondi e Thomas Gold fantasticarono di un film che potesse essere visto iniziando da qualunque punto, e si chiesero poi se lo stesso ragionamento potesse essere applicato a un universo senza inizio e senza fine. Ed ecco l´ipotesi elaborata nel 1979 da Alan Guth, secondo cui l´universo avrebbe attraversato una rapida fase di espansione accelerata. Guth era un giovane fisico che stentava a trovare un incarico accademico stabile: fu probabilmente in ironico riferimento al difficile contesto economico di quegli anni che decise di battezzare "inflazione" la propria teoria.
Ma forse il più ricco serbatoio di immagini è l´ambito domestico e culinario. Il già citato Kasner ipotizzò un universo "simile a un pancake" che si espande a velocità diverse in direzioni diverse. Alcuni studiosi descrivono come grandi aggregazioni primordiali di materia collassino a formare «sottili dischi di gas di aspetto simile a frittelle, che successivamente si frammentano in molte galassie». Nel 1945, Einstein e il suo assistente Ernst Straus ipotizzarono un universo che «presentava regioni sferiche vuote, come buchi in un formaggio svizzero». Barrow ci racconta di universi "fatti in casa", "arrotolati", "a forma di ciambella". Barrow conclude la sua guida facendo riferimento a ipotesi oggi molto discusse come quella del "multiverso", secondo cui potrebbero esserci numerosi altri universi caratterizzati da proprietà diverse dal nostro. Ipotesi che spingerebbero non solo la ricerca, ma la stessa società e cultura a mettere in discussione le proprie certezze e capacità di immaginazione.
Repubblica 30.5.12
Universo
Se fosse pieno di buchi come un formaggio svizzero
Un genio che a cinque anni aveva trovato un sistema per calcolare sequenze di numeri
Le equazioni di Einstein possono essere risolte solo se sono semplificate
di John D. Barrow
Negli anni Quaranta lo studio degli universi subì una brusca battuta d´arresto. In clima di guerra mondiale, fisici e matematici furono dirottati verso campi come la messa a punto di nuove armi, la meteorologia, l´aeronautica e la crittografia. Le università non accettavano nuovi studenti e i contatti internazionali erano limitati soltanto ai più stretti alleati. Einstein si trovava negli Stati Uniti e molti altri scienziati tedeschi fuggirono in Gran Bretagna e America. L´universo non era mai parso più piccolo.
Nel 1944, Einstein scelse un nuovo assistente a Princeton. I suoi assistenti erano sempre giovani matematici di talento capaci di compensare quella che lui stesso riconosceva essere una sua debolezza in quel campo. Ernst Straus era una sorta di genio matematico. Già a cinque anni aveva cominciato a trovare interessanti scorciatoie per calcolare sequenze numeriche, escogitando un sistema che gli consentiva di sommare i primi cento numeri mentalmente in pochi secondi. Era nato a Monaco nel 1922, ma quando i nazisti andarono al potere, nel 1933, fuggì con la famiglia in Palestina, dove poi frequentò il liceo e l´Università ebraica di Gerusalemme. Non conseguì la laurea di primo grado a Gerusalemme, tuttavia nel 1941, a diciannove anni, si trasferì alla Columbia University di New York e iniziò lo stesso un corso di specializzazione.
Nel 1944 fu assunto come nuovo assistente alla ricerca di Einstein all´Institute for Advanced Studies di Princeton. Il giovane Straus non aveva una solida preparazione in fisica e, quanto alla matematica, era orientato verso la teoria dei numeri e gli argomenti di matematica "pura", ma non impiegò molto a riempire il vuoto lasciato dalla partenza di Nathan Rosen (1935-1945) e Leopold Infeld (1936-1938). Nella primavera del 1945, professore e assistente trovarono un nuovo tipo di possibile universo usando le equazioni di Einstein. L´universo era molto simile a uno dei semplici universi in espansione di Friedmann e Lemaître: conteneva materia (come galassie) che non esercitava alcuna pressione, ma presentava regioni sferiche vuote, come buchi in un formaggio svizzero.
Ciascun buco vuoto aveva poi al suo centro una massa, di grandezza pari a quella che era stata scavata per creare il buco. Era un passo verso un universo più realistico in cui la materia non fosse diffusa in maniera omogenea con la stessa densità dappertutto, ma formasse grumi, come le galassie, distribuiti nello spazio vuoto.
Ciascun "buco" era sferico e questo nuovo universo formaggio svizzero era accolto nell´universo non uniforme di Tolman grazie a una scelta adeguata di condizioni iniziali. Come sempre, la scoperta di una soluzione esatta a una serie di equazioni complesse e difficili come quelle di Einstein significava con tutta probabilità una cosa: nella soluzione vi era qualche caratteristica semplificatrice che rendeva le equazioni trattabili. Però questo ricordava la famosa battuta di Groucho Marx, «Non desidero far parte di un club che accetta fra i soci uno come me»: qualunque soluzione delle equazioni di Einstein sia abbastanza semplice da trovare, conterrà immancabilmente una caratteristica speciale che potrebbe renderla atipica o poco interessante.
La soluzione di Einstein e Straus era semplice perché prevedeva un universo sferico e così, diversamente da quanto accadeva con l´universo cilindrico di Einstein-Rosen, escludeva la possibilità che fossero presenti onde gravitazionali. Questo indusse qualcuno a chiedersi che cosa sarebbe accaduto se si fosse riusciti in qualche modo a combinare simultaneamente tutti i vari tipi di irregolarità. La presenza di tutte quelle caratteristiche irregolari avrebbe naturalmente fatto sfumare qualsiasi speranza di risolvere le equazioni di Einstein. Tuttavia c´era un modo per dare un´occhiata a un simile universo.
Repubblica 30.5.12
Un saggio di Carlo Jean svela i retroscena d’una formula abusata
Quando una guerra diventa "umanitaria"
Molti Stati ricorrono a un falso ideologico per rendere accettabile l´intervento armato
di Pietro Veronese
La generazione che sta invecchiando in questo confuso inizio di secolo è cresciuta in un mondo non meno confuso, dominato da una formula composta da termini apparentemente inconciliabili. È la generazione figlia della "Guerra Fredda". Per gli americani si trattava di una vera guerra contro il comunismo, che andava combattuta e vinta, come accadde infine nel 1989. L´America celebrava i suoi cold warriors: spie, diplomatici, ideologi, come fossero soldati in uniforme cui mancava soltanto di stringere il dito sul grilletto. Per gli europei, viceversa, l´accento era soprattutto sul "freddo": mentre nelle scuole degli States si facevano periodiche esercitazioni simulando un attacco nucleare, noi crescevamo piuttosto spensierati e vivevamo la guerra fredda come il sinonimo di una pace tiepida. Questa profonda ambiguità, inevitabilmente insita in un´espressione così male assortita, contribuì a mantenere stabile per quasi mezzo secolo l´alleanza tra le due sponde dell´Atlantico: combattevamo insieme la medesima guerra, anche se ciascuno aveva agio di farsene un´idea molto diversa.
Nuovo secolo, nuovi problemi, nuova guerra. Ma lo stridore semantico, l´ossimoro paradossale, resta; anzi, forse si rafforza. Adesso è infatti il tempo della "guerra umanitaria", una formula che risponde a un´esigenza antica quanto la guerra stessa: quella di giustificarla. Di rendere accettabile la perdita di vite umane, le sofferenze dei sopravvissuti, le devastazioni materiali. A ben vedere poi, «l´interventismo militare umanitario è sempre esistito», ci ricorda Carlo Jean in un libro lucidissimo da qualche giorno nelle librerie (Guerre umanitarie. La militarizzazione dei diritti umani, con Germano Dottori, Dalai editore, pagg. 256, euro 17,50). L´autore sa di cosa parla: è stato generale di corpo d´armata ed è riconosciuto come uno dei massimi esperti italiani di strategia militare e di politica della Difesa. Come «guerre umanitarie», ci racconta Carlo Jean, vennero presentate per esempio le conquiste coloniali, che avevano lo scopo – secondo i loro promotori – di liberare dalla «barbarie» i popoli assoggettati.
Le opinioni pubbliche dei Paesi democratici – e le leggi fondamentali più avanzate, come la Costituzione italiana – fanno sempre più fatica a sopportare l´idea di una guerra. Per renderla accettabile, i governi hanno bisogno di rivestirla d´umanitarismo. A uno statista come il compianto presidente cèco Vaclav Havel – un uomo che aveva fatto dei diritti umani la bandiera della sua vita – fu rimproverato di aver addirittura parlato, a proposito dell´intervento Nato in Kosovo del 1999, di «bombardamenti umanitari». Egli negò sdegnato, dicendo di avere troppo «buon gusto» per una formula così grottesca. A ben vedere però, in un´intervista a Le Monde aveva affermato che i raid aerei della Nato avevano «carattere esclusivamente umanitario»: l´espressione che gli era stata attribuita era una sintesi maliziosa, ma non infondata.
Sempre più spesso la «guerra umanitaria» non è soltanto un falso ideologico rifilato dai governi ai loro elettori: è anche una richiesta pressante delle opinioni pubbliche, ulcerate dallo spettacolo della sofferenza altrui in diretta tv. L´intervento militare per porre fine alla guerra civile in Libia l´anno scorso, per esempio, fu visto almeno all´inizio con favore da molti, che andavano chiedendo a gran voce di «fare qualcosa» per porre fine al martirio della popolazione. Una discussione analoga è in corso oggi riguardo alla Siria, ma con molto maggiore cautela; il che evoca subito la più comune critica alle «guerre umanitarie», e cioè di essere una foglia di fico per coprire gli interessi degli Stati. In Libia l´interesse vero era il petrolio; in Siria l´interesse non c´è. Senza dimenticare, come scrive spietatamente Jean, che «in tutte le guerre civili, la vittoria trasforma le ex-vittime in carnefici». E infatti l´immagine che più di ogni altra ci è rimasta in mente delle violenza libiche è il volto insanguinato di Gheddafi morente.
Il che non toglie che l´elenco delle guerre presunte umanitarie vada allungandosi anno dopo anno. Il diritto internazionale ha in parte tentato di adeguarsi, in parte è causa di questo proliferare. Dopo la Guerra dei Trent´anni, nel 1648, i monarchi europei adottarono con la Pace di Westfalia il principio che ogni sovrano era padrone all´interno dei suoi confini. Quel concetto ha retto per 350 anni ma è andato definitivamente in crisi con la fine della Guerra Fredda. I potenti del mondo ancor oggi si rimproverano di non aver fatto nulla – e sarebbe bastato molto poco – per impedire il genocidio del Ruanda nel 1994. Negli ultimi anni le Nazioni Unite hanno in parte sostituito il principio della non interferenza con la «responsabilità di proteggere», o Responsability to Protect, o R2P: se una – o parte di una – nazione inerme è minacciata di sterminio, è dovere degli altri Stati usare le armi per impedirlo. Casi di questo tipo continuano a proporsi qui e là nel mondo: la storia non smette di interpellarci con le sue tragedie. E i suoi orrori.
l’Unità 30.5.12
Alla Milanesiana un viaggio dentro l’imperfezione
Premi Nobel e Pulitzer si confrontano in un tour di 19 giorni «Questa XIII edizione del festival è una scommessa vinta»
di Roberto Carnero
MILANO INIZIERÀ IL 30 GIUGNO, PER CONCLUDERSI IL 18 LUGLIO, LA MILANESIANA, IL FESTIVAL IDEATO E DIRETTO DA ELISABETTA SGARBI, GIUNTO QUEST’ANNO ALLA SUA XIII EDIZIONE. Per tutte le 19 giornate gli ospiti si confronteranno negli ambiti di letteratura, cinema, scienza, teatro e filosofia, creando ancora una volta quel dialogo fra arti e saperi che è la cifra costante di questa rassegna e che, più di ogni altra cosa, rappresenta la sua identità. Un intenso tour fra le arti, all'insegna della contaminazione e del bisogno di sollecitazioni e riflessioni critiche, andando ancora una volta oltre i confini milanesi.
Il programma del festival, promosso dalla Provincia di Milano, con il sostegno del Comune del capoluogo lombardo, è stato presentato ieri mattina in una conferenza stampa (ed è ora consultabile sul sito www.lamilanesiana.it ). Tra gli ospiti della Milanesiana 2012, saranno presenti un premio Nobel, il trinitadiano V. S. Naipaul; tre premi Pulitzer, gli statunitensi Michael Cunningham e Paul Harding e l’indiano Siddharta Mukherjee; tre premi Strega, Raffaele La Capria, Umberto Eco ed Edoardo Nesi; un premio Nonino, il cinese Yang Lian; un Pen Club, lo statunitense Rick Moody; un premio Oscar, il regista americano William Friedkin; quattro David di Donatello, Carlo Verdone, Anna Bonaiuto, Laura Morante ed Ermanno Olmi. Ma questi sono soltanto alcuni dei nomi dei 140 ospiti internazionali in rappresentanza di 15 Paesi.
Il tema di quest’anno è l’imperfezione, argomento che verrà sviscerato attraverso 127 appuntamenti caratterizzati da una multiforme proposta artistica internazionale e da una forte volontà di diffusione sul territorio (non solo Milano, ma anche Torino e da quest’anno Bergamo).
«In questo momento difficile», ha detto Elisabetta Sgarbi, «raccogliere le forze per far sbocciare una nuova edizione del festival è stata una corsa in salita. Esserci riusciti è la prova che se le motivazioni sono forti è necessario non desistere. E, nello specifico, è la prova della vocazione della Milanesiana a moltiplicarsi e diffondersi. Da più parti si dice che la cultura può costituire una preziosa risorsa per uscire dalla crisi, ma poi spesso poco si fa, oltre ai proclami e alle belle parole. Noi almeno ci abbiamo provato».